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CORRADO ALVARO ITINERARIO ITALIANO L'ACQUA I miei avevano preparato tutto per lasciare la casa paterna e si pu dire che

comi nciassero la loro vita comune e la famiglia con questa promessa. La casa stessa, ora che ci ripenso, era stata impiantata tutta con questo scopo, e c'era ogni c osa che sarebbe servita a un grande viaggio: due bauli con le robe sempre pronte , e poi cassoni, e cestoni; tutto quanto ricorda i viaggi, la facilit del carico; le serrature e le chiavi a posto. C'era anche una riserva di funi e di cinghie. Un giorno si ruppe il divano e fu buttato via; gli ultimi di noi che vennero al mondo non lo conobbero che di fama, e al suo posto entr in casa un enorme baule verde e nero, alto come un armadio. Noi, l'uno dietro l'altro, ci davano il volo , guardando dove ci posassimo, sempre con l'idea di quel viaggio dei nostri vecc hi. Questi preparativi per una partenza tanto certa durarono quasi trent'anni. C redo che a un certo punto i miei non sapessero pi che cosa volesse dire partire, se non un desiderio, e il piacere di figurarsi quel giorno. Tra le ragioni che e ssi mettevano a questa progettata partenza ve n'era una: "In paese non c' l'acqua ; una bella cosa l'acqua in casa". Dunque, il nostro paese pensava all'acqua da centinaia d'anni; ci pensavano i ra gazzi che si contendevano il dominio d'un rigagnolo fino a che si mettevano d'ac cordo a esplorarlo per tutta la sua lunghezza, notando le diverse increspature d ell'acqua, vedendovi in miniatura un paesaggio grandioso di gorghi, cascate, e i banchi di sabbia del fondo; anche le donne avevano il loro ruscello, dove attin gevano l'acqua per bere: esso saltava gi da una roccia a picco in una valle, la s i vedeva spuntare in alto, l'acqua, sulla pietra grigia, ed era un baleno, prima che cadesse col suo assiduo rumore che riempiva la valle. Ma l'estate era pi dif ficile empire gli orci; il ruscello diventava un filo che scendeva per una canna forata in tutti i suoi nodi, e quando la siccit era grande colava un filo prezio so e faceva nella giara un interminabile e mai stanco discorso. All'odore delle piante marcite, della pietra muscosa, che faceva cos profonda la primavera, succe deva l'estate quello dei mirti scaldati dal sole; e le voci dei ranocchi negli a cquitrini. In quel tempo si cercavano le altre fonti ai piedi delle montagne che sono tante , disposte a quinte per la valle, e lontane. Gente andava vagabonda qua e l, perc h i luoghi delle sorgenti cambiano d'anno in anno. Sono quelli i tempi della sete improvvisa e inesauribile, e l'uomo tutto un groviglio di radici assetate; tutt a la terra sospira all'acqua, la ricordano le grosse piante e i cardi d'un verde ramarro che hanno trovato una linfa sotterranea che li gonfia. Per tutta la con trada si scoprono le vestigia pi antiche dell'acqua, come se anch'essa fosse un p opolo migrante; una vasca, un abbeveratoio, un condotto scavato nella pietra e i nverdito di vecchie ingrommature, o composto d'embrici messe assieme a canale e saldate con la creta. Vasche e abbeveratoi sono interrati, vi crescono migliaia di piccole piante di semi indistinti, perch dove fu l'acqua rimane sempre non so qual memoria, e il colore della terra, il folto di piante che vi accorrono da og ni parte tradiscono quell'antica presenza. Questa l'archeologia dei paesi asseta ti. Talvolta si sente in una valle la presenza umida e calda di qualcuno fuggito , ed ancora l'acqua. L'occhio di chi ha osservato queste cose le riconosce alla prima, e da lontano le scorge come le donne alla fonte. Mio padre si disfece della vigna e dell'orto che lo tenevano ancora legato alla terra, e cos non aveva pi niente a cui pensare, perch anche noi avevamo trovato mon do. Allora si mise a esplorare con diligenza la terra intorno, pensando sempre a ll'acqua, la pi buona, la pi fresca, la pi pura. Oh! le soste ai piedi dei monti, quando tra mille rumori, brusii, vocalizzi, si sente quel fruscio che si confonde col chiacchierio del grillo, e non ; e il rumo re dei boschi nel brivido serale, quando il vento arriva, e fa come un'aerea cas cata. Di solito, per le fonti, qualcuno passato prima di tutti, un viandante, un vetturale, un pastore, una donna, e hanno lasciato la loro traccia: questa mano ignota ha posto una foglia che serva da canale per l'acqua, in modo che la vena si raccolga e si getti ben distinta dalla terra: una foglia d'oleandro, di cast agno, di noce, e l'acqua, con bella ubbidienza, si conforma alla foglia, vi ripe

te una immagine di foglia liquida sopra, e con le stesse increspature e le venat ure a raggiera. L'acqua vi acquista un sapor vegetale, un odore amaro, l'odore d ella foglia, come se questa si liberasse d'un'essenza. Noi figlioli, quando tornavamo, accompagnavamo talvolta queste esplorazioni. Spe sso ci seguiva un asino con gli orci pronti. Ma anche quando non ci andavamo per ch stavamo lontani, nella citt dove c' tanta acqua, io lo immaginavo mio padre. E s pesso, poi, m' accaduto in montagna di cercare una sorgente. Ecco, rivedevo mio p adre che si chinava carponi per bere, come adorando la montagna enorme e umana; ecco le improvvise rotture di qualche argine, e l'acqua che invadeva i campi, ec co il rumore del mulino, ecco tra le piante del bosco la gente a cavallo che lev a e abbassa la testa per non battere contro i rami bassi, ecco la donna che fugg e davanti a un satiro che la insegue. Ma ecco, all'improvviso, presso una fonte che nessuno conosce, una donna seduta che aspetta di veder pieno il suo orcetto, e l'acqua vi scende frettolosa, che una gioia ascoltarla. E i passi recenti sul terreno umido, attorno alla fonte, l'orma d'un piede nudo e d'un altro ferrato, e la voce, quella voce dell'acqua che non si ha cuore d'abbandonarla, col suo d iscorso che seguita tutta la notte, come qualcosa di perduto e d'inascoltato. Ec co, nel cavo della vasca formata in breve dall'acqua, il fondo sabbioso diggi tan to finemente lavorato e raccolto, profondo e opaco come il mare, traversato da p iccole correnti che descrivono labili continenti, e fanno danzare senza riposo i granelli pi leggeri e lucenti. Queste cose le vedevo, le rivedo ancora. C'era la voce degli uccelli notturni che si appollaiavano, il vento che cessava di botto , si sentiva il vuoto e il silenzio della sua fuga, lo scalpiccio delle cavalcat ure che sembravano prossime, se non che il canto del mulattiere diceva che era l ontano lontano. E l'impressione di aver bevuto l'acqua spremuta dalla montagna, diventare una vena del mondo, una propaggine arborea, e il diventar madido come un vaso di creta, che si tornava indietro all'improvviso a fermarsi per ascoltar la e accostarvi ancora le labbra. Gli occhi vi si specchiavano profondi. Nell'ab itato le donne con gli orci madidi venivano da tutte le parti dove c' acqua, madi de anche loro, e offrivano da bere a chi volesse. Era la religione dell'acqua. Noi siamo di quel popolo che in guerra chiamava: Ac qua Acqua, e questo grido di certe notti se lo ricordano ancora quelli che ci st avano di fronte. Chi ci vuol riconoscere, ci guardi in viaggio se ci affacciamo al finestrino per osservare un getto d'acqua, un torrente, un rivo. L'acqua corr e, l'acqua la vita. A mano a mano che non doveva pi pensare ai figli gi tutti lontani, usc anche mia ma dre ad accompagnare il marito in queste esplorazioni. Ella era poco abituata a t rovarsi nei campi, e in trent'anni di matrimonio era stata sempre fra quattro mu ra, dove aveva finito col formarsi dei paesaggi nelle macchie del muro e nel mis tero cavernoso degli angoli, o nei giardini dei vasi di fiori. Mio padre tendeva l'orecchio per sentire la presenza dell'acqua, correva in punta di piedi, quasi , per sorprenderla. Concedeva alla donna di bere prima e si metteva dietro a lei come per aspettare il suo turno, allo stesso modo di chi aspetta la Comunione. Si sentiva l'odore delle radici profonde, quell'odore sotterraneo e caldo dove f econdano i semi e le piante. Erano come due ragazzi, e anche la sera, davanti al la batteria degli orci d'ogni forma, era la stessa cerimonia. "L'acqua buona." A llora pensavano che quando sarebbero stati in citt avrebbero avuto un rubinetto p er loro. Tutti, fra noi, pensavano all'acqua, e facevano i confronti fra quelle dei paesi visitati, quella di Napoli e quella di Roma. Quando noi partivamo per una nuova citt, ci dicevano: "Troverete l'acqua buona". Ed ecco che un giorno il Governo ha fatto l'acquedotto anche al nostro paese. I miei ebbero l'acqua in casa, che bastava aprire il rubinetto per vederla bella c orrente e chiara, e tanto impetuosa che faceva mille bollicine nel bicchiere. Gl i orci non servirono pi, e rotti fecero da vasi per fiori. Nessuno si ricord pi del rivo nella valle, n delle fonti solitarie, n delle avventure delle vene montane. I ragazzi sguazzavano coi pieducci rosa nella pozza dell'acqua in piazza; nessun o pens pi alla montagna, e la notte, quando il vento portava il rumore della casca ta del mulino e della segheria, non ci si ricordava pi della sete. Nessuno pi cerc le sorgenti, n le donne andarono pi in fila indiana al rio, tremando se due occhi lucidi stavano appiattati dietro alla siepe. Da principio non potevano passare d

avanti alla fontana senza chinarsi a bere, come per non mandar perduta tanta gra zia di Dio. Ma l'acqua tanta, e chi la pu bere tutta? Poi si abituarono, ma disse ro ancora, per decantare il loro paese: "Abbiamo l'acqua". Quanto ai miei vecchi , non pensarono pi, forse, a partire. I figli lontani vi tornano di rado, e tutto quel fuggire stata una vana immaginazione. Qualcuno di noi che aspetta quel via ggio ha per detto: "Non abbiamo pi tanta fretta, perch abbiamo l'acqua". La notte l'acqua si lamenta compressa nei tubi e vuole uscire. E pensare che noi abbiamo cercato mondo anche per l'acqua. VEDUTE DI ROMA I Si sta formando in Italia una capitale. Per chi vive a Roma da pi di dieci anni, un'emozione quotidiana vederla crescere e complicarsi, prodotto di cento fatti s ociali e psicologici, di cento spostamenti; ormai a quel punto in cui basta ogni lieve suggestione per creare una moda, un rapido atteggiamento e un fuggevole a spetto, di quegli aspetti che avvertono come il tempo passa, e le idee cambiano e i costumi. Proprio questa impressione, d'una vita che corre, che ci logora, ch e c'invecchia da un giorno all'altro, proprio questo il fascino delle citt. Ci si lega a questa citt per nulla affettuosa, per nulla cordiale, che di tutti e di nessuno, che ci tiene ospiti anche se ci stiamo tutta la vita; e resta sempr e quella citt indifferente cui approdammo impauriti nella prima giovinezza. Nessu n aspetto di essa familiare, e intanto la vita italiana vi si trapianta con tutt i i suoi caratteri; essa ha una natura ricca e adorna, eppure somiglia a una ant inatura: campi e ville sono cose uscite dalla fantasia d'un artista, disposti in un ordine anche l dove sembra che la stessa vicenda degli anni e dei cataclismi storici l'abbiano disposti. Essa gi tutta in quella fantasia di Fontana di Trevi, dove la pietra imita l'albero, la roccia, la rovina, e l'acqua ubbidisce alla g eometria. Imparentandosi con l'arte tali elementi, ne nata una natura sui generi s, un'antinatura. Non vi sono citt del mondo dove la natura, e il bisogno di essa , che cosa tutta italiana averla sempre presente, sia cos vicina e urgente: alcuni alberi a Roma hanno una storia, sono venerati come monumenti, e i giornali ne riportano spesso gli acciacchi e gli accidenti, come di personaggi; una spalliera di rose d'una villa ha fama, di primavera, come un museo aperto per pochi giorni. Eppure non accade di consider are natura queste cose, che costituiscono un piacere simile a quello della lettu ra d'un testo antico, dove la natura chiusa in un ordine rigoroso, che piuttosto un simbolo e una composizione. una citt difficile, e anche se non suggerisce il pensiero di quante mai orme l'hanno calcata, basterebbero i suoi aspetti esterni ad avvertirvi che siete ospiti. Io me la ricordo venti anni fa, e allora era soltanto lo scheletro della citt d'o ggi, la mummia rimasta dai secoli. Tutta la simulazione degli elementi diversi d ella natura, le grotte che diventano nicchie, le fontane che divengono boschi, i l continuo appello all'albero in quegli alberi impietriti che sono le colonne e gli obelischi, e l'acqua che sgorga da montagne di pietra squadrata, e il ritmo, la voce dell'acqua, e sul selciato turchino e duro l'ombra cavernosa di certe c hiese, erano tutte finzioni, e lo sono, della natura: sono natura esse stesse; m a vi si prova la nostalgia continua della vera natura. Il problema dell'architet tura di Roma era di seguitare in questa finzione di scenari. Come al re Mida in oro, qui le cose si trasformano in pietra. Pi su di Roma, le citt comunali e signo rili sono di dura pietra, la natura scomparsa anche come ricordo, e la vita citt adina tutta chiusa nei suoi ideali e nella sua intelligenza esatta; poche fontan e sciolgono la crudezza del sasso, la colonna si richiude nel portico; sono le c itt politiche, della ragione e, dell'intelligenza esatta. Roma altra cosa. l'inte lligenza e la primitivit italiane fermate fra due climi, due civilt, due mondi, du e punti cardinali, settentrione e mezzogiorno. Il sud vi si pietrificato come in un profondo strato geologico, il nord vi si libera dai geli. Qui si concretano per l'ultima volta i sogni e i gusti della civilt mediterranea. Anche nell'Europa settentrionale, e in genere in tutte le grandi capitali moderne, la tendenza a introdurre la natura nella vita urbana un segno caratteristico; ma quella una na tura allo stato bruto, un ricordo druidico, dei boschi e delle foreste celtiche e germaniche. A Roma una natura rielaborata, predisposta, umanizzata, di mille s

ottili parentele con le cose dello spirito e le finzioni dell'arte, ci che , infin e, il senso dell'arte italiana. Bisognava vederla Roma quindici o venti anni fa. A tratti, appena l'urbanistica diventava un po' pi ambiziosa, la logica della citt prendeva il sopravvento. I pal azzi e i monumenti pel Cinquantenario dell'Unit ubbidivano in qualche modo a tale logica, per quanto con un compiacimento quasi babilonese. Ma chi non si ricorda come da tanti discutibili monumenti si levassero nel cielo di Roma le nuove app arizioni? Accanto a quelle della Madonna della colonna di piazza di Spagna, del San Paolo della Colonna Antonina, del San Pietro della Colonna Traiana, delle st ele e delle croci degli obelischi, quasi vaganti sui tetti, in quella luce, in q uelle notti, con quella luna, apparve la donna alata della quadriga del Palazzo di Giustizia, il Garibaldi del Gianicolo, le quadrighe e i cavalli del Vittorian o; e poi pi tardi la Croce della torre capitolina, le sommit dei monumenti tratti alla luce. Ecco una delle pi belle scenografie di Roma che ricompariva quasi per caso. C'era la dura moralit degli importati, pei quali lo scopo dell'emigrazione il den aro comunque acquistato; il feudalesimo provinciale trionfava a Roma; e le inizi ative moderne, che in altre citt dell'Italia settentrionale avevano acquistato im portanza e perfezione, a Roma facevano sorridere di compassione. Vivere a Roma e ra un privilegio, era anche un mistero; nessuno si fidava di quello che vi si in traprendeva, la citt contava poco per il mondo dello spirito, niente per gli affa ri. Era un grande pettegolezzo politico. Chi di politica non si occupasse era un disadatto. Una vita dura, che faceva tutt'uno col selciato incomodo, e per estr ema consolazione il sole e il cielo, anch'essi cos netti, superiori e implacabili : uno splendido scenario per i piaceri e le malattie privilegiati. Vi si trovava poi una vita tutta esteriore e di comparsa, non esisteva intimit delle case, mob iliate di trespoli dozzinali e spiritati. Pareva una citt di paccottiglia, e cred o che anche il commercio locale, ad eccezione di qualche negozio di lusso, assor bisse le peggiori merci d'Italia. Roma era tutta e soltanto in quello che mostra va. Una lunga domenica nella provincia italiana. Vita sociale non esisteva, altr o che quella dei nobili. Dopo dieci anni ci si accorgeva di non avervi amici. Ba stavano, per la parata d'una vita sociale, le comparse al teatro, alle corse, ai quattro o cinque convegni annuali, ed era aspirazione e trionfo di ognuno ritro varsi nelle lunghe liste dei cronisti mondani. Qualunque altra citt di provincia aveva pi consistenza di questa dove si finiva tanto facilmente a fare la macchiet ta di marciapiede, dove erano tollerate le pi ingenue stranezze del vestire, dove sulle pagine dei giornali satirici si acquistava una celebrit a buon mercato, di cui il resto d'Italia non capiva niente. E poi c'era il Corso, la domenica, che le grosse famiglie dei mestieri pi seri e fondati, osti e affittacamere, popolav ano di lunghe file di carrozzelle su e gi. E tutto questo finito, e questa citt ch e si tanto odiata, pur rimanendovi, come la rappresentante della piattezza, dell 'opportunismo pi ostile, divenuta una capitale. Mi sono domandato spesso, a leggere i libri dei viaggiatori, come e quando, e at traverso quali contingenze nato lo spirito e l'unit delle capitali. un fatto che ha della natura: lo stesso che domandarsi quando e come il mare si ritirato di q ualche metro da una spiaggia. Molte cose legano alla terra, ma una cosa come questa, di cui siamo semplici spe ttatori, che nella nostra giornata occupa appena lo spazio d'una rapida impressi one, una curiosa tirannia della nostra esistenza, il nostro spettacolo quotidian o, il nostro stesso crescere. Per esempio, non ricordo come accadde che, una cer ta domenica, la citt cominci a spopolarsi, a cercare le vie dei campi e del mare; o quando le osterie cominciarono a chiudersi la domenica, un fatto da far epoca nella cronistoria di Roma. Perch non soltanto il piccone o l'architetto a fare un a capitale. Una strada nuova fra i vecchi quartieri, un monumento rimesso in luc e, costituiscono certo un fatto decisivo, stabiliscono un nuovo tema e un nuovo panorama. Di queste cose la stessa citt s'impadronisce allo stesso modo d'un terr eno che uniforma alla sua natura la vegetazione; Roma riforma da s i suoi scenari e i suoi aspetti, adatta la realt nuova al suo colore, solo che si ubbidisca all a sua struttura; da s ho detto, cio con la sua luce, con le sue prospettive sepolt e entro di s, come il seme d'una pianta e la forma d'un frutto sono sepolti nella

natura d'un albero. Per esempio, la veduta nuova d'un monumento liberato mi fac eva l per l rimpiangere lo scenario scomparso; a rivederlo a distanza di tempo, mi accorgevo che ne risultava una nuova scena quasi naturale, formata dai mille el ementi, incalcolabili a chiunque, che sono nell'anima della citt. II Quando comincia la grande stagione del sole, Roma vive per poco tempo una vita a ssociata. Ma non ne ha altrimenti & gusto n il bisogno. Una certa solitudine prop ria della Citt. I grandi convegni sono quelli delle belle giornate, di dovunque s i venga; si fa presto a prendere l'abitudine di villa Borghese, del Pincio, dell e grandi piazze e delle belle strade. Ci che stare insieme, ma in una solitudine comune, e in quella grande cerimonia della passeggiata che fece parlare tanto l' Ottocento. Ma fra le tante cose, una mutata in questi venti anni nell'aspetto de lle strade di Roma: un tempo le strade erano selciate dei selci romani e avevano colore di azzurro; il fondo della strada oggi di asfalto nero lucido, lo stesso che in ogni altra metropoli moderna; su questo nero si levano gli edifici giall i e rosa, crescono le fontane, le colonne, i campanili, gli obelischi; sono due mondi diversi; il mondo di ieri sull'asfalto lucido diventa pi remoto, prende l'a spetto d'uno di quei frammenti antichi che si murano sulle facciate dei palazzi moderni. L'asfalto al posto del vecchio lastricato ha contribuito a segnare una nuova epoca dell'aspetto di Roma. Lo scenario romano, che era sempre apparso pro vvisorio, e in cui un capriccio degli anni poteva aggiungere qualche cosa, fissa to per sempre. Venti anni fa, noi avevamo una certa intimit con la Barcaccia o il Tritone; venti anni hanno scavato una distanza di secoli, la citt familiare si d istaccata e allontanata, sembra che dica: Ora tocca a voi, e basta con le confid enze. In vent'anni s' veduta la citt crescere del doppio, il campo dell'osteria fu ori di porta diventato un quartiere, la gente pi diversa venuta ad abitarci. Meri dionali? Settentrionali? Ricordo il giorno che per la prima volta da quando sono a Roma, sentii parlare di affari e di cifre, in autobus, nel pi schietto accento genovese; la voce era alacre, e apriva il panorama del mare di Liguria. Meridionali e settentrionali hanno portato a Roma il loro paesaggio interiore; i meridionali il loro bisogno di espansione e di avventura, i settentrionali il l oro senso della vita stabilita e sociale. Quel tanto di vita socievole di certi quartieri a Roma settentrionale. Quel tanto di trepido, mobile, avventuroso, ott imista e talvolta disadorno, che ricorda remotamente la provincia, e quella prov incia nostalgica propria delle grandi citt, meridionale. Ed anche meridionale, pe r contrasto, anche quel tanto di estremamente lussuoso e visibilmente ricco. Arr ivano dalla provincia certe automobili che sembrano sirene e tritoni d'alluminio o di lacca. Meridionali, settentrionali: veduti da Roma, non s'immagina come ce rti limiti si confondano, e che malizioso piacere sia aver capito come questi du e termini che separarono per tanti anni l'Italia abbiano in effetti uno scarso v alore: sar che abbiamo imparato a conoscerei, c' in tutti lo stesso senso di vita, la stessa qualit di assalto alla fortuna e all'avvenire, lo stesso piacere di co mparire, la stessa ambizione d'essere. Non si cresce di seicentomila persone in vent'anni senza che una citt lo lasci ve dere, anche se antichissima. Salta agli occhi, al confronto della vecchiaia e no bilt di Roma, una novit di agglomerati umani, un lusso che si preoccupa delle appa renze, quasi che la chiarezza dell'aria, la luce, il sole, impongono lo stesso n itore delle citt estive; e certi modi bruschi, e l'apparizione in fiocchi delle d onne: tutti caratteri che sono propri delle citt di nuova formazione, di civilt mo lto giovani; ed questo il nuovo aspetto di Roma. La quale, scenografica com', tut ta grandiosamente esteriore, e fatta per significare la pompa e il trionfo, infl uisce a suo modo sugli animi. Chi conosce certe descrizioni della socievolezza r omana dell'Ottocento, si ricorder d'una certa maliziosa e bonaria familiarit, e il gran discorrere delle "relazioni" del tale o della tale; un'atmosfera amorosa c he fu sempre di Roma, pi o meno ovattata, e pi o meno acre, se si deve credere anc he a certi scrittori di salire, a cominciare da quelli latini. Il convegno di ta nta gente nuova a Roma nei nostri anni ha trapiantato alcune attitudini sociali. Il socievole non mai stato il forte di Roma: il suo carattere la convivenza, il tatto, la duttilit; la sua forma le grandi manifestazioni pubbliche. strano dirl o per l'unica citt vitale tra le grandi citt antiche: il gusto dei ricevimenti che

si diffuso ultimamente a Roma, d'una modernit anche troppo spinta, in appartamen ti anche troppo inappuntabili; sembra di vivere tra le pagine d'una rivista di m ode o nella scena d'un film. Non ho rimpianti per le vecchie cose se non a tempo e a luogo; questa specie di tabula rasa che si vede in giro, nelle abitudini de lle persone, questo voler essere, voler apparire, a costo di strafare, mi pare i l vero fermento della vita dei nostri giorni. Certo, la tradizione, il carattere , la personalit, sono le qualit pi preziose del mondo, le pi vive, le meglio capaci di irraggiare e fecondare la vita. Spogliarsi di tutto e accettare le novit pi cro ccanti, proprio un segno d'oggi, indica una capacit di rinnovarsi, un grandioso f enomeno che a un certo punto dovr pure tradursi in termini suoi, in un modo d'ess ere, di vivere, di pensare. Credo di aver capito la causa che isola qui tanto le persone e per cui Roma cono scer forse sempre pochissimi ritrovi pubblici e una certa sterilit di contatti uma ni; e sarebbe il sentimento degli aspetti e delle ore di Roma che formano un pae saggio interiore dell'uomo, in cui esso si appaga e si confonde. Andiamo a veder e il giallo lunare di villa Medici nel verde cupo del parco; o la piazzetta dove cresce l'erba a San Giovanni e Paolo, dove il sole si accuccia tutto il giorno suscitando il vecchio tepore dei mattoni del campanile; e chiss come sono diafani gli angeli ambigui sul Ponte Sant'Angelo, nel cielo serale di panno azzurro. Co nosco le ore di Roma, da quelle estive quando la troppa luce scava come vecchi c ranii le facciate delle cattedrali, a quelle invernali quando la tramontana riprende a scialbare i tmpani delle chiese, riducendo il tra vertino a un bianco d'avorio, mentre la parte inferiore scura e nell'ombra ricor da la cava originaria. Questi sono gli aspetti che accompagnano chi vive da molt i anni a Roma, come altrettanti convegni in una citt incompiuta e perci familiare, dove sui frontoni delle chiese un angelo aspetta da secoli il suo compagno di s immetria dall'altro lato - una citt con mille trascuratezze nella sua costruzione , dimenticanze, negligenze, raschiature, come quelle del tessitore persiano che non fa mai perfetti i suoi tappeti per non lasciarvi dentro imprigionata l'anima sua. Aver fatto di Roma un paese fissato, definito, nei limiti delle grandi strade nu ove, allontanato e isolato in qualche modo dalla intimit degli uomini, significa aver dato il segnale a una nuova vita, meno affettuosa, meno contemplativa, meno nostalgica. questo il punto del distacco da un'epoca. III Dalla mia finestra volta a mezzogiorno, potevo leggere le ore all'orologio di Pi azza Colonna; vedevo il Santo della Colonna Antonina quasi vagante sui tetti, e il frontone dell'Acqua Paola, sul Gianicolo, che mi piaceva come una grotta d'un a natura artificiale, la natura di Roma. E queste cose mi davano l'idea d'una vi ta chiusa nella memoria, compiuta e indifferente a tutti i pensieri e le passion i degli uomini, i quali rinascevano intorno ad esse con la tenacia delle piante. Tutto mi pareva uno spazio deserto, ma pieno di fatti gi accaduti. Capivo cos l'i solamento degli alberi e degli uomini. Guardando le ore sull'orologio della piaz za, e la cima della colonna, e la fontana con la sua grotta, sentivo che il mio cuore voleva uscire quasi da una prigione, da me stesso, da un passato, e incarn arsi in qualche cosa che vincesse il tempo. Qualche volta mi sorprendevo a dirmi : "Io voglio, io voglio"; e non sapevo che cosa volessi. Via Sistina, al tempo del mio primo arrivo, somigliava a una grande sala, specia lmente la notte quando la luce delle lampade ingrandiva l'ombra dei cornicioni d egli edifizi smisuratamente, e illuminava ogni dettaglio delle facciate settecen tesche con le loro decorazioni, formando uno di quegli aspetti tanto frequenti a Roma, in cui l'esterno ha la stessa architettura di un interno, e una sala somi glia a una piazza, e una piazza a una sala. La finestra della mia stanza era inv asa la notte da quelle lampade, la luce si diffondeva dentro come d'un giorno so speso in una lunga incertezza. Pi tardi, quando ebbi dormito i primi lunghi sonni romani, svegliandomi di buon'ora vedevo tra le persiane chiuse spuntare l'alba. Dal mio letto sentivo nascere il giorno. Sorprendevo la luce immobile nella mia stanza, penetrata a mia insaputa e quasi confusa col riflesso delle lampade not turne impallidite dalla veglia; si adagiava presso di me come accanto a un malat o: era una luce cinerea quale a volte copre Roma a chi la guardi dall'alto, col

colore di strade molto calpestate e di pietra sbiancata dal vento e dal sole. A un tratto udivo la campanella di qualche chiesa, poi un'altra e un'altra. Sul pr incipio mi levavo per sorprendere la strada in quell'ora. Veniva fuori un'umanit speciale, vestita come veste la gente devota in tutti i paesi, scialli e veli ne ri, che ridavano alla citt l'aspetto di certe piccole citt antiche e piene di chie se, in cui sembra che la gente non abbia altra occupazione che rispondere alla c ampanella delle preghiere. E quest'ora pareva la memoria della Roma d'un secolo prima. Quella pure l'ora dei poveri vecchi, degli storpi e dei nani. Poi, al pri mo squillo del tranvai, appariva gente vestita bene, col cartoccio della spesa. Nei giorni delle cerimonie in Vaticano, passavano, in carrozze e automobili, per sone vestite da sera, donne col velo, e tutti con un'espressione freddolosa. La voce della strada si levava a mano a mano pi sicura, la citt si svegliava, seno nch il ricordo di paese persisteva con la voce dell'ombrellaio, d'inverno, col su o tono uggioso e quasi direi umido. A mano a mano che passavano gli anni, una vo ce si aggiungeva a quel coro, e divenne comune il fracasso delle automobili che stentavano ad avviarsi, come se la citt intera non riuscisse a riprendere il suo chiasso diurno. La strada dove abitavo allora era una specie di paese: ci conosc evamo quasi tutti, e tutti avevamo abitudini familiari. Si vedevano calare i cestini dagli ultimi piani per la posta e per carretto delle v erdure. Poi la strada mut, si fondarono i primi negozi di mode, le sale da t, e i vecchi abitatori vi stavano come gente annidata che qualcuno tentasse di sloggia re. A notte alta, la strada risuonava come una chiesa o una sala deserta: si sen tivano le voci di coloro che nelle notti chiare andavano fino ai cancelli del Pi ncio per vedere Roma notturna dall'alto e le linee oscure dei cornicioni dei pal azzi che si rivelavano come i suoi temi nudi disegnati in una specie di spolveri o sospeso sulla citt che giaceva in basso, colore d'oro vecchio. Nella notte risu onavano le voci di costoro, e cos io conobbi i litigi sulla letteratura e sull'ar te, le invettive pronte e sveglie, le canzoni di moda; e i contrattempi, le prom esse non mantenute, i benefizi sfumati, le illusioni perdute, i tradimenti compi uti, descritti da voci sonore. La notte, a Roma, d l'impressione d'essere molto i ntelligenti, di pensare profondamente e di poter agire facilmente l'indomani. Poco prima di mezzogiorno, invadeva la mia strada una folla di donne che avevano l'aria d'essersi levate allora dal letto, molto imbellettate. L'aria diventava fatua, il sole splendeva sui belletti e sulle occhiaie tinte di azzurro e lustre , l'aria s'impregnava del profumo di quei cosmetici; improvvisamente la citt dive ntava misteriosa d'un mistero frivolo: i fiori dei fiorai acquistavano per contr asto semplicit e innocenza. Luccicavano le macchine; la boria di quelle donne che vi salivano o ne scendevano pomposamente faceva di quella strada un asilo di su perbie senza ragione, quasi che stare in quell'ambiente, in quel sole, in quella luce, fosse privilegio tutto personale e privato. Di botto queste cose cessavan o. La strada vecchiotta si popolava di gente modesta che andava a scaldarsi al s ole del Pincio; passava di l tutta Roma accorsa dai quartieri pi lontani, i mariti , le mogli, i figli, gli amori della gente e fin della pi povera e disadorna, con le loro scarpe pazienti, i vestiti che al sole mostravano il lucido della vecch iaia e la dignit di chi li indossava. Dalle finestre di fronte alla mia, nelle be lle giornate, le donne, mezzo apparecchiate, si affacciavano sulla strada come t emendo di non arrivare a partecipare in tempo a una rappresentazione. Io aspettavo le sei di sera, quando la citt acquistava un colore elegiaco, era pe rcorsa da una speranza di non si sa che giorni, non si sapeva che festa notturna preparasse, fino all'ora in cui d'incanto si faceva deserta, saliva dal Corso u n odore di stalla, le vetture andavano a sghimbescio e vuote, la citt si raggrinz iva nella prima sera, come se invecchiasse. Erano quelle le ore delle allegrie i mprovvise, delle folli speranze, degli abbattimenti, degl'incontri; la cenere de l tramonto copriva tutto come se un cataclisma si fosse scatenato. Si tornava a casa stanchi, e infelici, sentendo che il tempo era passato, era finito un giorn o, al modo d'una girandola, e non si faceva in tempo a pensarvi che era un'ombra , un'illusione perduta. IV Rione Ponte un quartiere di Roma, e la sua insegna il Ponte Sant'Angelo con le d ue statue di Pietro e Paolo. uno dei pi antichi di Roma, fu sempre popolato anche

quando Roma cadente si ridusse a ventimila abitanti. Nel Cinquecento fece parte del centro di Roma; vi si trovavano le banche, e alle sue strade sono rimasti i nomi di Banchi Nuovi, Banchi Vecchi, Arco dei Banchi. Vi abitarono Raffaello e il Celimi, l'Aretino e il Caro. Vi tenne il suo banco Agostino Chigi, il maggior finanziere del Rinascimento, quello che eresse in onore della bella Porzia la V illa Farnesina. Poi i palazzi e i palazzetti furono soverchiati dalla vita popolare. Il Rinascim ento era crollato come crolla un impero, e questo quartiere, che del Rinasciment o porta ancora il nome, schierato lungo il Tevere e pi basso dell'argine del fium e, parve coprirsi della stessa patina che rende tristi e bui i quadri del Seicen to; come in quei quadri, una folla mai prima entrata nell'arte sbuc da ogni parte e anim con la sua presenza greve e popolana le raffigurazioni stesse dove prima era stata una schiera di cavalieri simili a eroi e di donne simili a dee. La pit tura del Seicento si riemp di popolo coi panni della fatica quotidiana; si sent od ore di porti, di avventure, di traffico. La stessa folla invase i quartieri di c erte citt italiane di dove avevano sgomberato i cavalieri, i banchieri, le cortig iane, i letterati. Cos il Rione Ponte. Qui come se il Tevere in una sua crescita avesse lasciato il suo limo che ridiviene polvere al sole e alla tramontana. Spesso nella densit del popolo italiano si sente la presenza d'un secolo: a Roma si sente il Settecento tra via Sistina e Trinit dei Monti, il primo Ottocento nel Corso, i primi anni dell'Unit nei quartieri di tipo piemontese di via XX Settemb re, e poi di Prati e di Corso Vittorio, gli ultimi trent'anni tra Porta Pinciana e i Quartieri Sebastiani. Non soltanto nell'aspetto, ma negli atteggiamenti del la vita. una delle tante sorprese e variet del popolo italiano. Si sentono a Roma le diverse epoche di immigrazione: i nuclei formatisi sotto diverse spinte e di rezioni conservano caratteri che si direbbero prognatici. Questo specifico di og ni grande capitale, caratteristico di Roma. Al Rione Ponte ancora un colore di s ubito dopo il Rinascimento, un rione da Caravaggio, il gran "picaro" della pittu ra italiana. Io porto spesso al Rione Ponte i forestieri che mi chiedono qualcos a di inedito a Roma. il ventre della citt, come il ventre d'un grosso animale, d' un cetaceo. l'humus di Roma, e si stende oltre, fino a Parione e Piazza Navona, e di qua fino a Trastevere; la polvere di Roma, cos mordente e acre nei giorni as ciutti di tramontana, spirante, come la sabbia d'un deserto, dalle sue rovine ch e una droga di Roma, polvere di morte e polline di fecondazione; il colore d'una vita popolare la cui fama troppo sciatta al confronto. Bisogna distinguere tra Roma e Roma. Varrebbe la pena di assodare come sia nata l'immagine che circola comunemente sul romano d'oggi. una reputazione di gente f acile, festaiola, parassita e alquanto cinica, con uno spirito realistico fino a l crudo (che il lato migliore di quest'immagine) quale negli ultimi anni hanno d iffuso in tutta Italia tre o quattro giornali umoristici di mentalit prettamente romana e che ha acquistato cittadinanza in tutta la Penisola. curioso che propri o questo umorismo romano sia divenuto universalmente italiano. Comunque, Roma un potentissimo reagente, avventurosa come tutte le capitali della terra, e perci s pesso fatale a chi si fida delle apparenze. Come tutte le capitali, citt che ha u na sua maleducazione e una sua volgarit; ha pure una sguaiatezza che ritroverete nel fondo ai Berlino o di Parigi: ho notato che un certo rictus della bocca stor ta nella parlata di gente infima comune in quattro o cinque capitali del mondo; lo si ritrova anche in certi tipi dei film americani. E ha naturalmente, Roma, poca intimit, essendo un grandioso scenario che le ha vi ste tutte, luogo di convegno di genti che qui inseguono la fortuna. Il suo aspet to fatto per le esaltazioni improvvise e i disinganni atroci, il suo lastricato il deserto di tutte le capitali. Le persone sono ancora sdegnose, grandi e popol ari, come dice il Novellino antico. Ma quando avremo detto queste e cento altre cose verissime, non avremo toccato i l fondo del carattere popolare romano. Dico popolare e non di importazione. Si s a che gl'importati sono dappertutto gli stessi. vero che tale carattere bisogner cercarlo in tre o quattro rioni e starvi molto vicino per non prendere abbagli. Allora, il modulo d'un carattere fermo, originale, rispunta come a ritrovarlo in uno scavo. Ho una profonda venerazione pei caratteri popolari, da noi come altrove: sono de

positali di vecchi segreti, e una costante osservazione di essi rivela fatti e a ttitudini antichi e che servono a spiegare le nazioni. Il popolo lento a muovers i, direi che non muta pi presto di quanto non muti un paesaggio. Da qualche anno sono abituato al Rione Ponte, conosco le voci delle sue ore che sono diverse da quelle della Roma settecentesca dove prima abitavo standoci come in un libro di Stendhal o di D'Annunzio. Qui, la prima notte che vi dormii accadde un fatto di sangue: una donna fer l'amante. Poi, per molti mesi, non accaddero fatti del gene re. Una scena fu d'una donna che affront per istrada una ragazza che le occhieggi ava il marito; le disse papale papale di badare ai fatti suoi se non ne voleva b uscare. La ragazza da allora fil ben dritta. Bisognava sentire il tono di quell'i nvettiva pubblica, franca e precisa. Mi accorsi di essere entrato in un vero mon do, come in un paese. Senza volerlo, venivo a sapere tutto di tutto il quartiere , vita e morte, dolori e gioie. Sovrattutto i dolori. Ma un'altra scena fu strepitosa. Passava per un vicolo una donna matura e molto bella a modo suo: portava un ragazzo per mano, e la accompagnava un uomo. Non so come e dietro quale avvertimento, tutte le donne del vicolo furono alla finestr a simultaneamente, come in una scena di teatro, e puntando, tutte, il dito verso la donna che passava, inveirono contro di lei. Si capiva dalle grida che la pas sante doveva aver destato pi d'una preoccupazione nel cuore di quelle donne. S'in travedeva attraverso le finestre aperte una cura meticolosa e un povero lusso in torno al letto maritale. La donna insolentita pass superba senza alzare il capo, senza dire una parola sotto quella frana di vituperii; e cos il suo uomo. Lev la t esta soltanto quando fu sotto l'Arco dei Banchi, e con una calma enorme, senza v eleno, anzi con una certa comprensione delle debolezze umane, ricambi il pi rovent e di quegli improperii. Sotto l'Arco c' una Madonna, spesso infiorata, sempre con una lampada, due o tre volte l'anno con un altarino parato. Credevo questa imma gine dimenticata da una Roma per cartolina, e mi accorsi poi che son rari quelli che vi passano senza scoprirsi. Perci di notte non si prova nessuna preoccupazio ne a traversare l'Arco, sfiorati da qualcuno di quegli individui misteriosi che fanno la posta sulla strada con un fischio lungo sordo e notturno. Ho ritrovato cos il senso di molte immagini sacre negli angoli bui e tristi delle citt, fatto d i cui un moderno difficilmente si rende conto. Con tutta questa violenza del sangue, mi stup, un giorno di carnevale, di vedere una turba di ragazzi che, issando certe grandi corna bovine e caprine su un bast one, si presentavano in corteo sghignazzante sulla soglia di certe botteghe dove pure la padrona e il padrone sono tali da tenere in riguardo i giovani pi intrap rendenti e maneschi del rione. Niente, non accadde nulla. E non da dire che foss e ambiguo il significato di quei gran corni. Non si pu mai misurare come reagisce l'animo d'un popolano, e poi d'un italiano, e poi d'un romano. come l'acqua che punta, scompare, riappare, dilaga dove meno si aspetta. Le sue vie sono misteri ose. "Gente di cuore", significa a Roma gente di coraggio e insieme umana; insom ma, generosa. E in questo quartiere che s' divisi i vecchi palazzi e li ha ridott i a s, che sciorina la biancheria grondante su un portale elegante come una pagin a del Caro, che ha chiuso con pezzi di carta i vetri rotti di un'altana del Rina scimento, si capisce che cosa significhi tale frase. Sono sentimenti tanto profondi e antichi da parere indecifrabili, il culto della giovinezza, della bellezza, dell'infanzia, del coraggio e della forza, e la gio ia d'un'ora di semplice ghiottoneria o di festa, che risponde all'ariostesco "pe r un buon giorno non temo un mal mese", sono fatti d'un vecchio costume e d'una vecchia moralit; l'amore dei ragazzi che diventa tirannia; soltanto a Roma succed e che voi cediate il posto a una donna in un tranvai, e la donna pesante e traba llante vi fa accomodare la sua ragazzina, o il suo maschietto. Mor in questo quar tiere l'anno scorso un povero giovane. L'intero quartiere sottoscrisse per fargl i un bel funerale e non mandarlo via come un abbandonato; i bottegai pi brutali s borsarono di belle somme; ne andava dell'onore di tutto il quartiere. La serva d i un ultimo piano custod gelosamente una pianticella che colui aveva curato in un vaso, e la guarda ancora come una creatura. Accade spesso, a entrare in un nego zio, di vedere una popolana con un foglietto raccogliere i soldarelli di chi vuo le sottoscrivere per evenienze simili. Vorrei dire ancora delle grida e delle voci di questo quartiere, la lunga nenia

degli stracciaroli, e le frasi con cui si raccomandano dai carretti le frutta e gli ortaggi: "Neppure il colore mi pagate", oppure, alla gente che passa senza f ermarsi: "Che fessi che siete"; e il giornalaio che certe mattine strilla il suo foglio e sveglia tutti all'alba perch c' una notizia che riguarda esclusivamente il Rione Ponte. V Siccome era domenica, erano salite anche certe ragazze a visitare la stanza del Tasso nel convento di Sant'Onofrio, la stanza dove mor il Poeta, aperta a tutti i l 25 aprile, e vi si tiene una conferenza, e due guardie in alta uniforme vigila no dandosi il turno per fare una fumatina in un angolo. Erano ragazze del popolo , in pantofole, che si tenevano per mano, e ridevano curiose come ridono le mode lle che entrano per la prima volta nello studio dei pittori. Esse non sapevano null'altro che di trovarsi nella stanza di un grand'uomo, e pa reva che costui fosse vivo, e fosse uscito, e loro ne profittassero per rovistar e fra le sue cose. Si specchiarono ad una per volta nello specchio del Poeta, un vetro nero in una cornice tonda di noce, e si sorrisero l dentro. Lo specchio fa ceva pallidi, vi si vedeva il bianco degli occhi e dei denti come in un'acqua os cura stagnante. Qua specchi il Tasso il suo inguaribile pallore. Nessuna di quest e ragazze esit nel guardarvisi dentro, e dopo un poco la guardia si curv con loro specchiando il suo pennacchio. L presso, il Crocifisso di legno dello stesso colo re della maschera del Poeta ricavata sul suo letto di morte, quel suo viso d'uom o sfortunato, destinato a non aver piet mai, se non oggi, in questa sua stanza pi ena d'un silenzio secolare, dove difficile parlare ad alta voce, e dove l'eco de lla sua voce sospesa nell'aria come una nota che risuona alta nel sonno. Aveva l a fronte liscia, infantile, come si vede in alcuni uomini che hanno penato, dove addensata tutta la loro innocenza di fronte al destino. Piccoli occhi a mandorl a, annebbiati dalla creta mortuaria. Il viso cancellato dalla rassegnazione e da lla "malinconia" con i lineamenti chiari e indifferenti. Nient'altro di espressi vo che la bocca grande, carnosa, che si adatt a chiedere tutta la vita. il ritrat to della tristezza e della solitudine. difficile vedere una immagine d'uomo che serbi con maggior tenacia i lineamenti infantili. La stanza del Tasso d per due balconi su un giardinetto, e sulla vicina salita di Sant'Onofrio dove le donne vivono coi ragazzi sulla strada, e i muri quest'anno sono coperti di scritte inneggiami a una certa Marcella che deve essere il rich iamo di questa primavera. Dalle due finestre si vede il Borgo; la Cupola di Mich elangelo vicina, tra le case e gli alberi non si scorge il timpano della basilic a, n il piano su cui eretta: azzurra e aerea collina fra questi colli. Si vede il Campidoglio appena velato dal bianco del monumento a Re Vittorio. Di qua la cit t dov apparire al Poeta come appare ancor oggi, grigia e silenziosa, come una citt di scavo. Di qua egli sospir la sua corona. La stanza quadrata, con una mano di calcina ai muri, nuda, chiara, e la luce v' c ome un'onda immobile di oblio. Forse erano come questi i mattoni di cotto sull'i mpiantito, e i riquadri azzurri fra i travicelli, e il piccolo chiostro con la M adonna leonardesca in fondo. Vecchie corone d'alloro appassiscono eternamente su i muri del chiostro. Una corona di alloro sul capo della immagine del Poeta si d isfa come una treccia. Eppure qui sorride la nostra adolescenza, il nostro viso di allora liscio e imbe rbe si affaccia nello specchio nero del Poeta. Ad essa sorrisero prime, lecite e santificate, le bellezze di Clorinda e di Erminia, e quella tizianesca di Sofro nia. Ritroviamo queste illusioni e queste prime creature che amammo, in questa s tanza su cui pass la tempesta, cresciute con noi, invecchiate con noi. Eccolo, da poeta ispirato che era, in cappa e spada, Pro fide, ai suoi anni amari, come un sogno che l'esperienza ha sfatato e legato. "Sono quasi scacciato dal seno della Chiesa." una giornata oscura e piena di nubi volanti. Pure un chiarore diffuso e traspare nte invade immobile la stanza. Ci ritroviamo qui come in una sua ottava. Una cop pa nera, di creta, presso lo specchio, anche essa come contenesse un'acqua stagn ante nella sua cavit lucida. "Negare una tazza d'argento a me" diceva "che n'ho t anto bisogno e tanta voglia?" Non ha lasciato altro, insieme con qualche brandel lo di stoffa. In guerra, nei bagagli dei nostri compagni morti, non si trovavano

