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Antonio Montanari

Nei «ripostigli della buona Filosofia»


Nuovo pensiero scientifico e censure ecclesiastiche
nella Rimini del sec. XVIII

© by Antonio Montanari, Rimini (Italy), 2009

L’immagine è ripresa da www.kosmofysis.com.


Nel 1781 il riminese Aurelio De’ Giorgi Bertòla (1753-98) pubblica l’Elogio di
Don Giacinto Martinelli, un padre olivetano suo concittadino scomparso l’anno
precedente. Lo scritto esce a Napoli, dove dal 1776 Bertòla insegna Storia e Geografia
all’Accademia navale. Attraverso la celebrazione dello scomparso, l’autore
ricostruisce le difficoltà incontrate dal nuovo pensiero scientifico nella sua diffusione
in Italia.
Bertòla si trova in una particolare condizione psicologica ed intellettuale: già
nel 1779, anno in cui licenziava alle stampe le Poesie campestri e marittime, ha
confidato al filosofo ed abate Giovanni Cristofano Amaduzzi (1740-92): «Oggi sono in
uno stato, che mi nuoce esser poeta» (1). Bertòla a Napoli scopre che dagli hommes de
plume si richiede un impegno diverso rispetto al semplice produrre versi encomiastici
o d’amore: alla sua generazione appartiene Gaetano Filangieri che a partire dal 1780
pubblica la Scienza della legislazione, mentre il filosofo «civile» Antonio Genovesi ed il
teorico di Economia politica Ferdinando Galiani hanno già affrontato, con
l’insegnamento e mediante gli scritti, i temi esaminati in parallelo dalla grande
cultura che si stava sviluppando in Europa (2).
Di Amaduzzi, un savignanese trapiantato a Roma, Bertòla conosce
certamente i due primi «discorsi filosofici» (3), Sul fine ed utilità dell'Accademie
(1777) e La Filosofia alleata della Religione (1778), in cui si affermano i diritti che il
pensiero ha d’«interrogare la natura per via delle esperienze, e delle osservazioni» (4),
senza scontrarsi con i presupposti della Fede, anzi rafforzandoli e depurandoli dalle
false credenze.
L’Elogio di padre Martinelli è dedicato a monsignor Giuseppe Garampi (1725-
92), «Nunzio Apostolico all’Imperiale Corte di Vienna», presso il quale due anni dopo
Bertòla si rifugia, ottenendone una protezione che gli procura l’insegnamento di
Storia all’ateneo di Pavia. Ed è proprio qui che, nel corso delle sue lezioni, Bertòla
cerca di affinare nuovi strumenti metodologici, elaborando un testo innovativo nei
presupposti e nel titolo, La Filosofia della Storia (1787), ma dall’architettura contorta
e dallo stile infelice, tutto opposto a quello consueto che troviamo negli altri suoi
scritti.
Nell’Elogio Bertòla proietta l’ansia di conoscenza che caratterizza la sua
esperienza personale, e che lo porta a segnalare con particolare attenzione gli ostacoli
frapposti allo studio degli autori nei quali si annunciavano idee contrarie alle
«ciarlatanerie peripatetiche» ed ai «sogni cartesiani» [p. 7].
Queste espressioni usate da Bertòla in un passo dell’Elogio, richiamano in
maniera diretta il discorso amaduzziano sulle Accademie, dove leggiamo:
«All’apparire sul ricco Tamigi del gran Newton […] veggio sparire, non che le larve
aristoteliche, gli stessi sognati turbiglioni di Cartesio» [pp. 19-20]. Il nome di Newton
appare nel testo di Bertòla quando ricorda che la formazione giovanile di Giacinto
Martinelli era avvenuta anche attraverso le letture filosofiche, con il suo «trattenersi
con Condillac, e con Newton».
Ciò premesso, Bertòla denuncia quindi lo stato di arretratezza della «più parte
delle case religiose d’Italia», dove avevano il «migliore asilo» le «ciarlatanerie

1 Cfr. A. Montanari, Le Notti di Bertòla, Storia inedita dei Canti in memoria di Papa Ganganelli,
Il Ponte, Rimini 1998, p. 43.
2 Di Galiani, nel 1774 Diderot cura la traduzione francese dei Dialoghi sul commercio dei
grani.
3 Del terzo «discorso» dirò infra.
4 Cfr. Sul fine ed utilità dell'Accademie, Livorno 1777, pp.17-18.
peripatetiche» ed i «sogni cartesiani». L’accenno acquista un particolare significato di
testimonianza diretta, se consideriamo che lui stesso, in una di queste «case», era
stato avviato a forza a soli quindici anni. A diciassette Bertòla aveva pronunciato i
voti da Olivetano, costretto dalla prepotenza del fratellastro, e senza che vi si potesse
opporre la madre che più tardi invano si sarebbe pentita del proprio agire. Egli quindi
conosceva bene gli ambienti che mette sotto accusa. Una frase tra parentesi (che
appare retoricamente importante, ma che in sostanza si rivela come pleonastica
conferma al suo discorso), dice: «la verità è dura, ma pur troppo incontrastabile» [pp.
7-8]. Segue un’aggiunta relativa al proprio Ordine: «Le Scuole della mia Congregazione
languivano nella stessa barbarie» [p. 8].
In nota a questo passaggio, Bertòla ricorda che a «riformare» le Scuole
olivetane provvidero poi un padre docente di Matematica, Ramiro Rampinelli
bresciano e l’abate don Luigi Stampa per il quale Bertòla due anni dopo, nel 1783,
scriverà un analogo Elogio (5), dal quale riprendo una breve citazione, pertinente
all’argomento. Luigi Stampa non si mostrò «in alcuna maniera nemico, come tanti
altri fanno, delle scienze profane che non professava»: egli anzi era «persuasissimo
della necessità indispensabile, che delle matematiche ha la Filosofia; e ben lontano dal
disprezzarle, le riguardò sempre, anche dalla Filosofia prescindendo, come la scienza
più atta a fortificar negli spiriti il prezioso e purtroppo raro abito della dimostrazione,
e come il miglior corso di logica, che alla gioventù possa darsi» [p. 10].
Ritorniamo a Giacinto Martinelli: avendo egli deciso di insegnare, «incominciò
a far parte altrui delle dottrine, che disgraziatamente avea dovuto venerare sulla
bocca dei suoi maestri. Non andò guari, però, che il suo buon senso naturale, la lettura
d’ottimi libri, e l’esempio di un qualche più ardito congiurato, il determinarono a
scuotere il giogo dei vecchi errori» [p. 9]. Martinelli stava appena «penetrando nei
profondi ripostigli della buona Filosofia», quando «venne indietro richiamato in vigore
di quel gotico pregiudizio delle Scuole, la cui distruzione darebbe luogo all’intero
sviluppo degl’ingegni, e risparmierebbe tante fatiche, che in recar vantaggio ad un
solo, caricano cento di danno, e di noja; di quel pregiudizio, il qual comanda, che il
tempo governi da tiranno il corso degli studj; quando questi esser debbono i dispotici
regolatori del tempo» [ibid.].
Sia in queste parole sia in quelle che leggiamo nel brano seguente, le notizie
relative a Martinelli esposte da Bertòla passano attraverso un filtro autobiografico,
sul quale si depositano preziosi frammenti di amara confessione: «Trovavasi egli
appunto nella gagliardia della esercitata sua mente, e in quell’età, in cui la nostra
ragione incomincia ahi! tardi ad essere più forte della nostra fantasia; in cui quasi
senza influsso della nostra volontà, fassi così grande riforma della nostra maniera
d’intendere e di sentire; e in cui siamo, generalmente parlando, più illuminati, ma non
più felici» [p. 10].
Con la sincerità ingenua di chi crede possibile confessare pubblicamente la
propria condizione di disagio quasi per farsi perdonare le molte colpe e licenze
compiute, Bertòla annuncia con sottile intendimento aspetti di una sensibilità diversa
rispetto a quella della generazione che l’ha preceduto. Avvertendo il lettore che, ad
una certa stagione della vita, siamo «più illuminati, ma non più felici», sembra
obbligarlo a chiedersi quale ruolo possa ancora essere riservato allo studio filosofico,
capace di aprire le menti, ma non di sanare le angosce dei cuori. Il contesto personale
così descritto assume un significato più generale, diventa simbolo di una condizione
umana, non soltanto destinata a ripetersi nelle singole esperienze individuali, ma
pure a proiettarsi vichianamente lungo l’arco della storia della società, quasi che per
gli intellettuali come Bertòla l’età della ragione sia una tappa ormai raggiunta e

