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IL BUIO OLTRE GAZA

CHI SONO
I PIRATI
DELLA SOMALIA di Nicolò CARNIMEO e Matteo GUGLIELMO

Le flotte di mezzo mondo danno la caccia ai corsari che


imperversano lungo le coste del Corno d’Africa. Spesso sono pastori
o nomadi assoldati dai signori della guerra. Il caso di al-Šabåb.
Le ambiguità saudite e quelle americane.

G UERRA AI PIRATI! NEL GOLFO DI ADEN


è oggi schierata la più imponente flotta da guerra che la storia ricordi, non tanto
per il numero e la tipologia delle unità navali, quanto per la variegata schiera di
appartenenza. Vi operano le unità statunitensi della Task Force 150 nell’ambito
di Enduring Freedom, la flotta Nato impegnata nell’operazione Allied Provider,
che nel mese di dicembre del 2008 ha lasciato il posto alla prima flotta europea,
chiamata a combattere nel nome di Atalanta, la mitologica dea della caccia. Ma
nel teatro geomarittimo del Corno d’Africa incrociano anche navi da guerra russe
e indiane, mentre si annuncia l’arrivo di unità cinesi e turche.
Non mancano i paesi arabi i cui interessi sono stati minacciati dagli abbordag-
gi dei pirati somali. In prima linea ci sono i sauditi, vittime del sequestro della su-
perpetroliera Sirius Star, e gli egiziani, che hanno visto drammaticamente diminui-
re gli introiti dei passaggi a Suez: nel dicembre 2008 gli incassi sono stati pari a
419,8 milioni di dollari (il livello più basso dall’aprile scorso), con un calo del traffi-
co di circa il 7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, essendo transita-
te 46 navi al giorno contro una media di 62 nel 2007.
Durante l’ultimo meeting del Gulf Cooperation Council (Gcc), il segretario ge-
nerale ‘Abd al-Raõmån bin al-‘A¿iyya, in pieno accordo con il ministro degli Esteri
dell’Oman Yûsuf bin ‘Ilwø bin ‘Abd Allåh, ha auspicato un’azione decisa in coordi-
namento con forze Nato e Usa contro la pirateria. Stessa linea adottata dalla Lega
Araba, che nella sessione del 24 novembre scorso, attraverso il suo segretario ge-
nerale, l’egiziano Amr Moussa [Mûså], ha sottolineato la gravità del problema – so-
prattutto per le ricadute negative sulle economie arabe – e ha richiamato i paesi
membri a partecipare a una pronta risposta sul campo, in pieno coordinamento
con le Marine occidentali già presenti nel Golfo di Aden 1.

1. I paesi della regione del Mar Rosso, del Golfo di Aden e del Corno d’Africa (Gibuti, Egitto, Eritrea,
Etiopia, Giordania, Oman, Arabia Saudita, Somalia, Sudan e Yemen) hanno convenuto con la Dichira- 167
CHI SONO I PIRATI DELLA SOMALIA

La flotta antipirati è così destinata a crescere, sebbene alcuni esperti di stra-


tegia siano convinti che per pattugliare con efficacia le 600 mila miglia quadrate
del solo Golfo di Aden sarebbero necessarie più di cinquecento navi. E forse
neppure questo numero sarebbe sufficiente a fermare gli anarchici assalti di pic-
coli scafi veloci – armati di kalashnikov e Rpg (Rocket Propelled Grenade) – o
delle «navi madre», pescherecci o mercantili di appoggio (dhow) capaci di tenere
in scacco l’imponente forza navale internazionale, così come un tempo i memo-
rabili pirati uscocchi nel «Golfo di Venezia» contro le potenti galee della Serenis-
sima Repubblica 2.
Come è possibile, vista la sproporzione delle forze in campo, che «i nostri» non
abbiano ancora debellato i pirati? Non si tratta solo dell’inadeguatezza delle norme
internazionali in materia 3 o delle complesse regole d’ingaggio che determinano
l’operatività e le possibilità di reazione delle unità da guerra. La ragione principale
è l’incapacità di inquadrare la pirateria nelle dinamiche interne di un paese come
la Somalia che da diciassette anni è in perenne stato di guerra.
Un tale dispiegamento di forze ad Aden non è, però, solo «merito» dei jin so-
mali, ma rappresenta uno scenario destinato a diffondersi in altre aree del mondo.
Il contrasto alle minacce considerate «globali» richiede nuove e più significative si-

