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LA BREVE PARABOLA
DEL NUCLEARE NOSTRANO di Lorenzo PINNA
In realtà il «grande» nucleare, la fonte che doveva fornire un’energia meno cara
del gas e del petrolio e meno vulnerabile alle crisi geopolitiche, è una storia con-
clusa da almeno vent’anni. Dall’8 e 9 novembre 1987. È in questi due giorni che
cala, definitivamente, il sipario su una delle più grandi e sofferte imprese tecnolo-
giche dell’Italia nel dopoguerra. Il referendum popolare, convocato ad un anno e
mezzo dal disastro di Černobyl’, ha un esito scontato. L’incidente alla centrale so-
vietica dell’aprile 1986 ha spaventato mezzo pianeta e il comportamento delle au-
torità di Mosca, oscillante fra silenzi e confusione, ha peggiorato la situazione. An-
che in Italia, nonostante i comunicati rassicuranti dell’ente addetto alle misure di
radioprotezione, l’Enea, dilaga la paura. La radioattività arrivata nel nostro paese è
una frazione minima e non desta preoccupazioni, ma le contraddittorie raccoman-
dazioni di una miriade di «esperti» sono riprese e amplificate da stampa e televisio-
ni. Sul banco degli imputati finiscono soprattutto il latte e le verdure a «foglia lar-
ga», come vennero allora definite. Il sospetto che questi alimenti, così familiari e
quotidiani, si fossero trasformati in micidiali pericoli per la salute scatena una psi-
cosi collettiva. Tutto il nucleare finisce sotto accusa. Si dimentica che la centrale di
Černobyl’ è di un tipo che non esiste in Occidente. Non solo: quel reattore non era
protetto da misure di sicurezza, come il cupolone di contenimento, che avrebbero
limitato i danni. Misure che nei paesi occidentali sono obbligatorie da anni.
Tutti i partiti, ad esclusione di quello repubblicano e liberale, piccoli e poco
influenti, sono contro il nucleare. Il fronte contrario a questa fonte energetica rap-
presenta, in breve, il 95% degli elettori. Dalla Democrazia cristiana al Partito comu-
nista ai socialisti di Bettino Craxi.
Le elezioni anticipate previste per l’anno successivo consigliano agli strateghi
della politica italiana di non prendere posizioni impopolari al referendum. I risulta-
ti non deludono le aspettative. Un piccolo neo in questo trionfo. L’affluenza non è
eccezionale. Solo il 65% degli elettori si reca a votare. Più che sufficienti però a
rendere valida la consultazione. I sì all’abrogazione delle tre leggi che riguardano il
nucleare sono l’80%, i no il 20%.
Le tre centrali nucleari italiane in funzione verranno chiuse negli anni succes-
sivi (quella del Garigliano era stata chiusa nel 1982). Unico paese al mondo, l’Italia
ha rinunciato a una fonte che ancora oggi produce, in media, il 30% dell’energia
elettrica nel resto dell’Europa (ma in Francia la quota sale al 78%). Poteva permet-
terselo? E perché l’Italia, pur senza molta convinzione, aveva mosso alcuni passi su
questa strada?
La storia che si conclude l’8 e il 9 novembre 1987 era cominciata più di 40 an-
ni prima. Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ed è anche la storia
di come l’Italia, un paese povero di risorse energetiche abbia tentato di sfuggire a
una dipendenza dall’estero che si annunciava sempre più pesante e rischiosa. Ma
in quegli anni, subito dopo la fine della seconda guerra, tutti questi problemi era-
no per il momento lontani, in un futuro non ben definito. L’Italia, uscita in condi-
zioni disastrose dalla sconfitta, era ancora un paese prevalentemente agricolo. Ol-
tre il 40% degli occupati lavorava nei campi. E solo il 7% delle abitazioni possede- 261
LA BREVE PARABOLA DEL NUCLEARE NOSTRANO
va quelle comodità che oggi ci sembrano così scontate e banali: il gabinetto e l’ac-
qua corrente in casa, l’elettricità e il riscaldamento. Nel 1939, un anno prima del-
l’entrata in guerra, la Fiat aveva prodotto 50 mila auto, cifra che, ovviamente, nel-
l’immediato dopoguerra, con le fabbriche seriamente danneggiate, non era più
possibile raggiungere. A piedi, in bicicletta o con i pochi e sgangherati mezzi pub-
blici: così ci si spostava nell’Italia dell’epoca. In altre parole, il nostro paese non
consumava, allora, molta energia. L’idroelettrico, quel poco di geotermia e di car-
bone nazionale (peraltro molto inquinante perché ad alto tenore di zolfo) riusciva-
no a coprire il 50% delle necessità energetiche. Il resto, cioè l’altra metà, veniva co-
munque importato.
