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1 Cfr. A. Montanari, Le Notti di Bertòla, Storia inedita dei Canti in memoria di Papa Ganganelli,
Il Ponte, Rimini 1998, p. 43.
2 Di Galiani, nel 1774 Diderot cura la traduzione francese dei Dialoghi sul commercio dei
grani.
3 Del terzo «discorso» dirò infra.
4 Cfr. Sul fine ed utilità dell'Accademie, Livorno 1777, pp.17-18.
peripatetiche» ed i «sogni cartesiani». L’accenno acquista un particolare significato di
testimonianza diretta, se consideriamo che lui stesso, in una di queste «case», era
stato avviato a forza a soli quindici anni. A diciassette Bertòla aveva pronunciato i
voti da Olivetano, costretto dalla prepotenza del fratellastro, e senza che vi si potesse
opporre la madre che più tardi invano si sarebbe pentita del proprio agire. Egli quindi
conosceva bene gli ambienti che mette sotto accusa. Una frase tra parentesi (che
appare retoricamente importante, ma che in sostanza si rivela come pleonastica
conferma al suo discorso), dice: «la verità è dura, ma pur troppo incontrastabile» [pp.
7-8]. Segue un’aggiunta relativa al proprio Ordine: «Le Scuole della mia Congregazione
languivano nella stessa barbarie» [p. 8].
In nota a questo passaggio, Bertòla ricorda che a «riformare» le Scuole
olivetane provvidero poi un padre docente di Matematica, Ramiro Rampinelli
bresciano e l’abate don Luigi Stampa per il quale Bertòla due anni dopo, nel 1783,
scriverà un analogo Elogio (5), dal quale riprendo una breve citazione, pertinente
all’argomento. Luigi Stampa non si mostrò «in alcuna maniera nemico, come tanti
altri fanno, delle scienze profane che non professava»: egli anzi era «persuasissimo
della necessità indispensabile, che delle matematiche ha la Filosofia; e ben lontano dal
disprezzarle, le riguardò sempre, anche dalla Filosofia prescindendo, come la scienza
più atta a fortificar negli spiriti il prezioso e purtroppo raro abito della dimostrazione,
e come il miglior corso di logica, che alla gioventù possa darsi» [p. 10].
Ritorniamo a Giacinto Martinelli: avendo egli deciso di insegnare, «incominciò
a far parte altrui delle dottrine, che disgraziatamente avea dovuto venerare sulla
bocca dei suoi maestri. Non andò guari, però, che il suo buon senso naturale, la lettura
d’ottimi libri, e l’esempio di un qualche più ardito congiurato, il determinarono a
scuotere il giogo dei vecchi errori» [p. 9]. Martinelli stava appena «penetrando nei
profondi ripostigli della buona Filosofia», quando «venne indietro richiamato in vigore
di quel gotico pregiudizio delle Scuole, la cui distruzione darebbe luogo all’intero
sviluppo degl’ingegni, e risparmierebbe tante fatiche, che in recar vantaggio ad un
solo, caricano cento di danno, e di noja; di quel pregiudizio, il qual comanda, che il
tempo governi da tiranno il corso degli studj; quando questi esser debbono i dispotici
regolatori del tempo» [ibid.].
Sia in queste parole sia in quelle che leggiamo nel brano seguente, le notizie
relative a Martinelli esposte da Bertòla passano attraverso un filtro autobiografico,
sul quale si depositano preziosi frammenti di amara confessione: «Trovavasi egli
appunto nella gagliardia della esercitata sua mente, e in quell’età, in cui la nostra
ragione incomincia ahi! tardi ad essere più forte della nostra fantasia; in cui quasi
senza influsso della nostra volontà, fassi così grande riforma della nostra maniera
d’intendere e di sentire; e in cui siamo, generalmente parlando, più illuminati, ma non
più felici» [p. 10].