zione di Sana’a del 2005 di sviluppare una politica marittima volta a salvaguardare i traffici marittimi
dalla minaccia di atti illeciti stabilendo un’organizzazione che adotti regolamentazioni e procedure
dedicate alla sicurezza.
2. La Serenissima Repubblica dovette vedersela con diverse flotte di pirati, ma i suoi nemici giurati
erano gli uscocchi, parola slava che significa fuggiaschi, i quali con il favore dell’Austria si erano stabi-
liti lungo il litorale dalmata nella Tortuga di Signa. Gli uscocchi non erano marinai, bensì uomini del-
l’entroterra bosniaco, ma riuscivano a tenere in scacco Venezia usando veloci imbarcazioni sottili a re-
mi con le quali fuggivano nei covi sul litorale dalmata: le vittime erano soprattutto i vascelli ottomani
che avrebbero dovuto godere in Adriatico di libertà di navigazione secondo le intese stabilite tra Ve-
nezia e la Sublime Porta. Di qui le continue proteste dei turchi che addebitavano a Venezia colpe in
realtà risalenti ad altri mandanti, non solo l’Austria ma anche la Spagna. Venezia era costretta a tenere
in mare una formazione di due galere e tre fuste al comando di un capitano contro gli uscocchi e la
questione sfociò persino in una guerra contro l’Austria.
3. Costituiscono pirateria, secondo una nozione consuetudinaria recepita nella Convenzione del di-
ritto del mare del 1982, gli atti di depredazione o di violenza compiuti in «alto mare» o in zone non
soggette alla giurisdizione di alcuno Stato (per esempio le coste dell’Antartico) per fini privati dall’e-
quipaggio di una nave o aereo privato ai danni di altra nave o aereo privato (Unclos, artt. 101 e 102).
La nozione di pirateria marittima si ritrova nell’articolo 105 della Convenzione del diritto del mare se-
condo il quale: «Nell’alto mare o in qualunque altro luogo fuori della giurisdizione di qualunque Sta-
to, ogni Stato può sequestrare una nave o aeromobile pirata o una nave o aeromobile catturati con
atti di pirateria e tenuti sotto il controllo dei pirati; può arrestare le persone a bordo e requisirne i be-
ni. Gli organi giurisdizionali dello Stato che ha disposto il sequestro hanno il potere di decidere la
pena da infliggere nonché le misure da adottare nei confronti delle navi, aeromobili o beni, nel ri-
spetto dei diritti dei terzi in buona fede». A fronte di tale norma internazionale ci sono le leggi dei
singoli Stati. L’ordinamento italiano prevede espressamente il reato di pirateria nell’articolo 1135 del
codice della navigazione. Essendo esso punito con pena edittale superiore nel minimo a cinque an-
ni, è applicabile sia l’arresto obbligatorio in flagranza di reato sia il fermo dell’indiziato di delitto. La
punibilità è prevista oltre che per i cittadini italiani anche per gli stranieri implicati in atti di pirateria
o «sospetta» pirateria. Non è stabilito alcun requisito territoriale relativamente al locus commissi de-
licti, sicché è punibile anche il fatto commesso in alto mare. Da questo punto di vista l’azione penale
può essere esercitata sulla base dell’articolo 7, n. 5 del codice penale relativo ai reati commessi all’e-
stero dal cittadino o dallo straniero «per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni interna-
zionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana» (nel caso di specie sempre la Conven-
168 zione del diritto del mare).
IL BUIO OLTRE GAZA

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CHI SONO I PIRATI DELLA SOMALIA

nergie tra le Marine delle principali potenze e i paesi oggetto degli attacchi e, in ul-
tima analisi, una nuova considerazione degli spazi marittimi.

La scintilla di Venezia
Venezia, 14 ottobre 2008. Nell’Arsenale si tiene il settimo Simposio interna-
zionale delle Marine del Mediterraneo e del Mar Nero. Ci sono tutte e vengono
anche da più lontano, come la Marina brasiliana e quella di Singapore. Cambia-
no i colori e le sfumature delle divise dal nero al blu, con i galloni scintillanti co-
me la polena d’oro dell’Amerigo Vespucci (ormeggiata a Riva degli Schiavoni) a
far da contrasto alle bigie acque di calle Malvasia, le Fondamenta dell’Arsenal
che portano all’ingresso della più grande industria navale dell’antichità, il cuore
pulsante della Serenissima che le permise di dominare il Mediterraneo, l’unico
mare allora conosciuto.
Oggi la posta è più alta, in pericolo sono tutti gli oceani del globo. Pirati, terro-
risti, catastrofi ambientali, flussi migratori impongono una nuova politica dei mari.
C’è bisogno di regole, di controllare anche le zone marittime che erano lasciate al-
la libertà di navigazione. I singoli Stati, Stati Uniti inclusi, da soli non possono far-
cela. Poi ci sono le Marine dei paesi emergenti che vogliono giocare un ruolo, co-
me l’India. Non è un caso che sia stata proprio un’unità di Delhi, il Tarabai, ad an-
nunciare di aver affondato la prima nave pirata ad Aden. Tranne poi scoprire che
si trattava di un peschereccio thailandese appena sequestrato dai banditi del mare.
Gli spazi marittimi sono immensi e i costi enormi per avviare una prima timi-
da policy degli oceani. L’unico strumento è la cooperazione, la creazione di flotte
congiunte capaci di rispecchiare non solo alleanze già esistenti come in ambito
Nato, ma più allargate, superando i conflitti tra gli Stati in nome della sicurezza
globale. È proprio la parola «globale» la più ripetuta nel Simposio di Venezia. Nel-
le varie relazioni di ammiragli e capi di Stato maggiore di Francia, Germania,
Ucraina, Stati Uniti – che partecipano con il comandante della flotta Gary Rou-
ghead – viene riconosciuto all’Italia un ruolo diplomatico di primo piano. È stata
la Marina italiana ad avere compreso per prima l’importanza delle sinergie e a in-
ventare una piattaforma comune. Si chiama Virtual Regional Maritime Traffic Cen-
tre (V-rmtc), una «rete virtuale» che collega le centrali operative delle varie Marine
per scambiare dati e informazioni. Una rete nella quale sarà più difficile per i nuo-
vi bucanieri sfuggire alle maglie dei controlli. Sull’Amerigo Vespucci quattro nuovi
paesi aderiscono alla V-rmtc, firmando il protocollo predisposto dal capo di Stato
maggiore italiano, Paolo La Rosa. E chissà se gli storici un giorno potranno atte-
stare che proprio nel mare di Venezia è nata la prima scintilla di un governo «glo-
bale» degli oceani, considerato che sono 28 gli Stati già aderenti all’iniziativa italia-
na lanciata a Venezia nel 2002.
Ma se la Serenissima poteva colare a picco i vascelli corsari, arrestare e proces-
sare i pirati, oggi non è così facile. L’impianto di regole del diritto internazionale
170 del mare, le regole civili con le quali ci siamo affrancati dall’essere noi stessi pirati
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o corsari, rendono più complesso l’intervento delle Marine, specialmente le coali-