Dopo la catastrofe della guerra chi non sperava in un’Italia rinata, ricostruita,
democratica, capace di porsi sulla strada di uno sviluppo che l’avrebbe resa più ric-
ca e più giusta? Fra i tanti giovani che credevano in una futura Italia, migliore di
quella passata, ce ne furono alcuni che si posero una domanda. Con quale energia
si sarebbe costruito questo futuro? Al Politecnico di Milano, già nel 1945, subito do-
po la fine della guerra, il professor Giuseppe Bolla aveva riunito un gruppo di allie-
vi per cominciare a studiare le possibilità di un uso pacifico dell’energia atomica.
Nel 1945 l’atomo aveva un solo significato. La terrificante potenza distruttiva
delle bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki e capaci di annientare intere città
e i loro abitanti in una frazione di secondo. Ma alcuni studi americani, come il rap-
porto Smith, sulla possibilità di utilizzare l’uranio a scopi civili, cominciavano a cir-
colare anche in Italia. Fu proprio questo primo gruppo di giovani, raccoltisi intor-
no al professor Bolla, a credere che questa fosse una possibilità che l’Italia non po-
teva lasciarsi sfuggire. Anzi come ha raccontato, in una delle sue ultime interviste,
il professor Carlo Salvetti, uno dei giovani di quell’epoca pionieristica, furono pro-
prio loro ad evitare che nel trattato di pace venisse proibito all’Italia l’uso dell’ener-
gia atomica a scopi pacifici. Ovviamente, come paese sconfitto l’uso militare non
era concepibile. Insomma una specie di diplomazia free lance (la richiesta venne
avanzata dalla delegazione belga su suggerimento dei fisici italiani), come la defi-
niremmo oggi, al di fuori dei canali ufficiali riuscì a lasciar aperta, per l’Italia, la
possibilità di sviluppare questa fonte energetica.
I primi a credere e a finanziare questo gruppo di giovani scienziati, fra i quali
Carlo Salvetti, Giorgio Salvini, Mario Silvestri, sono le industrie private. Come la
Edison (in particolare l’ingegner Vittorio De Biase), del settore elettrico che allora,
in Italia, era in mano ai privati. Ma anche la Montecatini, la Fiat e la Pirelli. È con i
loro fondi che, verso la fine del 1946, viene costituito il Cise, Centro informazioni
studi e esperienze. I locali si trovavano in via Procaccini a Milano. Oggi di quel
vecchio edificio non è rimasto in piedi un solo mattone. Le prime ricerche riguar-
dano la metallurgia, l’acqua pesante, i contatori di radioattività. Tutte tecnologie
necessarie per sviluppare reattori capaci di sfruttare l’uranio e produrre energia.
Contemporaneamente a questi giovani scienziati, alle prese con ricerche d’a-
vanguardia per dare al paese almeno una chance per la sua indipendenza energe-
262 tica, sta iniziando la sua spettacolare carriera una persona destinata a diventare un
IL CLIMA DELL’ENERGIA
ressare dell’atomo per scopi civili. Anche Enrico Fermi prevede un grande avveni-
re per questa fonte energetica.
Nel 1952 lo Stato italiano si accorge dell’energia nucleare. Nasce il Cnrn, il Co-
mitato nazionale per le ricerche nucleari. Lo dirige un chimico, Francesco Giorda-
no, e fra i suoi membri si trova anche un geologo, Felice Ippolito, destinato a se-
gnare la storia del nucleare italiano. Il gruppo milanese del Cise, diretto dal profes-
sor Bolla, diventa il braccio operativo del nuovo comitato. Ma l’unione di due filo-
sofie così diverse, quella del Comitato nazionale, più burocratica e statalista, e
quella del Cise più orientato verso l’industria privata, darà luogo a molti conflitti,
spesso anche a livello personale.
