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Direzione:
Stefano Allovio
Nicola Scaldaferri
Progetto grafico:
Palmarosa Fuccella
Prima edizione
Settembre 2007
In copertina: Donne del fumbung di Nsei con i loro strumenti musicali durante la
celebrazione funebre del fon, aprile 2000. Foto: Silvia Forni.
Quaderni di Antropologia culturale ed Etnomusicologia
3
Molimo raccoglie materiali riconducibili
al seminario annuale tematico
organizzato congiuntamente nel
quadro delle attività didattiche e di
ricerca di Antropologia culturale ed
Etnomusicologia della Facoltà di Lettere
e Filosofia dell’Università di Milano.
7 Stefano Allovio
Segreti e società segrete in Africa sub-sahariana.
Un’introduzione
15 Luca Jourdan
Pratiche magiche, segreti e rituali di guerra fra i ribelli
Mayi-Mayi del Nord Kivu
41 Stefano Allovio
Retoriche e politiche dell’intolleranza: l’immaginario coloniale
sulle società segrete dell’Africa centrale
59 Nicola Scaldaferri
Pratiche musicali, poteri e segreti: Alhaji Abubakari Lunna
tra il Dagbon e il Massachusetts
79 Elisa Piria
La ricerca in Dagbon (Ghana): osservazioni e considerazioni
tecniche
89 Serena Facci
Dinamiche intorno alla segretezza: tre casi nella musica dei
Bakonzo-Banande (Uganda, Repubblica Democratica del
Congo)
5
Segreti e società segrete in Africa sub-sahariana. Un’introduzione
di Stefano Allovio
Q
uando una decina di anni fa iniziai a condurre ricerche fra i gruppi
di lingua mangbetu del Congo nord-orientale non pensavo lon-
tanamente di occuparmi di società segrete; tanto meno pensavo
che la ricerca antropologica consistesse in una impresa segnata da una
“potenza osservativa” (alquanto irritante) in grado di penetrare segreti
e svelare misteri1. Pur non essendomi recato altrove per rubare i segreti
degli altri, sono stati gli stessi “altri” a suggerirmi come tema di indagi-
ne la loro società segreta. Curiosamente, tale suggerimento nasceva dal
fatto che, con l’aiuto degli indigeni, cercavo di rintracciare quelle istitu-
zioni preposte a creare alleanze interetniche (interculturali); istituzioni e
pratiche sociali caratterizzate da una significativa apertura verso gli altri.
Oltre al noutu, l’alleanza interetnica fra bambini circoncisi nella stessa oc-
casione rituale2, i locali pensarono da subito di indicarmi il nebeli, la so-
cietà segreta diffusa nella regione e caratterizzata dall’essere interetnica
e investita del compito di creare vasti reticoli sociali.
È stato il credito (l’apertura) nei confronti degli indigeni e lo stesso
tema indagato (le forme di apertura e di alleanze interetniche) a condur-
mi verso mondi pensati spesso esclusivamente chiusi, come le società
segrete. In effetti, se è vero che le cosiddette “società segrete”3 rimanda-
no a saperi e conoscenze nascoste il cui possesso è esclusivo di pochi
(i membri, gli iniziati, gli adepti), è altrettanto vero che tali associazioni
trovano, in molti casi, uno dei loro motivi di essere nella grande esten-
sione interetnica e internazionale4 oltre a costituirsi, spesso, attingendo
da differenti repertori simbolici e pratiche riconducibili a gruppi diversi
e lontani.
Questa compresenza di chiusura e apertura è stata posta alla base
di un progetto di ricerca dal titolo Associazioni chiuse o sistemi aperti? Le
società segrete e le società iniziatiche in Africa equatoriale5. Le ricerche ri-
conducibili a tale progetto sono state condotte nel periodo 2004-2006 e
questo volume mostra alcuni dei risultati ottenuti (presentati nel dicem-
bre del 2006 nell’ambito di una giornata di studio presso l’Università di
Milano) congiuntamente ad altri interventi che contribuiscono ad arric-
chire la riflessione intorno al tema delle società segrete africane e, più in
generale, del segreto.
Se la dinamica di apertura e chiusura si presenta in parte come un
paradosso delle società segrete, agli etnografi non è sfuggita la centra-
lità di un paradosso ancora più generale: il “paradosso del segreto”. Con
7
questa espressione Beryl Bellman vuole chiarire come il segreto, per ave-
re una funzione all’interno di un ordine sociale, deve necessariamente
essere pubblico6. La rivelazione dei segreti (o la rivelazione di avere dei
segreti) è altrettanto importante della loro protezione e copertura, pro-
prio per il fatto che, come sottolineava Georg Simmel già cento anni fa7,
il segreto è una sorta di ornamento il cui possesso deve essere mostrato
in pubblico, inoltre il segreto è una proprietà che non solo è posseduta e
mostrata ma può essere scambiata.
La natura pubblica e relazionale del segreto ha permesso a molti
antropologi di concentrare le loro analisi sulle pratiche di gestione dei
segreti, piuttosto che sui contenuti dei segreti stessi. Le pratiche di ge-
stione e le relazioni che si configurano intorno all’occultamento-rivela-
zione dei segreti risultano dense di significati culturali e, in molti contesti,
centrali nel controllo dei saperi, del potere politico e nella configurazio-
ne dei sistemi religiosi.
La scelta di riflettere sui segreti e le società segrete in contesti afri-
cani, nasce dal fatto di circoscrivere in termini geografici i casi etnogra-
fici presentati partendo appunto dagli interessi africanisti di coloro che
hanno partecipato al progetto di ricerca. Ciò non significa che segreti e
società segrete non siano culturalmente significativi anche in altri con-
testi (si pensi ad esempio alle società segrete della Cina, della Melanesia
e della stessa Europa) e neppure che il continente africano presenti al ri-
guardo una omogeneità di usi e significati; anzi, l’Africa sorprende per la
varietà e la complessità delle espressioni culturali e delle pratiche sociali
non per forza riconducibili a ciò che spesso si definisce “tradizione”.
Segreti e società segrete non sono necessariamente espressioni di
ciò che viene pensato come “tradizionale”, al contrario, connettere segre-
ti e società segrete dell’Africa al fuorviante nesso esotico-esoterico non
aiuterebbe a comprendere la realtà. E’ curioso, in relazione a ciò, che Sim-
mel abbia pensato ad un percorso evolutivo dei segreti, ritenendo che il
mondo complesso della modernità sia più adatto allo sviluppo di segreti,
mentre nelle società pre-moderne e pre-urbane la vicinanza e l’intimi-
tà quotidiana degli “indigeni” non avrebbe consentito il mantenimento
di molti segreti. A Simmel risponde idealmente Michel Foucault il quale
immagina l’uomo moderno monitorato da una crescente burocrazia e
dallo sviluppo di istituzioni palesemente contrarie ai segreti: il magistra-
to inquirente che indaga e il sacerdote che confessa8. Inoltre, Simmel non
immaginava che la supposta modernità sarebbe confluita in un mondo
percorso da fitti reticoli reali e virtuali (il sistema di comunicazioni e la
circolazione delle informazioni) che minano la possibilità di privacy e
forse il mantenimento di molti segreti esattamente come nel villaggio di
selvaggi che si figurava nella mente.
Ancora una volta la supposta e fuorviante dicotomia tradizione-mo-
8 dernità risulta terreno scivoloso ed euristicamente debole a meno che
non si accetti di declinare i termini e mescolare le carte, ovvero, conte-
12
Note
13
Pratiche magiche, segreti e rituali di guerra fra i ribelli
Mayi-Mayi del Nord Kivu
di Luca Jourdan
ONU Simba ONU
Simba Mulele mayi
Mama ninaenda ku vita
Sijui kama nitarudi
Uzae mwengine1
Canto di guerra Mayi-Mayi
1. Introduzione
I
Mayi-Mayi sono uno fra i movimenti armati più importanti nel pano-
rama bellico del Nord Kivu, la provincia orientale della Repubblica De-
mocratica del Congo ai confini con Rwanda e Uganda. Le ragioni di
questa importanza sono perlomeno due. Innanzitutto i Mayi-Mayi - du-
rante gli “anni caldi” della guerra e parzialmente tuttora - controllavano
buona parte delle aree rurali della regione. In secondo luogo, decine di
migliaia di giovani, in molti casi bambini, hanno combattuto nelle file
di questo movimento. Si tratta dunque di un fenomeno sociale di pri-
mo piano, che mostra come l’adesione a una milizia finisce per essere
una delle scelte preferite da molti ragazzi del Kivu che cercano nell’ar-
ruolamento una soluzione a una situazione di assenza di opportunità,
esacerbata a partire dagli anni Novanta dalla crisi generale in cui è piom-
bato il paese. L’analisi del fenomeno Mayi-Mayi, vale a dire dei processi
storici che determinano la formazione delle milizie nel Nord Kivu, può
dunque aiutarci a gettare luce sulle logiche e le modalità di riproduzione
della violenza nella società e nella cultura locale. La teoria di fondo che
informa questo articolo è che la guerra sia essenzialmente un progetto
sociale, alla pari di ogni altro progetto sociale: essa implica, quindi, un’ac-
curata organizzazione (formazione delle milizie, accesso a finanziamenti,
acquisizione delle armi ecc.) e per questa ragione non può essere consi-
derata semplicemente come un momento “anormale”, di disequilibrio o
di rottura all’interno di un continuum pacifico. Se la guerra è dunque un
processo sociale (anche nel caso del terrorismo), ogni tentativo di sradi-
carla attraverso “operazioni chirurgiche” non può che risultare illusorio e
fallimentare (Richards 2005).
Il termine Mayi-Mayi, nello swahili del Congo2, significa “acqua-ac-
qua” e fa riferimento al rituale più importante praticato dal movimento,
vale a dire l’aspersione dei giovani combattenti con un’acqua preparata
secondo procedure segrete allo scopo di renderli invulnerabili ai proiet-
tili3. Il nome Mayi-Mayi non indica però un movimento unitario, al contra-
rio fa riferimento a un insieme di gruppi scarsamente coordinati fra loro
e in alcuni casi addirittura in conflitto. Vi sono però alcune caratteristiche
comuni che rendono possibile un discorso comprensivo dell’intero feno- 15
meno: innanzitutto il ricorso costante a pratiche magiche e a una ritualità
di guerra condivise e piuttosto elaborate; in secondo luogo una rivendi-
cazione politica di stampo nazionalistico che fornisce una quadro ideo-
logico alla lotta di resistenza contro gli invasori rwandese e ugandese.
Qui di seguito è mia intenzione ripercorrere la storia del movimento
Mayi-Mayi e tracciarne l’etnografia. La parte storica della mia analisi si
concentra sulle connessioni fra l’attuale movimento Mayi-Mayi e i movi-
menti di resistenza alla colonizzazione e allo stato post-coloniale in Con-
go e, più in generale, nell’Africa orientale. Come cercherò di dimostrare, la
continuità storica fra questi movimenti è essenzialmente di tipo simboli-
co e si evidenzia nei riti di guerra, centrati sull’invulnerabilità del guerrie-
ro. Da questo punto di vista il fenomeno Mayi-Mayi presenta importanti
analogie con le società segrete che si diffusero in Africa soprattutto nel
periodo coloniale: anche in questo caso non è tanto l’elemento delle se-
gretezza a caratterizzare il movimento quanto quello della chiusura (di
fatto la definizione “società segrete” venne attribuita impropriamente a
molte organizzazioni africane sulla base di una erronea analogia con le
società segrete europee).
L’analisi etnografica è invece il risultato della mia esperienza sul cam-
po nei territori di Beni e Lubero, nella zona settentrionale del Nord-Kivu,
una regione altrimenti nota con il nome di Grand Nord. Questo periodo
di ricerca, svolto fra il 2001 e il 2006, ha incluso circa due anni di perma-
nenza sul terreno ed ebbe inizio con un soggiorno presso l’accampa-
mento Mayi-Mayi comandato da Kakule La Fontaine4. Nei mesi che se-
guirono questa esperienza, ebbi modo di approfondire e allargare il mio
studio con interviste a combattenti ed ex-combattenti appartenenti ad
altri gruppi. Il lavoro sul campo ha conosciuto momenti diversi: l’osserva-
zione, le interviste, la consultazione dei rari giornali locali, e la lettura di
alcune dissertazioni prodotte dagli studenti e dai professori delle univer-
sità di Butembo e di Goma. La ricerca si è focalizzata sui gruppi Mayi-Mayi
presenti nei territori di Beni e di Lubero, e non ha incluso pertanto le
formazioni attive nelle aree rurali del Sud-Kivu. Queste ultime sono state
tuttavia oggetto di alcune pubblicazioni di cui mi sono servito per tenta-
re una comparazione regionale ed elaborare una riflessione più generale
su alcuni aspetti del fenomeno.
Pratiche magiche, segreti e rituali di guerra fra i ribelli Mayi-Mayi del Nord Kivu
potere conferito loro dall’acqua magica. Di loro il Guardian diceva: «Han-
no una forte fede nella magia. Le reclute Mayi-Mayi sono tatuate per ren-
derle invincibili, non si lavano con il sapone e gli è proibito fare sesso
con le donne. Molti combattono nudi o vestiti di foglie»6. Se l’esotismo
di questi guerrieri affascinava la stampa internazionale, il mito della loro
invulnerabilità si rivelava sul terreno un’arma tremendamente efficace.
Tanto è vero che la resistenza dei soldati di Mobutu di fronte all’avan-
zata delle truppe dell’AFDL, con i Mayi-Mayi in prima linea, fu pressoché
nulla. Demotivazione, totale disorganizzazione e senz’altro molta paura
di fronte a un nemico ritenuto invincibile e crudele: per l’esercito di Mo-
butu, le FAZ (Forces Armées Zaïroises), fu la débacle.
I Mayi-Mayi evocano inevitabilmente, nell’immaginario occidentale,
l’idea di una guerra primordiale, fuori dal tempo, combattuta da selvaggi
senza abiti: «Per vincere bisogna combattere nudi, c’è scritto anche sulla
Bibbia», mi disse un giorno un giovane combattente che si era arruolato
inizialmente nei Kifua-Fua7 (dallo swahili, a petto nudo), una milizia attiva
nel Nord-Kivu, e che era passato successivamente al gruppo comandato
da Kakule La Fontaine. Guerrieri spietati che riportano alla mente imma-
gini conradiane, di un paese immerso in una follia violenta, e che rievo-
cano alla perfezione il mito dell’africano selvaggio, perso in un mondo
di tenebre, abissalmente lontano da noi: una distanza non solo spaziale
ma anche temporale, un mondo da cui sembrano giungere visioni di un
viaggio nel nostro passato più remoto e turbante.
Tuttavia una simile lettura, una volta spogliata del suo carico di pre-
giudizi e di luoghi comuni, non può che risultare superficiale e soprattut-
to ideologica. Vi si avverte l’eco delle teorie di Kaplan (un famoso giorna-
lista americano i cui libri e articoli, si dice, abbiano influenzato la politica
estera della Casa Bianca negli anni Novanta) che ha descritto le guerre
africane come una forma di neobarbarie, un ritorno a un mondo anarchi-
co dominato da bande di delinquenti e assassini (Kaplan 1994: 44-76). Da
simili interpretazioni emerge, ancora una volta, l’immagine stereotipata
di un continente alla deriva, in preda a un comportamento criminale di
massa del tutto indecifrabile. Come sottolinea Koen Vlassenroot, è all’in-
terno di questo quadro teorico che i Mayi-Mayi, nella loro nudità, furo-
no considerati «come un ritorno al passato, come un contraccolpo della
modernizzazione, o una riprimitivizzazione della società africana», e allo
stesso tempo un tale approccio «legittimava il disinteresse crescente e
tragico nei confronti delle crisi africane» (Vlassenroot 2002: 116).
Inevitabilmente la teoria della neobarbarie di Kaplan, in voga negli
anni Novanta, ha promosso per un certo periodo una logica di disim-
pegno, dal momento che scavava un solco invalicabile fra la realtà delle
guerre africane, definite come incomprensibili e del tutto irrazionali, e la
pax domestica del mondo occidentale. Un disimpegno che è stato in par- 17
te anche intellettuale, oltre che politico. Nel caso dei Mayi-Mayi, il rischio
di adottare un tale approccio è quello di abbandonarsi a facili esotismi, o
meglio a un “esotismo della violenza”, che porta a negare, o perlomeno a
sminuire, la complessità dei processi sociali, oltre che le dinamiche stori-
che e politiche, che sono alla base dell’esplosione della violenza nell’est
del Congo. La crisi congolese - è opportuno sottolinearlo – non può es-
sere ricondotta semplicemente a una presunta conflittualità o violenza
innata della società africana tradizionale che riemerge, in virtù di un pro-
cesso regressivo, nella contemporaneità: i Mayi-Mayi non sono guerrieri
primitivi fuori dal tempo, al contrario sono un prodotto della “crisi della
modernità”; una crisi che affonda le sue radici nella storia e nella società
congolese e che, per quanto complessa e di difficile comprensione, non
è né misteriosa né insondabile.
Pratiche magiche, segreti e rituali di guerra fra i ribelli Mayi-Mayi del Nord Kivu
epidemie attaccarono il bestiame e la competizione sulla terra si inasprì
in seguito all’arrivo di numerose popolazioni che cercavano riparo dalle
incursioni dei commercianti di schiavi. Coloro che riuscivano a procurarsi
l’acqua sacra godevano di grande prestigio e venivano denominati opi,
vale a dire capi del culto yakan. Inoltre, la presenza belga portò a uno
sconvolgimento della struttura politica locale dal momento che i capi
nominati dall’amministrazione coloniale iniziarono ad abusare del loro
potere - in particolare attraverso l’aumento delle tasse e l’imposizione di
pagare il prezzo della sposa in capi di bestiame - diventando così sempre
più impopolari (cfr. Middleton 1963).
In seguito la regione orientale dei Lugbara passò sotto l’amministra-
zione coloniale inglese e divenne parte dell’Uganda. Intorno al 1912 il
culto yakan riemerse con forza per mano di un profeta di nome Rembe
e del suo assistente Yondu. Il culto assunse un carattere di opposizione
al regime coloniale e nel 1919 a una riunione del yakan vennero uccisi
undici poliziotti dell’amministrazione coloniale. Questo fatto portò a una
reazione del governo e numerosi adepti del culto, fra cui comparivano
molti capi locali, vennero incarcerati. Gli amministratori coloniali inglesi
consideravano lo yakan una società segreta equiparandola al nebeli, una
società segreta diffusa fra molte popolazioni delle aree meridionali del
Sudan dove costituiva una forma di resistenza all’egemonia degli Azan-
de: l’esistenza di questo culto rappresentava dunque una seria minaccia
all’ordine coloniale.
Secondo Driberg, uno degli amministratori coloniali coinvolto nella
soppressione dello yakan, il culto si diffuse anche verso la Tanzania dove
animò la ribellione dei Maji-Maji contro la dominazione tedesca (Driberg
1931: 415).
Pratiche magiche, segreti e rituali di guerra fra i ribelli Mayi-Mayi del Nord Kivu
1905, a Nandete, un gruppo di giovani matumbi si recò in una pianta-
gione e sradicò alcune piante di cotone: questo gesto simbolico segnò
l’inizio della ribellione Maji-Maji, uno dei più importanti movimenti di
resistenza al colonialismo nella storia africana. In breve, i clan matumbi
si organizzarono per attaccare le postazioni tedesche nei pressi dei loro
villaggi. Di lì a poco Kinjikitile venne catturato e impiccato dall’autorità
coloniale. Ma a dispetto di una morte così repentina, la sua acqua si era
rapidamente diffusa nell’interno del paese, e con essa la ribellione: ogni
clan aveva ormai il suo hongo, l’addetto alla preparazione della maji. Una
volta iniziati alla conoscenza dell’acqua magica, gli hongo si recavano a
trasmettere il loro sapere segreto ai clan e alle tribù vicine, dove provve-
devano all’iniziazione di altri specialisti, i quali a loro volta organizzavano
un nuovo movimento ribelle. Con questo sistema a catena l’insurrezione
dilagò rapidamente nelle regioni meridionali, dalle coste dell’Oceano In-
diano sino ai bordi del lago Nyasa, coinvolgendo tribù molto eterogenee
fra loro. Ma non mancarono casi di fallimento dell’acqua: nel settembre
1905, nei dintorni di Songea, il capo della tribù Mshope, Chabruma, perse
in un solo giorno duecento uomini, a fronte di un solo morto fra le file
tedesche, che contavano poco più di cinquanta soldati. I ribelli dovevano
aver avuto rapporti sessuali e avevano così violato i tabù legati alla maji:
fu questa la spiegazione della disfatta data dagli hongo che affiancavano
Chabruma.
A rafforzare l’esercito coloniale giunsero nuove reclute dalla Somalia
e dalla Guinea e i tedeschi riuscirono così a contenere a nord l’espansio-
ne della guerra. Venne applicata la tattica della terra bruciata: i villaggi
ribelli furono rasi al suolo, le coltivazioni incendiate e nel paese cominciò
a dilagare la carestia. Il culto dell’acqua perse gradualmente consenso e
allo stesso tempo l’unione politica delle tribù cominciò a sgretolarsi. Nel
1907 la ribellione Maji-Maji era giunta al termine: secondo le autorità te-
desche circa 26.000 ribelli avevano perso la vita negli scontri, ma furono
più di 50.000 le vittime della fame che continuò ad attanagliare il paese
per diversi mesi.
Uno degli aspetti più importanti di questa ribellione fu il suo ca-
rattere intertribale, legato alla diffusione della maji. Secondo lo storico
John Iliffe, gli hongo godevano di un ampio consenso poiché agivano
all’interno di un sistema condiviso di credenze religiose tradizionali9. È
però interessante notare che i Maji-Maji combattevano non solo contro il
nemico esterno, vale a dire l’ordine coloniale tedesco, ma anche contro il
nemico interno, ossia la stregoneria. Nessuna forma di stregoneria veniva
infatti tollerata dagli insorti, ed era verosimilmente questo atteggiamen-
to a conferire loro l’autorità, il rispetto e la popolarità necessari a creare
un’ampia base per il reclutamento. Nel periodo successivo alla ribellione
la Tanzania fu percorsa da diversi movimenti di “caccia alle streghe” che 21
si ispiravano al movimento Maji-Maji. Come nota Terence Ranger, «dopo
la sconfitta dei Maji-Maji, l’insieme dei simboli e dei riferimenti al potere
spirituale utilizzati da Kinjikitile fu sfruttato da una serie di figure pro-
fetiche che erano impegnate nella purificazione interna delle società
africane, e che portarono a quelli che sono stati definiti i “movimenti di
sradicamento della stregoneria”» (Ranger 1985: 55). È probabile che que-
sti movimenti si diffusero soprattutto nel periodo successivo alla prima
guerra mondiale, quando gli europei vietarono le uccisioni di streghe e
stregoni, e la produzione simbolica dei Maji-Maji, con il suo significato
iniziale di opposizione ai bianchi, venne incorporata nelle pratiche di lot-
ta alla stregoneria.
In ogni caso, quello dei Maji-Maji era un simbolismo ormai collauda-
to, che aveva dimostrato la sua efficacia nel mobilitare le nuove genera-
zioni contro l’invasore. I guerrieri, una volta aspersi con la maji, combatte-
vano con maggiore coraggio e convinzione, e i nemici non potevano che
intimorirsi di fronte alla loro audacia. Questi riti erano dunque destinati a
ricomparire nelle situazioni in cui si sarebbe reso necessario mobilitare i
giovani per dar vita a una ribellione.
Pratiche magiche, segreti e rituali di guerra fra i ribelli Mayi-Mayi del Nord Kivu
do di manifestarsi in altre persone. Una volta posseduto dallo spirito di
Lyangombe, Nyagaza cambiò nome in Binji-Binji e ordinò al suo popolo
di abbandonare il lavoro nelle piantagioni. Secondo la sua predicazio-
ne, i Bashi avrebbero cacciato i bianchi per riprendersi le terre ancestrali,
e avrebbero poi beneficiato dell’arrivo di numerose mandrie di vacche.
Quella di Binji-Binji fu una ribellione pacifica, che utilizzava riti e simboli
molto diffusi nell’Africa dei Grandi Laghi allo scopo di opporsi a un nemi-
co militarmente più forte e meglio organizzato.
La ribellione più nota fu tuttavia quella dei Simba (“leoni” in swahili),
scoppiata pochi anni dopo l’indipendenza del Congo. Fu in quell’occasio-
ne che ricomparve il rito della mayi utilizzato a inizio secolo da Kinjikitile
in Tanzania. Nel dicembre 1963 Pierre Mulele, di ritorno dalla Cina, si era
insediato nella sua regione natale, il Kwilu a ovest di Kinshasa, per dare ini-
zio a una ribellione che aspirava a una “seconda indipendenza” del Congo.
Qualche rudimento di lotta armata e due revolver erano i mezzi con cui
all’inizio gli eredi di Lumumba si cimentarono in un avventuroso maquis
(“guerriglia”, lett. “macchia”, darsi alla macchia”) fra i villaggi della foresta
centrale (Verhaegen 1990: 90). Intanto a Brazzaville nasceva il Consiglio
Nazionale di Liberazione, dove confluirono molti leader nazionalisti, fra
cui Gbenye e Soumialot, i quali si incaricarono di aprire un nuovo fronte
insurrezionale nel Kivu. La ribellione mulelista iniziò nel gennaio del 1964
e in un primo momento beneficiò del supporto popolare11. La reazione
dell’esercito nazionale fu spietata: villaggi bruciati e colture distrutte nel
tentativo di frenare il dilagare dell’insurrezione. Quando la ribellione di
Mulele sembrava ormai perdere terreno, il Kivu si infiammò sotto la guida
di Soumialot che diede inizio alla ribellione dei Simba. Nel maggio 1964
Uvira cadde in mano ai ribelli che in breve tempo avrebbero occupato
circa la metà del territorio congolese. A luglio capitolava anche Kindu, ca-
pitale del Maniema e ad agosto era la volta di Kisangani. Di fatto però la
ribellione di Mulele e quella dei Simba rimasero due insurrezioni distinte:
l’assenza di coordinamento e le rivalità fra i diversi leader impedirono un
collegamento efficace fra i due movimenti.
In meno di otto mesi la metà del Congo era dunque caduta in mano
ai Simba. Una ribellione combattuta per lo più da giovani fra i dodici e i
vent’anni. Come osserva Benoît Verhaegen, si trattava di una classe di età
che «l’indipendenza fallita aveva particolarmente penalizzato privando-
la della scuola e del lavoro. Non aveva niente da perdere nell’avventu-
ra insurrezionale. Fu essa a costituire la punta di lancia dei contingenti
Simba» (Verhaegen 1990: 94). I fattori principali dell’iniziale successo dei
Simba furono sostanzialmente tre: l’omogeneità etnica dei vertici della
ribellione, il terrore e le protezioni magiche (Ibidem). Per quanto riguar-
da il primo, i principali capi ribelli erano di etnia bakusu e batetela12, e
questo garantiva una maggiore coesione al movimento. I Simba fecero 23
poi ricorso sistematico al terrore, uccidendo pubblicamente agenti del-
lo stato, ufficiali dell’esercito nazionale e semplici ladri. Infine le pratiche
magiche avevano un’importanza fondamentale nella vita del movimen-
to. Il giovane Simba era innanzitutto battezzato con la mayi e successiva-
mente assumeva i dawa13, le due protezioni ritenute in grado di fermare
i proiettili. In linea generale, questo rito di iniziazione era composto da
tre fasi distinte (Cfr Ndaywel 1998: 622)14. La prima consisteva nel bagno,
denominato kukoka mayi, vale a dire l’aspersione del combattente con
l’acqua preparata da uno specialista denominato docteur. Il giovane era
poi scarificato in diverse parti del corpo e sempre il docteur provvedeva
a inserire i dawa nelle ferite. Nell’ultima fase di questo percorso ritua-
le il combattente riceveva alcuni amuleti, i gri-gri, e gli era concesso di
indossare un copricapo in pelle di leopardo. Una volta terminato il rito,
il guerriero Simba era tenuto a rispettare un gran numero di tabù che
garantivano l’efficacia delle protezioni. Gli era ad esempio proibito ruba-
re e avere rapporti sessuali, poteva lavarsi esclusivamente nei momenti
stabiliti e non poteva essere toccato da un civile; nel combattimento non
doveva indietreggiare ed era tenuto a rispettare numerose e rigorose re-
strizioni sul cibo.
Le analogie con le pratiche magiche adottate nella ribellione dei
Maji-Maji in Tanzania sono evidenti. Secondo i politologi Bob Kabamba e
Olivier Lanotte, furono i consiglieri tanzaniani di Soumialot a suggerire di
utilizzare il rito della mayi anche nella ribellione in Kivu (Kabamba e La-
notte 1999: 128). Sebbene i contesti storici e politici fossero molto diversi,
le pratiche e i rituali di guerra furono ripresentati in forme analoghe. Una
continuità quindi essenzialmente di ordine simbolico: evidentemente i
capi ribelli erano persuasi dell’efficacia del rito della mayi, che si era di-
mostrata capace di mobilitare i giovani, di dare coraggio ai combattenti e
di terrorizzare il nemico, sopperendo così alla carenza di fucili e munizio-
ni. Inoltre i tabù legati alla mayi fornivano una sorta di disciplina militare,
che regolava sia le relazioni interne al movimento ribelle sia i rapporti
con la popolazione civile.
Tuttavia, quelli che inizialmente erano apparsi come i punti forti dei
Simba, si trasformarono con il tempo in debolezze. Le liti fra i vari leader,
che per altro passavano la maggior parte del loro tempo a gozzovigliare
lontano dal fronte, iniziarono a minare la coesione del movimento. L’in-
transigenza dei Simba, che aveva fatto inizialmente pensare a ribelli dal-
l’etica severa, iniziò a degenerare nella violenza arbitraria. Atrocità, sac-
cheggi e abusi di ogni genere sulla popolazione rurale minarono velo-
cemente la popolarità della ribellione. Inoltre, con il tempo e le sconfitte
subite, il dubbio sull’efficacia della mayi cominciò a insinuarsi fra i giovani
combattenti e il suo potere di persuasione andò progressivamente sce-
mando. Il movimento, e con esso il sogno di una rivoluzione nel cuore
24 dell’Africa, iniziarono a sgretolarsi. Le diserzioni si fecero sempre più nu-
merose mentre la disorganizzazione e i dissidi interni divennero palesi di
Pratiche magiche, segreti e rituali di guerra fra i ribelli Mayi-Mayi del Nord Kivu
fronte alle prime difficoltà incontrate sul campo di battaglia. Per contro,
l’esercito nazionale venne riorganizzato in modo efficace e i Simba co-
minciarono a subire disfatte cocenti e a perdere velocemente terreno15.