che cose come queste da restituire. Le due stanze che precedono questa dimora, furono adattate a un museo di manoscr itti e di opere del Poeta. In capo alle scale stato posto da poco un frammento d i affresco rappresentante il Poeta in piedi, leggero e incantato, agile come una spada, con un foglio tra le mani, come forse sogn di essere. Le due stanze del m useo sono della stessa forma della sua stanza. Sulle pareti una simbolica fiamma stampata tutt'intorno fra corone stampate, e una vetrina fa da zoccolo alle par eti. Qui sono i suoi libri e i suoi manoscritti. Un quaderno su un tavolo si cop re lentamente di firme. Non pi di cento pagine dal 1923, e l'ultima firma quella del brigadiere oggi di servizio. Piacevano, al Tasso, le pagine ben tracciate, ben squadrate, nitide, ampie, marg inate. Qui si manifesta con una tenacia dolorosa il suo amor della gloria, di qu esta passione antica che si manifest in lui magnificamente. Aveva caratteri nitid i, agili, magri, come doveva esser lui a vederlo, tracciati col compiacimento, l a cura, l'ordine d'un buon allievo della gloria. Le pagine autografe della Gerus alemme hanno un aspetto di esercito in marcia, ariose con un po' di pompa, e sul le ordinate file degli n e degli r, sulle panciute a ed e svettano l alte come l e lance dell'esercito di Goffredo, le s lunghe e snodate come gli sciabolatori d i Argante, le t tagliate alte come bandierine di squadra e le p poggiano su un l ungo svolazzo come se galoppassero su una lunga scia di polvere. Tutti quei gran e grandi che si trovano nella Gerusalemme, e ve ne sono tanti, s ono pomposi e panciuti, e uno stesso impeto assiste l'ottava in riga dalla prima all'ultima pagina. Come tutti i poeti, vedeva il suo libro, nell'atto di scrive rlo, gi stampato. Si lamentava delle cattive edizioni che gli amareggiavano l'ama ra vita. Se le faceva per suo conto nell'atto di scrivere. V' un suo frontespizio dell'Aminta che sembra quello d'una edizione aldina, col nome in maiuscoletto, l'iscrizione disposta a epigrafe, e perfino un disegno d'impresa editoriale, fat to a penna rozzamente, con un senso di decorazione popolare che era poi il fondo del suo animo; e sotto: Ferrara XXIII - novembre - 1577. L'angoscia colp pi tardi la sua ferma mano. "Il maggior di tutti gli altri mali" s criveva, "e 'l pi spiacevole mi par la frenesia; perch sempre son perturbato da pe nsieri noiosi e da molte immaginazioni e da molti fantasmi." La calligrafia divien larga, ritorta, con una volont di grandezza che la sua pove ra penna smarrita ricerca tra geroglifici disorientati, ripentimenti, vergogne. Vagano qua e l come alfieri in un esercito in rotta le sue iniziali alte e sicure . Una pausa, e con la mano dei ricordi traccia il principio del sonetto: "Deh, n uvoletta in cui mi apparve amore". Ambizioni, assalti vani, improvvise speranze: "Mi fu predetto che quest'anno nel quale finirei il quadragesimo secondo avrei molti beni e molte grazie dai principi". Vede i beni piovere attorno a lui, ma g irano vorticosamente e come ridendo attorno ai suoi occhi, principi, stampatori, amici. Il suo morbus imaginatus gli impediva ogni contatto, e nell'atto stesso in cui un "gentiluomo par suo" si drizzava in piedi, la sua bocca chiedeva piet: "Le sarei pi obbligato (alla duchessa Eleonora) se mi donasse un rubino ed una pe rla legata in oro; perch se avvenisse mai ch'io dovessi prender moglie non mi man cherebbe con la sua grazia anella da sposarla". Una grande corona d'alloro della Citt di Roma, fresca e cupa, ai piedi del monume nto del Poeta nella chiesa. Egli l, alto, ispirato, vestito di gala, con una pesa nte spada accanto. Nel chiostro al pianterreno, dove egli cammin cadente, presso il cancello di ferro, un uomo si guarda intorno. Il campanello suona a strappi n el corridoio. Una mano tende fra le sbarre del cancello una scodella di latta. L 'uomo si guarda attorno compassionevole, mangia vergognoso. VI La prima cosa che si vedeva affacciandosi alla finestra, era un pezzo della facc iata di San Pietro, e precisamente un campanile laterale, ma non come si vede co munemente, ma diventato enorme, al modo che accade affacciandosi una mattina da una finestra in alta montagna, e la montagna che era una linea lontana sull'oriz zonte si presenta vicina come veduta attraverso una lente d'ingrandimento. Tutta quella parte della basilica si presentava coi suoi cornicioni, finestroni, con uno strano senso di vuoto e di deserto, come accade spesso a guardare l'architet tura di vaste proporzioni, specialmente a Roma, dove tutto ricorda il lavoro del

la fabbrica, quasi che l'uomo col berrettino di carta e il secchio della calce p er chiudere le commessure della pietra enorme, fosse andato via da poco. Questo accade, forse, per via delle molte superfici lisce. Sotto la finestra da cui ci eravamo affacciati, si vedeva una corte interna, le finestre dell'edificio di fr onte, pi basso, orlate di pietra; e nessuna voce; un silenzio che faceva pensare subito all'assenza delle donne e dei ragazzi, un silenzio estatico da uomini sol itari. E sotto c'era un orto, prospero, lucido di cavoli, di cipolle, di insalat a, con certi fiori semplici e senza odore, orto da convento, dove il mondo veget ale anch'esso denso e polputo, e una rosa che si sfogli a pie' d'un muro ricorda il sangue rappreso. Si mise a suonare una di quelle campane di San Pietro, vicina come quell'archite ttura, e copr tutto come l'onda di un oceano, facendo forza contro i muri, corren do per le sale dell'appartamento in cui ci trovavamo, impetuosa come il vento, e quasi che noi ci trovassimo in un elemento nuovo, quello in cui volano i piccio ni sotto la scossa delle campane dai cornicioni alti; sotto questo colpo parevan o allentarsi le serrature e i cardini, spalancarsi le porte: allora i mobili del l'appartamento presero un aspetto fedele e giubilante, i quadri religiosi, i tav oli dorati, le immagini dei santi, i libri, la poltrona dorata su una predella, che era il tronetto del Cardinale. Ci trovavamo nell'appartamento d'un Cardinale di Santa Romana Chiesa alle sette del mattino. Avevamo ancora nella mente l'ingresso al palazzo, coi preti che sbucavano fuori e si radunavano come gente in costume d'altri tempi, e i ciclisti che andavano a l lavoro tagliando la piazza in pendio e il binario lucido del tranvai, e il rum ore freddo delle fontane; e poi la porta dell'appartamento nel chiostro, col nom e inciso su una targhetta d'ottone come su una porta borghese; poi il cameriere in sparato bianco e giacca nera, e le voci tranquille e sommesse di saluto nell' ingresso dominato da un'immagine della Madonna, il cameriere faceva sovente una smorfia nervosa, e pareva che ammiccasse storcendo gli occhi e il viso, ci che si mescol poi a tutte le impressioni della mattinata, come se fosse uno spiritello innocuo e tenuto in dominio. Fra quel mobilio solenne e modesto nel medesimo tem po, in cui predominava lo stile del Settecento come l'ultimo cui si sia fermata l'immagine della solennit e della maest, al limite dei secoli coi pantaloni lunghi e il cappello a cencio, dei mobili senz'oro e familiari, disadorni e intimi, de l grande avvento borghese, entr il Cardinale vestito di porpora. Ho veduto anch'io qualche mattina giubilante, e questa fu una; come se il mondo si fosse scordato di tante cose inutili e cattive. E se ci penso, tutte le matti ne giubilanti sono state quelle d'un rito, anche se il rito fu soltanto di indos sare un abito nuovo da ragazzo in un mattino di festa, o di essersi sentito augu rare, ancora non bene sveglio, a dieci o dodici anni, "cento di questi giorni" a ll'alba d'un compleanno, dalla voce improvvisa del padre. Ancora rivedevo i cicl isti tagliare la piazza in pendio e i binari lucidi freddi del tranvai, e i pret i passare il colonnato nell'infinita prospettiva della storia; ma era come il fa tto di un altro mondo. Sapevo che gli assilli e le cure che avevo lasciato fuori mi aspettavano come guardie che si sarebbero messe alle mie calcagna appena fos si uscito. Era anche quell'enorme campana che allentava i chiavistelli e gli sti piti e i sensi. Aveva finito di vibrare come se fosse cessato un vento, e al suo posto scocc l'ora dallo stesso campanile, senza fretta, che ricordava soltanto i l tempo immortale come la morte. Poich si sarebbe assistito alla messa nella cappella privata del Cardinale, non s apevo come sarebbe accaduto; il Cardinale parlava con noi bonariamente, e parlav a di anni di vita, di cose familiari di ciascuno, di cose del mondo. Non potevo levarmi dalla mente l'immagine d'una casa mattutina aperta mentre si spazza e si ripulisce ogni angolo sotto la luce casta. Il Cardinale aveva sul viso il rifle sso di quella porpora che una volta per tutte sul viso del ritratto dell'Innocen zo X di Velasquez, e mi pareva che a furia di parlare latino il suo linguaggio f osse tornato a un colore primitivo, quando l'italiano e il latino erano ancora c onfusi in una ganga, sotto il cretoso strato del dialetto. Questa semplicit e pri mitivit della lingua che si ritrova molto spesso tra gli ecclesiastici, dava il v ero senso a quella porpora, ricordava il popolo; e anche quel viso purpureo era

un viso di popolano, soltanto che negli occhi la vecchia esperienza del popolo e ra mescolata a una sottile e maliziosa esperienza. In ognuno dei suoi gesti e de i suoi atti pareva che egli sentisse l'importanza del costume che indossava, pie no di significato in ogni elemento e colore che lo componeva, e l'uomo che era l sotto celato lo reggeva come si regge il peso d'una responsabilit. E proprio ques to, tra la porpora e l'oro, dava qualcosa di pronto e di guerriero a quel viso a ntico. Ricordo che tra le espressioni di cui si serviva, egli ricorreva spesso a questa esclamazione: "Se' matto!" frase che io aspettavo con divertimento. I su oi giudizi sulle cose del mondo erano d'una saggezza popolare e rude, quella che in qualche vecchio testo di lingua italiana si sposa a una tradizione realistic a e ferma, umile e vissuta. Devo dire di non aver mai ascoltato una messa come quella, di non averne colto m ai cos bene il contenuto drammatico, di non aver mai avvertito cos potente quel so ffio creatore di quando il celebrante afferma: "Questo il Corpo, questo il Sangu e". In quel momento quell'uomo aveva un'altra voce, essa gli usciva da tutto l'e ssere, piegava a quel mistero tutte le sue forze, e in questo che il fondamento del Cristianesimo, aveva il tono dell'implorazione e del comando, un tono volont ario. Avevo gi notato, nella sua voce, quel tono. Siccome lo assisteva un prete, lo si sentiva volargli intorno a servirlo con una sollecitudine da angelo, con l a bugia d'argento e il messale e le ampolle, come se lo consolasse d'un cos treme ndo e impari mistero che gli faceva piegare il capo canuto nella pi profonda umil iazione. Era presente un comunicando, e il Cardinale si volt a parlargli come se parlasse a centinaia di persone, in tutta la pompa dei suoi paramenti e con tutt e le sue insegne. Fu allora che il sapore di quella lingua che avevamo udito poc 'anzi, mescolata alla cadenza d'un dialetto intorno a Roma, d'un rude italiano d a vecchio libro, di reminiscenze latine, s'impast in un linguaggio unico e potent e, e questo linguaggio era messo al servizio d'un giovinetto qualunque, si muove va per lui, suscitava per lui tutti i misteri, confidava tutti i segreti, apriva tutta un'esperienza, affidava tutto un potere a lui solo. E c'era non so che to no fraterno. Tutta la mattina fu piena dell'aroma del vino nel calice d'argento, dei parament i che sanno di vecchio incenso, dell'odore mielato della cera, di tutti gl'infin iti tenuissimi odori d'una mattina religiosa. Poi, nella sala da pranzo, vi si a ggiunse l'odore del latte, del caff, della cioccolata, dei biscotti e dei dolci, e ancora l'odore d'un vino leggero e amaro che si versava da una bottiglia, con un senso di digiuno che si rompe, di sensi che si dischiudono, e il latte ricord a i pascoli verdi, e il cioccolato i mori e i missionari. Il Cardinale si fece s ervire in una ciotola grande, di quelle che davano a noi ragazzi nelle case camp estri dell'infanzia, e torn al suo parlare semplice e al "se' matto!" interessand osi ai fatti del nostro mondo come chi si fa raccontare i costumi degli eschimes i, quasi che tutto fosse uno scherzo e una commedia di cui egli conoscesse la fi ne. Certo, la sapeva pi lunga di noi. Vennero fuori i nomi di due o tre persone n emiche non di lui ma dei suoi ideali e della sua disciplina, e ne parl come si pa rla d'un nemico tra familiari, con un'eco di certe terribili minacce e maledizio ni che si leggono nei Vangeli accanto alla misericordia e mansuetudine. Mentre eravamo sul pi vivo del discorso, cominci la sua mattinata. Il cameriere ve nne ad annunziare non so che generale d'un Ordine. Lo immaginavo nella sala col tronetto, ad aspettare, vestito di nero. Affari di Stato. E proprio in quel punt o fin la chiara festa di quel mattino. La voce del Cardinale non era pi quella. Gi aveva il tono del comando. GLI ETRUSCHI E LA CIVILT POPOLARE Lo scoprimento del Colle Capitolino ha messo a nudo la roccia dalla parte setten trionale; di lass, da un giardinetto pubblico, si pu guardare lo strapiombo, e que lla storia della nostra terza elementare, dei lunghi assedi e della Rupe Tarpea, vera verissima: torna, a guardarvi, quella nostra prima fantasia intatta, con l e domande sorprese che avremmo fatte allora. Ecco restituita agli uomini una gra nde favola. Ai piedi della rocca crescono i cipressi e il verde. A guardare dal Teatro Marcelle, vengono a mente altre alture come questa, una roccia di questa stessa natura, questo stesso senso; i luoghi delle citt etrusche; un angolo, alla fine, che attesta del primo nucleo di Roma, proprio quello di cui Roma si volle

disfare fin nella tradizione: un angolo etrusco. L'altura guardata dalla rupe, il colore della terra, il fiume vicino, il respiro del mare; questa l'Etruria spenta e distrutta che si riaffaccia a Roma tra le s ue innumerevoli memorie, un aspetto singolare della Roma di oggi, e uno dei pi in teressanti delle ultime scoperte. Abituati come siamo a considerare le citt etrus che finite e sterili per sempre, ritrovare la loro radice qui, con tutto quanto Roma e a Rinascimento vi hanno saputo fondare, si avverte ancor meglio lo stacco fra una civilt originaria tutta provinciale e paesana, come dovette essere quell a di Roma primitiva, e come quella della media Italia, e quella propriamente rom ana, sottile, inquieta, cosmopolita, con quel tanto di misterioso che sorge su u na Italia de' cui inizi parlano tanto familiari e quieti gli Etruschi. Quel colo re, quella roccia, quella disposizione del colle, radice etrusca; altrove la ste ssa cosa solitudine, silenzio, morte esterna; qui continuit, attestazione delle o rigini rustiche e terriere come ve ne sono alla radice delle antiche nobilt, ma i n un quadro trionfante. Tornano alla niente Veio e Cerveteri che questo paesaggi o stesso hanno in un'aria remota, e dove la pietra di questa natura divenuta una memoria di luoghi inabitabili. Si potrebbe seguitare a fantasticare di questi l uoghi sparsi per le alture del Lazio, com'erano allora quando furono vivi: caste lla e comunit di emigrati cercanti tutta la stessa natura e lo stesso color della terra con un istinto di colonie del mondo animale, Roma o Ruma non diversa da a ltre castella sulle alture; usi, costumi, tradizioni, e fin gli oggetti d'uso im portati dai luoghi di origine, mercanti che portavano a queste comunit cose per a dornare la vita, il ricordo delle terre d'origine; e qui tutti contenti di se st essi. Spiriti grossi, senza inquietudini, media delle civilt antiche, ma in cui t utto rifuggiva dalle astrazioni; una vita provinciale arrivata alla sua limitata perfezione, a non si sa che incanto primitivo, di una vita paesana che si fosse fermata proprio al punto in cui s'inizia quella che noi chiamiamo civilt. Ce li possiamo figurare. Direi anzi che una stretta parentela lega la provincia italiana del Centro con il senso della vita etrusca, la quale doveva essere piut tosto una forma di vita e una mentalit che una civilt. Tutta la letteratura che sa di popolo, da Bologna a Roma, ha sapore di Etruria, la sua stessa licenza e la sua giocosit; , accanto alle civilt perfette, il limite della civilt terriera e popolare, l'espressione cui si pu riportare molta vita del l'Italia centrale, specie popolare. E non detto che anche questo non fosse un ve rtice. L'Etruria il paesanismo italiano arrivato a una espressione perfetta; la minuta civilt popolare nella grande civilt nazionale. Facevano tombe al modo degli Egizi, ma senza l'aspirazione delle piramidi che implica una civilt inumana, ben s come case sotto monticelli di terra, nella pietra; avevano i loro dii come i Gr eci, ma traducevano i temi della Grecia sulla creta; la loro vita risuona di anf ore e vasi di terracotta come tutta la vita popolare italiana. Una civilt di prov incia, buona per vivere fino a che si in vita, e per non lasciare nella storia a ltro attestato che di una operosit giunta al culmine delle aspirazioni nient'altr o che umane. Ed ecco che in un paesaggio tanto tranquillo e remoto, fra uomini c os ragionevoli, nascevano le aspirazioni di Roma al divino. L'Etruria mor coi suoi ultimi uomini ventruti, coricati sulle tombe in una rassegnazione e pienezza bu ddistica, uomo e donna sotto lo stesso lenzuolo, a sorridere, levati sul cubito, della fine; avevano avuto i loro dii magri e sottili, un Marte succinto con un elmo troppo grande e quasi infantile, le sue scalze dee in atto di modeste passa nti; aveva empito di favole licenziose l'antichit per la carnalit delle sue donne. Sembra di leggere Boccaccio. Rimase una eredit, ai Latini, etrusca: l'assenza di favole e di miti troppo grevi nella loro storia; i miti e i simboli nella stori a dei popoli antichi segnano troppo limitatamente la loro strada e impegnano l'a vvenire. Veio alle porte di Roma, e a vederne il luogo si capisce che guerra dovette esse re la sua con Roma, da castello a castello, da famiglia a famiglia, da trib a tri b. A un certo punto della campagna, a settentrione, sulla via di Bracciano, una s trada si sprofonda umida per una valle, rasenta un fortilizio medievale e un vil laggio; sembra una via segreta come il meato attraverso cui gli antichi immagina vano l'ingresso nel mondo dei morti. Forse le vie degl'Inferi erano quelle dei p aesi morti. Un mulino scroscia nella valle presso una chiusa e, come nei vecchi

stucchi romani, l'albero, la casa rustica, il campo, hanno uno stile fuori del t empo, quello stile popolare che spesso tutt'uno con lo stile arcaico, riconoscib ile in tutti i paesi, nella letteratura come nella pittura antica. Fuori del mul ino sono pochi uomini, i bovi che aspettano il carico; l'acqua scivola sotto una passerella di legno, e cade nella valle: ha una vita di migliaia di anni, si di rebbe che parli una lingua. Poi, uscendo su uno spiazzo, compatta e grigia come l'acciaio una strada selciata appare, e si conficca come un'arma entro un colle erboso. Dopo pochi passi un recinto di filo di ferro chiude la necropoli. diffic ile vedere pi misere rovine di queste; non c' un solo rudere in piedi, e come in u na pianta sono visibili le fondamenta d'un tempio. A sedersi sul muricciolo, il fondamento del tempio di Apollo, si vede da vicino lo spolverio minuto e lento d i questa terra, come se fosse una frana immane, e non che lo smuoversi lento di poca terra sotto di noi; non c' neppure quello che rende quasi allettante il suol o delle necropoli etrusche, in cui l'occhio cerca distrattamente il frammentio m inuto dei cocci, dei vetri dai colori iridati, e i neri nerissimi rottami di vas i; niente altro che polvere, e il colore di quella polvere, le lastre di pietra della strada e delle fondamenta sconnesse, come passi fatti incerti. Ma la voce dell'acqua l sotto, il fiume che sprofonda tra una vegetazione di fior i d'un altro regno, e il ponte naturale di pietra che lo scavalca, come in certi paesaggi dell'America aborigena. Appunto questa religione dei fiumi, nata da ne cessit pratiche, dovette esser legata, come accade, a significati occulti e relig iosi; il fiume era la difesa, la linfa e il bagno, e lungo il fiume erano le vie dissimulate fra le rocce. C'era della trib e della citt, miscuglio che d un colore stretto a quella vita. Direi che l'archeologia di Veio tutta in questo fiume ch e la circonda. A primavera il prato lungo il fiume pieno di fiori, una ricca fio ritura di orchidee selvatiche, che a strapparle mostrano i loro tuberi sotterran ei come attributi sessuali (l'orchidea un fiore maschile), quelli stessi che acc ompagnano la vita etrusca e il transito suo. Cerveteri oggi un paese, con la sua bella fontana in mezzo alla piazza, la vita minuta delle donne e dei ragazzi, l'odore del mosto e del vino dei vicoli; l'ost eria per chi scende a caccia, vecchio svago etrusco. Di qui si vede il mare, des erto come la terra che intorno; il mare che si vede nel fondo delle pianure, dei deserti, della maremma; sta nel fondo rattrappito, come se si ritirasse, vecchi a strada su cui passano le navi, ma di altro mondo e di altri porti. A occidente del paese la necropoli: di qui il paese nuovo si confonde col vecchio colore de lla muraglia di tufo su cui costrutto. La terra incredibilmente molle, minuta polvere; sulla via di accesso che si stan no costruendo gli operai affiorano rottami di orci; un uomo sta lavando certi bcc heri di fresco scavati in una tomba. L sotto si circondava ognuno di questa roba, e gli antiquari ne vendono per raccogliere la cenere delle sigarette. Penso che se di qui a molti secoli le cose del nostro tempo e della nostra vita divenisse ro rare e preziose, non le tombe somiglierebbero pi a questi depositi etruschi, m a i grandi magazzini; allo stesso modo si presentano questi numerosi vasi, che d anno l'idea della merc moderna a serie. Abituati come siamo a considerare le cose antiche tutte come prodotti tipici e unici, ecco qui merci della vita d'ogni gi orno; e non questa una delle ultime ragioni del potere che i resti della vita et rusca hanno su di noi. Romani e Greci ci hanno lasciato quasi soltanto grandi at testati, segni d'una vita eternamente pubblica, solenne, alta; la loro folla que lla del coro dei drammi e delle tragedie, e apparve soltanto come volont colletti va sulla via della volont individuale; un mondo di eroi e di privilegiali; ma que sti Etruschi, i cui nomi maggiori che ci sono pervenuti hanno un suono di casati italiani di vecchio ceppo, di cui non rimane che il disegno delle citt e degli e difizi, hanno portato nella nostra fantasia il colore d'un popolo, la forma dell a casa nelle loro tombe, e tutta questa merc d'uso quotidiano: coppe, orci, brocc he, lampade, fibbie, strumenti per misurare il tempo, situle, ciste; il ricordo perenne dell'acqua necessaria, del vino, dell'olio; la visione d'un mercato di p iccole cose comuni, il sentimento della gente piccola coi suoi angoli di casa, l e sue abitudini, i suoi bisogni. Quasi consci della loro fine, fondarono le citt dei morti che furono in tutto la riproduzione delle loro case. Nei Romani la stessa morte con le tombe lungo le s

trade d il senso del lungo cammino; si avvicendava essa alla vita, simile a una t appa, come le poste dei suoi cursori; ma questi paesani con la memoria dei sepol cri orientali fondavano necropoli che dovevano sopravvivere sotto la terra cui p otevano correre le invasioni e l'aratro solcare senza disturbarli. La necropoli di Cerveteri ha addirittura la pianta d'una citt: una strada nel mezzo con la tra ccia delle ruote dei carri, e solo pi tardi, quando ci si accorge che una citt di sepolcri, le strade che si spartiscono in certi angoli, con qualche pianta di ro se in fiore ai crocicchi (caste e frigide rose delle citt morte), portano alla st essa pace e allo stesso silenzio, solo allora come se si vacillasse al bivio d'u n viaggio ultraterreno. Ognuno di questi luoghi una casa; se si scoprissero dell a terra che li copre come capanne, con le sue zolle erbose, si rivelerebbe una c itt di case basse, con le loro porte, quella umile e quella ampia di grandi e ric che famiglie. lo stesso che affacciarsi alle soglie delle casupole di certi vill aggi: qui una stanza comune, per starvi, mangiare, dormire; alle due pareti oppo ste due lettini di pietra separati dalla colonna che regge il soffitto, e nel me zzo, come se qualcuno si dovesse destare ancora da una sete notturna, un riposti glio coi vasi del vino, dell'acqua, e il piatto delle pietanze. Piccola casa mod esta, senza servit, senza decorazioni, scavata tutta in un blocco di tufo. Quella del sepolcro pi grande riproduce il palazzo. C' la scala esterna, e a mette re i piedi sugli scalini, di quanti mai passi risuonano; il corridoio d'ingresso col muricciolo su cui sono posati i vasi dei viveri; come in certe case rustich e si passa per la dispensa e per la cucina; e poi la stanza centrale: intorno in torno pel muro i cubicoli della famiglia; nel mezzo, sulla parete centrale, quel li del padrone e della padrona. In queste grandi case, divenute sepolcreti, il l etto dei capi della famiglia uno solo comune, non come nelle piccole sepolture d ove i letti sono separati quasi che uomo e donna avessero troppo faticato insiem e nella loro vita. Qui stanno insieme su un letto scolpito nel tufo e lavorato d i stucchi; vi riprodotto il letto loro di ferro o di rame, il materasso, i due c uscini un poco in disordine per avervi vegliato un poco, lo scalino per salirvi, il tavolino da notte accanto. Sullo scalino sono posate le scarpine della signo ra, la signora ha appeso al muro una collana che si tolta or ora, appeso dalla s ua parete il ritratto di suo padre, e sul tavolino da notte il rotolo d'un libro letto a met prima di prender sonno. Intorno, per le pareti e per le colonne semp lici e squadrate che reggono il soffitto a travicelli scolpiti nella pietra, com e se sopra vi fosse un primo piano, le immagini della vita dell'uomo, l'arco del cacciatore, il bastone, il carniere, la spada, lo scudo, l'elmo; e per la signo ra, la spatola della cucina la faina, domestica come il gatto, e infine il famos o flauto che suonava per la caccia, per il pranzo e per la danza, per segnare il ritmo di chi rimenava la pasta e di chi vibrava i colpi di sferza delle punizio ni. In terra, all'ingiro, letti di pietra inclinati pei servi che vi erano depos ti a dormire anch'essi l'ultimo sonno. Ma quei lettucci delle famiglie piccole e modeste! Quello dell'uomo liscio e sco modo. Quello della donna con un cuscino di pietra pi inclinato, e le due sponde r ialzate ai lati, letto d'un'infanzia eterna, letto premuroso come se qualcuno lo avesse rincalzato, per contenere meglio la donna che, si sa, inquieta. PORTE DELL'ALTRO MONDO Siamo andati a vedere la Montagna Spaccata che si trova quattro chilometri e mez zo a sud di Orbetello, sulla Via Aurelia. veramente una montagna spaccata, cio un poggio alto una sessantina di metri e tagliato in due dalla cima alla base. Vi si entra per un passaggio basso, e un corridoio stretto dal macigno. Macigni fra l'una e l'altra parete formano la volta del corridoio, fin dove l'antro diventa spazioso e la spaccatura raggiunge la cima. Nell'antro le pietre cadute formano come una assemblea, una luce verde scende dagli alberi che crescono sulla rotta cima del colle e si affacciano sul crepaccio; si vede il cielo, s'odono cantare gli uccelli sulla superficie della terra. E mentre le voci trascorrenti lass ris uonano dolci nella caverna, una voce che si leva quaggi si perde sorda e spenta. Il suolo coperto di foglie secche cadute dagli alberi gi per lo spacco. Le pietre radunate nell'antro sono incise dalla luce e dai raggi del sole che a certe ore penetrano come in una camera oscura e v'imprimono la forma dello schermo attrav erso cui passano. La luce agisce sulla pietra come un corrosivo su una lastra fo

tografica. Cupe e morte sono le altre pietre nell'ombra perenne. Non vi cresce u n filo d'erba e non v' traccia di vita. Questo un luogo antico, naturalmente; ed un luogo etrusco. Era forse un passaggi o per sbucare al coperto da una parte all'altra del colle. Ma, e forse meglio, f u un luogo di riunione per qualche rito. Gente di passaggio sull'Aurelia scende verso questa parte, pel viale dei giovani cipressi, perch la Montagna Spaccata co mincia ad avere i suoi visitatori. La misteriosa caverna pi accessibile oggi a ge nte che arriva da trecento chilometri lontano che non anticamente alla gente etr usca della citt di Cossa che viveva sul colle accanto. Lo spazio era un fatto che contava per gli antichi nella stessa misura che esso non conta per noi. I racco nti prolungavano le distanze, e il mistero che la potenza delle distanze. E poi, i luoghi sacri hanno il potere di creare intorno a s una zona di lontananza. Dappertutto, nel mondo antico, si trovano luoghi come questi, latebre, lustri, r ecessi, spechi. E mi piace immaginare gli antichi ai quali le distanze appaiono enormi, anche quelle pi familiari, come ragazzi ai quali gli angoli tra le stesse mura domestiche sembrano da esplorare o inesplorati; in essi trovano riparo nel le ore dei sogni e delle fantasticherie, fino a credere d'essere addirittura inv isibili nascondendosi sotto un tavolo. Non altrimenti l'uomo antico, e ancor ogg i l'uomo primitivo, vedeva le distanze che lo separavano da alcuni luoghi della terra; tutti e due, l'antico e il primitivo, sedentari non soltanto perch forniti di mezzi di trasporto lenti, ma perch, dovendosi muovere non per altro che per b isogno, poco avvezzi ai viaggi. Ma soprattutto il fanciullesco amore del nascond iglio accomuna l'antico e il primitivo; e il fatto di vietarsi alcune strade per ch spiranti mistero appena vi cresca un ciuffo d'alberi o vi sia una grotta. Oltr e l'orizzonte dove si ferma lo sguardo, essi mettono una favola. Basta, per ques to, sentire come in molti luoghi dell'Oriente e del Mediterraneo la gente fantas tica ancora di luoghi lontani, e come d'altra parte appaiono misteriosi i vianda nti, i pellegrini, i pastori, che per l'appunto fanno molto cammino. Ma, forse, non si tratta soltanto di abitudine ai viaggi, quanto d'un potere fan tastico proprio dell'infanzia degli uomini e dei popoli, d'una facolt di animare ogni aspetto singolare della terra e di scorgervi un divieto sul quale nessuno c erca di procurarsi una testimonianza dei propri occhi. Noi stessi, andando a vis itare tali luoghi, torniamo insensibilmente all'infanzia nostra e del mondo, ent riamo in detti luoghi come un tempo della nostra fanciullezza scendevamo nella stanza pi remota e oscura della casa come in un mondo animato d'una vita oc culta che ci sbigottiva. Per un poco vi crediamo ancora, tanto questo sentimento radicato nell'animo umano, e risponde naturalmente a un suo bisogno. Un luogo dove questo potere fantastico degli antichi si manifesta con tutta la s ua ingenuit e forza, l'Antro detto della Sibilla a Cuma. Qui la Sibilla dava i su oi responsi, qui era il passaggio per gl'Inferi, qui le rive del sotterraneo fiu me dei morti cui la Sibilla era guardiana. Questo luogo esercit su tutto il mondo antico un'importanza tanto grande da fornire poi per tutti i secoli avvenire e alla stessa nuova religione un'immagine plastica del mondo ultraterreno. Il paes aggio intorno, tra il lago Lucrino e il monte, non ha nulla di singolare se non la solitudine che propria di luoghi carichi di tanto significato, una solitudine rimasta incantata nei suoi molti secoli, e che fa pensare se non sia proprio un a coincidenza singolare che tali luoghi non siano mai popolati, quasi nascondigl i e bracci morti della natura. C' quel pallore, sulla terra, sul lago, sul colle, e poi su ogni aspetto intorno per un lungo tratto, che fa del paesaggio una mem oria. La porta non un cos grande ingresso quale si potrebbe immaginare da una fan tasia moderna avvezza alla scenografia della letteratura e del cinema; appena un passaggio, un meato, e di l comincia il gran viaggio. Tutto intorno alla porta, centinaia di biglietti da visita coi nomi dei visitatori, evocano nomi diversi d 'ogni terra. I biglietti, l'uno sull'altro, sembrano foglie cadute del grande al bero della vita. Stetti a guardare come i due uomini che ci dovevano servire da guida si cavavano i pantaloni per guadare la corrente sotterranea; un gesto simile, non guardabil e e da farsi in segreto, compiuto sotto gli occhi dei visitatori, nonch ridicolo poteva apparire grave e terribile; forse come a vedere qualcuno che si appresta ad eseguire una tortura. Era un gesto professionale; forse quegli uomini, di pad

re in figlio, avevano portato sulle spalle per lunga tradizione i visitatori del l'antro. E poi, come i due uomini portavano i pantaloni ripiegati sul braccio, q uasi che in una vita anteriore avessero avvolto intorno al braccio un mantello. I napoletani hanno a volte atteggiamenti da farvi rimanere a bocca aperta pel mo do con cui nobilitano o rendono naturali certi atti di cui chiunque altro si ver gognerebbe. I due traghettatori sono le migliori guide per una visita come questa: caricando vi sulle spalle per passare il fiume sotterraneo, vi fanno sentire di aver porta to mezza umanit sulle spalle, e di tutte le razze ed et; vi adattano con un gesto, una parola, uno scrollo; hanno una vecchia conoscenza del carico umano, con man o sicura fanno sentire una scienza della meccanica del corpo umano. Si vedono al lontanarsi col carico sulle spalle, per l'acqua di cui non si scorge il fondo, n ella grotta bassa e oscura al lume della lampada ad acetilene. Si sentono le lor o parole morte sull'altra riva, si scorge qualcuno posato laggi che aspetta, che forse ha un vago terrore di essere lasciato solo mentre quelli tornano indietro a traghettare altri. Laggi un amico, vi parla, come se la consuetudine di questa vita si perpetuasse nel sogno di quell'altra; tra due sogni: e le parole si spen gono nella profondit, e si vede soltanto una bocca muoversi come nella visione d' un mondo senza pi suono. Da quanto tempo si compie lo stesso lavoro in quest'antro? incalcolabile. E torn ano a mente i mille e mille biglietti bianchi che attestano il passaggio da quel la porta; messi insieme, l'uno sull'altro come l'ala d'un grande e fatale uccell o bianco inchiodata sulla soglia. Poi i due portatori, seri e attenti, dimostran o come erano dati i responsi della Sibilla; lo fanno con poche parole: uno indic a un tettuccio di pietra sulle rive incassate del fiume su cui i passi infiniti hanno improntata la pietra, ed il lettuccio della Sibilla: vi si sdraia come la Sibilla, sul letto di pietra e sul cuscino di pietra, mentre l'altro si affaccia da un pertugio che comunica con la stanza accanto e mostra il viso di chi atten de la sorte. Fanno queste cose con poche parole: appaiono e dispaiono animando l 'antro e rappresentando l'antica favola del mondo in cui discesero Enea e Virgil io e Dante. Sembra un gioco di ragazzi, e una rappresentazione popolare. Ma solt anto perci tutto ancora vivo. E non dimenticher come i due uomini prendono il prez zo del traghetto, e con quali augurii per la strada che ci aspettava. E come a u n certo punto passati al di l dal fiume letale, ci fermarono in una cella, davant i a un muro interrato, dicendo che il passaggio era interrotto, ma che di l si tr ovava l'altro mondo. Quanto era distante tutto questo? Come erano lontane le riv e del fiume? Come era grande il giaciglio della Sibilla? Mi parve tutto grande e breve nello stesso tempo, una misura difficile, la misura delle favole e della vita antica. LA FIERA DELL'IMPRUNETA Quel giorno, d'ottobre, la Toscana usciva da un temporale d'autunno, il cielo er a grigio e azzurro, e l'azzurro degli ulivi e degli olmi cui si appoggiavano le viti, e il colore finito delle viti autunnali, facevano di tutta la regione del Chianti un grande specchio del cielo e delle chiare nubi al limite dell'orizzont e. Tutto azzurro e grigio, d'un color minerale, in cui i cipressi venivano avant i neri tra quella chiarezza di colori metallica, e l'aria limpida e i campi eran o tenuti a guardia da cotesti cipressi come gente accorsa sulla soglia d'un camp o e d'un casolare. La piazza dell'Impruneta, per chi non la conosca, ha una sing olarit: che vi si accede dal ciglio d'un colle; la piazza si stende in pendio, la ggi il famoso campanile con la chiesa raccolta fra due ali di case; sul fondo, di etro il campanile e la chiesa, il monte delle Sante Marie, una collina sormontat a da una croce di legno con le braccia assai larghe; questa collina ripete l'imm agine della chiesa e forma con essa una sola architettura. Il ciglio del colle, prima che arrivassimo sulla piazza, era irto delle stanghe dei carrettini; dall'altro lato della strada da un muricciolo si affacciavano le teste pi attente di asini e di muli: coi loro nitriti c'introducevano alla fiera , e per un poco non si sentiva altro. Ma poi, affacciandoci sull'altro versante del colle, si vide la piazza e tutta quella folla. Un torchio gigantesco, rimast o in mezzo alla piazza dalla festa dell'uva del giorno avanti, pareva un monumen to naturale, posto com'era nel paese pi prospero del Chianti, e nel centro di que

lle famose vigne. C'era una gran folla, gente venuta da Firenze, borghesi e popo lani, contadini e fattori dei dintorni con le loro donne. I soli colori accesi c he si vedessero erano i fazzoletti turchini e rossi annodati al collo di certi c ontadini. La piazza in pendio grande e sembra grandissima, appunto per la disposizione dei suoi piani; i movimenti della folla, come di un selciato disposto a onde, le da vano una pi grandiosa dimensione. Guardandosi indietro per la piazza in salita, s i scorgevano tutte le cose, gli uomini, gli edifizi, gli animali, come su una ri balta inclinata; in certi angoli che parevano piccoli palcoscenici, nelle terraz ze delle trattorie, gente mangiava ai tavoli apparecchiati; sembravano in un int erno lontano; non so come, il ritmo delle braccia che portavano i cibi alla bocc a dominava quella scena, era il movimento gigantesco e multiplo di quella folla. Una folla silenziosa o quasi, tra cui le donne si aggiravano col viso smarrito e col tremore e il pallore che prende le donne, quali che siano, quando si trova no in una di queste feste, come se sentissero potente e selvaggia la forza dell' uomo. Era forse questo che dava un sottile senso d'inquietudine e di vicina cata strofe, un tremore di attesa, una vibrazione come alla presenza di forze occulte , e ad aggirarsi in un mondo in cui i contatti erano facili, come accade nelle f este, pareva d'impastarsi in un elemento umano, senza ripugnanze e senza pensier i. proprio questo che d ad altre feste popolari, sotto altri cieli, quell'ebbrezz a per cui la folla grida, canta, balla, in un'esaltazione collettiva, in cui la felicit, i dolori, le speranze, acquistano un unico senso, e i tripudi e i deliqu i mistici hanno gli stessi moventi. Qui tutto pareva calmo, semplice, lieto; le grida dei venditori che richiamavano l'attenzione sulle loro merci e incitavano a mangiare e a bere, suonavano come sferze su quella folla, con quel tanto di co nturbante che hanno le voci umane in un'accolta di persone. Dicono della sessual it che si scatena nelle feste. Non proprio questo: la gioia di confondersi, in un freno rotto, il piacere di rimpastarsi in una materia vivente, l'abolizione di ogni antipatia nel ritrovarsi e nel fondersi in una solidariet di natura animale. Altrove questo diventa facilmente esaltazione. Qui, tra un popolo civilissimo, quell'enorme festino, quella gioia del mangiare e del bere, parevano la celebraz ione estrema di un rito perduto, ma vivo nella memoria profonda degl'istinti. Er a facile ricordare la suprema indifferenza etrusca fra i beni della terra, il se nso di pace beata e di pienezza, quella del ventre pieno che li stende sui loro lettucci e li avvicina alla contemplazione. Si sa quanto son parchi i toscani, e come sono parsimoniosi; la loro parsimonia che per l'appunto d un valore tanto pi grande alle cose; alla fiera dell'Impruneta le cose del vivere vi sono profuse come in una scommessa annuale, con la larghe zza cautelosa del popolo, col rispetto che ha il popolo per le cose necessarie a lla vita, che da questo rispetto escono quasi consacrate e che sono il segreto d ella vita antica popolare, il pi aperto contrasto con lo sfascio di merci della c ivilt moderna. La piazza era piena di venditori soliti, quelli che portano alle f iere gli elementari manufatti dell'industria, rimasta per queste cose sempre all o stesso gusto e allo stesso colore. Ma lungo le fiancate della chiesa e sino alla fine del paese, c' il banchetto pi s traordinario che si possa vedere. Vi si tengono banchi di cibi, vini, sacchi di pane, e accanto a questi banchi le tavole apparecchiate e le comitive che mangia no col dispensiere allato. come la conclusione dell'anno, il vino divenuto pi sod o e gi vecchio, la porchetta tenerissima, i polli buoni dopo le covate estive: ma bisogna vedere i tagli diligenti, i modi gelosi e solenni di presentarli, un pa radiso delle gole semplici, o di quelle sciupate ai mangiari raffinati, un ritor no alle manipolazioni originali, un vero museo dell'arte regionale nella cucina: le soppressate sembrano di alabastro, il taglio della porchetta crocchia sotto il coltello, e gli aromi dell'erbe necessarie a queste cose hanno l'alito delle case al tempo dei raccolti estivi. E questa non che l'introduzione alla grande s cena che Callot non ha forse veduto o non riuscito ad annotare, e che gli avrebb e dato uno di quei temi come la scena degl'impiccati o le sue folle di straccion i. Voglio dire, il viale dei polli arrosto. Da una parte e dall'altra della strada, per un buon tratto di cento metri, due f ile di rosticcieri improvvisati manovrano ciascuno quattro o cinque girarrosti;

ai lunghi schidioni sono infilati una dozzina di polli, ben gialli, e sono cinqu anta polli che si rosolano insieme sul rettangolo della brace in terra, e, tutti insieme, quasi un migliaio su tutta la strada. Il rosticciere ne regolava i movimenti con attenzione girando lentamente la ruot a che mette in movimento gli schidioni, gl'inservienti infilzavano intorno ad al tri spiedi la nuova mandata, e da una parte all'altra era tutta una sinfonia di giallo che andava dal rosso di Siena degli animali gi a puntino al giallo zaffera no di quelli da rosolare. Le braci, sotto, volatizzavano e diffondevano l'odore dell'arrosto, le donne spargevano il sale da una gran cartata, altre l'olio, e i l rosticciere badava che il fuoco li colorisse bene; e solo quando la mandata er a in ordine gridava le lodi della sua cottura, osservandone i colori con l'occhi o attento di un pittore. Le carni rosolate trascoloravano in breve per tutte le gradazioni del giallo, e bastava un attimo perch si notasse un colore troppo bruc iato e risecchito come di certi polli di cartone che si servono ai finti pranzi delle commedie. Si poteva stare un pezzo a osservare la sapienza di quella cottu ra, e le scene dei venditori allineati coi loro apparecchi e i fuochi uno accant o all'altro. Un apparecchio girava di qua, l'altro di l, tutti in un medesimo len tissimo ondeggiamento ma in diverse direzioni, e questa abbondanza era muta. A levare gli occhi si scorgeva la vallata di qua verso il fiume Ema, col suo azz urro e coi suoi grigi lontananti e divenuti pi duri e pi freddi e pi sereni a mano a mano che declinava il giorno, e da quello spettacolo, da quella sinfonia di od ori sembrava di uscire a rivedere una luce sublime. Ma la visione di quella mate ria in continua trasformazione, l'aroma di quell'arrosto, quella grassa abbondan za e insieme pulita e composta, quello scialare in cui non si vedeva un solo ubr iaco, parevano un'antica fantasia popolare. Tra questi fumi di arrosto e di vino, un uomo che girava su un carosello, dei so liti nelle fiere, pareva volare in sogno e con una leggerezza di ebbrezza. Tra p oco avremmo veduto quello straordinario viale gi alla fine dei pranzi e della fes ta, i polli divenire marrone e rinseccolirsi con la stessa tristezza di un fiore che appassisce. Proprio cos. E un senso diffuso di una festa finita, col sapore e l'odore del vino del Chianti, quel sapore vecchio, di cosa lungamente conserva ta, di rose sfiorite e di giardini autunnali. Di tutti quei polli non rimanevano alla fine che le viscere e le rigaglie in grandi ceste, le teste con le lor var ie penne come dipinte da un pennellino sottile in una stampa chinese. Le donne o ra tuffavano le mani in quei resti lubrici e rossi per portarli a qualche mercat ino di citt, e sembravano vecchi uguri, o profetesse che scrutavano la sorte sulle viscere degli animali. C'era un intero edilizio sgombrato in tutti i piani; in tutte le stanze, apparta mento per appartamento, c'era gente che mangiava. Nei corridoi i contabili segna vano le portate su grandi fogli, ogni angolo della casa era occupato da una foll a gi seria all'ultimo bicchiere. Dall'alto della terrazza, anch'essa piena di gen te, si scorgeva per ogni spiazzo del paese gente seduta a tavola; il rumore diff uso degli organetti e delle chitarre dei cantori ambulanti si mescolava al tinti nnio delle stoviglie. Pi oltre il dilungarsi dei campi e dei colli della Greve, q ualche vecchio castello tra i vapori sfolgoranti lontano, e ancora i cipressi de i casolari e dei cancelli che guardavano esclamando verso di noi. Cominciava la sera, gi fredda; accanto ai bicchieri vuoti i brividi dell'autunno e quelli del vino si confondevano in uno; la collina delle Sante Marie si levava davanti a noi investita dal sole avvinato. Sotto quei pini, tra lo smeraldo dei prati autunnali, si scorgeva la folla seduta a mangiare; poi il sottobosco non fu che uno svolazzare di carte in cui erano state involtate le cene, e la folla si mosse andando verso la cima del monte a visitare il cimitero che lo domina. A nche questo, dopo la festa, di qual vecchio rito faceva parte? A un certo punto vidi una figura di donna vestita di rosso in un prato sulla chi na del colle, e intorno a lei mi pareva che tutti girassero in un'armonia, in cu i ella rappresentasse il simbolo di una qualche virt. A lei si aggiunse pi tardi u na vestita di verde, e per poco stettero sole e ferme in quel ritmo di uomini ch e scendevano e salivano, coi movimenti leggiadri che hanno gli uomini veduti da lontano in folla. Esse erano forse due Virt, le due donne, capitate l da un affres co.

