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"Nucleo monografico sul saggio di George L.

Engel: la necessità di un nuovo


modello di medicina: una sfida per la biomedicina" pubblicato in AeR-Abilitazione
e Riabilitazione, Anno XV - N. 1 - 2006 a cure di Cesare Albasi e Carlo Alfredo
Clerici

Note introduttive, p. 9-12 di Clerici e Albasi


Articolo di G. Engel, p 13-32
Commento di Clerici e Albasi, p 41-46

A QUASI TRENT'ANNI DALL’ARTICOLO DI ENGEL:


CONSIDERAZIONI SULL'INTEGRAZIONE BIOPSICOSOCIALE IN
MEDICINA

CARLO ALFREDO CLERICI°^


CESARE ALBASI*^

Nell’evoluzione della medicina sono ricordate storicamente alcune tappe


fondamentali. Una di queste è stata l’avvio, da parte di Rudolf Virchow, dello
studio della patologia cellulare, che individuava nella cellula l’origine morfologica e
funzionale delle malattie. Da qui la medicina ha avuto realmente un’evoluzione in
senso scientifico che ne ha fondato l’identità essenziale in una matrice biologica e
clinica.
Diversamente, la psicologia scientifica, per la sua fondazione come disciplina
sperimentale, ha rischiato a lungo di rinchiudersi in laboratori che si pensavano
adatti allo studio delle prestazioni cognitive pure o, nella sua versione
comportamentistica, adatti allo studio delle risposte che animali, assai lontani
dall’uomo sul piano della complessità dei processi psichici, emettevano in
situazioni artefatte. Questi studi hanno rivelato, con il tempo, di non offrire spesso
risultati con un significato ecologico (cioè i risultati non servivano per
comprendere l’essere umano nei suoi contesti abituali di vita), né, tanto meno,
essere utili nella pratica clinica.
La psicologia clinica, forse disciplina a sé stante, e con una storia che può ancora
essere scritta e riscritta da angolature differenti a seconda degli interessi culturali e
politici in campo, ha tuttavia attraversato fra Ottocento e Novecento una tappa
molto importante del suo sviluppo, con la nascita di un’attenzione crescente verso i
significati soggettivi che le manifestazioni psicopatologiche potevano avere.
In particolare, l’approccio di Freud all’isteria aveva avviato lo studio scientifico del
significato dei sintomi e della loro comprensibilità, grazie all’ipotesi di un apparato
psichico, con l’articolazione teorica, di complessità crescente, delle sue diverse
istanze. Le vicende del rapporto tra la psicoanalisi e la comune attività clinica
medica però, per anni, non ha permesso la diffusione di tentativi di applicazione
delle intuizioni psicoanalitiche nella pratica della medicina.
Ferenczi, riconosciuto dai suoi contemporanei come il più grande psicoanalista
clinico vivente, aveva trascorso gli ultimi sette anni della sua vita (dal 1924 al 1933)
sperimentando modalità tecniche di trattamento della sofferenza dei suoi pazienti
che prevedevano con essi un rapporto molto intimo e stretto. Come oggi
sappiamo, le sue sperimentazioni sono state tenute il più possibile nascoste per le
vicende che hanno caratterizzato la storia del movimento psicoanalitico (Borgogno,
2004; Albasi, 2005).
E’ stato con la pubblicazione nel 1955 da parte di Balint (allievo di Ferenczi) del
volume “Medico, paziente e malattia” che il ruolo degli aspetti psicologici del
paziente, e del medico stesso, ha avuto accesso ad un uditorio più ampio e non
strettamente specialista della salute mentale.
Nello stesso periodo si stava verificando un’evoluzione della psicoanalisi, grazie alle
teorie interpersonali (anch’esse a lungo emarginate dalla psicoanalisi ufficiale
freudiana, mentre oggi centrali nell’orientamenti clinici relazionali) che
sottolineavano come il soggetto possa essere compreso soltanto in un contesto di
relazioni interpersonali (Sullivan 1953).
A partire dagli anni Sessanta, la teoria generale dei sistemi (GST) di Von
Bertalanffy era sempre più utilizzata soprattutto dagli approcci di terapia della
famiglia e, negli stessi anni, quel genio del secolo scorso che è stato Gregory
Bateson (1972) offriva le sue attenzioni al campo della malattia mentale,
sviluppando alcuni concetti, come quello di contesto e di doppio vincolo, per
comprendere i paradossi della comunicazione umana.
Ciò non era frutto però soltanto di isolate intuizioni e, nello stesso tempo, si
poneva alla medicina l’esigenza di considerare maggiormente la soggettività dei
pazienti, sotto la crescente pressione sia della società sia, potremmo dire, del
mercato. Infatti, con gli anni Sessanta aumentò la considerazione generale per gli
aspetti sociali fino all'introduzione negli anni Settanta, almeno in Italia, del Servizio
Sanitario Nazionale per garantire cure mediche a tutta la popolazione. Si sviluppò
così una crescente domanda di cure qualitativamente adeguate e nella popolazione
di strumenti culturali di giudizio, critica e contrattazione.
In questo contesto il concetto di multidimensionalità della malattia, articolata su
piani biologici, psicologici e sociali, divenne nozione comune. La paternità di
questo concetto è generalmente attribuita all’articolo dello psichiatra George L.
Engel, pubblicato su Science nel 1977, che stiamo leggendo in questo numero
monografico della rivista. Le idee di Engel, docente per circa cinquant’anni
all’Università di Rochester, devono, però, essere considerate all’interno di certe
linee evolutive del pensiero medico sviluppate nel XX secolo. Le dimensioni bio-
psico-sociali citate da Engel riprendono, ad esempio, quasi letteralmente la
definizione di “salute” formulata nel 1948 dall'Organizzazione Mondiale della
Sanità, come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la
semplice assenza dello stato di malattia o infermità". Visto che il concetto delle
dimensioni bio-psico-sociali della salute era già stato formulato quasi trent’anni
prima dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, occorre ricontestualizzare
l’originalità di Engel, benché questi sia quasi invariabilmente conosciuto soltanto
come il padre della medicina bio-psico-sociale.
Il lavoro di Engel del 1977 è stato largamente citato nelle pubblicazioni italiane e
internazionali, e la straordinaria fortuna del termine per cui questo autore è noto è
verificabile cercando in Internet con un comune motore di ricerca1.
"Bio-psico-sociale" sembra diventato uno slogan molto popolare; il concetto ha
avuto tale fortuna, e tale solidità, da mantenersi suggestivo se si aggiunge un
elemento (ottenendo ad esempio bio-psico-socio-spirituale) o addirittura se si
sostituisce, con belle indifference, uno degli elementi, ottenendo il concetto di bio-
psico-spirituale, utilizzato ad esempio come slogan in un centro ospedaliero
universitario molto noto.
L’articolo di Engel aveva caratteristiche straordinarie ed alcuni limiti. Uno di questi
era l'impiego di un linguaggio complesso e di una forma, a prima vista, poco
accattivante.
L’articolo, poi, non contiene alcun riferimento ad autori europei famosi e
considerati padri dell’integrazione delle discipline psicologiche in medicina: per
esempio, non sono citati né Schneider né Balint, tanto per richiamare i più illustri
assenti.
Ci si può domandare quanto questi limiti siano importanti dal momento che,
trascorsi quasi trent’anni dall’articolo, la situazione e i problemi riscontrabili nel
panorama attuale non sono di molto cambiati!
Certamente si è sviluppata nel frattempo in Italia la psicologia nel contesto
accademico, come percorso di formazione universitaria e come disciplina
professionale. E la psicologia clinica è stata contemplata all’interno del più ampio
novero delle “psicologie”, con la varietà di metodi, strumenti e obiettivi scientifici e
applicativi che costituiscono questo variegato universo pre-paradigmatico (nel
senso di Kuhn, 1970).
Molta strada, però, deve essere ancora percorsa per la costruzione di un immagine
sociale del ruolo della psicologia clinica, per una condivisione di fondamenti teorici
e metodologici della sua specificità (rispetto, per esempio, alla psichiatria), nel