zioni Nato o europee, sottoposte a rigide regole di ingaggio e a dettagliate risolu-
zioni dell’Onu che statuiscono ciò che si può e non si può fare.
L’ammiraglio Fabio Caffio, che incontriamo durante il Simposio di Venezia, è
comunque ottimista e in un serrato botta e risposta riesce a delineare con precisio-
ne le strategie di contrasto: «Tutti gli Stati possono intervenire contro i pirati. La pi-
rateria è un crimine di carattere internazionale, definito in latino come crimen iuris
gentium, sicché ogni paese può contrastarlo. I pirati sono fuori ogni legge e, non
potendo godere della protezione di alcuno Stato, ogni paese può perseguirli se-
condo le proprie norme. Si può sequestrare sia la nave pirata che quella sotto il
controllo dei pirati. E se non li si coglie in flagranza, ma vi sono solo fondati so-
spetti che un mercantile sia implicato in atti di pirateria, la nave da guerra può
esercitare il diritto di visita, cioè abbordarli e controllare. Per interrompere un’azio-
ne di pirateria in corso potrebbe essere necessario anche l’uso della forza». Come e
quando può avvenire? «Il diritto internazionale non consente ipso iure di sparare a
imbarcazioni di pirati affondandole. La Convenzione sul diritto del mare prevede
solo l’esecuzione di abbordaggi, arresti e sequestri. È chiaro che se i pirati si op-
pongono a tali provvedimenti, possono essere adottate misure proporzionate di
uso della forza». In che senso proporzionate? «Il concetto di proporzionalità implica
che l’affondamento è una misura estrema qualora siano risultati infruttuosi altri
provvedimenti, per esempio usare il disabling fire per fermare i motori o rendere
inservibile il timone. Ma ogni episodio di pirateria è un caso a sé. E quindi bisogna
valutare le circostanze in cui avviene l’uso della forza. Se ne sceglie il livello par-
tendo dalla minimum force».
Si possono attaccare le Tortuga somale a terra? «È necessaria una risoluzione ad
hoc del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, come la recente 1851, oppure
potrebbe trattarsi di un’iniziativa unilaterale di un singolo Stato quando ci sia da di-
fendere un suo interesse nazionale, come degli ostaggi presi dai pirati, penso al ca-
so del Ponant. Ciò di cui parlo deve avvenire sempre in acque internazionali per-
ché entrare nelle acque territoriali di uno Stato sovrano non è possibile. Per farlo in
Somalia c’è voluta una risoluzione Onu e l’assenso del governo di transizione so-
malo. Una soluzione radicale contro la pirateria del Corno d’Africa potrebbe essere
l’autorizzazione delle Nazioni Unite acché le Forze navali stabiliscano una sorta di
blocco delle coste somale non permettendo alcun transito di imbarcazioni in entra-
ta o in uscita, salvo quelle scortate. Il problema è che ciò richiederebbe un ingente
dispositivo navale in considerazione della lunghezza delle coste da controllare».
Quando i pirati vengono arrestati chi può e deve processarli? «La legge italiana
consente di processare autori di fatti di pirateria anche quando l’illecito è stato
commesso da stranieri in acque internazionali. Lo stesso è sicuramente previsto
dalle leggi di altri paesi. La Francia, nel caso del Ponant, è riuscita a trasferire sul
proprio territorio gli autori del fatto, forse con l’assistenza del Tfg, il governo di
transizione somalo, o del governo di Gibuti. La Danimarca al contrario, dopo aver
tenuto per sei giorni a bordo della propria unità Absalon un gruppo di 10 uomini 171
CHI SONO I PIRATI DELLA SOMALIA