I PESCATORI DELL'ARGENTARO Il signor Loffredo era il proprietario del motopeschereccio Montargentaro, il pi reputato peschereccio appunto dell'Argentaro, ch'egli aveva fatto costruire seco ndo le sue idee e i suoi gusti, e sovratutto secondo le sue esperienze, avendo n avigato per venticinque anni a bordo d'un veliero, conosciuto i mari fino al Lev ante e alla Spagna. "Lo avete visto il Montargentaro? Si riconosce subito perch non somiglia a nessun altro. Quando fu varato due anni e mezzo fa, tutti dissero che sarebbe andato s ubito a fondo. Difatti un po' tozzo. Ma c' la sua ragione." " il miglior motopeschereccio di Santo Stefano", disse il padrone de La Pace, che non aveva ancora parlato. "Quanto ha portato ieri sera?" "Diciotto." "Diciotto quintali, avete inteso? Tiene il primato di questi posti. Ma ha un cap opesca che sa il fatto suo. uno di Port'Ercole." "Tutto l'equipaggio di Port'Ercole." "Come? Hai tutta gente di Port'Ercole?" Poi rivolto a me: "Vanno lontano, in posti che nessuno conosce. E non dicono dov e vanno. Anche col tempo peggiore tornano a casa con un buon carico". "Gi, s' stabilita una specie di gara." Il signor Loffredo disse questo sottovoce, riflessivamente. Egli parlava del resto sempre sottovoce, con quella discrezione che propria dei marinai, la cautela, quasi il timore di guastare col pensiero q ualcosa che sta accadendo, e che dipende da elementi tanto incerti: il mare. Il signor Loffredo aggiunse: "Io non mi occupo di quello che pescano gli altri. Io non desidero altro che di cavarmela, perch ho delle spese: la nafta, sette uomini d'equipaggio, e la nave che costata centosettantacinquemila lire...". "Sborsate una sull'altra", aggiunse il padrone de La Pace. "Il pesce costa cos caro", dico io. "A Roma", disse il padrone de La Pace. "A Roma. Quanto lo pagano ai Mercati Gene rali? Di', quanto lo pagano? Una e venticinque, due lire il chilo al massimo." "Magari fossero due lire!" mormor il signor Loffredo. "Sapete quanto pesce hanno buttato come rifiuto il giorno anniversario dell'Impe ro? Quattrocento quintali. Avevano telegrafato a tutti i porti d'Italia: mandate pesce. Poi ne hanno seppellito quattrocento quintali. Il lavoro, potete pensare , di quanti pescatori." "Ma lo pagano." "Pagano? Vi comunicano che invenduto, e non pagano un soldo." "C' anche questo", disse riflessivamente il signor Loffredo. "Ma dico, potrebbero venderlo in tempo a prezzo basso. cibo, nutrimento, grazia di Dio." " lavoro, caro signore, lavoro", dice il padrone de La Pace. "Ma andatelo a dire un po' a loro." In quel momento passava traballando, riempiendo di s tutto l'abitato, sopravvanza ndo le case pi basse, l'autocarro col rimorchio del Monte Argentaro. Poi un altro , un altro ancora. Questi autocarri si muovono la sera, e i viaggiatori della li nea di Pisa li vedono sulla strada rotabile. Arrivano alle due di mattina a Roma , ripartono alle nove di mattina, sono nuovamente all'Argentaro verso le quattro . E cos tutti i giorni. Gli uomini che aiutano a scaricare sono due e dormono a b ordo. Tutti i giorni. "E del resto, i pescatori, non sono in mare tutti i giorni?" "Tutti i giorni?" "Trecento giorni dell'anno. La notte sul sabato, e la domenica fino a sera stann o a casa. Ora l'uso che non rimangono a casa se non quando il mare proprio catti vo. Quest'anno sono rimasti a casa quando?" "Un giorno su trecento", disse il signor Loffredo. "Ma quel giorno non si poteva uscire." "E ormai fanno doppino due volte la settimana. Sapete che cos' un doppino? Quando i marinai stanno in mare due giorni e due notti. Ieri l'altro tornarono dopo tr e giorni. Quanti quintali, di'?" "Quindici. Soltanto quindici. Ma non erano buone giornate." "Vorrei imbarcarmi per un doppino", dissi io.

"Va bene", disse il signor Loffredo. "Quando volete." Gli autocarri avevano svoltato la punta tra un nuvolo di polvere. Poi pi tardi la motocicletta di qualcuno che portava un carico al mercato di qualche citt vicina . La notte di questa vita occulta che reca viveri verso le citt assediate dai bis ogni, verso i luoghi che comperano facilmente, che non sanno ormai cos' la vita, tanto essa divenuta complessa, enorme, separata. Ero distante appena centocinqua nta chilometri da Roma, e mi trovavo in un mondo estremamente lontano. La notte di quelli che tentano dalle spiagge pi remote di raggiungere le citt, i mercati; q ualcuno parte dalla costa dell'Adriatico, dalle Marche, col suo carico di pesca su un rimorchio, guidando la motocicletta dopo aver guidato il suo motore in mar e; ha fatto una notte di pesca e un'altra la far in viaggio. Per istrada incrocia altra gente, quelli che portano pane e uova, mentre qualcuno, con la sua scatol a di zinco, in un vagone di terza classe, porta pochi chili di triglie o di sogl iole. La pesca sull'Adriatico difficile, il mare ha pochi approdi; d'inverno, pe r accostarsi alla terra, bisogna lavorare seminudi in acqua. Per via di questo l avoro ingrato una colonia intera di marchigiani ha abbandonato quelle rive, e ri salendo il mare, per tutto lo stivale, superati Messina e il golfo di Salerno, s i stabilita a Bocca di Magra. Dove la terra difficile, la gente cerca il mare. l a storia della Liguria. Ma dove c' il modo di tenersi al riparo, gli uomini hanno armato barche, paranze, motopescherecci, e tentano tutti i giorni le fortune del mare. Molti sono spint i dalle cattive annate, e da quel flagello che ha distrutto in pochi anni molte vigne: la fillossera. Ne ha distrutte alle Cinque Terre, e i vignaiuoli sono sta ti costretti a mettersi in mare, mentre le donne rimaste a casa, e i vecchi, rip iantano la vite giovane filo per filo, secondo i pochi soldi raggranellati e le economie degli uomini che navigano. Questo equivale a un disastro, a un terremot o, vedere la vigna spogliarsi, intisichire, dopo anni di selezione, per cui la v ite s'era adattata al luogo, aveva formato una specie famosa per tutte le contra de dei vignaiuoli. Anche qui all'Argentalo ho trovato la stessa condizione. Scalare un colle di roc cia, disporlo a terrazze di pietra squadrata, trasportare per la costruzione del le fabbriche la troppa pietra che rimane, portare lass la terra a sacchi, colmare la fossa, e su questa piantare la vite. Tra le arti che gli uomini dell'Argenta ro sanno esercitare questa della pietra. La pietra a suo modo una ricchezza. Ric ordo per esempio che una materia prima che manca alla Russia la pietra. Non ve n ' fino agli Urali, o al Caucaso, e perci le strade sono difficili da costruire, di fficili da colmare i binari dei treni; perci quasi tutta la contrada fatta di abi tazioni di legno. C' penuria di pietra come da noi c' mancanza di terra. Il proble ma delle strade in Russia un problema secolare da cui dipendono molte cose nella pace e nella guerra. Qui invece la pietra troppa, bisogna far saltare i massi c on le mine, liberare la poca terra che buona, arida, bionda e fertile. Intanto l a popolazione ai piedi delle montagne si moltiplica incredibilmente, e bisogna d ar da mangiare ai ragazzi. La fillossera ha portato la rovina; e niente pi crudo di questi bastioni di pietra costruiti in modo ciclopico, che ricorda architettu re di mondi primitivi. Sul lavoro dei padri messo su con le mani aride dei cavat ori di pietra, con le mani intirizzite e dure che non riescono pi a stringere un' altra mano, tanto sono abituate a una fatica troppo pesante, su questo monumento della ostinazione italiana, qualche superstite vi pianta qualche ortaggio: pise lli, baccelli, carciofi. Ma il vino prezioso non spunta pi. Questo dramma si svol ge silenziosamente; non ha nulla di pittoresco per impressionare gli uomini. Bis ogna chiedere a qualche altro elemento le risorse per vivere e per ripiantare la vite, riprender la lotta che gi tanto acerba quando la vite viva e sana. Conosco gente ostinata, paziente, forte d'una forza quasi naturale. Questa dell' Argentaro una, un capitolo fra i tanti dell'epica del lavoro italiano. Con un co s bel nome, ricco, sonoro e lucente, l'Argentare! Sul magro promontorio che dove c' un riparo o un muricciolo o un poco d'acqua matura buono l'arancio, cento migl ia a settentrione di Roma, che dove si pu si pianta un orto, una vigna; stretto m a folto, faticoso e duro ma pulito, sempre in lotta ma tutti gli anni pieno di n uovi figli come un mai smesso atto di fede nel domani, la vita piena di gente ch e passa, che viaggia, che va peregrinando in cerca del guadagno della giornata.

Se fosse in una qualunque altra nazione, sarebbe spopolato, disperato, brullo e selvaggio. Poich in Italia, e in Toscana, e in Maremma, d'anno in anno strappa qu alcosa alla natura. Di mese in mese si leva una casa nuova, e di anno in anno sc ende in mare una nuova flottiglia di naviganti. Quelli che non possono, aspettan o, corrono dove si possa ricavare qualcosa dalla natura e dagli uomini. Alle spalle di questo promontorio di cui i viaggiatori possono vedere il profilo passando davanti alla laguna di Orbetello, steso in mare come un satellite dell 'Elba vicina, della Corsica e della Sardegna lontane, v' la grande distesa della Maremma. A piedi, all'alba, gente va verso i fiumi dolci, le rive sabbiose dove la furia invernale ha trascinato i tronchi degli alberi, buoni per fare un po' d i fuoco, o dove le telline sono ficcate nella sabbia. Tornano la sera. I ragazzi si fermano alle case per chiedere un sorso d'acqua da bere, e domandano se vole te comperare telline. Hanno gi visi d'uomini, pronti a tutto, sono in boccio l'uo mo destinato a una delle vite pi faticate del mondo. Dalle case piene di figli ve ngono a sapere dove passato qualcosa che sia il loro bene, dove stato fatto un r accolto la cui spigolatura promette di guadagnare la giornata. Un simile impiego dei giorni, la corsa verso tutto quello che buono e utile, d un colore a tutto i l paesaggio, alla gente che va in frotta sulle biciclette, ai ragazzi e ai vecch i che vanno a piedi, alle ragazze sedute in groppa agli asini, dietro alle spall e del padre. Hanno un dialetto toscano in cui qualche costrutto napoletano, qual che accento ligure, ricordano la grande comunanza del mare. La giornata la preoccupazione esatta di tutti, la misura per dividere il tempo e per calcolare la vita. E bisogna dire che, lungi dal dare l'idea della povert, t utto quanto fa questo pugno d'uomini aggrappato alla roccia riporta alla mente u na saggia amministrazione, una ristrettezza previdente e di tipo familiare. Trio nfante, dopo anni di lavoro, spigolatura, pesca, navigazione, un individuo ripia nta una fila di viti sul pi alto terrazzo di pietra. La pietra del terrazzo esatt a, a piombo, liscia come un muro. Ancora uno sforzo. Quelli dell'Argentaro hanno armato una trentina di motopescherecci, oltre alle p aranze. Veramente sono famosi per la navigazione a vela; questo sarebbe il loro mestiere dopo quello di vignaiuoli e di agricoltori. "Per la pesca", mi disse Sabatino Ferdinando, il capopesca del Montargentaro, "p er la pesca bisogna che lascino fare a noi di Port'Ercole. Loro sono navigatori a vela da togliercisi il cappello. Ci si nasce a queste cose. Ma noi di Port'Erc ole siamo pescatori dall'et di cinque anni. Ci misero in barca invece di mandarci a scuola. Sapete che c'? Da quando siamo noi qui s' stabilita una gara. Che ci si pu fare? Facciamo la gara." Sabatino Ferdinando entrato per ultimo sotto il castello di poppa dove sono racc olti, intorno al tavolo, nove pescatori. Questo l'unico motopeschereccio che pos sieda un tavolo, e ha otto cuccette col materasso, la coperta, il salvagente, qu attro da una parte e quattro dall'altra. Uno dei pescatori sta riempiendo un bic chiere e lo passa volta a volta agli uomini che stanno intorno, seduti sulle pan che, o in piedi. "Eccoli: tutti portercolesi. Quando sono in porto si fanno visita e passano il t empo insieme." I portercolesi ridono tra loro, seguitando il filo di un discorso che io non int endo; una trama tessuta giorno per giorno in una vita comune e in cui difficile entrare. A tratti ridono. Ognuno che beve alza il bicchiere e mi dice: "Salute". Posa il bicchiere vuoto sul tavolo. "E voi non bevete?" Il capobarca Sabatino Ferdinando non beve: "Di questo io, quando sono a terra, n e vuoto un fiasco per pasto. Ma in mare non ne tocco". Il pi giovane della compagnia prende il fiasco smezzato e ci versa dell'acqua. De v'essere questa un'operazione consueta. Tutti si fanno attenti a un tale atto, c he di quelli che preparano le partenze, il principio d'un lavoro, di una lotta, d'una marcia in guerra. "Questo pi giovane il cuoco. A bordo il pi giovane fa da mangiare. Sono tutti pare nti. Sei soltanto di questi sono i miei marinai, gli altri tre non c'entrano. La vorano a bordo d'un altro peschereccio." Difatti i tre uscivano, salutavano allegri, con un ultimo frizzo. una di quelle

compagnie tanto affiatate da lunghi discorsi che basta un'inflessione di voce pe r farli ridere. Ridono d'un riso naturale, sano, nuovo, un'espressione non consu mata da convenienze. I tre ospiti uscirono, e gi col passo di chi va al lavoro. I l pi giovane aveva finito di annacquare il vino, e lo pos in una cuccetta vuota, t ra altri fiaschi e bottiglie, con una cura simile a quella di chi bada alle facc ende di casa, e questo atteggiamento faceva risaltare quanto di virile e di gi us ato alla fatica era in lui. "Sono tutti cugini e parenti", mi disse il capopesca, Sabatino. "Lui solo", e m' indic il pi giovane, "non lo ; ma lo diverr: fidanzato d'una mia nipote." Questo legame promesso, era come se ammettesse in un'intimit solidale qualcuno ch e ne fosse fuori indebitamente. Tutti gli altri erano sposati; donne della stess a famiglia e dello stesso sangue pensavano in quel momento ai sei giovani. Uno e ra un poco pi avanti negli anni, e gi con un viso pi forte e solcato. Ma gli altri come se ancora il rischio e i pericoli li avessero sfiorati al primo vento della giovent. Si capiva che tutti e sei ubbidivano a un'occhiata di Sabatino per il s uo prestigio e per un diritto di parentela. Sabatino aveva ancora la giacca sul braccio, il petto nudo, i pantaloni con la cinghia stretta sotto il ventre, e vo lgeva a me un viso stranamente infantile, paffuto. Era uno di quei tipi popolari italiani che si riconoscono come d'una famiglia; indurito dalla vita, ma, per v ia di un certo naso all'ins, aveva qualcosa di ridente e di giovanile, come succe de di vedere in certe figure etrusche, o mediterranee. Non doveva aver pi di quar ant'anni. Si stacc da noi e cerc in una custodia di legno, fissata tra una cuccetta e l'altra, una vecchia sveglia di quelle che si preme u n bottone per interrompere il suono del campanello. L'agit un poco per vedere se camminava. Lesse l'ora. Erano le undici e mezzo. Pos la sveglia. E mentre egli to rnava a quella parete, mi accorsi di un Crocifisso fissato sulla travata di fond o, un Crocifisso di ottone nella luce rosa della lampadina appesa nel mezzo. Il lavoro, il dolore, la fatica, il sacrificio. I sei giovani andarono, si disperse ro alle loro faccende. Sabatino con un gesto consueto leg con una funicella, alla gamba del tavolo, la panca da cui si era levato. Il motore cominci ad andare. Ne l cielo si vedeva l'albero della nave passare come se indicasse qualche stella c he brillava pallida tra la coltre dello scirocco. Brill il faro alla svolta, e d' un tratto fummo nel mare aperto, col rumore del motore che si attutiva nell'imme nsit e faceva pensare a quando si sente palpitare di lontano, da una casa sicura, il viaggio dei naviganti. Sette uomini in un'imbarcazione che affronta quotidianamente la sorte, quotidian amente si propongono questo problema: se il mare dar a loro i quindici o venti qu intali che occorrono per strappare la vita e per dare da mangiare ai figli e all a madre di questi. Perch un pescatore ha un minimo di paga sulle dieci lire, e po i cinque lire per ogni tonnellata di pesce che si riesce a tirare a bordo. Il ca popesca il doppio. Mi trovavo nel mezzo della pi semplice espressione della vita moderna: l'ansia del lavoro quotidiano, che termina ogni ventiquattr'ore e si ri nnova per altre ventiquattr'ore: l'ansia di domani, dei lavori e delle opere che vanno terminati in un breve giro di ore. Nella stiva c'era il ghiaccio, e le ca ssette che aspettavano d'essere riempite; sette uomini cercavano nel mare grande l'incognita della fortuna uguale per trecento giorni dell'anno. "Figuratevi", mi disse il capopesca Sabatino, "che l'altro giorno, quando voi do vevate venire con noi, tirammo su le reti con un gran peso. Erano blocchi di asf alto di qualche nave che s'era disfatta del carico, nella tempesta. Quella volta il mare era discreto. Oggi non saprei dire. Il tempo non ha ancora deciso quell o che vuol fare." Si mise a guardare il cielo dal finestrino della gabbia del timone, e si arrotol ava una sigaretta da un pacchetto di trinciato che poco prima avevo veduto sul t avolo, a cui, come a un bene comune, avevano attinto gli uomini dell'equipaggio. Il cielo non prometteva nulla di buono: era gonfio e livido. E non avevano quasi importanza i quindici o venti quintali di pesca. Contava la gara, il punto d'onore, l'idea che in quell'ora i trenta motopescherecci dell'Ar gentaro erano in mare, cercavano la profondit propizia alle loro reti, e gi calcol avano la cifra annunziata all'arrivo in porto. Appoggiato al finestrino, e tenen do docilmente il timone di quercia, lucido come un legno prezioso, il capopesca

Sabatino mi raccontava che egli aveva il suo posto sul mare, e si trattava di ra ggiungerlo in tempo per buttare le reti. Avevano tentato di tenergli dietro per scoprire dove fosse quel luogo. Ma i pescatori non dicono mai dove sono stati. D 'altra parte, il Mortargentaro aveva un motore di centoventi cavalli, poteva sta re in mare molti giorni, e prevenire le sorprese dei venti. "Da come si mette il cielo mi pare che venga vento di terra. Bisogna andare dove si possa pescare al riparo. Poi bisogna tornare indietro pi che in fretta, e pre cedere i mutamenti del vento, altrimenti ci taglia la strada e bisogna spingere molto pi in su." Sabatino, in trenta anni di questa vita, s' fatto anche un suo piano; come tutti coloro i quali conoscono un lavoro intimamente, ha la sua riforma da adottare ch iss quando, ma una riforma: "Noi ora andiamo anche cento o centoventi miglia lont ano. Domani il vento ci batte magari di prua, e s'impiega il doppio per tornare indietro. A me, per esempio, da quello che prevedo, farebbe comodo, quando sar do ve dico io, andare a scaricare il pesce a Livorno; avrei pi tempo per pescare e n on dovrei perdere sei o sette ore per trovarmi sottovento. Bisognerebbe che i pe scatori potessero indifferentemente portare la pesca nel porto che hanno pi vicin o. Invece devo tornare di dove sono partito. Io impiego almeno dodici ore tra vi aggio di andata e viaggio di ritorno, in cui non lavoro". Parla esattamente; con un gomito sul finestrino, il pugno sulla guancia, una man o al timone. "Noi adesso spostiamo di un vento e mezzo", aggiunge Sabatino. Egli divide l'uni verso in otto correnti, e taglia ognuna di queste correnti con precisione come s e tagliasse il pane. Il motore batte esatto e uguale. "Possiamo andare a dormire", dice Sabatino legando con una fune il timone a un u ncino. "Domani all'alba ci sveglieremo. Andiamo tutti a dormire. A volte si addo rmenta anche il motorista appoggiato alla macchina. Ma per poco. Succede. La nav e va avanti da s. Voi soffrite il mal di mare? All'aspetto si direbbe che sopport iate il mare. Guardate che noi non torniamo indietro e non facciamo scalo in nes sun porto. Alle quattro vi faccio svegliare io." Sabatino m'ha ceduto la sua cuccetta, la pi vicina al centro della nave e al gabb iotto del timone. Stando sdraiato vedo sopra di me passare lenta la catena del t imone, dalla cassetta che la raccoglie. Sotto la garritta una grande giara di cr eta con l'acqua dolce oscilla appena. coperta con un'asse di legno con sopra un pentolino per attingere. Sabatino, prima di coricarsi, mi dice: "Se avete qualch e bisogno, sporgetevi a poppa, ma tenetevi bene stretto alle sartie". Al lume de lla lampada, accesa nel mezzo, vedo i marinai ciascuno nella sua cuccetta; siamo otto qui dentro, in questi scomparti. Nella notte si sente appena il fasciame d ella nave crocchiare, come se si assestasse. Di tanto in tanto, dove poggio le s palle si sente l'onda battere come la schiena di un grosso cetaceo. Qui dentro s ono in mezzo all'odore pi profondo di bordo. Vestito coi pantaloni lunghi, la val igetta che mi fa da schermo contro la luce, mi tiro addosso la coperta. Sento di etro a me un salvagente che attutisce gli urti contro la parete di legno. E poi qua e l, sparsi, vari oggetti fra cui riconosco una pipa. La coperta, e il cuscin o cui Sabatino ha cambiato la fodera, sono impregnati dell'odore forte e umano d ella vita di mare, odore di equipaggio, di bordo, l'odore acerrimo di questa fat ica. Dal boccaporto arriva l'alito profondo del mare come una ventata. Vedo osci llare l'alberatura nel cielo smorto. C' un istinto sveglio nel sonno; e io mi ero addormentato sui rumori che si accor davano insieme, nuovi, ma ormai conosciuti e fidati; il mare, lo scricchiolio de lla nave, il motore; rumori elementari, che avevano un ritmo costante, e alla fine divenuti ragionevoli: ma poi un altro rumore, pieno di vita, di energi a e di volont, bast a farmi saltare sulla cuccetta; e questo era il picchiare d'un piede calzato che batteva due o tre volte sul palchetto della garritta. Stando sdraiato vedevo che al posto del timoniere due gambe coperte da un paio di panta loni turchini erano ritte e reggevano un uomo di cui non vedevo il viso; ma che non era Sabatino. Sabatino invece si levava ora dalla sua cuccetta, e correva ve rso il timone, poich quel battere del piede era tutto quanto bastava per svegliar lo e chiamarlo al suo posto. Un marinaio s'era sostituito a lui durante la rotta tranquilla della notte, fedele alla consegna, e che sapeva di dover svegliare i

l suo capo a una certa ora. Nello stesso tempo, di sotto il tavolino, nel mezzo del nostro dormitorio, s'era messo a fumare un fornello, e l'odore del caff si me scol a quello della carbonella e a quello della nafta, nuovo ed energico. Raggiunsi Sabatino presso il timone. Dal finestrino si vedeva, a perdita d'occhi o, il mare; senza un segno, senza un punto di riferimento, limitato da ogni part e da una fitta nebbia opaca. Sabatino disse: "Non vedo dove siamo. Abbiamo passa to un vento e mezzo. Se fossimo dove ci trovavamo stanotte non potremmo regger i l mare. Laggi dev'essere un inferno. Vento di terra. Ora si capisce quello che vu ol fare il vento. Ma dobbiamo essere sul rovescio dell'Elba". Il mare era grigio, e si muoveva pigramente, sotto una raffica di vento che lo s batteva come si sbatte un liquido in un secchio. A un certo punto Sabatino ricon obbe quasi uno di questi paesaggi, perch disse: "Pronti". I marinai si addensarono verso poppa, la rete scivol sul rullo mobile di legno ch iaro e si sprofond nel mare. Intanto i cavi di acciaio arrotolati verso prua si s ciolsero e cominciarono a scendere per centinaia di metri in mare. Qui il mare e ra profondo cinquecento metri, e i cavi dovevano essere mollati per tre volte ta nto, millecinquecento metri di cavi di acciaio, che dovevano permettere alla ret e di trascinarsi sul fondo raccattando tutto quello che trovava, strigliando il fondo dell'abisso, spazzandolo, sommovendolo, tirando su ogni cosa. Ora la nave pareva tenuta alla briglia da questi millecinquecento metri di funi e dall'acqua che doveva a quell'ora gonfiare il sacco e tenerlo aperto sulla vita cieca dell a profondit; difatti avanzava, ma lentamente, a una velocit di non pi che tre chilo metri l'ora. E intanto il marinaio pi giovane veniva avanti portando certe grosse tazze in cui, sotto una larga fetta di pane messa a coperchio, fumava il buon c aff nero. "Come avete trovato questo posto?" chiesi a Sabatino come se fossimo arrivati in un luogo riconoscibile, sicuro, abitabile. "Guardando la carta!" rispose. "Cinquanta miglia pi su", aggiunse, "c' il pericolo di impigliare nelle navi affondate. Ci sono sette sottomarini colati a picco du rante la guerra. E poi velieri, alberature che impicciano, e che possono costare caro, quattromila lire tra reti e cavi. Non vorrei tornare a casa con questo be l guadagno." La nave andava avanti come un cavallo che morde il freno, e si sentiva che qualc osa ci imbrigliava alle profondit. Il vento la sbatteva pi forte trovando resisten za; le onde cominciarono a levarsi a ventaglio verso poppa. Dico che non c'era n essuno in mare. Ma sulla scia della nave, sul gorgo dove si stava compiendo qual cosa, sperduto e grigio sorse un gabbiano che poi scomparve come se avesse dato l'annunzio della morte dei pesci. Erano giorni che piovve cenere su tutto il bac ino del Tirreno, cui segu poi un naufragio. Difatti l'aria era grigia, il sole si intravvedeva appena come di carta velina tra le nuvole, lontano si stendeva una coltre di nubi come un grande eccetera sullo spazio. Ora, mentre stavamo aspett ando che passassero i quaranta minuti per la levata delle reti, un marinaio mi v enne a dire se volevo accomodarmi a poppa. I sette marinai vi si erano radunati e, seduti in cerchio, riparavano le reti la cerate dalla pesca dei giorni passati. Col piede nudo e teso, di cui il dito gro sso s'era fatto piatto e largo nell'esercizio continuo di puntarsi sulla tavola col mare inquieto, ognuno stendeva la rete abbottonandola a questo dito; tenevan le dita della mano sinistra infilate nei buchi della rete, e con la destra pass avano lo spago con una specie di spola. Su questa terrazza costituita dalla poppa, la scena aveva qualcosa di familiare. Per me era stesa una stuoia perch mi potessi sdraiare; il mare dava colpi forti, e bisognava tenere l'equilibrio stando sull'asse di tutto il corpo; per me alme no, perch questi marinai stavano a loro agio, spiando di quando in quando con occ hio distratto i flutti, e le onde che si levavano ora da una parte ora dall'altr a come apparizioni che prendessero strani aspetti, ora di stracci, ora di veli, di animali curiosi, e si sentiva lo scroscio mentre ricadevano o si rompevano. Non so quanto dur questa occupazione. Io non mi reggevo n sdraiato n seduto e dovet ti riparare presso la gabbia del timone mentre il mare diventava pi forte. Il ven to era caduto, e l'acqua si smuoveva ora enorme e lenta, come se uscisse da una diga. Sdraiato nella cuccetta, vedevo i pantaloni da soldato di Sabatino, e indo

vinavo ogni suo gesto e atteggiamento. Egli regolava il timone come avrebbe guid ato un cavallo in un maneggio; la barca era come un enorme animale che volteggia sse sul luogo d'una preda. Si saltava; poi a un tratto la nave si impigli come se toccasse l'acqua ormai sol tanto con la poppa. Gli argani si misero a girare, le funi si arrotolarono di nu ovo. "Se volete vedere", disse Sabatino, "andate in coperta." Raggiunsi la coper ta traballando. Il gruppo dei marinai s'era levato in piedi a poppa, il motore a rrotolava ora i millecinquecento metri di funi che aveva mollato. Mi tenevo alle sartie quasi appeso tra gli sbandamenti della nave che, vincendo la resistenza delle onde, tirava su il carico. E nello stesso momento, spuntato dal nulla, uno stormo di una cinquantina di gabbiani venne avanti da poppa come una raggiera, gridando. Non guardavo e non vedevo che il cielo, come per un'apparizione. Un ma rinaio aveva fatto scorrere la rete su un argano che si sporgeva, e portava da t ribordo, come un braccio gigantesco, il sacco chiuso della rete. Questa rete rim ase un momento sospesa nel cielo, e da qualche rottura si vedevano spenzolare i tentacoli viscidi di qualche piovra. Ma niente altro. L'acqua colava come un umo re vitale. Ecco il sacco sugli otto uomini adunati. Uno di loro sleg il nodo che aveva fatto, mentre la rete si abbassava. Come colpito da una lama, il sacco si sciolse. Stavo appeso, come ho detto, alle sartie, sotto i colpi del mare che in quello s quilibrio del peso diventavano enormi, e come decisi a demolire tutto. E cos appe so mi sentivo levitare. Il sacco si sciolse, si apr come un velario, e una pioggi a che mi parve rosa come un getto di fiori, bianca come uno scrigno di perle, e turchina come un mucchio d'armi, si rovesci sul ponte. Il mucchio lubrico, mostru oso dei pesci si accumul e si sparse; alcune code vibravano, e tutto palpitava co me nato alla creazione. Quel viluppo mi pareva incredibilmente nudo. Su di esso un enorme granchio, con le pinze lunghe quanto un braccio, una testa grande come il petto d'un uomo, si mise stupidamente a minacciare con le pinze che portava come due altri animali attaccati a lui. Nel mucchio palpitavano, accanto ai merl uzzi, ai palombi, ai dentici, alle sogliole, alle lucerne, agli scorfani, certi mostri ciechi, che l per l, mentre tutto mi traballava intorno, e la nave riprende va con violenza e con uno strappo vittorioso il suo viaggio, mi parvero riprodur re, in un mondo abissale cieco e lento, forme umane. Uno palpitava, con un mante llo che pareva di panno turchino intorno a un corpo da uccello; un altro aveva l a testa a martello, e un altro sembrava un topo. "Sono appena cinque quintali", mi disse Sabatino. "Andiamo avanti e torniamo qui fra cinque ore. Quando le cose si mettono a questo modo un affare serio. Si per de molto tempo." L'imbarcazione, sciolta dalla briglia della lunga rete, si mise ad andare pi lest a. Sabatino, che era sceso a considerare la pesca, torn al timone e punt nuovament e verso nord. I marinai seduti a poppa facevano lo scarto dei pesci, disponendo ciascuna qualit nella sua cassetta, e riponendoli poi nella stiva tra il ghiaccio . Dopo aver inseguito un tratto la nave, lo stormo dei gabbiani si posarono l'un o dopo l'altro sulla scia dove galleggiava qualche relitto di pesci sventrati e mozzi. "Vado pi avanti", disse Sabatino, "e torno pi tardi a buttare la rete sullo stesso posto. Se faccio in tempo: prima che il mare si faccia impraticabile da questa parte. Devo saltare ancora mezzo vento." Il giglio araldico della bussola segnava fisso il nord; ma la bussola oscillava forte sulla sua sospensione, e la bolla d'acqua sul quadrante si stravolgeva vio lentamente. Ora che il vento accennava a cadere, il mare, come liberato da un fr eno che lo aveva piegato in una sola direzione, rigurgitava e si sommoveva; le o nde s'incontravano a grandi blocchi spalancando abissi per ricolmarli e riaprirl i. A un tratto, come spuntate dal nulla, si profilarono a sinistra grandi montag ne in una fila di cime uguali; erano soffuse di bruma alla base, mentre le sommi t si levavano in un cielo ugualmente grigio e brumoso. "La Corsica!" disse Sabatino. "Quella la Serra della Corsica. Non ci si pu avvici nare a pi di cinque miglia dalla costa. I gendarmi sequestrano le navi straniere che vi capitano, arrestano i pescatori, e il riscatto dell'imbarcazione costa mo lte migliaia di lire. Uno che io conosco ci capit una volta. Per sfuggire all'arr

esto si butt coi suoi uomini in una barchetta e approd alla Capraia, mentre il mot opeschereccio andava alla deriva. Non aveva denari per riscattarlo e lo lasci ai gendarmi." Sabatino stette un poco a contemplare le grandi e serene montagne, poi aggiunse: "Nelle sere chiare si vedono i paesi sulle spiagge, si distinguono le case. Si vedono i fanali e i fasci di luce delle automobili". Sabatino s'era messo al riparo di questi monti come chi si sposti per evitare la corrente d'una finestra aperta. La nave andava avanti per quella solitudine con lo stesso stupore di chi la solc per primo. Laggi, verso la Capraia, era, mi diss e Sabatino, il cimitero dei sottomarini, e anche qui intorno c'erano velieri, so tto di noi, nel fondo del mare. Come sapeva tutte queste cose Sabatino? Egli reg olava la sua rotta sulla bussola e sulla vecchia sveglia. Gli dissi: "La sera, alla radio, si legge il bollettino del tempo a uso dei navi ganti". Rispose: "Certo, sarebbe comodo". Ma a bordo tutto era elementare, la sveglia, i giacigli e il vasellame. Per quan to toccasse il porto tre volte la settimana, e per un giorno la settimana rimane sse ormeggiata, la nave costituiva un'altra dimensione di vita, con i suoi ogget ti e le sue consuetudini. Anche Sabatino si regolava secondo il suo istinto e l'esp erienza, mentre seralmente un uomo, con l'aiuto della scienza, traeva il suo oro scopo esatto e senza pena sul tempo e lo stato del mare. Sabatino in questo mome nto fuggiva la bufera spingendosi verso nord, e si prendeva cinque o sei ore di sosta prima di tornare l dove sapeva di dover pescare. Mi ripet soltanto che non s arebbe tornato indietro prima del giorno e dell'ora fissati. La nave torn sulla sua rotta cercando il luogo che conosceva Sabatino. Andando av anti somigliava a chi, in una grande folla, si mette controcorrente: il mare ven iva in su come se premesse verso un punto in cui le acque erano pi calme. Avevamo avuto una rotta sempre su un ritmo dell'imbarcazione che oscillava sul suo asse ; ma ora la nave cominci a picchiare di prua, si sprofondava e si risollevava. Po i, come se le avessero dato un gran pugno da sotto, fece un salto, e io mi senti i scagliato contro il soffitto della garritta dove era il limone. Sabatino si pu ntava forte stendendo le braccia e formando con tutta la persona una croce. Non avevo provato mai un'impressione simile, ma credo di poterla significare assomig liando me in quel momento a una stella marina, con le cinque punte formate dalle estremit e dalla testa: avrei potuto poggiare, mi parve, sull'una e sull'altra d i queste cinque punte indifferentemente, e il centro della mia vita s'era trasfe rito stranamente nel mezzo, nello stomaco. "Tenetevi fermo", disse Sabatino, "ma non fate troppa forza, altrimenti arrivate a stasera coi polsi rotti." Si accor se dal mio viso che stavo male. Scesi per la scaletta nel ridotto delle cuccette . Il marinaio pi giovane stava accendendo il fuoco sotto il fornello del cacciucco, e buttava nella pentola certi pesci spellati che avevo visto la sera avanti in un secchio. Lev gli occhi e mi disse: "State male?". Io cercavo di reggermi in eq uilibrio sul plancito, credendo che dopo due o tre balzi avrei potuto stabilirne i movimenti e regolare su di essi i miei. Ma mi sentii preda d'una forza troppo grande, e le mie facolt di orientamento mi sfuggivano. Dopo qualche secondo che mi parve lunghissimo, mi accorsi che un modo per tenersi in un certo equilibrio era di andare avanti a balzelloni, piegato sulle ginocchia, al modo dei canguri. Sabatino, piegandosi sui pantaloni da soldato, mi diceva: "Tenetevi forte, altr imenti vi fate male". Io dissi in un ridicolo barlume di convenienza: "Mi dispia ce. Per quanto abbia navigato non ho mai sentito un mare simile. Ma non vi preoc cupate di me". Il cuciniere disse: "Eh, con questi mari si sta male anche noi". Alla fine riuscii a scivolare dentro la cuccetta; mi ritrovai con le spalle allo scafo, dove avevo sentito battere l'onda la notte prima; ma ora il fasciame non scricchiolava pi; era un blocco compatto, quasi che asse per asse tutta quella m ateria inanimata si fosse rinsaldata al modo dei blocchi umani contro il pericol o. "Voi mangiate?" mi chiese il cuciniere. Risposi di no. Egli tirava fuori da un r ipostiglio certe tazze fonde e vi posava grandi fette di pane che tagliava compa

tte e sottili da una pagnotta. Vi vers la zuppa e ne port una prima a Sabatino che stava al timone, un'altra, a giudicare dal tempo che stette assente, al motoris ta; poi tir fuori una grande zuppiera con due manici, la riemp con quanto era rima sto nella pentola e la pos sulla tavola, fermandola con una mano. Un marinaio che entrava allora prese una funicella, l'annod a un manico della zuppiera, la pass s otto l'asse del tavolo, e assicur poi l'altro capo all'altro manico. La zuppiera, legata nel mezzo della tavola, raccolse intorno a s gli altri cinque uomini dell 'equipaggio. Mangiavano allungando la mano e il cucchiaio ordinatamente, senza a ver l'aria di farsi posto e di cedersi qualche cosa o di contendersela: c'era un a disciplina e una giustizia in ogni loro atto, e una reciproca premura troppo n aturale per sembrare affettuosa. L'odore di quel pasto era molto buono. "Peccato ", dissi, "che io non posso saggiare di codesto buon piatto. Chiss che cosa faran no gli altri motopescherecci con questo tempo!" Una voce replic: "Non tornano ind ietro. Nessuno torna indietro". A quell'ora, pensavo, in una giornata come quella, qualche centinaio d'uomini st avano in mare, aspettando il solo momento che contava nella loro vita, quello in cui, giunti al porto e scendendo dall'imbarcazione, avrebbero dichiarato la cif ra dei quintali pescati. "Non si torna neppure se il mare peggio di cos. Molti hanno fatto naufragio pur d i non tornare", disse il marinaio lavando i piatti con diligenza in un secchio. L'onda si mise a spazzare con un rumore di pioggia uguale il ponte, scrosciava s ul castello di prua, e a un tratto mi pareva di sentire che l'elica non toccava l'acqua e che il motore batteva a vuoto. Stando sdraiato, vidi che al posto del timoniere si trovavano ora due persone, d ue paia di gambe, quattro braccia che facevano forza sul timone. Gli altri marin ai entrarono l'uno dopo l'altro, cavavano da un ripostiglio i pantaloni, la giac ca e il cappuccio d'incerata, e uscivano sul boccaporto. Le ondate li avvolgevan o e li trascinavano con loro; accecati e grondanti, lavoravano a mettere al sicu ro i barili della nafta in coperta e a legare e a proteggere gli oggetti che il mare s'era ostinato a strappare. Dal punto dove stavo, e ormai sbattevo senza pi forza nella scatola della cuccetta, mi pareva di viaggiare in una grande bolla d 'acqua. Nel barlume di coscienza che mi rimaneva, mentre scorgevo nello scroscio enorme e continuo i marinai legati a una fune, risentivo le parole che mi aveva detto Sabatino un certo momento, mentre stavamo al timone: "La nave fatta bene. L'armatore, quando fu costruita, per ogni chiodo ne fece pi antare due, e tutto quello che di metallo rame; e per ogni travata una doppia tr avata." Doveva essere passato molto tempo, perch la monotonia di quei rumori, ruggiti, gr ida, canti, e suoni come di sassi squillanti che si urtassero tutto intorno, for mava tutto un tempo, accorciava stranamente le ore. Aprii gli occhi e chiesi: "D ove sono i marinai?". "Eccoli", mi rispose la voce di Sabatino. Erano sdraiati, difatti, nelle loro cu ccette, con gli occhi aperti, ascoltando la traversia del mare. "E quando si pesca di nuovo?" "Abbiamo pescato." " andata bene?" "Quattro quintali, roba da nulla. Ora si va verso Montecristo, a girare il vento ." Egli parl tranquillo, i suoi uomini stavano intenti alla voce spaventosa del mare ; tutti eravamo preda di un elemento pi forte di tutte le forze umane, senza ranc ore n risentimento. "Soltanto", mi disse Sabatino, "noi non sappiamo che mare avremo da quelle parti . Non ci sar da stare allegri. Se volete, siccome passiamo dietro l'isola del Gig lio, vi sbarchiamo l. Ve lo consiglio. Ancora sedici ore di mare peggio di questo , meglio che ve le risparmiate." Ora che stavamo entrando in porto all'isola del Giglio, vedevo i marinai l'uno a ccanto all'altro aspettare di vedermi scendere. Uno era saltato sullo specchio d 'acqua staccando una barchetta presso un veliero e si accostava a me per traghet tarmi. Gli altri mi strinsero la mano l'uno dopo l'altro. Scendevo con la mia ridicola valigetta, il mio ridicolo cappello di feltro, e me

ntre ciascuno di loro mi stringeva la mano, io pensavo che in nessun altro paese del mondo, forse, un viaggiatore borghese avrebbe avuto tanta premura intorno a lui. Rivedendoli in viso uno per uno, li riconoscevo come s'erano accostati al mio giaciglio, e poi come entravano e uscivano nella bufera a testa bassa tra gl i scrosci dell'acqua. E capii che tra le altre preoccupazioni, avevano avuto anc he quella d'un estraneo che s'era voluto imbarcare e che soffriva fino a perdere la conoscenza. Sabatino mi disse l'ultima parola: "Se vedete il signor Loffredo , poich arriverete col postale prima di noi, ditegli che fino a questo momento ab biamo riempito trentasei cassette. Il resto lo faremo sotto Montecristo". La barchetta mi pos sulla riva. Il Montargentaro si allontanava. Il Giglio, sul porto, una fila di case disposta a semicerchio. Tartane e velieri sono in secco. Io sbarcavo come un naufrago, e fui la novit di quella giornata. I pescatori presso le botteghe s'informarono di me e di come ero arrivato. Conos cevano di fama l'equipaggio del Montargentaro. "Bravi pescatori", dicevano, "bra vi, ma hanno il motore, hanno la rete con gli argani, e poi hanno il caff alla ma ttina. Altro che caff, noi: quando si andava verso la costa della Sicilia, e sull e coste inospitali della Calabria; la galletta e una sarda salata era la nostra razione, al tempo della pesca a vela. Quelli sono signori. Spazzano il mare con le lunghe reti, e tra poco non ci sar pi pesce. Dovranno andare sempre pi lontano. Uno di questi motopescherecci, recentemente, fece una retata di naselli piccoli come un dito mignolo; tutti pesciolini cui non si d il tempo di crescere." "Ma", dissi io, "smovendo il fondo del mare, queste reti rivangano il nutrimento dei pesci, come chi per seminare rivolta la terra. E allora i pesci trovano cib o pi facilmente." "Anche questa una teoria", disse filosoficamente un marinaio d'una tartana, ment re l'oste mi serviva un'alice con olio e aceto e un bicchier di vino, dicendo ch e questo era un sovrano rimedio contro il mal di mare. Gli abitanti, quasi tutte donne, poich gli uomini navigavano, erano fuori dalle c ase, e pensavano alla spesa della mattina; qualcuno tornava a casa dall'aver pes cato un piattello di pesci. Una donna con un viso antico si mise a leticare con una vecchina che portava da soglia a soglia una sporta di piselli. Vendeva i pis elli a diciotto soldi il chilo. "Che vergogna, che vergogna!" diceva la donna. " Il mio figliolo su un veliero sulle coste della Sardegna; un mese. Scarica e car ica calce, cemento, mattoni; fa questo lavoro; guadagna nove, dieci lire se gli va bene, e io devo pagarti i piselli diciotto soldi il chilo." La donnina andava pi in l a sentire un'altra canzone. Le donne frugavano tra quei piselli, li facev ano scorrere tra le mani, poi lasciavano andare e rimanevano pensierose a guarda re il mare. Siccome mezzogiorno avanzava, e usciva odore di cucina da tutte le c ase, certe bambine vennero alla spicciolata in bottega a comprare una sarda sala ta. Ravvolta in un pezzo di carta gialla, la portavano nel pugno, e di tratto in tratto vi accostavano la lingua a leccare il buon sapore del sale. DALLA MONTAGNA ALLA MAREMMA "Se mi date un po' di vino - canter benin benino. Se mi date un po' di ciccia - s i far un po' pi massiccia", diceva la filastrocca. una canzoncina d'improvvisatori della Montagna Pistoiese; ed erano i poeti popolari a cantarla, che non sapevan o di lettere, e di cui qualcuno della generazione di mezzo ricorder le descrizion i dell'abate Giuliani, almeno nelle antologie di scuola. Andavano essi di porta in porta, il giorno dell'Anime del Purgatorio, d'ottobre, cantando a questo modo , e non era proprio un canto, ma un parlare ad aita voce in cadenza, come fanno pure i canzonieri francesi. Le case erano di cannicci affumicati, e la montagna pistoiese uno dei luoghi inesplorati d'Italia. Il fatto curioso che il primo parlare che si fece della montagna pistoiese fu de i linguaioli, raccoglitori della parlata spontanea come il Giuliani, e vocabolar isti come il prof. Policarpo Petrocchi, autore del famoso vocabolario italiano, un bravo figliolo che conservava il guardaroba della sua mamma che nessuno dovev a toccare. Veramente il Petrocchi era nato a Castello, una borgata della montagn a. Conservatore in fatto di lingua, al punto che il suo vocabolario non registra i modi neppur di Firenze, ma quelli di l d'Arno, fra i quali molti ripassando il Ponte non hanno pi cittadinanza di qua, il Petrocchi fu invece progressista per quanto riguarda la sua montagna. "Non vogliamo case affumicate. Vogliamo i fores

