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IL TERZO ANNO DELLA GRANDE CRISI E IL CASO ITALIANO

FRANCO LOCATELLI

Il terzo anno della Grande Crisi, la pi grave degli ultimi ottantanni e la prima davvero globale, potrebbe essere definito lanno delle 2R dalle iniziali della recessione e della ri-regulation. Se il 2007 stato lanno in cui dal 9 di agosto il mondo cambiato perch, dopo varie avvisaglie, fu allora che scoppi la scintilla dei subprime e fu allora che esplose la crisi finanziaria scolpita nella memoria collettiva dalle impressionanti file di risparmiatori britannici corsi allassalto degli sportelli della Northern Rock per ritirare precipitosamente i loro depositi e immortalati dai media di tutto il mondo, il 2008 stato lanno in cui, con il sorprendente fallimento della Lehman Brothers del 14 di settembre altra data simbolo da annotare sul calendario e altra immagine indelebile legata alladdio dei money manager della grande banca americana con gli scatoloni in mano la crisi si fatta globale e sistemica investendo lintero sistema finanziario e ponendo le premesse per contagiare leconomia reale del pianeta. Minaccia puntualmente realizzatasi nel 2009, quando leconomia mondiale per la prima volta dopo 60 anni e malgrado leccezione della Cina e di poche altre aree emergenti, caduta in recessione (-1,4% secondo le stime di luglio del Fondo Monetario Internazionale) e il commercio internazionale visto in flessione del 9%. Al tempo stesso, dopo labbondante liquidit immessa nel sistema finanziario delle banche centrali, la riduzione dei tassi dinteresse al minimo storico e i numerosi piani di stabilizzazione di banche e imprese dei Governi che, al netto dei piani di stimolo fiscale, in pochi mesi, e specialmente nellautunno del 2008 quando lintero sistema capitalistico sembrava sullorlo del tracollo, hanno bruciato somme (1.500 miliardi di dollari) pari o addirittura superiori secondo un recente calcolo della Fondazione Eni Enrico Mattei ai proventi per gli Stati dellintera epoca delle privatizzazioni dai tempi della signora Thatcher ai giorni nostri, i
LA COMUNIT INTERNAZIONALE FASC. 2/2009 pp. 359-367 EDITORIALE SCIENTIFICA SRL

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Governi e le banche centrali, con il fondamentale contributo del Financial Stability Board (FSB) guidato dal Governatore Mario Draghi, hanno cominciato non solo a pensare ma a mettere mano alle nuove regole del gioco. Quando la crisi si venuta snodando in tutto il mondo e in tutta la sua portata, lidea originaria di dar vita a una nuova Bretton Woods ha perso il suo slancio iniziale e rivelato la buona dose di ingenuit di chi non aveva considerato che gli accordi del 1944 erano incentrati sul ruolo guida del dollaro e che difficilmente gli Stati Uniti potrebbero autonomamente rinunciare alla centralit della loro divisa nel sistema dei pagamenti internazionali, anche se oggi da parte della Cina, del Brasile, della Russia e di altre potenze emergenti cresce la spinta ad affiancare al dollaro una diversa moneta di pagamento. Dopo le raccomandazioni dellFSB e dopo il rapporto De Larosire, nel giugno del 2009 il nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha lanciato quella che con qualche enfasi stata definita la pi grande ri-regulation della recente storia della finanza americana incentrata sul rafforzamento della FED alla quale, con ben minori velleit, ha fatto seguito il mini-accordo sulla supervisione e sulla vigilanza finanziaria dei 27 Paesi dellUnione Europea e a cui dovrebbe aggiungersi, entro lanno, il Global Legal Standard promosso dal Ministro dellEconomia italiano Giulio Tremonti, sulla scorta dei lavori preparatori dellOCSE, degli accordi maturati nei summit dei capi di Governo e di Stato e dei successivi approfondimenti del FSB. Per valutare se le nuove regole della finanza del dopo-crisi possano davvero rappresentare una svolta in grado di dare trasparenza e stabilit ai mercati finanziari varrebbe la pena di considerare il paradigma interpretativo suggerito ultimamente dagli economisti Emilio Barucci e Marcello Messori nel loro Oltre lo shock (Egea editrice) secondo cui le novit che andrebbero messe in campo sono almeno tre e cio: 1) leliminazione di ogni arbitraggio regolamentare di medio periodo tra i diversi Paesi; 2) lintroduzione di limiti allinstabilit dei mercati senza che ci porti al bando delle innovazioni finanziarie di prodotto; 3) labbandono della massimizzazione dei profitti di breve periodo come unica guida strategica. Ma, al di l del merito delle nuove regole della finanza, la domanda centrale che si pone oggi se esse possano essere sufficienti a tirare fuori il mondo intero dalla Grande Crisi e la risposta non pu essere che negativa. Basta ricordare le origini e gli effetti per comprenderne