Nel novembre del 1964 il governo di Kinshasa lanciò l’offensiva finale
contro la ribellione attraverso due operazioni militari su vasta scala. Con
la prima, denominata operazione Ommegang, un’armata di mercenari
e di soldati katanghesi iniziò ad avanzare dal Katanga verso Kisangani,
sotto il comando del colonnello belga Vandewalle. Con l’operazione Dra-
go rosso invece i paracadutisti belgi si lanciarono su Kisangani: la vista
di uomini bianchi armati che piombavano dal cielo fu uno spettacolo
terrificante per i giovani Simba. Per la ribellione fu la fine, sebbene alcu-
ne sacche di resistenza, che comprendevano zone rurali piuttosto ampie,
perdurarono per diversi anni. Molti ribelli si dispersero nelle montagne
nei dintorni di Uvira e Fizi, nella foresta di Kindu, nel parco del Maiko e al-
tri ancora nelle regioni di frontiera fra Congo e Uganda, dove si diedero al
bracconaggio, al contrabbando e al traffico di avorio. Ma se la ribellione
era stata militarmente soffocata, il rituale della mayi si era ormai affer-
mato nel Kivu. Quando all’inizio degli anni Novanta la regione piomberà
ancora una volta in una guerra atroce, questo rituale avrebbe fatto nuo-
vamente la sua parte: ancora una volta si ripresentava la necessità di re-
clutare giovani guerrieri che si mostrassero impavidi di fronte al nemico.
Pratiche magiche, segreti e rituali di guerra fra i ribelli Mayi-Mayi del Nord Kivu
che aveva in realtà la funzione di reclutare e inquadrare i giovani in mili-
zie17. La tensione non fece che aumentare e il 20 marzo 1993 al mercato
di Ntoto, nel Walikale, le neonate “milizie autoctone” trucidarono nume-
rosi civili Banyarwanda. Questo fatto, che faceva piombare il Kivu in una
truce guerra interetnica, fu la prova del fuoco per i combattenti sedicenti
indigeni il cui spirito combattivo andava ora temprato per fare fronte al-
l’inevitabile reazione delle formazioni rivali. A tale scopo, e molte fonti
lo confermano, i leader autoctoni fecero appello ad alcuni comandanti
Kasindien che giunsero nel Masisi, una regione a Nord di Goma nel Nord
Kivu, per addestrare le nuove reclute. Si trattava di vecchi guerriglieri
Simba, passati appunto nelle file dei Kasindien, e che si presentavano ora
come docteur, ovvero come i depositari del segreto dell’acqua magica - la
mayi - che doveva rendere invincibili i giovani miliziani hunde (Mbindule
Mietono 2000: 13). I tre docteurs più importanti, tutti di etnia nande, fu-
rono Kaganga, Bulamambo e Sinamakosa: essi furono di fatto i fondatori
delle nuove milizie Mayi-Mayi nel Masisi, epicentro di un conflitto che in
breve tempo assunse una dimensione nazionale e transnazionale.
Intorno al 1993 il termine Mayi-Mayi iniziò a essere impiegato per in-
dicare tutte le milizie autoctone operative nel Nord-Kivu e molto proba-
bilmente l’utilizzo di un solo nome rivelava un tentativo di unificazione fra
le diverse formazioni (Vlassenroot 2002: 126). Tuttavia, con l’arrivo nella
regione dei rifugiati hutu nell’aprile del 1994, il movimento fece ampia-
mente mostra della sua eterogeneità interna. Sebbene buona parte dei
leader Mayi-Mayi sbandierasse i propri ideali nazionalisti, dichiarando di
combattere per la difesa della propria terra e per l’integrità del Congo,
in realtà molti di loro si allearono con le milizie hutu dell’Interahamwe,
responsabili del genocidio rwandese. Queste alleanze, molto fluide e in
continuo cambiamento, erano motivate in molti casi da mere ragioni di
opportunismo e rilevavano l’assenza di una strategia politica sul lungo
periodo18. Le azioni belliche si traducevano in saccheggi di villaggi e furti
di bestiame, oltre che la persecuzione della popolazione tutsi residente
nel Nord-Kivu. Inoltre l’attività delle milizie, che continuavano a procla-
marsi forze di autodifesa, non risparmiava la popolazione autoctona, ob-
bligata a fornire il cibo per i combattenti e a prestare svariati servizi quali
il trasporto delle vettovaglie e delle armi. In poco tempo i bami persero il
controllo delle milizie Mayi-Mayi e nel nuovo contesto le gerarchie mili-
tari, formate prevalentemente da adulti e giovani, cominciarono a preva-
lere sulle gerarchie tradizionali in cui primeggiavano gli anziani. La vita
sociale subiva così un processo di militarizzazione e proprio il passaggio
di potere dai bami ai capi militari ha costituito uno dei cambiamenti più
rilevanti indotti dalla guerra sull’organizzazione sociale del Kivu.
27
7. Caos politico e alleanze fluttuanti
Pratiche magiche, segreti e rituali di guerra fra i ribelli Mayi-Mayi del Nord Kivu
pour la Démocratie), nell’agosto del 1998, le alleanze cambiarono ancora
una volta. La rottura dell’intesa fra Kabila e Kagame portò a un riavvicina-
mento fra il governo di Kinshasa e i movimenti Mayi-Mayi. Questi ultimi
si opposero alle truppe ribelli dell’RCD: dal loro punto di vista, la nuova
ribellione non poteva che essere interpretata come un tentativo dei tutsi
rwandesi di riprendere il controllo del Kivu, dopo che Kabila, accortosi
del loro piano di depredare e dominare il Congo, li aveva ricacciati a casa,
nel loro Rwanda “piccolo e povero di risorse”. Grazie alla rinnovata col-
laborazione con Kinshasa, i Mayi-Mayi incrementarono la propria forza
militare. In questa fase della guerra, i diversi movimenti, quello di Padiri in
particolare, furono infatti sostenuti dal governo della capitale attraverso
lanci paracadutati di armi e munizioni nelle regioni montuose e di fore-
sta sotto il loro controllo.
A partire dall’agosto del 1998 le fazioni Mayi-Mayi iniziarono così a
contrapporsi all’RCD che, grazie al supporto militare fornito da Rwanda e
Uganda, si era imposto con facilità sul territorio del Kivu. Da allora i Mayi-
Mayi hanno assunto il controllo delle zone rurali, vale a dire le regioni
meno accessibili e pertanto le più adatte alla guerriglia, mentre l’RCD si è
attestato nei centri urbani. Dalle loro basi disperse nelle vallate e nella fo-
resta del Kivu, le diverse formazioni hanno continuato a lanciare attacchi
alle truppe del movimento ribelle, rivendicando il loro ruolo di difensori
dell’integrità del territorio congolese contro “l’invasione dei Tutsi rwan-
desi”. Tuttavia, il nazionalismo e la retorica dell’autodifesa hanno fornito
un utile paravento alle formazioni Mayi-Mayi, che in molti casi si sono di
fatto limitate a saccheggiare i villaggi e a depredare la loro stessa popola-
zione, anche in assenza di truppe straniere. D’altro canto, l’ideologia anti-
tutsi, che in generale trova ampi consensi fra le popolazioni del Kivu, ha
costituito un valido fattore di mobilitazione per molti giovani, pronti ad
arruolarsi al motto di «le Congo aux Congolais», e al contempo ha permes-
so di addossare a un nemico esterno ogni colpa per il drammatico tracol-
lo del paese. Al di là delle scontate manipolazioni politiche, è opportuno
capire meglio la popolarità di tali ideologie: là dove la complessità e la
drammaticità degli eventi provocano costernazione e rendono difficile,
talvolta impossibile, ogni tentativo di comprensione della realtà, le ideo-
logie razziali e l’odio etnico, nella loro brutale semplicità, costituiscono
pur sempre una risposta, per quanto sviante e deleteria, all’inesplicabilità
dei massacri, a una miseria e a un orrore senza fine.
Pratiche magiche, segreti e rituali di guerra fra i ribelli Mayi-Mayi del Nord Kivu
tenuti a pagare un tributo all’entrata del mercato oppure a versare una
quota degli introiti. Tuttavia queste forme di organizzazione amministra-
tiva, alquanto arbitrarie, non rappresentano un’alternativa all’assenza
dello stato; al contrario sembrano essere per lo più il risultato di logiche
predatorie e opportunistiche, facilmente realizzabili in una situazione
di guerra cronica. Infatti, con il pretesto di difendere il proprio territorio
dall’invasione degli eserciti stranieri, molti gruppi Mayi-Mayi hanno as-
sunto un comportamento parassitario nei confronti della popolazione
civile che è costretta a sottostare a un ordine violento e anarchico, detta-
to il più delle volte dalla volontà dei singoli comandanti o addirittura dei
singoli combattenti. In un tale contesto la retorica dell’autodifesa risulta
facilmente spendibile, dal momento che sono gli stessi gruppi Mayi-Mayi
a contribuire all’insicurezza generale.
32
10. Le condizioni della mayi
Pratiche magiche, segreti e rituali di guerra fra i ribelli Mayi-Mayi del Nord Kivu
Durante la mia ricerca sul campo ho potuto registrare numerose
prescrizioni a cui i combattenti Mayi-Mayi devono sottostare affinché
l’acqua si dimostri efficace nel proteggerli dalle pallottole. Le variazioni
da gruppo a gruppo sono minime e le regole sono in genere dettate dai
docteurs. Qui di seguito riporto l’elenco delle principali, inclusa una nor-
ma, la quarta, che concerne i civili: 1) proibizione di avere rapporti sessua-
li30; 2) divieto di rubare; 3) divieto di essere toccati e di ricevere oggetti dai
civili; 4) i civili, quando incrociano un Mayi-Mayi lungo la strada, hanno
l’obbligo di transitare sulla sua sinistra; 5) il combattente può lavarsi solo
a momenti stabiliti e in ogni caso gli è proibito usare il sapone; 6) divieto
di portare con sé soldi durante il combattimento; 7) proibizione di guar-
dare il sangue; 8) divieto di mangiare le foglie verdi (sombe); 9) divieto di
mangiare i cibi che sono stati cotti con la scorza o con la buccia; 10) divie-
to di soffiare sul cibo per raffreddarlo; 11) divieto di mangiare le ossa.
Le prime quattro regole riportate riguardano il rapporto fra Mayi-Mayi
e popolazione, e tendono a separare il combattente dal mondo delle per-
sone comuni. Fra guerriero e civile è precluso il contatto fisico e gli stessi
oggetti non possono passare direttamente dal secondo al primo: ad esem-
pio, se un civile vuole offrire del cibo a un Mayi-Mayi, deve dapprima pog-
giare a terra la sua offerta, dopodichè il combattente vi getterà sopra una
piccola manciata di terra e solo allora potrà prendere l’alimento. Questa
procedura deve essere effettuata ogni volta che un Mayi-Mayi entra in con-
tatto con il mondo esterno all’accampamento: il combattente deve gettare
una manciata di terra all’interno della casa dove si reca, sopra la sedia che
vuole utilizzare, sui cibi preparati per lui, etc. Qualora poi un civile incroci
un Mayi-Mayi lungo la strada, come abbiamo visto, ha l’obbligo di passare
alla sinistra del combattente: non di rado l’inosservanza di questa regola
suscita l’ira del guerriero, che può aggredire il civile. Per quanto concerne
la sfera sessuale e più in generale le relazioni con le donne, i Mayi-Mayi
sono tenuti alla castità. Inoltre, agli esordi del movimento, ai combattenti
era proibito mangiare il cibo preparato dalle donne così come era vietato
comprare qualsiasi mercanzia da una commerciante di sesso femminile.
La violazione delle regole può appunto provocare il ferimento o ad-
dirittura la morte del combattente. In genere viene stabilita una connes-
sione fra la norma violata e il tipo di ferita, che sia mortale o meno. Ad
esempio, se il combattente mangiando un pezzo di carne tocca un osso
dell’animale con i denti, allora la pallottola lo colpirà nel punto corrispet-
tivo del suo corpo31. Si tratta in sostanza di una relazione biunivoca di
causa/effetto, o anche di reato/sanzione, che può quindi essere stabilita
anche a partire dall’effetto. In quest’ultimo caso, ad esempio, la ferita a
una mano può segnalare che il combattente ha rubato proprio con quel-
la mano e ha violato così la regola della proibizione del furto. 33
Queste regole comportamentali, come abbiamo visto, ricalcano
quelle in uso presso i Simba negli anni Sessanta32, e a inizio secolo fra
i Maji-Maji della Tanzania. Nel caso del Congo la trasmissione di que-
sto corpus normativo e simbolico è avvenuta attraverso i reduci Simba
che nei primi anni Novanta furono interpellati dai bami del Masisi per
organizzare le milizie fra le popolazioni autoctone. Numerosi docteurs
furono iniziati ai segreti dell’acqua e i giovani cominciarono ad arruolarsi
in massa per divenire Mayi-Mayi, i guerrieri invincibili che affrontano il
nemico a viso aperto senza indietreggiare. Questa figura di combattente,
invulnerabile e di conseguenza molto coraggioso, ha dunque esercitato
una grande attrazione nei confronti dei giovani.
Nelle pratiche e nel simbolismo Mayi-Mayi è senza dubbio presente
un aspetto manipolatorio: in effetti molti combattenti, in molti casi bam-
bini, sono ingannati e mandati allo sbaraglio nel combattimento, convinti
di essere invulnerabili ai proiettili. Oltre alle valenze attrattive e manipo-
latorie, emergono alcuni aspetti funzionali: in primo luogo, queste norme
suppliscono alla penuria di armi, in molti casi anche desuete33, e alla scarse
nozioni di tecnica della guerra; in secondo luogo costituiscono una sorta
di disciplina militare che regola i rapporti interni al gruppo e le relazioni
con la popolazione civile. Tuttavia, a questo proposito, è indispensabile
sottolineare che ai giorni nostri i gruppi Mayi-Mayi ancora attivi nel Kivu
hanno smesso di rispettare le regole che li contrassegnavano all’inizio
della guerra. Nei primi anni del conflitto, infatti, i combattenti destavano
timore, ma anche rispetto e approvazione fra la popolazione proprio per
l’estremo rigore con cui si attenevano ai loro precetti. Al contrario, negli
ultimi anni i Mayi-Mayi, come si è dimostrato, hanno finito con l’assumere
un comportamento parassitario, lasciandosi andare ad abusi di ogni ge-
nere. In una guerra che ha visto trionfare l’opportunismo, i giovani com-
battenti hanno gradualmente rinnegato ogni velleità ideologica e, non
trovando più una ragione e un senso alla loro lotta, si sono abbandonati
a loro volta al sopruso e alla prevaricazione. Rapimenti di donne e stupri,
che i Mayi-Mayi di oggi perpetrano sistematicamente, sono fra le conse-
guenze più drammatiche della trasgressione delle norme che avevano
inizialmente contraddistinto il movimento.
11. Conclusioni
Pratiche magiche, segreti e rituali di guerra fra i ribelli Mayi-Mayi del Nord Kivu
corpus mitologico a cui l’attuale movimento Mayi-Mayi fa riferimento
per sostenere l’efficacia dei propri rituali di guerra e accreditare i propri
discorsi politici. Questa strategia mira a conquistare il consenso popola-
re e favorisce al contempo la mobilitazione dei giovani che si arruolano
numerosi nei ranghi delle diverse milizie. Allo stesso tempo le pratiche
rituali e i simboli Mayi-Mayi, in virtù del loro forte potere di persuasione,
suppliscono alla carenza di fucili e di armi moderne, così come avveni-
va in passato. Infine, nonostante la continuità simbolica con i movimenti
del passato,il fenomeno Mayi-Mayi è assolutamente moderno e non può
essere rilegato semplicemente alla sua dimensione locale poiché esso è
perfettamente connesso al resto del mondo dal momento partecipa ad
una economia di guerra ramificata a livello globale.
35
Note
1
Traduzione: ONU Leone ONU/ Leone Mulele acqua/ mamma sto andando
alla guerra/ non so se tornerò/ partorisci un altro figlio.
2
Mayi-Mayi è l’equivalente congolese di Maji-Maji, termine dello swahili let-
terario di Kenya e Tanzania.
3
Le pratiche rituali dei Mayi-Mayi sono riscontrabili in forme analoghe in
altri movimenti armati dell’Africa Equatoriale. Ad esempio, per citare quelli con-
temporanei, nella Lord’s Resistance Army di Joseph Koni nel nord dell’Uganda,
nel Revoultionary United Front della Sierra Leone e in alcune formazioni della
Liberia..
4
All’epoca del mio soggiorno nel Nord-Kivu i Mayi-Mayi di Kakule la Fontai-
ne controllavano i villaggi di Muhanga e Bunyatenge, in una regione di foresta
a circa sessanta chilometri a est di Lubero. L’accampamento era situato su una
collina dirimpetto al villaggio di Muhanga e ospitava dai cinquanta ai cento com-
battenti (non dispongo di cifre esatte data la riservatezza dei miei interlocutori
su questo argomento e l’impossibilità da parte mia di stimare con precisione il
numero dei guerriglieri per via dei loro continui spostamenti).
5
La guerra in Congo ebbe inizio nell’agosto del 1996, con la ribellione del-
l’Alliance des Forces Démocratiques pour la Libération du Congo/Zaïre (AFDL),
un movimento armato capeggiato da Laurent Désiré Kabila e sostenuto militar-
mente da Rwanda e Uganda. La ribellione aveva l’obbiettivo di rovesciare la dit-
tatura di Mobutu Sese Seko, il dittatore che dal 1965 “regnava” sul Congo (Zaïre)
con il beneplacito delle potenze occidentali, Stati Uniti e Francia per prime. La
campagna militare dell’AFDL, partita dalle regioni orientali del Nord-Kivu e del
Sud-Kivu, ebbe facilmente ragione delle truppe governative, demotivate e del
tutto prive di organizzazione. In poco meno di un anno le forze ribelli giunsero
alle porte della capitale Kinshasa e Mobutu fu costretto a lasciare precipitosa-
mente il paese per rifugiarsi in esilio in Marocco, dove sarebbe morto dopo pochi
mesi. Nel luglio del 1997, Kabila, con un discorso solenne pronunciato alla radio,
si autoproclamò presidente della Repubblica Democratica del Congo, il nuovo
nome del paese. Dopo trentadue anni di dittatura, la storia del Congo voltava
pagina ma le speranze in un futuro migliore, che la fine del regno di Mobutu ave-
va acceso nella maggioranza dei congolesi, furono ben presto deluse. La svolta
autoritaria di Kabila e ancor più la delusione dei suoi alleati Rwanda e Uganda,
che in cambio dello sforzo bellico avevano preteso di profittare delle enormi ric-
chezze minerarie del Congo e che invece erano stati messi alla porta dal nuovo
presidente, portarono di lì a poco a una nuova guerra. Nel luglio del 1998, sempre
nell’Est del paese, scoppiò una seconda ribellione, capitanata dal Rassemblement
Congolais pour la Démocratie (RCD), un movimento armato sostenuto dai governi
rwandese e ugandese. Questa seconda fase della guerra, che di fatto a tutt’oggi
non è ancora terminata nonostante gli innumerevoli accordi di pace e la crea-
zione nel marzo del 2003 di un governo di transizione, si è dimostrata ben più
cruenta e distruttiva della prima e ha causato un numero esorbitante di morti.
6
The Guardian, 15/11/1996.
7
I Kifua-Fua erano una milizia Mayi-Mayi attiva nei territori di Beni e Lubero.
Il gruppo si è sciolto alla morte del suo comandante Mutuka-Munene, e molti
guerrieri si sono in seguito arruolati in altre formazioni Mayi-Mayi.
36
8
Per la ricostruzione storica delle ribellioni in Tanzania nel periodo colonia-
Pratiche magiche, segreti e rituali di guerra fra i ribelli Mayi-Mayi del Nord Kivu
le ho fatto riferimento ai seguenti testi: Iliffe 1967; Iliffe 1979; Shillington 1989;
Gwassa 1976.
9
Questa è stata una delle prime ipotesi formulate da Iliffe, il quale ha finito
per sostenere che la credenza e l’accettazione della maji dipendessero essen-
zialmente dalle credenze e dalle circostanze locali, piuttosto che da una comune
tradizione religiosa (Cfr. Iliffe 1979: 191-193).
10
Sul culto di possessione kubandwa cfr. Pennacini 1998.
11
In effetti Mulele non si preoccupò esclusivamente della lotta armata, ma
riuscì a installare nella regione una amministrazione rivoluzionaria.
12
Vi erano comunque capi di altre tribù (ad esempio Kabila era un Luba del
Katanga) e Che Guevara testimonia la presenza di continue tensioni etniche al-
l’interno della ribellione. Probabilmente i dissidi esplosero con forza alle prime
sconfitte. Cfr. Che Guevara 1999: 18.
13
Il termine dawa in swahili significa “medicinali” e fa riferimento sia alla far-
macopea tradizionale sia a quella occidentale. In questo caso si tratta di com-
posti in polvere, che vengono generalmente preparati con la cenere di diversi
ingredienti: foglie, piante, ma anche parti del corpo di animali e uomini.
14
Per questa ricostruzione, oltre al testo di Ndaywel, ho utilizzato anche il
lavoro di Mbindule Mitono 2000: 11.
15
In realtà l’Armée Nationale Congolaise aveva opposto una resistenza pres-
soché nulla all’iniziale avanzata dei Simba.
16
Fra questi leader il più noto era Muvingi Nyamwisi, fratello di Mbusa
Nyamwisi. Muvingi venne assassinato da alcuni sicari di Mobutu nel maggio del
1993 a Beni. In seguito, suo fratello Nyamwisi si mise alla guida del movimento
ribelle dell’RCD-ML nei territori di Beni e Lubero e successivamente è divenuto
ministro della cooperazione regionale nel governo di transizione.
17
Queste milizie furono inizialmente chiamate Basimba, Batiri e Katuku.
18
A questo proposito il comandante La Fontaine mi ha dichiarato di essere
stato obbligato ad allearsi con gli Interahamwe poiché questi ultimi erano meglio
armati e organizzati ed era dunque impossibile affrontarli a viso aperto. Di fatto
però i due gruppi si davano insieme al saccheggio dei villaggi e dei veicoli che
circolavano sull’asse fra Goma e Butembo. In definitiva, per alcuni gruppi Mayi-
Mayi l’alleanza con gli Interahamwe ha costituito un’opportunità, soprattutto in
virtù del fatto che questi ultimi potevano disporre di una quantità superiore di
armi.
19
In particolare nel Sud-Kivu i Mayi-Mayi di Bunyakiri fra i Batembo, forti del-
l’appoggio degli Interahamwe e di alcuni elementi delle Forces Armées Zaïroises
allora in ritirata, si opposero inizialmente all’avanzata dell’AFDL. Più a sud, fra i
Babembe, le milizie Mayi-Mayi si contrapposero all’AFDL per via della loro rivalità
storica con i Banyamulenge che costituivano l’ossatura dell’esercito di Kabila.
20
Aderirono quasi subito all’AFDL i Mayi-Mayi Bangilima, una delle prime
formazioni attive nel Nord-Kivu.
21
Questo gruppo è stato, ed è tuttora, il movimento Mayi-Mayi più forte e
meglio organizzato dell’intero Kivu. (Cfr. Morvan 2004).
22
Ad esempio il gruppo di La Fontaine era inizialmente accampato a Mbin-
ghi, un villaggio situato lungo la strada che collega Butembo a Goma, una delle
vie di comunicazione più importanti della regione. Questa posizione permetteva
37
di assaltare con facilità i veicoli, un tempo numerosi, che trasportavano uomini e
mercanzie fra le due città. Nell’attività di saccheggio il gruppo era inizialmente
affiancato da alcune milizie Interahamwe presenti nell’area. In seguito, nel 2001,
La Fontane fu costretto a ritirarsi a ovest nei villaggi di Muhanga e Bunyatenge.
23
A questo proposito è interessante notare che i Mayi-Mayi, per via dei nu-
merosi tabu alimentari a cui sono sottoposti, si nutrono prevalentemente di carne
di vacca. Fra le possibili letture, non è a mio avviso azzardato interpretare questi
tabu alimentari come una forma di protesta sociale contro i grandi allevamenti
che occupano ampie porzioni di terra coltivabile a discapito della popolazione
rurale.
24
A fare le spese di questo sistema sono i minatori. Secondo alcune testi-
monianze, molti giovani si indebitano con i trafficanti di minerali per acquista-
re gli attrezzi per lo scavo: pale, picconi, setacci etc. In cambio del prestito sono
obbligati a vendere i minerali estratti esclusivamente al loro creditore che può
così imporre il proprio prezzo di acquisto. In questo modo molti giovani minatori
rimangano intrappolati in una situazione di debito perpetuo che li riduce a una
situazione paragonabile alla schiavitù.
25
Nel Nord-Kivu viene generalmente utilizzato il termine francese docteur
per indicare gli addetti alla preparazione della mayi. Fra i Mayi-Mayi del Sud-Kivu
queste figure vengono solitamente chiamate nganga, termine in lingua lingala
che significa “guaritore” in senso lato, utilizzato anche in riferimento ai medici.
26
In kiswhaili la baraza è la capanna dove tradizionalmente si riunivano i
saggi del villaggio.
27
L’interdizione di entrare nella baraza è una regola inderogabile e nell’ac-
campamento da me visitato nemmeno il comandate aveva il diritto di acceder-
vi.
28
Non voglio entrare qui nel merito degli ingredienti utilizzati per la prepara-
zione della mayi. Per ovvi motivi non è facile accedere a simili informazioni, a cui i
miei interlocutori hanno sempre accennato in modo molto vago.
29
Alcuni ex-combattenti mi hanno riferito che questa prima fase è seguita
da una verifica del potere dell’acqua, che consiste nello sparare direttamente sui
nuovi arrivati: al di là della veridicità o meno di queste testimonianze, è probabile
che vengano usati proiettili a salve.
30
Attualmente le norme vengono rispettate solo in parte. Nell’accampamen-
to di La Fontaine molti guerrieri vivono con la propria compagna, che si occupa in
generale della preparazione del cibo. Quando ho interrogato a questo riguardo
il comandante, la spiegazione “di comodo” che mi è stata fornita è che il docteur ,
con il passare del tempo, è in grado di perfezionare la mayi e i dawa, che acqui-
stano così un potere maggiore e non necessitano più del rispetto rigoroso delle
regole. Rimane tuttavia strettamente interdetto aver rapporti sessuali con donne
durante il periodo mestruale.
31
Un esempio per chiarire questo punto: se un combattente mangiando
sfiora con i denti l’osso della gamba di una vacca, sarà a sua volta colpito a una
gamba da una pallottola. Qualora un soldato Mayi-Mayi accorra in un incidente
del genere, cosa piuttosto frequente, sono previste delle pratiche riparatrici. In
questo caso l’osso va mangiato completamente oppure bruciato: in definitiva è
essenziale che esso sparisca.
32
Sulla ribellione dei Simba i lavori più esaurienti, che includono un’analisi
38 concisa delle credenze magiche, sono i testi di Benoit Verhaegen oltre a Coquery-
Vidrovitch, Forest e Weiss, 1987.
Pratiche magiche, segreti e rituali di guerra fra i ribelli Mayi-Mayi del Nord Kivu
33
Nei primi anni Novanta, come ho già detto, i Mayi-Mayi utilizzavano preva-
lentemente armi bianche. Attualmente dispongono di fucili automatici kalash-
nikov (AK47), e più raramente di bombe a mano, lancia razzi (RPG), mortai (60/80)
e machine-gun (MAG). Tuttavia, qualità e quantità dell’armamento variano sensi-
bilmente da gruppo a gruppo.
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40
Retoriche e politiche dell’intolleranza:
l’immaginario coloniale sulle società segrete dell’Africa centrale.
di Stefano Allovio
1. Società segrete
I
n ambito antropologico si utilizza il termine “società segrete” per de-
finire in modo elastico e generico associazioni di solito volontarie, in-
centrate intorno a conoscenze non accessibili agli estranei. I membri
delle società segrete agiscono insieme per il raggiungimento di deter-
minati obiettivi in uno spirito di solidarietà e mutuo soccorso. Per ciò che
concerne il continente africano esistono due aree in cui tali istituzioni si
sono particolarmente sviluppate: l’Africa occidentale e il bacino del Con-
go (soprattutto la parte orientale).
Non di rado, le società segrete sono connesse ai riti di iniziazione
alla vita adulta. Tale connessione risulta evidente proprio in relazione ai
processi di costruzione e formazione dell’essere umano (processi antro-
po-poietici) messi in atto in determinate culture. Infatti, in alcuni contesti
etnografici dopo essere diventati uomini attraverso i riti di iniziazione
alla vita adulta è possibile diventare uomini perfetti o comunque rien-
trare in una categoria di individui dotata di poteri, capacità e prestigio
particolari come è il caso dei membri delle società segrete.
L’appartenenza a una associazione segreta può essere interpretata
come il raggiungimento di un ulteriore stadio del proprio processo an-
tropo-poietico. Un caso emblematico è l’adesione alla società koro fra i
Minyanka dell’Africa occidentale (Colleyn 1975). Appartenere a tale “con-
fraternita” vuol dire raggiungere il limite ultimo della perfettibilità uma-
na e l’iniziazione al koro è inseparabile dall’accesso allo status di maschio
adulto: infatti solo i circoncisi possono farne parte e nei villaggi dove esi-
ste il koro tutti i maschi adulti non iniziati sono considerati donne.
Come è stato giustamente sottolineato dallo studioso belga De Jon-
ghe nel 1923, le società segrete dell’Africa sono società chiuse, piuttosto
che società realmente segrete. I profani, in realtà, conoscono gli adepti,
sanno dove e quando questi si radunano, ma ignorano ciò che si dico-
no e ciò che fanno durante le riunioni. Di solito queste associazioni si
presentano come unità sociali all’interno di gruppi umani più ampi; anzi,
l’esistenza e la forza di una società segreta dipende dal fatto che molti
membri della popolazione in cui è inserita non vi aderiscono.
La chiusura di tali associazioni acquista un importante significato
politico in determinati periodi di crisi e di forte minaccia dell’integrità
sociale. Per esempio, nei primi decenni dell’occupazione belga in Congo,
le cosiddette società segrete (molte di esse costituite da poco o addirit- 41
tura in concomitanza all’arrivo dei bianchi) furono oggetto di interesse
per molti amministratori coloniali e studiosi, in quanto si supponeva po-
tessero agire come associazioni sovversive e xenofobe oppure potessero
costituirsi come movimenti profetici ispirati da specifiche interpretazioni
delle Sacre Scritture (in particolare l’Antico Testamento) e incentrati sulla
rivincita delle popolazioni locali oppresse dal dominio straniero (De Jon-
ghe 1936, Comhaire 1955, Lanternari 2003).