Con la sincerità ingenua di chi crede possibile confessare pubblicamente la
propria condizione di disagio quasi per farsi perdonare le molte colpe e licenze
compiute, Bertòla annuncia con sottile intendimento aspetti di una sensibilità diversa
rispetto a quella della generazione che l’ha preceduto. Avvertendo il lettore che, ad
una certa stagione della vita, siamo «più illuminati, ma non più felici», sembra
obbligarlo a chiedersi quale ruolo possa ancora essere riservato allo studio filosofico,
capace di aprire le menti, ma non di sanare le angosce dei cuori. Il contesto personale
così descritto assume un significato più generale, diventa simbolo di una condizione
umana, non soltanto destinata a ripetersi nelle singole esperienze individuali, ma
pure a proiettarsi vichianamente lungo l’arco della storia della società, quasi che per
gli intellettuali come Bertòla l’età della ragione sia una tappa ormai raggiunta e
9 Costoro hanno, nella storia di Rimini, un preciso ricordo perché vi scendono nell’autunno del
1766 su invito della Municipalità allo scopo di studiare la situazione del porto canale, al
centro di annose, animate (ed ormai celebri) dispute. Gerolamo Bianchi, nipote di
Giovanni Bianchi di cui dirò in seguito, li contatta per verificare se stavano dalla parte
dell’illustre zio, al quale il 30 ottobre di quell’anno scrive che nulla era riuscito ad
apprendere circa il loro «sentimento». Il successivo 25 novembre, aggiunge: «Del Parere
de P.P. Minimi sopra il nostro Porto v’è altissimo silenzio, onde nepur io sò cosa alcuna».
10 Cfr. BGR, segn. BQ 293-296.
11 Nel Bibliothecae Ariminensis Gambalonghiae Catalogus, SC-IC. 38, alla voce Newtonus,
Isaacus, è dedicato lo spazio per un solo titolo. All’esame odierno del ms. si rileva che alla
scritta originaria (non decifrabile), ne è stata sostituita un’altra che reca: Principia
Philosophiae, cioè il Philosophiæ Naturalis Principia Mathematica (BQ 293-296). A
questo titolo, successivamente ne sono stati aggiunti altri due, nell’interlinea del testo: il
Traité d’Optique e l’Abregé de la Chronologie (des ancies Royames…), su cui vedi alla
nota 19.
12 Cfr. La Biblioteca Civica Gambalunga. L’edificio, la storia, le raccolte, a cura di P. Meldini,
Rimini 2000, p. 32.
13 Cfr. A. Montanari, Il contino Garampi ed il chierico Galli alla «Libreria Gambalunga».
Documenti inediti, «Romagna arte e storia», n. 49/1997, p. 57.
14 A Bernardino succederà il figlio Epifanio che assieme ai due fratelli dottor Giovanni Battista
e canonico don Giulio Cesare, ha collaborato con il padre durante la di lui direzione: cfr.
fasc. 271 del Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, Bianchi Giovanni,
[FGMB]. Su Epifanio Brunelli, cfr. A. Montanari, Lettori di provincia nel Settecento
romagnolo. Giovanni Bianchi (Iano Planco) e la diffusione delle Novelle letterarie
fiorentine. Documenti inediti, «Studi Romagnoli 2000», di prossima pubblicazione.
15 Di quest’attività di Galli ho dato per primo notizia nel cit. Il contino Garampi.
16 Così si legge in uno scritto di Giovanni Bianchi, con parere favorevole a che il figlio prenda il
posto del padre alla Gambalunghiana: cfr. il cit. fasc. 271, FGMB.