sospetti di pirateria, catturati il 17 settembre 2008 al largo del Golfo di Aden, li ha


sbarcati sulla costa somala di Puntland lasciandoli di fatto liberi. La decisione sem-
bra essere stata determinata dall’impossibilità giuridica secondo l’ordinamento da-
nese di perseguirli o di consegnarli ad altro Stato o ad altre unità presenti in loco.
La Gran Bretagna, invece, dopo aver tenuto in custodia per alcuni giorni, su una
propria nave logistica, gli autori del conflitto a fuoco in cui è stato coinvolto il
Cumberland, li ha consegnati alle autorità keniote, che hanno accettato di esercita-
re giurisdizione. Qui la prassi è la cooperazione tra gli Stati, e vi è un ventaglio di
soluzioni, anche se rimane lo Stato costiero, cioè quello nelle cui acque è commes-
so il fatto, a dover intervenire». Caffio piega il capo, sospira: «Sinora, però, non si
ha evidenza della stipula di accordi che definiscano tali forme di cooperazione.
Per il futuro è lecito sperare che, sotto gli auspici delle Nazioni Unite o a iniziativa
dell’Unione Europea vengano avviate le necessarie intese giudiziarie tra i paesi
della regione e gli Stati delle navi da guerra impegnate nel contrasto alla pirateria.
Di recente si è parlato di una risoluzione Onu che sottoponga i pirati alla giurisdi-
zione di un tribunale internazionale. È evidente che si tratterebbe, come nel caso
della Corte penale internazionale, di una giurisdizione complementare: in via ge-
nerale potrebbe essere esercitata nel caso che nessun altro paese intenda avvalersi
di tale diritto».

Anatomia dei pirati somali


I banditi del mare, in arabo «jin» («diavoli»), «burcad baded» in somalo, sono
riusciti nel 2008 a rubare la scena alla rete internazionale del terrore. Li chiamano
pirati, ma con il mare hanno poco a che fare. L’arte della navigazione l’hanno im-
parata per necessità. Essi sono in realtà un variegato manipolo di pastori o merce-
nari al soldo dei locali signori della guerra. Abitano case di paglia e fango, bevono
latte di cammella, ma i loro capi sanno adoperare Internet e i sistemi satellitari di
rilevamento, sono in grado di compiere transazioni bancarie e hanno contatti in-
ternazionali da Nairobi a Dubai che consentono loro di riciclare il denaro degli ab-
bordaggi – 50 milioni di dollari nel solo 2008 secondo stime del New York Times –
ma anche di essere il terminale di traffici illeciti di ogni genere.
Vivere ai margini di un «buco nero» in perenne conflitto da diciassette anni,
aguzza l’ingegno, e nel tempo si trovano le strade più facili e redditizie per soprav-
vivere. La pirateria ad Aden non è nata oggi. I primi attacchi si registrano già nella
seconda metà degli anni Novanta, ma oggi si rischia la paralisi di una delle vie
d’acqua fondamentali per i traffici marittimi, tanto da spingere alcuni degli armato-
ri più importanti, come la danese Maersk, a modificare il percorso dei mercantili
che collegano l’Europa con l’Oriente e circumnavigare l’Africa passando per il Ca-
po di Buona Speranza. I costi assicurativi per un passaggio ad Aden, classificato
«zona di guerra», si decuplicano, passando in poco tempo da una media di 900 dol-
172 lari a 9 mila dollari al giorno. Ma il rischio è concreto. Nel 2008 gli attacchi sono
IL BUIO OLTRE GAZA