Fin dai primi resoconti etnografici è apparso difficile racchiudere le
differenti società segrete dell’Africa centrale in un’unica tipologia. Tali
istituzioni, infatti, si differenziano per struttura, scopi e funzioni. Focaliz-
zando l’attenzione inizialmente sul bacino del Congo e sulle zone limi-
trofe del Sudan e dello Zambia si ritiene possa rappresentare una buona
base di partenza la suddivisione delle associazioni segrete o chiuse in
due categorie:
a) esistono società segrete che si connettono ai rituali di iniziazione
alla vita adulta. In questi casi, l’appartenenza a una società segreta è ri-
servata a coloro che sono già stati iniziati come uomini e che desiderano
- attraverso un’iniziazione supplementare - specificare ulteriormente una
personale ed esclusiva identità. In tali società è facile che siano ammessi
soltanto individui con particolari caratteristiche (es. maschi adulti e cir-
concisi) e che la società stessa si diffonda solo su un territorio circoscritto
e abitato da un solo gruppo etnico o da più gruppi aventi forti analogie
culturali. Rientrerebbero in questo raggruppamento la già citata società
koro dei Minyanka e in un certo senso l’associazione degli uomini leo-
pardo (aniota) probabilmente connessa al mambela (il rito di iniziazione
dei Babali)1;
b) altre società segrete sembrano invece svincolate dai riti di inizia-
zione alla vita adulta e l’appartenenza a esse non è il raggiungimento
di un’ulteriore tappa nel processo antropo-poietico. Le associazioni che
rientrano in questo raggruppamento non sono di solito riservate a una
categoria specifica di persone determinata dal sesso, dall’età o dallo sta-
tus sociale. Inoltre, è raro che tali società segrete si diffondano soltanto
entro i confini etnici di un gruppo. In questa categoria si possono an-
noverare la società di origine zande denominata mani, la società butwa
diffusa in tutto il Katanga e nello Zambia settentrionale (Anon 1948, Mu-
sambachime 1994) e il nebeli, l’associazione segreta diffusasi nei domini
Mangbetu.
Le società mani, butwa e nebeli, oltre a essersi diffuse su vasti territori,
sono accomunate dal fatto di avere adepti di entrambi i sessi e di tutte
le età, di essere svincolate da ogni altra forma di iniziazione “tribale”, di
orbitare intorno ai valori della forza e della ricchezza personale, di intrat-
tenere rapporti di mutuo soccorso che trascendono la famiglia, i vincoli
clanici e i confini etnici, favorendo così un’ampia diffusione della stessa
42 istituzione.
2. Laicità, apertura e complessità
Retoriche e politiche dell’intolleranza: l’immaginario coloniale sulle società segrete dell’Africa centrale
Benché sia mia intenzione riferirmi in queste pagine ancora al ne-
beli, al mani e al butwa, vorrei per il momento sottolineare una mancata
corrispondenza fra l’immaginario occidentale sulle società segrete afri-
cane e la realtà. Con il rischio ovviamente di generalizzare si potrebbe
ammettere che la percezione in Occidente delle società segrete africa-
ne è caratterizzata dal pensarle strettamente connesse a un ambito che
definirei magico-religioso-esoterico2. Forse ciò può essere corretto per
alcune cosiddette “società segrete” (soprattutto dell’Africa occidentale),
ma per ciò che riguarda quelle dell’Africa centrale, esse sembrano mag-
giormente caratterizzate da laicità, apertura e logiche di mercato, ovvero,
valori riconducibili più alla modernità che al “mondo dei primitivi”.
Si potrebbe per intanto definire le società segrete con l’aiuto di colo-
ro che direttamente o indirettamente si sentono coinvolti: gli autoctoni,
i locali, gli indigeni.
Nel maggio del 2002 ad Abidjan si è tenuto un convegno sull’idea di
accademia e le esperienze accademiche in Africa. Il ricercatore ivoriano
N’Guessan François Kouakou ha invitato a riflettere sul fatto che anti-
che istituzioni locali possono essere ricondotte all�idea di accademia. In
particolare, ha sottolineato come presso i Senufo, la società segreta poro
assomigli a una istituzione accademica in quanto promotrice e portatrice di
specifiche conoscenze sulla realtà.
Banda Charles, il mio principale informatore mangbetu sulle società
segrete, amava ripetere che il nebeli, la società segreta diffusa nei territori
del Congo Nord-Orientale, era una sorta di ospedale3.
In molti documenti recenti, i locali definiscono le società segrete come
forme di sindacati indigeni oppure, associazioni di mutuo soccorso.
Accademie, ospedali, associazioni di mutuo soccorso. E’ sorprenden-
te come il punto di vista del nativo su ciò che gli osservatori europei (fun-
zionari coloniali, missionari, etnologi) hanno definito “società segrete”
pensate dagli stessi come ricettacoli di credenze e superstizioni indige-
ne, si basi su concetti alquanto laici.
In realtà, ribadendo ciò che ha sottolineato De Jonghe nel 1923, le
società segrete dell’Africa sono società chiuse, piuttosto che società real-
mente segrete. Benché questa precisazione di De Jonghe sia ampiamen-
te condivisa e ritenuta di buon senso, occorre riflettere se la correzione
lessicale da “società segrete” ad “associazioni chiuse” sia sufficiente a defi-
nire ciò di cui stiamo parlando. Pur essendo vero che queste associazioni
si presentano come unità sociali all’interno di gruppi umani più ampi,
i confini ipotetici dell’associazione e della sua diffusione delineano un
quadro estremamente aperto.
Gran parte delle associazioni chiuse dell’Africa centrale sono carat-
terizzate da una reale chiusura nei confronti dei non iniziati, ma anche 43
da una forte apertura nei confronti di altri gruppi etnici diffusi su un
territorio molto vasto. Inoltre la chiusura nei confronti dei non iniziati
non implica mai la negazione della possibilità di nuove adesioni. Anzi,
queste sono ampiamente auspicate. Un ulteriore elemento di apertura
è determinato dalla facilità con la quale i repertori simbolici e i “ritrovati”
vengono mescolati, scambiati e sostituiti in un quadro regionale dove
le stesse singole società segrete si influenzano notevolmente. Occorre
ricordare che la maggior parte delle società segrete dell’Africa centrale
nascono e si affermano attorno a un potente prodotto o ritrovato (che se
chiamassi “magico” sarebbe più comprensibile, ma non sono sicuro che
sia corretto) capace di soddisfare i desideri dei membri dell’associazione
conferendo loro salute, fortuna, ricchezza ecc.
Laicità e apertura, a mio parere, possono essere concetti utili per
interpretare le società segrete. A ben vedere, se il laico – secondo una
definizione data da Claudio Magris – è «chi sa aderire a un�idea senza re-
starne succube, impegnarsi politicamente conservando l�indipendenza
critica» (Magris 2006: 26), allora i membri di molte delle società segrete
dell�Africa centrale sono fortemente laici, nel senso che aderiscono a una
specifica società segreta convinti della forza del ritrovato e del suo valo-
re aggregante e politico (anticoloniale in alcuni casi), ma non esitano a
riformarla nel momento in cui si sperimenta l�inefficacia del ritrovato o si
ritiene più efficace il ritrovato di altre associazioni.
Le cosiddette società segrete non sono caratterizzate soltanto da
apertura e laicità, ma anche da una molto profana logica di mercato. I
“segreti”, ovvero i ritrovati cosiddetti magici, viaggiano molto, si diffon-
dono al di là di ogni confine etnico e nazionale per il semplice fatto che
vengono valutati sulla base della loro efficacia e bellamente venduti e
comprati. Al riguardo sono interessanti le riflessioni di Evans-Pritchard
sulla società mani degli Azande insediati fra Congo e Sud Sudan. Come
la maggior parte delle società segrete, anche il mani nasce e si afferma
intorno alla presunta forza di un ritrovato che, come ricorda il grande
antropologo britannico, non deve essere mai donato, pena la perdita
della sua efficacia. «Se le medicine non si rendono conto di essere state
comprate perderanno il loro potere. Il titolo di proprietario deve essere
acquisito pagandolo» (Evans-Pritchard 2002: 242). Evans-Pritchard, nel
riportare informazioni sul mani, è consapevole dei limiti di una ricerca
etnografica su tale argomento, condotta negli anni della colonizzazione
britannica. Le società segrete in Sudan come in Congo vennero vietate;
ciò non fece altro che aumentare la segretezza delle stesse. La loro illega-
lità e clandestinità portarono Evans-Pritchard ad essere molto dubbioso
sulla validità etnografica delle sue fonti e dei dati in suo possesso. Nono-
stante ciò, l’idea di compravendita dei segreti e dei ritrovati, è una delle
poche affermazioni sul mani che si sente di riportare e che ritiene non
44 condizionata dalle questioni coloniali4.
Le società segrete dell’Africa centrale non sono solo caratterizzate
Retoriche e politiche dell’intolleranza: l’immaginario coloniale sulle società segrete dell’Africa centrale
da apertura, laicità e logica di mercato, ma anche da una notevole com-
plessità strutturale. In molti reseconti di funzionari coloniali e missionari,
l’organizzazione e le gerarchie interne delle società segrete sono descrit-
te con minuzia di particolari, e come si vedrà, in certi casi, con una certa
inquietudine.
Retoriche e politiche dell’intolleranza: l’immaginario coloniale sulle società segrete dell’Africa centrale
ne-Beaufaict) vengono iniziati al nebeli allorché esprimono il desiderio
di sapere qualcosa di più su di esso. Il testo di de Calonne-Beaufaict del
1909 dedicato agli Ababwa e uno specifico saggio di Delhaise-Arnould
del 1919 sono fonti molto importanti per indagare il nebeli.
In questi scritti, soprattutto nel testo di de Calonne-Beaufaict emer-
gono i reali motivi per cui le società segrete vennero osteggiate dalla
colonia: 1) l’adesione massiccia dei capi locali e della popolazione; 2)
l’estensione interetnica e internazionale, ovvero le connessioni con il Su-
dan. Scrive de Calonne-Beaufaict:
Retoriche e politiche dell’intolleranza: l’immaginario coloniale sulle società segrete dell’Africa centrale
Okondo all’inizio del ’900, era collocata al centro dello spiazzo pubblico,
era un simbolo di potere e di forza palese e manifesto.
Nel momento in cui il potere dei capi tradizionali viene ridimensio-
nato, nuove costruzioni si impongono, come per esempio i tribunali in-
digeni dell’amministrazione coloniale o gli edifici in muratura preposti
ad accogliere sul territorio i membri della corona belga. E’ importante
riflettere che proprio negli anni in cui il negbamu, la grande costruzio-
ne delle adunanze, che richiama nel nome la forza e l’organo sessuale
maschile, torna alla sua dimensione domestica svuotandosi di ogni si-
gnificato politico, si afferma il nebeli del nenzula (probabilmente diverso
dal nebeli delle acque), dove, è bene ricordare, il nenzula è un ritrovato
confezionato a partire dallo sperma. La forza sessuale maschile subisce
un trasferimento obbligato dalla sfera pubblica e manifesta (il negbamu)
a una sfera individuale e segreta (il nenzula che ogni membro si porta
assicurato alla cintura)7.
Retoriche e politiche dell’intolleranza: l’immaginario coloniale sulle società segrete dell’Africa centrale
new converts, Ubutwa had to give way (1994: 91).
Benché sia chiaro che il nebeli, come altre società segrete (per esem-
pio il butwa e il mani) vengano osteggiate da coloni e missionari a parti-
re dalla loro apertura, efficacia organizzativa, propensione interculturale,
propositi rigenerativi e pratiche rituali percepite come possibili imitazio-
ni di quelle cristiane, è necessario costruire un immaginario su di esse
che giustifichi la netta contrapposizione e quindi le politiche di soppres-
sione.
E’ proprio negli anni Trenta e Quaranta che, nei testi di missionari e
coloni, il nebeli viene sconnesso definitivamente da tematiche inerenti
l’organizzazione sociale, il mutuo soccorso ecc. per essere connesso in
modo indissolubile a ciò che in Europa si intende con termini come stre-
goneria, magia nera, feticismo, superstizioni, e sul piano giuridico alle at-
tività criminali.
Nelle memorie del missionario domenicano Lelong, in servizio per
molti anni nei territori mangbetu, il nebeli diventa un elemento accomu-
nabile al mapingo e al notu, ovvero alle pratiche di divinazione, magia
e stregoneria. La fonte principale di Lelong per carpire informazioni sul
nebeli è un catechista indigeno, al quale viene chiesto di interpretare le
pratiche magiche mangbetu nel suo insieme e indirettamente di trarne
conclusioni di ordine morali.
51
Naturellement, ces divers procédés magiques [mapingo, notu, nebeli]
peuvent se conjuguer, et le brave Thomas Djembete, que j’ai choisi à cause
de son intelligence et aussi parce que, affranchi de ces superstitions, il est en
état d’en parler avec sincérité, se donne maintenant beaucoup de peine pour
faire entrer dans ma tête de Blanc ces choses de Noirs si difficiles. Chemin fai-
sant, il laisse transpirer ses sentiments de vrai chrétien, et le catéchiste zélé qui
est en lui déplore l’emprise que ces pratiques ancestrales exercent toujours
sur les catéchumènes. C’est un apôtre qui parle et il exagère un peu, comme
les Pères de l’Eglise et les prédicateurs de touts les temps (Lelong 1946: 255).
Les blanc ont, je crois, trop souvent l’illusion de tout savoir. Exonérées
de tout contrôle, de semblables organisations se livrent certainement à des
actes obscènes, à des excès immondes. Un Musulman instruit qui connaît
beaucoup les pays noirs déclarait récemment : «Vous pouvez me croire, ce
qu’a fait le Maréchal Lyautey pour les musulmans, c’est du fer semé pour
récolter de l’or. Nous, Mahométans, nous avons partout, et surtout dans le
sud, intérêt à ce que votre religion et la nôtre réalisent de grands progrès et
réunissent à mieux s’imposer, surtout pour balayer et détruire le fétichisme.
L’ennemi principal de toute évolution, voyez-vous, c’est le sorcier noir». De
pareilles opinions se passent de commentaire. Amener les esprits incultes à
la vie morale par le sentier de la Vérité, de la Charité et de la Foi, c’est forger
l’avenir de la race, extirper de ces âmes frustes les préjugés ancestraux, c’est
diriger la barque de la colonisation vers les rives de la perfection (Delhaise-
52 Arnould 1931: 3464).
6. Perdita della laicità e condanna
Retoriche e politiche dell’intolleranza: l’immaginario coloniale sulle società segrete dell’Africa centrale
La condanna delle società segrete da parte dei colonizzatori e dei
missionari, passa attraverso una variazione concettuale e linguistica che
colloca qualsiasi retorica sulle società segrete su un piano magico-religio-
so-morale tralasciando o dissimulando l’ambito politico-organizzativo.
Nella letteratura coloniale, i prodotti a base di erbe con l’aggiunta di
ingredienti particolari – come per il dawa del nebeli, lo sperma umano -
diventano sostanze magiche e prodotti diabolici. Gli scarni repertori sim-
bolici (per il nebeli, il fuoco nel luogo delle riunioni, una coppia di statuet-
te lignee, i fischietti) diventano feticci e terrificanti strumenti di magia. I
rituali di iniziazione dei nuovi associati (in molte società segrete, sono gli
unici rituali previsti) diventano riunioni segrete dove ci si abbandona a
comportamenti osceni e immorali.
La perdita della laicità nella terminologia descrittiva delle società
segrete (descritte da molti autori come sindacati, associazioni di mutuo
soccorso) è una perdita dell’innocenza. Molte società segrete vengono
descritte come “sette” oppure come “sette sataniche”. I rapporti su di esse
trovano spazio sulle pagine delle riviste giuridiche coloniali all’interno
della sezione dedicata ai “crimini e superstizioni indigene”. Può sembra-
re sorprendente alla luce dell’immaginario europeo sulle società segre-
te dell’Africa centrale, ma non ci sono stati casi dimostrati di omicidi di
bianchi ad opera di affiliati a società segrete, neppure i famigerati uomini
leopardo bali hanno mai ucciso un bianco.
Come si è accennato in precedenza, gli amministratori coloniali fan-
no fatica ad argomentare la pericolosità delle società segrete alla luce
di aspetti e valori che loro stessi valuterebbero come positivi. I casi di
associazionismo locale che trascendono i legami di parentela e di appar-
tenenza etnica vengono in molti casi elogiati (anche se temuti) dagli am-
ministratori coloniali in scritti di scienza della pubblica amministrazione
coloniale. Le società segrete alla luce della loro laicità, della loro apertura,
del loro partecipare alle logiche di mercato appaiono troppo “moderne”
per poter essere contrapposte alla civiltà che si supponeva di diffonde-
re in Africa, ma al contempo erano troppo pericolose perché potenzial-
mente in grado di costruire reticoli sociali ampi, potenti, transnazionali e
non direttamente riconducibili alle esigenze di uno stato coloniale.
Molto più funzionale agli intenti dei colonizzatori è stato il focalizzare
l’attenzione, i discorsi e le retoriche intorno al rapporto fra la ritualità e la
corporeità insite nelle società segrete e i valori cristiani. Questo confron-
to è avvenuto solo successivamente a ciò si potrebbe definire un “tran-
sfert di religiosità” (una attribuzione di religiosità), in questo caso non
tanto causato dagli attori coinvolti, ma dagli osservatori esterni8. Sono i
colonizzatori e soprattutto i missionari che costruiscono il mondo segre-
to delle società segrete riconducibile al “sacro”, alla religione, ai culti, alle 53
“superstizioni”, un mondo esoterico chiuso su se stesso per nascondere
pratiche magico-religiose. Una volta attribuita la religiosità nel mondo
segreto delle società segrete non fu difficile demolire e condannare l’in-
tero edificio dell’associazionismo locale: non fu difficile, infatti, intravede-
re i feticci, i culti e l’immoralità delle pratiche e dei repertori simbolici.
Rifacendomi ad un noto episodio riportato nel Nuovo Testamento,
si potrebbe sostenere che quando proprio non ci si riesce ad indignarsi
perché non si vedono mercanti da cacciare dal tempio è sufficiente co-
struire intorno ai mercanti disponibili nei paraggi e all’insaputa di essi un
tempio. In tal modo è stato possibile nutrire le retoriche contro le socie-
tà segrete di una argomentazione aggiuntiva: l’immoralità delle stesse
è dovuta al fatto che praticano il commercio di oggetti legati ai culti, e
che inseguono la ricchezza personale mentre sono immersi in faccende
religiose.
Ancor più semplice è stato spogliare, denudare dei significati indi-
geni connessi al potere politico tutto ciò che era riconducibile alla forza
sessuale maschile (il coito, lo sperma, il nenzula, il pene ecc.) e ricondurlo
con un atto pornografico (questo si!) alla sfera della moralità individuale
cristiana.
Così come da Evans-Pritchard in poi si è iniziato a interpretare la
stregoneria in vari contesti africani come un potente dispositivo narra-
tivo capace di spiegare molte cose (dai piccoli incidenti domestici, agli
accumuli di ricchezze in una economia di mercato, all’insorgere e al dif-
fondersi di un virus terribile come l’Aids), attribuire l’etichetta di “società
segreta”, non prima di averne deformato il significato in chiave immorale
e criminale, è diventato nel corso del Novecento un dispositivo narrativo
per denigrare e infamare sodalizi indigeni. Per quanto concerne il Sud
Sudan è sempre lo storico Johnson a ricordare come negli anni Sessanta
le chiese pentecostali vennero condannate ufficialmente dallo Stato per-
ché rientranti nella categoria giuridica delle società segrete. La società
segreta era diventata una etichetta giuridico-morale che risolveva molte
questioni poco definibili.
54
Note
Retoriche e politiche dell’intolleranza: l’immaginario coloniale sulle società segrete dell’Africa centrale
1
Sul fenomeno dell’”aniotismo” si vedano: Bouccin 1935, 1936; Moeller
1936; Joset 1960; Cyrier 2000
2
Con “ambito magico-religioso-esoterico” non si vuole definire una cate-
goria meditata che possa appartenere alla strumentazione analitica dell’osser-
vatore, tanto meno corrispondere a un idea locale, ma soltanto denominare un
frammento del nostro immaginario.
3
Alla società segreta del nebeli ho dedicato parte delle mie indagini sul cam-
po di cui si da resoconto principalmente in Allovio 1999.
4
Sulla società mani si veda anche il saggio di Evans-Pritchard del 1931.
5
Gli studiosi che si sono occupati del nebeli sono concordi nell’identificarne
la zona di origine nei territori settentrionali rispetto agli insediamenti medje-
mangbetu: per Delhaise-Arnould (1919: 284) sono stati i capi Abarambo, Man-
gbetu e Baboa ad aver creato la società segreta per opporsi all’invasione zande;
secondo Lagae (1926: 123), il nebeli è apparso inizialmente fra i Mayogo per poi
diffondersi fra gli Abarambo e i Madi, mentre è fra i domini di questi ultimi che
sarebbe sorto secondo Philippe (1962: 98). Le interviste condotte direttamente
sul terreno hanno confermato l’origine nei territori settentrionali e la lenta diffu-
sione verso sud.
6
L’amministratore coloniale Delhaise-Arnould fu iniziato al nebeli in terri-
torio ababwa nel 1911 e riferisce che il ritrovato magico nzula è composta da
una specifica pianta ridotta in polvere e mescolata con acqua (Delhaise-Arnould
1919: 289).
7
Lo stesso transfert dallo spazio pubblico allo spazio corporeo privato lo
si registra nell’aniotismo dove la pelle di leopardo non è più portata al capo in
segno di ossequio e di rinnovamento dell’autorità politica, ma la si incorpora: Ci
si veste con le pelli del leopardo e con l’aiuto di protesi in metallo si terrorizzano
i nemici.
8
Il concetto “transfert di religiosità” è liberamente desunto da ciò che Daniel
Fabre (2001: 118) definisce come “transfert di sacralità”: il fatto che nell’Europa
contemporanea, l’estromissione della religione da una posizione centrale ha de-
terminato il suo trasferimento in ambiti di “alta intensità collettiva” come il ceri-
moniale politico, lo spettacolo sportivo, i concerti e i raduni musicali dei giovani.
55
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57
Pratiche musicali, poteri e segreti: Alhaji Abubakari Lunna
tra il Dagbon e il Massachusetts
di Nicola Scaldaferri
1. Introduzione
L
a ricerca di cui qui si traccia un primo resoconto si è occupata della
ricognizione di materiali su pratiche musicali del Ghana nell’ambito
delle indagini sull’Africa sub-sahariana promosse dall’unità milane-
se del PRIN 2004; tali pratiche sono state osservate in relazione alle tema-
tiche dell’apertura e chiusura di specifiche comunità e della gestione del
potere in riferimento a saperi segreti.
La possibilità di operare con l’ausilio di un collaboratore tecnico (nel
caso specifico, la collaborazione di Elisa Piria come fonico) e di utilizzare
le attrezzature del Laboratorio di Etnomusicologia e Antropologia Vi-
suale dell’Università di Milano (LEAV), ha fatto prefigurare fin dal primo
momento un approccio che desse peso alla componente multimediale
della ricerca. Questo ha spinto a privilegiare, nel lavoro sul campo come
in sede di elaborazione dei dati, la centralità di documenti sonori e di
materiali audiovisivi rispetto ad altri dati. Il presente testo è dunque da
considerare complementare a Singing Drums. Alhaji Abubakari Lunna,
musicista Dagomba (riprese di Nicola Scaldaferri, registrazione sonora
di Elisa Piria, montaggio di Tommaso Vitali, 17’, LEAV 2006), il primo dei
due documentari previsti quale illustrazione conclusiva dei risultati della
ricerca.1
Il lavoro sul campo, svolto con Elisa Piria e concentrato tra agosto e
settembre 2006 in due specifiche aree del paese (al nord, tra i Dagom-
ba, nei pressi di Tamale, e al sud nella regione della capitale Accra), ha
rappresentato l’ultima tappa di un percorso di ricerca avviato parecchi
mesi prima; questa ricerca si era mossa sul piano della ricognizione di
materiali bibliografici e sonori, ma anche su quello dell’individuazione
di obiettivi che rispondessero da un lato alle finalità del PRIN, e dall’altro
a criteri realistici di fattibilità nell’economia del tempo a disposizione. Il
Ghana si è rivelato un terreno particolarmente favorevole, soprattutto
per la quantità di dati bibliografici e discografici disponibili, frutto di ri-
cerche talvolta di grande originalità compiute negli ultimi anni; questo
sia in merito alle tematiche che ci si proponeva di indagare nell’ambito
del PRIN, quali quelle relative alle comunità chiuse e ai segreti (il paese
vanta, come è noto, una consolidata tradizione di studi, ad esempio, sul-
le società segrete), ma soprattutto per quanto riguarda la componente
musicale. Il Ghana infatti ricopre un peso enorme nella definizione di me-
todi e obiettivi di indagine nello studio delle musiche dell’Africa nera, in 59
una prospettiva locale così come in riferimento ai più avanzati dibattiti
sul piano internazionale.
Analogamente agli altri paesi dell’area, il Ghana costituisce un con-
tenitore politico-geografico con una varietà di gruppi etnici, religiosi e
linguistici, che risentono talvolta i contraccolpi di turbolenze delle nazio-
ni vicine; esso presenta tuttavia una situazione relativamente tranquilla
che ha agevolato la presenza e il movimento di studiosi e di studenti,
soprattutto stranieri, promuovendo nel contempo progetti di scambio e
gemellaggi anche a livello istituzionale. Ricordiamo anche, per inciso, che
si tratta del primo paese ad aver ottenuto l’indipendenza dalla domina-
zione britannica nel 1957 (che ha coinciso con l’adozione del nome Gha-
na in sostituzione del vecchio nome coloniale di Golden Coast), evento
di cui quest’anno cade il cinquantesimo anniversario.
Pratiche musicali, poteri e segreti: Alhaji Abubakari Lunna tra il Dagbon e il Massachusetts
Steven Feld, approdato in Ghana dopo i famosi studi sulla Nuova Guinea
e sull’antropologia del suono, e che oltre a portare alla notorietà alcu-
ne espressioni musicale finora sconosciute,5 sta studiando le forme di
contaminazione tra realtà autoctona e influssi che giungono dalla musi-
ca europea e americana. Feld in particolare conduce un’indagine (nella
quale è anche impegnato in prima persona come musicista) relativo al
‘ritorno’ del jazz in Ghana e in Africa occidentale, soprattutto tramite la
figura di John Coltrane; questa prospettiva ribalta il consueto percorso di
ricerca delle radici nell’Africa occidentale della musica americana, sotto-
lineando invece la componente multiculturale e cosmopolita della con-
temporaneità africana, soprattutto delle grandi aree urbane.6
Va poi menzionata la presenza in Ghana di enti, associazioni, cen-
tri culturali (talvolta, ma non necessariamente, collegati all’attività di
missionari), spesso in contatto anche con istituzioni straniere, dediti a
compiti formativi e di supporto per la ricerca e la didattica nel campo
dell’etnomusicologia e dell’etnografia. L’attività di questi centri è rivolta
esplicitamente agli stranieri, e in più casi alimenta una sorta di mercato
culturale, anche con la vendita di prodotti e servizi a scopo più o meno
turistico.
Tra i tanti, ne ricordiamo alcuni di indubbio prestigio e valore come
il TICCS (Tamale Institute of Cross-Cultural Studies), che ruota attorno alla
figura del missionario canadese Jon Kirby ed è un punto di passaggio
obbligato (anche per la sua importante biblioteca) per tutti gli studiosi
interessati al nord del Ghana; oppure associazioni che funzionano prin-
cipalmente come scuole di musica, soprattutto per gli strumenti a per-
cussione, come il Dagbe Cultural Institute and Arts Centre, fondato nella
regione del Volta da Godwin Agbeli nel 1982; senza dimenticare le sedi
locali di istituzioni straniere, come la sede di Accra della New York Univer-
sity, che promuovono significative attività anche sul fronte musicale.
La presenza di una consolidata tradizione di studi, sia dal punto di
vista della descrizione dei fenomeni del territorio che in relazione agli
aspetti interpretativi (e di cui qui si è fornito solo uno sguardo somma-
rio), ha rappresentato un riferimento importante ai fini della definizione
degli obiettivi di ricerca. Certamente appare molto evidente la stretta
connessione del Ghana, a vari livelli e su varie tematiche, con il mondo
anglofono e soprattutto l’altra sponda dell’Atlantico. Tale connessione è
dovuta a diverse ragioni, in primo luogo storiche e politiche (dalla storia
della Golden Coast fino al ruolo del ghanese Kofi Annan quale segretario
generale dell’ONU), e che trovano un’indubbia rispondenza nell’indagi-
ne su tematiche musicali. La relazione con gli USA, in particolare, si im-
pone come tema imprescindibile di discussione, proprio per l’azione di
ritorno che tutto ciò che ha avuto a che fare con l’America ha esercitato,
soprattutto negli ultimi decenni, anche su argomenti di rilevanza appa- 61
rentemente locale. La fase di preparazione di questa ricerca ha coinciso
peraltro con un soggiorno svolto negli USA;7 questo ha favorito contat-
ti e discussioni con numerosi studiosi americani attivi in Ghana, contri-
buendo a mettere a fuoco l’oggetto del lavoro sul campo in relazione
alle varie problematiche che stavano emergendo. Grazie soprattutto ai
contatti con David Locke, attualmente professore presso la Tufts Univer-
sity di Meadford, nel Massachusetts, il tema principale della ricerca è an-
dato focalizzandosi sui Dagomba, una popolazione di religione islamica
assai legata a pratiche tradizionali, e soprattutto sulla figura dei lunsi, i
loro musicisti professionisti; attorno a queste figure si possono infatti os-
servare significative dinamiche di apertura o chiusura dei gruppi sociali
in riferimento alla detenzione di saperi musicali più o meno segreti.
Pratiche musicali, poteri e segreti: Alhaji Abubakari Lunna tra il Dagbon e il Massachusetts
territorio dove vivono viene chiamato Dagbon. La città principale, che
funge anche da centro amministrativo della regione del Nord del Ghana,
è Tamale.9
Numerosi studi sono stati effettuati sugli aspetti sociali, linguistici
e musicali dei Dagomba, ed è stato costantemente sottolineato il ruolo
centrale, ad un tempo artistico ma anche sociale, dei lunsi, sia in quan-
to membri di clan ereditari di cantori e percussionisti rigorosamente
strutturati, sia per i contenuti tramandati dalle loro performance. Proprio
i testi cantati e suonati col tamburo da questi musicisti consentono la
conservazione e la trasmissione di fatti storici del Dagbon. Il ruolo dei
lunsi è importante anche nella trasmissione di proverbi e storie di fami-
glia, nonché durante i funerali, le visite e le attività dei capi e i momenti
di intrattenimento.