1
Ad esempio con Google nel giugno 2005 si reperivano oltre 29.000 voci utilizzando la parola
trattamento degli aspetti che le competono nella cura delle malattie organiche, e per
lo sviluppo del suo sfaccettato universo (che, forse, più che pre-paradigmatico è, e
resta, pluri-paradigmatico) in forme di dialogo, sia interno sia verso le altri ambiti
disciplinari, privo di ambiguità e di incertezze che la facciano ancora spesso,
purtroppo, connotare come “acerba”, “poco efficace” o “poco supportata da
evidenze empiriche”.
Una riflessione sull’integrazione operativa delle discipline biologiche, psicologiche
e sociali, e sulle pratiche d’invio da una competenza all’altra, è indispensabile ancor di
più oggi, dato che il paradigma bio-psico-sociale non può essere soddisfatto
semplicemente ponendo sotto uno stesso tetto medici, psicologi ed assistenti
sociali. Ciò si può realizzare soltanto integrando realmente nel processo di cura, nel
rispetto della sua articolazione in punti di vista differenti, specifici contributi nella
comprensione e nel trattamento della psicopatologia.
In particolare, si può osservare il rischio che la psicologia diventi un oggetto
decorativo, idealizzato (quando va bene) ma inutilizzato e inutilizzabile per la cura
dei pazienti nei contesti clinici reali.
Un passaggio del lavoro di Engel coglie un aspetto fondamentale, ancora irrisolto,
che può essere considerato un punto di partenza per ulteriori studi:
“L’unità psicobiologica dell’uomo richiede che il medico accetti la responsabilità di
valutare qualsiasi problema il paziente presenti e raccomandare una serie di
provvedimenti, incluso l’invio ad altri professionisti dell’aiuto. Ecco perché la
conoscenza professionale di base del medico e le sue competenze devono
comprendere gli aspetti sociali, psicologici e biologici per poter decidere e agire
nell’interesse del paziente che è coinvolto in tutte e tre le dimensioni”.
Il passaggio, ancor oggi problematico, è l'invio ad un intervento sulla salute mentale,
una volta appurato che al paziente occorra una competenza non della medicina ma
delle discipline che si occupano di pensieri, emozioni e comportamento.