5 Cito dalla seconda ed. apparsa a Bologna nello stesso 1783.


superata, con la denuncia di quei limiti (da non intendersi kantianamente) che
impediscono il raggiungimento di un traguardo il quale sfugge continuamente
all’uomo, il traguardo della felicità: la quale non consiste nel conoscere, perché il
filosofo soffre a causa del suo stesso sapere, avvertendolo come inadeguato strumento
od inutile conquista.
Per drammatica consapevolezza del vivere, il Bertòla che guarda ai percorsi
fino a lui compiuti dalle menti ‘illuminate’, non può ignorare che alla ragione
trionfante sugli inquieti appelli della fantasia, non può attribuirsi nessuna palma di
vittoria, perché dal punto di vista della fenomenologia esistenziale essa comporta una
sconfitta di quella volontà in cui illusoriamente si confida, credendo di poter con essa
dirigere la propria vita. Agli entusiasmi dei filosofi, Bertòla oppone una disincantata
concezione psicologica in cui sembra compendiarsi quella sensibilità diversa di cui
dicevo, testimoniata dai mutamenti teoretici che avvengono in lui e dagli esiti poetici
come quelli della canzone La malinconia, che presenta, come è stato scritto, «tutta una
serie di implicanze leopardiane» (6).
Risalendo da queste «implicanze» alla loro genesi, si scopre l’innovativo
connubio che l’analisi filosofica e l’espressione letteraria operano nel riminese,
anticipando temi e prospettive che l’autore dei Canti sviluppa nella generazione
successiva (il destino volle che Giacomo Leopardi nascesse il 29 giugno 1798, il
giorno prima della morte di Aurelio Bertòla), con ovviamente un diverso bagaglio di
idee e con una del tutto inedita consapevolezza del legame che unisce la poesia alla
riflessione in prosa che ne anticipa proposte e risposte.
Sul piano teoretico, l’itinerario di Bertòla modifica lentamente le certezze
classificatorie che impregnano tutta la Filosofia della Storia, ed a cui subentrano le
domande sempre più aperte ad una soluzione problematica, cioè improntata alla
consapevolezza che non esiste alcun determinismo nelle vicende umane, per le quali
non valgono quei rapporti di causa ed effetto che invece dominano le questioni
naturali.
Nell’ultimo articolo che Bertòla compone per le Letture istruttive per il popolo
dell’Emilia, e che doveva apparire (7) nel numero del 30 giugno 1798, giorno della sua
morte, egli infatti scrive: non è «vano osservare» come «dagli stessi principj» possano
«derivare talvolta conseguenze differentissime; come queste stesse conseguenze
finanche sembrino non di rado essere una cagione; come degli avvenimenti contrarj
sieno l’effetto degli stessi assiomi; come s’incontrino da per tutto eccezioni, riserve,
modificazioni; e come la verità sembri voler più fuggire chi più qui l’insegue».
Nell’Elogio dell’olivetano riminese, Bertòla scrive anche [p. 9] che non fu «così
duro colpo al Martinelli il distaccarsi dalle filosofiche applicazioni», e di avviarsi per
volontà dei Superiori allo Studio milanese di Teologia. Siamo nel 1740, Martinelli non
ha ancora compiuto trent’anni (8). La precisazione cronologica colloca il dibattito
filosofico e scientifico in un preciso momento, quando ad esempio a Ginevra esce in
quattro tomi l’opera di Isaac Newton, Philosophiæ Naturalis Principia Mathematica,

6 Cfr. la nota di G. Savoca in G. Leopardi, Crestomazia italiana, La poesia, Einaudi, Torino


1968, p. 582. Lo stesso Savoca nell’introduzione (pp. XXVI-XXVII), ricorda un debito
leopardiano verso il Bertòla a proposito di un pensiero del 15 aprile 1828; e scrive che
per il poeta di Recanati i volumi del riminese furono «diletti».
7 Il ms. è in Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, ad vocem.
8 Giacinto Martinelli era nato il 30 marzo 1711. Cfr. p. G. F. Fiori, Introduzione a Giacinto
Martinelli, Memorie del Monastero Olivetano di S. Maria Annunciata Nuova di Scolca,
Ferrara 1986, pp. 3-5. L’originale di queste Memorie del p. Martinelli è in Biblioteca
Gambalunghiana di Rimini [BGR], SC-MS. 1172. Nel 1755 il p. Martinelli è nominato
abate a San Benedetto di Roncofreddo, e nel ’58 a Santa Maria di Scolca, a Rimini.
con commento dei padri Minimi Tommaso Le Seur e Francesco Jacquier (9).
Questo volume è attestato nella Gambalunghiana di Rimini (10) sin dalla
seconda metà del sec. XVIII, come documenta il catalogo (11) attribuito a Bernardino
Brunelli (12), bibliotecario dal 1748 al 1767. Probabilmente l’opera di Newton vi è
entrata quasi subito dopo la sua pubblicazione, nel periodo in cui in Gambalunghiana
lavoravano il contino Giuseppe Garampi ed il chierico Stefano Galli, come ho
documentato su questa rivista: proprio Galli nel 1744 fu incaricato dal direttore della
pubblica «Libreria», conte Lodovico Bianchelli, di aggiornarne la dotazione «con i più
importanti titoli usciti nel corso dell’ultimo mezzo secolo» (13). A Bianchelli subentra
Bernardino Brunelli (14), dopo una brevissima parentesi di Stefano Galli come
«custode principale per modo di provisione» (15). Anche Bernardino Brunelli fa
provviste di volumi all’estero, «specialmente dalla Germania, e dall’Olanda» (16).
Quindi l’ingresso dell’opera di Newton potrebbe essere pure avvenuta durante la sua
gestione gambalunghiana (17).
Il nome di Newton ricorre anche in un’altra importante biblioteca riminese del
XVIII secolo, quella privata (18) del medico e scienziato Giovanni Bianchi (1693-
1775), dove troviamo l’Arithmetica universalis in un’edizione tedesca del 1732; la
Chronologie des anciens royames, Parigi 1727; e l’Abregé de la Chronologie des
anciens royames (19), Ginevra 1743. L’altro autore ricordato da Bertòla nell’Elogio di