stati 110, con 350 membri di equipaggio sequestrati. Nel mese di dicembre erano
ancora nelle mani dei pirati 19 navi, tra cui la superpetroliera Sirius Star e il Faina,
un cargo ucraino che trasporta 33 carri armati T-72 di fabbricazione sovietica, 150
lanciagranate Rpg-7, batterie antiaeree, cannoni e circa 14 mila proiettili.
In base alla ricostruzione di Andrew Mwangura, fondatore dell’Associazione
dei marittimi dell’Africa orientale con sede a Mombasa, in Kenya, i banditi del mare
avrebbero quattro organizzazioni principali: «Due le bande più attive in passato, che
operavano al largo del Sud somalo. Una era la Guardia costiera volontaria, coman-
data dal signore della guerra Garaad Mohamed, che si muoveva intorno a Chisi-
mayo. L’altra aveva il quartier generale a Merka, ed era guidata da Yusuf Indha’ad-
de, un warlord poi convertito a ministro della Difesa delle Corti islamiche» 4. Mwan-
gura conferma che oggi il centro della pirateria è la regione semiautonoma del Pun-
tland, dove sarebbero operative due gang, la prima di pescatori, responsabile di
piccoli raid e l’altra più organizzata e potente chiamata Somali Marines, con sede
lungo le coste di Eyl, dove vengono portate la maggior parte delle navi sequestrate.
Il comando, secondo Mwangura, sarebbe verticistico con un ammiraglio, un vi-
ceammiraglio e un tesoriere e a capo un signore della guerra, il famigerato Abdi
Mohamed Afweyne. Altre fonti parlano di otto gang, tra cui appunto Somali Mari-
nes, Coast Guard (che hanno ramificazioni in Yemen e Mar Rosso e sono responsa-
bili dell’abbordaggio al veliero francese Ponant 5), Marka Group e Puntland Group.
Ma le gang si moltiplicano: la società di sicurezza Ake che si è occupata di gestire i
sequestri per alcuni armatori ne ha stimate una quindicina.
Le Tortuga più pericolose sono lungo le coste del Puntland: in particolare il
villaggio di Eyl, ma anche Xarardheere e Garacad, sebbene i vertici dei pirati viva-
no nella capitale Garowe o nella città portuale di Bosaso. Il Puntland ha dichiarato
la propria autonomia già nel 1998, autoproclamandosi Stato federale con tanto di
governo ed esercito. Ma qui la pirateria marittima è la punta dell’iceberg di proven-
ti illeciti che vanno dalla tratta di esseri umani allo smaltimento di rifiuti tossici e ra-
dioattivi 6. L’altro affare è il commercio delle armi. Il Puntland, come tutta la Soma-
lia, ne è pieno. Gli esperti dell’Onu hanno più volte denunciato la sistematica vio-
lazione dell’embargo e il fatto che molti paesi e aziende occidentali continuino a
rifornire i signori della guerra 7. Questa regione del Corno d’Africa è una zona gri-

4. E. MANFREDI, «I pirati del terzo millennio», L’espresso, 11/9/2008, p. 32


5. Il veliero da crociera francese è stato sequestrato nelle acque di Aden il 4 aprile 2008.
6. Il Puntland è anche una delle più grandi discariche africane di rifiuti tossici. Anche in Internet, seb-
bene non si possa verificare la fonte, è disponibile una mappa dei siti contaminati. La maggior parte
sarebbero localizzati proprio nella regione del Corno d’Africa, una zona splendida dal punto di vista
paesaggistico, Capo Hafun durante l’occupazione italiana della Somalia si chiamava Dante e vi sorge-
vano, a partire dagli anni Venti, gli impianti di carico del sale della Società saline e industrie della So-
malia settentrionale «Migiurtinia» di Milano che aveva la concessione per lo sfruttamento di quella che
era allora una delle maggiori saline al mondo. Cfr. B. CARAZZOLO, A. CHIARA, L. SCALETTARI, Ilaria Alpi:
un omicidio al crocevia dei traffici, Milano 2002, Baldini Castoldi Dalai.
7. Secondo fonti delle Nazioni Unite tutte le fazioni sono coinvolte nei traffici, i soldati etiopi presenti
in Somalia che importano attrezzature militari per armare i clan amici contro i guerriglieri islamici, ma
anche alcuni elementi delle forze di pace dell’Unione africana e del governo di transizione che ado-
perano navi provenienti dallo Yemen. 173
CHI SONO I PIRATI DELLA SOMALIA

gia nella quale, pur essendoci un governo fantoccio, l’equilibrio è assicurato dalle
connivenze tra i vari signori della guerra responsabili degli atti di pirateria e le au-
torità locali. L’interesse comune è mantenere lo status quo e, se possibile, incre-
mentare il giro d’affari delle varie attività illecite.
La pirateria è l’unico volano economico per una regione che vive una profon-
da catastrofe umanitaria. Tra le emergenze vi è quella delle migliaia di profughi
che dal porto di Bosaso cercano di raggiungere le coste yemenite 8. I pirati sono
nati come un movimento spontaneo e con una forte connotazione «autoimprendi-
toriale» tipica di alcune tribù della costa per reagire – a quanto riferiscono i pirati –
allo sfruttamento delle acque somale da parte dei pescherecci occidentali e alla di-
scarica di rifiuti tossici lungo il litorale. Nel tempo il fenomeno si è radicalizzato di-
venendo una delle più redditizie fonti di sussistenza di warlords del calibro di Ab-
di Mohamed Afweyne, referente dei Somali Marines di Eyl.
L’aumento degli attacchi pirateschi nel 2008, così come l’escalation dei rapi-
menti a terra che hanno la stessa matrice si deve, infatti, al deteriorarsi della crisi
somala in uno scontro più serrato tra le fazioni in lotta e al peso più incisivo della
componente islamica più radicale: al-Šabåb 9. I signori della guerra per finanziarsi
hanno diversificato le loro attività. Non si limitano al traffico d’armi e alla gestione
e protezione dei convogli umanitari, ma si dedicano sempre più alla pirateria. Ciò
vale sia per le milizie vicine alle Corti islamiche che per quelle alleate al governo
federale di transizione in un intreccio difficile da dipanare, ma che ha come deno-
minatore comune l’acquisizione di denaro, armi e cibo del Programma alimentare
mondiale, che in una disastrata economia di guerra vale come oro per il controllo
del territorio.
In questo senso appare troppo radicale l’allarme lanciato da alcuni analisti, in
particolare dal think tank londinese Chatham House, che individuano nella pirate-
ria uno degli strumenti di finanziamento delle organizzazioni terroristiche, tramite
al-Šabåb. È necessario evitare generalizzazioni. I contatti tra alcuni signori della
guerra e i fondamentalisti non sono da escludere, ma vanno inquadrati nel gioco
dei ruoli della crisi somala. Non bisogna dimenticare che nei sei mesi di governo
delle Corti islamiche nel 2006, grazie anche a specifici accordi, la pirateria è stata
debellata. Più volte poi, nel corso degli ultimi mesi, proprio al-Šabåb ha attaccato
covi dei jin come Bandarbeyla, dichiarando di voler combattere la pirateria, anche
se più concretamente poteva averne preso di mira i ricchi proventi.