I tamburi usati dai lunsi sono solitamente di due tipi. Il primo, e più
importante, è chiamato lunna (anche lunga), ed appartiene a una tipolo-
gia di strumento diffusa in varie zone dell’Africa occidentale. Si tratta di
un tamburo a clessidra bipelle, con numerose cinghie in pelle di antilope.
Può essere di varie dimensioni che sono identificate con nomi diversi;
viene utilizzato sia solo come strumento a percussione che per l’accom-
pagnamento del canto. Lo strumento è tenuto stretto sotto un braccio,
in modo da poter alterare, con la pressione sulle cinghie, la tensione della
pelle; lunna è percosso da un bastone curvo (lunnaduelé) tenuto dall’al-
tra mano. È il più classico dei tamburi parlanti proprio per la possibilità di
variare la tensione che consente la produzione di modulazioni dell’altez-
za analoghe a quelle della lingua dagbani. I Dagomba di fatto ‘parlano’ e
‘cantano’ con questo strumento.
Il secondo tamburo è chiamato gunguon; si tratta di un tamburo ci-
lindrico, sorretto da una cinghia e percosso con un bastone curvo (gun-
guonduelé). La pelle viene anche sollecitata con la mano in modo da
creare delle variazioni di tipo timbrico. Il gunguon svolge soprattutto la
funzione di accompagnamento ritmico-timbrico; vengono utilizzati ne-
gli ensemble perlomeno due gunguon al fine di ottenere particolari ef-
fetti di contrappunto ritmico.
I lunsi, per le forti implicazioni sociali della loro attività, detengono
una posizione di potere, rafforzata anche dalla rigida struttura dei loro
clan. Importante è anche il possesso di un certo tipo di conoscenze e
informazioni, riservate e segrete, tramandate nei loro testi cantati; anche
se questa conoscenza è in parte condivisa dagli altri membri del gruppo
etnico, i lunsi, in ultima analisi, ne restano gli autentici detentori. Anche
la proprietà e la costruzione degli strumenti, che restano appannaggio
della famiglia, gioca un ruolo importante, così come la tecnica esecutiva
del tamburo, che si tramanda anch’essa, rigorosamente all’interno della
famiglia, ed è legata alla conoscenza del corpus verbale, elemento por- 63
tante della storia e dell’identità stessa dei Dagomba.10 La forte connes-
sione della pratica musicale con la dimensione chiusa del clan, presenta
ricadute forti anche sulla trasmissione di questo sapere. Voler imparare
a suonare il tamburo equivale a diventare un membro della famiglia del
lunsi. L’allievo è assimilato a un figlio, con tutte le conseguenze che que-
sto comporta, a iniziare da quello di farne forza lavoro per il sostenta-
mento della famiglia.
Alhaji Abubakari Lunna è uno dei membri più autorevoli della tra-
dizione dei lunsi nell’area di Tamale. Lui calcola di avere oltre 70 anni,
anche se verosimilmente si tratta di un calcolo per eccesso;11 è tuttavia
una persona di età avanzata in rapporto all’età media della popolazio-
ne. È sposato con 5 mogli e ha 27 figli (15 maschi e 11 femmine), il più
grande dei quali ha 37 anni e il più piccolo 3. I maschi più grandi sono
sposati con figli, così come anche alcune delle figlie. Non è stato facile
conteggiare il numero esatto di figli e nipoti, in quanto anche i figli della
sorella di Alhaji vengono considerati suoi figli, così come figli possono
essere anche i musicisti che decidono di diventare suoi allievi. Durante
l’estate del 2006, periodo del soggiorno presso la sua casa, il totale dei
membri prossimi della sua famiglia effettivamente conteggiati (ovvero
mogli, figli e nipoti) toccava quota 52.
Alhaj non conosce l’uso della scrittura; oltre al dagbani, parla un ot-
timo inglese (come quasi tutti i ghanesi) che però non sa leggere e nem-
meno scrivere, in quanto il padre non consentiva che studiasse la lingua
dei bianchi; finché era vivo suo padre, neanche i figli di Alhaji sono potuti
andare a scuola. Dotato di forte carisma, è assai temuto e rispettato da
tutti i membri della famiglia prima ancora che dalle persone estranee.
Alhaji è stato attivo come membro della Ghana Folkloric Company,
prima di ritornare a vivere a Tamale con la sua famiglia nel 1988, dopo la
morte del padre. Oggi alterna al lavoro di musicista quello di agricolto-
re; possiede infatti una fattoria dove tutti i membri della sua numerosa
famiglia trovano spazio come forza lavoro. Quando non accompagna la
famiglia a lavorare nei campi, passa il suo tempo tra la moschea (dove si
reca a pregare cinque volte al giorno) e l’abitazione, impegnato a man-
tenere i non facili equilibri tra i membri del suo clan, o a ricevere e con-
versare con ospiti. La sua attività di musicista, in particolare quella svolta
all’estero, in USA, tramite Locke, costituisce una fonte di reddito conside-
revole per il sostentamento della famiglia.
La famiglia di Alhaji vive in una corte nei pressi della città di Tamale
che rispecchia la tipica struttura organizzativa di quell’area; al centro vi
64 è il pozzo, mentre intorno sono disposte tutte le case dei membri della
famiglia. Le case sono degli ambienti unicellulari, a pianta circolare e a un
Pratiche musicali, poteri e segreti: Alhaji Abubakari Lunna tra il Dagbon e il Massachusetts
solo piano, costruite in fango e con soffitto di paglia. Ve ne sono anche al-
cune in muratura a pianta quadrata, come quella dello stesso Alhaji; que-
sta è l’unica a presentare due ambienti, la stanza da letto e il soggiorno
con comodi divani per accogliere gli ospiti. Tra le varie case della corte, vi
è anche quella che Alhaji chiama la “professor room” in quanto riservata
a Locke durante i suoi soggiorni in Ghana, e dove sono stato ospitato con
Elisa Piria durante il soggiorno a Tamale.12
L’attività musicale di Alhaji è stato al centro degli studi di Locke, che
lo ha incontrato la prima volta nel 1975 quando era membro dalla Ghana
Folkloric Company. Locke ha studiato le percussioni con lui, ha scritto su
di lui in varie occasioni. Dal 1988, lo invita regolarmente, con cadenza
pressoché annuale, a tenere corsi sui tamburi parlanti e concerti alla Tuf-
ts University, in Massachusetts. Questa esperienza ha fatto acquisire ad
Alhaji una notevole familiarità con la musica della tradizione colta occi-
dentale e i suoi concetti, fornendogli una sorta di competenza bimusica-
le che gli consente di ragionare in un’ottica comparativa attorno alle pra-
tiche dei musicisti Dagomba e quelle della tradizione occidentale.13 Le
sue frequentazioni con stranieri che spesso lo vanno a trovare (e vengo-
no vistosamente ‘esibiti’ alla popolazione locale) e i suoi viaggi all’estero,
hanno contribuito ad accrescere ulteriormente il suo prestigio a Tamale,
anche per le ricadute di tipo economico di questi suoi contatti.
Pratiche musicali, poteri e segreti: Alhaji Abubakari Lunna tra il Dagbon e il Massachusetts
dell’altro. Si è subito percepita la gerarchia fortemente strutturata del
clan, tutta imperniata sulla figura di Alhaji, che usa il pugno di ferro per
tenere sotto controllo una realtà potenzialmente centrifuga. Era fortis-
sima la divisione tra uomini e donne (in qualche modo resa ancora più
acuta dalla presenza di Elisa Piria che, per forza di cose, stava spesso con
gli uomini), il tentativo di evitare contatti con gli estranei al clan se non
mediati da apparati cerimoniali, così come il controllo rigoroso dei con-
tatti di noi ospiti e il resto della sua famiglia, affidati principalmente alla
mediazione del figlio Saheed.
Colpiva tuttavia come questa situazione fosse di fatto legata a quel
luogo preciso; gli stessi saperi e le stesse abilità infatti che in Dagbon
sono considerate riservate ed esclusive di Alhaji e della sua famiglia, in
un altro luogo e un altro tempo (per esempio durante i suoi soggior-
ni americani) diventano oggetto di insegnamento pubblico e fonte di
reddito. Alhaji formalmente a Tamale non insegna; perdipiù, per lui è
una sorta di imperativo, più volte ribadito fin dai primi contatti, quello
di «non vendere la cultura dei Dagomba» e non accettare compensi per
insegnare a suonare il tamburo parlante.15 L’unico modo per imparare
qualcosa da lui a Tamale, se non si è della famiglia, è quello di diventa-
re suo figlio; questo implica innanzitutto di condividere la sorte degli
altri figli, ovvero sottostare all’autorità paterna cominciando a svolgere
le attività lavorative della famiglia, come coltivare i campi. È proprio que-
sto che consente all’aspirante allievo di stare vicino al musicista, anche
durante le esecuzioni musicali, di poter usare gli strumenti e dunque
di imparare secondo la più classica delle “learned but not taught tradi-
tion”16. La situazione ovviamente cambia quando Alhaji va a insegnare
in USA agli studenti universitari a suonare gli strumenti a percussione,
così come quando vi sono nella sua abitazione presenze di stranieri in-
teressati esplicitamente al sapere musicale; in questi casi non sembrano
esservi difficoltà a renderli partecipi della sua attività di musicista, anche
se il sapere che viene trasmesso è in qualche modo denaturato.
Un caso analogo riguarda anche gli strumenti stessi: mentre a Ta-
male i tamburi sono ceduti solo a membri del clan, agli stranieri e agli
studenti americani vengono tranquillamente venduti in dollari, di valore
incommensurabile in rapporto alla valuta locale, il cedis. Questa disparità
di trattamento non dipende tanto (o non solo) dal fatto che gli stranieri
pagano in dollari (valuta di fatto inaccessibile per la maggior parte dei
Dagomba) ma soprattutto perchè si tratta di presenze estranee, che non
appartengono a quell’ambiente, non si integreranno mai nel sistema del
clan e dunque mai ne mineranno gli equilibri. Gli allievi americani non
avranno mai un contatto con la sua famiglia; la loro eventuale presenza
a Tamale, così come quella degli studiosi, è transitoria e confinata nel-
la “professor room”. Tale forma di ospitalità, oltre ad essere un segno di 67
rispetto per l’ospite, è certamente anche un modo per evitare contatti
troppo stretti con il resto della famiglia.
Ma soprattutto, gli stranieri (studenti o ospiti) resteranno sempre
estranei a quella che è la sfera più segreta e importante dell’attività del
lunsi, ovvero la conoscenza dei testi in dagbani eseguiti con il lunna, che
in qualche modo è alla base del suo stesso potere in quanto strettamen-
te legata alla dimensione storico-politica dei Dagomba. Anche lo studio
del dagbani come lingua da parte di uno studioso esterno, in quanto
scisso dalla condivisione di quel sistema di vita e di cultura, non assicura
la piena comprensione delle dinamiche di fruizione di quei messaggi. La
lingua parlata (o cantata) dal tamburo lunna non è una lingua segreta
o cerimoniale; l’efficacia della musica dei tamburi dovrebbe risiedere, a
detta dello stesso Alhaji, nel fatto di essere “significativa” e comprensi-
bile a tutti, perlomeno all’interno di uno stesso clan. Questo in teoria; di
fatto, anche a seguito di prove dirette e interviste svolte con gli stessi
membri della famiglia di Alhaji, è risultato non essere così. Questo peral-
tro è in linea con quanto accade in generale per i linguaggi dei tamburi
che mantengono alti tassi di ambiguità; ad ogni modo, le relazioni dei
profili intonativi tra suono del tamburo e profili tonali della lingua da-
gbani non sembrano comunque sufficienti a fare di queste esecuzioni
dei messaggio semanticamente inequivocabili.17 Tuttavia è forse proprio
questa ambiguità (il fatto cioè di non capire mai totalmente quello che
viene detto) che alimenta nell’ascoltatore (anche in quello più ‘esperto’,
perchè membro della società Dagomba e quindi interno al contesto cul-
turale) la sensazione di non conoscere, e non poter mai conoscere fino in
fondo, quello che il lunsi sta dicendo col tamburo. Gli stessi figli di Alhaji,
che suonano regolarmente con lui, di fronte alla richiesta di “tradurre”
quanto il padre aveva suonato col tamburo, ammettevano che di certe
cose solo il padre poteva dare una spiegazione precisa. Tutto ciò non fa
che rafforzare la percezione che il musicista possiede una conoscenza
segreta e inaccessibile; di conseguenza ne consolida il ruolo di potere nei
confronti del clan e del gruppo etnico, mentre non sortisce simili effetti
nei confronti di chi non appartiene a quel clan e a quel gruppo etnico.
Pratiche musicali, poteri e segreti: Alhaji Abubakari Lunna tra il Dagbon e il Massachusetts
specificamente analitico. Questo fin dalla scelta del titolo; seguendo in-
fatti quanto lo stesso Alhaji racconta, il suono del tamburo è fortemente
imitativo della natura intonativa del linguaggio dagbani; dunque il tam-
buro più che uno strumento parlante sarebbe uno strumento cantante.
Il documentario è stato realizzato con la collaborazione, in qualità di
montatore, di Tommaso Vitali, all’Università di Milano, presso la sede del
LEAV, utilizzando Final Cut in ambiente Macintosh.
Di seguito compare la traduzione delle sezioni della conversazione
con Alhaji selezionate per il documentario. Nelle sezioni utilizzate emer-
gono le seguenti tematiche: l’appartenenza dei lunsi a una tradizione ri-
gorosamente familiare (segmenti A, C); il mito di fondazione del tamburo
quale mezzo usato dall’uomo per parlare (segmento B); la didattica dello
strumento (segmenti C, G); il rapporto tra voce e lunna (segmenti D, G);
il legame dei testi cantati con la tradizione dei Dagomba (segmenti B,
D, E); la conoscenza di un sapere specifico e il prestigio sociale dei lunsi
(segmento E); il suo rapporto con gli USA (segmento F); la differenza tra
la musica dei lunsi e quella occidentale (segmenti A, H).
A) In effetti io sono un percussionista; faccio quella cosa che voi, occi-
dentali chiamate “musica”. Sono un autentico suonatore tradizionale
di Lunna, che è stata l’attività di mio padre per tutta la vita. Non solo
mio padre è stato musicista: la musica appartiene alla nostra famiglia,
noi siamo nati da una famiglia di musicisti. Il mio bis bis bis bisnonno
ha iniziato questa musica.
B) [ suona il tamburo] Capisci? Ho detto: «Udite udite..» sto dicendo. Si
da un segnale. “Ûn” è Dio. Dico: «Dio è molto grande»; «Dio è molto
forte». Per continuare dovrei dire: «Lui è il Creatore, ha creato l’erba
prima dell’uomo, ha creato gli alberi prima dell’uomo, ha creato gli
animali prima dell’uomo/poi ha creato l’uomo, ha dato potere all’uo-
mo di usare la sua intelligenza, di prendere il legno e la pelle animale,
combinate insieme per poter parlare.»
C) Ho imparato da mio nonno, da mio padre e anche da mio zio. Ho inizia-
to quando ero molto piccolo. Ieri mattina quando suonavamo avete
visto mio figlio piccolo provare a suonare un tamburo grande quanto
lui. Ma cercava di suonarlo, non poteva suonare come noi ma cercava
di farlo; è così che ho imparato da mio padre.
D) Se sei tra i Dagomba ed io devo suonare per te, e ci sono molti suo-
natori ed io devo cantare per te, o devo suonare per i cantanti che
cantano per te, devo cominciare da lontano: dalla storia di tuo nonno,
anche se tu hai sentito di lui ma non conosci la sua storia. Quindi devo
cominciare da quella persona. Se io canto i tamburi devono suonare
quello che io dico; se invece non canto, le voci devono cantare quello
che dico, E i vostri amici Dagomba dicono «Oh...questo è veramente
un grande uomo e non lo sapevano.» È così che facciamo. 69
E) Lunna.. suonare il tamburo, è molto molto difficile da imparare, per-
ché si parla di costumi, della storia, del nostro modo di vivere. Io non
posso dire di essere un buon musicista ma sono un suonatore di tam-
buro. Molti mi rispettano perché sanno che io conosco qualcosa. Non
posso dire di sapere più di loro - non si dice. Ecco perché sono diven-
tato musicista.
F) Ho iniziato ad andare a Boston nel 1988. Ho molti studenti negli Stati
Uniti. Molti suonano il tamburo, molti imparano a suonare, molti im-
parano a danzare, e molti fanno come te: si interessano alla musica.
G) Per insegnare a suonare non si prende un tamburo e si fa vedere. Non
facciamo così. Glielo diciamo a voce: gli diciamo di usare lo strumento
per parlare nel modo in cui la tua bocca parla. Questa è musica “com-
prensibile” perché va dal parlato al cantato, e dal cantato al suono del
tamburo: il suono del tamburo fa il canto, e quando l’ascolti dici «Oh..
sta parlando..»
H) Qualche volta ascolto anche musica occidentale. Mi piace, ma c’è una
cosa che mi fa ridere. Sono solito dire ai musicisti occidentali che sono
molto bravi, ma il loro nonno che ha inventato la musica, ha sbagliato,
perché la musica deve essere “comprensibile”.Ma la musica occidentale
puoi solo “percepirla”. Esiste “percezione” e “comprensione”.“Compren-
sione” è quando io parlo, e ascoltando lo riconosci. Quando io suono
uno stile e la musica ti coinvolge, questo è “percepire”. Quindi mi viene
da dire che voi occidentali suonate una musica “senza senso”.
Foto 1 - Due delle cinque mogli di Alhaji Abubakari Lunna durante le faccende domestiche.
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Pratiche musicali, poteri e segreti: Alhaji Abubakari Lunna tra il Dagbon e il Massachusetts
Foto 2 - Elisa Piria riprende la costruzione di un tamburo.
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Pratiche musicali, poteri e segreti: Alhaji Abubakari Lunna tra il Dagbon e il Massachusetts
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5 - Gunguon.
Pratiche musicali, poteri e segreti: Alhaji Abubakari Lunna tra il Dagbon e il Massachusetts
11
Il figlio maggiore infatti ha 37 anni; è altamente improbabile, alla luce
dei costumi locali, che Alhaji abbia avuto il primo figlio quando aveva già oltre
trent’anni di età.
12
Si tratta di dell’unica casa dotata di una sorta di box con un buco di scolo
dell’acqua, ciò consente agli ospiti di potersi lavare dentro la casa, in modo ap-
partato, e non nel cortile, come fanno invece tutti i membri della famiglia.
13
Sulla tematica della bimusicalità, teorizzata da Mantle Hood, si vedano i
materiali pubblicati nel secondo numero di Molimo (Stella 2007).
14
Le conversazioni con Alhaji e la sua famiglia si sono svolte in inglese, lin-
gua di cui, ad eccezione di alcune delle mogli e dei figli più piccoli, tutti avevano
assoluta padronanza.
15
Una delle cose più delicate da negoziare con Alhaji sono stati i compensi
per le prestazioni sue e della sua famiglia, così come il modo di ripagarlo per
le spese sostenute per la nostra ospitalità a casa loro, senza che esplicitamente
venissero considerati dei compensi. La soluzione è stata trovata comperando un
suo tamburo e pagandolo in dollari, regalandogli dei dollari per l’acquisto di una
capra da mangiare durante una festa con tutta la famiglia (un modo per ripagare
i figli della loro prestazione), regalando dei cedis alle sue mogli e pagandole per i
servizi resi (come cucinare, lavare ecc.). Dunque formalmente lui non ha percepi-
to nulla per la sua prestazione come musicista.
16
Si tratta dell’efficace formulazione proposta da Rice (1994) per identifica-
re le abilità musicali acquisite non mediante un esplicito percorso didattico ma
assimilate nel contesto della pratica alla quale si inizia ad essere esposti e nella
quali poi gradualmente ci si inserisce.
17
Tale opinione ad esempio è sostenuta dalla linguista Esther Kropp Daku-
bu, professoressa alla University of Ghana, esperta della lingua dagbani, che si è
occupata nello specifico anche delle relazioni tra le esecuzioni musicali del lunna
e la lingua dagbani.
75
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78
La ricerca in Dagbon (Ghana):
osservazioni e considerazioni tecniche
di Elisa Piria
N
el corso dell’estate 2006 ho partecipato in qualità di fonico alla
ricerca sul campo sulle pratiche musicali in Ghana condotta dal-
l’unità milanese del PRIN 2004, e di cui Nicola Scaldaferri fornisce
un resoconto nel suo testo pubblicato in questo stesso volume.
La ricerca si è articolata in due fasi: la prima, svolta principalmente
da Scaldaferri presso centri di documentazione europei e statunitensi,
ha permesso l’individuazione di contesti etnografici e ambiti tematici
sui quali concentrare l’attenzione, nonché la stesura di una bibliografia e
discografia ragionata relativa alle tematiche di ricerca. Questa prima fase
ha coinciso temporalmente con il periodo di allestimento del Laborato-
rio di Etnomusicologia e Antropologia Visuale dell’Università degli Studi
di Milano (LEAV), di cui sono collaboratrice; la fortunata coincidenza ha
permesso di pianificare gli acquisti di materiale tecnico specifico anche
in previsione della seconda fase, che prevedeva la ricerca sul campo.
Le aree individuate come significative ai fini del progetto erano due:
il Dagbon, una regione del Ghana settentrionale nelle vicinanze della cit-
tà di Tamale, e l’area della capitale Accra. La ricerca si è focalizzata sulla
figura dei lunsi, suonatori di tamburo parlante del Dagbon, e sulle prati-
che musicali di una comunità cristiana carismatica di Accra.
Il Ghana, paese dell’Africa subsahariana, è caratterizzato da un cli-
ma tropicale, caldo e umido; il periodo ipotizzato per il nostro soggiorno
coincideva con la stagione delle piogge e questo ha posto dei problemi
concreti per quanto riguarda l’uso delle attrezzature. Le aree di ricerca
sono piuttosto distanti tra loro (vi sono circa 700 km tra Accra e Tamale);
per motivi economici ed organizzativi abbiamo scelto di utilizzare per gli
spostamenti mezzi di trasporto pubblici, piuttosto che noleggiare un’au-
tomobile; i nostri viaggi si sono quindi svolti in autobus. La spedizione
delle attrezzature nel bagagliaio avrebbe comportato grosse probabilità
di danni o smarrimento, con l’impossibilità di proseguire la ricerca, il che
implicava la necessità di poter trasportare tutto nel “bagaglio a mano”.
La scelta delle attrezzature di ripresa audio e video è stata guidata
da due necessità: in primo luogo compattezza e adattabilità a condizioni
climatiche estreme; in secondo luogo grande versatilità, in particolare
per le riprese audio: potevamo prevedere condizioni di ripresa molto dif-
ferenti tra loro, ma non potevamo sapere con esattezza quali sarebbero
state. L’ideale sarebbe stato avere microfoni differenti adatti alle diverse 79
situazioni sonore, ma questo era impossibile senza aumentare eccessiva-
mente la mole dei bagagli.
Per le riprese video è stata scelta una telecamera HDV (la telecame-
ra Sony HVR A1E), in grado di registrare sia in formato DV (nel formato
DVCAM o DV SP) che in HDV (1080/50i) utilizzando cassette DV; al mo-
mento dell’acquisto della telecamera, la registrazione diretta su hard
disk o schede di memoria non garantiva infatti la necessaria stabilità, si
è quindi scelto un modello tradizionale. La telecamera è estremamente
compatta (pesa 670 g); dotata di un sensore CMOS1 da 1/3; i sensori
CMOS presentano caratteristiche tecniche che permettono la costruzio-
ne di apparecchiature di dimensioni molto ridotte e a basso consumo
energetico; nonostante la qualità delle immagini per alcuni aspetti sia in-
feriore a quelle prodotte con sensori CCD, i sensori CMOS limitano l’effet-
to blooming2 e producono immagini ad alta gamma dinamica, profonde
e definite. Confrontandomi con colleghi operatori e visionando riprese
video effettuate in Africa sub-sahariana ho riscontrato un problema co-
mune: condizioni di illuminazione molto forte, la qualità della luce natu-
rale ed il forte contrasto con il volto scurissimo delle persone esasperano
i contrasti nelle immagini e rendono difficilmente leggibili le espressioni
facciali. Data l’importanza per la nostra ricerca (come sempre nella ricer-
ca etnografica) dei volti e delle espressioni come veicolo di emozioni, ho
ritenuto particolarmente utile l’utilizzo di un dispositivo compatto ma
efficiente in termini di risoluzione, bilanciamento dell’immagine in con-
dizioni di luce difficili e fedeltà nella riproduzione del colore.
Le riprese audio sono state realizzate per mezzo di un registratore
solid state professionale, il Sound devices 744T, in grado di registrare file
wav o bwf, con risoluzione a 16 o 24 bit e frequenze di campionamento
da 32 a 196 Khz. Nel corso di precedenti esperienze di ricerca sul cam-
po ho personalmente verificato la grande sensibilità dei registratori DAT
a condizioni climatiche difficili, in particolare all’umidità; questo mi ha
spinto alla “sperimentazione” di un registratore su hard disk. I problemi
legati alla possibilità di crash di sistema e conseguente interruzione della
memorizzazione dei dati sono risolti grazie alla possibilità di registrare
contemporaneamente su due media: un hard disk interno da 40 Gb e mi-
crodrives o schede di memoria rimuovibili.3 Questo permette di creare in
tempo reale una seconda copia dei materiali raccolti; in realtà il back up
si è rivelato uno scrupolo, dato che il sistema ha mostrato stabilità totale
e resistenza a polvere e umidità.
I registratori solid state sono caratterizzati da basso consumo energe-
tico se paragonati ai DAT: eliminando la necessità fisica di trascinamento
del nastro le prestazioni e la durata delle batterie sono ottimizzate. Il regi-
stratore prescelto in particolare è alimentato con le stesse batterie utiliz-
zate dalla telecamera4, il che si è rivelato un vantaggio non indifferente in
80 luoghi dove la disponibilità di corrente elettrica è tutt’altro che scontata.
Altro vantaggio è stata l’eliminazione dei supporti di registrazione
Note
1
Per il funzionamento dei sensori CMOS vedi il sito del dipartimento di Elet-
tronica Informatica e Sistemistica dell’Università degli Studi di Bologna, http://
labvisione.deis.unibo.it/degree/ovit/cap7.pdf. Il documento è parte della tesi di
laurea di Omar Dario Vit, Contatore di veicoli basato su un sensore con uscita digita-
le, relatore Tullio Salmon Cimotti, anno accademico 1988-89. Vedi anche la voce
http://it.wikipedia.org/wiki/CMOS
2
Effetto visivo causato dall’eccessiva esposizione alla luce del sensore: in-
quadrando zone di illuminazione intensa un’intera area dell’immagine appare
completamente bianca a causa della diffusione tra pixel adiacenti.
3
Per le specifiche tecniche del microdrive vedi http://en.wikipedia.org/wiki/
Microdrive. Il registratore consente anche l’utilizzo di compact flash card; la scelta
è caduta sui microdrives perché al momento dell’acquisto le compact flash card
avevano capienza massima di 2 Gb mentre i microdrives arrivavano fino a 6 Gb.
4
Si tratta delle batterie standard Sony Li-ion per camcorder.
5
Questo microfono utilizza una configurazione stereo M-S: una capsula car-
dioide cha cattura i suoni diretti, sommata a una bidirezionale per l’ambiente.
La matrice M-S integrata permette di ampliare o restringere l’immagine stereo
variando il rapporto tra suono diretto e suono riverberato. Per una trattazione
esauriente su tipologie di microfoni e tecniche stereofoniche di microfonaggio
vedi Bartlett 1998.
6
129 Db SPL/800 ohm dichiarati.
7
Questo microfono utilizza una configurazione stereo M-S: il segnale fron-
tale (M) è generato da un sistema a interferenza basato sul sistema MKH 416,
mentre il segnale laterale (S) è generato da una capsula a figura di 8.
8
Per una trattazione sui ruoli di genere vedi Di Cristofaro Longo 1998.
9
La denominazione Lobi di fatto indica vari gruppi etnici con caratteristiche
culturali assimilabili, ma di lingua differente: i Lobi, i Birifor, i Dagara, i Djan, i Gan, i
Tegeussie e i Dorossie. Cfr. Colnago (in corso di stampa) e Ki-Zerbo 1977.
10
Per una accurata descrizione organologica delle diverse tipologie di yele~
vedi Colnago (in corso di stampa).
11
Per una descrizione delle tecniche compositive e del legame tra lingua
parlata e linguaggio musicale Lobi vedi Colnago (in corso di stampa).
12
Nell’inverno 2007 il padre è deceduto
13
A proposito di questo tipo di apprendimento vedi Rice 1994.
86
Riferimenti bibliografici
Colnago F., (in corso di stampa) “La communication musicale comme élément
d’identité culturelle chez le Lobi du Burkina Faso”, Cahiers de Ethnmusicologie,
Ateliers d’Ethnomusicologie, Genève
Di Cristofaro Longo G., 1998, Modelli culturali e differenza di genere, Roma, Arman-
do Editore
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The University of Chicago Press.
Vit O. D., 1988-89, Contatore di veicoli basato su un sensore con uscita digitale, tesi
di laurea, relatore Tullio Salmon Cimotti, Università di Bologna.
87
Dinamiche intorno alla segretezza: tre casi nella musica dei Bakon-
zo-Banande (Uganda, Repubblica Democratica del Congo)
di Serena Facci
I
n questo articolo verranno presentati tre “casi” provenienti dalla mia
esperienza di ricerca musicologica in alcune zone dell’Africa centro-
orientale. Si tratta di tre situazioni riconducibili ai temi più generali
del grado di “chiusura” e dunque di “apertura” ravvisabile in specifiche
comunità, dell’esistenza e la gestione anche in ambito musicale di “se-
greti”, dell’intreccio inevitabile tra la gestione dei segreti e l’esercizio del
“potere” da parte di alcuni individui rispetto ad altri.
Il contesto in cui si situano le mie esperienze è quello di alcuni paesi
africani (Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Burundi, Tanzania)
situati in quella zona che in primo luogo per ragioni geografiche, ma suc-
cessivamente anche storico-culturale, viene chiamata regione dei Grandi
Laghi, e in cui ho lavorato, anche se in modo molto discontinuo, a partire
dal 19861. Sinceramente, non ho mai affrontato in maniera approfondita
la questione della segretezza di questa o quella pratica, ma è abbastanza
frequente in questa zona dell’Africa incontrare, anzi direi meglio, inciam-
pare in circostanze che rivelavano più o meno esplicitamente l’esistenza
di ambiti irrivelabili.
In tre paragrafi distinti si parlerà dei segreti relativi al tamburo, alla
musica dei rituali di iniziazione maschile e alla religione tradizionale.