9 Costoro hanno, nella storia di Rimini, un preciso ricordo perché vi scendono nell’autunno del
1766 su invito della Municipalità allo scopo di studiare la situazione del porto canale, al
centro di annose, animate (ed ormai celebri) dispute. Gerolamo Bianchi, nipote di
Giovanni Bianchi di cui dirò in seguito, li contatta per verificare se stavano dalla parte
dell’illustre zio, al quale il 30 ottobre di quell’anno scrive che nulla era riuscito ad
apprendere circa il loro «sentimento». Il successivo 25 novembre, aggiunge: «Del Parere
de P.P. Minimi sopra il nostro Porto v’è altissimo silenzio, onde nepur io sò cosa alcuna».
10 Cfr. BGR, segn. BQ 293-296.
11 Nel Bibliothecae Ariminensis Gambalonghiae Catalogus, SC-IC. 38, alla voce Newtonus,
Isaacus, è dedicato lo spazio per un solo titolo. All’esame odierno del ms. si rileva che alla
scritta originaria (non decifrabile), ne è stata sostituita un’altra che reca: Principia
Philosophiae, cioè il Philosophiæ Naturalis Principia Mathematica (BQ 293-296). A
questo titolo, successivamente ne sono stati aggiunti altri due, nell’interlinea del testo: il
Traité d’Optique e l’Abregé de la Chronologie (des ancies Royames…), su cui vedi alla
nota 19.
12 Cfr. La Biblioteca Civica Gambalunga. L’edificio, la storia, le raccolte, a cura di P. Meldini,
Rimini 2000, p. 32.
13 Cfr. A. Montanari, Il contino Garampi ed il chierico Galli alla «Libreria Gambalunga».
Documenti inediti, «Romagna arte e storia», n. 49/1997, p. 57.
14 A Bernardino succederà il figlio Epifanio che assieme ai due fratelli dottor Giovanni Battista
e canonico don Giulio Cesare, ha collaborato con il padre durante la di lui direzione: cfr.
fasc. 271 del Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, Bianchi Giovanni,
[FGMB]. Su Epifanio Brunelli, cfr. A. Montanari, Lettori di provincia nel Settecento
romagnolo. Giovanni Bianchi (Iano Planco) e la diffusione delle Novelle letterarie
fiorentine. Documenti inediti, «Studi Romagnoli 2000», di prossima pubblicazione.
15 Di quest’attività di Galli ho dato per primo notizia nel cit. Il contino Garampi.
16 Così si legge in uno scritto di Giovanni Bianchi, con parere favorevole a che il figlio prenda il
posto del padre alla Gambalunghiana: cfr. il cit. fasc. 271, FGMB.
17 Cfr. Montanari, Il contino Garampi, cit., p. 71.
18 Cfr. BGR, SC-MS. 1352, c. 137r.
19 Quest’ultimo titolo, ai nostri giorni, è in Gambalunghiana in due esemplari, uno dei quali
(segn. 7.F.V.27, provenienza: «Lascito Tonini»), reca sulla costa il titolo con grafia
inequivocabilmente attribuibile allo stesso Bianchi. L’Abregé, come indica il titolo stesso,
non è opera di Newton: si tratta di un testo di un autore inglese (tale Reid) che riassume
padre Martinelli, l’abate Étienne Bonnot de Condillac, è invece (significativamente)
assente nella biblioteca di Bianchi, mentre nella «Libreria» Gambalunghiana appare
soltanto verso la fine del secolo, con l’edizione romana del 1784 del Saggio sopra la
conoscenza (1746), contenente però il commento di un Canonico regolare
lateranense, Tommaso Vincenzo Falletti (segn. 13.D.IX.74-75). Anche nel successivo
Traité des sensations (1754), Condillac prosegue il discorso avviato da John Locke
con il Saggio sull'intelligenza umana. (Sull’importanza di Locke, accennerò qualcosa
tra breve.)
Giovanni Bianchi, conosciuto anche come Iano Planco (20), proprio a metà
degli anni Quaranta avvia a Rimini un progetto culturale secondo cui, alla
rifondazione dell’Accademia dei Lincei avvenuta nel ’45, doveva seguire (il che però
non accadde), l’impianto di una stamperia con iniziative editoriali sotto l’insegna
della Lince (21). Anche Bianchi, come Martinelli, vive in prima persona le difficoltà
che la diffusione delle novità filosofiche incontra presso gli ambienti ecclesiastici non
soltanto nel periodo di attività dell’Accademia dei Lincei (su cui tornerò tra breve),
ma pure in quello iniziale della sua formazione intellettuale, sul quale occorre
anzitutto soffermarsi.
Siamo nel primo decennio del 1700 (Planco, come s’è visto, è nato nel 1693): i
principali centri di cultura riminesi sono l’antico convento domenicano di San
Cataldo, la scuola dei Gesuiti, e l’Accademia ecclesiastica istituita dal bolognese
Giovanni Antonio Davìa, vescovo della città dal 1698 al 1726, nominato cardinale da
Clemente XI nel 1712.
Davìa nel 1722 avversa la diffusione del Saggio di Locke, con molto anticipo
sulla condanna romana del 1734, giudicando quel filosofo «cento volte più pericoloso
del Machiavelli» (22). La sua posizione ‘riminese’ contro Locke sembra preannunciare

la Chronologie des anciens royames, e che è tradotto da Antoine Butini, studente di