In breve le posizioni possono così riassumersi. Il Cise vorrebbe sviluppare un
reattore tutto italiano, seguendo una strada forse più faticosa e difficile, ma sicura-
mente più originale e in grado di permettere a scienziati e ingegneri di padroneg-
giare completamente una tecnologia estremamente complessa. Il Comitato nazio-
nale preferisce invece acquisire all’estero prodotti più avanzati, evitando così le
lunghe fasi di ricerca necessarie. Una strategia a base di scorciatoie e di salti in
avanti che non convince il Cise. In pratica le due linee convivono. Si continua così
a finanziare lo sviluppo del reattore italiano, chiamato Cirene, progettato da Mario
Silvestri, ma anche a importare altri tipi di reattori come il Cp5 dell’americana We-
stinghouse che finirà nel nuovissimo centro di ricerche nucleari di Ispra, vicino a
Varese. Ed anzi sarà proprio questo reattore di importazione a diventare il primo a
raggiungere la reazione a catena controllata nel nostro paese.
È la crisi di Suez del 1956 ad imprimere una brusca accelerazione ai program-
mi nucleari italiani, che segna la fine del colonialismo europeo. E suggerisce una
riflessione: il petrolio è abbondante, ma le vie di trasporto possono rivelarsi poco
sicure. I due terzi del petrolio del Golfo Persico diretti in Europa transitano, all’e-
poca, in quello stretto passaggio. Nello stesso anno della crisi di Suez vengono or-
dinate le prime tre centrali nucleari italiane. La Sme, una società del gruppo Iri, fir-
ma un contratto con l’americana General Electric per un reattore ad acqua bollente
che verrà installato nella centrale del Garigliano. L’Eni di Mattei non vuol restar
fuori da questa promettente fonte energetica e firma un analogo impegno con gli
inglesi, per un reattore moderato a grafite e raffreddato a gas per la centrale di Bor-
go Sabotino, vicino a Latina. Mentre la Edison, una delle più importanti industrie
elettriche private, sceglie un reattore della statunitense Westinghouse, ad acqua in
pressione ed uranio arricchito, destinato alla centrale di Trino nel Vercellese.
Il quadro che emerge da queste prime importanti decisioni in campo nuclea-
re è la mancanza quasi completa di coordinamento. Su tre centrali, ci sono tre tipi
differenti di reattore, il Comitato nazionale ne sta studiando altri ancora e il Cise
vorrebbe seguire una via tutta italiana. Mentre Ippolito succede a Giordano come
segretario generale del Cnrn, le tensioni fra le varie anime del nucleare italiano
raggiungono livelli sempre più preoccupanti. Il reattore di Ispra non ha nemme-
no fatto in tempo ad entrare in funzione che tutto il Centro, cioè quello che dove-
264 va essere il laboratorio dove si sarebbero formati ingegneri e tecnici dell’Italia nu-
IL CLIMA DELL’ENERGIA
cleare, viene ceduto dal Cnrn guidato da Ippolito all’Euratom, l’agenzia europea
che si occupa di energia atomica. E la cessione non si rivela nemmeno un buon
affare. La vicenda solleva un coro di critiche, soprattutto fra gli ingegneri e i fisici
del vecchio Cise.
Tutte queste storie abbastanza aggrovigliate non interessano gli italiani che in
questo scorcio finale degli anni Cinquanta vivono il boom economico. È l’Italia del
miracolo che cresce al ritmo del 5-6% ogni anno. Da pochi anni la televisione ha
fatto il suo trionfale ingresso nella nostra storia e nella nostra vita. Il boom significa
anche l’arrivo degli elettrodomestici, della lavatrice, del frigorifero e dell’automobi-
le privata. Nel 1951 l’Italia produceva 18 mila frigoriferi ogni anno, dieci anni dopo
più di un milione e mezzo. Nel 1950 la Candy fabbricava una lavatrice al giorno,
nel 1960 una ogni quindici secondi. L’Italia diventa così il terzo paese esportatore
di elettrodomestici dopo Stati Uniti e Giappone. E anche la Fiat passa dalle poche
decine di migliaia di auto alla fine degli anni Quaranta a superare il mezzo milione
nel 1960. La grande trasformazione, la fuga dalle campagne, l’emigrazione dal Me-
ridione verso il Nord industriale, l’espansione disordinata delle città cambiano il
profilo dell’Italia. Il vecchio paese agricolo e tradizionalista lascia il posto ad una
realtà indecifrabile in progresso rapidissimo, a contraddizioni e conflitti, ma anche
ad una crescita complessiva del benessere.