L’esistenza di tali segreti è emersa in modo quasi casuale durante sem-
plici rilevamenti di tipo etnografico sui repertori musicali. In un caso
come questo, credo, non sarà possibile prescindere da una certa dose di
“autobiografismo”. Non perchè io abbia attuato forme particolarmente
partecipanti nel vivere le situazioni di ricerca, ma semplicemente per-
chè il fatto di essere, io, una curiosa-studiosa europea e donna, alle prese
con culture musicali africane, molto complesse e in gran parte gestite
da uomini, ha giocato un suo ruolo nella dialettica apertura-chiusura
di cui si sta parlando. Infine va ricordato che le attuali pratiche cultura-
li, in questa regione dell’Africa, non sono mai interpretabili se non alla
luce di un processo storico particolarmente delicato avviato alla fine del
XIX secolo con l’inizio della colonizzazione e la conseguente “apertura”
coatta verso differenti modelli culturali. Oggi, in molte situazioni, la di-
namica interno-esterno e quella tradizione-cambiamento-revival, sono
più articolate che mai.
89
1. Il segreto del tamburo
Dinamiche intorno alla segretezza: tre casi nella musica dei Bakonzo-Banande (Uganda, Repubblica Democratica del Congo)
(stregone).
Tutti erano assolutamente sicuri però che senza quell’oggetto lo
strumento sarebbe stato inutilizzabile, non lo si sarebbe potuto “battere”,
non avrebbe funzionato: come il corpo senza anima di Adamo, il tam-
buro ha bisogno di una sorta di soffio vitale e questo era il suo segre-
to. Del resto l’inserimento di oggetti nei tamburi è largamente presente
nell’area dei laghi: sementi, latte, sassi definiti “cuore” del tamburo, terra,
e anche testicoli di nemici (d’Hertfelt e Coupez 1964, Wimeersh 1979)5.
Tra i Banande il custode del segreto è il costruttore di tamburo. Biso-
gna specificare che qui, come tra i Bakonzo, in genere i musicisti sono
in grado di costruirsi da soli il loro strumento. Anche lo xilofono endara,
che necessita di un particolare rituale di costruzione da effettuare nella
foresta viene realizzato e intonato dal capo dell’orchestra che poi uti-
lizzerà lo strumento6. Due strumenti invece necessitano di competenze
specializzate durante la costruzione: le campanelle metalliche usate per
le cavigliere dei ballerini (esionzogha) e l’engoma. La competenza neces-
saria per esyonzogha rientra nella più generale specializzazione relativa
alla lavorazione dei metalli in questa, come altre, società africane. Per en-
goma il discorso è un po’ diverso, perché per quanto complessa la lavo-
razione dei tamburi sarebbe forse anche abbordabile per i musicisti, ma
le conoscenze tecnologiche e il bisogno di attrezzi speciali e costosi, si
accompagna a un’ulteriore limitazione costituita proprio dall’esistenza
del “segreto”. Non si può costruire un tamburo efficace se non si conosce
qual è l’oggetto da inserire nella cassa.
Tale segreto mi fu svelato durante la costruzione di un tamburo che
posseggo ancora: si trattava di un semplice sasso (almeno nel tamburo
destinato a me).
Non fui io a chiedere al costruttore, un uomo anziano che si chiama-
va Rwassuna Mathias, di mostrarmi l’oggetto. Anzi, prima di convincerlo
a costruire un tamburo in mia presenza (cosa che mi serviva per quei
doveri di documentazione organologica che ritenevo, e ritengo ancora,
parte essenziale del lavoro di un musicologo che si reca in un posto dove
pochi altri studiosi sono stati prima di lui)7 avevo dovuto promettere che
avrei rispettato il suo segreto. Infatti, attraverso l’interprete, lui mi aveva
detto inizialmente che non poteva costruire il tamburo in mia presen-
za, proprio perchè c’era una fase a cui “nessuno” poteva assistere. Ne era
nata una trattativa e un accordo: potevo guardare, misurare, porre do-
mande, fotografare, prendere appunti sulle fasi di lavorazione e il nome
di attrezzi e procedure, acquistare a lavoro ultimato il tamburo, ma... arri-
vati al momento che precede la fissazione della pelle superiore mi sarei
dovuta allontanare.
Tutto procedette come convenuto (ho ancora gli appunti e la se-
quenza delle diapositive) e, arrivati al momento del fissaggio della pelle, 91
gli dissi con l’aria di chi la sapeva lunga e stava ai patti che sarei andata
via momentaneamente per lasciarlo, indisturbato, a inserire l’oggetto mi-
sterioso. E invece lui, con un autentico colpo di scena, mi disse di restare e
si fece pure fotografare con il sasso in mano e il recipiente dello strumen-
to in costruzione per terra lì davanti a lui.
Dinamiche intorno alla segretezza: tre casi nella musica dei Bakonzo-Banande (Uganda, Repubblica Democratica del Congo)
credo che l’apertura dimostrata dal costruttore nei miei confronti dimo-
rasse nella coscienza, mia come sua, della distanza che c’era tra noi due.
A me non costava nulla, in realtà, rispettare quel segreto e penso che
qualunque studioso europeo al mio posto avrebbe pensato la stessa
cosa: ciò che contava era l’esistenza stessa del segreto e soprattutto il
suo significato. Che l’oggetto reale fosse un sasso, un dito di scimmia o
un testicolo di stregone, in fondo poco cambiava. Se ci fosse stata una
certezza condivisa dalla comunità del villaggio circa la qualità dell’og-
getto, si sarebbe potuto disquisire sul particolare valore simbolico della
pietra (materiale duro e difficilmente scalfibile) in una realtà ambienta-
le biologicamente molto dinamica, ma al contempo vulnerabile, come
quella dell’Africa equatoriale. In Rwanda per esempio erano proprio dei
sassi a essere chiamati omutima (cuore) del tamburo e, nel culto Kuband-
wa, come vedremo, è proprio un sassolino a simboleggiare il segreto reli-
gioso. Ma in questo caso nessun Banande sospettava che l’oggetto fosse
un sasso e l’unica certezza condivisa era proprio il mistero sull’identità
dell’oggetto.
Io, proveniente dalla pietrosa Europa, dove i sassi hanno ben altri
ruoli e significati e sono addirittura antitetici rispetto all’immagine vitale
del cuore (per esempio “cuore di pietra”), sospettai che quella del sasso
fosse addirittura una soluzione di comodo. Rwasuna avrebbe potuto uti-
lizzare in quella circostanza una procedura fasulla, evitando di utilizzare
il “vero” oggetto perchè quel tamburo era destinato a me, che non sa-
pevo nemmeno suonarlo. Del resto alcuni bianchi qualche anno prima,
si erano fatti costruire dei tamburi per nascondere nella cassa qualche,
inesportabile, pezzo di avorio: insomma, Rwasuna sapeva che ognuno
ha i suoi segreti.
In realtà però il problema vero era che io non credevo all’unica cosa
importante e impenetrabile del segreto ovvero che senza quell’oggetto
il tamburo non avrebbe suonato. Nel mio mondo tutte le leggi dell’orga-
nologia sono contrarie a questa affermazione, oltre all’evidenza che tanti
tamburi suonano senza avere oggetti nella pancia. Quindi era nell’in-
comprensione di questa “verità” relativa e magica che si situava il limite
per me invalicabile. Di fronte a quel tipo di segreto io trovavo veramente
un muro: perché l’oggetto? Perché se no il tamburo non suona. E perchè
non suona? Perché non ha l’anima. Fine della discussione.
Il suonatore lo avvertiva: ero ignorante, come un bambino. Poteva
anche farmi vedere il sasso, io comunque non arrivavo a capire il proble-
ma della vita degli strumenti. Mi affannavo a chiedere il nome dei mate-
riali, a fotografare ogni gesto che faceva. Ai suoi occhi mostrarmi il sasso
deve essere stato un cedere alla mia filosofia materialista: l’oggetto è un
sasso come le stringhe sono di pelle di vacca. Il resto forse lo capirai in
seguito. 93
Un’altra sfumatura è possibile. Proprio per la mia impermeabilità al-
l’affascinamento del mistero, potevo essere in qualche modo complice
del suo segreto: in quel momento lui indossò le mie vesti di razionalista.
Nella gestione del segreto era gran parte della sua autorevolezza di co-
struttore di tamburo. Di fronte alla donna bianca venuta dall’Europa il
suo potere fu più che altro nell’ostentare la verità. Solo così, in effetti, lui,
uomo di potere, poteva dimostrarsi anche all’altezza delle mie categorie
gerarchiche.
Quando sono andata tra i Bakonzo in Uganda nel 2006 ho chiesto
ovviamente notizia dell’oggetto dentro il tamburo. Tutti quelli con cui ne
ho parlato mi hanno detto in modo molto convinto e sbrigativo che si
tratta di un testicolo di stregone e che senza quell’oggetto lo strumento
non può essere suonato.
In quel caso stavo lavorando a una ricerca di etnografia diacronica per
verificare le corrispondenze tra la cultura nande degli anni Ottanta e quel-
la konzo dei Duemila. La risposta fu tutto sommato soddisfacente: alcune
pratiche erano condivise e nel contempo resistenti al passare del tempo.
La situazione, però, è molto differente. I Bakonzo hanno una disinvoltura
nel parlare dei fatti anche più misteriosi della loro cultura che i Banande di
venti anni fa assolutamente non avevano. Questa può essere la conseguen-
za di una maggiore libertà in Uganda dai condizionamenti, soprattutto re-
ligiosi, imposti in Congo dalle culture di importazione, per esempio quella
delle chiese cristiane che avevano, già ai tempi della dittatura di Mobutu,
un ruolo anche politico molto significativo nella zona orientale del paese
di cui stiamo parlando. D’altra parte l’attuale processo di rivalutazione del-
le culture locali, promosso dal governo ugandese favorisce l’emergere tra
i Bakonzo di oggi di pratiche e convinzioni un tempo tenute più nascoste.
La questione sarà indagata nei prossimi due paragrafi.
2. Il segreto dell’omukumu
Dinamiche intorno alla segretezza: tre casi nella musica dei Bakonzo-Banande (Uganda, Repubblica Democratica del Congo)
riodo di segregazione era circondato da segreti: i ragazzi non potevano
comunicare in alcun modo con l’esterno e ciò che avveniva in foresta
era noto solo a chi aveva passato quella esperienza, ovvero i maschi
adulti.
L’inciampo in questo segreto lo condivisi con Cecilia Pennacini con
la quale nel 1988 ho collaborato in un progetto di ricerca sulle danze dei
Banande9. Le danze nande erano un pozzo senza fondo, di nomi, stili e
significati. Molto evidente era però la differenza tra le danze femminili e
quelle maschili, con poche eccezioni.
Tra i nomi delle danze maschili circolava (nella bibliografia come nel-
le interviste) il termine omukumu. Come avviene spesso in Africa il ter-
mine aveva un carico semantico notevole: ci veniva citato come danza,
come rito e, solo dopo parecchio tempo a dire il vero, come strumento
musicale. L’unica cosa chiara era che si trattava di qualcosa di strettamen-
te collegato all’iniziazione maschile.
Moltissimi furono i momenti di reticenza a cui ci trovammo davanti.
Le informazioni che riuscivamo a raccogliere erano spezzettate e confu-
se. Sembrava che i vecchi avessero ormai una debolezza nella memoria
e che i giovani fossero, ormai, poco informati sulla questione.
Alla fine un collaboratore alla ricerca, François del villaggio di
Bukondi, mi venne a trovare e, in un incontro volutamente riservato
e a porte chiuse a cui partecipò solo un altro paio di uomini, mi dis-
se che aveva provato più volte a convincere gli iniziati a farci vedere
l’omukumu, ma che tutti si erano rifiutati, non perché Cecilia e io fossi-
mo bianche, ma perché eravamo donne. Lui comunque con l’aiuto dei
suoi amici era disposto a raccontarmi qualcosa, avendo partecipato alla
cerimonia. Mi disse quindi che l’omukumu era uno strumento segreto,
composto da sette bastoni di differente lunghezza che venivano per-
cossi (lo disegnai e immaginai che fosse una sorta di xilofono). Oltre
all’omukumu erano usati durante la segregazione altri oggetti sonori:
cercò di descrivermi la forma e il funzionamento. Dedussi che si trattava
di un rombo e di un portavoce costituito da un tronco cavo. Tutti questi
oggetti erano assolutamente segreti perché venivano suonati nella fo-
resta, o, di notte, in prossimità dei villaggi in modo che i non iniziati, ov-
vero le donne e i bambini, potessero sentirli ma non vederli e dunque
attribuire la produzione dei suoni ad agenti soprannaturali rimanendo
terrorizzati. In effetti l’atteggiamento più frequente nei villaggi al solo
nominare l’Olusumba era di mistero, ma anche di timore. Era evidente,
nel racconto fatto da François, come la facoltà di gestire suoni misterio-
si e incontrollati (attribuibili a entità ultraterrene) con cui mettere pau-
ra a donne e bambini fosse connessa con un chiaro esercizio di potere
da parte degli uomini adulti. Francesco Remotti (1996) ha teorizzato
con lucidità come questo potere coincidesse con il ruolo di abakondi, 95
ovvero di dominatori della foresta che spettava appunto agli uomini,
avendo le donne invece, nei confronti della foresta una serie di tabù.
Il segreto dell’omukumu, quindi (come avviene per altri riti iniziatici
e società segrete in Africa), era uno dei capisaldi della distinzione di ge-
nere, elemento dunque non irrilevante nell’organizzazione economico-
sociele e nei principi etici e relazionali dei Banande10.
Anche in questo caso la rottura del segreto nei miei confronti av-
venne in maniera contraddittoria: i riti come l’Olusumba erano già stati
pesantemente ridimensionati da parte dei missionari. La loro segretezza,
in caso fossero ancora praticati da qualcuno all’epoca, non poteva che
essersi accentuata per motivi di difesa dal mondo esterno. Cecilia e io
eravamo figure dialettiche in un contesto completamente stravolto. In
quanto donne non avremmo potuto essere messe a parte di questo tipo
di segreti. Ma eravamo studiose ed estranee al contesto culturale. Inol-
tre dormivamo presso una missione cattolica, ma avevamo mostrato in
varie occasioni di non avere pregiudizi religiosi. François era iniziato, ma
anche battezzato e cattolico praticante: per certi versi dunque era uno di
noi, con alle spalle esperienze contraddittorie, come noi. Questo in fondo
può spiegare la sua complicità, che però ovviamente non andò oltre certi
limiti: partii senza aver né visto l’omukumu, né, come si vedrà, aver capito
come fosse fatto.
Lo scorso anno in Uganda ho chiesto a diversi musicisti konzo anzia-
ni, che quindi erano stati iniziati, notizie sulle musiche durante l’Olusum-
ba. Gli anziani, devo dire, erano ancora un po’ reticenti a parlare del rito
davanti alle donne. Però le varie ricostruzioni erano abbastanza concor-
danti tra loro. I Bakonzo parlavano con chiarezza di cosa fosse l’omuku-
mu: una serie di bastoni percossi ognuno da un ragazzo del gruppo di
iniziandi.
Per i giovani il rito di iniziazione e l’omukumu sono oggi oggetto
di riscoperta in chiave revivalista. Una volta i ragazzi di un gruppo che
suonava lo xilofono endara, hanno spavaldamente imbracciando alcune
delle barre dello strumento e mi hanno detto: ti facciamo vedere come si
suona l’omukumu. Alcuni Cultural Groups, le associazioni di danza, musica
e teatro promosse delle amministrazioni locali e nazionali con l’intento
di preservare l’arte tradizionale, hanno nel loro repertorio delle vere e
proprie messe in scena del rito di iniziazione e delle danze ad essa con-
nesse. Due di questi gruppi sono stati filmati, nel distretto di Bundibujo,
da Cristina Natta-Soleri, per conto del Museo della Montagna di Torino11.
In un DVD e in alcune foto, dunque, ho potuto vedere e sentire, per la
prima volta, il misterioso omukumu suonato da adolescenti e accompa-
gnato da due tamburi, così come testimoniato dagli anziani konzo.
96
Foto 2 - Giovani konzo suonano l’omukumu
Dinamiche intorno alla segretezza: tre casi nella musica dei Bakonzo-Banande (Uganda, Repubblica Democratica del Congo)
durante una rappresentazione del rito di
iniziazione. Bundibujo, Uganda, 2005
(foto di C. Richards, tratta da Pennacini 2006)
Il contesto in cui era stato realizzato il video, però, era quello di una
performance, destinata a un pubblico indistinto. Ogni velo era dunque
caduto inesorabilmente.
Margaret Mead, in Male and Female (1950) a proposito dell’iniziazio-
ne maschile presso gli Iatmul (basata anch’essa sulla gestione di alcuni
strumenti musicali segreti, in quel caso flauti) dice che il gesto di svelare
i flauti alle donne da parte degli Iatmul stessi fu significativo di quanto
essi sentissero la loro società minacciata dall’arrivo dei missionari euro-
pei. Fu come un completare in prima persona un’opera di distruzione
avviata dall’esterno.
Nel nostro caso l’esibizione dell’ex segreto assume forme spettaco-
larizzate (anche ad alto livello). Il mistero svelato diventa un bene da esi-
bire per ricavarne autorevolezza e benefici economici.
Dinamiche intorno alla segretezza: tre casi nella musica dei Bakonzo-Banande (Uganda, Repubblica Democratica del Congo)
quella che normalmente i medium usano per le terapie quotidiane e
che era collocata sul retro della casa in mattoni di Florina. Qui un gruppo
di adepti ha cantato tutta la notte i canti, responsoriali, che formano il
repertorio specifico del Kubandwa. Due tamburi e, ovviamente, i sonagli
sacri hanno accompagnato i ripetuti momenti di possessione di Florina
e di altri medium convenuti.
In un secondo spazio, all’aperto, davanti alla capanna degli spiriti era
collocata l’orchestra endara, formata dal grande xilofono su tronchi di
banano suonato da quattro suonatori e da tre tamburi. L’endara era stato
ornato con rami verdi e altri elementi vegetali e durante il lungo rito è
stato asperso con il sangue degli animali (un pollo e una capra) sacrificati
per il banchetto festivo.
Dinamiche intorno alla segretezza: tre casi nella musica dei Bakonzo-Banande (Uganda, Repubblica Democratica del Congo)
I tre casi presentati, tutti relativi alla cultura nande-konzo sono altret-
tanti esempi di come i processi di apertura e chiusura culturale siano il
risultato di convenzioni tramandate tradizionalmente, ma anche di con-
tinue mediazioni e ridefinizioni.
L’interrelazione con uno studioso bianco è ovviamente uno dei mo-
menti più critici di questi processi di negoziazione e crea situazioni parti-
colari, condizionate dalla specifica relazione instaurata tra i protagonisti
dell’incontro. Per questo motivo (più che per particolari prese di posizio-
ne metodologiche) la descrizione degli eventi è stata presentata quasi
sempre mettendo in primo piano la mia specifica figura di ricercatrice.
Nel definire queste relazioni, non è irrilevante il fatto che, per motivi per-
sonali, ma anche per la particolare situazione di instabilità politica della
regione dei Grandi Laghi, le mie ricerche sul campo sono sempre state
di durata abbastanza breve e, di fatto, non sono mai riuscita a stabilire
in nessun luogo rapporti particolarmente duraturi con le molte persone
con cui ho avuto la fortuna di lavorare.
101
Note
1
L’attività di ricerca è sempre avvenuta nell’ambito di un’equipe: la Missione
Etnologica Italiana in Africa Centrale, fondata da Francesco Remotti e oggi diretta
da Cecilia Pennacini,
2
Il termine regno, utilizzato inizialmente dagli storici africanisti europei, è
ampiamente in uso ora tra gli attuali abitanti. La riabilitazione di alcuni degli an-
tichi regni e il riconoscimento di alcune prerogative amministrative ai relativi re
è stata avviata nella Repubblica d’Uganda, dal 1995.
3
Per una descrizione panoramica dei tamburi dinastici nell’Africa dei Grandi
Laghi, Wymeersh 1979.
4
I Banande e i Bakonzo condividono la lingua, la denominazione dei clan e
numerosi aspetti della cultura. Storicamente si considerano come provenienti da
una popolazione unica e, ancora oggi, si percepiscono come simili pur vivendo
in stati differenti.
5
Già gli studiosi comparativisti della prima parte del XX secolo, come Curt
Sachs e, in particolare, Marius Schneider, avevano notato che la morfologia del
tamburo a membrana, che è praticamente un contenitore vuoto, ha favorito in
diverse parti del mondo l’addensarsi di significati extramusicali su questo og-
getto.
6
Un filmato del rito di costruzione dell’endara si trova nella recente tesi di
laurea inedita di Vanna Cupri, Ruoli e funzioni dello xilofono endara nella musica
dei Bakonzo (Uganda), Università di Roma 1, 2005-2006.
7
La prima campagna di registrazioni di musica dei Banande è stata realiz-
zata da Hugh Tracey nel 1950. Precedentemente c’è stata una registrazione ef-
fettuata dal missionario assunzionista Jules Celis nel 1936, che ha utilizzato un
fonografo consegnatogli da Marius Schneider allora direttore del Phonagram
Archiv di Berlino.
8
Le procedure e i significati di questo rituale che, a quanto sembra, i Banan-
de-Bakonzo hanno appreso proprio dai Bamba, sono stati ampiamente studiati
da Francesco Remotti (1996).
9
L’esito di questa ricerca in collaborazione è, in particolare, nel documen-
tario Danze Nande film in 16 mm. di Cecilia Pennacini e Serena Facci, prodotto
dall’Archivio Storico per la Resistenza di Torino, 1989.
10
Su questo si veda anche Facci 2003.
11
La ricerca fu condotta in preparazione della mostra “I popoli della luna-
Ruwenzori 1906-2006” realizzata nel 2006 a Torino e Kampala dalla Missione Et-
nologica Italiana in Africa Centrale, il Museo della Montagna di Torino, La Regione
Piemonte, l’Università di Makerere, il National Museum di Kampala, l’Ambasciata
Italiana in Uganda.
102
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103
Potere, trasformazione sociale e addomesticamento dell’alterità
a Nso’ (Camerun).
di Ivo Quaranta
I
l regno di Nso’ sorgeva in quella che oggi è la parte anglofona dei Gras-
sfields nord-occidentali del Camerun. In epoca precoloniale esso rap-
presentava uno dei più vasti regni dell’intera regione. Quest’ultima era
marcatamente distinta dalle altre aree dell’attuale Camerun in virtù di
una estrema stratificazione sociale emersa grazie alle possibilità di accu-
mulazione derivanti dal coinvolgimento dei suoi regni nei traffici a lunga
distanza (Rowlands 1979; Warnier 1985).
In virtù della loro origine esterna, i beni oggetto di questi scambi era-
no ritenuti carichi di potere (Rowlands 1987: 61). In epoca precoloniale
questi beni venivano usati come strumenti rituali nella protezione del
regno: essi avevano infatti la funzione di trasformare i loro possessori in
depositari di potere, in ricettacoli di quella sostanza ancestrale (sëm) che
fonda la capacità di identificare e contrastare la stregoneria. Attraverso
questo potere, infatti, i notabili possono invocare e cooptare a loro favore
gli spiriti degli antenati e delle forze della natura, offrendo così prote-
zione ai propri subordinati contro la sventura, la morte e gli attacchi di
eventuali nemici.
Nell’universo simbolico locale sëm indica il potere di avere accesso
al mondo delle forze occulte e viene rappresentato come una sostanza
contenuta nell’addome: attraverso di essa fon (“re”) e notabili hanno il
potere di generare trasformazioni, o vibay: essi nottetempo lasciano i loro
corpi sotto forma di animali (quali il leone per il fon e i leopardi per i suoi
consiglieri) a caccia degli stregoni della notte (anggasëm), detentori dello
stesso potere di trasformazione (sëm) utilizzato però per fini malevoli e
volti al tornaconto personale (Chilver, 1990).
Il concetto di sëm rinvia, dunque, ad una concezione assai ambigua
di potere: le ragioni di tale ambiguità vanno rintracciate nel fatto che a
partire dai primi contatti con i beni europei, nel XVII secolo, fino a culmi-
nare nel XIX secolo, i regni delle Grassfields hanno partecipato agli scam-
bi extra-regionali principalmente attraverso la tratta degli schiavi: è at-
traverso la vendita dei propri subordinati che i notabili ottenevano quei
beni che fungevano da strumenti rituali per la protezione della comunità
e la trasformazione dei loro corpi in ricettacoli di sëm.
Le contraddizioni prodotte dal coinvolgimento delle Grassfields nel-
la tratta vennero risolte attraverso la locale simbologia del corpo, alla cui
luce chi aveva potere (grazie alla vendita di schiavi) poteva anche garan-
tire la sicurezza del gruppo contro le aggressioni esterne in virtù del pro- 105
prio potere somatico. È evidente come una tale concezione del potere
tenda a giustificare la necessità della gerarchia e delle disuguaglianze
che ne fondano l’ordine sociale.
Ben lungi dall’essere state spazzate via dai profondi cambiamen-
ti socio-culturali che hanno interessato la regione nel corso del tempo,
queste concezioni del potere somatico vivono e pulsano proprio al cuo-
re delle forme simboliche che caratterizzano la modernità locale. Sëm,
infatti, continua a costituire il principio che giace dietro la capacità di
attirare e accumulare beni e ricchezze. Se questi ultimi erano in passato
ottenuti attraverso i traffici extra-regionali, oggi rinviano sempre più al
coinvolgimento nell’economia di mercato e nella partecipazione al pote-
re pubblico: gli attuali possessori di sëm sono coloro che hanno ottenuto
successo attraverso la partecipazione nelle nuove forme storiche dell’al-
terità, sempre più identificate con una locale immagine della modernità
occidentale concepita nei termini di benessere, abbondanza e realizza-
zione personale.
1. Sëm e trasformazione
2. Le società segrete
115
Note
1
Storie simili sono rintracciabili in diversi gruppi del Paese: si veda a propo-
sito Geschiere (1997: 39) per ulteriori riferimenti bibliografici.
2
Quando ad entrare in scena è, ad esempio, Kibaranko’, il juju più potente di
Nso’, “contenuto” all’interno di ngwerong, di cui costituisce la loggia più temuta, il
fon evita ogni contatto con esso, rintanandosi nei suoi alloggi, nella convinzione
che i due poteri cui essi afferiscono siano incompatibili, e il loro incontro porte-
rebbe il fon alla sventura. Kibaranko’, infatti, incarna la natura più selvaggia del
potere: l’esecuzione della sua performance è un inno alla violenza, i suoi gesti
incontenibili, al punto da rendere necessario l’uso di corde applicate alla masche-
ra così da consentire agli altri membri della loggia di controllare il juju qualora
questi vada fuori controllo.
3
La medicina (shiv), pertanto, costituisce l’identità della società stessa, sanci-
sce il giuramento fatto, punisce chi viene meno allo stesso, ed infine regola il pro-
cesso iniziatico. Ogni società, infatti, presenta una gerarchia interna, al cui vertice
opera un gruppo ristretto di persone ritenute in possesso di tutto il sapere relati-
vo alla medicina intorno a cui la società si riunisce. Questo vertice è normalmente
chiamato i saamba wir, i sette uomini: sono loro che custodiscono e dispensano
i segreti della società. Questi sette rappresentano l’ultimo grado del processo
iniziatico, e costituiscono un numero chiuso: solamente dopo la morte di uno
di loro un nuovo membro può essere ammesso al gruppo. I saamba wir sono,
quindi, coloro il cui compito è quello di mantenere la conoscenza della medicina,
e di tramandarla agli altri attraverso un processo iniziatico per gradi. Ogni grado
prevede un pagamento da parte dell’iniziando, ed il suo inserimento ad un livello
superiore che lo rende partecipe di maggiori prerogative (nella ridistribuzione
dei pagamenti degli altri neofiti, ad esempio, o nella ripartizione del pagamento
effettuato da chi è costretto a ricorrere ai servigi della società) e gli dà accesso ad
una porzione maggiore del sapere relativo alla medicina. Quest’ultima, quindi,
regola il processo iniziatico su un duplice livello: da un lato è il sapere relativo al
suo uso che differenzia i ranghi interni della società, dall’altro è la medicina che
interviene qualora uno dei membri oltrepassi l’ambito della sfera d’azione relati-
va al suo grado iniziatico.
116
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118
Performance, politica e genere in alcune società femminili africane
di Silvia Forni
I
n molte società umane l’accesso ristretto a sapere e conoscenze è
posto a fondamento dell’organizzazione che regola i rapporti tra in-
dividui e gruppi. Come evidenziano le riflessioni di molti autori che,
a partire dal pionieristico saggio di Georg Simmel (1906), ne hanno ana-
lizzato il ruolo sociale, la segretezza segna tre tipi di confini: quelli che
separano le persone da un punto di vista spaziale; quelli che definiscono
socialmente differenze di genere, età e classe, e quelli che spiritualmen-
te dividono ma al contempo consentono di creare relazioni tra i vivi e i
morti (Nooter 1993: 141). I confini tracciati dal segreto sono però confini
porosi, non definitivi, che lasciano inevitabili spazi di apertura alla com-
plessità delle relazioni sociali che definiscono e da cui sono definiti. I se-
greti infatti fondano il proprio potere su un inevitabile paradosso per cui
la loro efficacia è strettamente correlata al loro essere - sia pur in parte e
secondo regole ben definite - comunicati.
Il termine segreto deriva dal latino secernere che vuol dire “separa-
re”, “passare al setaccio” ovvero il risultato di un’attività di selezione ma
anche di distinzione. Se da un lato, infatti sono le conoscenze a essere
segrete, vale a dire che un certo tipo di sapere è selezionato, distinto dal
sapere comune in virtù della sua intrinseca connessione con il potere,
dall’altra sono segrete le società che di questo sapere sono depositarie.
Una separazione sulla base della quale si struttura la società stabilendo
confini e distinzioni tra gruppi e individui proprio in virtù del differenzia-
to accesso alla dimensione segreta. Tale gerarchia fondata sulla capacità
di discernimento implica una distinzione che si intreccia a vari livelli con
età, genere e risorse economiche ed è alla base della possibilità indivi-
duale e collettiva di cogliere nella sua articolazione la complessità della
società stessa. Sia in ambito quotidiano sia in ambito rituale i rapporti tra
individui e gruppi, tra vivi e morti sono regolati da leggi controllate da
coloro che hanno accesso ai livelli più alti di conoscenza. Tuttavia, nella
maggior parte dei casi, il contenuto del segreto non è un sapere tecnico,
operativo che consente a coloro che ne sono in possesso di fare cose
impossibili ai non iniziati. Come messo in luce da molti studiosi, la sostan-
za di ciò che viene distinto e celato è spesso meno importante dell’uso
della segretezza come strategia: «il contenuto del segreto è spesso insi-
gnificante se paragonato ai diritti, obbligazioni e privilegi generati dalla
segretezza» (Murphy 1980: 127). È qui si articola l’evidente paradosso1: se
i contenuti del segreto sono tenuti nascosti, il fatto che ci sia un segreto
viene spesso esibito con forza.