Medicina, il quale dedica il suo lavoro a «Monsieur Tronchin, celebre Docteur en
Médicine à Amsterdam». E’ noto che la professione di Bianchi era quella di medico.
20 Su G. Bianchi, cfr. A. Montanari, Modelli letterari dell’autobiografia latina di Giovanni
Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), «Studi Romagnoli» XLV (1994, ma 1997), pp. 277-
299; Id., La Spetiaria del Sole, Iano Planco giovane tra debiti e buffonerie, Raffaelli,
Rimini 1994; Id., Giovanni Bianchi (Iano Planco) studente di Medicina a Bologna (1717-
19) in un epistolario inedito, «Studi Romagnoli» XLVI (1995, ma 1998), pp. 379-394; Id.,
Due maestri riminesi al Seminario di Bertinoro. Lettere inedite (1745-51) a Giovanni
Bianchi (Iano Planco), «Studi Romagnoli» XLVII (1996, ma 1999), pp. 195-208. Cfr. pure
Id., «Lamore al studio et anco il timor di Dio», Precetti pedagogici di Francesco Bontadini
commesso della «Spetiaria del Sole» per Iano Planco, suo padrone, «Quaderno di Storia n.
2», Rimini 1995; Id., Tra erudizione e nuova scienza. I Lincei riminesi di Giovanni
Bianchi (1745), Convegno sulle Accademie romagnole, Studi Romagnoli, Forlì 2000, di
prossima pubblicazione.
21 Cfr. Montanari, Tra erudizione e nuova scienza, cit.; e G. L. Masetti Zannini, Carta e stampa
nel Settecento, «Bollettino dell’Istituto di Patologia del Libro «Alfonso Gallo»», XXXI,
1972, fascc. I-IV, passim.
22 Da una lettera di monsignor Davìa ad Eustachio Manfredi del 17 dicembre 1722, in A.
Rotondò, La censura ecclesiastica e la cultura, in «Storia d'Italia», V, II, p. 1486-1488. Da
tale lettera merita di essere ripreso il passo conclusivo, in cui Davìa si scusa di essersi
«un po’ diffuso sul libro» di Locke, «per averlo letto e perché mi è sembrato averne
trionfato allorché l’ho tolto dalla mente e dalla mano del mio Leprotti, ch’ella ben sa non
essere ignorante nelle materie particolarmente dove gioca la mente». Oltre che a
riportarci direttamente all’ambiente riminese, il documento ci obbliga ad aggiungere che
il «rigorissimo piglio censorio» del Davìa (di cui parla Rotondò), è presente pure nelle sue
funzioni alla Congregazione dell’Indice, come risulta dal caso di mons. Celestino Galiani,
in cui Davìa torna a discutere del pericolo costituito da Locke: allargando l’orizzonte
tematico, è utile ai nostri fini rammentare che Galiani fu definito, oltre che lettore di
profeticamente l’incarico che in anni successivi lo porterà a presiedere la
Congregazione dell’Indice (23). Un sostenitore del pensiero di Locke è invece l’abate
Amaduzzi che vi si riallaccia nel terzo ed ultimo dei suoi «discorsi filosofici», intitolato
Dell'indole della verità e delle opinioni, 1786. Protagonista non sempre riconosciuto
della scena religiosa e culturale della fine del secolo XVIII, per il ruolo svolto tra i
cosiddetti giansenisti italiani, Amaduzzi con questi «discorsi filosofici» si fa portavoce
delle istanze del nuovo pensiero scientifico, incontrando pericolose opposizioni, e
subendo violenti attacchi da cui lo salva il suo essere romagnolo come il pontefice di
allora, il cesenate Pio VI.
Nel primo decennio del 1700, sia presso i Domenicani sia presso i Gesuiti, lo
studio della Filosofia è improntato ai canoni dell’aristotelismo. Un biografo di Planco,
il suo allievo don Giovanni Paolo Giovenardi, descrive nell’Orazion Funerale in lode
del proprio maestro, il clima esistente nelle «Peripatetiche Scuole» agli inizi del secolo:
in esse non altro si ritrovava «che dottrine assai volgari, termini barbari, e minutezze
ridicolose, ed atte piuttosto ad accrescere, che a dissipare la caligine dell'ignoranza,
ed a confondere, che ad illuminare le menti, e a nausearle piuttosto che ad invogliarle
ad amar la Sapienza». Giovenardi definisce quelle dottrine non soltanto volgari, ma
anche «inutili».
Da esse rifugge Planco per avviarsi allo studio della «buona Filosofia» e degli
autori che apparivano (dice Giovenardi), quali «principali Liberatori, e distruttori del
grave giogo dell'Arabica, e della galenica barbarie» (24). Siamo esattamente nel 1711.
Planco ha diciotto anni. Sette anni prima, ha abbandonato le «Lojolitiche scuole» per
non perder tempo nel seguire il normale corso degli studi nella lingua latina, che per
lui (enfant prodige), era troppo lento. Si è così messo a studiar greco, «senz'altra guida
che quella di se stesso» (25).
Dall’aristotelismo si distacca nettamente invece l’insegnamento impartito da
mons. Antonio Leprotti, medico personale di Giovanni Antonio Davìa, e docente di
Filosofia al Seminario riminese: in quanto tale, Leprotti fa parte di quell’Accademia
vescovile cittadina, della quale Planco diventa segretario. E’ Leprotti (che sarà poi
anche archiatro pontificio), a convincere Planco a frequentare la facoltà di «Medicina
e Filosofia».
L’ostilità della gerarchia ecclesiastica verso il nuovo pensiero scientifico è
ricordata da Planco nell’autobiografia latina (26), quando scrive che ad un padre dei

Locke, anche giansenista, eretico ed ateo, con una significativa intercambiabilità di


termini per delineare l’unico concetto di seguace della nuova Filosofia. Sulla fortuna di
Locke nel 1700 e la diffusione del suo pensiero da parte di G. C. Amaduzzi, cfr. A.
Montanari, Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano, in «Il carteggio tra
Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792», a cura di L. Morelli, Firenze 2000, pp. XXVIII-
XL. Mons. Celestino Galiani conobbe Bianchi e fu in corrispondenza con lui (cfr. ad
vocem «Galiano», FGLB). Sul ruolo di Amaduzzi a Roma e nella cultura romagnola, cfr. le
pregevoli pp. di C. Casanova, Note sulla cultura a Ravenna nel Settecento, «Atti della
Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna», LXVII, Bologna 1979, pp. 11-15
dell’estratto [Bib. Classense, Ravenna, Rav. Busta 5, 1].
23 Cfr. la Relazione delle solenni esequie… al cardinale Da Via, s.l. (ma Rimini) 1740, p. III. Il
testo apparve anonimo; secondo le Novelle letterarie (n. 30, 28 luglio 1758, coll. 477-
478), lo scritto è opera di Bianchi. Questa Relazione fu recensita dalle stesse Novelle, n.
22, 27 maggio 1740, coll. 349-351.
24 Cfr. G. P.Giovenardi, Orazion Funerale in lode di mons. Giovanni Bianchi…, Occhi, Venezia,
1777, p. XV. Su Giovenardi (1708-89), cfr. il cit. Lettori di provincia. E la recente voce
del DBI, vol. LVI, a cura di M. P. Donato.
25 Ibid., p. XIV.
26 Cfr. in G. Lami, Memorabilia Italorum eruditione præstantium, I, Firenze 1742, pp. 353-
407. La citazione è presa dalle pp. 354-355. L’autobiografia latina di Planco fu pre-
Minimi riminesi, Giovanni Bernardo Calabro, fu imposto dal suo Generale di
allontanarsi dai «giardini di Epicuro» (27) e di passare nell’«accampamento dei
Peripatetici». Nell’Autobiografia di Vico, leggiamo che, già sul finire del ’600, «si era
cominciata a coltivare la filosofia d’Epicuro sopra Pier Gassendi». L’espressione usata
da Vico rimanda al De vita et moribus Epicuri, testo contenuto nell'Opera omnia di
Gassendi (tomo V, libro X), della quale ho trovato elencate, nel catalogo Gambetti alla
Gambalunghiana, due edizioni in sei tomi ciascuna, del 1658 e del 1727. Planco pos-
sedeva quella del 1727 (28)
All’inizio dell’autobiografia latina, Planco ricorda di essere stato un
autodidatta nello studio delle Lettere, al pari di Gargettio. Costui altri non è che il
medesimo Epicuro, così detto dal demo di origine, come si legge nelle Vite dei filosofi
di Diogene Laerzio (29). La citazione del soprannome di Epicuro appare riservata agli
eruditi a cui voleva rivolgersi Giovanni Lami, editore dell’autobiografia planchiana,
secondo lo spirito colto di uno stile ‘alto’ che condiziona la tessitura della pagina di
Bianchi, quando si tratta di identificare la sua esperienza personale con quella di un
personaggio del passato, illustre ma scomodo come poteva essere il maestro del
Giardino. In Planco forse agivano pure timori di censure o di peggio, giustificabili alla
luce delle persecuzioni napoletane (1691-93) contro i pensatori che si erano
richiamati a Democrito ed Epicuro (30).
Davanti allo scontro tra l’aristotelismo interpretato in una chiave
esclusivamente dogmatica, e la ventata rivoluzionaria portata dalla rilettura di
Epicuro attraverso Gassendi, Planco sposa la causa delle innovazioni introdotte dalla
fisica di quest’ultimo (31), assumendo una posizione eretica, della quale non dovettero
successivamente dimenticarsi, come vedremo, i suoi avversari in campo ecclesiastico.
Ma l’opposizione tra la cultura peripatetica e la Nuova Scienza torna pure, in maniera
diretta ed in forma non risolta, anzi con tutto il senso di un’insanabile contraddizione,