17 Cfr. Montanari, Il contino Garampi, cit., p. 71.
18 Cfr. BGR, SC-MS. 1352, c. 137r.
19 Quest’ultimo titolo, ai nostri giorni, è in Gambalunghiana in due esemplari, uno dei quali
(segn. 7.F.V.27, provenienza: «Lascito Tonini»), reca sulla costa il titolo con grafia
inequivocabilmente attribuibile allo stesso Bianchi. L’Abregé, come indica il titolo stesso,
non è opera di Newton: si tratta di un testo di un autore inglese (tale Reid) che riassume
padre Martinelli, l’abate Étienne Bonnot de Condillac, è invece (significativamente)
assente nella biblioteca di Bianchi, mentre nella «Libreria» Gambalunghiana appare
soltanto verso la fine del secolo, con l’edizione romana del 1784 del Saggio sopra la
conoscenza (1746), contenente però il commento di un Canonico regolare
lateranense, Tommaso Vincenzo Falletti (segn. 13.D.IX.74-75). Anche nel successivo
Traité des sensations (1754), Condillac prosegue il discorso avviato da John Locke
con il Saggio sull'intelligenza umana. (Sull’importanza di Locke, accennerò qualcosa
tra breve.)
Giovanni Bianchi, conosciuto anche come Iano Planco (20), proprio a metà
degli anni Quaranta avvia a Rimini un progetto culturale secondo cui, alla
rifondazione dell’Accademia dei Lincei avvenuta nel ’45, doveva seguire (il che però
non accadde), l’impianto di una stamperia con iniziative editoriali sotto l’insegna
della Lince (21). Anche Bianchi, come Martinelli, vive in prima persona le difficoltà
che la diffusione delle novità filosofiche incontra presso gli ambienti ecclesiastici non
soltanto nel periodo di attività dell’Accademia dei Lincei (su cui tornerò tra breve),
ma pure in quello iniziale della sua formazione intellettuale, sul quale occorre
anzitutto soffermarsi.
Siamo nel primo decennio del 1700 (Planco, come s’è visto, è nato nel 1693): i
principali centri di cultura riminesi sono l’antico convento domenicano di San
Cataldo, la scuola dei Gesuiti, e l’Accademia ecclesiastica istituita dal bolognese
Giovanni Antonio Davìa, vescovo della città dal 1698 al 1726, nominato cardinale da
Clemente XI nel 1712.
Davìa nel 1722 avversa la diffusione del Saggio di Locke, con molto anticipo
sulla condanna romana del 1734, giudicando quel filosofo «cento volte più pericoloso
del Machiavelli» (22). La sua posizione ‘riminese’ contro Locke sembra preannunciare
32 Cfr. Lynceorum Restitutorum Codex, SC-MS. 1183, BGR, c. 2r. Il passo testuale è il se-
guente: «…ad eam autem rem nulla potior utiliorque reperitur exercitatio quam dili-
genter inquirere quid de re quaque doctissimi philosophi atque eruditissimi viri
senserint: quorum tamen placitis et naturæ ipsius investigatio, et propriæ meditationes
accedant, et sententiam collatio de rebus omnibus, et singulatim disserendi usus in eam
partem quæ verior sit». Cfr. Montanari, Modelli letterari, cit., p. 297. Il Codex è un
manoscritto, in cui le leggi, sotto la data del 19 novembre 1745, occupano le cc. 2/3r.
Seguono, bianche, le cc. 3/9v. Il testo riprende dalle cc. 10r a 21r, con la cronologia del
periodo 1749-1755. Quindi mancano in esso le notizie sul periodo 1745-48. Sul
contenuto del Codex, cfr. Masetti Zannini, Vicende accademiche, cit., p. 79, nota 47, dove
è un elenco dei fogli volanti che si trovano ad esso allegati.
33 «Academia Aristocratica esto».
34 L’atteggiamento del «dotto» appare anche nella prefazione di Bianchi alla ristampa (1744)
del Fitobasano di Fabio Colonna, così riassunta dalle Novelle letterarie, n. 34, 21 agosto
1744, col. 535: Planco «dice esser meglio ristampare i libri buoni antichi, che il
pubblicarne de’ nuovi di dottrina comune, i quali non fanno altro che ingombrare le
pubbliche, e le private Librerie, con perdita di tempo, e di danari per gli studiosi». Bianchi
iniziò a lavorare al progetto editoriale del Fitobasano nel 1739: cfr. Schede Gambetti
[SG], BGR, ad vocem, dove si cita il Rescritto Apostolico per avere e ritenere per sei mesi
le Opere di Fabio Colonna che sono in Biblioteca Gambalunga, per farle ristampare, 21
ottobre 1739.