tieri", diceva. Fece preparare per primo a una sua nipote due stanze per un cert o signor Pupilli di Milano che fu il primo villeggiante della montagna pistoiese , e fece arrivare tolette e cassettoni. Questo accadeva verso il 1890. Ognuno ha il suo modo d'intendere la razza e la discendenza, ed curioso che fra toscani i tempi che passano si riconoscono spesso alle parlate. La lingua la pat ria. E oggi, nella montagna pistoiese, si discuteva ancora di lingua tra boscaio li e carbonai, e dai suoi mutamenti si misuravano gli anni che sono passati. Qua rant'anni fa nella montagna, la parlata era a questo modo: "Ora mi viesto. Ora l 'infilo la gonnella e viengo gi. vienuto il professore. Va' a piglia' la legna gi nella stalla. Gli cocer du' ova". C' fra noi una vecchia donna, ed lei a rifare il verso di quella parlata. Tutti attorno ridono. E i questuanti dell'anime del Pu rgatorio seguitavano: "E per l'ova che mi date - pregher per le galline - che da volpi e da faine - le vi siano riguardate". Il ricordo di questi versi, e di que i modi, ancora vivo nella mente di costei. Eppure ella ha girato Parigi, Londra, l'America: ricorda le cimici di un albergo di Parigi, la noia degl'inglesi, il passo delle guardie presso le dimore dei signori di Londra; e ricorda l'umanit vi va avida e potente dell'emigrazione di quarant'anni fa. Ella mastica un po' d'in glese e di francese; ma abituata, per tre quarti della sua vita fra stranieri, a esprimersi pi per gesti che per parole, lo fa ancora; e rif il verso del birraio tedesco, in terra d'America, che scaricava il barile di birra nella sua casetta in Pensilvania, mentre il marito era al lavoro nella miniera di carbone; e il ve rso del meridionale italiano bracciante; e rif il suo stesso verso di quando era malata e le pareva di non riuscire a dir tutto in inglese: "I am sick, sick. Ohi , ohi, ho male, ho male". Quando parla di essere stata male e di non averlo potu to dire nella sua lingua, lascia intravedere il dramma della vita familiare ital iana, sbattuta di qua e di l, a costo di tutto. Ella ricorda i compagni di strada , di ogni regione d'Italia, come un veterano i suoi compagni di marcia; con due parole ne disegna il carattere. Dice dei meridionali: "Sono buoni, ma non toller ano sopracci. Trattati da amici, sono solidali fino al sacrifcio. Giovent, giovent!" Non ricorda che giovent. Una strada tra le pi belle d'Italia corre tra Pistola e l'Abetone, una strada mod erna, sorvegliata, curata, sui cui margini sono trapiantati in bell'ordine i gin epri. Le macchine vanno e vengono, le donne in costume da sciatrici non finiscon o di stupirsi dei loro fianchi stretti dalla cintura, del loro ventre sotto le b rache alla marinaia, dei loro seni sotto il giacchetto, dei loro piccoli piedi n egli scarponi. C' ancora brava gente di qua e di l da una strada modernissima e li scia, gente ingenua, per la quale quarant'anni di emigrazione dopo dieci anni di vita di carbonai sono rappresentati da una casa pulita, le tendine dietro i vet ri della porta, un tappetino d'incerata sul tavolo, un orologio "germanese" che batte forte e sicuro da trentacinque anni, un ingrandimento fotografico del temp o giovane, e qualche soldo da parte. Pi sopra c' una chiesetta di pietra col campa nile pendente, sul campanile cresciuto un ornello alto sei metri che l'orologio del luogo e che fiorisce a primavera lass. E dietro i vetri incrinati c' un bravo prete che mangia s e no una pappa, spende tutto il suo per restaurare la chiesa e il cimitero, e ha il diritto di dire che la lingua s' corrotta praticando i fore stieri e leggendo i giornali: tutto il contrario di quello che dicono questi vec chi, che ridono della vecchia lingua e delle capanne affumicate d'un tempo, nel loro dado di cemento tinto di turchino; anche il prete scrive, dicono, versi. Ma gi ai piedi della montagna, in una borgata, avevo letto il manifesto annunziante una gara poetica in cui i nomi dei competitori erano scritti come siamo abituat i a vedere quelli degli attori dei manifesti dei teatri, e sotto a ciascun nome il paese. Ce ne sono, di questi poeti popolari, come li chiamano qui berneschi, che contrastano dandosi un tema e rispondendosi in ottave. Spesso sono boscaioli e carbonai. A volte non sanno neppur leggere, e secondo quello che sentono dire , compongono poemi a memoria. Ce n' uno che ha tutto un poema sulla guerra. La ve cchia con cui sto parlando, ricorda ancora qualcuna delle strofe volate un tempo , come questa: "Il bel mese di maggio ritorna - coronato di rose e di fiori - ra gazzine coi vostri amatori - alla porta veniteci apr". Si sente suonare una campa na, batte un'incudine, si sente il crollo d'un ramo tagliato nel bosco spoglio d ei castagni, la tromba di un'automobile suona alla svolta alternata di strisce b

ianche e nere, e che tutto un altro mondo, il mondo moderno della strada e di pa ssaggio, senza sole, che entra veloce nel vivo del paesaggio, lasciando ancora a ntica la vita. Nella chiesa non ci sono che donne, vestite di nero, coi gomiti levati sul banco troppo alto; la cintura di cuoio nero che stringe loro i fianchi l'unica loro e leganza mentre stanno in ginocchio. Dove sono gli uomini? Li aspettano. Certo, p er tutti i popoli del mondo la donna importante e per essa si torna a casa, cari i figli, fondamentale la famiglia. Per mai come nella vita italiana questi fatto ri sono decisivi. Non c' atteggiamento italiano, a pensarci, che non nasce da que sta responsabilit, alla quale si pu ridurre molta della nostra storia, quella buon a e quella cattiva. Non soltanto, ma il nucleo familiare la formazione di combat timento dell'italiano: il panorama delle prime lotte del popolo italiano, cio del tempo non controllato, rappresenta un enorme afflusso di popoli tra i pericoli di un'odissea, banditi di strada e profittatori e venditori di carne umana. Il l avoro italiano non trasform soltanto la capanna affumicata in un dado di cemento, ma arricch e aliment categorie intere di persone per le cui mani passava cotesto lavoro come l'oro. Soltanto una formazione familiare, in questo torrente umano, rappresentava una garanzia di difesa dai pericoli. E soltanto una tecnica precis a, antica come il mondo, all'apparenza molto semplice, ma che implica una famili arit con gli elementi, dava e d loro diritto alla vita. Nella montagna pistoiese, il mestiere quello del carbonaio. Vanno, come andavano , in tutta Italia e fuori: conoscono la Maremma, la Calabria, la Sardegna, la Co rsica; conoscono la Francia: straviati, come dicono qui, divennero minatori in A merica, in Australia, in Francia. Partono ancora il giorno dopo i Santi, e torna no il 24 di giugno, per San Giovanni. Li arruola un padrone che viene dai boschi della Maremma o della Sardegna. Cocitori e carbonai si formano in compagnie, ge neralmente una cinquantina di compagnie; ogni compagnia di quattro o cinque pers one, ma cinque sono gi troppe; ogni compagnia ha un capoccia, poi tre uomini e un garzoncino. Il garzoncino un ragazzo di sedici o diciassette anni. Il capoccia il padre della compagnia. La partenza piena di promesse, piena di speranza; altr imenti, che cosa sarebbe una partenza? Quando arrivano sul posto, in Maremma, in Sila o in Corsica, si fanno la capanna di zolle, alla maniera che chiamano "a b uon Ges". Ogni compagnia ha la capanna; in mezzo alla capanna c' il fuoco acceso, per tenere i piedi caldi. Questa la salute del carbonaio, tutta la sua salute. D ove il carbonaio siede, l stende il tovagliolo per mangiarci; il capoccia fa le p arti del cibo, taglia la polenta o il cacio, e li distribuisce in giro. Ognuno d eve prendere con le sue mani il suo pezzo, secondo l'ordine, e non deve saltare. Se salta, guai, il capoccia gli domanda: "Perch hai saltato? Tu non devi saltare ". Se l'altro non ubbidisce, la lavorazione va all'aria, la compagnia si disperd e, il guadagno vien meno. Il guadagno si spartisce alla fine della stagione, e s pesso, un tempo, prima della protezione sindacale, le speranze diventavano spine . Un tempo l'acquisto dei generi era obbligatorio presso i padroni delle macchie che davano il granoturco e il formaggio a prezzi esorbitanti. Una volta, ottant a compagnie di carbonai, pi di trecento uomini, finito il lavoro, furono mandati a una citt lontana cento chilometri, a una banca, e la banca non esisteva. Dietro a queste spine, a queste delusioni, a questo travaglio, cominciarono le partenz e per l'America e per la Francia. Venne il tempo delle miniere. Ecco che cosa as pettano le donne inginocchiate con gomiti troppo alti sul banco, in chiesa: gli uomini lontani da anni all'estero, e quelli che torneranno ancora di qui a sei m esi, dai boschi. La famiglia, la casa, questa costruzione su cui tutto l'assalto del popolo italiano da anni. "Mia madre mor sei mesi dopo che io ero tornato, do po trent'anni di assenza", dice il vecchio con cui sto parlando. Piantato sui pi edi grandi e con le punte aperte, tutta la persona aperta nell'atto di vibrare u no strumento di lavoro o di gettare un peso, la testa piccola sullo sviluppo eno rme del tronco largo, quest'uomo di settant'anni, capace ancora di ridere e di r icordare i vecchi tempi, e la sua giovent di dieci anni da carbonaio, dice: "Con le macchine hanno rovinato tutto il mondo". Il mondo divenuto piccolo e praticab ile, veloce, che non riesce a fermarsi per vedersi. RIOMAGGIORE Suona bene il rivo di Riomaggiore e fa pi allegria che il nome stesso del paese;

suona chiaro nel suo letto di pietra per la valle chiusa in cui si raduna l'abit ato, e lo riempie della sua presenza; scompare sotto le case fatte a cavalcavia, sfocia in breve nel mare per un delta largo di pietra che un difficile approdo. Qui il mare batte profondo e cupo tempestando contro la roccia, presso gli arch i e le caverne vuote, umide di colaticci, su cui si leva qualche abitazione alta e scarna. Questa sul mare la porta stretta d'uno strettissimo paese, forse il p i stretto fra i paesi italiani. E naturalmente uno dei pi diligenti. N da destra n d a sinistra nel breve arco dell'approdo si scorge la costa; gli scogli lo chiudon o, il mare non ha risparmiato neppure un pugno di terra; qualche barchino in sec co attesta una piccola vita di pescatori. Il mare qui molto inospitale, nemico e intrattabile, continuamente all'assalto della terra, e lava sempre la roccia ch e regge sicura la montagna. Il treno d accesso al luogo per una stazione tra due gallerie, chiusa tra il mare e la parete verticale di pietra bruna; per un sottopassaggio tra le gole di mac igno si raggiunge l'abitato. Qui risuona il rivo che ho detto, per il paese folt o nella valle in pendio. Scavalcando il rivo, le scale e i ponticelli danno ingr esso alle case brune e rosa a ridosso del monte sull'altra sponda; tra una spall etta e l'altra del rivo incassato in un letto di pietra, un disegno di fili di f erro regge i tralci della vite, un pergolato si stende su un diligente intreccio di fili per tutto il corso dell'acqua. Il colore crudo della pietra, quello big io del muro nudo, il rosa delle abitazioni, il verde della vite, si accordano in quella luce che densa come in tutte le valli. Questi luoghi e colori am il pitto re Telemaco Signorini. La valle sale ripida verso settentrione incontro ad altre valli che solcano la r egione aspra delle Cinque Terre. Questa la regione della Liguria famosa pel suo vino, un tempo celebre in tutta Europa, che si stende tra valli e monti per tutt o il massiccio che precede La Spezia. Stretta tra monte e mare, un'opera dell'in gegno italiano come tanti altri luoghi di una Italia troppo stretta. Forse l'att itudine italiana alle arti ha inizio nel suo contadino e nel suo lavoratore di t erre. Basta guardare come l'opera dei campi bella dove nata la nostra arte. La s tessa natura del terreno ha costretto il contadino a un ordine architettonico, e la strettezza a un'armonia addirittura formale. Cos nelle Cinque Terre. Son dive rsi i vini che vi si producono, uno famoso si chiama Sciacchetr, un nome dritto c ome uno sparo; riconoscibile tra mille come riconoscibile la vite di questa cont rada. M'accadde in Maremma, scendendo gi dalle Cinque Terre, di dire a un vignaiuolo de l mio viaggio. Il maremmano conosceva di fama la regione, anzi aveva una vite di questa contrada fra le sue. Me la indic tra i filari come un personaggio, e mi r accont come e quando l'aveva avuta. "E questo", mi disse indicandomi il colle " un sistema da Cinque Terre. Lo so, sono famosi quei di l." Questa celebrit contadina , fra gente che lavora a regola di mestiere, apre gli orizzonti, avvicina le con trade in una consuetudine primitiva di rapporti che passano i monti e le regioni ; ancora s'immaginano le distanze come nei tempi dei tempi, quando viaggiatori e naviganti portavano da terre lontane le piante utili e buone. Come nei racconti dell'infanzia, mi piacciono i contadini che parlano di regioni remote, spesso l dal mare, e dicono il sito dei luoghi, la natura delle piante e i sistemi degli uomini. Parlano guardando l'orizzonte. Anche qui in Maremma la vite era piegata sul filo in modo da frondeggiare contro il salino del vento e riparare il grappo lo, raccolta come una bestia sul suo nato. Al contrario di quella arborea dell'I talia meridionale che confonde la cima con l'olmo e il pioppo cui s'appoggia. E anche qui era cominciato il lavoro per cui giustamente va famosa la contrada del le Cinque Terre: la scalata della vite alla montagna. Dunque, la contrada delle Cinque Terre, chiusa tra i monti e il mare, un massicc io con cinque paesi che da secoli hanno dato la scalata al monte portando la vit e sino alla vetta. I colli sono nudi d'alberi, nascono dallo strapiombo sul mare , e, dal primo gradino formato dallo scoglio che rattiene l'onda, l'uomo ha comi nciato la sua ascensione. Passo dietro passo ha costruito per tutti i colli e mo nti attorno un sistema di terrazze; una terrazza sull'altra come una scalinata c omposta pietra per pietra e colmata di terra palata per palata. un lavoro di gen erazioni: un incalcolabile numero di gesti per assestare la pietra della moricci

a, versarvi la terra trasportata dalle donne cofano dietro cofano, piantarvi la vite, intrecciarvi sopra il filo di ferro in modo che la montagna tutta e le alt re son coperte da questa ragnatela su cui ogni anno si stende il tralcio nuovo e si lega, e poi il tralcio frondoso adagiato in modo da riparare dal vento bruci ato del mare il segreto dove il grappolo matura. La vecchia ebbrezza del vino no n ha una storia pi faticosa di questa da cui son nati e hanno prosperato cinque p aesi. La buona vite cui basta poco terreno, tarchiata e nocchiuta come un vecchi o italico resistente al lavoro, delicata come una donna dei paesi del sole, dive nuta famosa, e sotto il mantello di qualche trasmigratore stata portata come un esemplare fidato oltre la stretta catena delle Cinque Terre, dove il salino pure minaccia le piante, dove pure il suolo crudo e ha bisogno di piante tenaci. Per uno spazio di otto miglia in lungo e in largo, fino a settecento metri di al tezza, i monti delle Cinque Terre si levano col sistema loro di terrazze innumer evoli, verdi, ridenti, tentativo fedele d'una scalinata celeste; hanno il movime nto d'una spirale, si potrebbero tradurre in suono: un sibilo lungo echeggiante da valle a valle nella solitudine in cui rompe preciso lo schioccare della forbi ce del potatore, l'acciottolio della zappa, e si stende in un fondo compatto il tonfo uniforme del mare. Come in una grandiosa scena di teatro, o in una cupola gigantesca, scalette strettissime per la china rendono praticabile quest'opera e raggiungono le case solitarie tra i vigneti sulla cima del monte. In una lotta cos esatta con la strettura, anche la passeggiata di Riomaggiore ang usta. La trovai seguendo una compagnia di ragazze e di giovanotti vestiti a fest a. Un passaggio tra pietre, una galleria nella roccia, un nastro di strada davan ti alla stazione, e alla svolta un viottolo a mezza costa del monte. Il viottolo gira per le pendici fino alla prossima valle; da un lato la parete scoscesa del colle coronato di viti, dall'altro lo strapiombo sul mare, il mare grande, libe ro, che fa ricordare, quand'uno costretto in poco spazio, il miracolo di chi vi cammin sopra. Questo sentimento di spazio, ugualmente impraticabile come la valle stretta, rendeva lieta la brigata dei giovani che andava su e gi pel sentiero or nato di qualche panchina, qualche agave, qualche pianta smagrita dal libeccio; e pareva una passeggiata intorno al bastione d'una fortezza. COLORI DI GENOVA Il carattere e la struttura di Genova sono fra i pi gelosi, e non strano che molt i viaggiatori li abbiano sfiorati senza capirli. Poich Genova offre monumenti ill ustri quasi per caso, non gravita intorno ad essi, non s' fermata a una stagione della propria vita n a un tempo n a un costume, ma li comprende tutti, dal muro a strisce bianche e nere dell'anno Mille fino al palazzo floreale della Borsa; e t utti i suoi monumenti sono schierati lungo lo scoglio cui aggrappata, senza pi sp azio di quello che la citt concede a una qualunque abitazione. L'idea che balen qu alche anno fa, di riscoprire quello che poteva rimanere di Genova medievale e co munale, fortunatamente non fu mandata a effetto. Era come voler mettere ordine i n un blocco unito atteggiato nella sua architettura dalla natura e dal tempo. De ve rimanere assai poco, sotto il muro del Sette e Ottocento, della pietra d'una volta; forse non si riguadagnerebbe il carattere antico, si perderebbe quello nu ovo che singolare, la cui importanza sta nella sua continuit di vita e d'animo. S i pu immaginare quale fosse Genova nel suo tempo comunale mettendo insieme i rico rdi genovesi disseminati nel Mediterraneo fino al Mar Nero: la pietra scabra, qu el tanto di ciclopico che l'architettura genovese ha portato fino alla Crimea, q uasi un ricordo della citt costruita nel sasso, e lo stesso aspetto dei magazzini che si vedono ancora oggi a Costantinopoli, costruiti come fortilizi. Questa un iformit dello stile dei genovesi il loro carattere pi vecchio, anche perch dettato dalla somiglianza del terreno dovunque siano sbarcati: si sono dovuti sempre arrampicate, porsi tra monte e mare. Ricordo, in una brumosa matti na di primavera, l'ultima torre genovese del Bosforo che di lontano risponde al tronco della torre di Galata. In tutto quello che architettura genovese v' un'estetica del perpendicolare, del panoramico; la torre domina cilindrica come un silo; nelle pi antiche chiese geno vesi la cupola tutt'uno col campanile, piantata nel mezzo della chiesa dove soli tamente si leva la cupola. Dal punto pi alto della citt, dal Castellaccio, si pu st udiare bene la struttura di Genova. Tra le fratte e i pini marittimi ci si ritro

va come quei gruppi che nelle vecchie carte panoramiche siedono fra gli svolazzi del titolo: un bimbo raccatta sassi, una ragazza col suo cane segue l'entrata d elle navi in porto, un gruppo di scolari ripete la lezione per gli esami: "Quand o si determina il rialzo dei prezzi...". L'ardesia grigia e azzurra dei tetti de lla citt forma un lastrico compatto che si alza e si abbassa a seconda del terren o, sembra precipitare in disordine negli avvallamenti, scorre per i pendii come un fiume; difficile scorgere una strada o la facciata d'una costruzione; solo qu alche cupola emerge come su uno specchio. Dal pi alto al pi basso, i tetti sembran o quasi aiutarsi a salire, ma senza quasi dislivelli repentini, fin dove, in alt o, la citt non pi che un'ultima casa bassa, un orto, un vicolo stretto fra due mur iccioli, lastricato nel mezzo di mattoni rossi disposti per taglio. Paesi arrampicati sul declivio del monte, con la bizzarria degli edifizi intorno a cui corre e serpeggia la medesima strada che li tocca al pian terreno e giran do li sovrasta all'ultimo, edifizi che da una parte son di sette piani, e pi su s embrano di un piano solo, con un'uscita sotto e una sopra, se ne vedono lungo la costa del Tirreno, fin verso Amalfi; ma una grande citt costruita tutta a questo modo diventa un capolavoro. Essa appartiene all'internazionale dei paesi marini , ne una capitale. Stando a Genova, all'improvviso, come per un vago odore o ric ordo o suono, vi ricordate di cento altri luoghi diversi. Esiste nel profondo de lla vita del Mediterraneo, tra la gente migliore, una razza unica cui difficile assegnare altro ceppo che il mare. Dovunque vadano, o che proprio la loro scelta cada su terre difficili per la necessit di abitare gli approdi, rifanno aspetti di vita simili fra loro; v' una forma di costruzione, un modo di abitare che si s omigliano nei luoghi pi diversi del Mediterraneo: forse per questo a chi viaggia sembra che i vecchi luoghi sul mare siano stati sotto un solo impero. V' qualcosa della nave nel loro disporre i paesi; torri castelli e fortezze ricordano i mag azzini, e questi ricordano quelli; il rosso e il rosa sono i colori delle loro c ase. Anche sulla costiera di Amalfi l'architettura popolare si adatta alla monta gna colle sue scale lunghe come viottoli, dando il senso di un'altura resa prati cabile in cui alla fine ogni accidenza del terreno sfruttata a scopi di architet tura. A Genova e in Liguria si trova poi una forma di citt e di abitazione che ne lla costiera napoletana appena accennata: la casa altissima lungo i porti e gli approdi, di sette o otto piani, anche la pi modesta, stranissima al primo vedere: sembrano enormi vocabolari allineati. Questo mi parve curioso a Porto d'Ischia, quando lo vidi la prima volta; ma in Liguria tutto questo svolto in grande, al punto da ricordare un'altra curiosit architettonica, i grattacieli del porto di N uova York. La ristrettezza dello spazio impone dovunque le sue necessit, come si vede, e sulla ripa di Genova si allineano i grattacieli come li poteva concepire il Sette e l'Ottocento; edifizi stretti e alti, le finestre lunghissime e stret te. V' un senso di vicinanza nelle facciate strette e nelle finestre vicine; ques ti edifizi si puntellano l'uno con l'altro, i colori li distinguono. Hanno vivi colori, superfici lisce, ma decorate spesso di false prospettive, bugnature, cor nicioni, archi, finestre con gente affacciata, tutto dipinto; queste decorazioni danno l'impressione di scenari del Settecento, tempo del teatro e delle grandi fortune marinare. Cos il parallelepipedo della casa prende un colore teatrale, di semplice lusso, leggero, lontano, quasi irreale, che a certe ore, nella luce de lla sera, perde il senso del volume e non pi che colore e illusione di scena. Ho detto che Genova ha in s il tema di molti luoghi e di tutte le citt marinare de l Mediterraneo. A un certo punto l'architettura piemontese si fa sentire, come i n quella piazza e chiesa Carignano; pi oltre appare una strada, traversando un po nte, che ricorda vecchie citt del nord; tra casa e casa a un tratto appare il mar e, si respira il forte odore del porto, e viene a mente come in un altro porto l ontano lo stesso odore si mescoli alla nebbia e al fumo del carbone. Dovendo pro fittare di tutti i capricci del terreno, Genova si configura nelle forme pi diver se. Che ci sia una spianata e si allineano quattro o cinque enormi cubi da citt m odernissima e piana; poi le strade che dividono questi edifizi sfogano da una pa rte e dall'altra su un panorama di tetti pi bassi, sul cielo, sul mare, e il cubo monotono della casa moderna che richiama alla memoria citt orizzontali, sospeso in alto come a una gru. Dai pianerottoli, bastioni, muraglioni, si scorge il qua rtiere sottostante con le sue convergenze di scale, le rotonde dei muraglioni ch

e arginano uno sprone del monte e formano un nuovo principio di strade, strade c he ricominciano sempre daccapo. Sugli spiazzi elevati tra i muraglioni appaiono d'improvviso, uscendo dagli ascensori che trivellano la roccia, i vestiti all'ul tima moda, un'umanit indaffarata. difficile dominare la citt; pi si sale e pi si chi ude il lastricato dei tetti, non si scorge aperto che un quartiere per volta. Da lle luci sfolgoranti dei luoghi alti si passa a luci di acquario. Sul grigio pan orama dei tetti, le terrazze delle case, sempre o quasi sempre a livello di una strada pi alta, c' una pennellata di verde, il giardinetto col basilico, menta, le piante odorose che condiscono la cucina genovese, riassunto delle cucine del Me diterraneo. Basta che si apra una piazza su una dimensione sufficiente del terre no, come nel Sestiere di Porteria, in Piazza Sarzano, perch la vecchia piazza pop olare italiana, bolognese o napoletana o lombarda, appaia coi suoi colori stinti e tenaci, il giallo e il rosso, e il senso di ritrovo di ragazzi di sera chiass osa, di mercato settimanale. Dove lo spazio si restringe, l il pi vecchio colore d i Genova, quello che essa possiede in modo unico. Piazzette nelle piazze, edifiz i contenuti fra altri edifizi come in una custodia: la chiesa di San Matteo, del la Spina, o il palazzo Doria. Cento altre chiese e palazzi di Genova sono tra gr andi edifizi che sembrano coprire cotesti monumenti quasi col loro stesso tetto; il sole vi si fa strada a fette, a triangoli, dagli spiragli fra casa e casa, c ome se entrasse da finestre in un luogo chiuso. Qui si ha il senso della vecchia citt, di piccoli monumenti arcaici imprigionati tra costruzioni del Sette e dell 'Ottocento come raro vedere altrove: la misura antica contenuta nella popolosit e smisuratezza moderne; cos accade di sentire leggendo un verso classico magro e t emprato nella sovrabbondanza di una prosa recente. Vi sono edifizi dove le scale seguono nell'interno la pendenza del monte, lunghe , dritte, quasi vie naturali che immettano in un regno di natura sulla cima di u n monte; raggiungono il pianerottolo, molto in alto, pi in alto di quanto si pens i, come succede a chi va in montagna, danno in grandi stanze profonde, in cui la luce filtra con un colore marino. Chi s' trovato qualche volta in un palcoscenic o su cui disposta la scena di una strada, e ad aggirarvisi prova l'impressione d i esser fuori e nello stesso tempo in un interno, pu dire se non la medesima impr essione che d Genova nella sua parte pi vecchia. Si sicuri di percorrere una strad a, ma nello stesso tempo sembra di aggirarsi in un interno, tanto che causa di c ontinuo stupore vedere aprirsi in questa incredibile dimensione porte e androni, cortiletti, interni. Gl'interni sono la continuazione della vita della strada; la strada coperta, in ombra, intima come una casa. come un grande palazzo diviso , una galleria coperta; fino a Sotto Ripa dove si sente, nel portico schiacciato , il peso della citt intero, come si sente il peso d'una roccia e d'una grotta su l mare. MEMORIA DI LUCCA Ho veduto Lucca e poi, meglio, l'ho sognata. Raramente accade di sognare una cit t; ma questo a me accadeva naturalmente, come se nel sogno potessi ravvisarla e c apirla meglio. Quello che avevo veduto il giorno prendeva senso da questa memori a notturna, e ogni cosa si rivelava con l'improvvisa facilit con cui i sogni apro no il senso della verit. Mi riapparve l'Arcangelo San Michele, quello che sovrast a la chiesa dello stesso nome; un arcangelo dal viso di contadino adolescente, c ol viso di tutti gli adolescenti dell'arte primitiva; porta un gran mondo nel pu gno, con un forcone divenuto lancia tiene a bada il diavolo serpente ai suoi pie di; ricciuto e paffuto guarda il mondo, dall'alto del timpano della chiesa a pi o rdini di colonne sovrapposte, come l'architettura di questi luoghi impar dagli ac quedotti romani. Ora, da questo impiego d'un tema antico, un acquedotto divenuto modello d'un'architettura sacra, quest'angelo mi appariva come la resurrezione d'un mondo sulle rovine di quello vecchio, ed egli, giovane, veniva su da quelle annunciazioni improvvise con cui il popolo a un certo punto rid l'avvio all'arte . E mi pareva di sentirlo cantare, come i contadini e i pastori all'alba, ma meg lio, d'un canto antico e primaverile, quando tutto morto e tutto ricomincia. In breve, quest'angelo dal viso n adulto n giovane, come il popolo, divent un gran sim bolo; tutto quello che avevo veduto il giorno si legava a lui, il mondo trascors o era un grande deposito di favole umane, le religioni tutt'una, tutt'uno i popo li e le civilt, e l'Italia il punto di convegno di tutte le favole.

Infine, Lucca non mi apparve come una di quelle citt dove l'arte ha la sua parabo la tra crescere, maturare, morire, ma piuttosto una citt al punto pi alto del geni o popolare, per cui esiste una sola stagione, una sola epoca, quella in cui la c ivilt italiana era naturalmente l'erede d'ogni cosa che avesse senso umano, aboli va le distanze, differenze, costumi, paesi, era il mondo nuovo che al suo nascer e ricordava i drammi dell'umanit, e alla fondazione d'una chiesa non trovava stra no ricordare le favole pagane, come un mondo di passioni e di fatti fermi sui qu ali si ricalcava ogni altro avvenimento: la necessit, infine, d'una discendenza e d'una storia anche nelle passioni dell'uomo. C' la stessa audacia, lo stesso sen timento del mondo ch'ebbe Dante, quando mescol l'antichit al tempo suo, creando su gli antichi i nuovi miti, e nei nuovi sentimenti la grandezza di quelli vecchi. Il mondo era stato fondato per sempre con gli antichi: v'era un sol modo di atte ggiare le passioni, i fatti umani avevano un sol corso e una determinazione quas i fatali; la grandezza del mondo nuovo era tutta nel fatto che potesse assomigli are ai grandi temi antichi; aveva un solo accento e nuovissimo sempre per cantar e queste cose, e l'architettura lo stesso; col disegno d'un acquedotto costruiva una chiesa, e in questa contaminazione, variet, era il nuovo. Tutto questo chiar o e vivo a Lucca. Una civilt rimasta interna, terriera, comunale; un'architettura ferma pressappoco al tempo di Dante; ad aprire, dopo averla visitata, i libri d i quel tempo, s'ha l'impressione di aver visitato quell'umanit; Lucca una citt che ha il segreto di molti fatti italiani, cio la capacit di assorbire molte cose del mondo senza lasciarsene turbare, riducendole al suo senso, eguagliandole a se s tessa. Dante qui m'era vivo presso la sua casa di Gentucca pi che in ogni altro l uogo della Toscana, e non soltanto perch qui am una donna di carne, ma perch qui ma ggiormente il colore e l'ingegno del tempo suo. Lucca rimasta a quella fioritura; non cerc di superare se stessa, e tuttavia avev a trovato il tono giusto, da cui nacque la stessa architettura romana del Rinasc imento, quella che allo stesso modo si riallacci alla paganit e che dai monumenti superstiti trasse i motivi per le sue nuove costruzioni. Lucca trov queste cose a l primo stadio della sua ispirazione, quando questo era un modo di vivere e di c redere, di esser cittadini del mondo universale, dopo di che quasi non costru pi c hiese n palazzi n torri n santi. Su una colonna del portico del Duomo, un disegno s ulla pietra c'informa del Labirinto, e una scritta dice pressappoco: "Questa la forma del famoso labirinto di Creta". Esso qua come nell'opera di Dante, ricorda to alle soglie della nuova religione come alle soglie del viaggio dantesco. un m odo, questo, d'essere universali e civili; allo stesso modo il Cristianesimo si serv della Bibbia; il medioevo italiano ne comp la parabola facendo lo stesso per la romanit e per l'antichit mediterranea: profeti ebraici e grandi poeti romani, C atone ed Ezechiele, Virgilio e Davide, traversie dell'uscita d'Israele e favole d'Ercole e di Minosse; il mondo antico come il presentimento del mondo nuovo, la vecchia religione non altro che un regno non ancora toccato dalla grazia e sta alle soglie della fede come il labirinto inciso sulla colonna del Duomo di Lucca . Questa la posizione dell'italiano nel mondo umano, che lo abbraccia tutto e vi si riconosce, la sua predestinazione; sulla soglia delle cattedrali ricorda l'a ntichit e le favole perenni del mondo, tra la Deposizione dalla Croce e la Carit d i San Martino ricorda i dodici mesi dell'anno, gennaio con la conocchia, febbrai o all'amo, marzo alla potatura, aprile a cavallo e un fiore tra le dita, ottobre sul tino, novembre all'aratro, dicembre tra i boschi a caccia. Tutto vi assume un colore di mitologia, anche le operazioni quotidiane. Non sembra di leggere an cora Dante? Non lui il gran costruttore di cattedrali, il segno del potere degli italiani a ridurre il mondo alla loro misura? Civilt difficile a tutti, la cui v italit pu rimanere pi o meno nascosta, che non cerca l'universalit in una misura com une che si accetta o si dimentica, chiusa talvolta come un'entit particolare e lo cale, ma che vive della propria tipicit; guai a lei se si arrende, diventa un fat to coloniale; quando si conquista intera potr tardare il giorno della sua gloria, ma lo schema della bellezza e dell'armonia nell'arte sar sempre suo, essa il par agone migliore. Essa coincide con le qualit pi profonde e naturali dello spirito u mano che nell'arte si vuol sublimare, ingrandire, non aver vissuto invano, trova r parentele ed echi nei mondi scomparsi, una civilt nata dalla pi stretta aderenza all'uomo e alla natura, che dalla assoluta contemplazione di essi tocca le magg

iori altezze: un antropomorfismo con cui non ha nulla da fare gran parte dell'ar te moderna che taglia agli uomini i legami con l'originariet per farne manichini di idee e di religioni che rinnegano l'uomo qual e volendolo elevare lo umiliano ; al contrario dell'arte italiana che d per misura l'uomo. Ma poi, quando un nuov o accento dell'arte nasce nel mondo, eccolo che ancora una volta ricorda la fant asia tra popolare e classica italiana. un fatto che i santi di allora nessuno pi li prega. Giusto il Santo Volto col suo terribile aspetto, chiuso nella sua cappella come in un antro sibillino. Ma all 'alba, a Lucca, andando di chiesa in chiesa, notai che ai piedi delle vecchie ta vole degli altari erano state erette altre immagini pi moderne, non pi grandi d'un metro quadrato, nelle solite cornici dorate: la Madonna dal profilo emaciato e dalle grandi lacrime tonde che paion di vetro, i Santi dal mantello turchino e g iallo, col giglio fiorito, cari alle oleografie. Dietro a questi le vecchie tavo le delle Madonne tra putti nudi, Santi in contemplazione, e i grandi paesaggi. Q uel senso di sbigottimento che nel settentrione dato dalle infinite Danze Macabr e, da noi lo d lo spettacolo perenne della vita che vuol vincere il tempo. Antich i poeti, antiche pietre. Tutto composto nell'atto della vita e della grazia, del la giovent, della forza, tutto nell'atto pi bello dei fatti umani che il principio . Si capisce come ad ognuno di questi accenti qualsiasi pellegrino abbia trovato l'accento d'una nuova giovent, il principio d'un nuovo canto. C' il sapore di cen ere di tutta la poesia italiana. "Morte immortale", dice in greco una lapide del Duomo di Lucca. Mi parve questo, a un tratto, il compendio di tutto lo sforzo i taliano. L presso giace colei che fu chiamata fino a ieri Ilaria del Carretto, un a donna per cui s' compiuto il miracolo della morte immortale. La gloria la gran droga italiana. Chiunque passato di qui venuto a visitare Ilar ia, ognuno che entrato qui s' seduto sul banco lungo la parete a guardarla, tutta Lucca ve lo ricorda, come una visita di dovere. Tra i frammenti sparsi nel muse o di Lucca v'indicano lo stemma d'Ilaria. Am, fu sposa, ebbe figli; soltanto la s ua fine l'episodio pi importante del suo passaggio sulla terra. composta come in un sonetto del Petrarca; fragilit, leggerezza, annullamento; sospesa come sul pun to di dormire o di annegare; angeli n tristi n lieti reggono la ghirlanda intorno al suo sarcofago, e pare di leggere in quegli angeli l'attenzione dell'artista; tutta lei la testimonianza d'un ingegno che da un fatto naturale, dalla rapprese ntazione d'un breve attimo umano ricava i misteri profondi, che dalla esattezza della verit trae qualcosa di attonito, il segno pi ermetico. Porta una ghirlanda s ulla testa, i capelli ben pettinati, e sembrerebbe uno di quegli adolescenti pag ani se la sua non fosse l'adolescenza perpetua delle spose di un tempo. Solo in questo punto della morte fu affidata a un artista, al gran Jacopo, il quale cert o la immagin pi che ritirarla; forse in quel solo punto gli fu lecito contemplarla . Sorride? Pensa? Vede entro di s? Ha l'occhio come un fiore chiuso e mai sboccia to, l'occhio di chi non ha veduto nulla, e forse soltanto sogguarda le pieghe de lla veste che convergono al seno e al petto, come raggi che sfiorano il centro d ella sua vita di madre. Il pudore dell'artista si confonde col suo pudore; egli trema ad atteggiarle la veste: l dove le gambe si stendono, sulle ginocchia rigid e che sole attestano la pesantezza della morte, la veste drappeggiata come una c oltre di pudore, non segue la lunghezza delle gambe, non ne delinea la struttura carnale, ma si avvolge dal piede sinistro al piede destro confondendo lo stampo del corpo. Perch non si vedono i piedi? La veste tirata sui piedi come il lino d elle antiche statue sacerdotali, come il lino dei pontefici in trono. L'occhio n on si sazia mai di percorrere questi punti dove il segreto d'una vita e di un'ar te, e un medesimo pudore. Il cane ai suoi piedi leva il muso interrogativo. un a ttimo, la piccola scena di un attimo. Ed eccola sospesa nella fantasia degli uom ini, che si domandano quale simbolo chiuda. EMPOLI, IL POPOLO, I VETRI Uno dei fatti pi nuovi dell'Italia d'oggi, lo sviluppo delle industrie in paesi v ecchi, e per esempio in Toscana. Lungi dallo sfigurarvi, donano all'ambiente e a l paese, e anzich sopraffare il vecchio colore d'una vecchia vita, lo fanno risal tare meglio. Prima di tutto c' lo spettacolo di come l'italiano si trasforma a co ntatto con la vita organizzata e collettiva, che non dei meno interessanti: egli porta sempre qualcosa dell'artigiano; e poi la nascita dell'industrialismo in I

talia non quella cosa nuova e strana che s' creduta per un pezzo. Al tempo del gr ande artigianato e delle vecchie corporazioni, le citt ebbero centri nati da quel l'assetto; poi divennero i musei di quel lavoro; noi l'Italia fummo abituati a c onsiderarla cos: si rimpiansero i pi abili artefici e artigiani d'Europa, ma si to rse il muso davanti ai fumaioli delle fabbriche. E non era pi l'Italia quella div enuta soltanto agricola e che aveva abbandonato ogni ambizione civile. Nacquero perci tanti monumenti senza scopo, che imitavano nell'apparenza le vecchie logge e i vecchi palazzi d'arte. Qualche cosa per non era andato perduto, e cio la capac it del lavoro a crearsi i suoi monumenti e le sue testimonianze come l'avevano av uta un tempo i tintori o i lanieri, perch in conclusione, come altrove "tout fini t par des chansons", in Italia tutto si concluderebbe in architettura e in arte. Basta tuttavia che la societ si organizzi su un dato schema, che ritrovi in qual che modo la sua attitudine naturale, perch quella funzione torni in pieno. Non sa ranno pi i palazzi dell'Arte d'un tempo; sar una torre, una colonia estiva, un cam po di gioco, e la vita si riannoda al vecchio filo, e questo lavoro senza volto, come era considerato il lavoro industriale, riprende il suo vecchio potere. Gl' impresari cambiano, la tendenza la stessa. A Empoli mi accadde di pensare a queste cose davanti al suo vecchio Duomo. I rag azzi giocavano in piazza, vi si attardavano donne coi bambini in braccio; una fo ntana ricorda la munificenza d'un signore che dot la citt d'acqua potabile, e sott o un calice di marmo grondante acqua, quattro donne di marmo sorridono nude. Non pi la nudit d'un tempo, gi la nudit moderna che ricorda la camera da letto. Il popo lo intorno a questi nuclei form i suoi, fatti di botteghe sotto i portici, di vec chi caff, di mescite di vino, d'insegne che avevano portato qualche cosa di artis ticamente popolare nello zinco verniciato. E poi le merci sulla strada, questo m ercato quotidiano che ricorda da vicino la vita, la sua lotta, il contado, i mer cati. C' un modo di disporre e di mostrare le cose del vivere che ha della compos izione. Si starebbe delle ore qua in mezzo, e si correrebbe non so quanto al ric hiamo di questo vino dal sapore di vecchie rose, di vecchi vasi. La razza vuol p ur dire. Per chi detesta la spocchia di certa vita moderna tutta nel parere quel che non si , queste osterie a ogni passo che spengono l'arsura della strada polv erosa, e i richiami delle trippe e della zampa, di tutto il mangiare semplice, u n meritato riposo. In mancanza d'altro, il popolo s' fatto la sua decorazione per la vita quotidiana; ci sono i santi agli angoli, le insegne e le merci, e nulla tanto eterogeneo che non entri in quest'atmosfera che pur dura e di lotta. Perf ino i prodotti a serie dei magazzini sembrano appesi a un albero di cuccagna, e riacquistano il vecchio prestigio dell'infanzia. E che dire di quest'insegna che porta scritto "Bazar fantastico"? Empoli in piano. I fuori porta si vedono dalle sue strade dritte tra balenii di biciclette che si confondono con quelli delle foglie degli olmi prese da un lung o tremito come se pullulassero, e la polvere, gli steccati gialli di qualche cam po sportivo, i manifesti che laggi sono pi larghi e coloriti, come se tutto questo fosse l'annunzio d'una fiera e d'un Luna Park. Si dilungano laggi i quartieri degli operai, perch Empoli ha almeno una quin dicina di fabbriche di vetri. I carrettini dei fiaschi da impagliare sono fermi davanti alle porte. D'estate i vetrai son chiusi, ma sono arrivato in tempo, qua ndo era ancora fresco, a vederne alcuni ancora aperti. Ci s'imbatte a un certo p unto nell'Arno, con lo stesso color verde che ha a Firenze. Di sera sono aperte le finestre, le donne cuciono sui balconi, e il contadino nei campi contigui non ha finito mai di lavorare. Su un banco del fiume all'asciutto giocano i ragazzi . Il tramonto rosso e il perdersi del fiume nel piano ricordano il mare. Sulla s palletta del fiume c'era un uomo seduto a guardare. Mi domand se fossi venuto a E mpoli per lavorare, e poi, saputo che venivo da Roma: "Oh", mi disse, "venite pe r l'appunto da Roma: come corre il Tevere? Io ci manco dal 1885, e ho sempre pen sato se corre pi il Tevere o l'Arno. Aspettavo qualcuno per domandarglielo". Ecco che cosa pu pensare un uomo solitario sulla spalletta d'un fiume. Mi chiese anch e notizie di Prato, giacch viaggiavo, ma non di pi lontano. In quella venne avanti un ciabattino, a prender aria, col fare filosofico dei "ciaba" di tutti i paesi del mondo, e l'atteggiamento di chi tira i due capi dello spago nelle braccia u n po' discoste, il grande nuovo articolo che preparava una vetreria era uno spet