chiave bio-psycho-social.
Questa integrazione e, diremmo, fiducia reciproca fra medicina e psicologia è
ancora ben lungi dall'essere ampiamente realizzata, come dimostra la non ancora
sopita questione sulla possibilità dei medici di praticare la psicologia clinica,
vigorosamente dibattuta con il caro Lorenzo Bignamini, o sulla infondata e non
fondabile, né scientificamente né clinicamente, superiorità dei medici nel praticare
la psicoterapia (che è per definizione, una terapia attraverso strumenti psichici).
La dimensione clinica, in concerto con quella etica, impone di riaffermare il
principio per cui l'oggetto della cura deve essere sempre il soggetto che soffre e che
è malato; il contributo della psicologia clinica è fondato, quindi al centro della
clinica tout court, nella ricerca di comprensione (diagnosi) e di trattamento a partire
da una considerazione centrale assegnata al al significato soggettivo del paziente.
Non meno marginale è il problema dell'integrazione del terzo elemento identificato
da Engel, quello sociale, nelle cure mediche. Nella realtà, solo pochi reparti
all’avanguardia hanno nel proprio organico, assistenti sociali, fisicamente presenti
nel reparto di cura, immediatamente accessibili dagli utenti, anziché collocati nei
meandri degli uffici degli ospedali.
Da alcuni anni l'esperienza di collaborazione fra medici, specialisti della salute
mentale e assistenti sociali si è perfezionata e sono state avviate riflessioni sul
riconoscimento dei bisogni e della sofferenza dei pazienti e sull'invio ad un
intervento.
Tutto ciò porta alla necessità di una nuova concezione della sofferenza psichica in
medicina.
Nella concezione medico-psichiatrica del disagio psichico, spesso la psicopatologia
viene ridotta a ciò che è sintomatico. Stando all’interno di questa prospettiva, si
rischia che il disagio non sia rilevato in mancanza di sintomi. Una solida tradizione
psicopatologica, non nosografia ma che risale alla nascita, nell’Ottocento, di un
orientamento psicodinamico alla comprensione della patologia psichica, ci insegna,
invece, ad osservare l’esistenza della sofferenza mentale non manifesta, sia essa
inconscia, inespressa o inesprimibile. Oggi, un rischio è che non ci si ponga più
all’ascolto del paziente e non si cerchi di capire cosa sia la psicopatologia, cosa
voglia dire per il paziente dover vivere con una sofferenza insopportabile che gli
deriva dall’impossibilità di costruire dei significati intersoggettivi per gli eventi
cruciali della sua esistenza. Se l’intervento psicologico non è condotto sulla base di
nuovi criteri operativi, attenti ugualmente sia alla dimensione diagnostica
categoriale (sostenuta dalla nosografia contemporanea, rappresentata dai manuali
dell’American Psychiatric Association, i DSM, fra tutti), sia alla soggettività e alle
relazioni del paziente, si corre il rischio di perdere l’occasione di fare un lavoro
clinico, a partire dalla prevenzione, su condizioni psicopatologiche, anche gravi. E’
noto infatti come alcune situazioni abbiano un periodo prodromico asintomatico,
magari caratterizzato da forme (autoplastiche) di adattamento agli eventi che, se
valutate con criteri estrinseci a quelli psicologico-clinici, potrebbero risultare
apparentemente ottime.
Sulla mancata integrazione della psicologia nei contesti ospedalieri sono stati
pubblicati innumerevoli contributi, per esempio nei contesti congressuali (il tema
della specificità del ruolo è molto frequentato). Senza entrare nel merito di diatribe
corporative, occorrerebbe un nuovo impulso e rinnovato vigore nello studio dei
fattori che intrinsecamente rendono problematica l’integrazione nella cura della
persona di strumenti psicologici e cure mediche.
La rilettura del lavoro di Engel speriamo possa essere una buona occasione per
stimolare il dibattito e la ricerca.

BIBLIOGRAFIA
Albasi C. (2006) Attaccamenti traumatici. I modelli Operativi Interni Dissociati, Utet,
Torino.
Bateson, G., 1972, Stetps to an Ecology of Mind, Chandler Publishing Company, trad.
it. Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1976.
Bignamini L, Clerici CA., I medici, la psicologia clinica e la psicoterapia: alcuni problemi
scottanti. In dossier “Psicoclinica”, allegato a “La Rivista del Medico Pratico”,
maggio 2001. Pag. 35 - 37.
Borgogno F. (2004), Ferenczi oggi, Bollati Boringhieri, Torino
Kuhn, T.S. (1970), The structure of scientific revolutions. Chicago: University of Chicago
press. Tr. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Torino, Einaudi, 1978.
Virchow R. La patologia cellulare fondata sulla dottrina fisiologica e patologica dei
tessuti. Milano, Francesco Vallardi, 1865.

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