8. Dal porto di Bosaso migliaia di esuli fuggono dalla guerra e dalle carestie per raggiungere le coste
dello Yemen, che distano 180 miglia, circa venti ore di navigazione. Una catastrofe umanitaria dimen-
ticata: dal 1° gennaio al 20 aprile 2008, secondo dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i
rifugiati, 15.300 tra uomini, donne e bambini su 324 imbarcazioni sono riusciti a raggiungere le coste
yemenite, più del doppio rispetto al 2007, quando se ne erano contati 7.166.
9. Al-Šabåb (in arabo «gioventù») comincia a far parlare di sé già nel 2005, trovando una certa istituzio-
nalizzazione all’interno della formazione delle Corti islamiche sotto il nome di Õarakat al-Šabåb (parti-
to dei giovani). Il gruppo ha sempre rappresentato l’avanguardia delle Corti, soprattutto da un punto
di vista militare. Inoltre, la propria struttura orizzontale la rende tutt’oggi agile e dinamica. Molti dei
suoi leader possono vantare un passato nell’esercito nazionale somalo e, a una prima mappatura,
174 sembrerebbero provenire da diverse regioni, compreso quelle scissioniste settentrionali.
IL BUIO OLTRE GAZA

Un esempio dei rapporti tra l’ala radicale islamica e i pirati può essere quanto
accaduto di recente nelle regioni meridionali della Somalia. L’espansione della pi-
rateria in queste aree – mentre in passato era concentrata al largo delle coste di
Merka e Brava – sembra aver toccato i picchi più alti nella zona del Mudug (Cen-
tro-Nord), con il significativo coinvolgimento di alcune personalità una volta al sol-
do delle Corti islamiche, ma di fatto da sempre vicine ai clan militarizzati Hawiye-
Habar Gidir (Ayr), come Hussein Weheliye Hirfo e Abdi Ahmed Dhuxulow. Essi
hanno sempre operato tra Brava e Merka, ma oggi sono costretti a ripiegare con i
loro uomini a Xarardheere (regione del Galguduud) e nel porto di Hobyo (regione
del Mudug), a causa dell’avanzata di al-Šabåb.
Le attività di pirateria si spostano altrove con l’avanzata del fronte radicale isla-
mico nelle città costiere a sud di Mogadiscio e in particolare dopo la conquista da
parte di al-Šabåb di città portuali come Merka, prima governata dal clan Habar Gi-
dir (Ayr), e dove lo stesso Yusuf Mohamed Siad «Indha’adde», uomo vicino a
Sheikh Hassan Dahir Aweys 10 ed ex responsabile della Difesa delle Corti islami-
che, giocava un ruolo fondamentale.

I nuovi interessi dei pirati


Nella notte tra l’11 e il 12 novembre scorso le milizie di al-Šabåb occupano
l’importante porto di Merka. La conquista della città è effettuata in modo quasi
pacifico. L’entrata di al-Šabåb nelle regioni agricole, e successivamente nella cit-
tadina costiera, costringe le milizie Habar Gidir (Ayr) di «Indha’adde» e quelle le-
gate a Hussein Hirfo e ad Abdi Ahmed Dhuxulow a una ritirata strategica verso
il Centro-Nord, nelle regioni del Mudug e del Galguduud. Le fazioni Habar Gidir
(Ayr) controllavano gran parte del Benadir dall’inizio degli anni Novanta, e la
loro presenza in quelle zone ha da sempre coinciso anche con un’intensa atti-
vità di pirateria. Con l’arrivo di al-Šabåb a Merka e con lo spostamento delle mi-
lizie Ayr nel Mudug, nel porto di Hobyo, anche tale fenomeno sembra essersi
spostato nella medesima direzione e così la crescita di rapimenti a scopo estor-
sivo. I principali protagonisti dei sequestri sembrano essere le stesse milizie cla-
niche Ayr.
L’attività di al-Šabåb non è solo in grado di determinare la geografia della pira-
teria. I suoi attacchi sempre più frequenti alle Ong e al personale della sfera uma-
nitaria, che ha costretto gran parte delle agenzie internazionali a sospendere le
proprie attività nel paese, sarebbero alla base di un pericoloso effetto domino. La
riduzione dei flussi di aiuti diretti alla Somalia, utili non solo alla popolazione loca-
10. Durante il periodo di governo delle Corti islamiche su Mogadiscio (giugno-dicembre 2006), la pi-
rateria nelle regioni costiere meridionali fu aspramente combattuta. Le Corti però non rappresentaro-
no mai un blocco monolitico, ma risultarono da sempre spaccate lungo due correnti, le quali faceva-
no capo rispettivamente a Sheikh Hassan Dahir Aweys, ex colonnello dell’esercito e presidente della
šûr, e Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, considerato dalla comunità internazionale – Stati Uniti in testa –
come l’anima moderata del movimento, ma con un background religioso decisamente più marcato. 175
CHI SONO I PIRATI DELLA SOMALIA