119
Le società segrete africane, che in molti contesti funzionano da so-
cietà regolatrici dotate di reale potere politico ed economico, fondano la
propria struttura interna e le proprie relazioni con l’esterno specificata-
mente sull’affermazione pubblica di un accesso privilegiato a certi tipi di
conoscenza (Murphy 1980, Bledsoe 1984). Partendo da tale presuppo-
sto, in questo saggio prendo in esame le implicazione della concezione
del segreto nella struttura politica dei regni dei Grassfields del Camerun.
In particolare, mi interessa analizzare come l’accesso privilegiato alla
conoscenza in questa zona si articoli in base al genere. Se infatti, nella
vita quotidiana la complementarità dei ruoli maschile e femminile viene
spesso sottolineata e ribadita, il controllo della struttura politica e della
conoscenza segreta pare essere appannaggio esclusivo degli uomini. Al
di là della retorica ufficiale che informa la visione comunemente condivi-
sa dell’organizzazione politica di questi regni, alcune proteste femminili
avvenute negli ultimi cinquant’anni e documentate in modo piuttosto
dettagliato, mettono in luce possibili ribaltamenti del discorso del pote-
re restituendo un’immagine più complessa e sfaccettata del segreto su
cui si fonda la possibilità di controllo e governo della società. L’aspetto
più evidente della struttura politica dei Grassfields è infatti il predominio
maschile della sfera politica pubblica. Il potere maschile, custodito nel
segreto del palazzo reale e della foresta sacra circostante, si manifesta
periodicamente in performance pubbliche che ribadiscono la forza mi-
steriosa e selvaggia su cui si fonda l’autorità del re e della gerarchia del
regno (Argenti 1996, Koloss 2000, Quaranta in questo volume). D’altro
canto le donne vengono spesso descritte dagli uomini come inadatte a
occuparsi della politica pubblica del regno, in virtù della loro natura poco
incline al mantenimento dei segreti. Tuttavia, come già messo in luce dal
pionieristico lavoro dell’antropologa Phillis Kaberry (1952), le donne dei
Grassfields sono tutt’altro che soggetti passivi o inermi. Pur accettando
le regole imposte dalla gerarchia maschile, sono anche consapevoli di
essere le custodi di segreti e poteri assolutamente straordinari, che però
non vengono manifestati se non in momenti di grave crisi, di fronte ai
quali diventa necessario ribadire pubblicamente la natura imprescindi-
bile del ruolo femminile nel mantenimento dei valori fondamentali e nel-
la riproduzione della società. Prima però di concentrarmi sull’analisi del
ruolo delle società femminili nella manifestazione di aspetti fondamen-
tali del segreto di questi regni del Camerun, vorrei brevemente allargare
lo sguardo ad altri esempi di società femminili dell’Africa occidentale che
mettono in luce l’importanza di un’analisi attenta alle questioni di gene-
re per comprendere l’articolazione e la complessità della dimensione del
potere2 nelle società africane.
120
1. Società segrete e integrazione sociale
127
Foto 1 - Rwasuna inserisce il sasso nella cassa del tamburo.
Lukanga, Repubblica Democratica del Congo 1986 (foto di S. Facci)
132
5. Segreti, riproduzione e politica
135
Note
1
Sono molti gli studi che affrontano le dimensioni paradossali e contrad-
dittorie della segretezza. Tra i lavori di ambito africanistico che maggiormente
hanno influenzato le riflessioni di questo saggio sono Bledsoe 1984, Diduk 1987,
Murphy 1980 e Nooter 1993. In particolare, i saggi contenuti nel testo di Nooter,
articolano efficacemente la complessità delle manifestazioni della segretezza in
numerose aree del continente trasmettendo un’immagine quanto mai variegata
delle molteplici funzioni sociali, etiche, estetiche e religiose assolte dal segreto.
2
In questo saggio mi concentrerò soprattutto su casi in cui le società fem-
minili partecipano in maniera diretta nelle manifestazioni pubbliche del potere
politico, tuttavia non bisogna dimenticare che “potere” può e deve essere conce-
pito secondo un’accezione più ampia e fluida. Come suggerito da W. Arens and
Ivan Karp, il potere «è una forma di controllo determinata culturalmente, che può
dominare, impedire o facilitare azioni e pensieri». E’ un concetto polimorfo e di-
namico che può essere definito come una «serie di idee connesse ad azioni, che
hanno effetto su altre idee e azioni», piuttosto che una semplice caratteristica di
isolate situazioni di interazione sociale (Arens and Karp 1989: xviii). In questo sen-
so il potere delle donne risulta essere una dimensione importante anche in quei
contesti culturali privi di società segrete femminili ufficialmente riconosciute.
3
Sebbene i fatti che hanno dato origine alla rivolta femminile nota in lette-
ratura come igbo women war fossero noti sin dal loro accadimento, è soltanto a
partire dagli anni Settanta del Novecento che alcune ricercatrici cominciarono a
domandarsi la ragione della rivolta collocandola in uno studio dei rapporti tra i
generi e dell’impatto della politica coloniale. Tra i lavori che vanno in questa dire-
zione ricordiamo Ifeka-Moller 1975, Korieh 2001, e van Allen 1972.
4
L’annullamento del potere politico ed economico tradizionalmente in
mano alle donne è stato messo in luce anche in altri contesti interessati dal do-
minio coloniale europeo. Si vedano ad esempio Ifeka 1992 e Oyewumi 1997.
5
Centrale in questa perdita di potere e di importanza economica furono le
politiche agricole implementate dall’amministrazione coloniale che concentra-
rono la propria attenzione sulle coltivazioni commerciali degli uomini ignorando
il fondamentale ruolo economico delle donne che coltivavano i prodotti per la
sussistenza famigliare e partecipavano a vario titolo nella vendita dei prodotti
legati allo sfruttamento delle palme (Korieh 2001).
6
Il primo resoconto antropologico della protesta femminile nota come anlu
è il saggio di Rizenthaler del 1960. Successivamente, questo evento e le altre ma-
nifestazioni di rivolta femminile scaturite nei Grassfields negli ultimi cinquant’an-
ni sono state analizzate da numerosi lavori, soprattutto ad opera di studiose don-
ne: Ardener 1975, Awasom 2006, Diduk 1989 e 2004, Chilver 1992, Goheen 1996,
Nkwi 1985, Luraschi 2006, Shanklin 1990.
7
Esiste infatti un’alta variabilità per quel che riguarda le caratteristiche socia-
li politiche e linguistiche dei regni dei Grassfields. Sebbene la maggior parte delle
unità politiche sia strutturata sotto forma di regno, esistono anche comunità co-
siddette acefale come quelle di Moghamo e Metà (Nkwi e Warnier 1982, Warnier
1985). Nei Grassfields sono prevalenti la successione patrilineare, la residenza vi-
rilocale e unità residenziali costituite da grandi compound in cui risiedono un ca-
pofamiglia le sue mogli e i suoi figli maschi con le rispettive spose. Tuttavia diversi
136 regni dell’altipiano di Bamenda praticano la successione matrilineare.
8
I membri maschi appartenenti al lignaggio regale fanno invece parte di
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140
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le don-
ne hadiya (Etiopia)
di Valentina Peveri
1. Segreti e linguaggio
I
l concetto di mistero/segreto ha radici legate alla delimitazione di uno
spazio, tra un dentro e un fuori. In particolare «(m)ystérion (iniziazione ri-
tuale) deriva dal greco myein (chiudersi) e fa riferimento agli occhi chiu-
si di coloro che si distaccano, mediante un rituale d’iniziazione, dal mondo
esterno e visibile» (Keller 2005: 202). Le distinzioni tracciate dal segreto nello
spazio identificano possibilità alternative di sapere e potere. La dimensione
religiosa e quella terapeutica sono intrise, ad alti livelli di visibilità, di que-
ste dinamiche giocate sugli accessi dall’esterno all’interno e viceversa. Ma la
straordinarietà degli ambiti rituali o la forza delle strutture istituzionali non
deve oscurare la fluida prammatica della vita quotidiana. Il potere è un gio-
co di opposizioni. Nei racconti delle donne che qui presenterò, localizzate
in un villaggio dell’Etiopia centro-meridionale, vi sono aspetti ricorrenti di
accento segreto: lo star sole in spazi ben delimitati (angoli della casa, por-
zioni della piantagione); il mantenimento del riserbo su varie tipologie di
“verità”,mai raccontate in tutti i dettagli; la comunicazione delle informazioni
in cerchie ristrette, dopo averli dissimulati nel silenzio e nella semplicità dei
modi; la natura performativa dei segreti, che indirizzano comportamenti o
controllano le persone in determinate situazioni.
Il tema della segretezza conduce a intersecare la strada delle retoriche
della vita quotidiana. In questo articolo cerco di attenermi a una visione con-
testuale della femminilità, in una prospettiva che connette gli idiomi fem-
minili e il più vasto immaginario sociale. Appresi sul campo che le donne di
Lamsella1 si scambiavano informazioni, avvertimenti ed emozioni secondo
codici (verbali e non verbali) che erano per me nuovi e che andavano sco-
perti. Mi parve di riconoscere che portavano il segno costante dell’ostilità
come stile culturale ed educativo: se esiste una forma di condivisione fem-
minile, per queste donne è attraverso la contenziosità che viene ottenuta.
Era prevedibile che le domande dirette sui loro comportamenti non funzio-
nassero: bisognava osservare, sperimentare fisicamente2. Il lavoro sull’oralità
e, all’interno di essa, su ciò che potremmo chiamare forme oblique (pette-
golezzo, rumori, avvertimenti, scherni, bugie e segreti) è molto gravoso. Le
faccende domestiche riempiono gran parte del tempo delle donne. Spesso
non accade nulla nel senso realistico del termine. Ma si dice che gli antropo-
logi abbiano o cerchino di avere un terzo occhio. Che si stiano apprendendo
tecniche specifiche o abilità generali, la trasmissione della conoscenza tende
ad avvenire nel contesto delle attività quotidiane mediante osservazione o 141
pratica manuale. Esiste solo un minimo di istruzione verbale diretta. Ne con-
segue che gran parte del sapere che l’antropologo studia esiste nelle menti
delle persone in forma non linguistica e che il quotidiano riveste un’impor-
tanza fondamentale nello studio delle pratiche culturali. In quest’ottica va
letto l’uso di linguaggi speciali e traslati da parte delle donne, che risultano
parte di una medesima strategia ambientale di protezione: i silenzi, l’ostilità
formativa, le debolezze della condivisione fanno parte di un corpus di azioni
discrete ma efficaci di ironia, disobbedienza, resistenza.
Un approccio all’argomento di questa ricerca senza conversazioni mirate,
oltre che una più passiva osservazione, sarebbe stato insufficiente dal mo-
mento che alcuni temi non sono praticati pubblicamente, nè osservabili in
modo diretto. È stato impossibile pianificare le conversazioni con sistematici-
tà. Le donne hanno rifiutato di sottoporsi alle domande ogni qualvolta esse
assumessero forma frontale. Ogni donna aveva iniziato a raccontare la pro-
pria storia: ne ho maneggiate quindici, ciascuna narrata con tempi, modalità
e fisionomia propri. Esse oscillano tra due livelli: come ci si aspetta che le cose
vengano fatte – il racconto tiene allora conto delle esigenze dell’antropologa,
delle precauzioni politiche, dei timori individuali rispetto a temi ritenuti com-
promettenti; e come le cose avvengono realmente – con ampie trasgressioni
o negligenze rispetto al livello ideale, della “norma” o “tradizione”.
Questo articolo si occupa di tattiche verbali quotidiane: come le don-
ne costruiscano discorsi indiretti, accuse e avvertimenti, storie moralizzanti
e capaci di mettere in ridicolo per asserire controllo su altri soggetti o per
manipolare idee e relazioni. È nella natura del tema che si vuole affrontare
un’ambiguità irrisolvibile e la carica paradossale del segreto: le risorse sfrut-
tate nel quotidiano (anche il silenzio) sono documentabili solo parzialmente,
mai in modo esatto. Accade perché il gossip è una tecnica spesso biasimata
o contrapposta fittiziamente alle arene aperte e dirette della politica e dei
linguaggi maschili. Perché il discorso indiretto non è appuntabile. Perchè
il silenzio rimane, pur con sfumature diverse, silenzioso. Proprio per questa
evanescenza teorica molti studiosi sono riluttanti a trattare le strategie fem-
minili come seri argomenti di studio. Eppure è proprio nelle frizioni fianco a
fianco in famiglia o nel villaggio, che ruoli di genere, una connessa divisio-
ne del lavoro e relazioni di potere vengono forgiate e mantenute. Sostiene
White (2000) che i segreti sono forme retoriche negoziate che valorizzano,
anziché negare, un’informazione. Che le bugie sono prodotti dell’abilità. Che
la dissimulazione è forse la tipologia di racconto più acuto che abbiamo a
disposizione.
Ma la segretezza porta oltre, attraversando i confini della casa e dei cam-
pi aperti, fino alle città e ad alcuni referenti della politica nazionale. Qualcuno
degli osservatori che mi accompagnarono nel processo di avvicinamento
al campo (indigeni ma a vari livelli estranei alla vita di villaggio) suggerì che
gli Hadiya, il gruppo che avevo deciso di studiare, assomigliavano alla pianta
142 che coltivano, l’enset: se questa ha una struttura morfologica simile alla ci-
polla - tutte le componenti del tronco vengono sfrondate una ad una, quasi
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le donne hadiya (Etiopia)
si trattasse di un fascio di guaine successive – così gli Hadiya erano nascosti
da strati concentrici di pellicole, penetrabili solo con un lavoro paziente e, in-
fine, poco veri perché inconsistenti – senza tronco, senza una verità centrale.
La metafora dell’enset suggerisce che la verità non esiste se non nello scam-
bio di intenzioni e idee fra interlocutori: è dialogica, non essenziale; fortuita e,
soprattutto, sempre autentica dal punto di vista di chi la sta rivendicando. La
composizione di un quadro sulla vita di alcune persone in zona hadiya non
può che ricalcare questa progressione verso un centro che non si raggiun-
gerà, e che forse non esiste. Accade anche per il segreto quando, anziché
celare informazioni, si palesa nella sua natura di sistema aperto, nella sua vo-
cazione al traffico e all’interattività. I segreti non giocano solo ruoli esoterici
in contesti ad alta formalizzazione; interpretano invece i fatti del quotidiano
muovendosi incessantemente da ciò che è nascosto a ciò che è rivelato, sve-
lando solo momenti o parti di verità esse stesse incomplete3.
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le donne hadiya (Etiopia)
sto alla loro scarsa propensione verso una religione prestigiosa come quella
ortodossa, o alla riluttanza politica verso le autorità statuali al potere (ancora
amhara e tigrine, non diversamente da qualche secolo fa)10. Le immagini che
li descrivono sembrano radicarsi nell’idea di una supposta “arretratezza” e
“tradizionalità” della zona, imputata da qualcuno all’isolamento geografico
e alla palese povertà – poche strade, in cattivo stato, condizionate nel loro
uso dalla stagionalità, una popolazione nella sua quasi totalità contadina; da
altri alla proverbiale testardaggine e irriducibilità dei suoi abitanti – descritti
come poco inclini all’obbedienza, refrattari alla partecipazione scolastica e
ad ogni tipo di educazione proposta o imposta dall’esterno.
Shita, una donna sui trentacinque anni di Lamsella, protestante fervente,
figlia della levatrice più anziana, combinava ai miei occhi i segni contrastanti
del presente e del passato. Attraverso la chiesa doveva aver proseguito gli
studi, perché aveva conoscenze storiche approfondite, e qualche nozione di
inglese. Dispensava fieramente le “leggende” e le “tradizioni” hadiya – canzo-
ni, ricordi tramandati, passi di danza. Suo padre era stato per qualche tempo
musulmano; poi, insieme alla moglie, ortodosso; infine si era convertito al
protestantesimo insieme coi figli. Shita esprimeva11 un debole consenso sul-
le affinità che legherebbero Hadiya e Kambata, con una spiccata propensio-
ne ad “etnicizzare” le differenze:
«Ci sono moltissime differenze fra noi, e non solo rispetto alle pratiche
culturali, ma anche rispetto al modo di preparare il cibo tradizionale. È diver-
so il modo di pensare e di mettere in pratica la formazione psicologica. Ogni
cosa fra noi è differente. Si pensa che i Kambata siano molto rozzi, non onesti.
Invece gli Hadiya, tutti sanno che sono persone oneste. Se tu sei con della
gente kambata, non sei in grado di capire cosa stanno pensando nel loro
intimo: per questo si dice che non sono onesti. Loro si prenderanno gioco di
te: rideranno con te, ma tu non saprai cosa sta passando nella loro testa. Non
ti sveleranno mai il loro vero pensiero. Anche se tu li offendi, loro non espri-
meranno il loro disappunto, la loro rabbia. Continueranno a ridere, a parlare
con te tranquillamente12. Questa è la differenza fra i due gruppi, gli Hadiya e
i Kambata».
La condiscendenza mostrata dai Kambata all’epoca delle invasioni
amhara fruttò la proliferazione sul territorio di missioni cristiane, scuole, pro-
getti di sviluppo, opportunità lavorative. Le storie che hanno per oggetto i
due gruppi contengono una carica non neutralizzata di rancore, dove preva-
le la rivendicazione, se non l’abuso, di potere. È come se gli Hadiya si appro-
priassero, attraverso le narrazioni di aneddoti, del ruolo e delle opportunità
di cui la storia recente sembra averli privati: «Ancora oggi non si amano a
vicenda. Anche se, culturalmente, sono molto simili: per esempio, i Kambata
sono in grado di parlare la lingua hadiya. Però non sentirai mai un Hadiya
parlare la lingua kambata»13. La conversazione si chiude con un inceppa-
mento della reciprocità: lingue che potrebbero essere scambiate perché 145
vicine, diventano per una parte soltanto (quella Hadiya, che si sente lesa) il
confine non praticabile della condivisione.
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le donne hadiya (Etiopia)
genitori dello sposo a mangiare un cibo speciale. Tale evento viene interpre-
tato alla stregua di un accordo stipulato direttamente fra neosposa e suoceri,
tanto che l’espressione del guardarsi negli occhi viene fatta coincidere col
termine più generale “promessa”.Come accadrà poi nella casa nuziale, i nomi
delle persone coinvolte nell’incontro vengono sostituiti da sinonimi o nomi
altri. I nascondimenti accompagnano il disvelamento sociale delle identità,
in un gioco serrato fra assertività e dissimulazione. I suoceri vedono per la
prima volta la donna dal giorno di bolocho’o, la vedono negli occhi: perché
durante il matrimonio ad entrambe le parti – neosposa e genitori del marito - è
proibito sia parlare che stare faccia a faccia. Durante ille mo’isha avviene una
sorta di inaugurazione della condivisione. All’assoluta deferenza della neosposa
si contrappone in questa fase la loquacità dei suoceri, che le raccontano la storia
dei propri antenati, la istruiscono sul passato della famiglia di cui entra a far par-
te, benedicono i due sposi, consegnano alla donna qualche utensile per la casa e
infine la avvertono del rispetto che deve a loro e al nome del loro clan.
La prima dolorosa tappa dell’avvenuto matrimonio coincide con il pe-
riodo, immediatamente successivo alla cerimonia, in cui la sposa sta seclusa
e protetta nella casa dei suoceri15. Con ancora maggior vigore prende fiato
la modulazione di segretezza. Durante tale periodo di addomesticamento
il linguaggio della sposa assume contorni esoterici ed iniziatici: le è vietato
non solo pronunciare il nome dei suoceri, ma qualsiasi altro termine che in-
cominci con la medesima lettera (si tratti di cose o animali). Il dato rassomi-
glia ad una situazione descritta per i Gurage (Leslau 1992), dove la neosposa
non farà mai menzione del vero nome di suo marito di fronte agli altri per
paura che una disgrazia lo colpisca. Presso tutti i gruppi d’Etiopia si rinven-
gono meccanismi linguistici di camuffamento della comunicazione, soprat-
tutto nel caso si stia parlando di parti del corpo, attività sessuali, religione.
Notevoli sono le assonanze con il mistero di cui è avvolta l’ospitalità della
neosposa a Lamsella, anche se talvolta le dinamiche possono risultare inver-
tite: «The characteristic feature of the taboo-expressions is the substitution
for the original expression of another having the same initial as the taboo-
word. There is no relation of meaning between the taboo-expression and its
replacement» (ibidem: 385).
Quando le neo-spose giungono nelle famiglie dei mariti non si trova-
no che all’inizio di un viaggio verso prestigio e riconoscimento sociale. I casi
delle donne vengono dibattuti soprattutto da e fra altre donne. Bubesancho
è il termine hadiya, mi spiegò Araggash Lopiso, con cui la gente esprime la ri-
provazione per una donna come lei: significa “una ragazza che ha divorziato”,
ma viene utilizzato anche per una donna a cui muore il marito, senza soluzio-
ne di continuità fra disgrazia subita e responsabilità in conseguenza di una
colpa. I segreti che hanno per oggetto la femminilità delle altre presentano
natura al tempo stesso dissimulata ed efficace. Predomina, nel punto di vista
della donna che è oggetto del gossiping, l’area semantica della resistenza 147
emotiva. Ma sullo sfondo si tessono trame di pettegolezzi e di rumori che di
segreto hanno solo il fatto di non venire espressi direttamente - sono segreti
parzialmente aperti, piegati a veicolare le informazioni obliquamente:
A.: «La società non ha una predisposizione positiva per questo tipo di
donna. Loro la disprezzano, ma se tu sei forte… cioè: io per esempio sono
forte, per questo non mi crea problema e non condiziona la mia vita. Ma l’at-
teggiamento degli altri è difficile da accettare. Perché lei ha divorziato, e la
gente non la tratta come tratta le altre».
V.: «Qual è la ragione per cui pensano che una donna divorzi?».
A.: «Pensano che la donna non è stata abbastanza forte per stare col
marito, che abbia un cattivo carattere. Perché si è sposata, però non è stata
capace di vivere con quell’uomo».
V.: «In che modo, quando sei giunta qui, i vicini hanno reagito alla tua
presenza?».
A.: «Io non sapevo cosa dicevano i vicini di me, ma su di me non avevano
alcun effetto. Quando sono tornata a casa mia, dopo il divorzio, sono tornata
ad essere libera; ho ricominciato a studiare e ad imparare. Non so cosa dice-
vano i vicini a quell’epoca, ma comunque non me ne preoccupavo».
V.: «Cosa è successo quando ti sei trasferita a vivere qui in qualità di nuo-
va moglie di Lopiso?».
A.: «Erano molto felici quando sono arrivata: i vicini, i parenti, tutta la so-
cietà. Battevano le mani. Non c’è stato alcun problema».
V.: «Quindi le altre non pensano qualcosa di negativo sul tuo conto, in
quanto donna divorziata…».
A.: «Io non so niente delle altre. Non mi sono mai preoccupata di loro».16
Di fronte all’accoglienza giocata su un doppio registro – la felicità di
facciata e il pettegolezzo tagliente nell’ombra – Araggash aveva elaborato
una sorta di serafica indipendenza, intrisa di cerimonialità. Restava calata,
senza contraddizione, nella rete delle inevitabili frequentazioni femminili. Si
era come abituata a dimenticare, ciclicamente, le offese ricevute. Ribadiva il
concetto della propria indifferenza alle “voci” con caparbietà. Fu altrettanto
laconica quando chiesi notizie della terza moglie di Lopiso, il suo attuale e
molto più anziano compagno: «di lei so solo questo: che è morta, e che dopo
la sua morte io sono venuta qui». È questo il punto nevralgico dove misurare
il peso delle parole e dei silenzi femminili: nei modi in cui Araggash venne
socializzata dalle altre all’assenza della moglie precedente, o meglio: ad una
presenza di lei come termine di confronto implicito, capace di fomentare le
gelosie e il senso di inadeguatezza delle nuova arrivata.
A.: «Nessuno mi ha raccontato nulla. So solo che lei ha avuto dei bambini».
V.: «Quanti anni aveva quando è morta?».
A.: «Non lo so».
V.: «Non hai idea di che tipo di donna fosse?».
A.: «Non lo so. Non ho nessuna informazione su di lei… era piccola di
148 statura17 e bella».
V.: «Perché non hai raccolto informazioni dalle altre donne o dai vicini?».
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le donne hadiya (Etiopia)
A.: «Quando ho chiesto alle altre persone, loro hanno detto: perché me
lo chiedi? E si sono rifiutati di rispondere. Non volevano raccontarmi assolu-
tamente nulla della moglie precedente. C’è gelosia, perché io sono arrivata
qui. Gelosia da parte delle altre donne: loro non sono contente che io sia la
nuova moglie di Lopiso».18
A un’accoglienza formale descritta nei termini dell’entusiasmo si sosti-
tuirono i sentimenti celati delle vicine di casa, nel segno della sfida e della
gelosia. Le scarse notizie riferite ad Araggash fanno intuire quali dati veniva-
no intenzionalmente selezionati dalle altre per idealizzare l’immagine della
donna morta: (a) qualità positive in ambito domestico (ritenute inarrivabili
da una ragazza della città); (b) risultati visibili nell’esplicazione della fertilità
(mentre Araggash ne aveva data solo parziale dimostrazione); (c) dedizione
incondizionata a marito e figli (mentre di Araggash si mettevano in dubbio
le capacità di accudimento).
V.: «Prima hai detto che quando sei arrivata ti hanno applaudito e fatto
festa…».
A.: «Certo, ma solo nel preciso momento del mio arrivo. Subito dopo le
donne sono diventate gelose. Senza alcuna ragione hanno cominciato a fare
paragoni fra me e la moglie precedente: senza ragione, solo a causa della
gelosia. (…) Io sono una ragazza che è andata a scuola, la moglie precedente
non lo era. Per questo le altre hanno pensato che io avrei prestato attenzione
a me piuttosto che a mio marito. È opinione comune che una donna che
ha studiato non è capace di provvedere al proprio uomo, ma curerà solo se
stessa e i suoi interessi».
V.: «Hanno cambiato idea?».
A.: «Dopo essere diventata la moglie di Lopiso, la nostra vita è cambia-
ta: per quanto riguarda la gestione della casa, i bambini di cui occuparsi, le
abitudini alimentari… Io cucino cibo delizioso, e adesso tutti lo sanno. I vici-
ni non mi criticavano apertamente. Ho capito da sola che parlavano di me.
Altre persone, vicine a me e a mio marito, ci hanno informati che la gente del
posto parlava di noi».
V.: «I vicini hanno cambiato la loro opinione su di voi?».
A.: «Non mi provoca alcun sentimento, nessun problema, nessuna preoc-
cupazione. Se parlano o se non parlano di me, per me è lo stesso».
V.: «Perché non credevano che tu potessi essere una buona moglie?».
A.: «I miei vicini parlano di me dicendo che non mi prendo cura dei figli
della moglie precedente. Ma questo non crea in me alcun sentimento o rea-
zione… è questa l’unica cosa che dicono di me gli uni con gli altri».
Le altre donne del villaggio ne sapevano qualcosa in più: e non erano
solo le notizie fatte arrivare ad Araggash perché percepisse i dubbi circa le
anomalie della sua condotta domestica. I messaggi che le giungevano erano
come passati attraverso un filtro, con l’obiettivo di provocare rivalità, creare
ansie di infertilità, mettere la ragazza di fronte alla sua inettitudine per la vita 149
rurale. Di Araggash le altre presupponevano una mancanza di conoscenza
del villaggio, dei meccanismi che governano le sue relazioni, dei valori che
reggono un’esistenza senza palliativi. Gennet19 possedeva informazioni più
ampie e neutre. Raccontava fatti che erano stati appresi con più tranquillità. È
il segno che le donne utilizzano i medesimi dati con diversi fini comunicativi:
ci sono parole che riempiono vuoti di conoscenza, che, più o meno sogget-
tivamente, informano; e parole più pesanti e manipolate che sono piegate
a veicolare valutazioni informali, ma negative, su altre donne, soprattutto in
momenti delicati di passaggio. Sono parole che possono far male, ma che
forniscono alle nuove venute punti di riferimento saldi in cui cominciare
ad orientarsi – nello spazio, nei rapporti, nell’uso delle parole. Poche sono le
zone e le relazioni, all’inizio della loro ambientazione, che possono percor-
rere con serenità. Più frequenti sono i confini cui vengono messe di fronte,
delicati sia da discutere che da attraversare: fra donne anziane e giovani ine-
sperte; fra mogli morte e neo-spose; fra le “sane” ragazze della campagna e le
donne che hanno sperimentato città, scuole e aspirazioni considerate fuori
luogo in ambiente rurale.
Un medesimo stile culturale improntato a silenziosità e durezza sembra
informare i rapporti fra coetanee, con le madri, i figli e gli uomini. Tale tonali-
tà comunicativa si trasferisce dai primi momenti ritualizzati del matrimonio
alle quotidiane forme relazionali. Le donne di Lamsella sembravano aver
trasformato il dolore, col tempo, in qualcosa di simile a un’ordinata e appa-
rente freddezza. Al vuoto di emozioni, che è in realtà controllo meticoloso
perché non si manifestino liberamente, corrisponde l’uso calibrato di parole.
I discorsi femminili producono norme e trasgressioni alla norma. Sono multi-
vocali. Si estrinsecano spesso per via di camuffamenti e mimetizzazioni. Tale
copertura di intenti non va interpretata come assenza di voce delle donne,
ma come linguaggio o sistema comunicativo altro.
Ciò avviene innanzitutto in famiglia, dove le donne imparano a
dosare circospezione e adesione alle relazioni: anche le più prossime, anche
quelle parentali. Dal punto di vista di una donna non vi è motivo di credere
che l’inserimento nelle reti familiari del marito le avvicini o accomuni ai suoi
componenti: co-mogli, figli che il marito ha avuto in precedenza o in conco-
mitanza da altre donne, suoceri, fratelli o sorelle dell’uomo. Non si tratta di
difendere un’identità propria o pregressa (visto che col matrimonio la fami-
glia di origine è in qualche misura smarrita socialmente), ma di proteggere
un’identità nuova, accettata ma precaria. La vicinanza parentale o residen-
ziale non è mai rassicurante, soprattutto da una prospettiva femminile. Anzi-
ché funzionare come strategia di certificazione, per le donne l’incorporazio-
ne nelle reti familiari dei mariti è una sorta di amplificatore dell’instabilità. La
parentela o i legami di vicinato restano certi da un punto di vista nominale;
ma sono agiti dalle donne come se non vi fossero, all’interno di essi, garanzie
su cui possano stabilmente contare. Potremmo definirlo un progressivo am-
150 bientamento nell’ostilità.