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le ragioni. La Grande Crisi economica o finanziaria? Gli studiosi si dividono in differenti scuole di pensiero. C chi pensa che il grande crollo sia nato dalle distorsioni e dallesuberanza irrazionale della finanza, ma c chi pensa che lorigine della crisi sia invece principalmente economica, perch le avventurose anomalie della finanza erano solo gli effetti a valle di una crisi che era da anni sotto gli occhi di tutti con i suoi evidenti squilibri macroeconomici. Per troppo tempo gli americani hanno seguitato a consumare e a vivere al di sopra dei loro mezzi e a indebitarsi con il resto del mondo, i cinesi a consumare poco e a risparmiare troppo e gli europei a indebitarsi ma a investire in piani di sviluppo molto meno di quanto la modernizzazione delle economie richiederebbe, con ci rendendo insostenibile non il capitalismo tout court ma certamente la forma di capitalismo conosciuta nellultimo ventennio. Nella prefazione al suo recente libro La veduta corta Conversazione con Beda Romano sul Grande Crollo della finanza , edito da Il Mulino, lex Ministro ed ex banchiere centrale Tommaso PadoaSchioppa offre per uninterpretazione ancora pi ampia della crisi e scrive: Laggettivo finanziaria, inizialmente usato per definire la crisi, si rapidamente rivelato insufficiente (perch) economica e sociale ne la sostanza. E poich la componente del sistema economico che mancata lintelaiatura di regole, controlli, azioni di governo che in uneconomia di mercato costituiscono il complemento della libera ricerca del tornaconto individuale da parte di individui e imprese, la crisi in realt politica e istituzionale; un fallimento della politica economica prima che della finanza e dei mercati. Infine, e in senso pi generale, il disastro ha forti radici nel terreno della cultura, intellettuale ed antropologica, perch scaturisce da atteggiamenti mentali, idee, comportamenti divenuti prevalenti nelle nostre societ e ispirati e dallincapacit di guardare lontano e di cogliere in tempo i mutamenti profondi delleconomia e della societ nellera della globalizzazione. Certamente tutte le crisi hanno tratti comuni e una loro particolarit ma lorigine di quella che stiamo vivendo ha pi di un padre. Lex Ministro ed ex presidente della Consob Luigi Spaventa spiega nel volume Treccani-Terzo millennio di prossima pubblicazione che lespansione del credito, e pertanto dellindebitamento, che un tratto comune a precedenti episodi, avvenuta a ritmi straordinari e con modalit inconsuete ed stata favorita da almeno tre fattori: gli squilibri macroeconomici mondiali; linnovazione finanziaria nellam-

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bito del nuovo modello di trasferimento del rischio di credito (Ndr dalle banche al mercato); il sostegno della teoria economica allideologia prevalente caratterizzata da una buona dose di fondamentalismo liberista che lha spesso indotta a pensare erroneamente che il mercato potesse promuovere uno sviluppo ininterrotto e soprattutto fosse in grado di autoregolarsi autonomamente. In realt e arriviamo cos a capire perch nuove regole della finanza, dopo il fallimento o lassenza di quelle precedenti, sono assolutamente fondamentali ma non sufficienti insieme al corretto e trasparente funzionamento dei mercati, bisogna rimuovere le contraddizioni macroeconomiche a monte per riavviare leconomia mondiale sul sentiero della crescita. Ma, come avverte Marco Onado in I nodi al pettine La crisi finanziaria e le regole non scritte, edito da Laterza, la finanza stata negli ultimi venti anni lelemento che ha impedito a queste contraddizioni di esplodere, concedendo credito a piene mani a tutti e in particolare alle famiglie americane, il cui indebitamento ha sfiorato il 150% del reddito disponibile. stato in questo modo che la finanza ha finito per diventare sempre pi grande, sempre pi opaca, sempre pi incontrollata, sempre pi autoreferenziale e sempre pi slegata dalla produzione, perch lassenza di regole che ne disciplinassero le attivit e la inducessero a una pi attenta valutazione del rischio faceva comodo a tutti. Non solo ai banchieri, ai trader e ai manager della finanza, ma alle famiglie e alle imprese che cercavano credito, e naturalmente ai politici che potevano pi agevolmente trarre vantaggio del generale benessere dei loro elettori. Il rovescio della medaglia stato per come ricorda Orazio Carabini in Generazione no risk (Fazi editore) una lunga serie di crack e di truffe che ha generato nei risparmiatori paura e rifiuto verso gli strumenti finanziari e gli investimenti che comportano dei rischi: un atteggiamento inevitabile dopo i dissesti economici a cui abbiamo assistito. A tutto ci bisogna reagire sia attivando strumenti di autodifesa dei risparmiatori sia spingendo la finanza a ritornare al suo vero mestiere di procacciatrice di ricchezza in funzione del benessere collettivo. Ben vengano, dunque, nuove regole per la finanza, soprattutto se avranno laccortezza di essere severe nel modo giusto ma non inutilmente intrusive e se sapranno accrescere la trasparenza senza imbrigliare ogni genere di transazione economica e finanziaria. La riforma di Obama, le nuove regole sulla vigilanza dellEuropa e il Global legal standard a cui si sta lavorando nei summit internazionali rispondono a questi criteri o sono soltanto dichiarazioni di principio? Un