Tutto ciò ha un costo in termini di energia. Fra la fine degli anni Cinquanta e
quella degli anni Sessanta i consumi energetici si moltiplicheranno per due volte e
mezzo. È il momento delle grandi scelte. E di alcuni bilanci. Mentre nei primi anni
Sessanta le tre centrali nucleari italiane cominciano a produrre energia per un’Italia
che ne è sempre più affamata, il primo governo di centro-sinistra presieduto nel
1962 da Amintore Fanfani prende una decisione che era nell’aria da tempo: la na-
zionalizzazione dell’industria elettrica. Sarà una delle poche riforme, insieme a
quella della scuola, realizzate in una stagione politica iniziata tra grandi speranze.
La produzione di elettricità era rimasta fino al 1962 in mano a varie società
elettriche che agivano come monopoli nei territori di loro competenza. Così la Edi-
son riforniva Lombardia, Emilia-Romagna e Liguria, la Sip il Piemonte, la Centrale
Toscana, Lazio e Sardegna e così via. Le ragioni per nazionalizzare questa industria
erano molteplici. Da quelle ideologiche e politiche a quelle più tecniche ed econo-
miche. La nazionalizzazione fu una risposta adeguata ai nuovi bisogni energetici di
un’Italia in pieno sviluppo. Nacque così l’Enel, l’ente nazionale per l’energia elettri-
ca, mentre i vecchi industriali espropriati ebbero lauti indennizzi che vennero pa-
gati immediatamente, secondo le indicazioni dell’allora governatore della Banca
d’Italia Guido Carli.
Il 1962 è anche l’anno della morte di Enrico Mattei e del tramonto dei suoi so-
gni di indipendenza energetica per l’Italia. Il tentativo di stabilire rapporti diretti
con i paesi produttori di petrolio, specie in Africa del Nord e Medio Oriente, era
solo in parte riuscito. Lo stesso Mattei aveva paragonato l’Italia ad un gattino che si
avvicina ad una grande ciotola di latte dove stanno bevendo sette cagnacci, cioè i
sette colossi mondiali del petrolio. Nella ciotola ci sarebbe latte per tutti, ma i ca- 265
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gnacci con una zampata allontanano il gattino. E il gattino, cioè l’Eni o l’Italia, de-
vono trovare il modo di arrivare al latte.
Uno degli ultimi accordi cui Mattei stava lavorando prima della morte era con
l’Algeria, allora in piena guerra di liberazione dal colonialismo francese. Anche in
questo caso Mattei si mise dalla parte degli arabi, scatenando le reazioni sia delle
grandi compagnie petrolifere che della destra francese. I nemici di Mattei furono
così numerosi, potenti e pericolosi che c’è veramente solo l’imbarazzo della scelta
nel fare ipotesi sui mandanti del sabotaggio all’aereo che il 27 ottobre del 1962
precipitò durante l’atterraggio a Linate. Nel disastro morirono Mattei, insieme al pi-
lota e ad un giornalista americano che lo accompagnava. Nel 1997 nuove indagini,
su alcuni reperti del velivolo precipitato, hanno portato alla conclusione che una
carica di 150 grammi di tritolo, collegata al meccanismo di apertura del carrello, fu
la causa del disastro. Tuttavia non può essere nemmeno scartata l’ipotesi che Mat-
tei, personaggio vulcanico e iperdinamico, abbia forzato la mano al pilota per non
perder tempo e tentare l’atterraggio nonostante il tempo proibitivo. Tutti gli accor-
di di Mattei, a cominciare da quello con l’Algeria, vengono abbandonati o comun-
que ridimensionati dai suoi successori.
4. Anche per Felice Ippolito, segretario generale del Cnen, che aveva sostitui-
to il vecchio Cnrn, è cominciato il conto alla rovescia. Gli indirizzi che la ricerca
nucleare ha preso con Ippolito al timone del Cnen non riscuotono un’approvazio-
ne unanime. Gli studiosi di quel periodo ne segnalano alcuni gravi errori. Proba-
bilmente le fughe in avanti, la mancanza di un progetto unico e la conseguente di-
spersione su troppe linee di ricerca non aiutarono il programma nucleare italiano.
Il piano 1959-64 del Cnen prevedeva la ricerca su ben quattro tipi diversi di reatto-
ri: il primo ad acqua bollente, il secondo moderato da sostanze organiche, il terzo
raffreddato a metalli liquidi, il quarto refrigerato da gas ad altissima temperatura
(senza contare il reattore italiano, il Cirene, ad acqua pesante e uranio naturale).