tacolo di partita di calcio. Su una tavola disegnata al modo dei campi di gioco, erano disposti i giocatori; la maglia di colore, la testa di vetro bianco; e il naso e lo stemma della loro squadra erano le cose pi rilevanti. Questo un gran m agazzino di tali manifatture: c'erano rose, fiori e frutti di tutti i colori, va si e lampade. La fragilit del vetro una cosa di cui bisogna ricordarsi ad ogni mo mento, abituati come siamo ad essere circondati di cose non fragili. A un certo punto vien quasi il panico di quella estrema deperibilit. Ecco cose fatte per con sumarsi; eppure esistono vetri di mille e duemila anni di vita diseppelliti dall a terra dove hanno dormito per secoli. S'immagina quanti esemplari, a migliaia, si sono rotti per uno che ha varcato il tempo. A un tratto questa di vetro mi se mbra come un'umanit: corre il mondo, accompagna la vita, viaggia, si ferma in qua lche angolo ignorato. Passano i tempi, crollano monumenti di pietra, di alcuni n on rimane che un ricordo vago, si disperde perfino la traccia della pianta d'una citt, e questo bicchiere, questo pupazzo, questo vaso, ricordo d'una civilt, dell a vita, dura in qualche lembo di terra. Fuori, a perdita d'occhio, ci sono i depositi delle damigiane e dei fiaschi nudi , separati da muriccioli tra magazzini confinanti. Paiono orti di grosse zucche; i fiaschi si levano a pareti sotto le tettoie, con tutti i toni del verde. un m ondo assai precario. Ancora una volta penso per esempio a una grandinata su ques ti vetri. Ma in un altro magazzino chiuso, le oliere all'infinito, le bottiglie, quegli oggetti che noi consideriamo come presenze e forme nelle case, qui acqui stano quasi aspetti di trib; a momenti quelle oliere che sono come due sacchetti legati sembrano una famiglia immensa di fratelli siamesi; altre oliere da trespo lo, coi loro turaccioli, paiono delle bambine con la testina e il collaretto; e su questo tema, all'infinito, gli operai che limavano gli orli dei vetri con le macchine, sembrava avessero da fare con un mondo infantile o nano, che si fosse moltiplicato allo stesso modo degli animali, per generazione, e le razze diverse erano i diversi colori d'ognuno sotto le stesse forme. E i vasi per fiori, gli ornamenti dei salotti, aprivano bocche mostruose o sembravano pezzi d'anatomia. C'erano violente simpatie e antipatie; ognuno di quegli oggetti ricordava un amb iente, i comodini da notte, le avide bevute notturne nel bicchiere trovato a tas toni, la bottiglia della camera d'albergo, il bicchiere dell'osteria, le rotture in casa e il nuovo rifornimento di vetri, e gli ospedali, i cestini da viaggio. E si scorgevano vecchie forme, antichissime, della nostra infanzia, o di paesi visitati, o veduti in qualche museo, forme che furono dei Fenici, ripetute all'i nfinito da tanti anni e secoli, dietro l'ispirazione d'un artigiano ignoto che t rov quella prima misura all'emissione del fiato nella canna. Oggi escono da ognun a di queste fabbriche trentamila pezzi di vetro comune al giorno, e trecento di vetro artistico. un lavoro che ha il carattere del lavoro comune come una scuola; il forno del ve tro come un gran calamaio cui attingono tutti, e in circolo ognuno si dispone co n la sua canna. come se concertassero degli strumenti. Dev'esser la stessa l'emi ssione del fiato, tant' vero che ogni esemplare uniforme, e fra l'uno e l'altro n on v' che un'oscillazione media di venti grammi di peso. Il soffitto altissimo, d i travi e d'assi, come d'un'antica fabbrica o d'un'antica chiesa; il gruppo degl i operai sta raccolto in mezzo, tra i potenti ventilatori e le finestre; su una tabella, col gesso, sono scritti gli evviva e gli abbasso delle passioni quotidi ane degli operai. C' la solitudine del lavoro individuale e insieme un colore di vecchia comunit intenta a un lavoro che ha perfino del gioco, che tutto dire per un'operazione delle pi faticose. Ma forse in questo contrasto sta tutto il fascin o di questo spettacolo. Soli e insieme, ognuno col suo grumo incandescente che p assa attraverso tutti i colori e le forme, nasce come un frutto duro e verde, si colora come una bolla, s'infiamma a mano a mano che prende pi aria; il ritmo del le canne lunghe disegna fra uomo e uomo, fra solitudine e solitudine, una coinci denza di linee e un gioco di rette ripetendo il ritmo convergente delle assi del soffitto. Sembra un grande concerto che non arriva a esprimersi altro che in fo rme rotonde, pressappoco come quella cornetta del jazz che pare riesca a stento a gonfiare una palla di gomma ficcata nel padiglione. Appeso in basso a una lung a canna si gonfia come una nota profonda il bottiglione, mentre dall'altra parte le bottiglie striminzite e verdi da un quarto di litro fanno un altro suono di

questa musica acuto; lo stesso soffiatore compreso di quel volume che nasce al s uo fiato, come una pianta che vedesse ingrandire enormemente un frutto. In quest a orchestra di forme, di cui non si sente a tratti che lo sgrigliolio dello stac co del vetro, sta quasi da parte un lavoratore di fino, che ha il privilegio d'u n piccolo inserviente, l'aiuto d'un compasso di legno per le misure e per aprire e regolare le corolle del vetro. Il quale passa nelle sue mani attraverso tutte le forme, dal globo alla coppa, al piatto, come un riepilogo rapido di tutta un a discendenza di volumi geometrici, il ragazzo vi aggiunge il piedino, il ragazz o stacca il dippi, il ragazzo vi salda un ornamento, il ragazzo gli sta attorno c ome in uno di quegli esercizi perfetti di acrobazia che vediamo sui palcoscenici . E intorno tutto un coro intento a sentir oscillare, gravitare, marmorizzarsi s otto il suo fiato le grandi bolle verdi. A tratti, in cima a un bastone bruciacc hiato, i ragazzi portano al forno della tempera i recipienti finiti in cui alegg ia ancora l'ultima fiammella e fa sprizzare scintille dal bastone. Le bottiglie stanno nel forno a indurire e sembrano pani. IL MARMO Quando scoppia una mina sui monti Apuani, una di quelle grosse mine da qualche q uintale d'esplosivo, si vede la montagna gonfiarsi come un petto forte sotto un respiro poderoso, rimane un attimo lungo in quello straordinario atteggiamento c he ricorda la sofferenza di un parto immane; crolla poi come una nube, d uno squa rcio atterrito, si lacera come un cratere, si vela tuonando in un nembo di fumo e di polvere. Per un pezzo la vallata risuona del rotolare dei massi e dei detri ti, la portentosa musica del marmo che chi non l'ha udita non pu figurarsela, e s omiglia a una di quelle giornate d'artiglieria in guerra con la sua sinfonia di schegge, di scoppi, di laceramenti dell'aria. Questa stessa musica, pi o meno intensa, accompagna la vita dei cavatori nelle va lli bianche. I giornali avranno annunziato lo spettacolo; le cime dei monti into rno sono gremite di spettatori accorsi da ogni parte. In qualche luogo il propri etario della cava, che dallo scoppio giudica l'importanza dell'operazione. Fra p oco, quando si sar diradata la nube di fumo, egli vedr forse scoperti i blocchi ch e giudicher con un'occhiata dal colore, dalla conformazione, da quegl'indizi che non tradiscono mai il suo occhio esperto che ha con la pietra la stessa confiden za del contadino verso le piante e la terra. questo uno dei pi stretti rapporti d ell'uomo con gli elementi, in cui conta la razza, l'esperienza, e che nessuna pr eparazione scientifica pu eguagliare. Raramente accade di ammirar tanto l'uomo come in questo rapporto con la pietra. Dal colore d'una superficie indovina quello che c' sotto, dalla direzione delle f enditure del masso intuisce il metodo di cavarlo; perch raramente egli ricorre al le grosse mine, e solo quando si ripromette la scoperta d'un banco considerevole ; altrimenti egli sa che il marmo si cava pazientemente, nella sua forma, come s e fosse stato disposto con ordine in una scatola. L'esperienza gli dice che ogni masso giace nella montagna in forma di rombo pressappoco come una forma tombale ; che ogni masso inclinato dalla parte della levata del sole, o dalla parte di t ramontana; e questo appena il principio della sua scienza; egli ha trovato la di rezione del pelo del masso come per un tessuto. Il marmo il risultato del lavoro di secoli; queste sommit erano coperte dal mare: miliardi di conchiglie si impas tarono alle materie organiche trascinate dalle correnti, nella profondit si fuser o, si amalgamarono, si consolidarono, l'alta pressione le form in blocchi, e da q uesto connubio della vita marina e vegetale nacque il marmo. Gli alberi incarboniti traversarono la superficie candida, ancor molle, ripetend o nelle venature del marmo le ramificazioni delle piante, poi le montagne sorte dagli abissi marini compressero questi blocchi, e dove la materia era meno compa tta la incrinarono col loro peso; altrove le piante incarbonite macchiarono trop po il marmo, o strati di quarzo pi compatti resero pi fragile la superficie del mi nerale. Furono come correnti troppo dense. Sono questi gl'incerti del cavatore. Una macchia troppo forte di nero, una striscia di quarzo pi accentuata minacciano la durabilit del masso, e bisogna purgarlo. A volte, da un masso considerevole, una lapide come lo chiamano, se ne trae soltanto un piccolo blocco. La scienza del cavatore lunga come la vita di questa pietra; spesso egli si serv e degli stessi metodi che servirono ai romani, o del principio di quei metodi. U

na volta venne quass un ingegnere fresco di studi e di poca esperienza; voleva fa re e disfare a suo modo. Due vecchi cavatori si scambiarono un'occhiata, e uno d i loro disse in modo d'essere inteso: "Costui troppo presuntuoso. A lui non inse gneremo nulla di quello che sappiamo". Perci la cava di marmo un fatto personale, come l'arte e l'artigianato. Il cavato re conosce la sua cava come la sua casa, distingue il suo pezzo di marmo tra mil le; perch da palmo a palmo la montagna diversa e il minerale assume diverse confi gurazioni. Sono venticinque le vittime annuali di quest'opera. Ma, fino a quando pu, il cava tore resta con la sua pietra. Con un braccio di meno diverr guardiano, vecchio ch ieder ancora di servire, promosso capocava si rassegner male a non avere il suo bl occo da purgare e da squadrare, e sar difficile che non si ecciti al pensiero d'u na mina. Ne ho conosciuto uno, di settant'anni; non ha mai voluto andare in pensione, ed essendo capocava non s' rassegnato a guardare il lavoro degli altri: i suoi padro ni lo sorprendevano con la mazza nel pugno, quella mazza del peso di otto chili, con cui danno colpi che hanno la precisione d'un taglio, con cui seguono i dife tti e le incrinature del masso. Con uno strumento cos pesante non oltrepassano d' un millimetro il segno, tagliano come con un coltello; in quest'operazione la pi etra diventa qualcosa di elastico, di straordinariamente duttile, si vedono gli effetti dei contraccolpi e gli spostamenti nei mille atomi che la compongono. Gli occhi dei cavatori sono quasi interamente chiusi, meno che in un tondo, dove l'orbita pi fonda sotto la fronte, in cui rifugiata la pupilla. Sono occhi a for ma di virgola. Per chi la veda dal mare, la montagna differisce da ogni altra che la circonda: sono quattro cuspidi di pietra, tra esse s'aprono tre valli bianche, le cime son o scabre, come d'un minerale fuso e rappreso, il sole a diverse ore vi stampa in finite gradazioni, la luce le tempra come l'acciaio, le ombre vi si adagiano den se come di velluto. La valle bianca sembra colma d'una neve in una stagione in c ui le cime siano disgelate; ma vi qualcosa di vaporoso e di sfumato, ed questo i l presentimento di quell'implacabile polvere che colma tutte le valli, imbianca lontanamente le strade, d una luce speciale a ogni cosa, riflette su Carrara quel colore lattescente in cui le ore passano come davanti a uno schermo frapposto a l sole. Gi lungo il percorso, da Pietrasanta, i depositi di marmo, gli spiazzi pieni di l astre e di blocchi, danno quello sgomento che un carattere di questa pietra, que l confuso pensare a un fatto definitivo, a un materiale cui si affida la memoria degli uomini. Lungo la strada l'insolita presenza d'una pietra cos preziosa, una lastra che fa da scalino malfermo a una casupola, i riquadri di marmo delle por te e delle finestre rustiche, un lastricato di marmo davanti a un'osteria; la pr esenza, infine, bianca e gelida di questo minerale dovunque ricorda il lusso, la gloria, la morte, i secoli spenti che vogliono per essa sopravvivere. Di marmo si vestono cose definitive, in esso sono sepolti secoli interi. Io l'ho visto sc alpellare in non so quanti luoghi del mondo; lo si scava da tremila anni. Gli Et ruschi, che adoperavano la creta, qui usavano il marmo, dimenticando la loro civ ilt di fornaciai. Dove uno che nel mondo vuol lasciar memoria di s, l il blocco e l a lastra di marmo. Non questo l'ultimo sentimento che accompagna chi visiti ques to immane mondo di pietra, una delle cose pi solenni che la natura e l'uomo abbia no messo insieme. Anche l'uomo. Ho detto tremila anni di escavazione. Sono tremila anni di statue, templi, colonne; il mondo sopravvissuto che parla attraverso il marmo; il marmo lentamente riprende il colore d'acciaio delle sue montagne, il duomo di Carrara , tutto di marmo anche internamente, ha il colore d'una grotta montana. Ma se tutte queste cose, statue e colonne, sono arrivate in capo al mondo, in ci ma a tutti i tempi, rimangono qui i detriti di tremila anni di scavo, si aggiung eranno poi quelli dei secoli avvenire. Miliardi di tonnellate di scheggioni si s ono accumulati in queste valli mutandone di dieci in dieci anni la fisionomia; d ai residui di blocchi da cui furono cavati gli stipiti del Pantheon sino a quell i dei lavandini di cucina, i detriti si sono aggiunti ai detriti. Questi danno i l colore bianco di neve alle valli tra cui formano una immensa corrente perenne.

quanto rimane delle mine, delle squadrature dei blocchi, da secoli. La montagna dove stavano compressi scomparsa sotto di loro; hanno sepolto perfino alcune ca ve; per liberarsi dalla loro invasione i cavatori scavano sempre pi in alto, fino a oltre mille metri, per sfuggire a questa corrente, che sta intorno a loro, so tto di loro, incombe sulle cave stesse, minaccia di seppellire le cave, cambia d 'anno in anno l'aspetto dei luoghi, solleva la strada del fondo valle ogni anno a una pi forte inclinazione. Dall'alto delle cave, disposte come celle d'un apiar io nel monte, ogni cava ha un suo versante che scarica, in un interminabile lavo ro, i suoi detriti. Sono cinquecento cave a compiere nelle tre vallate questo lavoro quotidiano. Dal l'alto delle terrazze, anch'esse composte di detriti, sui bianchi abissi gli uom ini sganciano il carrello e lo rovesciano gridando dall'alto se qualcuno passi; i massi rotolano con un fragore lungo, alto, come di tuoni, di crolli, di rovina ; sembra che la stessa montagna rovini; i detriti per la china diventano velocis simi, sembra che seguano una corrente, sono l'elemento fluido di questi luoghi, si accumulano all'immensa distesa dei blocchi bianchi, alla corrente di marmo si mile a un'onda immobile, alta, sospesa, che preme la valle da tutte le parti, d l a vertigine, abbaglia come la neve, sembra venire avanti e sommergere i rifugi e l'osteria dove cresce gracile in quel bianco un garofano, un grappolo di rose. I cavatori isolati, fra tanti detriti, trovano qualche blocco pi grande, e si dan no a squadrarlo. La musica degli scalpelli in fondo alla valle, fra tanto rovini o, ha il ritmo d'una pioggia calma, fitta, dolce, e contrappunta il rombo dei de triti, gli scoppi delle mine, il lungo lamento del filo elicoidale che taglia gl i immani blocchi delle cave, di trenta e trentacinque metri di altezza, a dieci centimetri l'ora. Lungo, quasi campestre, che sembrano grilli, rumore di questi poveri spigolatori del marmo, di questi indipendenti dalle grandi famiglie delle cave. Essi sono detti comunemente "spartani". Da questi scheggioni di marmo rifiutati cavano appena una tazza, un mortaio, un vaso di fiori. Li sbozzano sul posto; nel bianco indistinto dei detriti si disti nguono quelle forme uscite appena dalla sbozzatura; e spesso trovano di quel mar mo egregio che sembra una neve densa e posata quando si unge d'azzurro. Il cumulo dei detriti non ha mai un assetto stabile. Lentamente, impercettibilme nte, attraverso nuovi moti, spinte, correnti, e le valanghe nuove che scendono d all'alto, esso va avanti come un fiume; la montagna che cammina; le diverse onde del marmo voglion congiungersi in fondo alla valle, il terreno coperto di quest o materiale, il moto di esso cos fatale e sicuro che le casupole piantate nella v alle o sul pendio, rifugi di cavatori e osterie, in breve sono incrinate dai ced imenti del terreno. E sopra questo mare di pietra bianca, ondosa, rabbuffata, ab bagliante, si levano su dalle cave le lisce pareti del marmo compatto, tavole gi gantesche di bianco o di nero, su cui la fantasia leggerebbe chiss che immagini p rigioniere. Il blocco di marmo intero, rigido, squadrato, mostra quasi un'immagi ne sepolta dentro. Michelangelo diceva: "Io ne cavo via il dippi". La lotta coi detriti , fra le altre, una delle pi difficili e delle pi importanti d el cavatore. questione di vita o di morte delle cave. Queste hanno dovuto cercar sempre un pi alto gradino della montagna per sottrarsi al peso del materiale di scarto: formano pel monte come giganteschi scalini. In molti punti hanno quasi r aggiunto la sommit, scavano gi sotto la cima in cui la pietra si atteggia a statua ; cos fantastic qualcuno; una statua che si potesse vedere dal mare, radicata nel monte. Il bianco immenso intorno; i rombi, le scariche accompagnano chi sale per l'erta dove sull'ammasso delle pietre i passi dell'uomo hanno formato un viotto lo; pietra per pietra sotto il passo una lunga musica minerale, come se si cammi nasse per una tastiera. Dopo un poco si distingue il marmo calcinato dal tempo, e quello fresco, d'un bianco cavato ieri. Si cammina su un elemento incerto, sot to la minaccia dei detriti che rotolano a valle, si ha l'impressione d'un fiume gelato e miracolosamente praticabile; gi un lavoro salire quest'erta di dove si s corgono le grotte profonde e solide delle cave in un panorama da Purgatorio dant esco. Alcuni operai abitano villaggi vicini, villaggi di cavatori, o le case costruite in prossimit del lavoro. Altri vengono dalle marine a piedi. Non si vede che la pietra su cui s'impara a stare in equilibrio; qua e l, tra marmo e marmo, qualche

straordinario ciuffo di fiori o erbe azzurre. Il viottolo gira per la china con una sapienza d'orientamento, sempre al riparo dalla corrente dei detriti buttat a dall'alto; le filovie passano sopra coi loro carichi di sabbia, che, all'attri to del filo elicoidale nel masso, serve a tagliare la montagna di marmo. Dove l' erta pi faticosa, sul gradino pi alto, una mano al mattino ha scritto: "Forza Bind a". Forza, uomo! - doveva dire. Gi i muri dei villaggi, delle case sparse, i bloc chi portati al piano mostrano di queste iscrizioni. Sono i bollettini quotidiani della folla. Sentenze, esclamazioni, evviva e abbasso, epigrammi su un masso ca vato male, bollettini dello spirito della giornata; e non sono questi gli ultimi elementi che ricordano la vita di guerra, la manifestazione d'uno spirito colle ttivo. Quando vi passai, tutto parlava dei due corridori ciclisti allora in gara ; una parentela riunisce tutte queste fatiche, la fatica di lottare e di vincere , di arrivare primo, e in uno di questi campioni compendiato lo sforzo degli ope rai, come in liberi portabandiera della fatica umana. Ho visto, assai in alto, u na goccia di sangue su un ciottolo di marmo, e accanto: "Forza Binda!". A voltarsi indietro, raggiunta la sommit, la vertigine. Gi questa corrente bianca che sembra di veder muovere, poi tutt'intorno le cave con le lapidi immani su cu i la storia lenta del taglio del filo elicoidale come una rigatura su un foglio di musica; e poi la valle bianca, e sopra, sotto, intorno, il lavoro secolare de i muri di riparo. Per contenere la massa dei detriti nel suo continuo moto verso il basso, gli uomini, pietra su pietra, hanno costruito formidabili baluardi co n le stesse schegge del marmo. Muraglia dietro muraglia ricordano il Colosseo, l e mura pelasgiche, etnische; la pi antica fatica dell'uomo, costruirsi un riparo e un confine; coronano le sommit come fortezze, incorniciano la parte superiore d elle cave, sorreggono le piattaforme delle cave stesse, fanno da trincea dove lo scarico dei detriti minaccia di straripare, formano camminamenti sulle strade p raticabili, l dove il suolo minuta polvere bianca macinata dal passo degli uomini , dai carri, dai buoi magri che appaiati a decine aspettano l'enorme carico dei blocchi squadrati, sui carri dalle ruote formidabili. La montagna trattenuta da questi muri, capolavori di tecnica che seguono le accidenze del terreno, risolvo no problemi difficili di pendenze; e cos sicuri e fermi che altri blocchi sporgen ti, disposti a ventaglio, escono dal muro compatto e fanno da scala alla sommit per quando si seguiter a innalzare contro l'incombente marea di detriti. Tra questi baluardi corre o contenuto il f iume dei sassi, e corre anche una strada ripida, la lizza, per il trasporto al p iano dei blocchi cavati e squadrati. Era l'alba; vedevo scendere una "carica" di blocchi per la lizza ripidissima. Il masso, d'una ventina di tonnellate, legato e fornito sotto di alcune assi, sciv olava lentamente su altre assi insaponate come i falanghi su cui si mettono in s ecco le barche. I lizzatori, una dozzina, stavano intorno al carico badando a to gliere di dietro le assi a mano a mano che il blocco avanzava. Il capo lizza sta va, piccolo davanti al masso pauroso, al posto pi rischioso. Il carico, perch non precipitasse per la china, era trattenuto da corde d'acciaio che un uomo mollava gradatamente dall'alto, srotolandole da un gruppo di pali di legno infissi a un blocco di cemento. Questi pali son detti "piri". Spesso sono intaccati come da un taglio per lo sforzo delle corde, e per evitare che ne siano troncati l'uomo del canapo li lubrifica con olio minerale. L'altro giorno accadde che la corda d 'acciaio, tesa da quattordici metri, si ruppe, torn indietro, fu come un proietti le, colp l'uomo del piro, gli spezz un braccio e le costole. Forse si salver. Il capo lizza, davanti al suo blocco che precipitava, fece appen a in tempo a buttarsi da una parte, il blocco slittava per una ventina di metri, venti tonnellate, senza fare altre vittime. Eppure, nei tempi di gran lavoro, i lizzatori gareggiano a chi arriva prima col suo carico a valle, per le diverse strade di lizzatura. Talvolta accaduto qualche scontro fra questi carichi, con v ittime umane, perch arrivavano contemporaneamente al traguardo. Trenta uomini si mettono pel ripido sentiero e si passano la vittima, ricomponendosi pi avanti a s eguitare sino a che l'hanno portata al piano, con lo stesso metodo con cui spost ano le travi saponate sotto i grandi blocchi. Ho sentito anche qui un canto, il solo canto delle cave, quello con cui gli uomini si danno la voce per lo sforzo comune, intorno a un blocco. un "oh" pi lungo di quello dei pescatori alla rete,

una modulazione graduata, incessante di questo enorme sforzo umano. Lass, nella cava, l'acqua arriva nei tubi sospesi attraverso le valli, fresca. Ho veduto le giacche appese dei cavatori, vecchie giacche di velluto consunto, che non hanno pi nulla del tessuto, vere spoglie del tempo e della fatica. Ho veduto il loro pane e il companatico, e come si appartano solitari a consumare la loro colazione, e come tagliano la pagnotta, quasi ancora lottando. Il ragazzo passa di quando in quando colla cassetta degli scalpelli, che dopo un poco si rompono e scottano nel pugno. Il fabbro li ritempra. Il ragazzo li arrota sulla pietra dura. Gli operai guardano il loro blocco, prima di lavorarlo, come un medico gua rda un malato. Ricomincia la musica degli scalpelli, il lamento del filo elicoid ale, i soprassalti della montagna ai colpi di mina e alle scariche. Di lass si vede il mare. LE CITT DI PIETRA Quando conoscevo meno bene l'Italia ne avevo tutt'altra idea da oggi, e forse un 'idea pi ridente; i luoghi che non avevo veduto li chiudevo con la fantasia nelle pi facili reminiscenze; orti, giardini, olivi, cipressi; e in questo scenario ge nerico immaginavo qualche opera d'arte solitaria e miracolosa. Pi tardi le mie id ee mutarono; oggi il posto di quegli scenari naturali della mia immaginazione oc cupato dalle citt di pietra: la natura si allargata e diradata, e non mi riesce q uasi di vedere un uomo pei campi senza pensare al suo campanile, alla sua torre, alla storia del paese italiano, alla sua civilt moltiplicata per centinaia di lu oghi e genti, di cui difficile stabilire la gerarchia, ognuna coi suoi maestri g randi e piccoli che in civilt meno ricche sarebbero ognuno un capostipite e un ma estro, ma che nella nostra fanno disperare addirittura dell'arte come se tutti g li accenti fossero stati detti, per cui essere artisti originali fra noi legato a tanti sottintesi, ricordi, discendenze, che quasi ogni atteggiamento dello spi rito ha un legame e un richiamo. Ultimamente a Montepulciano, due sculture di le gno, dell'Angelo Annunziatore e della Vergine, ridotte in sacrestia e poi messe in onore nelle navate della cattedrale, hanno fatto ricordare a pi d'un visitator e la mano d'un grande maestro, d'un grande scultore esistito prima di Donatelle, una specie di Sassetta della scultura: e di lui non se ne conosce pur il nome. Cos, da rivelazione a rivelazione, si gira nella citt di pietra della provincia it aliana, quella che fu fondata dai contemplatori solitari, dai ricchi ugualmente solitari, in quell'isolamento della vita da cui nacquero i motivi che resero tan to difficile e lunga la sua unit, che da paese a paese formarono barriere quasi d i nazioni, e da regione a regione quasi di razze. Ve un'epoca del macigno nella vita italiana, tanto da sembrare che, dopo il seic ento, le cave non abbiano pi dato materiale per le costruzioni; dovette essere un gran giorno quello in cui gl'intonachi colorati fecero la loro apparizione. Se altrove rimangono d'una vita remota i dolmen e i nuraghi, nella provincia italia na del centro queste esigenze primitive delle abitazioni di pietra si mescolaron o a quelle delle arti e del lusso, la vita civile trionfando si ammantava del co lore della primitiva barbarie, e tale ancora il colore di quella vita. il colore inconfondibile dell'Italia antica, che non classico, che porta ancora in s il ricordo delle fortezze sui monti, delle acropoli, delle lotte fra le gent i delle vallate confinanti, dove nello stesso tempo presente una cultura e una c ivilt come d'un tempo fiorito sui monti e sui luoghi alti, una specie d'epoca mon tanara, col primitivismo dei montanari e il loro potere di contemplazione. Fu un a civilt puramente sociale, di rapporti e di classi, una civilt politica, come fu sempre quella degli abitanti delle montagne in nuclei caratteristici. In essa le famiglie, che avevano formato i clan delle societ primitive, sopravvivevano con lo stesso significato e la stessa funzione; in quel clima si svolsero i termini di quella civilt italiana che ancor oggi ha per base la famiglia, l'unit familiare , e i doveri di questo nucleo e i suoi diritti. La vita italiana ebbe in tal mod o alle origini una civilt di tipo patriarcale, maturata per in un clima dove il se nso politico era gi perfetto. Tutta la civilt politica italiana fu poi per lungo t empo una questione di famiglie e di gruppi; da essa provenne l'assetto civile di poi, la civilt basata sui doveri e sui diritti del chiuso circolo familiare. "Ha famiglia, ha figli", si dice ancor oggi di chi merita ogni attenzione, che ha l a natura d'un privilegio. E s' spiegato tutto. Il concetto dei clan si temper, i d

iritti prevalenti delle grandi famiglie si diffusero in ogni pur umile aggregato familiare. Se c' un fatto sociale profondo che distingue ancor oggi l'Italia nel novero delle societ moderne appunto questo, d'essere composta di tanti microcosm i familiari. Fu questo gi un fatto etrusco, fu un fatto romano; lo fu poi di tutta l'et di mezz o, il segreto della vita italiana, delle sue lotte, dei suoi trionfi, della sua impenetrabilit, talvolta dei suoi squilibri. Un simile aggregato nelle sue forme originali dovette essere adattissimo allo sviluppo delle arti. Anche le arti si composero in gruppi di famiglie, e cominciarono le discendenze delle famiglie ar tigiane. Il fatto questo: che da citt a citt si ritrovano quasi gli stessi ideali costruttivi, ornamentali, raffigurativi, narrativi, che le opere portano nomi qu asi del tutto sconosciuti, e riproducono in forme locali le creazioni dei centri maggiori; o meglio, spesso creano sulla stessa linea di questi, senza pur conos cersi: quasi che il decoro, la potenza, la pompa, avessero un linguaggio unico, la maest una forma sola di apparire, al modo stesso che nella pittura vi fu quasi un solo modo di raffigurare gli atteggiamenti dello stupore, della beatitudine, del dolore. Fu questa ispirazione popolare, che si ritrova in ogni maggior arti sta come una determinante della personalit, della sua qualit, della sua vocazione, che d il tono unico dell'arte italiana. La quale fece come chi diventi attore eg li stesso e rintracci le forme con cui si possono atteggiare le persone e i sent imenti; c'era un compiacimento in cui la fede e la curiosit facevano tutt'uno, un a specie di antropomorfismo di nuovo genere; e cio, mentre i pagani attribuivano agli dei i loro sentimenti in forme perfettissime, gl'italiani non soltanto i se ntimenti, ma gli atteggiamenti, il costume, la razza. C' un grandioso mimetismo i n fondo a tutta l'arte italiana illustre, e uno stupore di tale mimetismo. Quanto all'architettura di queste citt, non si tratta soltanto di modelli classic i ripresi e riecheggiati, ci che sarebbe andato poco oltre, e al pi avrebbero dato freddi risultati come quelli che vennero dipoi; ma immaginando gli artisti, att raverso figure vedute e rappresentate, la potenza come un ideale, allo stesso mo do della bellezza, costruirono quasi sognando, quasi rintracciando un mito, mett endo intenzioni in ogni dettaglio, poich gli architetti antichi non fecero altro che monumenti alla potenza come concetto astratto, palazzi all'astratto dominio e potere, e le loro costruzioni furono quasi simboli e concetti, fantasie sul po tere e sulla forza. A tal punto che per molto tempo esaurirono il tema, e in mol ti di cotesti esemplari, in cui non sai dove cominci l'ingenuit popolare e dove p oi quella grande forza d'un concetto quasi religioso, un occhio acuto pu scoprire quasi l'anticipazione di molte forme nate pi tardi, e preannunzi gli stili che s i dovevano sviluppare. L'arte antica sarebbe dunque stata simbolica e fantastica , quasi il sogno delle cose che voleva rappresentare. Nelle citt antiche non si trova un solo spazio di verde e respirabile, le citt si chiudono di fronte alla natura e ai pi straordinari panorami perch tutto spira vit a civile e umana, intelligenza. L'uomo crede a se stesso, rompe i rapporti con l a natura, meglio ancora ne simula l'ordine, ma la perfeziona, e le sue raffigura zioni sono come ricordi lontani d'una vita naturale ridotta a modello. Entrato n el concetto dell'arte, fa a meno di ogni altra creazione che ritiene spuria, per ch l'arte una realt fittizia, in cui la natura porta soltanto turbamento e squilib rio. Al contrario oggi, la natura entra come un lusso e un correttivo, rappresen ta quell'evasione che un tempo era funzione specifica dell'arte. Senza contare c he noi oggi molte cose, per esempio gli antichi edifizi e rovine, li consideriam o come natura. Ma nelle citt antiche, pietra sono le strade, pietra i selciati, p ietra le facciate e le statue, tutto dura e arida pietra. Le prospettive si form ano da s come le prospettive sociali: la potenza e la forza hanno spazio e altezz a, i gregari stanno in basso. E quale pietra. Pietre d'ogni natura, da quella pi dura a quella pi friabile, e in questo ambiente, che assume a momenti l'aspetto d 'una gigantesca costruzione in una cava di macigno, i pensieri degli uomini si s ono chiusi per sempre nei concetti civili, in un tal ordine per cui il popolano italiano ha in s tutte le possibilit della vita civile. Per questa limitazione, pe r questo assetto quasi antinaturale in seno alla stessa natura spesso ricca e fi orente, il popolo ha gl'impulsi di ascensione e di perfettibilit della sua razza. Ultimamente in una di queste citt mi aggiravo con questi pensieri. Sarebbe bastat

o entrare in una chiesa per rivedere il popolo stesso nelle immagini sacre, al p unto da non saper distinguere se l'arte ha dato a quelle fisionomie una nobilt, o se i visi di quel popolo hanno dato umanit ai santi. I nomi dei passati signori del luogo risuonavano da palazzo a palazzo come di esploratori travolti tutti ne lla medesima distanza e nel medesimo viaggio, e dietro a loro era la storia dell e violenze e delle ambizioni che era costata l'affermazione di quella umanit. C'e ra una zona di silenzio in cui risuonavano le voci dei conventi; di l d'una grata buia gl'inni delle monache sembravano parlassero a noi che ascoltavamo, come se si confidassero, tanto pareva impossibile che quelle armonie di accenti sorgess ero per dileguarsi nel silenzio pi sordo. Anche questo aveva dell'arte. E le chie se gigantesche le quali hanno finito ad assumere l'aspetto medesimo d'una roccia , e i suoni dei nostri passi sul selciato, e l'unica vista che si apriva dall'al to non per mirare la valle, ma per guardare al cimitero, o a una chiesa pi in bas so. Ero a Cortona. Per vedere qualcosa di vicino alla natura, andammo a visitare una tavola dell'An gelico. Aveva l'Angelico coscienza di quello che faceva, oppure sul filo d'una m emoria felice, nelle mura della citt di pietra, rammemorava gli aspetti lasciati alle soglie della vita contemplativa? In uno dei riquadri della predella raffigu rato come due angeli soccorressero i domenicani che mancavano di pane: si vede u n piccolo refettorio, i commensali nelle tonache bianche e nere, e due angeli li servono nei loro panni argentei e con le loro ali. Ma questo pare svolgersi sen za stupore alcuno, come un fatto credibile, e nel novero delle possibilit. Non so se questa situazione sia un segreto delle arti antiche. Ha un malizioso e ironi co avvertimento. LA VIA EMILIA L'uomo se ne andava in bicicletta; con una mano teneva il manubrio, con l'altra stringeva la briglia del cavallo, corta al barbazzale; il cavallo teneva dietro alla bicicletta al trotto; si sentiva il fruscio lungo della bicicletta e il ton fo regolare degli zoccoli, il cavallo era bianco. Questo gruppo me lo ricorder co me se lo avessi veduto dipinto. I cavalli animano della loro presenza la Via Emi lia, al trotto, ai carrettini, ai calessi; si ritrovano in fondo alla strada, su l mare, che entrano nel mare come i cavalli del sole; ma prima sulla strada, pei campi, nei grandi prati degli allevamenti. L come gli amici pi vecchi dell'uomo i n cammino, qua nelle loro stalle dove non fanno che mangiare coi loro piccoli; i l figliolo vuol mettere il muso nella mangiatoia della madre, la madre gliela la scia e va a quella di lui, ma anche di l il figliolo la caccia. Volteggiano nella stalla come duttili spade, guardano come se vi guardasse la natura, stanno ferm i e seri dietro la mezza porta su cui scritto il loro nome. Presentono la vigili a della corsa come una ballerina la vigilia della sua grande serata. C' qualcosa di conturbante in questa inquietudine animale tra gli uomini affannati al pi picc olo sintomo d'una bestia che non pu parlare come chi non riesca a dire quanto sof fre. Vedere questo sentimento dell'attesa, della gara, della vittoria in una bes tia, fa un ben curioso effetto, come d'una troppo forte ispirazione: lo stesso s enso di pena e di sbigottimento che si prova davanti ai ragazzi prodigio che pen sano cose pi grandi di loro. La Via Emilia, da Bologna a Rimini, traversa paesi in piano che vi convergono tu tti come alla via centrale d'una grande citt. Non soltanto una strada di transito , ma una via familiare: vi si legge la vita di due regioni, il loro assetto, il loro costume, le loro abitudini, una via dove si sentono gli uomini coi loro pen sieri. Altre regioni sono difficili da esplorare; di questa basta percorrere la sua strada vitale per averne un'idea, anche se alla fine i colli e i monti impro vvisi danno coi loro castelli un lato insospettato d'un carattere ch'era parso t anto facile. In carretto, in bicicletta, in automobile, viaggiare sulla Via Emil ia mettersi in rapporto con un popolo. una strada che la meccanica ha restituito alla originale funzione di arteria centrale, la pi mossa ch'io conosca. All'imbr unire non raro incontrarvi, prima d'Imola, un cardinale che va a piedi col segre tario a lato che gli legge qualcosa, come se andassero per un parco. Eppure v' un passare continuo di veicoli, una grillaia di biciclette. Ma viva, un ambiente, pur senza straordinarie prospettive: nient'altro che due parallele attraverso ca se sparse e campi, rari colli, fino a quando s'apre come un delta nella imminenz

a del mare. Qua e l, alle soste davanti alle botteghe dei meccanici, sembra si as petti continuamente l'arrivo d'una gara; le citt in piano, con la loro torre, il loro portico, il loro campanile, raccolgono un poco quella vita fuggente, sono i grandi concentratori d'una energia diramata agli estremi dell'orizzonte. un'umanit che ha la terra dura, il lavoro duro. Arano con talvolta tre o quattro coppie di buoi per aprire la terra; in alto sui magri colli raccolgono in grandi vasche l'acqua invernale per dissetare d'estate le bestie; in basso cercano ass ai profonda l'acqua per gli uomini e pei campi. Ed tuttavia una delle contrade p i prospere d'Italia. Vi si cercherebbe inutilmente quel tanto di decorativo di al tre regioni meno ricche e pi felici, la sua bellezza di tutt'altro genere dall'us uale. A internarsi nei campi, per le borgate, i casolari sparsi, dove la terra f a una ruga o il torrentello una valletta, all'ombra del pioppo, tra la scuola e la bottega che talvolta formano tutto il centro d'un villaggio sparso, si trova il raduno d'una vita alacre, sempre intenta a qualcosa. tutto ordine, e siccome tutto necessario, tutto forza; e la bellezza un continuo richiamo alla forza e a ll'utilit. In uno di questi luoghi io visitai un famoso toro di Romagna come si v isita un monumento. Lo fecero uscire sul prato, lo fecero un poco girare attorno , quasi domandandomi che me ne paresse; gli uomini da una parte contemplavano la nera bestia giudicando della sua bellezza e della sua potenza, come altrove si guarda uno spettacolo; ma c'era un'ammirazione come verso un capolavoro dell'uom o. Uno degli spettatori mi disse: "E poi, v'assicuro che sembra un signore, tant o fa con delicatezza". Ho sentito, negli stessi luoghi, parlare con la stessa am mirazione d'una gran quercia o platano a qualche chilometro di distanza. A una t erra che richiede cos grandi sforzi ci vogliono cose robuste, uomini, animali, al beri. Le case dove si trovano fanno un paesaggio, ma di cose necessarie: il cane legat o al lungo filo di ferro su cui scorre la sua catena, la stalla, lo stagno per l 'acqua delle bestie. In una sosta a coteste case c'era un veterinario che castra va certe maialine, e un cane ai suoi piedi mangiava quello che la mano dell'oper atore buttava via. Una scena d'una chiarezza e d'un realismo ben stretti, che al trove, mettiamo in Ispagna, chiss che colore avrebbe avuto. Qui era tutto nel rea le. E poi, la solidariet di questi uomini con gli animali. C' una gerarchia dall'u omo alla terra, dall'uomo che lavora alla donna che regge, alla bestia che serve : c' una gratitudine nella fatica comune. A ognuno il suo. Una sera, di sabato, nella casa del Dopolavoro d'un piccolo comune di case spars e, si teneva gran ballo. Le biciclette stavano in cerchio sul prato, manubrio co ntro manubrio come i cavalli o i cammelli in cerchio muso a muso; le ragazze col loro vestituccio da sera erano scese e ballavano nella sala, mentre arrivava an cora qualche automobile da Imola o da Bologna. Tanto i cavalieri che le dame era no gente del contado, le ragazze di quelle che il giorno hanno da fare con le be stie e l'opre della campagna e che affondano le vanghe nella terra con le loro p oderose strutture di corpi. Tutto era vacanza e riposo, i ballabili della radio parevano divenuti agresti, la malinconia urbana era una fantasia nostalgica, e t utto questo non riusciva a diventare borghese o comune. Altrove potrebbe sembrar provinciale - delle contadine che ballano col vestito da sera un po' scollato s ulla pelle brunita dal sole, nude le braccia che sanno l'angolo forte della vang a; e in una casa solitaria, illuminata in un gran prato. Qui era soltanto un'eco di vita del mondo grande, e la scena la si poteva immaginare in una contrada as sai pi lontana dove convergono genti che hanno da fare con una vita attuale e pre cisa, e che, dovunque vadano, portano l'eco ultima della vita civile. E non so s e con la medesima naturalezza. S'aprono improvvisi panorami sugli argini dei magri fiumi dove una fila di piopp i e una proda creano qualcosa di appartato; donne vengono avanti tra i filari de gli alberi argentini, coi campanelli argentini delle biciclette; alcune a coppie , e discorrono mentre il pedale dipana la strada; ne ho viste alcune portare maz zi di fiori di campo e frutta, appesi al manubrio; o le sere di festa i loro ves titi da festa; gl'improvvisi chiari del volto e gli zigomi forti che sono come d ue punti di luce, e quel che d'azzurro che non soltanto del cielo, o del mare ch e gi imminente trema nell'aria, ma delle loro vesti e in qualcosa di loro. Le bic iclette alle porte della citt sono come telai fermi; mi sono domandato pi volte di

dove venga quel colore di certi angoli di citt a Imola, a Cesena, a Forl, dove le botteghe di rifornimento per le biciclette e le macchine hanno un colore d'arri vo equivalente a quello dei vecchi alberghi di posta; forse sono gli stessi luog hi d'un tempo trasformati pei cavalli d'acciaio d'oggi. Le donne si compongono c ontinuamente sul sellino, la veste, i capelli, e si capisce che badano a non sci upare nulla delle loro acconciature pei ritrovi festivi. Altre, sedute davanti a l ciclista, quasi fra le sue braccia, sembra si facciano rapire. una vita vagant e come quella del polline dei fiori, e la terra tutta una cosa ordinata. Si legg e chiaramente la funzione vitale dell'uomo in una specie di rappresentazione sen za ipocrisie, ma che non ha rotto i suoi veli. Si capisce che ogni ora va vissut a come un compenso dell'uomo. bello stare insieme, danzare, andare incontro all' amato, ritrovarsi con altre creature. un grande ordine naturale. In quest'estrem a fase di vita civile, v' l'incanto di una primitivit, forse perch questa una civil t nata coi problemi pi gravi dell'esistenza presi d'assalto, una civilt degli uomin i tutti e non d'una sola categoria d'uomini. Lotte e rivolte hanno fatto misurar e il peso della vita, i bisogni l'hanno temprata, e le conquiste sono cos dure ch e fanno un solco nella vita pi immediata. Nei giorni di lavoro, queste stesse don ne portano i ragazzi, i bambini, reggendoli con un braccio sul manubrio della bi cicletta, il fazzoletto nero sul capo, le gambe nude, e i panni svolazzanti. S, p are che volino e i piccoli imparino a volare. E sono belli i sabato sera sull'ai a; i giovanotti col fiore tra le dita hanno accompagnato la ragazza dal centro d ella borgata. un incontro assai semplice, come in un trattato degli istinti. La notte si sente la lunga e incessante vicenda dei carri, che come il respiro e il battito di un organismo. Talvolta qualcosa si ferma, stride, precipita. Ripr ende; la vita, la strada. Si dorme quasi sulla sicurezza di questo ritmo. Ma for se l'ora pi bella della Via Emilia la sera. Il sole s'infila per la lunga strada col suo color rosso come in un corridoio, e contro di esso la valanga dei veicol i torna col rombo di una tempesta fuggendo la notte imminente. Pare che una gran de porta si chiuda sull'orizzonte e per il piano. Qualcuno va a piedi lungo il m argine della strada; e solo nella notte abbandonata ci si accorge che vi sono de i viandanti. Appaiono i grandi convogli notturni dei grossi trasporti che vanno lontano. I fattori che dissociano la vita sono quelli economici. Sotto la spinta del biso gno, si dividono le famiglie, partono, emigrano, cercano ventura; si fissano nuo vamente e si riuniscono davanti al sorriso della fortuna. Il nucleo emigrato con serva gelosamente il tipo di vita anteriore al suo distacco dalla patria; si pu d ire che, al paragone d'una comunit italiana fissatasi a Nuova York mettiamo quara nt'anni fa, le comunit rimaste in un paese italiano sono in un certo senso pi evol ute e hanno assorbito assai pi dalla vita moderna: il nucleo emigrato conserva le sue abitudini e tradizioni sotto la stretta della lontananza, nella polemica co ntinua con la nuova vita; mentre la comunit rimasta in patria si adegua alla real t viva dei tempi. Mi diceva qualcuno che in Emilia e in Romagna la nuova generazione si esprime se mpre meno nel suo dialetto, e ci sarebbe, secondo lui, un male. Immaginiamo una s ociet italiana interamente evoluta, e vediamo che cosa significherebbe un'unit lin guistica, cio una cultura. Nella pratica dell'emigrazione e dell'espansione, appa rso chiaro sempre che i popoli pi colti e pi legati alla lingua nazionale non hann o ceduto alla nazionalizzazione, o hanno costituito addirittura un impero lingui stico che quanto a dire morale e in moltissimi casi politico. Al punto cui sono i dialetti italiani oggi, penetrati profondamente di linguaggio nazionale, e con un ormai poverissimo vocabolario veramente arcaico e veramente locale, non rapp resentano oggi che una curiosit e un impaccio. Seguo da anni la polemica d'una ce rta comunit regionale dell'America del Sud, e vado notando che essa polemica tend e a ravvivare in detta comunit il senso della patria svolgendosi quasi del tutto intorno agli uomini pi o meno grandi che la regione di questa comunit ha dato alla cultura nazionale, e quindi al progresso e alla bellezza dell'universale. Cos, m entre in certa borghesia italiana il fatto della cultura si fa sempre pi genere d i importazione, quasi direi di colonizzazione, l'italiano all'estero ricerca i t ermini della cultura nazionale come i soli nei quali si possa rispecchiare, e ch e gli diano diritto di sedere fra popoli civili.