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giudizio puntuale potr essere dato quando i tre differenti interventi regolatori verranno approvati in via definitiva da Governi e parlamenti e diventeranno norme effettive ma, pur con tutte le cautele del caso, non si pu non notare che lasticella del piano Obama, contro il quale non a caso si stanno scatenando le lobbies bancarie e finanziarie americane, stata posta ad un livello decisamente pi alto del nuovo codice della vigilanza dellEuropa. Nel Vecchio continente le resistenze britanniche e, in modo meno evidente ma non per questo meno efficace, di qualche banchiere centrale hanno finora impedito di arrivare a quella supervigilanza europea, in capo alla BCE, che consentirebbe di riunificare politica monetaria e vigilanza bancaria e di affrontare sul piano internazionale problemi e soggetti (specialmente nel caso delle grandi banche) che operano ben oltre i confini domestici di ogni singolo Paese. Insieme e oltre alla ri-regulation finanziaria resta il problema di assorbire i titoli tossici in circolazione e in portafoglio di banche, hedge fund e societ finanziarie e ripulire i bilanci dei diversi soggetti in campo, ma resta soprattutto la necessit di ridefinire e di coordinare sul piano internazionale le politiche economiche dei diversi Paesi e delle diverse aree del mondo anche con una maggior presenza dei Paesi emergenti allinterno del Fondo Monetario e della Banca Mondiale e di tutte le altre istituzioni politiche ed economiche internazionali. Bisogna per aver ben presente che nessuno sa ancora esattamente quando finir la Grande Crisi, ma che niente sar pi come prima. Gi ora la crisi finanziaria ci ha reso pi poveri e solo nel 2008 il crollo dei prezzi delle case, delle azioni e dei titoli ha ridotto la ricchezza delle famiglie americane di 11 mila miliardi di dollari, cio di oltre il 70% del reddito nazionale, mentre in Italia, solo considerando la componente finanziaria, la perdita stata di 278 miliardi di euro, pari oltre un sesto del nostro reddito. Ma il problema che abbiamo davanti non solo questo e non nemmeno solo quello delle accresciute diseguaglianze che la crisi ha finito per accentuare. Il problema dei problemi oggi quello di fare i conti con la sgradevole certezza che, per un buon numero di anni dopo la fine della crisi, il mondo non crescer pi come prima ma crescer molto meno. Meno debito, meno rischio e meno credito sono soluzioni obbligate dopo la crisi ma il loro effetto non pu essere che una minor crescita. Nel suo saggio su La crisi economica mondiale Dieci considerazioni, edito da Bollati Boringhieri, lo storico delleconomia Giulio Sapelli sostiene che, malgrado la crescita della Cina e di altri Paesi emergenti, il ruolo

