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Discussione di S.

SEMERARO, Formazione, Lavoro, Precarietà

L’intervento che abbiamo appena ascoltato tocca aspetti decisivi dell’attuale crisi del mondo
universitario e più in generale del sistema di istruzione italiano. Aspetti intimamente connessi
da un lato con un generale fenomeno di disorientamento culturale – identificato da Semeraro
con l’analfebetismo da eccedenza prodotto dal potente feticcio simbolico delle merci –,
dall’altro con la distruzione progressiva di un rapporto virtuoso tra autonomia della
formazione e lavoro. Semeraro coglie processi reali, che hanno conosciuto un’accelerazione, a
mio modo di vedere, proprio in corrispondenza con il declino del modo di produzione fordista
risultato della saturazione della capacità di assorbimento da parte della società di beni ritenuti
in qualche modo primari. Se letto nel quadro delle forme attuali di occupazione (e di
disoccupazione), governate attraverso lo strumento della precarietà, appare in tutta l’evidenza
dei suoi costi sociali il paradosso indicato da Semeraro, secondo cui la rottura del legame tra
formazione e lavoro ha condotto a una «trasformazione della cultura in addestramento per un
lavoro che non c’è e a lavori che sempre più raramente utilizzano i percorsi di formazione
concretamente vissuti dalle persone».
Uno dei nodi che si prestano a ulteriori riflessioni è quello già menzionato dell’analfabetismo
da eccedenza. L’impressione, infatti, è quella di essere ormai entrati in uno stadio addirittura
successivo a quello descritto da Semeraro. Se è stato vero, soprattutto nel corso degli anni
’90, che il moderno analfabetismo, prima ancora di rappresentare un analfabetismo di ritorno,
è derivato «più dall’eccedenza della informazione e dei simboli che dalla loro privazione», è
facile constatare oggi come tale eccedenza tenda piuttosto a nascondere la privazione; una
privazione sempre più di sostanza perché colpisce la qualità: basti pensare all’inesorabile
scomparsa di libri non allineati con le tendenze del momento di un’editoria che fu di qualità
(l’elenco delle case editrici sarebbe lungo), ma che risulta oggi sempre più appiattita sulla
commerciabilità di un titolo, determinata spesso dalla sua forza evocativa sul piano simbolico
più che dall’effettivo contenuto del libro a cui dà il nome. Così, per una contraddizione
interna ai processi di moltiplicazione dell’offerta, cui fa seguito di norma la standardizzazione
delle merci, sugli scaffali di librerie e case dei lettori italiani trovano sempre meno spazio libri
privi di una patina accattivante, un’affermazione senz’altro vera nel caso di settori – come
l’editoria di alta cultura, specialistica, scientifica - fino a qualche anno fa ancora in grado di
tutelare e promuovere la circolazione di idee e saggi originali e non scontati.
Nella relazione di Semeraro sussistono tuttavia due limiti di impostazione da cui vorrei
partire. Uno, più specifico, riguarda l’aspetto – qui centrale – del rapporto tra ricerca e lavoro.
Non vorrei passare per un critico dell’idea di un carattere disinteressato dell’attività di ricerca,