sentata come opera di «autore anonimo». Definisco «latina» quest’autobiografia, per


differenziarla da analogo testo di Planco (anch’esso anonimo), intitolato Recapiti del
dottore Giovanni Bianchi di Rimino, Pesaro 1751: sulla paternità dei Recapiti, cf. le
Novelle Letterarie (28 luglio 1758, col. 480).
27 Il «Giardino» fu detta la scuola di Epicuro, perché sistemata in un edificio con giardino (anzi
un orto), nei sobborghi di Atene: le espressioni «quelli del Giardino», «i filosofi del
Giardino» divennero sinonimi di seguaci di Epicuro.
28 Cf. ms. 1352 cit., in «G», c. 22, n. 5. Alla BGR esiste ora soltanto l'edizione del 1658 (segn. CT
654-659). Gassendi su Epicuro pubblicò anche, nel 1649, le Animadversiones sul decimo
libro di D. Laerzio (BGR, segn. CT 660-662).
29 Cf. D. Laerzio, Vite dei filosofi, Milano 1993, X, 1, p. 400. Cf. pure Epicuro, Opere , Milano
1993, p. 101.
30 Cfr. P. Rossi, Giambattista Vico, in «Storia della Letteratura Italiana, VI. Il Settecento»,
Milano 1968, p. 8.
31 Cfr. il cit. Modelli letterari, pp. 290-292, non soltanto per le esperienze di Planco, ma pure
per il contesto generale italiano. Gassendi «era un Canonico Cattolico, che la sapeva
lunga (comm’ella dice)», scrive Giuseppe Garampi a Bianchi il 31 ottobre 1753, FGLB, ad
vocem. Gassendi «ripropone gli atomi e il vuoto come princìpi primi di tutte le cose
all’interno di una nuova ontologia»: cfr. M. Mamiani, La struttura dell’universo:
particelle, forze e spiriti, «Storia della Filosofia. 4. Il Settecento», a cura di P. Rossi e C. A.
Viano, Roma-Bari 1966, p. 4. «Critico del dogmatismo degli aristotelici, degli occultisti,
dei cartesiani, Gassendi era vicino a posizioni libertine e teorizzava uno scetticismo
metafisico che costituiva la premessa per l’accettazione consapevole del sapere ‘limitato’
della scienza»; secondo una «tesi centrale» di Gassendi, «la nuova scienza non è
interessata né alle scolastiche quidditates rerum né agli arcana naturae dei maghi del
Rinascimento: è conoscenza fenomenica del mondo»: cfr. P. Rossi, La filosofia meccanica,
«Storia della scienza moderna e contemporanea», Milano 2000, pp. 248-249.
proprio nelle leggi lincee elaborate da Bianchi e contenute nel Codex accademico (32),
laddove si sostiene che «niente è migliore e più utile che diligentemente indagare su
quanto, per un dato argomento, hanno espresso i dottissimi filosofi e gli uomini
eruditissimi: tuttavia, ai loro pareri, e l’investigazione della stessa natura, e le proprie
osservazioni, e il confronto su tutte le cose, e l’uso di discutere singolarmente su
quella parte che sia più vera, aggiungano anche il [nostro] giudizio». Dunque: prima
vengono i pareri dei «dottissimi filosofi», poi «l’investigazione della stessa natura». Si
accantona così, nella maniera più semplice, il metodo della «sensata esperienza»,
originando un’altra divergenza totale, tra la pratica scientifica ed un modus operandi
intellettuale il quale nega i presupposti della stessa pratica scientifica. Il sapere di cui
si parla nelle leggi accademiche è più tolemaico che copernicano; più incatenato
all’ipse dixit del moderno aristotelismo, che aperto ai temi pre-illuministici.
Per Planco ciò significa conflitto tra la sua funzione di scienziato (che, in
quanto tale, deve attribuire all’osservazione diretta un primato assoluto), e quella di
reggitore di un’Accademia la quale, come detta la sua prima legge, deve essere
«aristocratica» (33). Dietro questa enunciazione c’è un particolare modo di intendere
la cultura come riservato dominio dell’uomo dotto, il quale gode del privilegio di
sentenziare soltanto grazie al suo ruolo di maestro, ed indipendentemente dalla
validità scientifica dei risultati a cui perviene, intesa quest’ultima secondo i canoni
galileiani (34).
A tali canoni si richiamò Bertòla quando, scrivendo un polemico necrologio
per Planco (35), sottolineò che questi era stato «osservatore giudizioso della Natura,
ma poco amico di quella massima legge: Niun esperimento dee farsi una sol volta».
Bertòla, accusato (36) di essere caduto, scrivendo quelle parole, in una
«contraddizione chiara, e madornale ma compatibile in un Giovane Scrittore» ed in «un
Poeta pasciuto di notturni sogni» (37), fu difeso da chi (38) rincarò la dose contro lo

32 Cfr. Lynceorum Restitutorum Codex, SC-MS. 1183, BGR, c. 2r. Il passo testuale è il se-
guente: «…ad eam autem rem nulla potior utiliorque reperitur exercitatio quam dili-
genter inquirere quid de re quaque doctissimi philosophi atque eruditissimi viri
senserint: quorum tamen placitis et naturæ ipsius investigatio, et propriæ meditationes
accedant, et sententiam collatio de rebus omnibus, et singulatim disserendi usus in eam
partem quæ verior sit». Cfr. Montanari, Modelli letterari, cit., p. 297. Il Codex è un
manoscritto, in cui le leggi, sotto la data del 19 novembre 1745, occupano le cc. 2/3r.
Seguono, bianche, le cc. 3/9v. Il testo riprende dalle cc. 10r a 21r, con la cronologia del
periodo 1749-1755. Quindi mancano in esso le notizie sul periodo 1745-48. Sul
contenuto del Codex, cfr. Masetti Zannini, Vicende accademiche, cit., p. 79, nota 47, dove
è un elenco dei fogli volanti che si trovano ad esso allegati.
33 «Academia Aristocratica esto».
34 L’atteggiamento del «dotto» appare anche nella prefazione di Bianchi alla ristampa (1744)
del Fitobasano di Fabio Colonna, così riassunta dalle Novelle letterarie, n. 34, 21 agosto
1744, col. 535: Planco «dice esser meglio ristampare i libri buoni antichi, che il
pubblicarne de’ nuovi di dottrina comune, i quali non fanno altro che ingombrare le
pubbliche, e le private Librerie, con perdita di tempo, e di danari per gli studiosi». Bianchi
iniziò a lavorare al progetto editoriale del Fitobasano nel 1739: cfr. Schede Gambetti
[SG], BGR, ad vocem, dove si cita il Rescritto Apostolico per avere e ritenere per sei mesi
le Opere di Fabio Colonna che sono in Biblioteca Gambalunga, per farle ristampare, 21
ottobre 1739.
35 Cfr. A. Fabi, Aurelio Bertola e le polemiche su Giovanni Bianchi, «Quaderni degli Studi
Romagnoli» n. 6, Faenza 1972, pp. 15-16.
36 Cfr. Giudizio libero, s. d. (Rimini 1776[?]), p. 1. Lo scritto è attribuito da Fabi (ibid., p. 16) a
Francesco Ferrari.
37 Si allude qui alle Notti Clementine del Bertòla, su cui cfr. il cit. Le Notti di Bertòla.
38 Cfr. A. M. Borgognini, Riflessioni… , Lucca 1776, p. 9.
scienziato riminese:

In fatti Giano fu Filosofo, ed osservò con giudizio la Natura, ma poi all’incontro, non
poté mai soggettare il suo fervido ingegno a ripetere più, e più volte gli esperimenti, poiché egli
amava per carattere la varietà, quindi ne nacque, che quelle cose, che potevano osservarsi con
sollecitudine erano dal Signor Bianchi esattamente vedute, ma dove poi face d’uopo per
rintracciare la verità una lunga serie d’esperienze, non era questo lavoro per lui, e ne
abbandonava l’impresa, o se pure voleva seguirla il facea con lentezza, ed il più delle volte con
infelice successo.

Bertòla non era stato educato alla scuola di Planco, ma da un allievo del
medico riminese, Francesco Maria Pasini che nel 1745 è accademico dei restaurati
Lincei (39) e poi vescovo di Todi (40). L’esperienza umana del poeta riminese, così
scandalosa e moralmente dissipata (come si diceva un tempo), c’insegna a non partire
dalle resultanze della vita degli allievi, per valutare l’attività pedagogica di un
maestro. La natura individuale, e le vicende delle singole persone sono elementi
troppo forti e complessi per ritenerli passibili di condizionamento durante
l’apprendistato educativo presso una qualsiasi scuola.
Se la condotta di Bertòla offre una solenne smentita a chi ritiene che un buon
ammaestramento possa fornire gli strumenti necessari ad una corretta navigazione
esistenziale; la vicenda storica più generale dimostra che qualsiasi muraglia si eriga
contro le idee nuove, non basta a fermarle ed a respingerle. Gli «accampamenti dei
Peripatetici» potevano esser ben fortificati e minacciosamente difesi, ma alla fine
erano destinati ad essere travolti dall’impeto che il rinnovamento della cultura
provocava in àmbito filosofico e scientifico. Di questo non erano ovviamente
consapevoli quanti, adoprandosi contro Epicuro o Newton, credevano di
salvaguardare la purezza del pensiero dalle contaminazioni antiche o moderne,
ricorrendo a censure o scomuniche.
Alla scuola domestica di Planco, a partire dal 1720, troviamo allievi illustri,
oltre al già citato Amaduzzi: basti ricordare Giovanni Vincenzo Ganganelli (papa
Clemente XIV, che soppresse la Compagnia di Gesù nel 1773), il futuro cardinal
Giuseppe Garampi, ed il naturalista Giovanni Antonio Battarra (1714-89). Gli allievi
(41) studiano come materia obbligatoria e comune Medicina, poi Logica, Geometria e

39 Il nucleo originario dei Lincei comprende dieci componenti, come ricaviamo da un articolo
apparso sulle Novelle letterarie, n. 53, 31 dicembre 1745, coll. 842-846. Oltre a Planco,
«Restitutor perpetuus», ci sono: Stefano Galli, «Scriba perpetuus»; Francesco Maria
Pasini, «Censor»; Giovanni Paolo Giovenardi, anch’egli «Censor»; Mattia Giovenardi,
Giovanni Antonio Battarra, il conte Giuseppe Garampi, Gregorio Barbette, Lorenzo
Antonio Santini e Giovanni Maria Cella.
40 Bertòla dalla natìa Rimini, a dieci anni, nel 1763, è collocato, per le scarse risorse
economiche della famiglia, nel seminario di Todi. Quando Pasini (1720-1773) diventa
vescovo di quella città, lo accoglie presso di sé, essendovi un rapporto di parentela tra
loro due. A quindici anni, Bertòla è mandato in monastero, a diciassette (come si è già
visto) pronuncia i voti da Olivetano. Sulla figura di Bertòla, cfr. A. Montanari, Biografia
di Aurelio De’ Giorgi Bertòla, «Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792»,
Firenze 2000, pp. 389-398; Id., La filosofia della voluttà, Aurelio Bertòla nelle lettere di
Elisabetta Mosconi, Rimini 1997; Id., Un «Diario» inedito di Aurelio Bertòla, «Quaderno di
Storia n. 1», Rimini 1994; Id., Bertòla redattore anonimo del Giornale Enciclopedico.
Documenti inediti, «Romagna, arte e storia», n. 50/97, pp. 127-130; Id., Aurelio Bertòla
politico, presunto rivoluzionario. Documenti inediti (1796-98), «Studi Romagnoli» XLVIII
(1997, ma 2000), pp. 549-585.
41 Nei citt. Recapiti del 1751, leggiamo alle pp. VI-VII: «Qui si dà un catalogo degli scolari, che
più si sono distinti, e che sono usciti dalla scuola fatta dal Bianchi in Rimino,
tralasciandosi di mentovare quegli scolari, ch’ebbe in Siena, e che si distinguono». Da tale
Lingua greca. «La nostra setta», chiama questa scuola uno di loro. Un altro parla di
«Bianchisti», con l’orgoglio di appartenere ad una comunità eletta, sul modello degli
antichi circoli filosofici. Da fuori, accusano la «scuola di Rimino», di segnare le proprie
pagine con «velenoso inchiostro» (42).
Preziosa testimonianza dell’attività didattica che vi si svolgeva, sono i sette
compiti, assegnati da Planco e svolti da Amaduzzi (43) nel periodo 1755-59 (la sua
frequenza durò per altri tre anni). Relativi alla Filosofia e alla Scienza, essi
propongono questi argomenti: l’impossibilità di difendere il sistema tolemaico; la
funzione della logica artificiale come propedeutica alle altre Scienze; la forza elettrica;
gli spiriti degli animali bruti; la sede nel cervello degli affetti dell’animo; i nervi
dell’udito; la digestione.
Se si confrontano i titoli di questi compiti assegnati da Planco, con gli ar-
gomenti affrontati negli stessi anni su periodici e libri scientifici, Bianchi si rivela più
come un vecchio umanista che un nuovo filosofo dell’età dei Lumi. Planco appare su
posizioni incerte ed arretrate. Costringere gli allievi a spiegare che il sistema
tolemaico non poteva essere difeso «nulla ratione», a oltre due secoli dall’opera di
Copernico, significava discutere di argomenti polverosi, mentre la Nuova Scienza
percorreva le strade d’Europa. Planco sembra riproporre ai suoi allievi gli stessi
argomenti da lui studiati quand’era giovane, prima a Rimini e poi a Bologna. Nella
terminologia usata in quei temi, ci sono talora ricordi cartesiani, come là dove si parla
di «spiriti animali» (si veda al proposito il cap. XVII del Discorso sul metodo). Altri
argomenti (sede degli affetti, digestione), vanno invece in direzione opposta, negando
le tesi di Descartes.
Amaduzzi, nel già ricordato terzo «discorso filosofico», Dell’indole della verità
e delle opinioni (p. 51), si ricorda dei difetti e dei limiti filosofici della scuola
planchiana, quando polemizza con l’antico maestro, quasi a volere insinuare che
Bianchi nulla avesse compreso delle teorie di Newton.
L’insegnamento di Planco venne considerato pericoloso non tanto per le
polemiche più o meno futili sul sistema tolemaico o per le discussioni sulla sede degli
affetti, bensì per l’importanza attribuita all’Anatomia, di cui Bianchi è docente
all’università di Siena dal 1741 al ’44.
Egli considera l’Anatomia «come il fondamento della Filosofia naturale,
siccome lo è per certo della Medicina e della Cirurgia», secondo quanto leggiamo in un