le per sopravvivere ma anche a molti warlords per arricchirsi e finanziare le loro


milizie, avrebbe portato all’intensificarsi della pirateria.
Secondo fonti somale legate alle Corti islamiche, il radicalizzarsi dell’azione di
al-Šabåb avrebbe due cause fondamentali. Primo, la scelta del Dipartimento di Sta-
to Usa, nel marzo del 2008, di inserire il gruppo tra le organizzazioni terroristiche.
Secondo, l’uccisione di un loro esponente di primo piano, Sheikh Adan Hashi Ay-
ro 11, durante un bombardamento americano il 1° maggio 2008. Ma la reazione Usa
all’imporsi di al-Šabåb non sarebbe l’unica motivazione alla base della recrude-
scenza dell’azione del movimento islamista. La decisione della comunità interna-
zionale di fornire, attraverso l’Undp (struttura Onu per lo sviluppo), supporto tec-
nico ed economico al governo federale di transizione, per mezzo del Somali Re-
construction and Development Programme (approvato nel gennaio 2008), è stata
percepita dal fronte islamico come una mancanza di imparzialità dell’Occidente
nei confronti degli attori armati somali. L’assenza di legittimità e di inclusività delle
istituzioni transitorie, infatti, ha finito col relegarle alla semplice posizione di «fazio-
ne» in un quadro ben più largo e intricato 12. Pertanto, sempre secondo fonti soma-
le, la scelta della comunità internazionale di sostenere un solo attore in campo,
senza apparentemente curarsi della sostanza politica del partner, ha contribuito ad
accentuare in molti gruppi armati, al-Šabåb in testa, la forte avversione verso gli at-
tori internazionali occidentali, così inasprendo il conflitto.
Nella crisi somala in passato vi sarebbero state anche operazioni sotto coper-
tura per combattere il fronte islamico, ma che avrebbero portato ad armare alcuni
signori della guerra. Nell’ambito delle trattative sulla liberazione di alcune navi at-
tualmente sequestrate vi sarebbe il coinvolgimento di una figura poco conosciuta
sulla scena globale, ma certamente più nota nell’ambito delle attività di intelligen-
ce Usa nel Mar Rosso e nel Corno d’Africa. Il suo nome è Michele Lynn Ballarin,
presidente della Select Armor Inc., un’agenzia di sicurezza privata con sede in Vir-
ginia che opera anche negli Emirati Arabi Uniti e in Iraq. Il coinvolgimento della
Ballarin nelle ultime vicende in Somalia non sembra casuale. I «servizi» della sua
azienda erano stati offerti già nel 2006 all’organizzazione conosciuta allora come
Alliance for the Restoration of Peace and Counter-Terrorism (Arpct), una coalizio-

11. Adan Hashi Ayro aveva assunto col tempo una posizione di rilievo all’interno dell’intero progetto
islamista. Il suo imporsi come leader militare della Corte di Ifka Halane (Mogadiscio ovest), nel marzo
del 2006, fu sostanzialmente il frutto del legame di origine che lo univa allo stesso Dahir Aweys. Al di
là dei timori statunitensi riguardo a un suo presunto, quanto inverosimile, passato nei campi di adde-
stramento di al-Qå‘ida in Afghanistan, la sua morte per mano degli americani sembra aver alterato sia
il rapporto tra gli al-Šabåb e le Corti, sia lo stesso atteggiamento del movimento nei confronti della co-
munità internazionale.
12. Il governo federale di transizione (Gft) è nato nel settembre del 2004 come risultato della tredice-
sima conferenza di pace per la Somalia, ospitata dal governo di Nairobi sotto gli auspici dell’Igad (In-
ter-Governmental Authority on Development). La carta transitoria allora approvata dava vita a un par-
lamento composto da 275 membri designati su base clanica, il quale riservava ai gruppi ritenuti nu-
mericamente predominanti (Darod, Hawiye, Dir e Digil Mirifle) una quota maggioritaria di seggi. Nel-
la vita delle istituzioni transitorie defezioni e passaggi di cariche hanno sempre costituito una costan-
te, e le dimissioni dell’ex colonnello Abdullahi Yusuf dalla carica di presidente, nello scorso dicem-
176 bre, hanno contribuito drammaticamente ad assottigliare la legittimità politica del Gft.
IL BUIO OLTRE GAZA