ma troppo spesso il richiamo ad essa finisce per essere soltanto un punto di difesa, di
“resistenza passiva”, come sarei tentato di ribattezzare la proposta di sapore religioso,
vocazionistico, sostenuta da Derrida nell’intervento richiamato da Semeraro. In realtà – e lo
stesso vale a proposito della difesa dell’autonomia della formazione come presentata da
Semeraro in apertura della relazione –, in un simile atteggimento si avverte, in fondo, l’eco
ormai lontana di un disagio raccontato in modo esemplare in un celebre saggio di E.P.
Thompson dal titolo Tempo, disciplina del lavoro e capitalismo industriale (1967): la
sofferenza del ricercatore implicita nella riproposizione della riflessione di Derrida su una
«univeristà senza condizione» ricorda molto da vicino quella degli artigiani costretti ad
assoggettarsi, fra ‘700 e ‘800, ai nuovi ritmi di lavoro previsti dalla società industriale di cui
erano loro malgrado condannati a far parte. In altre parole, a essere in questione è il carattere
antico, tradizionale, dell’attività intellettuale, un lavoro dilatato, privo di condizionamenti
esterni, libero di errare per diversi sentieri prima di compiere il cammino di una ricerca. E
tuttavia, se si esclude forse qualche luogo privilegiato, che cosa sopravvive davvero della
condizione che in passato connotava lo statuto di un critico letterario, di uno scienziato, di un
professore universitario? In che misura, nell’esperienza concreta e quotidiana di chi oggi
svolge tali mestieri, sempre più burocratizzati, quel carattere non si è trasformato ormai in un
remoto ideale, in un mito? Emerge così il secondo limite del quadro presentato da Semeraro,
che risente di una certa astrattezza, al punto da esaurire nell’immagine dell’umanista come
possibile risposta alla crescente insostenibilità delle forme di lavoro dominanti nell’attuale
società la questione della funzione civile di chi si occupa di cultura per professione, così come
delle istituzioni che avrebbero il compito di trasmettere conoscenza. Riguardo a quest’ultime,
peraltro, si cercherà invano nella relazione di Semeraro l’uso dell’aggettivo “pubbliche”.
Credo che occorra muoversi entro una prospettiva più concreta e disincantata. Il mio punto di
osservazione non è neutrale. Riflette la condizione di chi appartiene a una generazione per la
quale formazione e lavoro sono sinonimo di precarietà. Per le persone che hanno meno di 40
anni oggi in Italia - ciò è particolarmente vero all’Università - lo status di lavoratori precari è
divenuto un’orizzonte comune; è ormai la regola, non l’eccezione, né tantomeno una minaccia
da scongiurare. Eppure, a fronte di questo bruto dato di realtà, è pressoché totale il silenzio di
strutture da cui sarebbe ovvio attendersi interventi in materia (siano esse i governi di ateneo o
i sindacati), ma che - per retorico che sia, ciò non è meno vero - rifiutano di fare i conti con il
futuro. Un problema drammatico, che mette in dubbio la credibilità e il senso di responsabilità
di chi riveste incarichi all’interno di tali strutture. Tuttavia, non intendo non intendo
dilungarmi su tale questione. Preferirei concentrarmi piuttosto su un primo punto specifico.