«catalogo» riporto solamente i singoli nominativi, mettendoli in ordine alfabetico e


numerandoli. Tralascio ogni altra notizia in esso inserita da Planco, e segnalo con (*) i
dieci medici presenti nell’elenco: 1. Baldini Giuseppe (*); 2. Barbari Innocenzo; 3.
Barbette Gregorio (*); 4. Bartoli Giuseppe; 5. Battaglini Andrea; 6. Battarra
Giannantonio; 7. Bentivegni Girolamo; 8. Bentivoglio Davìa Laura; 9. Bonelli Innocenzo;
10. Bonioli Antonio; 11. Brunelli Giambattista (*); 12. Bufferli Pier Crisologo (*); 13.
Buonamici Niccola; 14. Cella Giovan Maria; 15. Cenni Lucantonio; 16. Colonna Daniello
(*); 17. Draghi Paolo Andrea (*); 18. Fabbri Francesco; 19. Fabbri Giovanni; 20. Fosselli
Mauro; 21. Galli Celestino; 22. Galli Stefano; 23. Garampi Giuseppe; 24. Ghigi Pietro; 25.
Giovenardi Gianpaolo; 26. Giovenardi Mattia; 27. Godenti Pietro; 28. Graziosi Ubaldo; 29.
Lapi Pier Paolo; 30. Legni Francesco (*); 31. Marcaccini Francesco; 32. Massa Niccolò;
33. Mastini Severino; 34. Mussoni Pietro; 35. Pasini Francesco Maria; 36. Pecci Carlo;
37. Piceni Giuliano; 38. Pizzi Gian Carlo (*); 39. Righini Cassiano (*); 40. Santini
Lorenzo Anton (*); 41. Serpieri Giulio Cesare; 42. Torri Cesare; 43. Vitali Giuseppe; 44.
Zampanelli Marino.
42 Cfr. il cit. Due maestri riminesi al Seminario di Bertinoro, passim.
43 Cfr. A. Montanari, Lumi di Romagna, Il Ponte, Rimini 19932, nota 1, p. 102. I compiti sono
conservati nella Biblioteca dell’Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone. Cfr.
pure Id., I compiti del giovane Amaduzzi alla scuola riminese di Iano Planco, «Riminilibri»
n. 5, marzo 1994.
prologo accademico (44) del 1751, in cui spiega di aver ‘restituito’ i Lincei con lo scopo
di «promuovere l’accrescimento dello studio della Scienza e delle belle Arti, non
escludendo le cose ancora di sola Erudizione», appartenenti alla Letteratura greca e
latina. Aggiunge Bianchi che con «dispiacere» deve segnalare che l’Anatomia «insieme
con altri buoni studj, non è in quel grado avuta, che una tanta cosa si dovrebbe avere,
essendovi chi per una cosa schifosa, e semplicemente curiosa, e di niun’utile la
tengano, e chi altre strane opinioni d’essa hanno, che qui non fa luogo a rammentare,
ma che danno bensì un grandissimo argomento della Barbarie di quei, che le portano».
In genere, nei confronti dell’Anatomia, si manifesta allora una sostanziale
ostilità per motivi diversi e convergenti nello stesso tempo, bene spiegati da Elena
Brambilla (45) in una pagina dove si fanno varie osservazioni fondamentali tra le
quali ne scelgo due attinenti al nostro tema: la pratica dell’Anatomia «vedeva
scontrarsi, sul cadavere, la competenza del medico con quella del prete, il rito funebre
contrastare il passo all’autopsia» (46); inoltre, «su quello stesso cadavere la teoria
poteva essere smentita dalla pratica, e il paradigma medico, con le sue radici
filosofico-teologiche nell’invisibile, essere confutato dall’osservazione visibile».
Quest’ultimo aspetto ci interessa particolarmente, perché ci permette di
cogliere tutta la forza rivoluzionaria che la pratica anatomica porta con sé. Essa
infatti rovescia la metodica delle conoscenze: non si parte più dalla pagina scritta per
applicare al caso esaminato le indicazioni teoriche consacrate dalla tradizione, ma
con l’osservazione diretta attuata mediante la dissezione del cadavere, si inizia il
procedimento che vuole concludersi nella descrizione di un rapporto causa-effetto. In
tal modo, si demolisce il castello dell’ortodossia scolastico-aristotelica, affermando,
come osserva Elena Brambilla, la necessità di una nuova «base filosofica della
medicina pratica», e propugnando una «emancipazione delle scienze fisiche dalla
teologia» (47).
Postosi con la propria scuola domestica in diretta concorrenza con le
istituzioni culturali ecclesiastiche, indirizzando gli studi soprattutto verso questi
orizzonti laici, Planco ben presto si scontra con il mondo religioso riminese.
Il 28 febbraio 1749 Bianchi legge ai Lincei l’epistola De monstris ac
monstrosis quibusdam (48), indirizzata a monsignor Giuseppe Pozzi, di Bologna,
archiatro pontificio straordinario e presidente dell’Accademia dell’Istituto delle
Scienze di quella città. In essa è affrontata una questione che sta alla base della
problematica trattata da Bianchi, cioè il concetto di Natura così come emerge
attraverso il sistema della classificazione scientifica da lui usato.
I mostri, scrive, si possono dividere in tre specie. Alla prima appartengono
quelli che «in Utero Animantium oriuntur ictu vel casu quodam alio». Alla seconda,
quelli che derivano «ex conformatione naturali, sive ex plastica quadam vi naturæ,
sive a natura ipsa ludente». Questi mostri (come spiegano le Novelle letterarie forse
per mano dello stesso Bianchi, n. 30, 25 luglio 1749, coll. 477-480), sono «prodotti