Siamo in un tempo di grandi mutamenti che di giorno in giorno incidono nell'aspe tto e nella mentalit del nostro paese. Quello che accade nella trasformazione dei dialetti i quali tendono sempre pi a confondersi con la madre lingua, accade neg li animi, negli usi, nelle tradizioni. In queste campagne, tale evoluzione si fo nda su un terreno di tradizioni locali. Il cinematografo, che il grande colonizz atore e livellatore moderno, il cui influsso non stato ancora abbastanza conside rato fra noi, ha in queste regioni poca presa. Sotto i portici di Bologna, s'inc ontrano meno che a Roma ragazze che vogliono somigliare a Jean Harlow o a Greta Garbo, fenomeno ripugnante, perch l'imitazione esteriore causa di uno squilibrio totale delle qualit femminili, incluse quelle pi intime e fisiologiche. Esiste inv ece qui un adeguamento alla vita moderna, una maggior propriet, una unificazione del costume, sempre sulla linea di questo paese egualitario, gerarchico ma non s ervile, che vuol star bene sulla sua terra. Egualitario, ma col senso della sua personalit, che poi il carattere dell'italiano in genere. Il contadino che m'ha accolto sulla soglia della sua stalla, vestito di buona st offa e di buon taglio, vestito da festa perch Sant'Antonio abate protettore degli animali, non per niente ridicolo o vano. Pretendere usi e costumi che stabilisc ono una differenza, significa voler differenze di classi e di caste. Il popolo i taliano non fatto per queste cose. Il segreto stesso della sua fortuna in un suo atteggiamento particolare, forse unico, che consiste nel superare di continuo l o schema delle categorie, e pur rimanendo contadino e operaio avere gl'interessi e i bisogni di chiunque altro, nel limite delle sue condizioni. E questo il sol o modo per tenerlo legato alla sua terra e alle sue occupazioni tradizionali. L' emigrazione un prodotto del disagio materiale, ma pi del disagio morale in una st ruttura sociale oppressiva e di troppi privilegi: basta osservare la storia dell 'Italia meridionale nei primi quarant'anni della vita nazionale italiana. Qui ab biamo invece gente che si trova bene sulla sua terra difficile ma grata, e che h a stabilito uno dei nuclei pi compatti del vivere sociale. Negli anni scorsi vi fu una certa emigrazione dalla campagna emiliana verso la c itt, particolarmente di giovani contadini; il basso prezzo del bestiame e delle d errate li spingeva a inurbarsi, alla ricerca di un lavoro di operai. Quasi tutti quelli che emigrarono dalle campagne sono finiti male. Poi i prodotti agricoli aumentarono di prezzo. In pochi mesi si sono ripopolate le stalle, il contadino che da anni ormai non riusciva pi a comperare il bestiame da allevare in partecip azione coi padroni, in pochi mesi ridivenuto proprietario, ed ricorso perfino ad alcuni metodi di allevamento moderni che hanno dato per risultato l'aumento del peso del bestiame. La ripresa agricola e dell'interesse agricolo ha prodotto qu i come in ogni altra parte d'Italia un fenomeno che si fa sentire nella citt: ces sata anche l'emigrazione delle ragazze che dalla campagna andavano a servire nei centri urbani. Immaginiamo che duri ancora un pezzo questo fenomeno, e vedremo che la vita familiare subir in citt profonde modificazioni. una ricerca di individualit voler vestire in campagna come tutti gli altri, e per le donne del contado piacere come piacciono le donne della citt. I vecchi bronto lano, qualcuno si domanda dove andremo a finire. Ma soltanto un'unificazione del costume che rende fisse le categorie umane e che determina il minor numero di s postamenti e d'inquietudini. Il problema della vita italiana sempre consistito n ella mancanza di una societ. Paese d'individualisti, il nostro urt sempre alle dif ficolt d'una vita collettiva e unificata, progredita tutta sullo stesso piano e t utta mossa dai medesimi impulsi. Quando, dunque, il contadino col suo abito da festa di buona stoffa e di buon ta glio mi fece entrare nella stalla, vi ritrovai tutta la famiglia raccolta nel bu on tepore e in quel vivo ruminare. La nebbia di fuori entrava a buffi per lo spo rtellino praticato nell'uscio: al di l si vedeva la campagna addormentata nell'in verno, i profili degli alberi e delle viti ingigantiti, e grandi nella nebbia gl i uomini che apparivano e sparivano alla svolta della strada. L dentro, tutti oss ervavano la festa del protettore degli animali, e gli uomini che andavano attorn o alle bestie, i ragazzi che giocavano coi biscottini della festa, e le donne se dute a discorrere. Non filavano neppure la canapa lucente e leggera nella conocc hia di canna. In un angolo, due innamorati si dicevano qualcosa di molto serio, le cose pi serie del mondo presso i vitelli con le zampe ancora troppo grosse e c

ol pelame di latte sfrangiato come i primi capelli degl'infanti. Una donna adult a, col fazzoletto rosso sulla testa, si aggirava senza paura tra quattro tori le gati all'anello, e questo era il suo vanto; quando mi fecero notare questa sua v irt, ella venne avanti e mi disse che difatti i tori non le facevano nulla, come se ella portasse un potere naturale. Non c'era pi da chiedersi se i mutamenti del vestito e una diversa concezione del la vita avessero distrutto una tradizione. E poi, che cos' la tradizione? Niente altro che il culto delle cose vere, dei sentimenti veri e connaturali. Bisogna d iffidare di chi vuol richiamare in vita tutto quanto colorito, sol perch colorito ma che non dice pi nulla al cuore di nessuno. Ho veduto pi volte balli folclorist ici, le ragazze in costume col viso imbrattato di belletto, e me ne venuta un'im pressione di malinconia. Tutti, ho sempre veduto a tali spettacoli, vi provano i l fastidio che danno le cose false e senza pi significato. Gli stessi costumi che in tali circostanze indossano i giovani, sembrano d'un guardaroba teatrale, e i movimenti che essi fanno non sono pi quelli d'un tempo, entro la strettura del v ecchio pudore, della vecchia riservatezza, ma acquistano qualcosa di equivoco, p erch il modo di muoversi d'oggi un altro; sotto quei panni da museo, spesso i gio vani sembrano in maschera, con la smoderatezza delle persone mascherate. Insomma , un costume bisogna saperlo portare, e cos gli usi e le tradizioni; un costume u n modo di pensare, non un modo di ballare e di puntare i pugni sui fianchi. Mi f a pi piacere vedere le ragazze di qui che vogliono vestire come le signore delle citt, che vanno al loro ballo del sabato sera, e nello stesso tempo sospettare ch e qualcosa della loro vera e profonda vita antica sia rimasto in esse, qualcosa che non sia soltanto un atteggiamento. Il ragazzo che ha adocchiata la sua bella e che vuole sposarla, dopo essersi acc ertato d'essere ricambiato va in chiesa, alla funzione della sera, e dopo la cer imonia aspetta fuori della porta. Quando esce la sua bella, le si mette accanto. Questo il segno che la vuole. Le si mette accanto e cammina con lei per un poco , spesso camminano e camminano senza sapersi dire una parola, col cuore in tumul to, rossi in viso, col passo uguale che va sulla strada molle, poco pi alti della siepe che divide i campi. E zitti, o con quelle parole che nessuno ha mai scrit to, tanto comuni e piene di senso. Poi ci sono tante maniere d'incontrarsi, le s ere della spannocchiatura, o il ballo del Dopolavoro, o le sere d'inverno nella stalla dove le famiglie passano la stagione cruda in cui la terra riposa e i buo i seguitano a ruminare. Le famiglie che s imparentano s'incontrano il giorno in cui stabilito il matrimonio. Ma gi la ragazza, ha detto ai suoi parenti che ella si promessa. La sposa provvede alla biancheria della casa e al vestito di nozze dello sposo; lo sposo porta i mobili della stanza da letto e la cucina. Un piatt o del pranzo di nozze il fegato di bue. Mi domando di dove venga questo piatto r ituale e mi viene a mente qualcosa di molto lontano, il Fegato che si trovava ra ffigurato presso gli etruschi, il famoso Fegato di Volterra. E vorrei immaginare la scena che si svolge otto giorni dopo il matrimonio, quando la sposa torna in casa della madre e, come si dice, "va a prendere il voi". Ella entra e dice all a madre: "Mamma, sono qui a prendere il voi". La madre dice allora alla figlia, dandole del voi che poi le dar sempre perch ella divenuta sposa e sar madre: "Accom odatevi". La sposa rimane nella casa materna otto giorni, e vi fa come una ripet izione dei suoi doveri di madre e di sposa: aiuta i lavori, sbriga le faccende, bada ai bambini; fino a quando, otto giorni dopo, il marito verr a riprendersela. Ella entra a far parte d'una nuova famiglia, una nuova stirpe come si dice qui, sotto il comando dell'ascendente pi vecchio che al sabato divide tra i suoi fami liari il denaro per gli svaghi della domenica. A questi vecchi tutti debbono obb edire, altrimenti la stirpe si divide, e dividendosi non ha pi le braccia suffici enti per condurre il terreno. Ubbidienza, ubbidienza. Da quando sono in mezzo ai contadini e a chi lavora non sento parlare d'altro, e i fatti della vita non cu lminano in altra parola. TORINO E L'ARCHITETTURA Nel libro di storia delle nostre prime scuole, voltata una certa pagina, si affa cciava dalle vignette tutto un altro mondo da quelli prima veduti; n le teste arr icciate del medio evo, n i profili taglienti del Rinascimento che a mano a mano d ivengono obesi, n scudi n armature n elmi erano, ma un'altra umanit vestita di panno

, disadorna, reale, comune. I baffi grandi e le barbe non nascondevano i nasi a scarpa, gli zigomi da montanari, mentre i capelli corti scoprivano le fronti dri tte da ragionatori: in una grande storia di santi, profeti, eroi, spesso ai conf ini della favola, di donne virili e bruciate della stessa febbre troppo divina o troppo umana degli uomini, era il Piemonte che bucava la pagina coi suoi re e i suoi ministri; il mondo pareva rivestirsi in borghese, c'erano, invece delle ce late, occhiali a stanghetta; soltanto Garibaldi ricordava ancora il viso e il co stume antico dei Camilli o dei Giovanni dalle Bande Nere. Una razza fino a quel momento sconosciuta, ma precisamente quella che nella storia d'Italia ricomincia va, quasi che, dopo predicazioni, lamenti, appelli, profezie di gente in cappa, in lucco, in tonaca, in corazza, una generazione nuova in pantaloni lunghi, alla quale si potevano contare i bottoni di metallo sulla giubba, e non pi con visi i deali, ma di vicini di casa, avesse alla fine raccolto l'appello di ben tredici secoli. Cos il Piemonte entr nella nostra fantasia di non piemontesi. Pi tardi, accostandomi al Piemonte, quella prima impressione si schiar. Quei visi di tutti i giorni entrati nella storia, n apollinei n angelicali n eroizzati, segui tai a vederli in ogni manifestazione della vita e dell'arte piemontese: santi, g uerrieri, legislatori, tutti del medesimo stampo; quando l'arte piemontese risen te, come ogni altra arte minore, le influenze del Rinascimento, in cima a tutta l'idealizzazione o convenzione rinascimentale ecco un viso da montanaro; ecco il Cavaliere col cranio da alpigiano sullo sfondo dei salotti rococ; sono proprio g enti delle vallate, e non, come accade nell'arte francese, gentiluomini travesti ti. E don Bosco? Ha lo stesso viso. Prete, apostolo, poi santo, anche nella tras figurazione e gloria che se ne fece in Vaticano il suo arguto e realistico viso di piemontese rimase immutato tra la gloria degli angeli. Solo uomini, e uomini di qui. Primitivi e cinquecentisti, accettando in Piemonte la cifra in voga nell 'arte italiana, un punto non accettano, ed la trasfigurazione delle sembianze um ane, sia idealizza2one o adulazione cortigianesca. Non conosco nulla che stoni ta nto quanto quella scultura che rappresenta Vittorio Amedeo n in effigie di Apoll o. Tutto ci mi pare nella valutazione dell'arte piemontese un punto che scopre non s oltanto una fedelt al tipo umano, ma una fedelt a quello che cotesto tipo signific a: ed realismo, fede nell'opera dell'uomo, senza infatuazioni n depressioni. Che siano legislatori o santi, lo stesso. Due santi, don Bosco e il Cottolengo, non hanno operato altro che nell'umano; entrano nella categoria dei servi di Dio all o stesso modo dei Cavour o dei Vittorio Emanuele servitori della patria da uomin i moderni e da borghesi, tra uomini e tra borghesi: e non raro trovare nei loro accenti e nella loro fede una punta di scetticismo o di bonaria ironia. Esiste nell'antiquaria, nell'argenteria, nel mobilio, uno stile che si chiama Ve cchia Torino, e che sta accanto al Vieux Paris, all'Altes Wien. I tempi si corri spondono, e le epoche, e le tendenze civili. L'arte grande e aulica ha finito di corrompersi, la politica diviene economia e amministrazione, i grandi movimenti rivoluzionari si coagulano in patrie, nascono le capitali moderne e monarchiche , nasce l'industria, e non rimane che l'arte per l'uomo. In tutto il resto d'Ita lia s'era gi finito di costruire, i palazzoni cadevano in rovina; il Barocco riso rge a Roma, ma intento a rinnovar chiese, a sistemare piazze e fontane intorno a lle chiese; a Torino si dedica a erigere palazzi e abitazioni per la nuova civil t dei re, degli eserciti, degli amministratori. Piazze squadrate come piazze d'ar mi, strade dritte e grandi viali, le citt a scacchiera come un campo trincerato. Torino, costruita come espressione d'una monarchia militare, tramand la sua strut tura fino a Vienna, a Potsdam, a Praga, a Riga, a Varsavia, a Pietroburgo. Se la villa rinasceva in Francia sulle ceneri della villa italiana del Cinquecento, l 'arroccamento della citt moderna nasceva a Torino. Proprio a Pietroburgo ebbi l'i mpressione che sia la citt d'Europa pi somigliante a Torino, perfino in quel Palaz zo dell'Ammiragliato, con la sua cupola e la sua freccia puntata nel cielo, il r icordo della Mole Antonelliana. Un'impressione come di elementi noti che avesser o cambiato posto; d'una citt visitata in sogno, nuova, ma con gli elementi d'un'a ltra citt e gli echi, improvvisi delle architetture, delle strade, delle prospett ive. Imparenta queste citt non soltanto la nascita sotto la volont d'una monarchia mili

tare, e che qua come l furono architetti italiani a lavorare; sarebbe uno studio interessante rintracciare i rapporti dei Guarirli, dei Juvara, dei Castellamonte , con i Rastelli e gli altri architetti italiani che lavorarono in Russia, e la provenienza di quell'architetto italiano Gonzago di cui parla Glinka, che costru nell'Ottocento le chiese del Cremlino riandando sempre al modello barocco. Non b isogna dimenticare che, nell'architettura russa, si va nel Settecento dal vecchi o schema tartaro che gi qualche italiano aveva tradotto in termini rinascimentali al Barocco italiano, e in quel tempo Juvara e Castellamonte avevano gi fatto la loro parte a Torino. Solo che lass, in quel cielo boreale, il sodo del muro tra c olonna e colonna a colori vivi, rosa arancione e malva, e a Torino rimane lo sca bro e brusco colore del mattone. Due temi di architettura torinesi mi paiono gra ndissimi e imitatissimi: il Palazzo Carignano e la Piazza San Carlo, Guarirli e Castellamonte. Nell'Europa centrale, fino al Baltico, le citt ricordano Torino, n ello stesso clima di allora, piccola di fronte alla formazione dell'Impero austr ungarico e dell'Impero russo, ma respirante in un clima vivo e attuale. Le arti minori vi sono di riflesso, il mobilio e la decorazione, ma ostinatamente ribadi te su un'ispirazione tutta propria, e assurte perci a uno stile riconosciuto; cur ioso vedere la galanteria francese dei Boucher e dei Fragonard diventare scontro sa e sanguigna alla maniera montanara nei pannelli decorativi di certi palazzi t orinesi. Vi sono citt e luoghi che, scorgendone l'immagine, ci sembra di aver veduto. Dove ? Quando? In un sogno anteriore a noi, si potrebbe quasi credere, nella vita e n ella memoria dei nostri avi che vi furono, quasi che coi caratteri aviti noi ere ditassimo la memoria dei luoghi veduti dagli occhi materni e paterni. A me, raga zzo, parve d'aver conosciuto l'Alhambra, dove non ero mai stato, appena buttai g li occhi su una cartolina che la rappresentava. A molti, per altri paesi e contr ade, accadr la stessa cosa. Questi riconoscimenti improvvisi, come se noi ci rico rdassimo subitamente un paese visitato oscuramente nell'infanzia, nascono da una somma di elementi a noi familiari, attraverso le letture e gli aspetti naturali , o dai pochi elementi artistici con cui noi facciamo primamente conoscenza, che tutti insieme empiono del loro ricordo esattamente il quadro nuovo. Cos un bosco o una dolomite ci avranno gi suggerito l'idea del Duomo di Milano, e ce lo faran no riconoscere solo a vederlo riprodotto. Bisogna dire che vi fu una stagione unica della grande architettura; essa nacque in Grecia e in Italia. Tali elementi parenti sparsi nel mondo formarono una sol a famiglia e partorirono a loro volta altri schemi, che spesso degenerarono, ma serbarono qualcuno dei caratteri primitivi. Una di queste impronte, conosciuta u na volta, sia pure attraverso un tralignamento o una trasformazione in un'archit ettura spaesata e divenuta popolaresca, basta a dar la chiave a tutto un mondo c ostruttivo. Per Roma bastano le tre colonne del tempio di Castore e Polluce, per Atene l'Eretteo, San Marco apre le porte della conoscenza di tutto il nord e il sud messi assieme, da Santa Sofia alla chiesa dell'Assunzione di Mosca; e in un padiglione del Louvre c' tutta la vecchia civilt architettonica della Francia, ch e impronta di s il palazzo tedesco del tempo di Federico e di l va a Varsavia, div iene il tipo di costruzione dell'influsso germanico sul Baltico. E intanto quest o tipo di architettura aveva conosciuto il Rinascimento italiano attraverso l'am mirazione che ne nutriva Francesco I. Ed ecco da quali elementi vaganti per cui non esistono frontiere, l'uomo ha l'impressione d'aver gi veduto e di conoscere. Si potrebbe tenere lo stesso discorso per la pittura dei primitivi, in cui sono legati al medesimo atteggiamento i miniaturisti indiani, i disegnatori cinesi, g l'iconisti russi, i pittori italiani; sembr che per caso l'arte alla sua nascita scoprisse di colpo le leggi superiori dell'armonia e della composizione; ma il f atto che in un tempo, reputato da noi di difficilissimi rapporti, gli artisti pi lontani si conoscevano, s'influenzavano a vicenda, e per questo la scuola di Nij ni, dell'unica grande epoca della pittura russa, ricorda Gaddi e l'Angelico. Cos per le citt. Noi, in una piazza o in una strada di citt nuova, possiamo perdere il senso del luogo e pensare di trovarci a mille miglia di l, fare uno sforzo pe r ritrovare il nome della citt e della nazione in cui ci aggiriamo. Esistono ben pochi luoghi di citt di carattere tanto forte da assorbirci interamente e da form are quella dimensione unica in cui sia impossibile ogni evasione; la suggestione

di luoghi come questi tale, il loro carattere tanto imperioso, che ci sembrer di essere entrati in un altro regno. Questo spiega perch molti stranieri, venendo i n Italia, si siano quasi sempre occupali pochissimo della vita italiana, attratt i nell'orbita di citt fra le pi prepotenti del mondo. Noi stessi, tornando di Spag na o di Grecia, parliamo di Granata o del Partenone come d'astri solitari e disa bitati intorno a cui la vita sia interrotta. Le grandi civilt dell'arte hanno bis ogno d'una gran forza per rinascere alla storia, e noi italiani lo sappiamo. In luoghi come questi, l'ultima nostra sollecitudine sar l'uomo, la vita, il luogo. Mi accade solitamente, quando mi trovo a Venezia, di pensare e di agire come se mi trovassi in un altro mondo, che Italia ma remotissima; lo stesso linguaggio c he vi si parla mi tocca appena, non mi ricordo quasi l'aspetto degli uomini e il colore della vita, e di l penso alle mie cure, alla mia casa, a me, come a fatti da ritrovare uscendo da quell'astro fulgente dove l'architettura stessa impregn ata degli elementi in cui essa crebbe come un prodotto naturale, dove gli archi hanno forma di chiglia, le colonne del Palazzo Ducale basta scorgerle di lontano obliquamente dalla piazza San Marco per avere l'impressione dell'acqua in cui s embrano affondare fino a mezzo, e sulle sommit degli edifici del Sansovino il col ore del vento, tanto sono divenute aereamente chiare, mentre in basso nelle incr ostazioni di nero si sente l'umidore dell'acqua. A un certo punto la grande arch itettura prossima alla natura. Son queste le citt prepotenti, che non ammettono altri ricordi, che hanno per qua lche aspetto parenti in molte citt del mondo, ma che intanto sono uniche. Un capo luogo di questi regni Venezia, stende le sue Colonie fino a Cipro e a Costantino poli, al Cremlino di Mosca, ad Amsterdam, dove vi siano vie d'acqua. L'Italia ha in s molte capitali di tali regni. E che cos' la Firenze rinascimentale se non la capitale delle citt di pietra? imminente la pietra azzurra del monte Cceri di cui il campanile di Fiesole la prima catasta; la riecheggia Palazzo Vecchio, e cost ituisce la matrice d'altre citt molte, ma questa la pi difficile, la pi esigente. D ietro ad essa non v' la sola Toscana, ma l'Umbria; arriva ai margini della civilt costruttrice del mattone che l'Emilia e la Romagna, riprende pi in su, a Mantova e a Bergamo, scende fino al sud, e dove in Calabria e in Sicilia si sveglia l'ar chitettura dopo il Rinascimento, la civilt costruttiva della pietra ha quel tema e lo riecheggia in modi infiniti, sino a parere bizzarra, perch laggi si mescola a l ricordo delle torri e dei fortilizi mediterranei, dei palazzi spagnoleggianti, delle case d'una campagna malfida che divenivano difese, e il rigore di Firenze , dalle dantesche labbra strette, ride col riso carnoso del Mediterraneo. Ma mentre le colonie delle grandi architetture permettono di evadere, e per esem pio la fontana di piazza Pretoria a Palermo non sembra dissimile da quella d'un parco fiorentino o dai gruppi che si trovano a piazza Navona, altro che per le f igure tra marine, fluviali, tropicali con le loro strane membra, davanti a Palaz zo Vecchio non c' possibilit di evasione, come non c' di fronte a piazza Navona. Po ich questi sono i fatti tipici dell'architettura, i passaggi obbligati, come la p iazza del Palio, quella di Assisi, quella di San Pietro, piazza del Popolo, e all'estero la piazza Vendme, quella del Cremlino, qu ella davanti al Palazzo d'Inverno a Pietroburgo, di Santa Sofa a Costantinopoli, per dirne alcune. Esse sono concluse a tal punto, formano paesaggi obbligati tan to tipici, che in altre piazze simili che le ricordano sembra manchi qualcosa, u n appoggio cui siamo abituati, uno scalino su cui siamo soliti posare il piede; ci chiudono da tutte le parti, e la fantasia anzich andare vagando ad altri aspet ti, a ricordare altri luoghi, risale il corso del tempo, e anche senza che noi c onosciamo la storia del luogo esse ne raccontano gl'ideali, i costumi, il colore della vita che espresse cotesti ideali di scenari umani. Vi sono luoghi che, senza raggiungere l'imperiosit di questi, stanno ad essi come satelliti a un pianeta. La piazza della Loggia di Brescia, il vecchio centro di Bergamo, la piazza del Palazzo Gonzaga a Mantova, quella di Perugia, quella dei Mercanti a Milano, quella del Duomo di Lucca, quella di Volterra, la piazza Cas tello di Torino, e molte piazze di Viterbo, e non so quante altre, sulla linea d ella grande architettura, svolgono i temi maggiori con una libert e una fantasia tanto sveglie, e con accordi che la stessa architettura maggiore non conosce. La virt che hanno molti di questi luoghi, di mescolare insieme il nobile col comune

e quotidiano, spesso d'un seducentissimo effetto. Chi sa pi mettere un muro ciec o e una casa modesta tra nobili edifici come nella piazza del Mercato di Mantova , o nella piazza della Loggia a Brescia, o in quella del Comune di Bergamo alta? un'espressione scaltrissimo di potenza pubblica e di buona vita privata. Se non temessi di semplificar troppo, direi che i modelli grandissimi dell'architettur a ci portano nella profondit del tempo, i parenti minori di questi modelli ci fan no vagare nello spazio, ai mondi parenti, alle grandi correnti della civilt. Cos l a piazza di Brescia ricorda Venezia e la Loggia gi oltre, all'Oriente; e cos Manto va, a Roma, e Bergamo a un Rinascimento che s' spinto nel punto pi settentrionale d'Italia rimanendone meravigliosamente puro. La piazza Vendme di Parigi non sareb be neppur tipica, tanto si sente vicino il modello italiano, ma quella colonna n apoleonica di pretto tipo romano, nel suo bronzo ricorda il cannone napoleonico e tutta un'epoca e un materiale d'armi. A cercare di queste parentele v' da scrivere un trattato di architettura, con tut te le licenze che si pu prendere uno che architetto non . Vi si vedrebbe come i te mi di questa siano assai pochi, le sue leggi immutabili: ritmo, compensi tra vuo to e pieno, tra riposo e movimento, gerarchia, ordine. Per entrare subito in contatto con una citt nuova, avere la rivelazione della sua essenza, bene buttarcisi subito in mezzo, percorrerla a piedi, a rischio di per dercisi. Noi abbiamo in noi quasi naturalmente la logica delle vecchie citt, ed i nteressante notare come il filo della nostra fantasia si svolga e si annodi pass ando attraverso suggestioni diverse, quasi improvvise correnti d'aria, ricordi d i citt visitate sotto altro cielo e spesso lontanissime. Vi sono strade che noi p ercorriamo la prima volta, e che ci conducono naturalmente verso le piazze con l a certezza del filo d'una corrente che porta al mare. Poich le citt vecchie corris pondono a una data ben fissa della storia della societ, hanno luoghi e passaggi e curve simiglianti, come sono simiglianti gl'ideali delle classi che hanno fatto le civilt. Vi sono le citt dei mercanti, dei traffici, dei porti, i cui quartieri corrispondono come corrispondono nella vita dei popoli gli strumenti stessi del la ricchezza. Con questo v' tutto un fatto sentimentale. Cos vi sono le citt nate d all'accrescimento enorme della popolazione e dalla necessit di tenere a bada non pi un individuo o un partito, ma una folla: questo tipo di citt fu iniziato a Pari gi con gli sventramenti di Napoleone III ma proviene da Torino; vi si estesero l e grandi arterie, dritte e uguali, senza quelle curve che un tempo bastavano a d are tutto un sapore alle citt vecchie, e su cui si basa tutto il colore d'un'urba nistica, e che fa tanto caratteristiche, per esempio, le vie Montenapoleone e Bo rgonuovo a Milano. Con le nuove strade nasce il potere delle polizie, quasi che gli agenti dell'ordine debbano dominarle con un'occhiata. Cos nacquero i grandi b oulevards, ed interessante ritrovare lo stesso schema e lo stesso ideale costrut tivo nelle citt operaie della Russia dove la citt non pi che un immenso viale, senz a piazze, senza soste, senza neppur vicoli tra casa e casa. Nelle vecchie citt vi sono perfino delle licenze, arruffati labirinti di strade, quartieri che hanno del misterioso e dove si svolsero nella mente dei romanzieri gl'intrichi dei lor o libri avventurosi, pieni di sparizioni e di apparizioni. E a leggere la storia che corrisponde all'epoca di queste strade la si trova piena d'imboscate, d'ins eguimenti attraverso dedali di strade. Chi vuoi conoscere una di queste trappole , faccia a Roma il quartiere che si estende dietro il Pantheon, tra la piazza de lla Minerva e Navona: bisogna sia praticissimo per non perdere l'orientamento e non trovarsi volta a volta a sboccare dove meno se lo aspetta, al lato di Palazz o Venezia, o molto pi gi alla Chiesa Nuova. Credo che in ogni citt si trovi uno di questi nodi intricati. Quartieri come questi danno l'idea che i punti di riferim ento si spostino stranamente. Essi sono quanto rimane dei misteri delle citt vecc hie, la fantasia di quell'architettura che in poco diventava profonda, quando l' architettura era nelle prospettive, nelle false distanze; diversissima da oggi c he ha bisogno di enormi spazi, e non pi per l'uomo che vi appariva su una strada stretta, in pendio, curva, piccola scena dove egli era nello stesso tempo bersag lio e spettacolo, ma per la folla che mareggia nelle grandi arterie, densa e com patta; la folla, il nuovo protagonista della storia del mondo. CASALE Vi sono citt in piano che seguono la squadratura del solco e del campo: la manier

a pi semplice di risolvere il problema; queste citt danno l'idea dell'infinito e n on del finito. Casale si svolge a chiocciola intorno al suo centro, rompendo ogn i rapporto con l'uniformit del piano. Le sue strade vanno come passaggi d'una gra nde fortezza, girano come un ragionamento intorno a un tema. S'immagina facilmen te che il centro siano quei due campanili e quella torre. Ci si accorge da vicin o che quei due campanili sono anch'essi due torri. Il Duomo fu la prima fortezza di questa citt fortificata sino all'Ottocento; fu anzi una chiesa fortificata al modo di quella di Vercelli, e del Duomo di Arles e di Saint-Nectaire in Francia . Siamo poco dopo il Mille. C'era una comunit di fedeli sulla pianura e una chies a; sui ricordi di questa chiesa si pu immaginare qual era la vita in questi centr i della pianura non ancora prospera, infestata dalle acque e dalle invasioni. Ne ll'architettura pi tarda, del gotico e del Rinascimento, queste torri si assottig liano, diventano motivi ornamentali, sono appena un ricordo della primitiva funz ione: tutte le cuspidi ai lati delle facciate delle chiese, saranno ancora per u n paio di secoli il ricordo di quelle chiese fortificate. Ultimamente, nelle chi ese costruite in istile funzionale, i ricordi di quelle torri sono riapparsi com e decorazione. Tanto vero che in architettura non si pu proscrivere nulla in nome della stretta ragione. Ho cercato inutilmente di dove prenda il suo nome Casale. Immagino: da casolare, casale, riunione di pi case in aperta campagna. Il suo modello sarebbe insomma l a fattoria, e su questo cresciuta una citt signorile: le belle fattorie che nella campagna aperta fanno ombra, frescura, riparano dal vento e dal gelo; Casale la grande signorile fattoria della pianura padana; non ha perduto quel senso, e tu tto vi estremamente urbano e civile. Al modo del vino dei suoi colli. Esso ricor da la vite e l'uva, il sapore dell'acino legnoso, l'odore del pampano, l'aspetto della foglia e del graspo, l'umore dolce della polpa nella buccia forte e densa , e tutto insieme fa un vino nobile e importante. Cos Casale. Quando la si sar ben visitata, ci si accorger che profonda e vasta nel suo interno come una ricca fat toria, una fattoria da racconto, da romanzo, da stampa antica. Il mattone, che l'elemento costruttivo della pianura, stato trattato qui come se i diversi architetti avessero avuto davanti agli occhi l'effetto che pu produrre un cumulo di mattoni considerati nell'insieme, come un solo blocco di marmo o d i pietra. Spesso l'effetto quello spoglio e nudo di certe strutture di monumenti romani di cui rimasta l'ossatura di cotto, colonne e capitelli. Rinascimento e Barocco elaborano a Casale il medesimo mattone e ne cavano effetti ognuno a suo modo: l'uno un effetto di massa, di pieno; l'altro di scena e di colore, con tut te le variet di tinte d'un campo di gerani. Alla fine, l'effetto d'un materiale d ivenuto prezioso. Quando si saranno visitate dieci citt padane costruite di matto ne, si avranno dieci sentimenti diversi. Ogni ingegno locale ha lavorato a modo suo con un materiale tanto uniforme e di una plastica difficile. Ed un sentiment o speciale, vedere apparire sull'orizzonte queste citt di cotto, le torri sono di venute colore del ferro, il vento ha stinto certe sommit di facciate sino al rosa antico. Hanno qualcosa di carnale. Tutti quei mattoni posati l'uno sull'altro, nelle pi difficili combinazioni, non soltanto nella squadratura della torre, ma a rrotondati nella colonna, scalinati nel fregio, sfrangiati nel capitello, e punt eggiati dal grigio della calce, danno l'idea della immensa fede e pazienza dell' uomo, della sua diligenza e delle sue qualit d'invenzione. Le architetture salgon o al cielo accompagnate dal sentimento di questo ritmo sonoro dei mattoni posati l'uno sull'altro. Lungo le strade che tagliano a raggiera il cerchio del centro, si allontanano ve rso la pianura, verso l'infinito, gli edifizi di mattoni coi loro scabri ornamen ti acquistano risalto nel grigiore della strada che si confonde lontano coi verd i pallidi dei giunchi, l'argento dei pioppi. Alla fine il mattone il colore stes so della citt; la citt. A Casale gli edifizi hanno spesso due uscite su due strade parallele. Fra l'una e l'altra, la corte vasta, ariosa e riparata: bisogni che d la pianura. Si direbb e che gli architetti, non trovando appigli esterni per variare le loro costruzio ni, abbiano eretto questi palazzi come altrettante variazioni per scenari intern i, e inventato una natura artificiale, sofisticata, tra affreschi, colonne, piet re, fontane, quali angoli di natura e immagini di vita rustica. Nei cortili l'oc

chio ritrova quello che cercherebbe invano nella pianura. Tutto vi acquista colo re e movimento, anche l'ingresso che sale lievemente in pendio e che basta a dar moto a tutta la scena. Spesso il cortile sembra a sua volta un esterno di quell i che si dispongono in teatro per figurare una strada o la scena d'una piazza ra ccolta; le finestre si aprono sui cortili come logge barocche, decorate come i p alchi dei teatri settecenteschi. Davanti alla pianura spalancata, Casale un mond o intimo; vive nell'ombra dei suoi cortili luminosi come in una natura fatta art ificialmente, un riparo ombroso, una valletta, una fattoria alpina, quali li avr ebbe disegnati uno scenografo per un ballo di corte. In questo sistema chiuso, e nello stesso tempo vasto e spazioso di Casale, si ap rono d'un tratto piazze bianche enormi con una modesta cornice architettonica in torno: sono le piazze in cui la pianura prende il sopravvento, le piazze dei mer cati e delle caserme; qui si potrebbe essere ugualmente a Piacenza o a Ferrara o a Bologna; qualcosa vacilla nella memoria in piazze come queste, grandi e deser te, con lo sfondo d'un muro di mattoni. Non soltanto la piazza padana, questa, m a la piazza delle citt di pianura in genere; vien fatto di ricordare qualche luog o simile in citt dell'Oriente dove, nel fitto delle vecchie citt tartare e mongoli che, si spalancano di questi spiazzi che paiono tanto pi strani quanto pi le citt s ono fatte con la strettura rigorosa d'un tempo. A Casale la piazza del Mercato e quella intorno alla Fortezza; un'al tra si trova dietro il Palazzo Farnese a Piacenza. Sono composte di pochi elemen ti: un vecchio palazzo da una parte, o un muro di vecchio mattone, una fila di c ase basse sul fondo chiaro e non lastricato della piazza dove la polvere d'estat e e la neve d'inverno ricordano la pianura; sono una lacuna e uno strappo nel ra gionamento rigoroso della citt ben costruita, e hanno il loro infinito. IL TRENO DELLE MONDINE Per due giorni, da Vercelli e da Mortara, i treni hanno trasportato 60.000 monda riso, delle 180.000 che lavorano ai trapianti nelle risaie, verso i loro paesi i n Lombardia e in Emilia. Erano treni speciali composti soltanto di donne, con tu tti i visi le stirpi e le semenze della valle padana. Le avevo viste piegate sui ginocchi nudi, all'ombra dei grandi cappelli, avanzare nell'acqua, le braccia n ude a cercare; tutti i ginocchi andavano avanti con uno scatto uguale, e i mazze tti del riso verde si accumulavano accanto a loro. Sul riquadro destinato ai tra pianti, passava il carro tirato dai cavalli; le ruote affondano nell'acqua, i ca valli a ogni passo si schizzano il muso paziente; i mazzetti del riso buttati gi dall'uomo sul carro punteggiano regolarmente la superficie liscia e grigia col l oro verde intenso. Il lavoro grande, paziente, sicuro, compiuto da queste centot tantamila donne, ragazze per la maggior parte, una tenera macchina umana che si muove puntualmente in un ritmo di gambe e di braccia nude. Da campo a campo ques to spettacolo anima grandi distese in cui l'acqua dorme liscia, fino alla met di luglio; ha del coro, ed fatica. Di questo tempo tutta la zona delle risaie nella valle padana respira la donna: diecine di migliaia di ragazze, di innamorate, di fidanzate, di spose. Si apre i l capitolo grande della donna che, a mano a mano che si scende lungo il corso de l Po, occupa tanta storia e tanta vita, tanto costume, fino a ricongiungersi all 'imperio femminile dell'antica Venezia, e a quello non meno femminile della Rave nna bizantina. Nel treno delle mondine i corridoi, i sedili, i finestrini erano invasi, ai fine strini una testa sull'altra, facevano un gran muro di donne; cantano, gridano, r idono; nella grigia atmosfera delle stazioni squillano i nastri scarlatti con le scritte sui cappelli; i cappelli di carta colorata, i nastri scarlatti, verdi, turchini, i canti d'amore e i canti patriottici fanno tutto un fragore, lo scros cio degli oricalchi d'una banda. Allora uno immagina: 180.000 donne, altrettanti uomini che le amano, e non so quante volte tanti figli domani, c' il seme di qua si un milione di persone. Questo significa la pianura padana durante i lavori de lle risaie: centottantamila donne, ciascuna con la sua grazia, il suo tono, la s ua personalit, anche sotto i copricapo da fiera e da veglione, anche se sono tutt e ugualmente rosa le bocche che chiamano strillano cantano ridono. Qui si capisc e qualcosa dell'Italia. Sotto il tiro della stampa che si rovescia da Milano e d a Torino, queste donne hanno imparato a vestirsi, gestire, contenersi. Si capisc

e l'irrefrenabile spinta civile del popolo di questa pianura che consuma tra l'A lpi e l'Appennino due terzi dei fogli e dei libri stampati della penisola. Tra l e cassette, le valigette, i fagotti, sembra un bivacco. Che una di costoro si fa ccia sul marciapiede, ed ecco che la veste alla moda, la calzatura, la figura, l a piega e il taglio dei capelli, ricordano il mondo civile pulito e ben vestito. Ho visto alcune folle di donne in vari paesi del mondo; credo che una folla come questa sia tra le pi evolute. Forse perch, come ho detto, i regni femminili e add irittura matriarcali si sono sviluppati lungo il Po, ai margini della Romagna e nella Romagna stessa, a Mantova, a Venezia, a Ferrara; e qualcosa ne rimasto nel l'ordine familiare. In questa folla un occhio esperto pu leggere l'appartenenza a una regione: il vestito un poco teatrale dell'emiliana (non per nulla l'Emilia il paese dell'Opera), e quello quasi virile della lombarda. Il fatto della donna che lavora s' posto in tutta Europa e in tutto il mondo civi le. Nella Turchia appena svelata, nell'Oriente, nella Mongolia, uno dei fatti de l tempo attuale la donna che lavora fuori di casa. Quanto pi i paesi sono arretra ti e sotto il peso di pregiudizi secolari, tanto pi forte la spinta della donna v erso il lavoro: la donna si d al lavoro come allo strumento pi rivoluzionario dell a nostra epoca. E si vede nelle rivoluzioni pi elementari come il primo fatto che impressiona la donna il vestito, la pettinatura, e insomma la somiglianza a que l tipo unico che la donna oggi, quale si vede nei giornali e al cinema. Nel nome del rossetto, delle calze di seta, si sono mossi eserciti di donne dall'interno dell'Asia; anche quelle che vivevano da secoli nella capanna accanto allo streg one e facevano tutt'uno con l'immobilit e l'infinit della steppa. Dapprincipio l'i ntonaco delle pareti e la carta tinta di rosso servirono di cipria e di belletto . E d'altro canto, nelle classi medie, non s' mai visto come nel mondo attuale un cos gran numero di donne che si annoiano e si sentono inutili quasi fossero scad ute dagli ideali umani. Per eguagliarsi a questi ideali hanno tentato di eguagli arsi agli uomini; in Russia ci sono le minatrici, le terrazziere. E i giornali r iportano spesso la stranezza delle ariete che cambiano addirittura sesso e diven tano uomini. Ma in Italia, voglio dire nell'Italia che fu rinascimentale e comunale, il femmi nismo data da almeno tre secoli, e senza certi avvenimenti che fecero rientrare tante grandi cose italiane, la donna avrebbe occupato naturalmente ben altro pos to da quello che, pur notevole, occup fino all'Ottocento e che sta per riprendere oggi. Ecco un treno di mondine che sembra vadano a marito: ben vestite, ben pet tinate, ritoccate con garbo. Tutte in massa arrampicate ai finestrini vogliono p iacere. Penso che altrove vidi un battaglione militare di donne: in maglietta at tillata quasi da bagno, le rivoltelle battevano sulle cosce tonde, i seni tremav ano a ogni passo e facevano ondeggiare la schiera; un migliaio di gambe nude un poco strette o un poco discoste ai ginocchi, rammentavano tanto la fragilit della donna: l'inno che cantavano, abbastanza feroce, sembrava intonato con le unghie e coi capelli. Infatuazioni. Penso che in Italia dove la donna lavora fuori di casa, il fenomeno tutto particolare, a causa della prevalenza femminile viva fra noi da molti secoli; perch storicamente il femminismo italiano del Rinascimento non pens mai di agguagliarsi all'uomo, ma fu una rivelazione delle qualit positive e pi femminili della donna. Si dice che la letteratura italiana di quel tempo per la maggior parte letteratu ra amorosa ed erotica. Essa mise sempre in chiaro i rapporti tra uomo e donna, s enza i problemi e senza le complicazioni tanto cari al puritanismo, e rivela il fenomeno che capo di tutta la biologia italiana: l'impulso verso la generazione che si impresse con la violenza d'un fenomeno naturale nei momenti delle riprese della nostra storia, popol il Rinascimento, assorb le invasioni, si moltiplic in t re secoli, raddoppi la popolazione negli ultimi cinquant'anni. Questo era il feno meno pi forte della vita italiana, e si capisce che la letteratura nostra abbia d urato tutto il Cinquecento a descriverlo, e che sia divenuta poi la letteratura amorosa per eccellenza. Mi torna a mente Veronica Franco, cortigiana di Venezia, che mor lasciando la sua sostanza in favore di donne che si volessero redimere, la quale, a un uomo che l'aveva offesa manda un cartello di sfida per fare acerba vendetta; ma con le ar mi femminili, le sole di cui possa disporre, a uscio chiuso e senza padrini. Que

sto e mille altri racconti del genere, fecero un'enorme impressione nel mondo. I poeti del tempo di Shakespeare trovarono il fatto loro in questo impulso del sa ngue, e lo portarono sulla scena. E come in un'eco ingigantita, tale solidariet v itale e naturale fra uomo e donna italiani ci turba ancora nelle tragedie elisab ettiane, come se visitassimo un regno istintivo e pieno di richiami del sangue; quasi che col sangue si costruisse il destino vitale d'una nazione. L'Europa all ora rison della lussuria italiana che non era se non questo impulso. Se ne accors e nuovamente molto pi tardi, quando un altro inglese, Lawrence, pose una miccia a l puritanismo anglo-sassone e sconvolse non soltanto i cervelli delle donne, ris coprendo in Italia quello che in Italia c'era sempre stato: la donna nella sua f unzione di figlia, di amante, di madre, di padrona reggjtrice della casa. Venne fuori in Europa un'emancipazione di nuovo genere, truccata da scienza e da psico logia. Quanto a me, organizzerei carovane di puritani, freudisti, psicanalisti, lady Chatterley, a vedere i treni delle mondine nelle stazioni della pianura pad ana. SABBIONETA I novellieri italiani del Rinascimento, e il Bandelle che il testimone della vit a nella pianura padana di allora, ci raccontano del loro tempo con una incredibi le facilit. Non c' quasi delitto che essi non contemplino con relativa indifferenz a, fino al parricidio per ambizione, quasi che tutto accadesse in un mondo astra le. Le cose pi leggere erano le beffe. Che Gian Francesco Gonzaga corresse armato per Mantova di notte e volesse venire alla mischia con quanti incontrava, uno s cherzo tra i minori. Accanto ai violenti e ai pazzi, sono gli scemi, gl'ingannat i, i buffoni e i furbi. Da Bertoldo a Gonnella, i finti tonti occupano molto pos to nella vita italiana di allora; cercavano di cavarsela pel rotto della cuffia. C' molto inutile sangue in quella vita, che se fosse stato adoperato a fare l'It alia avrebbe dato altri risultati. Ma qualcosa ribolliva, e gli energumeni, i vi olenti, riecheggiavano in una vita tutta istintiva l'antico desiderio di grandez za. Forse bisogna considerare quel tempo, con tutta la sua crudelt, come uno di q uei periodi in cui i popoli si rifanno corporalmente. Ognuno di quei personaggi era a modo suo un uomo, spesso gli mancava poco alla grandezza, ma quel poco che fa veramente grande l'uomo. Ce ne rimane lo stesso una grande civilt privata, in un tempo in cui le civilt si sviluppavano in piccoli focolai locali, e un'opera pubblica gigantesca: la terra bonificata, cominciata verso il Mille, terminata c inquecento anni dopo, e poi custodita, mentre palmo a palmo pi gi la si strappava e la si strappa ancora al mare e ai fiumi. Il popolo lottava con gli elementi, e ci ha tramandato una grande opera; i Principi creavano in un lembo di terra le pi spiccate civilt locali, e mondi interi tra le quattro mura delle loro fortifica zioni e dei palazzi. Ci appare quel tempo come un dramma a un solo protagonista, triste o fortunato, che spuntava qua e l come un mostro o come qualcosa di pi che un uomo. E questo era il Principe. Le quattro mura del palazzo si ritrovano dap pertutto fra le Alpi e l'Appennino; solitarie e dirute sui fiumi, sui poggi, nel la spersa pianura. Le quattro mura erano l'incubatrice di questa civilt. A legger e i racconti dei viaggiatori italiani che in quel tempo cercavano mondo e le mer aviglie dei popoli nuovi e le loro ricchezze e i prodotti pare di sentirle rison are nelle vaste sale di quella civilt domestica, all'orecchio del Principe attent o cui tutto era riferito nella pi attiva ed elegante lingua d'Europa. In quel tem po si form il tipo fisico dell'italiano: quei nasi forti, le bocche risolute, le bazze ostinate che si ritrovano ancora oggi in viso al primo che passa per le no stre strade, e che talvolta ci si stupisce di non vederle sormontare un costume sontuoso o guerriero. Il fatto che ancora oggi l'italiano pu portare una uniforme facendone qualcosa di individuale, atteggiarla a costume. E da allora l'italiano ha il genio, la malattia e l'amore della casa, e non tant o come segno delle quattro mura domestiche, ma il fatto che egli ha costruito un a casa dove che sia, rendendo abitabile dove si trova. Il muro tutto. Bisogna ri cordarsi che i Bonaccolsi, sbassati dai Gonzaga, seguitavano ad abitare il loro palazzo di fronte al palazzo degli usurpatori o vincitori che fossero. Se si pen sa che questo amore delle quattro mura viene da una razza che ha avuto storicame nte la vita pi scomoda, a tratti la pi errante, bisogna dire che si tratta d'un is tinto che dice tutta la personalit dell'italiano.