Un punto critico: il dottorato di ricerca


Vorrei partire dall’Università che conosco meglio. Nelle ultime settimane a Pisa i consigli di
dipartimento e di facoltà stanno discutendo in modo acceso, ma abbastanza chiuso e riservato,
una profonda riorganizzazione delle scuole di dottorato. Una delle questioni centrali è
rappresentata dal taglio delle borse, che comporterà, ad esempio per le discipline umanistiche,
il dimezzamento circa dei posti attivati nel 2007. Una reazione scontata, istintiva direi,
potrebbe essere quella di opporsi a una riduzione così drastica delle possibilità di completare
la formazione di un giovane studioso fino al più alto grado di istruzione. Magari anche in
nome di quel diritto a una formazione permanente lungo tutto il percorso della vita, la cui
rivendicazione è ormai rituale in molta pedagogia della sinistra italiana. Eppure, bisogna
avere il coraggio di essere impopolari, di sollevare obiezioni scomode, per sfidare il senso
comune e tornare a dotare la sinistra di una posizione lucida e razionale in materia di scuola e
università. La carriera accademica si sceglie, non è un destino, né un’imposizione dettata dalle
condizioni sociali. Le storture prodotte dal forte incremento del numero di posti di dottorato
in Italia, soprattutto nell’ultimo decennio, avrebbero dovuto indurre da tempo a rivedere tale
politica (resa ancor più grave dallo scandalo dei dottorandi senza borsa di studio). La
questione investe la natura stessa dei corsi di dottorato, oggi sospesa fra l’ultima tappa del
percorso di istruzione (il “terzo ciclo”, per riprendere il linguaggio del Processo di Bologna) e
la prima dell’ingresso nel mondo della ricerca e del lavoro. È forse giunto il momento di dire
che il titolo di dottore di ricerca non dovrebbe essere considerato una sorta di diritto in grado
di legittimare poi pretese di un futuro reclutamento nell’università. Al contrario, dovrebbe
essere anzitutto uno strumento attraverso cui lo Stato dota la comunità di competenze
altamente qualificate, in misura possibilmente corrispondente alle reali necessità. In tal senso,
il dottorato si presta forse meglio di ogni altro momento a rappresentare quel “collo di
bottiglia” su cui si dovrà avviare al più presto una riflessione onesta per evitare di alimentare
ancora la falsa speranza di un ingresso in massa di giovani ricercatori negli atenei italiani.
Dottorati e programmazione del futuro dovrebbero rappresentare una coppia inseparabile nel
progetto di rilancio dell’università da parte di una sinistra che non si limiti a polemizzare sui
tagli imposti dall’alto, ma sappia anche rilanciare, spiazzare in modo costruttivo quel disegno
generale di dequalificazione che investe il sistema di istruzione italiano nel suo complesso.
Ripartire da Gramsci: università e forme di lavoro
Quello a cui dovremmo tornare è uno sguardo reso meno miope da un persistente «ottimismo
della volontà». L’accenno all’abusata espressione di Gramsci non è casuale. È infatti a partire
da una rilettura di pagine classiche del massimo intellettuale comunista italiano del ‘900 che
occorre muovere per costruire una risposta globale ai molteplici attacchi neoliberisti
nell’impianto, ma non sempre nella sostanza, a cui sono soggette scuola e università in Italia,
evitando così il pericolo della frammentazione di una battaglia che in realtà è unitaria o non è.
Per rispondere a chi sostiene l’inevitabilità della creazione di scuole di eccellenza o di
università private da lasciar agire in libera concorrenza con quelle pubbliche, delineando così
di fatto una biforcazione dei percorsi di formazione tesa a occultare pesanti tagli della spesa
pubblica in materia di istruzione, dovremmo rivolgerci a un passo dei famosi Appunti per un
gruppo di saggi sulla storia degli intellettuali, un manifesto ancora attuale per l’unico sistema
di istruzione pubblica realmente possibile in Italia. Perdonerete la lunghezza citazione:

Anche nel campo della preparazione degli intellettuali e nelle scuole dedicate a questa
preparazione - scuole e istituti di alta cultura sono assimilabili - la quantità non può
scindersi dalla qualità. Alla più raffinata specializzazione tecnico-culturale non può non
corrispondere la maggiore estensione possibile della diffusione dell’istruzione primaria e la
maggiore sollecitudine per favorire i gradi intermedi al più gran numero. Naturalmente la
necessità è quella di creare la più larga base possibile per la selezione e l’elaborazione delle
più alte qualifiche intellettuali – di dare cioè all’alta cultura e alla tecnica superiore una
struttura democratica. Oggi – Gramsci lo scriveva nel 1932, ma sembra parlare all’Italia del
2009 – la tendenza è di abolire ogni tipo di scuola «disinteressata» e «formativa», o di
lasciarne solo un esemplare ridotto per una piccola élite di signori e di donne che non
devono pensare a prepararsi un avvenire professionale, e di diffondere sempre di più le
scuole professionali specializzate, in cui il destino dell’allievo e la sua futura attività sono
predeterminate.