I motivi di questo stato di appartenenza femminile “condizionata” sono
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le donne hadiya (Etiopia)
anche di ordine economico e sociale20. I destini delle donne ruotano attorno
al tema della proprietà - accusate e accusando in trame fitte ma segrete di
parole21 – in una realtà che è però di fatto precaria, a loro sfavorevole. Uno
dei motivi dell’immobilità femminile a Lamsella risiede anche in questo bi-
sogno di sicurezze e di garanzie, con donne che si adattano alla necessità di
“rimanere attaccate” ai mondi maschili, e di lottare con altri soggetti per assi-
curarsi alcune delle risorse in gioco. La famiglia, dai componenti più prossimi
ai soggetti periferici, è luogo di disarmonie e contrasti. Le donne sono per-
cepite, soprattutto dagli uomini, in termini contraddittori: custodi della casa
e dei valori familiari, ma anche elementi sospetti, da tenere sotto controllo.
Ecco perché «the way to security to her life in marriage is through “good dis-
position”(…). A “good natured” woman, an ideal one, should be submissive,
obedient, cool, shy, tolerant,“ignorant”,etc.» (Yeshi Haile Mariam 1995: 37-38).
La donna socialmente approvata è colei che mantiene un basso profilo e
rifugge da sentimenti di superiorità e presunzione. Il controllo comunitario
si esercita per via di aspettative “inventate” (prodotte dai discorsi e dalle boc-
che che le fanno circolare) ma al tempo stesso efficaci.
Porrei l’accento su due delle qualità auspicate nelle donne: la “freddez-
za”, che è come la versione esterna, assunta a strategia comportamentale
dell’”ignoranza”: di quella finzione sociale per cui le donne mostrano di non
sapere, o esprimono altrimenti i loro gradi di conoscenza, emotività e potere.
L’ipotesi è che esista un nesso di causalità fra il dolore che hanno sperimen-
tato e la rimodellazione dei rapporti (all’interno e all’esterno della famiglia)
cui aspirano. L’appiattimento delle emozioni, fino a una loro apparente
scomparsa, è la caratteristica di relazioni che le donne stesse definiscono
“superficiali”. Il termine assume il senso di relazioni innocue, imbrigliate in
confini di segretezza e apatia che impediscono di risultare lesive. Non si trat-
terebbe di una superficialità di partenza, ma di un valore d’arrivo: a partire
da esperienze molto forti di disagio, paura o violenza. A monte si trovano
narrazioni di rapporti pericolosi; a valle una gestione di relazioni ridotte a
pochi scambi di tipo materiale, dove i margini di emotività si sono erosi al
punto da non essere quasi più visibili.
Il pericolo è vicino e assume dimensioni domestiche22. Shita ricorda la
forzatura del proprio matrimonio, narrato nei termini della frode. La vidi per
la prima volta a casa di Araggash Watumo. Giunse lì in tarda mattinata. Di-
scusse con le altre donne, poi si girò di scatto e mi disse: «Quand’è che mi vie-
ni a trovare?»23. Da quel momento fece in modo che ci incontrassimo spesso,
per strada, a casa sua e delle altre. Mi apostrofava sempre con le stesse paro-
le, accompagnate da strette di mano e da una continua ricerca di contatto
fisico: «oh, my sister!». Quel giorno preparò una serie di materassi contigui. Si
coricò accanto a me, la sua faccia attaccata alla mia. Iniziò a raccontare24: spo-
sa nel 1983, a quindici anni, un anno dopo ebbe il primo figlio; ne aveva sette
in tutto. Il suo matrimonio era avvenuto per abduzione. Lo seppe il giorno 151
della cerimonia e capì che l’avevano data in moglie quando venne traspor-
tata a forza a casa dell’uomo: «i miei genitori mi hanno ingannata, mi dissero
che mi stavano portando altrove». Non ci fu alcuna festa.
Sono altre donne che le hanno tenute in scacco: in questo caso è una
madre che consegna la figlia, a tradimento, all’uomo predestinato. Sono le
figlie a trovarsi al centro della contesa e delle manovre segrete, ed è a questo
primo livello che comincia ad instaurarsi una rete delicata di giudizi intra-
femminili. Le madri si trovano a decidere per le figlie secondo un mecca-
nismo nelle cui maglie si sono trovate a loro volta imbrigliate. Quella della
madri non è sempre la prima parola, ma talvolta può essere l’ultima. Kibbe-
nesh, apparentemente pacata in tutti i nostri incontri, esprimeva una rabbia
mirata nei confronti della madre, che accusava di ampie responsabilità nella
scelta della sua destinazione. Quando la incontrai per la seconda volta25, sta-
va allattando il bambino che aveva dato alla luce tre settimane prima. Poteva
avere ventidue anni. Considerato che quello era il quarto figlio avuto in otto
anni, doveva essersi sposata intorno ai quattordici anni. Menzionò il ruolo
materno in questa accelerazione di percorso, nell’impossibilità di giustificare
una maggiore passività della donna: «Entrambi mi hanno costretta a sposar-
mi. Entrambi avevano la stessa influenza nel decidere il partner. Ma è stata
soprattutto mia madre a dirigere la scelta, perché conosceva il mio futuro
marito. Una volta che lei ha scelto, mio padre ha acconsentito».
La carriera matrimoniale di Berkanesh26 mostra come le manovre fem-
minili si affiancano, spesso sostituendole, a protocolli che gli uomini formal-
mente impongono e che dovrebbero far rispettare. È dal segmento narra-
tivo27 incentrato sul terzo marito che fa capolino la posizione defilata ma
risolutiva della madre: «Il mio terzo marito era musulmano. Non aveva un
lavoro, e passava tutto il giorno in casa. Non avevamo mai niente da mangia-
re». Chiesi perché, essendo la sua una famiglia cristiano-ortodossa (converti-
tasi in tempi recenti al protestantesimo evangelico), avesse stabilito di darla
a un uomo così distante culturalmente, calandola in un rapporto denso di
compromessi. Attribuì alla madre la colpa di una scelta sbagliata: «Mio padre
aveva tre mogli, era un giudice tradizionale; si doveva occupare di tre case e
famiglie: non era molto presente, non si prendeva cura dei bambini. È stata
mia madre a decidere per questo matrimonio, senza consultarlo. Certo, la
mia famiglia sapeva che quest’uomo era musulmano e povero. Qualche suo
parente cominciò a venire a casa, e consigliò a mia madre di non dire nien-
te a mio padre delle contrattazioni che stavano avendo. Decisero di darmi
a lui, forse il mio terzo marito aveva fatto qualche magia alla mamma per
convincerla. Mio padre, quando scoprì la cosa, non ne fu contento. Ma ormai
non poteva più tirarsi indietro». L’anziana donna aggiunse: «Il marito di Be-
rkanesh mi dava noia. Veniva sempre a casa mia a chiedermi mia figlia. Alla
fine ho ceduto».
Si registrano nei racconti delle donne reazioni disperate e aggressive
152 prima di approdare a un’accettazione del proprio destino matrimoniale. Si
intrecciano tentativi di fuga, rancore per un destino spezzato, desideri che
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le donne hadiya (Etiopia)
covano sotto le ceneri di una conquistata serenità. Sospetto e riconciliazione
diventano le due facce della stessa medaglia. Considerare tutti gli altri indivi-
dui come variamente estranei permette alle donne di organizzare strategie
di difesa e di comprensione del reale più razionali: se tutti sono potenziali
nemici, la soglia di attenzione rimane elevata. Ma è pur vero che una vita con
qualche garanzia di protezione e solidarietà non può fondarsi su un perenne
stato di assedio. Sopraggiunge un momento che non chiamerei del perdono
- anche se è spesso il termine di stampo cristiano utilizzato dalle donne – ma
piuttosto della rielaborazione costruttiva. È una sorta di oblio, che ridimen-
siona la drammaticità degli eventi e che le donne apprendono ad esercitare
come si apprende a cucinare, o a lavorare l’enset: per vie femminili. Non si
tratta di una negazione assoluta di ciò che è stato, ma di un’assunzione di
distacco che renda vivibile l’esistenza, e le relazioni con le persone – le mede-
sime – che hanno agito in quei momenti di strappo e di violenza.
Al di là delle dichiarazioni ufficiali, le donne sembrano fare poco affi-
damento sulle altre. Reagiscono alla gelosia con intima rabbia, raramente
confessata, e all’esterno con una riduzione ai minimi termini dei rapporti.
I mondi maschile e femminile, seppure conoscano casi di intersezione nel
quotidiano, sono in partenza concettualizzati come divisi e diversi: per pu-
dore e rispetto nessuna delle due parti ha interesse a scontrarsi direttamen-
te con l’altra. Molto più sfaccettata è la situazione fra donne: perché esse si
trovano in una condizione simile, di precarietà economica e iniziale spaesa-
mento; e perché porta molti più vantaggi concreti, anche se di portata limi-
tata, osteggiarsi fra donne piuttosto che osteggiarsi fra sessi28. In uno stralcio
di conversazione un padre e un figlio ricordano la dinamica di combustione
interna che sembra consumare, prima che i rapporti fra sessi, la socialità del-
le donne:
Lopiso: «Dieci uomini possono lasciare Lamsella e vivere in pace in una
sola stanza, lo stesso non accade a due donne nel medesimo luogo. È per
natura, non so da dove viene, forse già dalla nascita».
Tegabu: «Quando gli Hadiya avevano molte mogli le tenevano separate,
in case diverse: ciascuna aveva il proprio comportamento e preparava il cibo
per proprio conto. Per gli uomini era molto difficile. Se tre o quattro donne
vivessero con un uomo nella stessa stanza, arriverebbero ad ucciderlo».29
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le donne hadiya (Etiopia)
li e sembrano indirizzate a rafforzare i sospetti dei mariti sulla fertilità delle
loro donne. Alcune hanno però sviluppato un’abilità strategica a deviare le
accuse, ad assecondare i propri desideri: «Le donne, dopo che ho avuto Hana,
continuavano a chiedermi perché non stavo avendo altri figli. L’ho allattata
per due anni. Mio marito si insospettiva, ma io non dicevo niente. Ho comin-
ciato a ripetergli che non doveva interferire nel lavoro di dio. In realtà stavo
prendendo dei contraccettivi. Lui avrebbe voluto che concepissi un altro
bambino già dopo sei mesi che Hana era nata»34.
Fluide sono pure le strategie adottate in campo alimentare. Alcune so-
stengono che vi siano donne ribelli, che mangiano prima di aver servito figli
e marito. Approfittano delle evasioni domestiche per stravolgere le leggi del-
la dedizione e volgerle a proprio favore: «Ci sono alcune donne che si pren-
dono cura di se stesse. Ci sono anche donne che mentre stanno andando al
mercato… insomma, decidono che mangeranno là. Ma è un’eccezione»35.
Come nel caso di Araggash, accusata di essere stata resa troppo “moder-
na” dalla frequentazione scolastica e quindi incapace di prendersi cura del
marito, così anche in cucina si paventava l’esistenza di donne disordinate,
fuori dalle dinamiche consolidate. In questa situazione diventa evidente che
“mangiare da sola” non risulta solo una condizione penalizzante. Come per
altre dinamiche di apparente gerarchia, la solitudine è anche una condizione
di libertà. Decomprime un rapporto di forza. Allenta il controllo esercitato da-
gli uomini: «Io penso che mio marito possa disprezzarmi se mangio più del
dovuto. Preferisco mangiare da sola: quando mangio con lui, se lui smette di
mangiare prima di me, anch’io smetto senza riempirmi lo stomaco. Anche se
ho ancora fame. Allora mangio di nascosto, senza farmi vedere da lui»36.
Le donne sembrano aver trovato dei sistemi per riconfigurare la regola.
Nel caso di Lamsella più che di una vera e propria contrattazione, basata sul
dialogo e lo scambio con l’altro sesso, si tratta di trucchi per ingannare gli
uomini37. La regola va conosciuta nei dettagli per poter essere trasgredita
intelligentemente. Per questo le mogli giovani vengono considerate inge-
nue, ancora in soggezione di fronte agli ordini impartiti dagli uomini. Una
donna deve conoscere bene il marito, averlo osservato ripetutamente nelle
abitudini alimentari, nei tempi di assenza e di presenza, nei gesti reiterati. Se
sa che lui è solito non avanzare cibo nel piatto, la donna apprende a servir-
gliene solo una parte: la piccola riserva, tenuta nascosta in cucina, cercherà di
condividerla coi bambini. Anche questi piccoli gesti di “furto” rientrano nella
cornice ambientale della segretezza, con manovre di spostamento e sostitu-
zione di cui le donne acquisiscono col tempo ampia padronanza.
La mancanza di trasparenza si esercita soprattutto a proposito delle vi-
cende identitarie femminili. Le parole delle donne “contano”, anche quando
vorrebbero apparire riservate o celate. Socializzano le forme di femminilità,
stigmatizzano o ironizzano sulle trasgressioni, creano legami di dipenden-
za o distanze di sicurezza. Le informazioni a proposito delle altre, anche se 155
scambiate in luoghi e modi segreti, trovano spesso la via per raggiungere i
propri obiettivi. I segreti sono volutamente porosi.
Sono le presenze femminili - non faccia a faccia ma in una trama sottile
di pettegolezzi, conversazioni per interposta persona o gesti mancati – a fare
da ponte fra mariti e mogli, a mediare le relazioni e gli scambi di informazio-
ne fra le due famiglie, a premere perché le neo-spose si conformino a ciò che
è pensato come giusto e conveniente, per una donna, in un contesto rurale.
È soprattutto all’interno del proprio genere che vengono elaborate imma-
gini e giudizi dell’una donna sull’altra, e molto raramente dell’altro sesso. Il
primo portato di questi scambi intrafemminili è una competizione serrata e
sotto controllo, ma costante, fra individui del medesimo genere e un’ampia
ignoranza o indifferenza per le vite e le azioni dell’altro – i mondi, gli spazi, le
aspettative maschili38.
Le donne, nel descrivere come un uomo presceglie la donna per il ma-
trimonio, sembrano condividere le preoccupazioni e i punti di vista maschili:
«un uomo non saprà mai se una donna è adatta prima di sposarla; è sempre
un rischio. Sono le famiglie che si scambiano informazioni a proposito dei
partners»39. Le donne giovani esprimono di solito giudizi assoluti e nega-
tivi a proposito di coppie in cui le gerarchie si sono modificate nel tempo
fino, quasi, a “snaturarsi”; in cui la maschilità ha assunto toni meno monolitici
del previsto, e alle donne pare consentito ciò che socialmente è proibito o
sconsigliato. Si ha la sensazione che verbalmente, forse per sedimentazione
indiretta delle regole e imposizioni maschili, siano le donne a vegliare con
scrupolo sulla condotta delle altre, a garanzia di un rapporto fra sessi che
rimanga – tanto per loro che per le vicine – nei solchi della “tradizione”. Con
Araggash Lopiso ed Elsabet discutemmo40 a lungo di possessioni, e del fatto
che sono le donne, più spesso, ad essere visitate dagli spiriti. Le due giovani
donne istituirono una correlazione fra tre fenomeni che percepivano logica-
mente conseguenti: la dimestichezza di un’anziana donna con gli spiriti della
tradizione; i comportamenti antisociali a cui le sue stranezze l’avevano con-
dotta, rendendola atipica e pericolosa nella sua femminilità; e un altrettanto
disordinato rapporto col marito, che si destreggiava a fatica fra la volontà di
rimanerle accanto e il bisogno di mantenere l’apparenza di un rapporto di
genere equilibrato. Così, fra risate di denigrazione, lo raccontarono le donne:
«È una donna molto anziana. La si sente ancora gridare, è posseduta dallo
spirito. Non va in chiesa, dice di odiare tutte le chiese. Sta a casa da sola. Non
va ai funerali, nè ai matrimoni. Se ci va, sta seduta in disparte, non si siede ac-
canto alle altre come fanno tutte, non parla con loro. Il marito è protestante
e va regolarmente in chiesa. Sua moglie non ama lavorare, fin da quando era
una ragazza. Non vuole mai cooperare con le altre donne».
Seguì un silenzio circospetto, le donne sembravano intimorite. Fu Elsa-
bet a spiegare con un filo di voce che esistono donne più pericolose di altre,
che le minacce si esercitano per vie femminili, e le parole vanno usate con
156 cautela perché «la donna di cui stiamo parlando, lei sa esattamente di cosa
stiamo parlando in questo momento. Sa molte cose segrete delle persone,
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le donne hadiya (Etiopia)
anche se mai nessuno fisicamente gliele ha dette». Di fronte a una donna che
con un agire individualistico e disobbediente sembra stravolgere i ritmi della
vita familiare, le priorità e i doveri connessi al genere, gli equilibri matrimo-
niali, il pensiero delle donne si appuntava sulle mancate decisioni del marito,
che acconsentiva senza reazioni o punizioni a un rimescolamento dei ruoli,
a una revisione domestica di quelle regole che la comunità esplicitamente
incoraggia. L’uomo venne descritto con venature di ridicolo: «Sai che lei non
fa neppure da mangiare? Si rifiuta anche di estrarre il latte dalle mucche. In
paese si vocifera e tutti sanno che è il marito a farlo di notte, quando nessuno
può vederlo. La malattia che lei ha è come un’eredità di famiglia. Il marito
non ne sapeva nulla prima di sposarla. Hanno solo un figlio. La famiglia di lui
ha fatto pressioni perché divorziasse. Ma lui non ha voluto. Forse non aveva
chiesto informazioni ai vicini prima del matrimonio, o ha dato più importan-
za al fatto che la famiglia di lei era ricca e perbene».
Dare e chiedere informazioni, in modo discreto ma capillare, è uno dei
mezzi di conoscenza e di intervento attivo anche se non immediato delle
donne. All’apparenza producono discorsi innocui, senza giudizi eclatanti e
senza passione. Ma prestando attenzione ai dettagli si comprende che que-
sti pettegolezzi, che si perpetuano quasi per inerzia a scandire le faccende di
casa, sono il laboratorio dove alcuni stereotipi di genere vengono coltivati e
dibattuti; dove si mette a fuoco l’immagine appropriata di come una donna
si deve comportare, in una sorta di calmiere delle qualità buone e cattive;
dove sulle altre si esercitano pressioni perché un certo tipo di meccanismi di
genere continuino a funzionare.
Le donne trascorrono fra loro molto tempo: prendono parte ai gruppi
di lavoro intorno all’enset per settimane. Partecipano alle funzioni religiose
della chiesa evangelica. Assistono ai parti. Vanno a raccogliere acqua o al mer-
cato, ma non secondo piani o appuntamenti. I discorsi che accompagnano il
percorso non hanno il tono della confidenza: sono vaghi, senza implicazioni
personali, senza commenti su fatti o persone specifiche. Sono tutte, a detta
delle mie interlocutrici, attività necessarie e prescritte, superficiali, senza alcu-
no scopo di approfondimento delle relazioni. Non sembrano esistere incontri
fra donne che siano “disinteressati”,per il gusto della conversazione o del con-
fronto: «Non mi incontro mai con le altre donne per avere con loro conversa-
zioni personali, ma solo per motivi specifici: prendere il caffé, o ricevere insie-
me degli ospiti. Mentre andiamo al mercato parliamo dei lavori di casa: quelli
che abbiamo già fatto in mattinata, quelli che ancora dobbiamo fare»41.
Anche la vicinanza protratta in occasione della lavorazione dell’enset
viene descritta come necessità economica più che come spazio di condivi-
sione. Le associazioni femminili – progettate per organizzare il lavoro sull’en-
set, ma anche attività come ricamo e piccolo artigianato, che consentissero
alle donne introiti personali – a Lamsella non sono mai attecchite. Araggash
Lopiso vi aderì in un primo tempo. Fu costretta ad uscirne per due ordini di 157
motivi: il primo, una carenza organizzativa da parte dei kebeles, che avreb-
bero dovuto supportare un’associazione trasversale, che metteva insieme
donne di diversi villaggi; il secondo, più profondo e pervasivo, la gelosia fra
donne: «Le donne di Gabo42 volevano partecipare, ma come leaders. Per
questo mi hanno rimosso dal posto di supervisore»43. La donna notava una
connessione tra l’esercizio della gelosia e il paludamento domestico cui le
donne stesse contribuiscono, contrastando l’instaurarsi di gerarchie, priorità
e competenze di alcune donne rispetto ad altre. L’avanzamento di una non
può che essere a scapito delle altre; il sospetto nel presente sostituisce inve-
stimenti e accoglimento del rischio per il futuro: «Non possiamo ricomincia-
re con l’associazione, perché le donne non tollerano la leadership delle altre:
quella che si mobilita per metterle insieme viene accusata di cercare il pro-
prio interesse. Sono poco cooperative. Preferiscono stare a casa, fare i propri
lavori senza essere disturbate, non perdere tempo con altre cose. A me pia-
cerebbe partecipare, sarebbe l’occasione per uscire qualche volta di casa»44.
Mulunesh mi venne presentata dal capovillaggio per avvalorare la tesi che
le associazioni esistessero davvero. Lei, con molto imbarazzo, disse che era la
rappresentante di un gruppo di venti donne, una leader. Avevano scelto le
case che a rotazione avrebbero ospitato gli incontri: ma aspettavano fondi
dalle autorità. Non affrontò direttamente il tema delle ostruzioni femminili,
interne, al progetto; la gelosia rimaneva sullo sfondo, invisibile ma essenziale
per descrivere le relazioni fra donne: «Le donne non dicono di fronte a me
cosa pensano della posizione che ricopro. In questo momento l’associazione
non è operativa, quindi non hanno motivo di essere gelose. Diversamente,
lo sarebbero. Ognuna di loro ama avere posizioni da leader, e ottenere più
benefici»45.
Nelle piantagioni il contatto ravvicinato amplifica questo vociferare in-
crociato di cui le donne sono soggetti attivi e oggetti di dibattito. Quelle che
collaboravano alla raccolta di Bakkalech non venivano pagate: la padrona di
casa avrebbe ricambiato il favore per ciascuna di loro. È un sistema rotativo
che consente alle donne di spostarsi nelle zone più distanti del villaggio, ri-
vedere vecchie conoscenze e portare con sé notizie aggiornate da baratta-
re con quelle delle altre. Ogni settimana, nei periodi di lavoro più intenso, si
cambia piantagione, appoggiandosi a una diversa ospite. Le donne, indaffa-
rate, cominciarono a non accorgersi più della mia presenza. Mi sedetti dietro
una pianta per sfuggire le mosche e l’afa. Bisogna immaginare l’interno di
una piantagione, dove le grandi foglie di enset sembrano far da scudo al sole,
e ritagliare uno spazio di donne non percorso da presenze maschili: un luo-
go protetto, temporaneamente parallelo a ciò che accade fuori – nella vicina
casa padronale, nel villaggio, nei campi aperti. Le donne lavorano a crocchi,
seguendo ciascuno un segmento del processo. Si inizia all’alba e si finisce a
sera; tutte approfittano dei turni di ospitalità: la casa a cui offrono il servizio
provvederà a preparare il caffé della mattina e di metà pomeriggio, oltre che
158 il pranzo.
Le voci delle donne rimbalzavano da un angolo all’altro. Raramente un
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le donne hadiya (Etiopia)
intervento era seguito da una premessa. Ciascuna iniziava a parlare dando
per scontato che le altre avessero un’idea approssimativa del contesto e del-
le persone chiamate in causa. Ma erano tutt’altro che considerazioni spora-
diche o non calcolate. Una donna, in mezzo al silenzio generale, attaccò con
semplicità: «La tale mi ha insultata. Ha detto in giro che sono una ladra. Sono
arrabbiata». Le altre la sostennero in blocco, ripetendo di non preoccuparsi
perché «il comportamento di quella ragazza non è mai stato buono». Passa-
rono i minuti, e toccò a un’altra: «Sapete che la tal famiglia mi ha invitato ad
andare in visita da loro?». Si levò un coro di bisbigli e stupori. Poi protestaro-
no: «come sarebbe a dire? Noi non siamo state invitate. Non siamo forse loro
vicine di casa? Perché hanno invitato te e non noi?».
Ci sono momenti in cui queste parole hanno un peso superiore: non solo
descrivono situazioni presenti, o accennano a fatti accaduti; ma assumono
toni concitati, crescono di numero e di volume, sono capaci di fare pressione,
di ottenere alcuni non trascurabili effetti. Le minacce che le donne subiscono
sono attivate da altre donne, che hanno appreso, col tempo e l’esperienza, a
re-impiegarle verso le più giovani e inesperte. Tali minacce non hanno valo-
re solo distruttivo: rappresentano una forma di socializzazione delle nuove
venute, se è vero che, una volta introiettati giudizi e cattiverie, rimproveri e
disprezzo, le donne si abituano alla durezza, utilizzandola esse stesse come
una risorsa di autonomia e di benefico distacco da relazioni troppo intime e
pericolose.
Questo uso cifrato del linguaggio, con finte coperture rispetto al nodo
centrale del discorso e un insistente vociferare su dettagli apparentemente
secondari, si riscontra anche nel rapporto che le donne intrattengono con
soggetti esterni alla propria comunità: ufficiali governativi, ospiti o cono-
scenti provenienti da Hosaina. Atteggiamenti di forte conflittualità vennero
assunti nei confronti di Desta, una delle mie interpreti. Tutte le donne la tol-
lerarono con insofferenza. Non parlava la lingua locale, ma solo amharico;
i genitori non erano originari della zona hadiya. Alle evidenti differenze di
lingua, si sommò il disagio della ragazza per quella che percepiva come una
rivendicazione etnica aggressiva: aveva paura delle donne di Lamsella, dei
loro modi bruschi, di quelle che ai suoi occhi erano proteste velate ma mira-
te. Accadde quando Wodetu, l’anziana levatrice cieca, si prolungò in un’ac-
corata difesa della propria “nobiltà” amhara. Era rispetto a Desta, di cui non
conosceva identità e famiglia, che modulò accuse e rappresaglie. L’interprete
rifiutava di tradurre le parole della donna, sostenendo che erano offensive e
non contenevano dati interessanti per la mia ricerca. Rifiutò di continuare a
porre domande, e alluse di sfuggita a un problema di cui mi credeva digiu-
na: «sai, qui in Etiopia ci sono molti problemi politici; quelli che vengono dal
nord si sentono superiori a tutti noi altri»46.
Con Wodetu, come con le altre donne di una certa età, la ragazza soste-
neva di non riuscire a seguire le conversazioni. Era un linguaggio, insisteva, 159
che si attorcigliava su se stesso, pieno di ripetizioni, illogico. Non comprende-
va il valore metaforico delle sue parole, la rete sotterranea di rimandi a storie
e persone vere cui la donna non poteva o voleva fare aperto riferimento. Per
Desta era solo una vecchia e, come tutti i vecchi, «sai, non capisce cosa le sto
chiedendo, continua a ripetere le cose, segue un suo personale ragionamen-
to… forse è un po’ matta».
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le donne hadiya (Etiopia)
di trasparenza con cui i contadini gestiscono le relazioni con l’esterno (per
esempio con le autorità di Hosaina), la stessa doppiezza che caratterizza
l’espressione delle loro opinioni ed emozioni di fronte agli estranei (i notabili
e me compresa), viene praticata anche a proposito della politica. Medesima
è l’abilità strategica di alludere a qualcosa parlando d’altro. Furono in molti a
descrivermi la perizia retorica degli Hadiya, che per trasmettere informazioni
nel caso di argomenti scottanti (politica, amicizie e alleanze, lotte intestine)
sono soliti utilizzare modi figurati e allusivi: raccontando del presente sotto
forma di detti, proverbi, canzoni. Il fulcro del discorso viene raramente tema-
tizzato. Rimane implicito, ad esso ci si riferisce facendo finta di parlare d’altro.
Il disvelamento, nel caso di una gravidanza come di una preferenza politica,
avviene per segni, non verbalmente.
Con le donne di Lamsella bisognava imparare ad ascoltare. Soprattutto,
ad essere caute. Si tratta non solo di un diverso regime emozionale, ma an-
che di una questione di pratiche espositive e tempi interlocutori. Laddove
attendevo risposte brevi ed efficaci, lì mi trovavo a maneggiare le variazioni
criptiche sul tema, i silenzi espressivi, la segretezza con cui certi argomenti
venivano lentamente sviscerati. La stessa multivocalità del linguaggio fem-
minile è ritratta da Pankhurst (1992)49. Le donne manipolano le relazioni, al
di là e al di fuori degli usi mondani di un linguaggio (e di un pensiero) che
presupporrebbe il loro silenzio: «If women want to communicate among
themselves when there are men around, they “whisper” or “gossip”. (…) Fur-
thermore, though “whispering” and “gossiping” are conditions that imply
constraint, this is not to say that women do not actively use the channels
available to them to their own advantage» (ibidem: 167). Anche Harding
(1975) aveva sostenuto il medesimo punto: se è vero che le donne hanno
minori o più ristrette possibilità di accedere alle informazioni ufficiali (o di
essere messe a parte delle informazioni in modo formale), è altrettanto vero
che il “gossiping” le riporta, per strade secondarie, ai processi decisionali. È
con le loro chiacchiere, spesso considerate inutili, che le donne trovano so-
luzioni o intervengono nei dibattiti in atto: «it is a political act which is made
fun of because politics should not be a woman’s prerogative» (Pankhurst
1992: 173).
Ma quali sono le inevitabili coercizioni tra le cui pieghe le donne mo-
dellano gesti e pensieri? Avendo stabilito di affrontare un doppio ordine di
questioni - la relazione fra realtà contadine e Stato da una parte, le vite delle
donne dall’altro – la studiosa giunge ad una convergenza inattesa: che esista
una sorta di analogia che pone in parallelo la relazione fra donne e uomini
e la relazione fra “ruralità” e Stato. Se si incrociano i termini, si approda alla
perifericità femminile: «the relationship between women and state was par-
ticularly tenuous and indirect» (ibidem: 175). Come le associazioni di villag-
gio rimangono sospettose nei confronti dello Stato, legate ad esso da una
continua strategia di aggiustamento fra resistenza e consenso, così il valore 161
economico e sociale delle donne pare rimanere sospeso fra strutture di ine-
guaglianza, che sono subite ma anche fatte oggetto di ribellione. Esiste un
canale biunivoco che mette in circolazione i significati di genere all’interno di
scenari più ampi, e i significati socio-politici all’interno dei rapporti fra i sessi.