Un Gonzaga, in un angolo qualunque della pianura lombarda, in un villaggio di co ntadini, Sabbioneta, si ostin a fondare una dimora principesca. Non una villa, ma un palazzo, il castello, la torre, il teatro, il palazzo con giardino, la galle ria degli Antichi. E grandi come a Mantova, quasi che la pianura vasta avesse qu i un argine, un mondo artificiale vario e ricco, una natura fatta ad arte dove l a stessa natura uniforme. Non so se tutto attorno a questi edifizi un tempo esis tessero altri palazzi; non ne rimane traccia. Credo che la popolazione di contad ini di allora fosse molto simile a quella d'oggi, e questa unica perpetuit dell'u omo della terra ha conferito a questa citt stranissima, che fu chiamata la Nuova Atene, un colore di villaggio. La chiesa che era un mausoleo di Vespasiano Gonza ga ridivenuta una chiesina di villaggio, e il teatro olimpico dello Scamozzi, un o dei pi bei teatri a scena fissa della Rinascenza, affidato a due vecchi contadi ni che vi tengono una stanzetta col fornello, il desco, il letto. Il teatro ora un cinematografo col telone sul palcoscenico. L'uomo ha agito qui come agisce la natura. E il pi bello entrare sotto le volte del palazzo, affrescate e intagliat e, e tra i miti di Galatea, di Ulisse, di Diana, si trova un armadio per l'archi vio, un tavolino stecchito sulle sue quattro zampe a pomini, dove una pacifica i mpiegata, in sopravveste nera, registra gli atti municipali. forse l'unico angol o d'Italia che ricordi l'Italia dell'Ottocento, i periodi di Roma decaduta in cu i i pastori erano tornati a popolare le pendici del Palatino sulle colonne abbat tute, e i carciofi crescevano sull'umo del Colosseo. Non certo la stessa cosa, i ricordi non sono gli stessi. Ma bisogna dire che una delle pi strane avventure entrare in una sala ricca e grandiosa dal cui soffitto pendono, tra i putti che gonfiano le gote su un fondo nubiloso raffigurando i v enti, i fili nudi delle lampade elettriche e i piattini di smalto, mentre sulle sedie impagliate i contadini leggono il giornale. Se si ha da organizzare uno sp ettacolo simile, meglio allora affrontarlo in grande e creare allora un curioso e unico villaggio modello in cui i bambini imparano l'alfabeto sotto i cassetton i dorati a zecchino, e gli impiegati registrano gli atti dello stato civile fra i travagli di Ulisse e le avventure di Diana figlia di Giove e della Luna. Ma st arci come ospiti decaduti perch non si trovano altri locali no. Tutto questo fa f reddo e tristezza. Proviene forse da tanti sogni ambiziosi e senza vera grandezz a e da uno scenario che serviva soltanto a uno solo perch si chiamava Gonzaga; pr oviene dal ripetersi infinito dei miti di Diana Apollo e Venere che dalla forza del significato originario cadono nell'allusivo e nell'equivoco, poich essi non v idero altro che la grande e irrimediabile infelicit di uomini come Vespasiano Gon zaga. Tutto ricorda amore, gioia di vivere; e l'uomo fu qui invece infelicissimo. Vesp asiano uccise la prima moglie per infedelt; la sua seconda moglie si chiuse in un convento tre anni dopo il matrimonio, e il suo segreto lo conobbe soltanto il m arito; la terza moglie vide morire Vespasiano, ma egli gi aveva ucciso con un cal cio all'inguine il suo figliolo, il suo erede sperato e amato, perch incontrandol o a cavallo non lo aveva salutato. I Gonzaga finirono con Ferdinando Carlo, che nel 1681 vendeva Casale ai Francesi, e and a consumarne il prezzo al carnevale di Venezia. Un decreto del senato veneziano proibiva ai nobili di accostarsi a que ll'uomo che si aggirava mascherato, e che teneva una scuderia di donne grasse. C ' ancora, per un teatro tragico italiano, se Shakespeare non ha gi fatto tutto, un a serie di figure di principi animati dalle pi alte nobili e pure ambizioni, tras cinati in basso da un demone violento; colti e raffinati, ma in una lotta indoma bile con se stessi, circondati dai pi savi e fini e gloriosi uomini del loro temp o, ma che, non agendo sulla realt dei loro popoli e riducendo tutto a un dramma p ersonale e familiare, ci hanno tramandato la pi splendida civilt privata e la pi mi serabile tradizione pubblica. Avevano fatto della storia la loro biografia, e no n erano neppure abbastanza grandi per questo. L'altro personaggio, il coro di questa tragedia, si trova nella chiesa delle Gra zie, alle porte di quella Mantova sempre pi nuova nel tempo. Anche questo un luog o unico in Europa. Viene incontro, dalle nicchie dove collocata su diversi piani , tutta una turba del Quattro e Cinquecento, con a capo un papa, e Carlo V, il C onnestabile di Borbone, e Federigo Gonzaga. Sono di legno e di cera, vestiti di stoffa, e i visi sono quelli d'un mondo imbalsamato, e le stoffe sono divenute q

ualcosa di mortuario. Guerrieri e condannati a morte, avventurieri e saracini, s ovrani e poveri diavoli, ritratti in grandezza naturale, ringraziano la Vergine Maria di averli scampati dalla peste del 1399, dai pericoli, dalle condanne, dal le crudelt e dalle guerre. Uno con una fune al collo, appena spiccato dal patibol o, dice in versi, come scritto in un cartiglio: "Dalla fune onde in alto era sospeso - Vergine benedett a ti chiamai - Leggier divenni e non rimasi offeso". Un soldato con una gamba di legno dice: "Nella guerra crudel mi fu troncato - Un de' membri che al corpo er a sostegno - Quando Maria chiamai fui risanato". Un altro con una pietra al coll o sorge da un pozzo sotto gli occhi del carnefice e si esprime: "Fuor d'esto poz zo uscii libero e sciolto - Col grave sasso che pendea dal collo - Perch allor fu i dalle tue braccia accolto". Nelle loro nicchie, nei loro palchetti, in atto di preghiera, in atto di morire e di risuscitare, sbucano dalle pestilenze e dagli orrori; approdano dalla Turchia, e dall'Africa, portano costumi di Spagna e di Germania, formano un teatro grandioso, crudele e miserabile di quel tempo. Sembr a che i frati che custodiscono il convento non vogliono sapere pi di questo teatr o picaresco ed errabondo sostenuto dalle colonne di legno, cosparse di ex voto c ome gli scogli del mare sono decorati di conchiglie. Se riusciranno a sfrattarli , si vedranno carri pieni di questi personaggi grandi e oscuri riattraversare le grandi strade della pianura. In una cappella a parte la tomba del pi perfetto ma estro di creanze del Rinascimento: Baldesar Castiglione. I VIOLINI DI CREMONA Fino a tutto il Cinquecento, nei quadri e nelle pale d'altare, il violino lo suo nano gli angeli; lo suonano ai piedi della Madonna in gloria, e pare di udirne i l gracile timbro: non pi il suono che i Greci paragonarono, dei loro strumenti a corda, al canto delle cicale, e che era uno stridio, un ronzio, poich gli antichi si contentavano di tali rumori che erano poco pi su delle voci della natura; com e se ne contentavano i primitivi: basta vedere gli strani liuti d'Africa, compos ti di gusci di frutta e d'animali e di crani d'uomini; era un frinire, tutt'al p i un canterello come d'uno che mugoli a bocca chiusa. Fin qui la musica non ha lo stesso senso che per noi moderni. Un po' pi armonico era il suono del liuto prim a dell'avvento dei maestri cremonesi; di Amati, di Guarnieri del Ges, di Stradiva ri, e doveva essere un semplice linguaggio. Sempre nei quadri del Cinquecento, v ecchi profeti brandiscono violoncelli per cantare le lodi del Signore. Ma lo strumento che a un tratto diviene parte dell'uomo, ha una voce pi umana e s convolge la musica fino a renderla quell'arte che Tolstoi trov diabolica e pens di proscrivere, che induce il cuore a compiacersi delle sue passioni, che crea tut ta un'umanit di patiti della melodia, che insomma introduce anche nella musica co ncetti morali come in tutte le altre arti, capace com' di purificare ed esaltare l'uomo o di diventargli complice e mezzana lasciva: questo strumento stato ricre ato nel Seicento a Cremona. Senza di questo non si sarebbe avuta, da Monteverdi in poi, quella schiera di musicisti da concerto che, da variazione a variazione, da sviluppo a sviluppo, in un lavoro infinitamente ostinato su un tema di poche note, ci fanno ascendere con loro quell'atmosfera rarefatta della grande altitu dine e solitudine in cui si abbraccia l'inconoscibile e l'inesprimibile, il mist ero stesso del ritmo e dell'armonia del mondo, conquistato attraverso una pazien za e una tecnica che alla fine divengono la scala celeste verso l'ispirazione. Alla nascita di questo strumento c' fatalmente qualcosa di stregonesco che si per petua per due secoli, come accade di tutte le scoperte che sorpassano i limiti d ell'uomo. Puntato al sommo del petto, tra il petto e il cranio, esso ha la forma del torso umano, diviene tutt'uno con l'uomo; la sua voce umana come talvolta g li uomini vorrebbero cantare o implorare o gridare, senza riuscire a trovar le p arole. La grande riforma musicale consiste in questo: nella trasformazione dello strumento a corda in istrumento da braccio, cio in qualche cosa che diviene part e dell'uomo. E gi nella sua consistenza il mistero. Un tecnico moderno di mia conoscenza, che perse tutta la sua vita a ricercare le lavorazioni degli antichi, e che chiamavano perci comunemente il mago (perch noi moderni attribuiamo ancora alcunch di magia ai procedimenti degli antichi), dur tu tta la sua vita a rinvenire, tra l'altro, la ricetta della sonorit mai pi raggiunt a dei violini dell'Amati, dello Stradivari, del Guarnieri; egli credette che i m

aestri cremonesi trattassero il legno con l'ambra sciogliendola con una loro ric etta che poi and perduta. Non si sa dove il mago di mia conoscenza fosse arrivato con le sue ricerche; mor portandosi anch'egli il suo segreto; alla maniera antic a. Cos accadde di Stradivari. Del quale si sa che ebbe successivamente due mogli, la seconda a cinquant'anni, e in tutto undici figli; guadagn un milione di lire (siamo alla fine del Seicento ), fornendo strumenti musicali ai grandi e alle Corti del suo tempo; ma visse os curo, indifferente ai suoi concittadini per qualche stranezza del carattere, o c hiss per quale motivo pi reale. Destino dei grandi uomini di scostare con la loro presenza quanto la loro opera invita a conoscerli esprimendo una parte di loro, e la migliore, che essi confidano soltanto all'arte. Di Stradivari rimane la tes timonianza che allog i suoi figli molto bene, e di come amministr abilmente il suo denaro. Niente altro. S; gl'inviati dei potenti d'Europa aspettavano pi mesi a Cr emona che il maestro consegnasse gli strumenti richiesti. Egli s'era poi fatto u na tomba in San Domenico a Cremona, poi demolita con la demolizione della chiesa del 1868. Davanti alla tomba scoperchiata, un ignoto venuto da Milano afferra u n teschio e pronunziando il nome di Stradivari se lo porta via. Di Stradivari no n rimane neppure un ritratto. C' un enigma nella vita di Stradivari; ma non pi di quanti ne nacquero fino all'Ot tocento, intorno ad altri che praticarono il magico strumento. Guarnieri del Ges, altro cremonese allievo di Stradivari, lavor parte della sua vita in prigione do ve era stato rinchiuso per avere ucciso uno della sua stessa arte. Uno strumento del Guarnieri us Paganini, e con lui la leggenda si rinforza: egli uccise, disse la leggenda, la sua amante infedele, fu in carcere e fece un patto col diavolo per uscire libero e per diventare il pi grande violinista d'Europa. La fantasia d ei contemporanei non trova altra spiegazione alla figura di Paganini se non una sua alleanza col diavolo. Gir l'Europa con un segretario che pare fosse il diavol o in persona, forse lo stesso che sulla testatura del violino dett a Tartini il f amoso trillo. Stradivari gi lo conosceva il diavolo. Forse quel viso che orna la parte alta del manico d'una sua cetra, un viso femminile ridente con due gemme p er occhi. L'Ottocento non ha finito ancora di stupirsi della voce del violino di Cremona: Tolstoi vede ancora Satana nella Sonata a Kreutzer. Gli angeli non suo nano pi violini ai piedi della Madonna in gloria; lo strumento profano: tanto che m'ha sempre stupito sentirlo qualche volta in chiesa accanto all'organo; vero c he si trattava di cerimonie nuziali. Lo strumento di Paganini, che appartiene al municipio di Genova, e annerito come gli era, come colpito e bruciato dalla fiamma d'un genio infernale, piuttosto l 'ombra, il sortilegio del violino. Vedo apparire Paganini, attraverso il suo str umento: abito nero e corpetto nero, le code della giacca fino a terra, e nelle f alde nasconde forse una "pochette", di quei violini tascabili. Paganini ha le br accia allungate smisuratamente dal violino e dall'archetto, il viso pallido inco rniciato dai lunghi capelli cupi: intona il suo pezzo strabiliante sulla corda d el sol, con quel suono disperato di cui ci parla tutta una letteratura, "dispera to come un canto d'angeli scacciati dal cielo perch si sono innamorali delle donn e della terra". Ma sul manico non c' pi nessuna corda, come per un irraggiungibile virtuosismo. E chiss poi se uno strumento simile ha ancora una voce. Perch il vio lino ha pure questo di supremamente umano: non suonato per un pezzo deperisce e muore; non pi sotto l'azione delle vibrazioni, le sue molecole si disgregano, al modo del cuore nostro quando non vi spira pi n amore n gioia n sofferenza. LO SPIRITO DELLA PIANURA C' uno spirito italiano proprio della pianura: facile ad accendersi, curioso di t utte le novit, e nello stesso tempo capace della pi stretta regola e ortodossia. Q uando si abbandonano alla fantasia toccano il gigantesco e il capriccioso. Sono le contrade che hanno costruito i palazzi di Mantova e di Ferrara, quelle che me ttono l'impegno pi assoluto al bestiame pi bello, ai frutti pi madornali, alle pi gr osse verdure. Fino a Milano, l'aggettivo grande il pi significativo: grandi palaz zi, grandi torri, grandi frutta, grandi coltivazioni. Nel Ferrarese viene fuori uno scrittore come il Monti, il pi magniloquente e insieme il pi ortodosso della l etteratura italiana. In ultimo lasci perfino il suo cuore a qualcuno, voglio dire proprio il muscolo che fa da cuore, e lo si trova in una boccia d'alcole nella

Biblioteca dell'Universit di Ferrara. E poi c' l'Ariosto, ampio e avventuroso come un bel palazzo padano. Se parliamo di reazione, il padre Bartoli era ferrarese, il pi devoto alla tradizione letteraria fino alla bigotteria, quel Bartoli che a nche in punto di morte ebbe uno scrupolo grammaticale e disse: "Me ne vado; o me ne vo: che vale lo stesso". E poi, l'Opera padana, come padano il romanticismo, e il futurismo. Ma sempre con un piede legato alla tradizione e al rigore tosca ni. E sono padane la scienza dell'anatomia, l'economia politica, l'elettricit. C' l'Italia meridionale che indaga sull'uomo nel creato, nell'infinito, nell'assolu to, fin dal tempo dei Greci, ininterrottamente, primissima in Europa e ultima vo ce dei Greci fino a noi, e che nel Risorgimento porta questo suo anelito fino a ricongiungersi con l'azione del Piemonte: l'Italia centrale cerca l'uomo nel regno di Dio; quella settentrionale considera l'uomo nel finito e ab itabile mondo. Anche il cattolicismo prende qui forma di organizzazione. Ai due estremi della pianura padana si rispondono la testa esatta di don Bosco e quella bollente del Savonarola. Il quale Savonarola sta ancora in piedi, col braccio teso, presso il Duomo di Fe rrara, senza accorgersi che i tizzi ardenti gli stanno per bruciare i piedi. E b ruciano anche le lapidi, per tutta la piazza della Cattedrale, di deprecazione c ontro i preti, mentre l presso le lunette del Duomo sono le immagini pi vicine all a concezione di Dante della vita ultraterrena. Perch c' un'ispirazione, in Dante, che non soltanto toscana e fiorentina, ma medievale e padana, del suo viaggio ve rso l'esilio. Queste lapidi imprecanti, annunzianti, inneggiami, dicono assai de lla vita d'una citt che ha sempre tutto sulla punta della lingua. Su una palizzat a, in una piazza di Ferrara, leggevo un cartello stampato che pareva composto in versi. Non era la pubblicit d'un nuovo prodotto, ma l'annunzio di come una signo rina ferrarese aveva lasciato gli studi letterari per darsi alla chimica. I vers i mi pare fossero in terzine. Ma ricordo a Bologna un tipo di vecchio signore in tuba che vendeva pittorescamente certi suoi fogli stampati, di critica alle cos e comunali. E a Milano un astronomo che copriva di scritte i muri, annunziando c he gli astronomi sono stupidi, e che la terra non tonda ma piana e fermissima. S otto una vita semplicissima, c' un potere d'infatuazione per tutto quanto assolut o; e non detto che il capitano d'industria o il padrone di un allevamento o d'un campo modello non portino nella loro funzione qualcosa che somiglia da vicino a l senso di assoluto che domina un filosofo nell'indagine del vero e del bene. la pianura. Dove non c' vento di idee nuove che non abbia suscitato uragani, e la lotta sempre quella, millenaria intorno alla terra, e la terra un elemento dell a vita urbana e la causa stessa del suo fiorire. In fondo, domina su tutto uno s pirito urbano. Ma nella pianura padana c' ormai pi poco da conquistare, e appena q uel tanto di terra che si stende l dove il Po si impaluda. La provincia di Trevis o colonizz lo Stato di San Paolo del Brasile; il Ferrarese la campagna tra Roma e il mare, alcune zone della Sardegna e, col Polesine, la pianura tra Roma e il C irceo. Una commissione di trevigiani contadini andata a saggiare la terra e il r egime delle piogge in Abissinia. Ma le citt sono piene d'uomini, e Ferrara pi di o gni altra. Ora, l'uomo ha bisogno di agire, altrimenti agisce contro di s e il su o nucleo civile. E questo d il senso del presente e dell'avvenire italiani, della sua necessit e fatalit. A Ferrara si possono ancora avere, per una somma relativa mente modesta, grandi appartamenti di quelli che non si sa come dividere, fatti per altre generazioni e che non si riesce a ridurre ad appartamentini moderni. T ra i pi potenti limitatori delle nascite al tempo nostro, bisogna annoverare le c ase piccole, l'appartamentino di due stanze e cucina venuto di moda dopo l'Ottoc ento e con l'urbanesimo. Non si immagina che cosa abbia combinato nel mondo ques ta necessit urbana degli ultimi cinquanta anni; la moda raggiunse l'Oriente e, as sai prima delle leggi, proprio l'appartamentino distrusse in Turchia non soltant o la poligamia, ma anche le grandi famiglie. I grandi palazzi sono pieni di tutto quanto nella vita medievale e rinascimental e simbolico, e al punto da suggerire il pensiero che, nella vita per tanti versi misteriosa di quell'et, vi sia ancora qualcosa di inesplorato nei dipinti e nell e decorazioni allegoriche di cui signori e principi si circondavano; che non si trattasse soltanto di figurazioni di miti e favole antiche, ma che sotto vi pull ulasse uno spirito simile a quello che si trova nei misteri orfici e pitagorici

della antichit: insomma, un vero e proprio culto, una filosofia segreta. Un signo re francese del Rinascimento, Lallemant, si fece costruire a Bourges, nel centro geografico della Francia, un suo palazzo secondo la moda della Rinascenza nostr a, trasportandovi gli stessi simboli come li aveva veduti in Italia. una vena na scosta che circola in tutta la vita italiana fino alla Riforma, gi dai poeti d'am ore durante gli anni di Dante, i quali adoperavano la parola Amore, per esempio, a significare Fede, e lasciandoci a ogni modo una poesia di formule dottrinali che il Rossetti e Pascoli e Luigi Valli hanno tentato di decifrare in base appun to a un linguaggio che sospettavano iniziatico. Questo signor Lallemant sicuro p ortasse dall'Italia tutta una simbologia pittorica di natura iniziatica, e l'imp ressione che ebbi in quel palazzo di Bourges si riproduce davanti agli affreschi del Palazzo Schifanoia a Ferrara. Si trova nei pittori ferraresi una simbologia aperta e chiara come quella del Dosso; e ve n' una coperta, quella del Cossa. un a mia ipotesi. A ogni modo, che mondo astratto, pur nella rappresentazione che i l Cossa fa della vita di Borso d'Este, anche a volerla intendere realisticamente . come visitare un mondo segnato di quanto nell'uomo sta fra intuizioni e terror i: il peccato, le passioni, la morte, e tutto lo sbigottimento d'incontrarsi coi mostri che ognuno di noi chiude a doppia chiave entro di s. Tutto questo non sol tanto decorazione o allegoria. Naturalmente sono andato a vedere, nella Biblioteca dell'Universit, i biglietti f irmati da Parisina e da Lucrezia Borgia. Quello di Lucrezia una lista di spese p er lavori di artigiani, la firma grande e larga, la scrittura virile. Quella di Parisina, in calce a un biglietto che chiede dieci ducati d'oro "per una certa s pesa la quale habiamo fatto", una firma minuta, quasi gotica, stretta in se stes sa, quasi tutta aste, come una grata di prigione. Da decenni ormai gli storici s i affannano a togliere ogni colpa dalla vita di queste due donne, e senza risult ato. Parisina sarebbe soltanto una sventurata, e Lucrezia, almeno nella seconda parte della sua vita, a Ferrara, non pi quella baccante che ancora adolescente as sisteva a orge immonde col padre premiando i vincitori; a Ferrara ebbe tre figli , e al terzo il cardinale Bembo augurava di "essere eziandio della materna virt s uccessore". Avr mentito il cardinale, ma pare proprio certo che essere capitata a Ferrara ed entrare in tutto un mondo istintivamente prolifico abbia fatto di le i proprio una cauta signora. Ma d'altra parte, togliete queste favole, come per Lucrezia ha fatto Maria Bellonci, e non se ne parler pi; non si fremer davanti alla ciocca di capelli biondi che si conserva di Lucrezia a Brera, ed essa entrer nel novero delle oneste donne che non hanno storia. La ebbe forse quella Olimpia Mo rato ferrarese, fuggiasca in Franconia perch aveva abbracciato la Riforma e di cu i si possono leggere le oneste lettere in qualche vecchio libro, mentre le sole firme di quelle altre due traggono tanta gente curiosa in pellegrinaggio? La sto ria non sarebbe dunque se non il racconto degli errori umani, e fuori di questo silenzio; accanto alle donne come Isabella Gonzaga, Lucrezia, Parisina, le corti padane diedero schiere di gentilissime e virtuosissime per cui, se raccogliessi mo le lettere virili, non troveremmo che rari curiosi. Il peccatore interessa pi vivamente del fedele le religioni di tutto il mondo. Forse perch meglio del giust o conosce la verit essendo con essa in contrasto e guerra? Guardiamo la storia de i Gonzaga: dopo una storia tutt'altro che edificante, spunta un tenerissimo inno cente il quale, senza nessuna conoscenza del mondo, quel santo che parve avere n el sangue per un'esperienza di razza l'orrore del peccato, ed San Luigi. E il Sa vonarola, perseguitato com'era dall'odio pi furente verso l'arte del Rinascimento , non veniva forse da questa Ferrara marcata nel pi intimo da quell'arte e da que lla concezione della vita? Grande e vasta Ferrara, dalle strade che portano lontano e quasi infinite, come seguitando in una interminabile pianura, oltre la palude e il mare. Ci si aggira inseguendo un segreto come in un labirinto ariostesco, forse fino a trovare que lla Circe del Dosso, che ci possa spiegare i segreti di questa citt che pi di ogni altra serba nell'animo, nella fantasia e nei sensi, l'impeto di vita del Rinasc imento. LA BASSA La terra nella pianura padana rende oggi sui trentacinque per ogni quintale; qua nto, credo, nessun'altra terra d'Italia. A vedere nell'ultimo tratto del Po come

si strappa la terra fino al mare, si capisce quello che costato in sette secoli bonificare la pianura. Fino a Mantova la terra ne serba ancora il ricordo, pi gi storia d'oggi: a Piacenza i campi sono adagiati fra alti argini, e anche i villa ggi, a occidente della citt, stanno nelle depressioni del terreno. Ora i campi so no felici, verdi, abbondanti; ma ogni palmo di terra fu un lavoro di adattamento e un'impresa; nel Mantovano i campi sono rilevati, alti nel mezzo e declinanti ai lati, per mantenere i coltivi all'asciutto sgrondando i soverchi umori del te rreno. C' una tecnica della terra, al punto che si riconosce dappertutto che gent e vi ha messo mano. Intorno a Roma, dove tra Maccarese Ostia e il Circeo s' avuta un'emigrazione di contadini di varie regioni, chi ha un po' d'occhio riconosce alla prima, e anche dove passata pi d'una generazione di agricoltori, di dove ess i vennero: marchigiani o veneri o padani o della Bassa ferrarese. Ognuno ha il s uo modo, anche se la conformazione del terreno sia delle pi uniformi. Ognuno vi r if il suo paesaggio natale. Questi campi padani sono quello che pi ricorda la presenza dell'uomo, e non quell a d'oggi soltanto, ma di molte generazioni, per molti secoli, come nell'architet tura e nel modo di disporre una citt. Nel Ferrarese, poi, nel Polesine, e nella B assa, ancora visibile la separazione della terra dalle acque. Dopo aver visto il Po trascorrere solitario sotto i lunghi ponti, fra due rive arruffate di giunch i, spartirsi alle secche sabbiose, svoltare nell'infinito piano come una vecchia strada, eccolo verso l'ultimo diviso in canali dritti e uniformi. Gli argini so no alti; lungo gli argini a distanza una capanna di sarracchi, e una rete a bila ncia da capo d'una lunga asta. Nient'altro. La pianura folta lascia appena disti nguere gli abitati. Questa terra di creazione recente; qualche silo risponde all e torri che tra il fiume e le gore verdastre dominano le fattorie e i villaggi f ino ai dintorni di Mantova. Canapai e seminati a pioppeti promettono che di l tro verete chiss che aspetti, e invece un campo appena arato con le sue motte di terr a grandi e lucide della lama dell'aratro. Da trenino a trenino tanta gente corre la pianura: le donne coi fazzoletti attorno al capo, con le braccia robuste in avanti, che danno l'idea della prontezza al lavoro. Una di queste donne, con que lla confidenza che esse hanno dell'uomo, mi chiese di aiutarla a caricare sul tr eno certi suoi fagotti, e quando fui salito volle discorrere. Non c'era il minim o equivoco. Veniva dal lavoro verso Vercelli, e tornava a casa sua, a Montagnana , un borgo chiuso fra le mura d'un villaggio medievale di contadini fortificato, Montagnana. Conosceva bene la terra e i lavori, ne parlava con confidenza. Al m odo di tante altre donne, correva in lungo e in largo la terra distesa dove ci f osse bisogno, e non vedeva l'ora di scorgere sulla pianura le mura del suo villa ggio. Capii in quel tratto la nostalgia della gente della pianura; i ragazzi all 'ombra delle fratte tra le acacie e i pioppi, i personaggi che possono diventare nella fantasia le ceppaie nocchiute che tirano a ogni nodo un virgulto dritto e lucido, l'architettura d'una fila d'alberi dritta che fa da frangivento, talvol ta pi bassa dell'argine, e l'eterna promessa di questi argini che invitano a guar dare di l, e di l una nuova promessa a guardare oltre, come da onda a onda. Altre donne salivano e scendevano alle stazioni, con le figlie donnine piccine, e nei loro discorsi si veniva a sapere tutto della vita attorno. A un certo punto si v ede un piano allagato dalle piogge: i covoni di grano facevano piet nell'acqua, t utti fermi e zitti attorno, come per una disgrazia che toccasse il pane di ognun o, i contadini con le braccia lunghe sui fianchi a guardare quella maledizione c he non capivano perch fosse capitata a loro, perch. Si fermavano le macchine di pa ssaggio, le signore scendevano, e non si sa come ci si sentiva colpevoli, il gra no era in mezzo all'acqua sporca, come un cristiano, e nessuno ci poteva far nul la. Anche nella Bassa sono arrivati ad avere i trentacinque per ogni quintale. La te rra, appena strappata dalle acque fiacca e nera, seminata di conchiglie; l'aratr o la rivoltola di continuo per anni, con quelle cappe bianche che tornano su sem pre nuove; si macinano alla fine a furia di arare, e il contadino pensa che tutt o sommato anche quello concime. Prosciugato il campo comincia l'arsura. Non c' ac qua; quella che luccica da tutte le parti, stagna poco pi gi, corre nei canali del Po, salmastra; il mare arriva fin qui e tiene tutto sotto il suo dominio; l'ars ura nell'aria; e il salino, e il contatto con lo sterile mare. Si aspetta che il

consorzio distribuisca l'acqua per l'irrigazione; se ne circonda il campo d'una corrente continua che lo manterr fresco. "Io, io se fossi un signore, ma un signore come dico io..." L'uomo grosso e fort e che mangiava accanto a me nell'osteria d'un villaggio, non riusciva a terminar e questa frase. Uno della tavolata gli fa: "O dillo che faresti se fossi un gran signore...". E quello: "Se fossi proprio un gran signore..." ripeteva tra un bo ccone e l'altro. Alla fine lo disse: "Se fossi un gran signore da cavarmi tutti i capricci, vorrei avere un pozzo artesiano (diceva 'artigiano') nel cortile di casa mia". Gli rispose una risata; quello lev gli occhi dal piatto: veniva dalle terre salate di pi gi. Gli dissero: "Ce ne sono di pozzi artesiani, e non un capri ccio da milionario; ce ne sono anche a Comacchio". L'uomo non ci credeva. Poi ma stic: "Be', vorrei avere un pozzo artesiano". I fatti che formano profonde differenze e distanze in campagna, sono proprio l'a cqua e la strada. Mancare d'acqua significa, per mille ragioni, la segregazione da tutta un'umanit e dagl'interessi di questa. Ora, l'uomo del pozzo, sentendo ch e io venivo da Roma, s'illumin tutto: "Ci sono molte fontane a Roma"; questo era il suo pensiero. Raramente ho veduto uomo fatto di terra come era lui. Pi che par lare, fantasticava: la terra appena riscattata dalle acque, e dal mare, sciolta e fiacca; poi, ara e ara, dopo anni di aratura, dieci o quindici, prende nerbo, si fa stretta. Ma senz'acqua non sono possibili che le colture bianche, il grano , il granone e poca altra roba: l'acqua che fa la terra di due sapori, e permett e le colture di colore, come le barbabietole. S, la barbabietola delle terre asci utte roba per le bestie, e cos le angurie. Di ogni cosa sentiva il sapore, e come per mettersele bene nell'animo, non fece che mangiare patate, e poi barbabietol e, e poi daccapo. Disse ancora poche sentenze: il pesce buono quanto pi la testa lontana dalla coda; e un'altra meteorologica: lampo non mangia barca; cio i lampi in mare non annunziano tempesta; e un'altra molto semplice all'apparenza: per p iovere bisogna che tuoni; cio, per piover bene. Poi stette zitto. Era l'ora di an dare a letto. Gli altri attorno fantasticavano ancora sui raccolti, i fitti, i c anoni, e quello che rende la terra pi gi o pi su. C' l'internazionale del contadino, ed dove la terra buona. Di questo ha notizie, e i paesi sembrano l a portata di mano. la sterilit che d mistero e lontananza alle terre sterili. Le ragazze dell'o ste andavano attorno a servire le tavole e a preparare gli alloggi per la notte: non so quante fossero, ma erano molte. Al mattino, dovendo traversare le stanze vicine alla mia per uscire, vidi che i letti e i divani, poich la locanda era pi ena, erano fitti di ragazzi addormentati. Lo spettacolo e l'idea dei ragazzi dov eva accompagnarmi per tutto il resto del viaggio; ragazze e donne, un fiume pull ulante di vita, che sbucano da tutte le parti, sono dappertutto. Qui, della lice nza del Rinascimento, rimasto un colore amoroso e generativo. L'oste seduto acca nto a me era servito dalle sue figliole, e ogni volta che chiamava se ne present ava una nuova sempre pi piccola. A pensarci bene, i libri dei nostri narratori de i buoni secoli, pi che licenziosi sono pieni di ragazze e di donne, d'una specie di oscuro e ribollente istinto vitale. Questo, fra cui mi trovavo, quel popolo bollente, capace di tutti gli eccessi e di tutti i rigori. Non sono emiliani: manca ad essi degli emiliani quel certo la scito clericale che la natura degli emiliani riuscita a rendere duttilit e morbid ezza; non sono romagnoli: i romagnoli hanno il senso esclusivo del gruppo familiare con tutte le qualit che questo gruppo richiede, fi no al fanatismo, e nelle loro idee sono assoluti fino all'ultimo e oltre: questi sono i ferraresi, fra due estremi d'un conformismo tutto regola e rigore, e que llo d'una fantasia fuori d'ogni limite; ci che il tratto di molti popoli della pi anura. Dove, per questo impegno sempre assoluto, si fissata una civilt artistica fatta d'emulazione, di feticismo delle forme pi nobili fino al capriccio, e che h a dato quanto di pi strano, metafisico, e oggi si direbbe di surrealista, vanti l 'arte e la decorazione di tutti i tempi. Tra canali, diversivi, bracci morti, buse, fossati, la contrada tra Venezia e Ra venna asciuga tutto l'umore dei fiumi della valle padana. Vi si trovano vecchie citt come Chioggia e Comacchio, rifugiate su strisce di terra come su pontili, pa esaggi d'una Venezia minore, resi praticabili dalla ostinata volont dell'uomo, e che quando possono sfogano in una lunga strada, dritta quanto lunga la striscia

di terra su cui posano, la loro architettura. In genere l'ingresso alle case un androne che seguita fino alla parte opposta, e dall'altra parte si trova il cana le; sono come gallerie praticabili e sottopassaggi contro il vento e il caldo. I ponti sui canali ne proseguono la strada. Dovunque si sente il lavorio del vent o e del mare. Tutta l'opera dell'uomo per questa vasta distesa consiste nel rend erla praticabile da un punto all'altro, attraverso canali, lagune, e depressioni pi basse del livello marino. In mezzo alle acque stesse, tra gl'insabbiamenti, l 'acqua vi forma i suoi canali, come velo su velo. I bracci in cui si divide il P o, e gli altri fiumi che vi sfociano, dal Reno al Brenta, cercano lungamente il mare, e mentre sembra che debbano risolversi in questa gran fluidit di elementi, fanno lunghi giri tra sabbie e lagune. Quando alla fine raggiungono il mare, vi trovano, a cinque o dieci metri di profondit, la sabbia accumulata negli ultimi s ecoli, e anche su questo fondo sottomarino la corrente incide il suo corso: anco ra per due o tre chilometri la corrente del fiume dura fluendo su un letto sotto marino, quello che di qui a qualche secolo sar un banco di terra emersa e che un contadino tenter ancora di riscattare dal mare. Uomini e donne lavorano alla terra emersa negli ultimi due o tremila anni. Tutto intorno d l'idea del mutabile, del provvisorio, e insieme dell'eterno. A riscont rare il terreno con una carta topografica di venti anni fa, gi non lo si riconosc e; in molti punti allora deserti c' l'uomo con la vigna che produce il vino nero e profondo ammantato di sonno. Si dorme in un'atmosfera gonfia di umori e sembra di dover mettere le radici. Alle foci dei fiumi si svilupp anticamente la vita; l'uomo vi sbarc al modo stesso dei pesci che cercano acque pi dolci e pi temperate per generare, e alle foci si ebbero i primi fatti di creazione della vita umana. A Comacchio, sentendo parlar e la mia ostessa, m'accorsi che il suo linguaggio era una mescolanza di parole c he capivo, ma che dovevo raccapezzare da varie lingue. L'uomo lo chiamava "hombr e", alla spagnola, per dire no diceva "ni" secondo le lingue slave; parole france si, e poi tedesche erano mescolate tra le altre. Le chiesi che dialetto parlasse , e mi rispose: "L'etrusco". I tre quarti delle parole che diceva erano di lingu e note, e del dialetto ferrarese; ma un buon quarto era incomprensibile; forse e ra anche etrusco, chiss, ma l'etrusco nessuno riuscito finora a decifrarlo. Una c itt etrusca era nelle valli di Comacchio, alla Spina, e se ne possono trovare le memorie nel palazzo di Lodovico il Moro a Ferrara. Contrariamente alla natura et rusca, questa comunit di Spina s'era stabilita nel piano; seppelliva i suoi morti alla maniera egizia dei poveri, nella sabbia, e non all'altra maniera egiziana dei ricchi, sotto monticelli di terra che arieggiano a piramidi, e in camere che riproducono le stanze dei vivi. Un altro particolare. Questi etruschi di Spina dovettero essere d'una civilt molto chiusa, stretta e locale: fra i ricordi del m useo, sono scarsissimi i vasi importati dalla Grecia; dovettero avere rarissimo traffico, o forse si erano gi spenti quando nelle altre colonie etrusche comincia vano le importazioni. Nel discorso dell'ostessa, che arrostiva con piacere una sogliola sulla brace, c 'era molto passato del luogo, le tracce della sua storia, i contatti con gli sla vi, i tedeschi e gli spagnoli: mille anni di storia; e se poi c'era veramente qu alcosa di etrusco, le sue parole erano di tremila anni. Ma che cosa non rappresentavano le foci dei fiumi. Ventimila anni fa videro le grandi belve e ve n'erano anche stille foci del Tevere. Gli ultimi elefanti del Lazio, ricacc iati dal prosciugarsi della terra che ne mut la vegetazione, si rifugiarono e mor irono all'incontro fra Tevere e Aniene, come dimostr ai geologi un cimitero di os sa trovato in quella confluenza. E alle foci dei fiumi gli antichi mettevano i l uoghi d'incontro per le anime che dovevano sbarcare di l. L'Isola Sacra, presso O stia, era uno di questi approdi: le anime in attesa della barca fatale vi si agg iravano per pi giorni. Tutta la contrada delle foci del Po d il senso di questo svolgimento dei secoli, del dominio degli elementi. Anche i bragozzi a vela che corrono lungo il canale di Comacchio sul filo della corrente e del vento non sono molto diversi dai prim i modelli di navigazione: son appena un guscio; un quadrato di vela si gonfia ap peso per due lembi a un bastone, la vela pare un drappo antico; l'uomo seduto co i suoi pesci e le sue verdure a poppa, fa rilevare la prua che vi guarda in facc

ia come un cigno navigante. Ai lati del canale si stende la laguna che colore ro sa, verde, bigia, sconfinata, e sul limite dell'orizzonte una vela grandissima r icorda i mulini a vento delle pianure rasate della Prussia; dietro, sulle onde v erdi e teatrali dell'Adriatico, si sono presentate le grandi vele latine, aranci one e oro. Da canale a canale, fino a Goro, a Tolle, alla Pila, sulla distesa rasata della terra, non si scorge l'acqua ma il verde dei canneti e dei campi. Su questo verd e si affacciano grandi vele, vengono avanti in volo, come giganti ammantellati, correndo sui piedi di fumo, pare, nella prateria; sono le chiatte e i caicchi ch e vengono su dal mare infilando gl'invisibili canali, svoltano, si girano, vi ve ngono incontro e poi si rigirano, si allontanano, e solo pi tardi, a una svolta, ci si accorge che queste vele percorrono un canale. Da vicino mostrano il loro d isegno a spicchio di luna, alto a prua come a poppa, con un timone enorme manovr ato da un uomo piccolissimo. Tutta la distesa per un tratto questo falotico rigi rarsi di vele incappucciate, raso terra; uno degli spettacoli pi curiosi del mond o. Al traghetto, una chiatta porta all'altra riva le macchine, le biciclette, gl i asini, tutti fissi in questa sospensione di moto, gli uomini ancora in sella, il conduttore al volano, e sembra di navigare su un'isola. Ravvolgendo il loro m antello di vecchia porpora, le vele si rigirano, sono lontane, non pi che figure incappucciate. La contrada delle pi piovose, come lass, al Monviso, dove il Po nasce. Andando ver so l'intrico delle foci, la pista sabbiosa interrava le ruote dell'auto; poi pio vve a scrosci, e ci trovammo su una chiatta, al riparo d'un padiglione di canne e di vimini. Erano presso di noi le chiatte con le loro cerate affungate; l'umid it penetrava dovunque, dal nembo, dal mare, dal canale, dagli stagni, l'acqua cop riva tutto come un velario, e nell'umidit, sotto i mantelli, covavamo il tepore d el respiro e del sangue, avvertivamo il caldo della nostra vita. Le barche dei t raghetti pi lontani erano abbandonate nell'acqua battuta dalla pioggia a scrosci, e nel mezzo degli stagni, agli sbocchi dei canali, le case attorniate dai canni cci delle riserve di pesca sparivano tra l'opaco grigiore della pioggia. Nell'ar ia freddosa sembrava di trovarsi in un fondiglio umido sotto il livello della te rra. Poi, allontanatesi uggiolando il temporale, si scopr nel grigio folgorante l 'abbazia di Pomposa. La macchina slittava nel fango attaccaticcio, ci toccava an dare a zig zag per non ribaltarsi nei fossi coperti di muffa e di vegetazione a fior d'acqua. Dalle case solitarie qua e l sui fossi, umide e aggrondate, qualcun o ci accennava di lontano la strada, finch trovammo un ragazzo che, coi vestiti a ttaccati dalla pioggia, lontano da casa, ci guid pel bosco della Mesola. In quel caos di acque, di stagni, di deserti salati e di boschi favolosi dove i daini sp iavano puliti e teneri tra gli alberi grondanti, si trovavano da miglio a miglio case coloniche; le donne dietro i vetri della stanza a terreno, e il forno, la stalla, il pollaio, e un tronco d'albero scheggiato dall'accetta, parevano prodi giose conquiste dell'uomo, e una piattaforma asciutta di mattoni, che era un'aia e che si trovava a distanze ricorrenti, era tutto il senso della vita. Dai foss i saltavano ragazzi e bimbe, a mano a mano che il cielo si rasserenava; il bosco si animava d'una vita primitiva e spensierata, con tante creature. Su un campo grigio e appena rasciutto dalla melma salmastra, mucchi di grosse angurie prospe ravano come un primo getto della terra. Correvo per un sentiero, cercando la foce del fiume. Pareva a cento passi, e inv ece il fiume stagnava pigro a una svolta, si fermava davanti a un banco di sabbi a e faceva un lungo giro che bisognava seguire per gli acquitrini e i ponticelli buttati tra fosso e fosso, di tavole sconnesse e di tronchi d'albero. Donne e b imbe sbucavano dal bosco portando chiss a chi il pranzo legato in una salvietta. Nell'intrico delle acque il paesaggio lagunare diventava lontano, e laggi una fil a di pini si rifletteva su un'altra riva immobile. Dietro l'abbazia di Pomposa i paesi agricoli levavano trionfanti sull'immensit tortuosa i loro campanili e i s ilos. Scendeva la sera, e tra il luccichio dell'acqua che si apriva un varco nel la duna sentii l'imperturbabile scrollo del mare. I GRANDI SCENARI DI MANTOVA A Mantova fu l'osteria, il vino, gli occhi dell'ostessa, i discorsi dei cacciato ri, tutta un'atmosfera di fumo e di cibo, e tra questo eterno popolo i discorsi

eterni sul teatro dell'opera, con le sue passioni grandi e sonore, le passioni m aiuscole cui si scaldano i cuori degli uomini raccolti insieme dall'inverno. Per un pezzo rimasi ad ascoltare i discorsi di quest'osteria, ai quali partecipavan o l'ostessa dal suo banco, la cuoca affacciandosi dalla cucina, e ognuno che cap itasse nella sala, e chi entrava a chiedere un bicchier di vino; il vino che com e una linfa vivificatrice dei luoghi bassi, aspro, denso, di poca forza: un gran de umor della terra. Qui si trovano le forti donne coi forti pensieri, padrone e spose, le donne virili, quelle che capiscono l'uomo e a guardarvi vi fanno rico rdare della maternit sovrana, come se non foste uscito mai dall'infanzia. Nell'al to dei loro occhi svegli, queste donne hanno l'ordine e la responsabilit; io sott o gli occhi dell'ostessa mi sentivo quasi al riparo, nella stessa confidenza che avevo provato altrove, nelle regioni vicine a questa, nella Romagna e nel Venet o. Il dialetto che si parlava l dentro somigliava all'emiliano, quella parlata lu nga da cui le cose e i pensieri escono con un color familiare, s'impiccioliscono pi che ingrandire, sono riportati su un terreno facile e senza stupore. La prese nza della donna e in quella veste e figura d l'impressione di trovarsi in una soc iet di tipo antico, che la stessa dove il popolo esiste ancora nella sua espressi one originale. La donna nelle societ semplici sempre una virago, ha il suo regno accanto a quello dell'uomo, e non in un mondo sfatto dove diventa nemica armata di inquietudini romantiche; ancora quella che vi ha tenuto sulle ginocchia. Ques to un lato del popolo che a Mantova mi colp subito, e mi ricordai della forza del le donne del popolo come di una storia di matriarcato. Qui esse guardavano i lor o uomini quasi come ragazzi; erano le regolatrici, quelle cui spettava l'ordine e la vita pratica. L'uomo ha pensieri, fantasia, inquietudini, lotte; gioca e fu ma, fa l'arte e la guerra. In un ambiente siffatto tutto quello che civile acqui sta un tono pi grande. Proprio in virt di queste differenze il mondo degli uomini appare forte e vivo, la creazione sua, suo il diritto alle cose alte e all'ozio. Anche tra i Gonzaga l'elemento maggiore fu Isabella. Mantova scritta tutta a caratteri maiuscoli, e quando sentii che in quell'osteri a si parlava di teatro d'opera mi parve la cosa pi naturale del mondo. Del resto, non avevo veduto in fronte a non so quante osterie e trattorie l'immagine di Ga ribaldi a cavallo col suo mantello svolazzante? Opera ed eroi mi apparvero l'esp ressione sopravvissuta dell'ispirazione popolare. Una volta furono le favole dei paladini e dei santi, oggi le passioni rotondamente cantate e i grandi cavalier i dell'umanit. lo stesso dappertutto dove c' popolo in Italia, ma a Mantova in mod o chiarissimo. Esiste proprio una scissione fra modernit e popolo, il quale rimas to all'arte antica dove le passioni non erano importanti se non grandemente viss ute. E tutto a Mantova parla un grande linguaggio, torri, castelli e palazzi. Ma Isabella, al sommo di questa espressione civile, m'incantava: amante delle arti e insieme pratica, indebitata per l'eleganza e la vita ornata e insieme caritat evole, che faceva collezione di vestiti e mandava le trote agli amici, invidia d elle donne del suo tempo, di cui si conosceva perfino il numero delle camicie (d uecento), e preoccupata di rendere giusti, intorno a s, i principi col popolo. Si ritrova nella letteratura italiana, da d'Annunzio in poi, un sentimento delle cose che finiscono, deperiscono, si consumano, dei sogni antichi abbandonati, d ei grandi scenari deserti: un sentimento dominante di d'Annunzio, che dopo di lui ciascuno ha veduto. Fu un tema caratteristico della nostra letteratura ne gli ultimi anni, quel sentimento sepolcrale delle cose, d'un popolo che intorno a s non vedeva se non la morte dei grandi sogni, il crollo dei grandi scenari. Si potrebbe compilare un'antologia di citt abbandonate, di palazzi polverosi, di gi ardini intristiti, di fontane ingrommate, di labirinti smessi. un lato caratteri stico di quegli scrittori svegliati dalle trombe garibaldine e ritrovatisi poi t ra le tombe. Ben pi, questo stesso sentimento penetrato nelle letterature degli a ltri paesi, in Inghilterra come in Francia; fu un modo di vedere le cose passate , e tra questi scenari crollati si riflettono negli specchi opachi eroi ed eroin e destati fra i furori, che non avendo altra epopea da vivere ne vissero una amo rosa. Ed ecco una delle fonti pi cospicue di tale ispirazione: Mantova. A ritrova re questa citt si ritrova un'epoca di letteratura, quella febbre che aveva preso gli scrittori di pochi anni prima della guerra con le pallide eroine agguantisi in luoghi dello stesso tipo, a Cipro e a Micene, a Tarquinia e ad Assisi, dove f