Gramsci proseguiva poi opponendo a questa tendenza un’inversione fondata sul rilancio di un
modello di «scuola unitaria», a sostegno pubblico, «poiché solo così essa può coinvolgere
tutte le generazioni senza divisioni di gruppi o di caste». E insisteva quindi sull’importanza
degli investimenti nell’«organizzazione pratica della scuola, cioè degli edifizi, del materiale
scientifico, del corpo insegnante». In particolare, sottolineava come «il corpo insegnante
specialmente dovrebbe essere aumentato, perché la efficienza della scuola è tanto maggiore e
intensa quanto più piccolo è il rapporto tra maestro e allievo».
Per capire come siano proprio i resti del modello di istruzione pubblica e autenticamente
democratica proposto da Gramsci a essere sotto attacco nell’Italia di oggi, basta riflettere
sull’intensa campagna di aggressione retorica scatenata dall’attuale governo contro i corsi di
laurea senza un elevato numero di studenti. Ora, non c’è dubbio che l’autonomia finanziaria e
il 3+2 abbiano prodotto una dannosa moltiplicazione dei corsi universitari. Tuttavia, il
carattere retorico di una simile argomentazione appare in tutta evidenza quando si osservi
come in questo momento, nelle università italiane, a essere chiusi siano in realtà corsi con un
numero molto alto di iscritti – a Pisa ha fatto notizia la soppressione temporanea del
frequentatissimo corso di laurea in Cinema, Musica e Teatro –, in ragione dell’assenza del
rapporto percentuale fra docenti di ruolo e studenti previsto dalla normativa vigente. Così,
anziché assumere nuovo personale per la didattica, si preferisce chiudere i corsi in una spirale
negativa che riguarda tanto l’Italia quanto altri paesi europei, come la Francia, dove è in atto
da mesi una dura protesta contro un analogo fenomeno (v. Laurent Bonelli, “Chi ricerca,
trova. Università in fermento”, Le Monde diplomatique / il manifesto, marzo 2009, p. 2).
Si tende spesso a descrivere l’università contemporanea come una fabbrica di manodopera
umana destinata a un mondo del lavoro sempre più simile a un tritacarne, come uno strumento
degenerato e asservito agli interessi del mercato e delle aziende private, all’interno di una
relazione ormai logora tra formazione e lavoro. Così fa, in qualche modo, Semeraro; così
fanno gruppi come il collettivo internazionale Edu-factory, che durante la contestazione
dell’Onda ha servito sul piatto del dibattito pubblico un fortunato instant book dal titolo
Università globale. In realtà, la critica a tale impostazione emerge dagli stessi che se ne fanno
sostenitori, quando ammettono che le evoluzioni dei sistemi formativi continuano a inseguire
senza successo il cambiamento del lavoro. A meno di non voler considerare privi di alcuna
logica gli interventi legislativi che hanno trasformato l’università italiana in questi anni, si
tratta di individuare il nesso fra gli interessi di gruppi di potere, l’abbassamento della qualità
dell’istruzione che viene trasmessa e le forme di riorganizzazione del lavoro all’interno
dell’università. Si può puntare il dito contro la cattiva gestione dell’amministrazione pubblica
in Italia, restando consapevoli tuttavia di quanto essa sia stata e sia tutt’oggi collegata, ai suoi
livelli dirigenziali, con il mondo delle imprese private. Perciò, un’analisi del funzionamento
materiale di quello che si tende oggi a indicare come ‘sistema paese’ mostrerebbe, credo,
quanto possa essere utile riaggiornare il parallelo gramsciano tra università e modi di
produzione, sotto il segno di una precarietà dilagante.