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degli USA nella crescita mondiale resta fondamentale e che la centralit americana iscritta nella storia del mondo e nelle quote del commercio internazionale. Il che non vuol dire che altri motori non possano affiancarsi a quello americano ma che, almeno per un certo numero di anni, improbabile che unaltra locomotiva economica, fosse pure quella cinese, possa sostituire quella statunitense prendendo la guida del convoglio mondiale. La riduzione del deficit dei conti pubblici e dei conti con lestero e la riduzione dei consumi di cui gli USA devono farsi carico per correggere gli squilibri che sono allorigine della Grande Crisi, nata a differenza delle altre pi recenti proprio nel cuore dellAmerica e di Wall Street, significano anche in questo caso meno crescita e una minore spinta al commercio internazionale. in questo contesto che uneconomia come la nostra, che si fonda principalmente sulle esportazioni e che dipende in buona misura dalla Germania la quale, a sua volta, dipende dal trend economico americano, deve collocare le proprie prospettive future ed in questo nuovo contesto che va letto, in tutta la sua particolarit, il caso italiano. Se si confronta landamento del nostro Pil (-0,9% nel 2008 e 5% previsto per il 2009) con quello delle altre economie occidentali nel biennio della crisi il risultato non per noi incoraggiante. Se per si guarda in prospettiva lItalia presenta diversi punti di forza che, a certe condizioni, potrebbero permetterle di cogliere prima e meglio i frutti della ripresa quando essi cominceranno a manifestarsi. Nel suo La crisi mondiale e lItalia, edito da Il Mulino, leconomista Marco Fortis ricorda che fino alla vigilia del fallimento della Lehman Brothers e dunque alla trasformazione della crisi finanziaria in crisi sistemica, lexport italiano aveva letteralmente surclassato lexport della Francia, della Spagna e del Regno Unito e che proprio la vitalit delle nostre imprese, soprattutto quelle di media dimensione che esprimono il dinamismo della parte pi innovativa di una sempre robusta industria manifatturiera, lelevata propensione al risparmio delle famiglie e lancoraggio al territorio e al retail delle nostre banche sono elementi che rovesciano le interpretazioni pi pessimistiche sul futuro della nostra economia. Se anzich considerare il solo debito pubblico, si prende in esame il debito aggregato (pubblico e privato) il posizionamento della nostra economia non dei pi grami ma soprattutto denota che, pur essendo negli ultimi dieci anni risultata inferiore a quella dei maggiori partner europei, la sua non stata una crescita drogata dal debito ma una crescita vera anche se modesta.

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Il persistente differenziale di crescita con il resto dellEuropa e soprattutto la minor crescita rispetto non solo al periodo del boom economico ma anche rispetto agli anni Settanta, Ottanta e Novanta obbliga per a riflessioni approfondite specialmente in ragione del fatto che la ripresa del commercio internazionale a livelli pre-crisi richieder anni e che noi non possiamo attendere immobilisticamente la ripartenza delle locomotive americane e tedesche o puntare esclusivamente sulle nuove opportunit che la svolta della politica economica cinese in favore della crescita del mercato interno offrir anche noi. Non c dubbio che il benefico arrivo delleuro renda pi urgenti le riforme e il rafforzamento delle infrastrutture materiali e immateriali che, in mancanza della scorciatoia delle periodiche svalutazioni della lira, sono diventate pi importanti di ieri nella difesa e nel sostegno della competitivit del sistema-Italia. Lufficio studi della Confindustria ha calcolato che, in assenza di immediate riforme che riguardino la Pubblica amministrazione, la semplificazione burocratica, le pensioni, la formazione, la ricerca, le liberalizzazioni, ci vorrebbero almeno cinque anni per tornare al modesto livello di crescita che il nostro Paese aveva conosciuto prima della crisi e che lunica possibilit di accelerare, senza perdere il controllo dei conti pubblici, passa attraverso la riduzione della spesa pubblica improduttiva e limmediata approvazione delle riforme che, in molti casi, non costano nulla. Riforme e sviluppo delle infrastrutture consentirebbero di incrementare investimenti e consumi e cio di tonificare la domanda interna in attesa di una piena ripresa di quella estera, ma consentirebbero anche alle nostre imprese di diventare ancora pi competitive, dal lato della qualit ancor pi che da quello dei costi, nella divisione internazionale del lavoro. La maggior parte delle imprese italiane, non solo le grandi ma anche le medie e perfino le piccole, ha compreso da tempo che la globalizzazione e lallargamento dellUnione Europea hanno completamente cambiato il contesto competitivo e che il loro campo di gioco non pu pi essere il giardino di casa e il mercato domestico. Linternazionalizzazione delle imprese, che non vuol dire solo esportare i prodotti e delocalizzare gli impianti ma anche radicarsi sui mercati esteri, una necessit prima che una scelta. Ma, come suole dire leconomista Enzo Rullani della Venice International University, nella societ e nelleconomia della conoscenza noi italiani non siamo pi da tempo i cinesi dellEuropa perch lingresso nelleuro e laffacciarsi sulla scena internazionale dei Paesi emergenti non ci permettono di