35 Cfr. A. Fabi, Aurelio Bertola e le polemiche su Giovanni Bianchi, «Quaderni degli Studi
Romagnoli» n. 6, Faenza 1972, pp. 15-16.
36 Cfr. Giudizio libero, s. d. (Rimini 1776[?]), p. 1. Lo scritto è attribuito da Fabi (ibid., p. 16) a
Francesco Ferrari.
37 Si allude qui alle Notti Clementine del Bertòla, su cui cfr. il cit. Le Notti di Bertòla.
38 Cfr. A. M. Borgognini, Riflessioni… , Lucca 1776, p. 9.
scienziato riminese:
In fatti Giano fu Filosofo, ed osservò con giudizio la Natura, ma poi all’incontro, non
poté mai soggettare il suo fervido ingegno a ripetere più, e più volte gli esperimenti, poiché egli
amava per carattere la varietà, quindi ne nacque, che quelle cose, che potevano osservarsi con
sollecitudine erano dal Signor Bianchi esattamente vedute, ma dove poi face d’uopo per
rintracciare la verità una lunga serie d’esperienze, non era questo lavoro per lui, e ne
abbandonava l’impresa, o se pure voleva seguirla il facea con lentezza, ed il più delle volte con
infelice successo.
Bertòla non era stato educato alla scuola di Planco, ma da un allievo del
medico riminese, Francesco Maria Pasini che nel 1745 è accademico dei restaurati
Lincei (39) e poi vescovo di Todi (40). L’esperienza umana del poeta riminese, così
scandalosa e moralmente dissipata (come si diceva un tempo), c’insegna a non partire
dalle resultanze della vita degli allievi, per valutare l’attività pedagogica di un
maestro. La natura individuale, e le vicende delle singole persone sono elementi
troppo forti e complessi per ritenerli passibili di condizionamento durante
l’apprendistato educativo presso una qualsiasi scuola.
Se la condotta di Bertòla offre una solenne smentita a chi ritiene che un buon
ammaestramento possa fornire gli strumenti necessari ad una corretta navigazione
esistenziale; la vicenda storica più generale dimostra che qualsiasi muraglia si eriga
contro le idee nuove, non basta a fermarle ed a respingerle. Gli «accampamenti dei
Peripatetici» potevano esser ben fortificati e minacciosamente difesi, ma alla fine
erano destinati ad essere travolti dall’impeto che il rinnovamento della cultura
provocava in àmbito filosofico e scientifico. Di questo non erano ovviamente
consapevoli quanti, adoprandosi contro Epicuro o Newton, credevano di
salvaguardare la purezza del pensiero dalle contaminazioni antiche o moderne,
ricorrendo a censure o scomuniche.
Alla scuola domestica di Planco, a partire dal 1720, troviamo allievi illustri,
oltre al già citato Amaduzzi: basti ricordare Giovanni Vincenzo Ganganelli (papa
Clemente XIV, che soppresse la Compagnia di Gesù nel 1773), il futuro cardinal
Giuseppe Garampi, ed il naturalista Giovanni Antonio Battarra (1714-89). Gli allievi
(41) studiano come materia obbligatoria e comune Medicina, poi Logica, Geometria e
39 Il nucleo originario dei Lincei comprende dieci componenti, come ricaviamo da un articolo
apparso sulle Novelle letterarie, n. 53, 31 dicembre 1745, coll. 842-846. Oltre a Planco,
«Restitutor perpetuus», ci sono: Stefano Galli, «Scriba perpetuus»; Francesco Maria
Pasini, «Censor»; Giovanni Paolo Giovenardi, anch’egli «Censor»; Mattia Giovenardi,
Giovanni Antonio Battarra, il conte Giuseppe Garampi, Gregorio Barbette, Lorenzo
Antonio Santini e Giovanni Maria Cella.
