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Ad esempio con Google nel giugno 2005 si reperivano oltre 29.000 voci utilizzando la parola
trattamento degli aspetti che le competono nella cura delle malattie organiche, e per
lo sviluppo del suo sfaccettato universo (che, forse, più che pre-paradigmatico è, e
resta, pluri-paradigmatico) in forme di dialogo, sia interno sia verso le altri ambiti
disciplinari, privo di ambiguità e di incertezze che la facciano ancora spesso,
purtroppo, connotare come “acerba”, “poco efficace” o “poco supportata da
evidenze empiriche”.
Una riflessione sull’integrazione operativa delle discipline biologiche, psicologiche
e sociali, e sulle pratiche d’invio da una competenza all’altra, è indispensabile ancor di
più oggi, dato che il paradigma bio-psico-sociale non può essere soddisfatto
semplicemente ponendo sotto uno stesso tetto medici, psicologi ed assistenti
sociali. Ciò si può realizzare soltanto integrando realmente nel processo di cura, nel
rispetto della sua articolazione in punti di vista differenti, specifici contributi nella
comprensione e nel trattamento della psicopatologia.
In particolare, si può osservare il rischio che la psicologia diventi un oggetto
decorativo, idealizzato (quando va bene) ma inutilizzato e inutilizzabile per la cura
dei pazienti nei contesti clinici reali.
Un passaggio del lavoro di Engel coglie un aspetto fondamentale, ancora irrisolto,
che può essere considerato un punto di partenza per ulteriori studi:
“L’unità psicobiologica dell’uomo richiede che il medico accetti la responsabilità di
valutare qualsiasi problema il paziente presenti e raccomandare una serie di
provvedimenti, incluso l’invio ad altri professionisti dell’aiuto. Ecco perché la
conoscenza professionale di base del medico e le sue competenze devono
comprendere gli aspetti sociali, psicologici e biologici per poter decidere e agire
nell’interesse del paziente che è coinvolto in tutte e tre le dimensioni”.
Il passaggio, ancor oggi problematico, è l'invio ad un intervento sulla salute mentale,
una volta appurato che al paziente occorra una competenza non della medicina ma
delle discipline che si occupano di pensieri, emozioni e comportamento.
chiave bio-psycho-social.
Questa integrazione e, diremmo, fiducia reciproca fra medicina e psicologia è
ancora ben lungi dall'essere ampiamente realizzata, come dimostra la non ancora
sopita questione sulla possibilità dei medici di praticare la psicologia clinica,
vigorosamente dibattuta con il caro Lorenzo Bignamini, o sulla infondata e non
fondabile, né scientificamente né clinicamente, superiorità dei medici nel praticare
la psicoterapia (che è per definizione, una terapia attraverso strumenti psichici).
La dimensione clinica, in concerto con quella etica, impone di riaffermare il
principio per cui l'oggetto della cura deve essere sempre il soggetto che soffre e che
è malato; il contributo della psicologia clinica è fondato, quindi al centro della
clinica tout court, nella ricerca di comprensione (diagnosi) e di trattamento a partire
da una considerazione centrale assegnata al al significato soggettivo del paziente.
Non meno marginale è il problema dell'integrazione del terzo elemento identificato
da Engel, quello sociale, nelle cure mediche. Nella realtà, solo pochi reparti
all’avanguardia hanno nel proprio organico, assistenti sociali, fisicamente presenti
nel reparto di cura, immediatamente accessibili dagli utenti, anziché collocati nei
meandri degli uffici degli ospedali.
Da alcuni anni l'esperienza di collaborazione fra medici, specialisti della salute
mentale e assistenti sociali si è perfezionata e sono state avviate riflessioni sul
riconoscimento dei bisogni e della sofferenza dei pazienti e sull'invio ad un
intervento.
Tutto ciò porta alla necessità di una nuova concezione della sofferenza psichica in
medicina.
Nella concezione medico-psichiatrica del disagio psichico, spesso la psicopatologia
viene ridotta a ciò che è sintomatico. Stando all’interno di questa prospettiva, si
rischia che il disagio non sia rilevato in mancanza di sintomi. Una solida tradizione
psicopatologica, non nosografia ma che risale alla nascita, nell’Ottocento, di un
orientamento psicodinamico alla comprensione della patologia psichica, ci insegna,
invece, ad osservare l’esistenza della sofferenza mentale non manifesta, sia essa
inconscia, inespressa o inesprimibile. Oggi, un rischio è che non ci si ponga più
all’ascolto del paziente e non si cerchi di capire cosa sia la psicopatologia, cosa
voglia dire per il paziente dover vivere con una sofferenza insopportabile che gli
deriva dall’impossibilità di costruire dei significati intersoggettivi per gli eventi
cruciali della sua esistenza. Se l’intervento psicologico non è condotto sulla base di
nuovi criteri operativi, attenti ugualmente sia alla dimensione diagnostica
categoriale (sostenuta dalla nosografia contemporanea, rappresentata dai manuali
dell’American Psychiatric Association, i DSM, fra tutti), sia alla soggettività e alle
relazioni del paziente, si corre il rischio di perdere l’occasione di fare un lavoro
clinico, a partire dalla prevenzione, su condizioni psicopatologiche, anche gravi. E’
noto infatti come alcune situazioni abbiano un periodo prodromico asintomatico,
magari caratterizzato da forme (autoplastiche) di adattamento agli eventi che, se
valutate con criteri estrinseci a quelli psicologico-clinici, potrebbero risultare
apparentemente ottime.
Sulla mancata integrazione della psicologia nei contesti ospedalieri sono stati
pubblicati innumerevoli contributi, per esempio nei contesti congressuali (il tema
della specificità del ruolo è molto frequentato). Senza entrare nel merito di diatribe
corporative, occorrerebbe un nuovo impulso e rinnovato vigore nello studio dei
fattori che intrinsecamente rendono problematica l’integrazione nella cura della
persona di strumenti psicologici e cure mediche.
La rilettura del lavoro di Engel speriamo possa essere una buona occasione per
stimolare il dibattito e la ricerca.
BIBLIOGRAFIA
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