ne finanziata dalla Cia attraverso l’ambasciata Usa a Nairobi, che racchiudeva alcu-
ni tra i più pericolosi warlords della Somalia meridionale 13.
La successiva disfatta dell’alleanza, per mano delle milizie delle Corti islami-
che, aveva determinato anche un repentino passo indietro dell’amministrazione
Bush sull’uso della Cia in Somalia, dando di fatto più importanza al Dipartimento
di Stato che, nella persona del vicesegretario Jandaya Frazer, dopo l’invasione etio-
pica e la deposizione del governo delle Corti a Mogadiscio sperava in una ripresa
del dialogo politico e in una soluzione diplomatica alla crisi, da trovare prima del
termine del mandato delle istituzioni transitorie, fissato nel 2009.
La partita somala non si gioca solo all’interno del paese. Da tempo si è allarga-
ta all’intero scenario regionale. L’Etiopia e l’Eritrea, in particolare, oltre che diversi
paesi arabi come l’Arabia Saudita e il Kuwait, hanno finito col ritagliarsi un ruolo
determinante nella crisi, e possibili soluzioni non possono non tener conto anche
delle loro ambizioni geopolitiche. Ufficialmente, al pari dei partner occidentali, i
paesi arabi del Golfo sembrano pronti a dare risposte militari più che politiche alla
pirateria. Nonostante ciò, la posizione di alcuni attori, come Arabia Saudita, Kuwait
e Yemen, appare piuttosto sfuggente. Questi paesi infatti, vittime degli attacchi al
pari dell’Occidente, sono certamente meno restii a trattare con attori radicali come
al-Šabåb, proprio perché di fatto restano fuori dalle condizionalità imposte dalla
black list statunitense. Anche se stringono i loro rapporti preferenziali ancora oggi
con i businessmen somali, come Abukar Omar Addani e Abdulkadir Mohamed
«Eno», non si può escludere un futuro cambio di rotta. Infatti, nonostante al-Šabåb
sembri ricevere sostegno più dalla diaspora somala che da attori statali, la sua de-
terminazione a combattere la pirateria potrebbe costringere alcune reti filantropi-
che a un cambio di strategia. E ciò potrebbe cambiare radicalmente lo scenario.
La complessità del problema e la recrudescenza della pirateria hanno spinto
l’amministrazione Usa a proporre al Consiglio di Sicurezza una risoluzione che
potesse estendere al suolo somalo il mandato delle Marine impegnate nella lotta
alla pirateria. L’approvazione della risoluzione 1851 del 16 dicembre scorso si
muove pertanto in tal senso. Si potrà agire anche in territorio somalo, ma l’even-
tuale risposta dovrà ricevere il pieno consenso del governo transitorio – e soprat-
tutto, dovrà svilupparsi con un appropriato livello di intensità. La decisione è di
una certa rilevanza, se non altro per la presa di coscienza che il fenomeno non si
riduce solo alle acque somale, ma è in realtà il drammatico riflesso di ciò che ac-
cade in alcune regioni del paese. I dubbi però rimangono. Se vi sono tuttora mol-
te obiezioni all’eventualità di massicce campagne militari Usa sul terreno somalo,

13. Le attività dell’alleanza erano finanziate in gran parte dalla Cia nell’ambito del programma delle
«extraordinary renditions» e in accordo ai nuovi canoni della guerra al terrore del dopo-11 settembre.
Tra i signori della guerra presenti nell’organizzazione vi erano Mohamed Dheere, Mohamed Qanyare,
Musa Sudi Yalahow, Nuur Daqle, Abdi Hasan Awale Qeybdiid, Omar Muhamoud Finnish. Alcuni di
essi, come ad esempio Mohamed Dheere, ricoprivano anche cariche di prestigio all’interno delle stes-
se istituzioni transitorie. Cfr. Can the Somali Crisis Be Contained?, Africa Report n. 116, Nairobi, Au-
gust 2006, International Crisis Group; M. GUGLIELMO, «Rebus Somalia: tra politica e terrorismo», Limes
online, 15/5/2008. 177
CHI SONO I PIRATI DELLA SOMALIA

anche perché brucia ancora il fallimento della missione Restore Hope, siamo an-
cora lontani dalla tanto auspicata risoluzione Onu per l’eventuale dispiegamento
di una missione di pace. Lo stesso segretario generale Ban Ki-moon ha dichiarato
recentemente: «Non sussistono le condizioni necessarie, anche perché manca di
fatto una pace da mantenere».
Il pattugliamento marittimo ad Aden, pur indispensabile per garantire la li-
bertà dei traffici commerciali, e le sporadiche azioni di intervento a terra – già da
tempo svolte nell’ambito di Enduring Freedom – possono considerarsi operazioni
tampone rispetto alla pirateria somala. La si potrà ridimensionare, ma la soluzione
del problema passa comunque per il riaffermarsi della sovranità territoriale e sta-
tuale nel Corno d’Africa. Ci vorranno ancora molti anni.

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