Un piano forse troppo ambizioso per una piccola potenza industriale come l’Italia
(nessuno di quei progetti venne portato a termine, tranne il Cirene).
Ippolito fu comunque uno scienziato che vedeva nel nucleare una strada da
percorrere, per ridurre la grave dipendenza energetica che ormai negli anni del
boom si stava chiaramente profilando. Insieme a Mattei, egli fu una delle poche
personalità dell’epoca a chiedersi come affrontare una situazione energetica sem-
pre meno sostenibile. E a prospettare alcune soluzioni. In effetti fra gli anni Cin-
quanta e Sessanta la dipendenza energetica italiana dall’estero passò dal 50% a ol-
tre l’80%, grosso modo la stessa situazione in cui ci troviamo oggi.
Ippolito era una persona onesta e scomoda. E divenne molto più scomodo
quando, dopo la nascita dell’Enel, entrò nella rosa dei possibili candidati alla presi-
denza del grande ente elettrico, anche se poi si dovette accontentare di un posto
nel Consiglio di amministrazione. Ma persino in tale ruolo la sua presenza non era
gradita. Si stavano decidendo i trasferimenti delle centrali dai privati all’ente pub-
266 blico e, cosa molto delicata, i relativi indennizzi. Forse anche i suoi legami con
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Emilio Colombo, il ministro dell’Industria del tempo, non gli giovarono. Nelle lotte
interne alla Democrazia cristiana chi voleva colpire Colombo poteva scegliere Ip-
polito come bersaglio.
L’attacco iniziò nell’estate del 1963 con alcuni articoli dei socialdemocratici
Giuseppe Saragat e Luigi Preti, che indicarono Ippolito come un pessimo ammini-
stratore del denaro pubblico e il nucleare come una causa persa, di cui era inutile
occuparsi. In un crescendo di accuse, Ippolito venne imputato per gravi malversa-
zioni durante la sua guida del Cnen e infine arrestato.
La condanna fu pesantissima: 12 anni di reclusione. Dopo due anni Felice Ip-
polito venne scarcerato. Alla fine, nei processi di appello, di tutte le accuse ne ri-
masero in piedi solo due. Di aver usato, una sola volta, un’auto di servizio per ra-
gioni private e di aver fatto confezionare a spese del Cnen delle cartelle omaggio
per alcuni giornalisti. Intanto il nucleare italiano aveva ricevuto un colpo dal quale
non si sarebbe più ripreso.
Nel corso degli anni Sessanta le auto private si moltiplicano per quattro, men-
tre la rete di autostrade passa da mille a 5 mila chilometri. Sboccia la grande storia
d’amore degli italiani per l’automobile. Una storia che deve essere alimentata con
molta benzina. Fra gli scarti più consistenti della raffinazione della benzina si trova
l’olio combustibile, un residuo che ha pochi impieghi. In pratica solo uno: essere
bruciato nelle grandi centrali termoelettriche. E infatti la scelta dell’Enel privilegerà
proprio questa fonte energetica. Scomparso Mattei e neutralizzato Ippolito, le
grandi compagnie petrolifere straniere e i loro alleati italiani, molto attivi nel setto-
re della raffinazione, hanno finalmente la luce verde.
Il nucleare non viene completamente abbandonato, ma tutto procede ormai
con esasperante lentezza. Forse per tenere in attività un settore industriale ormai
sovradimensionato rispetto alle nuove scelte energetiche, viene commissionata al-
l’Ansaldo una nuova centrale con un reattore dell’americana General Electric. Ci
vorranno più di dieci anni per completare la quarta e ultima centrale nucleare ita-
liana: quella di Caorso, nel piacentino (tabella).
Nel 1973 la scelta di puntare tutto sul petrolio subisce un primo colpo. È l’an-
no della prima crisi petrolifera. L’Opec, il cartello dei maggiori produttori di petro-
lio, in prevalenza mediorientali, dichiara l’embargo petrolifero per protestare con- 267
LA BREVE PARABOLA DEL NUCLEARE NOSTRANO
tro l’aiuto americano ed europeo ad Israele, durante la guerra del Kippur. È un ta-
glio modesto della produzione, meno del 10%, ma la sorpresa genera il panico e i
prezzi del petrolio si moltiplicano per tre. L’epoca d’oro del petrolio, come è stato
definito il periodo fra la fine della seconda guerra mondiale e il 1973, era finita.