40 Bertòla dalla natìa Rimini, a dieci anni, nel 1763, è collocato, per le scarse risorse
economiche della famiglia, nel seminario di Todi. Quando Pasini (1720-1773) diventa
vescovo di quella città, lo accoglie presso di sé, essendovi un rapporto di parentela tra
loro due. A quindici anni, Bertòla è mandato in monastero, a diciassette (come si è già
visto) pronuncia i voti da Olivetano. Sulla figura di Bertòla, cfr. A. Montanari, Biografia
di Aurelio De’ Giorgi Bertòla, «Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792»,
Firenze 2000, pp. 389-398; Id., La filosofia della voluttà, Aurelio Bertòla nelle lettere di
Elisabetta Mosconi, Rimini 1997; Id., Un «Diario» inedito di Aurelio Bertòla, «Quaderno di
Storia n. 1», Rimini 1994; Id., Bertòla redattore anonimo del Giornale Enciclopedico.
Documenti inediti, «Romagna, arte e storia», n. 50/97, pp. 127-130; Id., Aurelio Bertòla
politico, presunto rivoluzionario. Documenti inediti (1796-98), «Studi Romagnoli» XLVIII
(1997, ma 2000), pp. 549-585.
41 Nei citt. Recapiti del 1751, leggiamo alle pp. VI-VII: «Qui si dà un catalogo degli scolari, che
più si sono distinti, e che sono usciti dalla scuola fatta dal Bianchi in Rimino,
tralasciandosi di mentovare quegli scolari, ch’ebbe in Siena, e che si distinguono». Da tale
Lingua greca. «La nostra setta», chiama questa scuola uno di loro. Un altro parla di
«Bianchisti», con l’orgoglio di appartenere ad una comunità eletta, sul modello degli
antichi circoli filosofici. Da fuori, accusano la «scuola di Rimino», di segnare le proprie
pagine con «velenoso inchiostro» (42).
Preziosa testimonianza dell’attività didattica che vi si svolgeva, sono i sette
compiti, assegnati da Planco e svolti da Amaduzzi (43) nel periodo 1755-59 (la sua
frequenza durò per altri tre anni). Relativi alla Filosofia e alla Scienza, essi
propongono questi argomenti: l’impossibilità di difendere il sistema tolemaico; la
funzione della logica artificiale come propedeutica alle altre Scienze; la forza elettrica;
gli spiriti degli animali bruti; la sede nel cervello degli affetti dell’animo; i nervi
dell’udito; la digestione.
Se si confrontano i titoli di questi compiti assegnati da Planco, con gli ar-
gomenti affrontati negli stessi anni su periodici e libri scientifici, Bianchi si rivela più
come un vecchio umanista che un nuovo filosofo dell’età dei Lumi. Planco appare su
posizioni incerte ed arretrate. Costringere gli allievi a spiegare che il sistema
tolemaico non poteva essere difeso «nulla ratione», a oltre due secoli dall’opera di
Copernico, significava discutere di argomenti polverosi, mentre la Nuova Scienza
percorreva le strade d’Europa. Planco sembra riproporre ai suoi allievi gli stessi
argomenti da lui studiati quand’era giovane, prima a Rimini e poi a Bologna. Nella
terminologia usata in quei temi, ci sono talora ricordi cartesiani, come là dove si parla
di «spiriti animali» (si veda al proposito il cap. XVII del Discorso sul metodo). Altri
argomenti (sede degli affetti, digestione), vanno invece in direzione opposta, negando
le tesi di Descartes.
Amaduzzi, nel già ricordato terzo «discorso filosofico», Dell’indole della verità
e delle opinioni (p. 51), si ricorda dei difetti e dei limiti filosofici della scuola
planchiana, quando polemizza con l’antico maestro, quasi a volere insinuare che
Bianchi nulla avesse compreso delle teorie di Newton.