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competere sui costi e ci spingono a puntare tutto sulla qualit. Innovazione, sia aziendale che di sistema, e internazionalizzazione delle imprese sono dunque le due facce della sfida che lItalia ha gi sperimentato con buoni risultati negli anni scorsi e che la Grande Crisi rende ancora pi impegnativa. Lindustria manifatturiera italiana ha avviato da tempo unampia ristrutturazione, che alla base del recupero di efficienza e dellexploit delle esportazioni, ma la recessione, che secondo le previsioni pi accreditate provocher nel 2009 una caduta del nostro Pil attorno al 5%, coglie parte delle nostre imprese a met del guado. Illuminanti sono i risultati di una recente indagine campionaria condotta tra le imprese dalla Banca dItalia e di cui le Considerazioni finali del Governatore Draghi hanno dato conto nellAssemblea annuale del 29 di maggio. Secondo lindagine della banca centrale, circa met delle 5 mila imprese dellindustria e dei servizi con almeno 20 addetti sono state coinvolte nel processo di ristrutturazione, ma a fare la differenza, oltre ai diversi mercati di riferimento, sono il grado di avanzamento della ristrutturazione e soprattutto la solidit patrimoniale delle imprese. Circa 5mila di esse, che impiegano quasi un milione di addetti e che sono finanziariamente pi solide e hanno gi completato la ristrutturazione, sono in grado di attutire le avversit della congiuntura consolidando il primato tecnologico e diversificando gli sbocchi di mercato. Alcune di esse si stanno addirittura avvantaggiando nella crisi in termini di riposizionamento sul mercato. Al polo opposto ci sono invece almeno 6mila imprese con quasi un milione di occupati che, pur essendo state virtuose perch hanno deciso di accrescere le dimensioni aziendali, di rafforzarsi sul piano tecnologico e di aprirsi ai mercati internazionali, soffrono maggiormente la crisi sia perch hanno avviato pi tardi la ristrutturazione incappando nella crisi in piena transizione sia perch si sono indebitate per affrontare il cambiamento. Il risultato che, con il prosciugarsi dei flussi di cassa e le restrizioni dellaccesso al credito e al mercato dei capitali, queste imprese sono in forte difficolt e rischiano in qualche caso di uscire dal mercato per asfissia finanziaria. Sarebbe grave che limpresa globale che in questi anni si sviluppata anche in Italia e che ha dato luogo al fenomeno delle cosiddette multinazionali tascabili a capitalismo familiare tornasse indietro e si rifugiasse dentro le mura domestiche. Per resistere, oltre alla determinazione dellimprenditore, servono per la lungimiranza e il sostegno delle istituzioni centrali e locali e del sistema bancario. Proprio perch la sfida sui mercati si gioca per noi pi sulla qualit che

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sui costi, oltre alle riforme che possono rafforzare ed incrementare la competitivit, importante saper produrre al meglio e saper valorizzare i frutti del Made in Italy (che vuol dire principalmente industria meccanica ed alimentare, prodotti per la casa e per la persona). Tuttavia, in una fase come questa nella quale le nostre imprese pagano soprattutto il crollo della domanda sui mercati di sbocco (USA, Regno Unito, Spagna e Russia in primis), ancora pi decisivo di prima saper vendere al meglio e scovare nuovi mercati. Una rilevazione periodica del Servizio studi e ricerche del gruppo bancario Intesa Sanpaolo ha accertato che, nella prima parte del 2009, solo 11 dei 104 distretti industriali italiani hanno difeso o addirittura incrementato le loro esportazioni, proprio in virt della loro particolare specializzazione produttiva ma anche della saggia diversificazione sui mercati internazionali di sbocco. Pur nella crisi generale che vede il fatturato estero delle nostre imprese distrettuali ridursi in tre mercati su quattro, c addirittura un mercato, quello dellAlgeria, dove lexport delle nostre aziende per effetto di un ampio programma di infrastrutturazione di quel Paese del Nord Africa, continua a crescere. Dalla prima crisi globale che attraversa le nostre economie sarebbe vano pensare di uscire con soluzioni e terapie puramente domestiche che non facciano i conti con i complessi problemi di una nuova governance internazionale. Ma, per importante che tutto questo sia, la dimensione della crisi non pu nascondere le responsabilit e i doveri che ognuno ha e i cambiamenti che ogni Paese deve mettere in campo. Bisogna sapere scrive Giuliano Amato nella raccolta di saggi promossa da Astrid e pubblicata dalleditore Passigli sotto il titolo Governare leconomia globale Nella crisi e oltre la crisi che non meno innovativo dei cambiamenti di governance globale ci che va fatto sul piano delle riforme interne, includendo tra queste le stesse innovazioni europee anche in vista di un decisivo recupero dellAgenda e del Trattato di Lisbona dopo lelezione del nuovo Parlamento Europeo. Anche stavolta la crisi non solo sofferenza, ma pu diventare una grande opportunit di cambiamento. A patto di saperla cogliere e di rinnovare politiche e comportamenti.

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