I costi della precarietà


A pagare i costi della precarietà sono anzitutto gli studenti: il regime di deregulation in cui gli
atenei governano l’impiego di ricercatori-docenti precari – talora negandone addirittura
l’esistenza – finisce spesso per non garantire la necessaria continuità dei percorsi didattici e di
collaborazione (si pensi alle tesi) che si instaurano fra giovani ricercatori e studenti nelle
università di oggi (un rapporto, peraltro, che andrebbe valorizzato e posto al centro di un
sistema di insegnamente virtuoso e dinamico).
Avviandomi alla conclusione, vorrei però soffermarmi sui costi della precarietà per chi lavora
in tale condizione e su alcuni nodi che ritengo occorra iniziare a sciogliere in confronti come
quello di oggi. Lascio dunque da parte questioni centrali come le forme di trasmissione della
conoscenza alternative all’attuale offerta didattica fondata sui crediti e sulla somministrazione
passiva di ‘cultura in pillole’. Né toccherò l’aspetto, dirimente per i precari, delle strategie di
destrutturazione dal basso di un sistema di governo degli atenei che continua ad arroccarsi in
un fermo rifiuto di forme partecipate di decisione su alcuni grandi temi (si pensi, in questi
giorni, al grave taglio dei fondi alle biblioteche dell’ateneo pisano), oltre a negare qualsiasi
forma di rappresentanza negli organi collegiali a componenti precarie che pure costituiscono
ormai, in media, quasi la metà del lavoro vivo svolto dentro le università. Altri si occuperanno
nel pomeriggio del tortuoso dibattito sui criteri di selezione e di valutazione connessi al
sistema di reclutamento, mentre è questione davvero troppo ampia per essere affrontata qui al
di fuori di luoghi comuni, quella della crisi complessiva attraversata dalla cultura umanistica,
ma anche dalla cultura tout court. Se mi concedete un’ultima, rapida digressione, da uomo di
lettere non posso non osservare quanto la divulgazione della cultura scientifica sia ancora
oggi un settore che gode di scarso peso in Italia da parte delle istituzioni, condannando la
popolazione a guardare, ad esempio, ai progressi delle scienze naturali come a una forma di
sapere misterioso, esoterico, inafferabile, da accettare a priori, contro il quale hanno gioco
facile i tentativi oscurantisti della Chiesa cattolica sulla materia della vita, o il ritorno di un
razzismo strisciante che fa da sfondo alla deriva securitaria che caratterizza ormai tutte le
forze parlamentari dalla Lega Nord al PD (si pensi a giornali come La Stampa e il Corriere
della Sera, che hanno accreditato l’idea dell’esistenza di un “DNA romeno”, diffusa dalle
forze dell’ordine in merito allo stupro commesso al Parco della Caffarella a Roma). Sono i
mali di un sistema di istruzione pubblico ridotto in condizioni umilianti.
In un simile quadro, risultato di una politica suicida di riforma dell’università, ma anche più
in generale della scuola e della ricerca, portata avanti negli ultimi quindici anni dai governi di
ogni colore, mi pare che gli aspetti principali sui quali la sinistra debba maturare una risposta
valida, onesta e efficace in merito al problema posto dai ricercatori-docenti precari siano
fondamentalmente due. Provo a esprimerli così:
1) occorre anzitutto spingere le autorità di governo degli atenei a un riconoscimento formale
del lavoro svolto, attraverso un contratto unico di supporto alla didattica con giusta
retribuzione, che integri l’eventuale borsa di studio, assegno o contratto di ricerca, sanando
così una situazione di caos ormai insostenibile; si offrirebbe così da un lato la garanzia di una
certificazione delle proprie attività importanza ai fini curricolari (soprattutto per quanti
finiscono per cercare lavoro all’estero), dall’altro una base di partenza per giungere alla
concessione dei diritti e delle tutele fondamentali;
2) se si accetta l’ipotesi di porre il “collo di bottiglia” al momento di accesso al dottorato
secondo una quota che potrebbe essere del doppio in rapporto ai posti di ruolo che si prevede
saranno necessari negli anni successivi al completamento del corso – in contrasto con la
logica del “terzo ciclo” della formazione, difeso dal Processo di Bologna –, bisognerebbe
accompagnare tale provvedimento con la fissazione, a livello nazionale, di un tetto massimo,
orientativo almeno in una prima fase, di durata della precarietà (ad esempio, 5 anni), trascorso
il quale o si è dentro o si è fuori dall’Università; in tal caso, sarebbe quindi necessario
prevedere, finalmente, precorsi alternativi alla carriera accademica stabiliti per legge, in modo
che lo Stato benefici comunque del servizio di persone altamente qualificate, al termine di un
percorso di formazione tornato realmente selettivo. Così, inserendo i ricercatori-docenti
precari che non entrano all’Università nei vari ambiti della funzione pubblica, dai settori
dell’amministrazione alla scuola, si offrirebbe loro uno sbocco professionale, salvando al
contempo la razionalità di un sistema di formazione e lavoro i cui oneri, in ultima analisi,
ricadono sui singoli cittadini.

GIUSEPPE MARCOCCI

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