L’insegnamento di Planco venne considerato pericoloso non tanto per le
polemiche più o meno futili sul sistema tolemaico o per le discussioni sulla sede degli
affetti, bensì per l’importanza attribuita all’Anatomia, di cui Bianchi è docente
all’università di Siena dal 1741 al ’44.
Egli considera l’Anatomia «come il fondamento della Filosofia naturale,
siccome lo è per certo della Medicina e della Cirurgia», secondo quanto leggiamo in un
44 Cfr. il fasc. 218, FGMB: è il prologo ad una dissertazione anatomica di Bianchi riguardante il
celebre caso di Giambattista Pilastri, su cui cfr. pure: fascc. 203, 204, 206, FGMB; Codex,
cit., cc. 17v-18r; ed infine la Storia medica d’una postema nel lato destro del cerebello,
pubblicata nella Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici di A. Calogerà, tomo XLVI,
Venezia 1751, pp. 169-200.
45 Cfr. E. Brambilla, La medicina del Settecento: dal monopolio dogmatico alla professione
scientifica, in «Storia d’Italia. Annali 7. Malattia e medicina», Torino 1984, p. 12.
46 In SG, ad vocem, viene elencata la sua Istanza autografa a Benedetto XIV «per ottenere di
fare le sezioni di Cadaveri», nella quale «fu segnata la grazia con Rescritto dei 18 aprile
1745».
47 Ibid., p. 14.
48 Il testo ms. è in fasc. 185, FGMB. L’opera, nello stesso 1749, esce in due edizioni.
nell’uovo ab initio da Domineddio secondo la sentenza degli sviluppi; oppure che una
qualche virtù plastica abbia prodotte, e vada producendo queste parti di più, che si
trovano ne’ Mostri», che hanno un dito, un braccio, un piede o qualche altro membro o
viscere in più. Infine, nella terza specie, incontriamo quelli che nascono «ex morbo in
Animantibus».
Bianchi dimostra così che la perfezione dell’ordine naturale (fatto coincidere
dalla vecchia Filosofia con il presupposto metafisico-teologico capace di spiegare tutta
la realtà), è smentita dai fenomeni mostruosi. Alla regola si accompagna sempre
l’eccezione, tanto evidente da non potere essere negata per nessuna via. Questo
scritto, che documenta la già ricordata scelta eretica di Bianchi a favore della fisica di
Gassendi, fa convogliare sul medico riminese le prime avversioni romane, alle quali
non dovettero essere estranei gli ambienti ecclesiastici riminesi. La fretta con cui si
giungerà, tre anni dopo, nel 1752, alla sentenza dell’Indice per l’Arte comica, non può
spiegarsi soltanto in relazione al tema controverso in essa trattato, un tema allora
importante, tanto da essere al centro di durissime polemiche.
La sera dell’11 febbraio 1752, ultimo venerdì di Carnovale, la cantatrice
romana Antonia Cavallucci si esibisce nella casa di Bianchi, prima che questi reciti
una dissertazione lincea In lode dell’Arte comica. A causa dello spettacolo, la
Cavallucci è costretta ad andarsene in tutta fretta da Rimini, mentre in città nasce un
pubblico scandalo contro Planco. Il vescovo Alessandro Guiccioli lo denuncia a Roma,
da dove un corrispondente di Bianchi, Giuseppe Giovanardi Bufferli, gli comunica che
in quella città, contro di lui, si erano fatte «illustrissime e reverendissime insolenze»
(49).
L’Arte comica è stampata nel marzo dello stesso 1752 a Venezia. Il padre
domenicano Daniele Concina aggiunge in tutta fretta al De spectaculis theatralibus, in
fase di stampa, un’isterica pagina contro Bianchi: lo accusa di aver scritto da pazzo
quel discorso; e bolla come leziosa puttanella («putidula meretricula») Antonia
Cavallucci, al pari di tutte le sue colleghe, capaci soltanto di rovinare le famiglie
nobili, irretendo i loro giovani rampolli, i quali sperperano per tali donnacce il
patrimonio economico, la salute del corpo e quella dell’anima (50). La campagna di
diffamazione promossa dal vescovo di Rimini contro Bianchi, coinvolge pure la
Cavallucci, perseguitata prima a Bologna e poi a Ravenna, dove si trasferisce all’inizio
di maggio, e la fa precipitare nella miseria più umiliante.