Tali riflessioni suggeriscono che siamo, insieme alle donne di Lamsella, in
punti delicati di snodo. Il linguaggio si infittisce non solo al cuore dei mondi
femminili, con censure o sostituzioni come avviene nella casa della neospo-
sa; ma anche a livello locale, con l’oscurità o ferocità come cifre riconosciute
del carattere e della retorica Hadiya; e a livello nazionale, dove qualcuno ha
rilevato che la stessa lingua amharica fu a lungo usata per scopi sovversivi
contro le autorità politiche o i potenti in generale (Yeshi Haile Mariam 1995).
Tale uso polemico avverrebbe in virtù del fatto che la maggior parte del vo-
cabolario ha un (almeno) duplice significato, fenomeno denominato k’ene.
Questa doppiezza o profondità di sensi serviva a insultare alcuni soggetti, a
esprimere situazioni, sentimenti, critiche politiche. K’ene era attivamente pra-
ticato prima dell’espansione della moderna educazione, che è poi giunta a
scoraggiare i canali “tradizionali” di comunicazione. Essi consistevano «partly
of cultivating the ability to use the language so that it says something other
than what it is to be directly understood» (ibidem: 19).
Una differenza di natura e di uso distinguerebbe le espressioni tabù da
questa forma di comunicazione: se nel primo caso l’enunciatore conosce in
modo esatto l’oggetto che viene dissimulato, e il camuffamento serve non
a nascondere ma, paradossalmente, a conferire allo stesso un’aura di mag-
giore sacralità; nel secondo caso lo scopo principale è di insultare in modo
figurato senza essere compresi da coloro ai quali l’insulto è diretto. Con le
espressioni tabù si dà per scontato che avvenga la condivisione, sulla base
di un background noto a mittente e ricevente; con k’ene si stabilisce un di-
slivello conoscitivo, per cui una parte del significato rimane occlusa al desti-
natario. Gli argomenti politici sembrano ricadere in quest’ultima situazione,
coperti da proverbi ed espressioni idiomatiche. Qualcuno a Lamsella definì
così il modo di procedere di k’ene: «la parte principale di quello che vuoi dire
rimane all’interno, e le persone parlano intorno alla cosa nascosta»50. Esiste un
medesimo meccanismo linguistico in zona Hadiya denominato labisha; ci si
avvicina al cuore dell’argomento senza mai affrontarlo direttamente: «la cosa
importante rimane nascosta; la cosa c’è, ma le persone si avvicinano senza toc-
carla con le parole»51. In certe situazioni o periodi di particolare delicatezza si usa
questo camuffamento per parlare di politica.
Nei linguaggi semi-nascosti delle donne, nelle riservatezze mostrate, ne-
gli atti di chiusura si possono intravedere, condensati ma interi, alcuni nodi
problematici. Innanzitutto i rapporti difficoltosi fra centro e periferia, che si
tratti della percezione che a Lamsella hanno del governo, della democrazia o
delle pretese “cittadine” di chi, semplicemente, proviene da Hosaina. Possia-
mo affermare che la generale attitudine all’apatia, al controllo delle parole e
162 delle emozioni52, dipenda dalla situazione politica speciale che si è vissuta e
si vive in zona hadiya. È un clima che Tronvoll (2002) non ha esitato a definire
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le donne hadiya (Etiopia)
di repressione e diffusa sofferenza53. Già le elezioni del maggio-giugno 2000
dimostravano che un crescente potenziale di controllo era stato affidato
nelle mani degli ufficiali delle zone rurali, attraverso ricatti e pressioni che
miravano ad avere ricadute concrete nella vita dei contadini54.
I nemici e le minacce non vengono solo dall’esterno: all’interno del vil-
laggio e delle loro case le donne veicolano significati parziali perché esisto-
no convenzioni da rispettare e pericoli da cui proteggersi. È agli argomenti
degli uomini che va data precedenza e visibilità, dato che socialmente ci si
attende dalle donne che siano docili, timide e riservate. Anche nel raccon-
to che mi fece una giovane ragazza di Hosaina, studentessa e mai vissuta
in campagna, a proposito dei meccanismi del corteggiamento, si possono
isolare le qualità che a una donna si richiedono rispetto all’amore, alle verba-
lizzazioni, e alle emozioni in generale:
«Gli uomini etiopi sono traditori: non per motivi culturali, ma per ragioni
biologiche. Una ragazza che sia innamorata di un ragazzo non può chiede-
re per prima e direttamente. Deve lanciare segnali discreti e aspettare che
sia lui a fare il primo passo. Se la ragazza chiedesse, la colpa di un’eventuale
fine del rapporto sarebbe imputata a lei, a questa trasgressione delle regole
e delle priorità. E se lei chiedesse per prima, il rapporto finirebbe di sicuro
perché è già rovinato. Se anche è il ragazzo a chiedere ufficialmente il fidan-
zamento, dalla ragazza ci si aspetta un iniziale rifiuto, un atto di pudore, qual-
cosa che faccia credere che è disposta a rinunciare al proprio amore. Se ama
quel ragazzo, fa bene a dissimulargli il proprio amore per non conferirgli un
ulteriore potere, cioè la sicurezza di avere già l’amore di lei».55
Alle donne si richiede un nascondimento dei sentimenti, coperture
verbali e precauzioni negli slanci emotivi: «In Etiopia solo i maschi posso-
no esprimere opinioni a proposito delle ragazze. Se un uomo la vede e la
vuole, lei comincerà a guardarlo solo da lontano, non mangerà né berrà di
fronte a lui»56. Le donne dovrebbero mostrare disinteresse all’amore: ma tale
rinuncia, inscenata e socialmente attesa, non è ad unico vantaggio degli uo-
mini. È anche un modo per le donne di intervenire sul “potere” maschile, di
disorientarlo strategicamente rimanendo impassibili, riducendo i margini di
vulnerabilità. È pur vero che al di là delle regole, o forse proprio al loro inter-
no, i linguaggi femminili sono temuti perché tessono trame complicate e
impreviste57. L’anziano Lopiso sosteneva che le parole delle donne ferissero
maggiormente delle armi - retoriche e concrete - della politica: «I problemi
delle donne sono più pericolosi di qualsiasi questione politica: quando due
donne iniziano a parlare non c’è niente di conoscibile intorno a loro. Invece
i discorsi politici sappiamo da dove vengono. Le donne parlano di cose o
persone anche senza avere informazioni, senza nessuna paura. Le donne mi-
schiano buone e cattive parole».58
163
6. Conclusioni
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le donne hadiya (Etiopia)
vedere al di là di quelle che sembrano forme di soggezione, rassegnazione o
violenza. Per quanto le tematiche di genere appaiano “periferiche”60, tuttavia
conflitti interrelati percorrono di continuo gli ambiti femminili, che è solo un
difetto di prospettiva a farci percepire chiusi: chiuso e scarsamente sistemico61
è stato a lungo l’approccio accademico alle relazioni femminili. Nello spazio “ri-
stretto”delle donne di Lamsella, in forma rivista o dissimulata, i nodi concettuali
– anche quelli considerati pubblici o di ampio respiro - tornano a convergere62:
politica, rivendicazioni di “etnicità”, insofferenza per quelle che sono pensate
come culture dominanti, discorsi sulla femminilità e la maschilità. Un’analisi dei
luoghi minimi e riservati, dove il silenzio diventa l’altra faccia del pettegolezzo,
suggerisce che le variazioni individuali sono numerose anche in frange di indi-
vidui pensate come tradizionali, in costumi concepiti come fissati dal tempo e
dalle leggi. Che le strategie femminili si esercitino nel domestico non significa
che siano ridotte o inefficaci. È proprio a partire dalla casa e dalle relazioni più
prossime che le donne cercano di ottenere ritorni in termini economici e di
autonomia. Giunti al punto più interno del lavoro, al cuore delle questioni fem-
minili, non si può che tornare indietro, a scenari più ampi, all’interdipendenza
che lega pubblico e privato, famiglia e società, emozione e retorica politica.
Un’analisi dei segreti femminili giunge forse a mettere in discussione la
netta identificazione del “pubblico” con i domìni del formale-collettivo-ritua-
le-culturale e del “quotidiano” con l’informale-individuale (Piot 1993). Incrina
anche il monolitico concetto di “potere”.In molti libri il potere è qualcosa che
appartiene all’arena pubblica in contrapposizione alle sfere domestiche. Ma
nella vita dei gruppi che un antropologo studia il potere è ovunque, perché,
molto banalmente, vi è potere laddove vi sono reti di persone che tentano di
influenzarsi a vicenda. Secondo Wolf (2000) esso avrebbe quattro modalità
di estrinsecazione: la potenza (il potere come attributo della persona, senza
informazioni sulla sua forma e direzione); l’imposizione a-contestuale (l’abilità
di un ego di imporre, nell’azione sociale e nelle relazioni interpersonali, la
sua volontà su di un alter; senza alcuna riflessione sulla natura del conte-
sto); il controllo dei contesti (il potere inteso come distribuzione e controllo
delle risorse, come “tattica”); la strutturazione e governo dei flussi d’energia (il
potere strutturale e istituzionalizzato). L’analisi condotta a Lamsella sembra
far coincidere le strategie delle donne con la terza dimensione: i poteri fem-
minili derivano da una conoscenza dettagliata dei contesti di riferimento, sia
ambientali che relazionali; scaturiscono da un’esperienza fisica e manuale di
come le cose vengono fatte. Divenire donna significa confrontarsi e misu-
rarsi con le forme sociali che l’essere donna assume, in un processo di nego-
ziazione continua tra coercizione e apertura. Le donne lavorano all’interno
delle costrizioni piuttosto che contro di esse. Segretezza e gossiping sono
armi retoriche ambivalenti, dove si annidano ironia, accettazione forzata, e la
fantasia tipica del gioco. Il segreto perde così la sua natura episodica e va a
calarsi, come stile e prassi, nelle dinamiche minime del quotidiano. 165
Note
1
I soggiorni in Etiopia si sono svolti dal settembre 2004 al febbraio 2007. La South
Nations Nationalities and Peoples’ Region è una delle regioni della Repubblica Fede-
rale d’Etiopia e comprende tredici zone, ciascuna delle quali ha i propri distretti. Una
delle zone è quella Hadiya (Hosaina è il capoluogo amministrativo di zona). All’interno
di ciascun distretto si riconoscono numerosi kebeles (villaggi), che rappresentano la
partizione amministrativa minima. Il lavoro di campo si è svolto nel distretto di Lemu,
villaggio di Kidigissa. Ho ristretto il raggio a una parte chiamata localmente Lamsella.
Inizialmente mi sono state presentate sei donne. Ho quindi allargato la rete di cono-
scenze fino ad arrivare a un totale di quindici donne.
2
Nulla a che fare con l’empatia che Shostak aveva creduto di trovare, entusia-
sticamente, fra le donne ¡kung. Per ottenere risposte soddisfacenti, sembra suggerire
l’antropologa, è sufficiente fare le domande giuste ai giusti informatori: «Chiesi poi alle
donne ¡kung cosa significasse per loro essere donne, e quali fossero gli eventi impor-
tanti delle loro vite» (2002: 16).
3
I segreti sono atti sociali impregnati di esperienza e identità: «When we realize
how poorly secrets are kept, how selective and managed tellings “leak” information to
a wide variety of audiences, it seems clear that secrets ironically are ways of making in-
formation known. Secrets give a charged status to information. The entire negotiated
nature of secrets makes them a rich lens into daily life; they reveal a shifting terrain of
ideas about danger, about risk, about importance, and about the public meaning of
those conditions» (White 2000: 22).
4
Haberland (1964: 236); Braukämper e Tilahun Mishago (1999: 16).
5
Un giovane informatore spiegava così la progressiva edificazione di una resist-
enza politica dal basso: «If they start fighting, the Hadiya people will bring their ancient
weapons from their huts – swords and spears – and fight back. This is the result of the
accumulation of many, many years of suppression. The Hadiya were suppressed dur-
ing the Haile Sellassie and the Derg regimes, and the EPRDF continue the same prac-
tice» (Tronvoll 2002: 169). La sigla sta per Ethiopian People’s Revolutionary Democratic
Front, il partito salito al potere nel 1991 e che ancora attualmente guida il paese.“Derg”
indica il periodo del governo comunista che rimase in carica dal 1974 al 1991.
6
I Gurage, fino a tempi recenti, si riferivano al gruppo Lemu col termine wokuon-
teb, cioè “selvaggi”; i Wollamo chiamavano gli Hadiya, senza distinzioni al loro interno,
märäqo, cioè “arabi”.
7
Braukämper (2002: 56).
8
Grenstedt (2000: 43).
9
Le coppie Kambata/Hadiya e Amhara/Hadiya sintetizzano due dei principali
conflitti identitari che hanno segnato il passato della zona e che continuano ad ali-
mentare rivendicazioni politiche e scelte religiose antagoniste. All’identità amhara vie-
ne attribuito un plusvalore rispetto all’identità Kambata. Secondo Donham e James, il
termine “amhara”, così come viene spesso utilizzato presso numerosi gruppi meridio-
nali, è un’etichetta che «has apparently come to indicate high status more than ethnic
origin» (1980: 4).
10
Alle elezioni del 2000 il voto dell’elettorato hadiya andò al partito locale di op-
posizione (HNDO). L’evento fu considerato da molti studiosi e osservatori stranieri un
punto di svolta nel processo di democratizzazione in Etiopia: per la prima volta, dal
1991 e solo in zona hadiya, un partito non allineato alle politiche del governo in ca-
166
rica sconfisse e sfidò pubblicamente l’egemonia Amhara-Tigrina (EPRDF), che venne
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le donne hadiya (Etiopia)
confermata nel resto del paese fra violenze e intimidazioni non velate. La repressione
post-elettorale si risolse in un bagno di sangue punitivo nei confronti degli Hadiya
(Tronvoll 2002).
11
Conversazione avvenuta il 23 novembre 2005.
12
L’accusa di scarsa trasparenza e dissimulazione viene mossa da più parti pro-
prio al temperamento hadiya. Questa coincidenza nelle accuse reciproche dice la ne-
cessità per l’antropologo di risalire le ragioni storiche che hanno consentito agli ste-
reotipi di sedimentarsi. Sono eventi concreti, conseguenze sperimentate, che creano
sospetti e rancori: anche se poi le persone parlano più spesso dell’alterità secondo il
metro di qualità astoriche, comportamentali o “etniche”.
13
Conversazione con Sebsibe, ai primi di novembre del 2005.
14
Tale cerimonia prende il nome di summa fissima in lingua hadiya e semma
mawotat in amharico, letteralmente “dare il nome”. Conversazione con Amarech, 21
gennaio 2007.
15
In lingua hadiya viene definita con due termini intercambiabili: idaich mine (“la
casa della sposa”) o idayano (“il periodo della sposa”). Il correlato amharico è yemushurra
bet. È lo stesso fenomeno riportato da Freeman per il matrimonio in Doko Masho, Etiopia
sud-occidentale: «For a month or two after the marriage she is considered to be gach’ino.
In this state she must stay inside her husband’s hut and do not work. She should be well fed
with all the best Gamo food, and kept warm and content. Friends come to pass the time
with the couple, who are getting to know each other a little better. During all this time the
bride must not enter the Big House, or see her father-in-law» (1997: 349). La festa di matri-
monio prelude solo all�inserimento effettivo della neo-sposa, che avverrà in spazi coperti e
con modalità semi-segrete: «The bride then enters the house. Inside, the process of her in-
corporation continues» (ibidem: 348). Lydall inserisce in questa cornice di liminalità anche
il costume secondo cui la neosposa, durante i primi giorni di permanenza, viene picchiata
almeno una volta dal marito. Nel periodo iniziale i due hanno contatti solo per interposte
persone (prima fra tutti la madre di lui). La sposa è trattata come un�estranea o un�ospite. È
con un gesto di forza che i partners vincono il timore ed entrano in una forma di relazione
� quello che Lydall chiama un inscenamento di dominazione da parte dell�uomo e di pro-
vocazione/servilismo da parte della donna: «(�) this bride beating custom provides a way
by which the husband and bride, who don�t know each other, can overcome their strange-
ness and get accustomed to each other, a way by which the bride can make her husband
dependent on her while letting him feel he is in command» (1995: 15).
16
Conversazione avvenuta il 20 ottobre 2005.
17
Va tenuto presente che Araggash è molto alta, fatto anomalo per le donne etio-
pi che di solito sono piccole e minute.
18
Conversazione avvenuta il 20 ottobre 2005.
19
Conversazione avvenuta il 13 ottobre 2005.
20
Sul nesso fra dipendenza economica ed immobilità sociale femminile presso
altri gruppi d’Etiopia si veda Pankhurst (1992) e Yeshi Haile Mariam (1995). Per un ap-
profondimento di come si sia venuta erodendo la ricchezza della sposa in zona hadiya
si confronti il caso opposto di un altro gruppo meridionale in Lydall (1994a).
21
I motivi dell’accanimento fra contigui sono i medesimi messi in luce da Helan-
der per la Somalia meridionale: difficoltà socio-economiche, spesso coincidenti con le
divisioni ereditarie. Simili sono le modalità di gestione del conflitto, di controllo delle
emozioni: «(…) the very basis for lineage fissioning, and the creation of new adversar-
167
ies, lie within the sphere of walaalo, within the splitting off of different uterine sibling
groups. Yet, conflicts between walaalo must not take place in public. I have seen one
example of walaalo in conflict that were ordered by their father to live in separate
houses to avoid their dispute becoming known. With a friend (saxiib, woday), you can
raise your voice, joke and be insolent, even hold him up to mockery. You cannot do
that with a walaal. In fact, you must not even mention that that is so; in a proverb it
is said:“your friend is better for you than your brother but one doesn’t say so” (Cerulli
1959: 24). Walaalnimo, brotherhood, is nonconflict, peace, absence of dispute, agree-
ment, satisfaction, sharing, but also dignity and restraint» (1991: 117-118).
22
Questa prossimità dei fattori di rischio caratterizza altri contesti etnografici, per
esempio una società fortemente gerarchizzata come i regni delle Grassfields (Came-
run nordoccidentale). Negli spazi della casa si svolgono le attività produttive e ripro-
duttive delle donne; lì esse apprendono a bilanciare quelle emozioni, rabbia e gelosia,
potenzialmente distruttive degli equilibri sociali: «La presenza di estranei, vicini, como-
gli o membri del patrilignaggio del marito costituisce sempre un potenziale pericolo,
perché l’invidia, così come la stregoneria, è qualche cosa che si sviluppa in primo luo-
go in famiglia» (Forni 2005: 115).
23
Era il 14 novembre 2005. La sua comparsa in casa della levatrice non mi sem-
brò casuale. Mi rammentai di una conversazione �politica� avuta col capovillaggio
all�indomani del mio ritorno a Lamsella dopo un breve soggiorno nella capitale etiope
� costellato di coprifuoco, guerriglia urbana e centinaia di morti per le strade. Si era trat-
tato di una sollevazione a catena contro il partito al potere, di cui Fekre, seppur ai mini-
mi livelli, era esponente. Disse che era lieto del mio ritorno. Non accennò ad alcun fatto
accaduto. Quell�apparente ingenuità mi urtò. Gli chiesi un parere sulle reazioni gover-
native. Spiegò che la gente dell�opposizione agisce impulsivamente perché non ha
ancora ben compreso �l�obiettivo� del partito. Aggiunse che i seguaci dell�opposizione
sono tutti senza lavoro e poveri: da lì potevo figurarmi l�adesione degli Hadiya � noti
a tutti, nelle loro declinazioni rurali, per arretratezza e testardaggine. Gli suggerìi che,
nonostante il suo ottimismo, tutti a Lamsella, almeno in linea di principio, sono oppo-
sitori politici. Rispose che «a Lamsella nessuno fa politica attivamente, tutti sono amici
e nessuno taglierebbe il collo al proprio vicino di casa». Poi ebbe un ripensamento; e
disse: «l�unica a dare fastidio è una donna, piuttosto testarda, che ha il carisma di un
leader e prima delle elezioni ha convinto tutte le altre donne a votare per Beyene Pe-
tros». È il leader, a livello nazionale, del fronte contro il governo. È originario della zona
hadiya, centro propulsore della resistenza. Non chiesi il nome della donna per cautela,
ma fu lei a venire da me: quella donna era Shita.
24
Conversazione avvenuta il 17 novembre 2005.
25
In data 21 ottobre 2005.
26
Berkanesh si considerava una donna sfortunata. A cinquant’anni il bilancio dei
successi, come donna e come madre, era scarso. Le altre donne non dicevano – né a
lei né fra gruppi di donne - la loro pietà, semplicemente la ignoravano. Era una donna
invisibile, assente nei discorsi e nei pettegolezzi, mai veramente presa in considerazio-
ne. Non era temuta, con tre matrimoni falliti alle spalle e due soli figli. Non era oggetto
di invidia, data una situazione economica precaria e l’assenza di un marito. Il figlio si
era trasferito a Hosaina e tornava al villaggio ogni due settimane. Nell’unica capan-
na, povera di utensili e di animali, vivevano all’epoca del mio secondo soggiorno tre
generazioni di donne: la figlia ventitreenne, lei e la madre di circa ottant’anni, molto
malata e sempre immobile su un materasso.
168
27
Conversazione avvenuta il 24 ottobre 2005.
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le donne hadiya (Etiopia)
28
Il detto «with too many women, the cabbage is sure to over cook» (Yeshi Haile
Mariam 1995, proverbio numero 82 in appendice al volume) contiene due interpreta-
zioni: (a) le donne, messe insieme, tenderenno a perdersi in pettegolezzi e dimentiche-
ranno la verdura sul fuoco; (b) le donne entreranno in gara l’una con l’altra, ciascuna
con la pretesa di renderlo a proprio modo speciale, e in queste rivendicazioni verbali
lo faranno scuocere. Anche in questa incertezza ermeneutica si nota come il confine
fra condivisione e aperta rivalità sia per queste donne debole – più un’interfaccia che
uno sbarramento esclusivo.
29
Conversazione avvenuta il 10 gennaio 2007 in presenza di numerose donne.
30
Le donne etiopi vengono ritratte in molti proverbi come soggetti pigri, indo-
lenti, attive solo nel pettegolezzo, diversamente dagli uomini cui il lavoro viene attri-
buito come una sorta di intima essenza: «To talk is womanly; to work is manly» (Yeshi
Haile Mariam 1995, proverbio numero 92 in appendice alla raccolta).
31
Le chiese locali di stampo evangelico esercitano un controllo capillare sui
comportamenti del singolo, incentivando l’espressione pubblica di sospetti verso le
attività dei vicini, incoraggiando le confessioni di peccati in speciali sedute in cui ogni
individuo ammette le proprie trasgressioni di fronte alla comunità.
32
Conversazione avvenuta in data 11 ottobre 2005.
33
Conversazione con Araggash Lopiso, 7 ottobre 2005.
34
Stessa conversazione.
35
Conversazione con Shita, 23 novembre 2005, in presenza della madre Wodetu
e di Araggash Lopiso.
36
Conversazione con Adanech, 29 novembre 2005.
37
La medesima cornice ambientale rispetto al consumo di cibo è descritta da
Lydall (1994b) per gli Hamar d’Etiopia. I costumi osservati sembrano fissare le regole
imposte alle donne con limiti stretti di scelta e libertà. Ma tale ristrettezza d’iniziativa
non esclude azioni di rottura, sia pure di natura predatoria. Le donne si appropriano di
alcune risorse in modo obliquo,“rubando” ciò che gli uomini non sembrano disposti
a cedere: «(…) and they can serve themselves a bowl which they have in the dark of
the house and from which they have surreptitiously drink, but never as though they
deserve it, always like a thief» (ibidem: 5).
38
Gli ingranaggi più delicati sono quelli alla base di una virtuale piramide di ge-
rarchie. L’attenzione va risvegliata sul gioco di parole e gesti fra donne, piuttosto che
su confronti frontali fra individui in posizioni sociali formalmente definite – uomini da
un lato, donne dall’altro. Lydall (1994b) fa notare che presso gli Hamar, dove le realtà
appaiono polarizzate e la condivisione fra sessi non è né concettualizzata né prati-
cata, l’autorità corre lungo due direttive: l’anzianità e il sesso. Quando l’ordine di un
uomo anziano è rivolto a delle ragazze, non vi sono problemi né di comprensione né
di attuazione. Quando il medesimo ha per oggetto delle donne anziane, la situazione
si complica, perché la donna può protestare e provocare l’uomo a far valere la sua
autorità con la forza fisica. Quando sono le anziane a tentare una coercizione sulle più
giovani «the command is even more fragile for there is no effective resort to physical
coercion available. Also because they are all female they are all slaves to men, and as
slaves they are not willing to submit to the authority of other slaves, even if they are
more senior» (ibidem: 7)39. Questo affronto fra donne di varia età porta a una prolifera-
zione di ostilità calate nel quotidiano: fra uomini l’autorità è riconosciuta o trasmessa
in modo diretto e normalmente efficace; fra donne si inscena un continuo rimando di
169
provocazioni, e l’autorità viene ad instaurarsi secondo strade più lunghe e moda-
lità di minaccia e di ricatto.
40
Conversazione con Belainesh, 29 settembre 2005.
41
Conversazione avvenuta il 14 novembre 2005.
42
Conversazione con Araggash Lopiso, 7 ottobre 2005.
43
Villaggio prossimo a quello di Lamsella.
44
Conversazione con Araggash Lopiso, 5 ottobre 2005.
45
Conversazione avvenuta il 7 ottobre 2005.
46
Conversazione in data 11 ottobre 2005.
47
Conversazione in data 14 ottobre 2005. Successivamente alcune delle di-
namiche in atto sul campo divennero più chiare. Annotavo sul diario del 22 no-
vembre 2005: «In Etiopia nessuno sembra intendersi di politica. Nessuno ne parla,
nessuno la conosce, eppure tutti la fanno. Tutti tacciono e stanno ad aspettare,
e hanno ragione: perché qui come altrove di politica non solo ci si scotta, ma si
muore. La politica è un universo complesso che incrocia traiettorie quotidiane,
molto più basse e comprensibili di quanto le teorie e i discorsi astratti farebbero
supporre. Per esempio ha a che fare con la cosiddetta “etnicità”: nessuno lo dice,
ma il partito al potere è integralmente tigrino – l’abissinia classica, saldamente
religiosa, storica, di lingua e tradizione scritte. Per molti dei gruppi altri – diciamo
meridionali, religiosamente incostanti, non militarizzati – deve suonare un po’
come la riproposizione di un dominio secolare. Poi ci sono questioni di disgusto
interno, che non hanno niente di etnico. Un parte si sente cittadina e moderna, gli
altri sono della campagna e puzzano».
48
«(…) there is a paradox that surrounds the phenomenon of secrecy in vir-
tually every society where it is practiced: secrets are meant to be told. Further, the
content of secrets is often known by those who are not supposed to know» (Piot
1993: 357).
49
Un proverbio Hamar recita apo sia ne, la parola è cattiva. Cioè così potente
che può diventare realtà: «One should never say, for example, If I have an accident...
because the very mentioning of the undesired event may lead to it becoming an ac-
tuality» (Lydall 1992: 11). Gli Hamar evitano qualsiasi menzione di situazioni che non
desiderano veder avverate. Ciò non significa che le donne non trascorrano la gior-
nata brontolando o lamentandosi con le compagne. Ma sia le ambientazioni che la
natura di tali confidenze vengono camuffate «usually in an informal situation and in
a very indirect way, never mentioning anyone by name» (ibidem: 11). Questa semi-uf-
ficialità si basa sulla certezza che i commenti, essendo scambiati in luoghi e durante
attività affollate, quasi mai in isolamento, vengono uditi e rimbalzano di orecchio
in orecchio. Le donne hamar non sono incoraggiate ad esprimersi vocalmente in
presenza degli uomini, in particolare gli anziani; possono tuttavia risultare molto
articolate negli scambi fra donne o in situazioni informali. Il fatto di presentare le
proprie vite spesso con toni scarsamente drammatici, o edulcorati, non significa che
le donne ne siano soddisfatte, ma che escludendo alcune parti dal discorso vogliano
proteggere qualcuno – se stesse, i bambini nella pancia o i neonati - da disgrazie o
potenziali attacchi.
50
La ricerca è stata condotta in un’area di cultura amhara a circa trecento
chilometri a nord di Addis Abeba. Le “carriere” femminili sono percorse inscriven-
dole nel più ampio contesto della riforma agraria del 1984. Le questioni di gene-
re incrociano i processi ecologici e sociali, le interrelazioni fra interventi statali,
170 economie a base familiare ed eventi che scandiscono il ciclo di vita delle donne.
Questa prospettiva di analisi integrata legge le donne come individui fautori di
I piccoli luoghi del segreto: strategie critiche e collettive fra le donne hadiya (Etiopia)
strategie economico-politiche, oltre che esistenziali. Il paragrafo in cui tali movi-
menti di dissenso o di creatività vengono discussi porta il titolo Other worlds in
other words: juggling with gender.
51
Conversazione con Shita, Wodetu, i rispettivi mariti e altri ospiti, 23 gen-
naio 2007.
52
Conversazione con Lopiso, 24 gennaio 2007.
53
Per una discussione dei rapporti fra governo e “ruralità” si veda Aspen
(2002). In ambito rurale le percezioni della democrazia stimolano risposte nel
segno di un’apparente passività politica dei contadini, che l’autore interpreta
invece come resistenza passiva popolare: «In this light, the seeming passivity of
the voters may become easier to understand, not as political apathy or lack of
interest but as an expression of a political stand» (ibidem: 68).
54
«The legacy of politics in Ethiopia is thus steeped in memories of vio-
lence and suffering. Even today, political participation is often stigmatised and
shunned by ordinary people. An often-heard expression in Amharic is poletikana
korenti béruku, ‘[keep] politics and electricity at a distance’. The meaning of the
expression should be obvious: don’t go too close to politics, it will only stun and
hurt you!» (Tronvoll 2002: 160).
55
«Peasants were threatened they would lose access to fertiliser, credit or
other services if they voted for an opposition party. Many of them were beaten,
threatened with imprisonment, or arrested under dubious pretexts if they re-
fused to support the ruling parties» (Pausewang 2002: 97-98).
56
Conversazione con Etefework in data 1 ottobre 2005.
57
Conversazione con Shita, 8 gennaio 2007.
58
Recitano alcuni detti comuni in amharico: «you cannot sort out a woman’s
talk»; e ancora «the moon and the women are light today and night tomorrow»
(Yeshi Haile Mariam 1995, proverbio numero 9 e numero 153 rispettivamente).
59
Conversazione con Lopiso, 24 gennaio 2007.
60
Conversazione avvenuta il 23 novembre 2005, in presenza di Shita e Arag-
gash Lopiso.
61
Busoni (2000).
62
Yanagisako e Collier (2000).
63
Sulle intersezioni fra politica e riproduzione, fra le prospettive del globale
e del locale, cfr. Ginsburg e Rapp (1991).
171
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English summary
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