In Italia si vivono alcune settimane di austerità: le domeniche a piedi, i pro-
grammi televisivi che finiscono alle dieci e mezzo, il riscaldamento razionato. Ma
le conseguenze più gravi sono altre. In particolare sull’economia. Il rincaro dei
combustibili fossili accende nel mondo occidentale una preoccupante inflazione:
l’Italia è uno dei paesi in cui durerà più a lungo. Fra le numerose cause della peg-
giore situazione italiana si trova anche la più pesante dipendenza dal petrolio. Il
nucleare sembra riprendere quota. Ma è solo un’illusione. Il primo piano energeti-
co proposto nel 1975 dal ministro dell’industria Carlo Donat-Cattin prevede addi-
rittura la costruzione di 20 centrali nucleari. Ma nel frattempo non si riesce nemme-
no a terminare quella di Caorso, commissionata all’Ansaldo otto anni prima. E l’E-
nel continua a costruire grandi centrali da 1.000 megawatt, alimentate ad olio com-
bustibile, al ritmo di una l’anno. Non solo. Sono sorte altre difficoltà. L’attuazione
di quella parte della costituzione che prevede l’istituzione delle Regioni e un mag-
giore decentramento amministrativo crea inediti problemi nella scelta dei siti dove
costruire le centrali, non solo nucleari, ma anche a carbone. Sono i primi segnali
della nascita del famoso effetto Nimby (dall’inglese «Not in my back yard», «Non
nel mio cortile»).
I sindaci, anche dei piccoli Comuni, possono negare l’autorizzazione per la
costruzione di una centrale. Negli anni Settanta non sono le paure di inquinamenti
radioattivi o di danni alla salute a far scattare il «no». La ragione dell’opposizione è
un’altra. Si tratta di evitare gli sconvolgimenti inevitabili che la costruzione di una
grande centrale porta in un piccolo paese. Ed anche perché una volta terminate, le
centrali non danno molto lavoro agli abitanti del luogo. Quasi tutti i tecnici arriva-
no infatti da fuori.
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IL CLIMA DELL’ENERGIA
È uno sforzo internazionale che ha preso il via nel 2001 grazie all’accordo fra 9
nazioni (Argentina, Brasile, Canada, Francia, Giappone, Corea del Sud, Sudafri-
ca, Gran Bretagna e Stati Uniti) cui si sono aggiunti l’Euratom (cioè l’Europa), la
Cina, la Russia e la Svizzera. L’Italia non vi partecipa, se non attraverso l’Euratom.
L’obiettivo è di mettere a punto per il 2025-2030 reattori di nuova concezione. Più
efficienti, più sicuri, meno «sporchi» (con minore produzione di scorie) e meno uti-
lizzabili a fini militari. I principali filoni di ricerca che Gen IV International Forum
ha selezionato come più promettenti, sono sei:
• reattore veloce raffreddato a gas;
• reattore veloce raffreddato a piombo;
• reattore a sali fusi;
• reattore veloce raffreddato a sodio;
• reattore raffreddato ad acqua supercritica;
• reattore ad altissima temperatura.
Sono reattori molto innovativi in grado di produrre il proprio combustibile da ele-
menti non fissili, di generare gas ad altissima temperatura utilizzabili per ottenere
l’idrogeno, di bruciare le scorie più pericolose (i cosiddetti «attinidi») e di non
produrre plutonio di grado «militare» (adatto alla bomba). Unico neo: se si esclu-
de il Superphoenix (reattore veloce francese raffreddato al sodio), ormai chiuso
da decenni, e qualche altro reattore sperimentale (oggi sono in funzione solo due
piccoli reattori veloci, uno in India e l’altro in Russia), si è ancora abbastanza in-
dietro nella messa a punto di un prototipo industriale.
Reattori modulari
Il programma lanciato dagli Stati Uniti Global Nuclear Energy Partnership punta a
realizzare, entro una decina d’anni, un reattore pulito, sicuro, di semplice gestio-
ne e manutenzione da proporre ai paesi in via di sviluppo per soddisfare le loro
esigenze energetiche, ridurre le emissioni di gas serra ed evitare, con accordi par-
ticolari sul riprocessamento del combustibile esaurito, che venga estratto il plutonio
di grado militare. In questo programma potrebbe trovare collocazione il progetto
italiano Mars. 271