Il discorso di Carnovale gira in fretta l’Italia, fino a che approda a Roma, alla
Sacra Congregazione dell’Indice dei libri proibiti. Nella sua dissertazione, Planco
s’avventura in un terreno pericoloso. Con elegante sottigliezza rimette in discussione
il trattamento riservato dalla Chiesa agli «istrioni», che in Francia erano ancora
privati dalle leggi canoniche «fino de’ Sagramenti, e dell’Ecclesiastica Sepoltura». E
cita san Tommaso, il quale ritiene che «l’Officio dell’Arte degli istrioni […] è ordinato
per sollevar l’animo degli uomini, e che coloro che l’esercitano dentro de’ debiti modi,
non sono mai in istato alcuno di peccato; e che a loro si conviene una giusta mercede
per le loro fatiche». Bianchi si domanda: se la Chiesa permette la lettura delle
commedie di Plauto e Terenzio, non si dovrebbe permettere anche la loro
rappresentazione? Perché debbono essere considerati «infami» quei comici che «le
rappresentano venalmente», mentre «diventano onesti quei che le rappresentano
gratis»? Da queste idee nasce il vero scandalo che avvolge la radunanza accademica di
Carnovale, non dall’esibizione di Antonia Cavallucci. Sostenendo retoricamente la
49 Cfr. lettera del primo marzo 1752, FGLB, ad vocem. A Roma, Giuseppe Giovanardi Bufferli
svolge talora anche la funzione di procuratore della città di Rimini, per affari da gestire
nelle magistrature pontificie.
50 Cfr. D. Concina, De spectaculis theatralibus, Roma 1752, pp. 207-211.
nobiltà dell’arte comica, Bianchi finisce per proclamare in modo non troppo sottinteso
il bisogno di libertà per la cultura in genere, e non soltanto per commedianti od
attricette in particolare. E’ quella stessa libertà che faceva paura a padre Concina, il
quale immaginava che il discorso planchiano potesse essere golosamente divorato da
giovanetti e damigelle, portandoli così sulla strada della perdizione.
I fulmini dell’Indice si abbattono su Bianchi il 4 luglio 1752. La procedura
seguìta non è quella regolare. Si è fatto tutto in fretta. Comunque la condanna
all’Indice non ha conseguenze nella successiva carriera pubblica di Bianchi, se nel
1755 egli è nominato Consultore dell’Inquisizione e Medico del Sant’Uffizio, prima di
diventare nel 1769 «Archiatro Segreto Onorario», per volere di papa Ganganelli,
Clemente XIV. (Nella stessa carica di Archiatro lo conferma Pio VI.)
Planco muore il 3 dicembre 1775. Il vescovo della città, Francesco Castellini,
vuole ostacolare la pubblicazione dell’Orazion funerale (scritta, come abbiamo visto,
da Giovanni Paolo Giovenardi), che Bianchi aveva richiesto nel testamento. Delle
difficoltà incontrate parla lo stesso Giovenardi in due lettere inedite al nipote di
Planco, Girolamo Bianchi, medico dell’ospedale di Rimini: in caso di edizione del testo,
era minacciata allo stesso Girolamo Bianchi «la privazione dell’Ospitale dal vescovo»,
come si vociferava autorevolmente (51). Giovenardi poi suggeriva a Girolamo Bianchi
di restare estraneo alla distribuzione dell’opuscolo, «per isfuggire qualunque odiosa
taccia di parzialità, e mettersi al coperto da qualunque vendetta trasversale, alla
quale potesse pensare il vescovo contro» di lui (52).
Pure dopo la sua morte, Planco faceva ancora paura per le idee scientifiche
che aveva professato, anche se era stato sepolto nella chiesa di Sant’Agostino.