44 Cfr. il fasc. 218, FGMB: è il prologo ad una dissertazione anatomica di Bianchi riguardante il
celebre caso di Giambattista Pilastri, su cui cfr. pure: fascc. 203, 204, 206, FGMB; Codex,
cit., cc. 17v-18r; ed infine la Storia medica d’una postema nel lato destro del cerebello,
pubblicata nella Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici di A. Calogerà, tomo XLVI,
Venezia 1751, pp. 169-200.
45 Cfr. E. Brambilla, La medicina del Settecento: dal monopolio dogmatico alla professione
scientifica, in «Storia d’Italia. Annali 7. Malattia e medicina», Torino 1984, p. 12.
46 In SG, ad vocem, viene elencata la sua Istanza autografa a Benedetto XIV «per ottenere di
fare le sezioni di Cadaveri», nella quale «fu segnata la grazia con Rescritto dei 18 aprile
1745».
47 Ibid., p. 14.
48 Il testo ms. è in fasc. 185, FGMB. L’opera, nello stesso 1749, esce in due edizioni.
nell’uovo ab initio da Domineddio secondo la sentenza degli sviluppi; oppure che una
qualche virtù plastica abbia prodotte, e vada producendo queste parti di più, che si
trovano ne’ Mostri», che hanno un dito, un braccio, un piede o qualche altro membro o
viscere in più. Infine, nella terza specie, incontriamo quelli che nascono «ex morbo in
Animantibus».
Bianchi dimostra così che la perfezione dell’ordine naturale (fatto coincidere
dalla vecchia Filosofia con il presupposto metafisico-teologico capace di spiegare tutta
la realtà), è smentita dai fenomeni mostruosi. Alla regola si accompagna sempre
l’eccezione, tanto evidente da non potere essere negata per nessuna via. Questo
scritto, che documenta la già ricordata scelta eretica di Bianchi a favore della fisica di
Gassendi, fa convogliare sul medico riminese le prime avversioni romane, alle quali
non dovettero essere estranei gli ambienti ecclesiastici riminesi. La fretta con cui si
giungerà, tre anni dopo, nel 1752, alla sentenza dell’Indice per l’Arte comica, non può
spiegarsi soltanto in relazione al tema controverso in essa trattato, un tema allora
importante, tanto da essere al centro di durissime polemiche.
La sera dell’11 febbraio 1752, ultimo venerdì di Carnovale, la cantatrice
romana Antonia Cavallucci si esibisce nella casa di Bianchi, prima che questi reciti
una dissertazione lincea In lode dell’Arte comica. A causa dello spettacolo, la
Cavallucci è costretta ad andarsene in tutta fretta da Rimini, mentre in città nasce un
pubblico scandalo contro Planco. Il vescovo Alessandro Guiccioli lo denuncia a Roma,
da dove un corrispondente di Bianchi, Giuseppe Giovanardi Bufferli, gli comunica che
in quella città, contro di lui, si erano fatte «illustrissime e reverendissime insolenze»
(49).
L’Arte comica è stampata nel marzo dello stesso 1752 a Venezia. Il padre
domenicano Daniele Concina aggiunge in tutta fretta al De spectaculis theatralibus, in
fase di stampa, un’isterica pagina contro Bianchi: lo accusa di aver scritto da pazzo
quel discorso; e bolla come leziosa puttanella («putidula meretricula») Antonia
Cavallucci, al pari di tutte le sue colleghe, capaci soltanto di rovinare le famiglie
nobili, irretendo i loro giovani rampolli, i quali sperperano per tali donnacce il
patrimonio economico, la salute del corpo e quella dell’anima (50). La campagna di
diffamazione promossa dal vescovo di Rimini contro Bianchi, coinvolge pure la
Cavallucci, perseguitata prima a Bologna e poi a Ravenna, dove si trasferisce all’inizio
di maggio, e la fa precipitare nella miseria più umiliante.
Il discorso di Carnovale gira in fretta l’Italia, fino a che approda a Roma, alla
Sacra Congregazione dell’Indice dei libri proibiti. Nella sua dissertazione, Planco
s’avventura in un terreno pericoloso. Con elegante sottigliezza rimette in discussione
il trattamento riservato dalla Chiesa agli «istrioni», che in Francia erano ancora
privati dalle leggi canoniche «fino de’ Sagramenti, e dell’Ecclesiastica Sepoltura». E
cita san Tommaso, il quale ritiene che «l’Officio dell’Arte degli istrioni […] è ordinato
per sollevar l’animo degli uomini, e che coloro che l’esercitano dentro de’ debiti modi,
non sono mai in istato alcuno di peccato; e che a loro si conviene una giusta mercede
per le loro fatiche». Bianchi si domanda: se la Chiesa permette la lettura delle
commedie di Plauto e Terenzio, non si dovrebbe permettere anche la loro
rappresentazione? Perché debbono essere considerati «infami» quei comici che «le
rappresentano venalmente», mentre «diventano onesti quei che le rappresentano
gratis»? Da queste idee nasce il vero scandalo che avvolge la radunanza accademica di
Carnovale, non dall’esibizione di Antonia Cavallucci. Sostenendo retoricamente la

49 Cfr. lettera del primo marzo 1752, FGLB, ad vocem. A Roma, Giuseppe Giovanardi Bufferli
svolge talora anche la funzione di procuratore della città di Rimini, per affari da gestire
nelle magistrature pontificie.
50 Cfr. D. Concina, De spectaculis theatralibus, Roma 1752, pp. 207-211.
nobiltà dell’arte comica, Bianchi finisce per proclamare in modo non troppo sottinteso
il bisogno di libertà per la cultura in genere, e non soltanto per commedianti od
attricette in particolare. E’ quella stessa libertà che faceva paura a padre Concina, il
quale immaginava che il discorso planchiano potesse essere golosamente divorato da
giovanetti e damigelle, portandoli così sulla strada della perdizione.
I fulmini dell’Indice si abbattono su Bianchi il 4 luglio 1752. La procedura
seguìta non è quella regolare. Si è fatto tutto in fretta. Comunque la condanna
all’Indice non ha conseguenze nella successiva carriera pubblica di Bianchi, se nel
1755 egli è nominato Consultore dell’Inquisizione e Medico del Sant’Uffizio, prima di
diventare nel 1769 «Archiatro Segreto Onorario», per volere di papa Ganganelli,
Clemente XIV. (Nella stessa carica di Archiatro lo conferma Pio VI.)
Planco muore il 3 dicembre 1775. Il vescovo della città, Francesco Castellini,
vuole ostacolare la pubblicazione dell’Orazion funerale (scritta, come abbiamo visto,
da Giovanni Paolo Giovenardi), che Bianchi aveva richiesto nel testamento. Delle
difficoltà incontrate parla lo stesso Giovenardi in due lettere inedite al nipote di
Planco, Girolamo Bianchi, medico dell’ospedale di Rimini: in caso di edizione del testo,
era minacciata allo stesso Girolamo Bianchi «la privazione dell’Ospitale dal vescovo»,
come si vociferava autorevolmente (51). Giovenardi poi suggeriva a Girolamo Bianchi
di restare estraneo alla distribuzione dell’opuscolo, «per isfuggire qualunque odiosa
taccia di parzialità, e mettersi al coperto da qualunque vendetta trasversale, alla
quale potesse pensare il vescovo contro» di lui (52).
Pure dopo la sua morte, Planco faceva ancora paura per le idee scientifiche
che aveva professato, anche se era stato sepolto nella chiesa di Sant’Agostino.

51 Cfr. lettera del 7 gennaio 1777, FGLB, ad vocem.


52 Cfr. lettera del 5 aprile 1777, FGLB, ad vocem.

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