ossero le grandi cose finite, gli scenari d'una grandezza passata; dico una gran dezza di passioni umane. Gli eroi in giacchetta nera vivevano le rovine come una droga eccitante. Mantova il pi importante di cotesti luoghi, la capitale d'un'in tera letteratura. Qui, andando a dormire in un albergo, mi stupii di trovarvi una stanza bianca, l 'acqua calda e fredda nella bacinella di porcellana, il bottone del campanello, il termosifone. A tratti, nel sonno, sentivo correre fresche sorgenti e fontane, dormivo come sotto il velo d'un'acqua corrente come accade in certe dissolvenze del cinema. Era come un grande umore che mi copriva e mi lavava. E non mi usciv a di mente quell'ora serale al ponte San Giorgio, il ponte che dal Castello di C orte traversa l'allagamento del Mincio, con la sua barriera sulle acque, i cicli sti che scivolano via sotto la pioggia sottile nei loro mantelli, la distesa ind istinta della pianura, i riflessi dell'acqua, e la presenza nera del castello co i piedi nell'acqua alle mie spalle. Di questo castello ricordavo un cortile dove l'umidit ha messo una fungosit verde e rasata come il verderame, e questo mi ripo rtava ancora nell'acqua, quasi a una presenza sottile al modo stesso dell'aria. Il battere delle mantelline dei ciclisti era come l'ombra d'un'ala, e in quell'o mbra luccicante che confondeva terra, acqua e cielo. Mi ricordavo che una macchi a d'umido, sulla facciata della chiesa di San Pietro, pareva aver dato una piega a un cornicione come d'un foglio accartocciato. Nella chiesa le candele accese e le donne oranti facevano un calore piacevole, e sembrava di stare al riparo. M a a uscire, la pioggia suonava interminabile. Che gran sonno in quella straordin aria citt, specialmente con quel vino nero, come un elemento vivo in lotta con la grandiosit dell'acqua. A momenti tutte le architetture che avevo visto il giorno , piazze, castelli, monumenti, palazzi, e i vicoli stessi in un bellissimo ordin e, in cui il caso ha il rigore d'una logica, mi parevano miraggi. E sentivo di d ormire sulla pianura distesa, come se dormissi in terra. E tutto quel giorno, ch e cos'era stato! Un vagare di sorpresa in sorpresa, da meraviglia a meraviglia: la spiegazione di tante cose. Per chi voglia dire di conoscere l'Italia, Mantova un punto importante. Mantova un mondo. Mantova fu prima una citt comunale, con una delle pi belle piazze che sia dato ved ere in Italia, la Piazza delle Erbe, tra una torre e un palazzo, tra una facciat a di terracotta e un muro scabro, di questi vecchi muri compatti e nudi su cui l 'azione del tempo ha descritto un lavoro suo, bello quanto una striscia istoriat a da qualche grande scultore, dove la fantasia legge una storia senza immagini e senza parole precise. Vecchi muri ciechi di tutta Italia, dominati la notte da un lampione scialbo, questo muro di Mantova uno dei pi belli, un capolavoro del t empo e della natura. Il mercato con le osterie intorno vegliato dalla figura di Virgilio in un bassorilievo medievale, seduto a un banco, che svolge il suo libr o: il Virgilio che non ha ancora imbracciato la tromba epica, il Virgilio delle comari e degli agricoltori. La citt comunale pressappoco tutta qui. Ma tra il Pal azzo del Te, che un padiglione e un chiosco gigantesco, e la Reggia, si ritrova il pi straordinario sogno di grandezza che sia dato osservare. E quale grandezza poi? I Gonzaga, a quanto mi pare, non furono grandi principi se non per il fasto e l'ornatezza delle loro corti. Sono quattordici grandi sale nel Palazzo del Te , che era una specie di casa di campagna dove si andava a passare un'ora tra le stanze decorate e i giardini; sono cinquecento stanze la Reggia, ma non c' un sol o appartamento, una sola camera che si possano chiudere a chiave, e tutto fatto per la rappresentazione, come in certi piccoli appartamenti moderni dove tutte l e stanze sono salotti e la sera divengono tutte stanze da letto. Lo dovettero di ventare anche queste cinquecento stanze della Reggia di Mantova, per esempio le sere che vi pass Lodovico il Moro in visita presso la sorella Isabella, con un se guito di mille signori. Una reggia cos vasta che divenne spesso, nella sua storia , una caserma, fino al 1917 che vide l dentro accantonati un reggimento inglese e uno francese i quali vi accesero anche dei bei fal per scaldarsi sotto le ampie volte decorate. S, vi fa un gran freddo, e vi dovette fare sempre freddo; tanto c he Isabella abit stanze dal soffitto pi basso, rivestite di legni preziosi e intar siati, e ugualmente stanze di passaggio. Ma ne aveva una con le finestre sul Min cio, detta del Paradiso perch di l si vede la pianura, gli alberi lontani annuvola

ti, le acque che circondano quasi il castello, un malinconicamente bel paradiso. No, i Gonzaga non erano grandi, e ci si domanda a quali sogni servirono questi i mmensi scenari, tutta questa rappresentanza di sale che si percorrono oggi con u na guida per non perdersi, da cui le invasioni hanno asportato mobili e arazzi, quadri e statue, che son servite da bivacco a tutti gli eserciti stranieri, amic i e nemici, scesi nella pianura del Po. Fu il sogno pi spropositato del Rinascime nto e, quasi non bastasse, Giulio Romano, cos freddo e corretto a Roma, vi port un a sua retorica, come se raccontando le storie della corte pontificia le amplific asse fino alla chiacchiera. Sono suoi, nel Palazzo del Te, gli affreschi dei gig anti in cui crollano montagne e massi su certe figure ciclopiche che non riescon o tuttavia a mostrarsi spaventate, e le loro smorfie di orrore sono convenzional i ed educate come per darsi un contegno di fronte al pubblico degli eleganti vis itatori. vero, come dice la guida, che a Roma non si trova nulla di simile. E qu esti cavalli affrescati alle pareti, nobili ed eleganti, che dominano tutta una stanza, sono una delle curiosit del mondo. vero che a Roma non si trova neppure il sentimento di uno splendore cos de serto, in cui non par di vedere altro che uomini spazzati via d'incanto con tutt i i loro costumi, senza lasciar traccia: risuonano ancora di loro, delle loro pa role, musiche, balli, le vuote e spoglie sale, la Sala da Ballo, la Sala delle C ariatidi, la Sala degli Arazzi, dei Duchi, dei Papi, dello Zodiaco; tutto questo non pi vivo e non neppur morto, e mi ricorda una pagina del Romanticismo, in cui la luce d'un'alba, penetrata in un palagio in festa, non rivela altro che spett ri in tutti i convitati. Si cammina e si cammina; a ogni soffitto e a ogni svolt a i giuochi delle prospettive vi attraggono: una croce che mentre si cammina par e allungare le braccia da ogni parte; Amore e Psiche che si baciano e hanno un s olo naso in comune, che pare or dell'uno or dell'altra; i cavalli di Apollo che vi galoppano addosso da qualunque parte li osserviate. Fino a che in una stanza grandiosa e nuda, un letto coperto, un letto da campo del Settecento il solo mob ile che abbiate incontrato in quella passeggiata interminabile. E la guida vi di ce: "Qui dorm Napoleone, che trasform anche la cappella in camera da bagno". SENTIMENTO CIVILE DI BERGAMO A Bergamo s'arriv in un treno gremito, tutte persone indaffarate con le loro bors e. Ci ritrovammo in folla alla funicolare della Citt Alta. Le impressioni meccani che della vita quotidiana, le officine della pianura lombarda, il movimento di M ilano di cui eravamo ancora una lontana vibrazione, occupava i nostri pensieri; ma bast che si scendesse tutti alla piazza del Mercato delle Scarpe, e si entrass e nell'aria della citt medievale, perch tutto questo svanisse d'incanto; ognuno si trov quasi in una remota abitudine, in una vita lenta e addolcita; le ore di tut te le chiese parvero lunghe; tutto quello che avevamo lasciato di ansie e affari alle nostre spalle sembr il fatto d'una vita doppia e d'un atteggiamento. Folla della citt, ci smarriamo nei meandri della cittadina antica; e dall'arco d'un por tico, dalla porta d'una chiesa, quelli che passavano sulla strada, donne e uomin i, che parevano non aver pi fretta, furono apparizioni curiose, e a momenti costu mi d'un tempo quale si addensava ancora fra colonna e colonna e fra torre e torr e. Le citt alte e antiche hanno una logica tutta loro: i dislivelli della loro st ruttura, le vicende delle loro strade, le prospettive ch'esse creano, sono un ca rattere imperioso della vita antica, obbligando a un modo d'essere tutto diverso da quello nostro quotidiano nelle citt sulle aperte pianure. proprio un altro mo ndo. Basta poco perch s'abbia l'impressione d'un'apparizione, e un passante o un gruppo di persone in fondo a una strada acquistano una evidenza straordinaria e ricordano all'improvviso altra vita, altri costumi. Si capisce la differenza fra vita antica e vita moderna solo a tener conto di queste cose, di questa partico lare conformazione in cui gli uomini facevano scena e bersaglio solo a camminare per una strada di citt antica. A ripensarci, sul filo di queste impressioni, c' d a rifare tutto il cammino percorso dalla civilt, e i suoi mutamenti a seconda dei luoghi che si scelse come abitazione. Quella mattina di Bergamo una delle mie pi belle. C'era un suono d'organo in qual che chiesa, che nell'intrico delle strade e dei vicoli dileguava mentre lo cerca vo, e sentivo soltanto una chitarra in qualche stanza chiusa o in qualche corte. Poi il fitto grandinare dei tagliapietre, rumore di un nuovo lavoro in una citt

anticamente fondata, come ora ne risuonano le pi vecchie citt d'Italia quasi si ri fondassero: erano gli operai al Palazzo della Ragione, il pi antico palazzo comun ale d'Italia, imbracato nette armature, con la scala esterna larga come un invit o al popolo che ascendeva, e come la fine di una resistenza. E poi il crepitio d 'un girarrosto che faceva spiccare il cartello d'una trattoria: "Specialit bergam asche, polenta con gli uccelli". Il nucleo d'una citt antica come una strofe che si rif a memoria; i suoi aspetti sono fissi nel nostro spirito che vi si orienta quasi istintivamente: i lunghi muri che circondano un giardino e fanno di fronte al palazzo architettonico un aspetto immutabile d'un'armonia conosciuta; le pia nte che si affacciano dai vecchi giardini, sempre le stesse come se anche per le piante esistesse un'epoca e uno stile; le grate e i cancelli che non si aprono da tempo, con le tele luttuose dei ragni; e le porte verdi, tutte verdi, di Berg amo; i cortili, gli atri raccolti col sentimento d'una vecchia pace; il cordone rosso d'un campanello sulla targhetta di smalto d'un professionista; il modo d'i ncurvarsi delle strade, i passi di qualcuno sulla strada opposta che si dilungan o come in una chiesa, e a un tratto non vi sono per la citt altri rumori se non i due passi che s'inseguono. E poi, in questo labirinto di pensieri di ieri, l'im provviso aprirsi di terrazze sulla pianura. Una forte e rigogliosa pianura in cu i le colonne di fumo delle fabbriche reggono la volta nebbiosa del cielo, e la s critta cubitale d'un'officina sepolta come una lapide tra i ricami delle verzure . Da queste cose la campagna acquista un color nuovo, come se avesse superato in se stessa la natura. Qua e l le chiese vicine e lontane, con le statue dei santi sui campanili, o con le croci grandi sproporzionate, formano uno spettacolo che vi fa pensare d'esser e alle porte d'una civilt, nel luogo di un'antica difesa. Siamo allo sbocco delle valli per cui scesero le invasioni. Vi si avvicendano popolo e intelligenza esa tta, dialetto e alto linguaggio, Rinascimento con puri accenti e Comune dotato d i forza gigantesca, ricordi di Venezia e richiami di Firenze, e oggi clericalism o settentrionale, come se in questo, che fu un punto estremo della penisola, anc he la religione tenesse pi fortificate le sue posizioni. Un numero enorme di appa renze scolpite e dipinte occupa breve spazio, le sfingi ornamentali e i simboli scolpiti in pietra pi dura per le arcate del Palazzo della Ragione; i putti roman tici sembrano feticci di un'arte elementare con le ossessioni medievali del diav olo; le sfingi della fontana nel mezzo della piazza hanno facce di gatto, e sono donne uscite da una fantasia che le accomunava con le belve. In un trionfo cos t otale delle sembianze umane e divine, in cui vivono tutti insieme putti e sirene , streghe e visi di Cesari, virt teologali e peccati mortali, quando andai a far colazione in una trattoria dal vecchio nome, in una luce immobile e in un riposo di vecchio albergo, il gatto venuto a miagolarmi attorno mi sembr una di quelle sfingi della fontana della piazza, e gli uccelletti infilati in uno stecco in mo do da stare in fila ad ali aperte sulla nuvoletta della polenta sembravano canta re anch'essi lietamente l'osanna di tutta la scultura animata di Bergamo alta. Una tradizione dice che Bergamo fosse prima etrusca, ed naturale che dove c' un'a ltura dominante il piano si sia soffermato l'etrusco. Ma poi fu romana e venezia na. Degli Etruschi non v' che la memoria topografica, ma dei Romani e del Rinasci mento rimane un estremo brillare come se, ai confini d'una civilt, questa si most rasse coi pi accesi colori, al modo stesso delle fedi che splendono maggiormente ai margini delle loro comunit. Cos la romanit di Bergamo. Qui la romanit vive nella facciata della cappella Colleoni dove i bassorilievi portano Cesari coronati e s antificati, con le scritte Divus Julius e Divus Traianus. la romanit come visse n el Rinascimento, quella stessa che poi usc a Mantova dal pennello del Mantegna ch e non si peritava di raffigurare come divini anche Ottone e Galba, cui il solo f atto d'essere stati reggitori dell'Impero del mondo dava diritto a una specie di santit. la romanit al suo stato di favola e di potenza, di amore e di culto della potenza e dell'unit civile, una traduzione per genti lontane che non si preoccup ano degli scandali di Corte e che nella distanza loro hanno posto tutto nel mede simo olimpo. Ed questo lo stesso impulso d'un Colleoni che, come dicono, si appr opri la sagrestia della chiesa di Santa Maria Maggiore per erigervi il suo monume nto funebre. Forse queste genti lontane, che avevano smarrito l'unit romana, una cosa ancora intendevano, ed erano i prodigi dell'arte, la sua facolt di tramandar

e la storia ai posteri, e l'estrema grandezza e gloria dei monumenti. Questo fu l'ultimo appello italiano alla gloria anche quando manc una vera grandezza. Non s o se questo sia giustificato dalla storia in particolare di Bergamo; ma qui ho s entito un punto di confluenza di molte ispirazioni, un'aria di frontiera dell'ar te, il punto in cui l'arte italiana si fonde coi temi venuti dal settentrione. U n fatto certo: il primo monumento del Rinascimento lombardo a Bergamo. E non soltanto il popolo enorme di figure adunate in tanto breve spazio fa impre ssione a Bergamo, ma i colori festosi dei dipinti delle sue chiese, e quelli can cellati dal tempo sulle facciate di alcuni edifizi, dove il grigio e l'azzurro d i Venezia salgono dagli affreschi scoloriti con una nettezza di colori d'alta mo ntagna. I colori delle volte e delle lunette sono tra le cose che si ricordano d i Bergamo come se si fosse visitato un paesaggio, hanno dell'ideale popolare e d ella rimembranza di arti che si aprono sotto cieli pi felici. Tenebra e luce, med ioevo pesante e gigantesco, primi voli verso la classicit del Rinascimento, sono i caratteri della Citt Alta, una delle mescolanze pi istruttive. E anche il paesag gio veduto dai punti pi alti la stessa cosa: il castello di Venezia ha il colore aggrondato che si trova fino agli estremi limiti del dominio veneziano in Orient e, e pi sotto risponde la natura con la sua conformazione diversa; una vigna gi pe r il colle, la pianura con la sua verde abbondanza pi sotto e, per le case che gu ardano dall'alto del colle, i giardini con una vegetazione che diresti meridiona le, dove batte il sole le finestre coi fiori, e un sentimento di altre terre, di altre regioni, che impercettibilmente muta da luogo a luogo. LE ORE AMBROSIANE Si parla di Milano in Italia in vari modi ma una cosa certa: che le parole Milan o e milanese indicano, pi che un'immagine, un concetto, un modo d'essere, un cost ume. Esistono citt che sono empori nazionali e mondiali, e ve ne sono cresciute i ntorno a nuclei formatisi per diverse combinazioni, che hanno veduto moltiplicar si la loro popolazione, la cui efficenza in rapporto diretto con tale aumento, e dove la popolazione stessa prima di tutto produttrice e consumatrice dei prodot ti stessi. Questo secondo modo d'essere, forma citt dall'aspetto particolare, in cui i bisogni creano l'organismo e l'organismo i bisogni, con una serie di azion i e reazioni di cui si pu difficilmente stabilire la natura e il ritmo. Una citt i ndustriale suppone un'espansione nazionale e mondiale; una citt commerciale vive gi della continua ascesa dei suoi bisogni e della capacit di consumo dei suoi stes si abitanti. , questa, una forma di cointeressenza, il modello naturale di quell' economia vagheggiata da Ford nell'assetto delle sue fabbriche, in cui il produtt ore ugualmente consumatore. In citt come queste vivono grandi nuclei collettivi, il loro potere in una serie di sforzi concordi, nella creazione di bisogni compl essi: questo il terreno pi adatto alla formazione di quella moderna borghesia che solo in apparenza materialista ma pur capace di slanci e di vibrazioni morali a ltissimi. Una citt industriale ha magnati e lavoratori, capitani e soldati; una r epubblica di tecnici in cui le classi non sono che specializzazioni e differenzi azioni di attitudini al lavoro. Una citt commerciale ha una diversa complessit, ha scarsi elementi tecnici e porta in s nuclei in perpetuo movimento e trasformazio ne, attaccati alle mode delle merci di maggior consumo, ai bisogni di una giorna ta e d'una stagione, uno schema pi elastico ma anche pi antico di vita sociale. Di questo la nostra civilt ha pi di un esemplare impressionante: una massa disposta verticalmente, in cui l'uno regge l'altro e tutti insieme si tengono in equilibr io. Lentamente, le conquiste del benessere, le lotte per la vita, acquistano un senso che supera le necessit elementari, il denaro diviene un mezzo vitale che ne sostituisce ogni altro, porta in s tutte le spinte verso l'ascensione, non pi il cosiddetto vile denaro, ma il mezzo attraverso cui la societ conquista la sua pie na espressione, la capacit di espandersi e di riprodursi, di esprimersi. Citt come coteste sono il centro pi forte della borghesia; verso un assetto borghese tendo no tutte le part che le compongono, e quindi verso una forma di vita apparentemen te gelosa, timorosa, poco amante del rischio e delle novit. Ma non vero. Qui le r iforme, le rivoluzioni politiche e artistiche, gli sforzi collettivi, le guerre trovano i loro naturali fautori, poich tutto movimento, trasformazione, e lo stes so denaro ha una spinta che in altre societ ebbero idee e ideali. Di questo tipo Milano.

Si pensi a quello che fu l'Olanda del Cinque e Seicento, l'Olanda commerciale, a ffaristica, mercantile, e si pensi all'immagine che ce ne viene da Rembrandt o d a Hals; ricchezza, senso antico e familiare della vita, spinta in avanti e culto delle forme di vita proprie senza infatuazioni di sorta, amore delle arti, dell a vita ornata, e perfino d'una certa gloria e d'una certa nobilt di discendenza. Questo riferimento l'ho trovato in germe nelle pagine di Stendhal su Milano, e m i pare che non si potrebbe trovare a questa citt un pi adatto paragone. Lo stesso colore lo ritrovo oggi, e significa che dall'Ottocento rest in questa citt un sens o uguale e continuo, un colore probabilmente sopravvissuto a un assetto di socie t quale fu quello della borghesia dei Comuni. difficile arrivare a queste conclus ioni venendo a Milano dalle citt nostre dell'Italia centrale. Ma a scendervi da B erlino, per esempio, e cio da citt commerciali moderne, si scorgono i caratteri, s i riconosce quel colore tutto speciale di Milano di cui gli stranieri parlano co n una viva impressione delle differenze, pur ponendo questa citt fra quelle della media Europa. La differenza tutta qui: Milano conserva in grado eminente alcune qualit che paio no fuggite alle societ moderne, e sono la semplicit, la naturalezza, la credulit, l a fedelt. Senza queste qualit fondamentali non si spiegherebbe la formazione di Mi lano e la sua espressione quotidiana. Migliaia di persone d'ogni parte d'Italia, dalla Sicilia al Veneto, ne costituiscono ormai il fondo, e tutte queste divers e qualit non vi si trovano per nulla isolate. Vi hanno acquistato anzi le stesse doti di entusiasmo, di piacere di vivere e di agire, e quella, invidiabilissima, di costituire il pubblico pi attento, pi curioso, pi disposto ad ammirare e a fare da spettatore. Una raccolta simile di gente vi ha creato strade come il Corso B uenos Aires, una delle pi caratteristiche d'Italia e dell'Europa intera, una vera assemblea popolare italiana: il popolo italiano in una delle sue invenzioni pi a perte. Il fatto questo: arrivando da qualsiasi regione, da ogni diversa formazione, gli uomini in questo clima si orientano: sar che le cose parlano un linguaggio rudim entale, facile a tutti: benessere, conquista, lotta, superamento dei bisogni; sa r che questa vita, sotto un'apparente brutalit, ed il solo aspetto che l'assomigli a ai paesi materialisti, ha conservato agli uomini i doni della semplicit e il co lore d'una vita naturale e senza ipocrisie; ma alla fine il lavoro stesso divent ato un termine sacro, un concetto, un mito, e gente che nel suo paese ha il lavo ro nel conto d'una condanna, nei felici paesi degli scarsi bisogni, ultimi balua rdi dell'antica saggezza, qui entra in un ordine e in una disciplina, e volentie ri diviene un atomo del grande aggregato collettivo. E questo sentimento della c ollettivit un altro carattere tipico di tale societ. Ho parlato di fedelt. La memoria corta propria delle collettivit moderne, e con qu este il vecchio scetticismo italiano ha un punto in comune; arte, gusto, costume divengono effimeri, in brev'ora persone e modi declinano, e se le civilt d'oggi danno, quando le danno, gloria e fortuna e ricchezza improvvise, o ne davano fin o a ieri, altrettanto facilmente si disfano dei loro prediletti di una stagione. questo il carattere pi crudele delle civilt moderne. Di Milano, proprio questo un carattere notevole: essa apre a ognuno il senso della sua vita, la sua fedelt e la sua memoria lunga. Dato per certo che sia costituita dalla societ pi borghese e pi posata, e da quella che aspira a un assetto borghese, difficile entrare nei s uoi gusti e nelle sue abitudini. Ma accettandovi una volta si ricorder sempre di voi. I personaggi della sua vita si possono contare a decenni di esistenza e di voga. Ultimamente, dovendo provvedere a certi lavori pel teatro della Scala, i m ilanesi si sono ricordati di un loro artista credo pi che settantenne, piaciuto l oro da giovane, onorato e ricordato da vecchio. Chi entrato nelle loro grazie sa r sempre poi salutato al suo passaggio; certi nomi fra di loro divengono addiritt ura magici, e non tanto pel valore che essi vi annettono, quanto, io credo, pel loro culto delle conquiste umane individuali. un paese che conosce il significat o del lavoro, della durata, della costanza. Si affida facilmente e lascia fare a coloro che ha scelto per guide. Se poi v' qualcosa di falso nel gusto che generalmente detto milanese, se qualche volta alcune lotte artistiche e letterarie e sin politiche in Italia hanno assu nto un carattere di netta opposizione a Milano, bisogna dire che questo paese, a

perto a tutte le suggestioni moderne, grande emporio di libri e di opere d'arte, sensibile a tutte le correnti nuove che traversano il mondo dell'Europa contine ntale, ha avuto spesso dei cattivi servigi dagli organi che dovevano guidare la sua grande curiosit e la sua grandissima capacit di acquisto. Il prestigio di cui hanno goduto certi organismi della sua vita pubblica, i suoi informatori, i suoi maestri spirituali, fu un bene talvolta usato improvvidamente. Spesso, questi s ono stati impari al popolo che dovevano guidare e si sono preoccupati spesso pi d i servirlo che di interpretarlo. Si osservi come proprio Milano ebbe fra le citt italiane i primi esemplari di un'architettura e d'una decorazione moderne perfin o nei bar e nei caff, e si pensi che se mausolei e sarcofaghi di tipo equivoco in festano la sua edilizia moderna, questo un aspetto della sua credulit, del govern o intellettuale che ha avuto per qualche tempo, un po' retorico, un po' operisti co, un po' romanticamente borghese. Il Corso Buenos Aires all'alba, grigio, deserto, si dissolve lontano nella nebbi a della periferia; i lavoratori a squadre spuntano all'improvviso sul selciato d 'acciaio, diventano un esercito, sono come i forieri dell'alba, e per essi il tr anvai ancora notturno col suo lume scialbo intona il primo inno; la vita di ques ta strada s'apre profonda e misteriosa con le sue case dalle ampie corti, i balc oni lunghi che nell'interno formano il passaggio da porta a porta, le mille fami glie che vi abitano come in un chiostro; la profonda dimensione della vita urban a dove si ritrovano fatalmente le regioni sbarcate da poco nella citt. Alcuni neg ozi vi acquistano un colore di vecchie botteghe di provincia, di vecchia citt, e vi si trovano ancora le pi ingenue insegne, come se gli anni passassero inutilmen te. Una donna, raffigurata in un cartello alto qualche metro, proclama le qualit d'un cosmetico, sta alta nel cielo brumoso, sulla via profonda, come l'idolo d'u n nuovo fanatismo, il simbolo delle illusioni facili della citt. una strada come ve ne sono in vicinanza dei grandi porti. Le cose del mondo grande vi hanno una strana risonanza, i cartelli di pubblicit vi parlano un nuovo linguaggio, vi sorg ono qualche volta i campioni dell'architettura pi appariscente accanto a un negoz io che ricorda i vini di un paese lontano, i cibi speciali di una regione remota . Vi si trovano ancora gli ombrelli larghi e colorati dei contadini, i modelli d egli stivaletti delle massaie di provincia. Tali oggetti sono qui spaesati da un borgo lontano: vi si pu studiare la moda che passa, nell'atto in cui passata, co me se Porta Venezia non si schiudesse pochi metri pi oltre sul centro di una citt curiosa e febbrile. Qui c' ancora una forte tristezza, una dura speranza della vi ta, il sapore del lavoro che comincia, della conquista che si rinnova. Qualcuno non s' ancora dimenticato dei fiori alla finestra e dei garofani. Ma dall'altra parte esiste l'altro polo: Via Torino. La via del ventre della cit t, la via degli inurbati da tempo, di quelli che costituiscono il fondo della cit t da qualche centinaio d'anni, la via della vecchia Milano. qui che la citt si dip inge del colore festoso delle prime conquiste, dove i negozi ridono gi alle prime illusioni del lusso e del benessere, dove la facciata d'un cinema si pu dipinger e tutta d'una vernice rossa con una corona regale e uno scettro d'argento; e vi spuntano anche i primi desideri degli agi, coi tappeti "vera imitazione", i maga zzini che seguono la moda di quelli del centro, quelli dove una trovata ingegnos a nella distribuzione e nell'organizzazione delle vendite fa parlare le famiglie la sera al desco, come d'una delle quotidiane meraviglie della citt. Sorgono qui le vecchie chiese d'una vecchia devozione, e vi confluiscono le strade d'una be n pi remota Milano, quella del primo nucleo, della prima chiesa ambrosiana, dei p alazzi storici. E basta un angolo sopravvissuto, un cancello che separi dal movi mento una chiesetta appiattata fra le case, perch si rammemorino lunghe storie lo ntane e s'animino scene del pi bel romanticismo italiano. La periferia di Milano ha un modo di comporsi tutto proprio. Accanto alla cascin a sorge la casa nuova della citt che si allarga, l'osteria ancora rustica sul Nav iglio grigio parla di pace e di rifugio domenicale, la chiatta sulle acque ondeg gia aspettando di partire sul filo della corrente. Pi oltre la campagna in disord ine come se presentisse l'arrivo dei nuovi sconvolgimenti per le nuove fondament a, e i pali della energia elettrica vi mettono i loro fiori di porcellana, come agavi meccaniche. O i lattai mattutini, o il grigio colore dei portici del Duomo la mattina, quando dalla periferia al centro tutto uguale colore e un medesimo

tono di vita: i primi risvegli dei negozi, le prime voci, l'afrore dell'alcole c he scuote i risvegli, fino a che l'inno del lavoro si scatena come un ruggito, e il sole brilla roseo attraverso le nebbie come per le vetrate del Duomo. Propri o queste cose lasciano un rimpianto nuovo nell'atto in cui le viviamo e non ce n e siamo ancora allontanati, col giornale ancora umido comprato alla bianca luce della lampada ad acetilene. Pi volte ho voluto rivedere queste cose, allontanandomi su un tranvai mattutino l ungo il corso Vercelli, l dove le cascine si dilungano per la campagna irrigata. C' un senso di pianura bassa e umida, qualcosa di olandese. I vaporetti scivolano fuori da una stazione nera in un cortile, le luci ancora accese, e i visi degli uomini di fatica assorti, col giornale in mano, o gi pensierosi del lavoro avven ire. Ricordo su una scarpata, davanti alla campagna fradicia di un autunno, un c artello col nome di una strada: Via Aretusa; e sul filo di questo nome risognavo i paesi del sole, i papiri e le muse d'una corrente mediterranea. Le maestre ri empiono il trenino con le loro chiacchiere mattutine, con le loro voci lunghe e concilianti; le biciclette le aspettano da stazione a stazione, con una trama di fili multicolori alla ruota di dietro, e gli scolaretti in grembiulino che poi seguiranno il fruscio della bicicletta come il fruscio d'una gonna. La periferia vive tutta in una specie di assalto perpetuo; la citt da una parte la invade, es sa si avvicina alla citt, muovendosi contro gli uomini in bicicletta con ferri e spranghe ed assi e ceste, come se corressero in aiuto alla citt assediata dai bis ogni che chiama col lamento lungo del suo movimento, coi fischi infreddati dei t reni nella nebbia. Per me che ho veduto nell'infanzia il libero lavoro della gente di pochi bisogni , le partenze mattutine fra chiacchiere e voci e racconti di sogni, la scalza pa stora che si ferma a cogliere un frutto dimenticato dall'estate su una siepe, qu esto spettacolo sempre nuovo e non riesce mai a diventarmi familiare. I cortili delle cascine coi paperi e i tacchini, i bambini che saltano nel meticcio col si llabario, il correre della gente verso la citt, la citt svegliata come verso una l otta, verso l'albero del bene e del male, questa natura di sobborghi che sembra tanto distante dalla libera e sovrana natura, uno spettacolo sempre nuovo e dram matico. Gi la citt si affaccia fin qua, i grandi viali si aprono in immense piazze vuote pronte per l'avanzata di domani, gli alberghi enormi con le loro cupole f ormano prospettive che ricordano il barocco di altre piazze in citt secolari e as sodate, e la contadina sulla soglia della sua casa sembra spiare la valanga uman a che avanza. Mi pare sempre che tutto questo agitarsi sia un gioco, che tutta q uesta gente corrente viva di bisogni creati per avere il piacere di muoversi e d i agitarsi, dell'emozione d'un perpetuo assalto. La campagna qua intorno ed gi re mota, le risaie tosate, gialle, pantanose, i campi che ingialliscono dei colori dell'autunno settentrionale che altrove sembrano fantasie di pittori romantici, l'acqua che trascorre come un velo sulle marcite, la nebbia che sta a fior di te rra come un'acqua sottile e impalpabile. una natura posta alle soglie della citt come un'officina anch'essa, o come una buona bestia. O i gridi dei fagiani negli allevamenti, i loro colori meravigliosi nelle gabbie delle corti umide o nei bo schi e nelle bandite. Ma anche il contadino dei campi verrebbe voglia di chiamar lo operaio, immerso com' in una natura trattata scientificamente. Eccoli che all' ora della colazione mangiano nel loro pentolino lungo l'argine, e questo non ha nulla del riposo della vita dei campi; le donne vanno come al loro soccorso, col secchiello della minestra, e questo viavai di spose e di figliole in ciabatte h a un'espressione di vita forte, ha rinunziato alle illusioni della vita idilliac a. Proprio in queste ore il centro della citt a rumore, c' quasi un calore nuovo e un a solidariet avventurosa alle fermate del tranvai dove quel movimento, quel chias so, quel riposo dalle fatiche, in attesa d'una fatica nuova, quel ritrovarsi gen ti diverse accomunate dalla medesima disciplina, parla un linguaggio pieno d'ill usioni, suggerisce un sentimento vergine d'incontro e di ritrovamenti, che alegg ia sulla citt laboriosa, ne forma il fascino e insieme le dona quella nuova e vag a sessualit da cui sono nate le inquiete filosofie moderne. Cos si forma la nuova sensibilit dei popoli urbani, il loro modo di vivere e di considerare le cose, la loro morale, il complesso sentimento della individualit in una collettivit che ha

bisogno d'una disciplina di ferro. Non ho detto dei luoghi dove si mangia, i gr andi ristoranti economici che vanno dalle dieci alle tre lire e cinquanta, la lo ro folla, il loro speciale odore e colore, la mensa che ha assunto l'aspetto d'u n grande servizio pubblico, luoghi dove una vibrazione affascinante di vita, dov e si pu leggere la lotta e l'assalto, gli strati di cui formata questa societ. Creati i bisogni e le necessit civili, la lotta vi assume forme pi attraenti che n ella natura libera dei campi e dei boschi. Per esempio, chi dir la storia di tant e ragazze che arrivano in cerca di lavoro e che dormono nel cos detto "letto in f amiglia", cio dietro a un paravento nella stanza da pranzo o nella stessa stanza della padrona di casa di cui sono ospiti? l'individuo in lotta per la conquista della sua indipendenza e della sua solitudine; questo strato forma una categoria grandiosa di uomini e di donne non anco fissati nella macchina urbana, gradazio ni diverse di attitudini, di animi, e nuove combinazioni di concetti morali, civ ili, e metodi di vita. Sono categorie costrette dal lavoro e dalla coabitazione a trascorrere gran parte della giornata fuori di casa. Alcuni concetti tradizion ali vi sono aboliti, a profitto talvolta di altri pi coscienti, pi sani, pi forti, anche se meno comuni. Si pensi soltanto alle profonde modificazioni che subisce in una simile societ il sentimento dell'amore o dei rapporti fra i sessi, il sens o dell'individualit, le attrazioni e le antipatie. Non si pu capire il senso d'una citt come Milano se non si tiene conto di queste forme di vita. Tali fluttuazion i aggiungono alla citt un ritmo nuovo, la rendono profonda e allettante e le dann o quel particolare tremito inquieto che assale le persone pi posate. Movimento e riposo, silenzi improvvisi e valanghe di rumori, miseria e ricchezza, ricerca di piaceri e conquiste materiali. E anche il loro riposo e le loro soste sono spettacoli interessanti. Ammirano la macchina urbana come se fosse un paesaggio: una luminaria come una pubblicit di nuovo genere, un'iscrizione luminosa come una nuova architettura. La citt mobile si arresta la sera a guardare la successione di proiezioni luminose davanti a un a bottega. Si capisce alla fine come l'arte di vendere e di commerciare abbia i suoi canoni, la sua tecnica, la sua filosofia, e che questo sia una scienza altr ettanto complessa quanto quelle liberali. E con questo mi preme di stabilire sov ratutto: che appunto per una certa capacit d'infatuazione naturale dei milanesi, esso uno dei popoli pi aderenti alla propria personalit, tra i pi naturali, il ques to il colore mai smentito della vita milanese, la naturalezza che impression i vi sitatori stranieri d'un secolo fa. LA MARCA ALL'OMBRA DEI PALAZZI Uno degli aspetti pi interessanti dell'Italia, a percorrerla per lungo, la casa c olonica. A nord la vasta cascina che contiene un mondo, e due o tre generazioni con un'abitudine secolare alla terra. Nell'Italia centrale la vecchia casuccia d i campagna che reca nella sua struttura i segni della conquista terriera, quel p ittoresco agglomerato di aggetti, sovrastrutture, volte, scale, ballatoi, cortil i, da cui si riconosce la casa toscana cresciuta lentamente e che ha finito col formare un complesso tipico di casa popolare. Scendendo per la Penisola, la casa colonica diventa un rifugio in campagna fino a scomparire del tutto. Fra l'uno e l'altro regno, si trova la casa di campagna napoletana, sita nei luoghi pi impe nsati, in alto sullo sprone dei monti o dominante su una roccia il suo pezzo di terra strappato alla montagna, ci che rende tanto vago il paesaggio, e pare che p er vederlo meglio alcuni romiti si siano incantati a contemplarlo dalle serene f inestre, dagli archi, dai terrazzi, circondati d'orti felici tra la pietra e la lava. Si pu dire che il resto d'Italia da Salerno in gi non abbia un abitato rusti co: la malaria e la poca sicurezza della vita sconsigliavano fino a ieri ogni so litudine in campagna durante la notte; per quanto oggi la facilit delle comunicaz ioni e il risanamento di quasi tutta la contrada abbiano trasformato la vita soc iale, si traversano regioni per centinaia di chilometri senza incontrare una cas a colonica. La sera, come da secoli, i contadini tornano agli abitati sui monti e sui colli, con la donna, l'asino, il fascio di legna. Hanno fatto ore di cammi no per rincasare nella stanzuccia a terreno del villaggio, e domani ne faranno a ltrettanto per raggiungere il lavoro. Mentre tutta Italia, dalle Alpi al Golfo di Salerno, pare molto popolata e quasi senza soluzione tra paesi, borgate, fattorie, case coloniche, citt, suggerendo q

uell'idea che stupisce ogni volta che vi si torna da fuori, della nazione pi folt a del mondo, da Salerno in gi, alle borgate e alle citt annidate tra le gole e sui monti, succedono spazi interminabili, montagne, vallate, piani, ottimamente col tivati e senza quasi traccia di abitazione umana. Appena qualche pagliaio e qual che rifugio sotto un mucchio di pietre rammentano la presenza dei guardiani al t empo dei raccolti. Mi raccontava un proprietario calabrese di avere una volta istituito una prima c asa colonica nella sua tenuta. Era sicuro che i contadini la abitassero perch ved eva un lumicino rischiarare la finestra tutte le sere spegnendosi a un'ora di no tte. Scopr poi che, quatti quatti, gli uomini e gli animali lasciavano all'imbrun ire la casa per raggiungere la borgata vicina; avevano abituati anche i polli a seguirli dritti e zitti in questa trasmigrazione quotidiana. La luce che rischia rava tutte le sere il vetro della finestra era un mozzicone di candela che si co nsumava solo tutte le sere. Eppure, questa famigliola abitava nel villaggio una specie di sottoscala, e per esso lasciava una casa comoda e ariosa in campagna. Vecchi terrori della solitudine, istinto di difesa e di diffidenza verso la nott e, popolata appena trent'anni fa di vagabondi. Pregiudizi lenti a scomparire non pi dalla fantasia, ma dalle abitudini e dalle tradizioni. Appena il meridionale pot farsi una casa coi soldi dell'America, prefer la marina e le terre della marina, come pi prospere. Vi sono coste intere su cui si allinea no case senza interruzione, di qua e di l dalla strada; sono come tutte le abitaz ioni nate dall'emigrazione, a due piani, col balcone che sporge in fuori nel cen tro della costruzione, come deve essere nei villaggi operai di America, ci che d a certe strade sul mare da noi qualcosa di esoticamente moderno, un senso di terr e lontane e di semplici fortune che cercano una boccata d'aria. Ritrovo queste f ile di case anche sulla costa delle Marche. La casa colonica delle Marche ha la sua storia. Nacque spontanea come un fiore e rrabondo. Prima fu di mota e quasi un attendamento sulla terra non ancora dissod ata, quando l'agricoltura italiana non era arrivata alla sua perfezione d'oggi. Fu uno sconfinamento al sovrappi d'una popolazione che trovava terre non sue ma t rascurate. I pacifici conquistatori non avevano neppure arnesi di lavoro. I padr oni delle terre fecero ad essi buon viso. "Se tu coltivi questo pezzo di terra t i fornisco gli utensili." Bene. E poi: "Ora che lavori, ti do le sementi". Bene. Cos nacque la mezzadria, naturalmente; le abitazioni si ampliarono, si popolaron o di famiglie e di animali, diedero quell'aspetto a tutta la Marca interna dove, da poggio a poggio sugli scrimoli dei colli e dei monti tutti col loro profilo a mucchio e a pigna culminanti nella chiesa col suo campanile a freccia, nel pae saggio dolce e aspro, monotono e inesauribile, diligente come la terra in Toscan a e in Romagna, sotto un cielo dolce luminoso e un poco freddoloso di cui non si scord mai Raffaello, un cielo intenso e rinascimentale, tra casa e casa, l'embri one del vecchio abituro di mota rispunta ancora. La conquista della terra per pa rte dei contadini delle Marche fu un'opera lunga. Ora la propriet molto spartita; in un ettaro di terra, che un miracolo di diligenza, vive spesso una famigliola . Appena un poco in alto, sui colli che salgono e scendono con un ritmo uguale, si domina il panorama col sentimento di trovarsi fra gente molto diligente; a entr are nei paesi, si scopre sempre una traccia di vecchia nobilt, un palazzetto sett ecentesco, dell'epoca delle novissime fortune della borghesia, una chiesa romani ca, e all'ombra di essi una popolazione tutta operosa che lavora ancora ai ferri battuti e che ha imparato bene i vecchi mestieri, fabbri e falegnami, buoni cos truttori con l'unico elemento che offra il paese, il cotto. I paesi sono quasi t utti di mattoni, il mattone messo anche di taglio per lastricare; sul cocuzzolo del colle cretoso gli abitati sono dello stesso elemento: vengono fuori le pi bel le intonazioni di rosso, e il mattone d un senso di diligenza umana. Le Marche ha nno un colore tutto loro in Italia, cittadino, esatto, artigiano. Tra lo squillo dell'incudine e il raschio della pialla che il suono di molti paesi qui, sulle soglie delle porte o nelle stanze a terreno le donne lavorano i loro pizzi e ric ami. Nelle Marche non c' niente di quel pittoresco che incuriosisce il visitatore, ma intanto si entra subito in rapporto con questa regione come se si fosse penetrat

i in un cantiere di quelli all'antica, propriamente artigiani e individuali. un paese che sta sulle sue; vi si intuisce una vita familiare molto chiusa e gelosa , una vita signorile sepolta negli anni e rimasta ferma e orgogliosa, insomma un a nobilt provinciale di cui sono arrivati nella grande tradizione italiana gli ec hi, che ha improntato di s l'artigianato e il complesso familiare con caratteri n on tanto facili da penetrare. Si dice comunemente che il marchigiano sia esatto, e forse troppo. Qui non c' un solo accento di colore locale, di quello che rende avventurose tante regioni nostre. Ci si sente la Marca papale, le fortune matur ate discretamente all'ombra della Chiesa, che hanno radunato nelle vecchie case i vecchi libri, i vecchi mobili, i vecchi orgogli e le vecchie tirannie familiar i. Leopardi rappresenterebbe la biografia modello del marchigiano. Ne rappresent erebbe in sommo grado l'ingegno naturalmente cittadino; in lui come nella sua gr ande famiglia regionale, non si trova un solo accento popolaresco, quello stesso che anima violentemente il panorama del vicino Abruzzo. Chiuso nella sua stanza , nella sua biblioteca sotto gli occhi del padre severo che lo sorvegliava dal s uo tavolo, Leopardi intu, ragazzo solitario, molti segreti del mondo grande che n on aveva ancora visitato, e del mondo avvenire; e tutto ci dal suo angolo di prov incia, che sarebbe inesplicabile se non si tenesse conto dell'ingegno tutto citt adino delle Marche. Bisogna ricordare che la storia dei rapporti di Leopardi con la sua famiglia, il padre rigido, la sorella amica, la madre com'era sua madre, il nodo familiare s tretto da non lasciare quasi respiro, un poco la storia di molti marchigiani, e non un fatto specifico del pi grande poeta lirico italiano e di uno dei nostri ma ggiori pensatori. Per quanto Giacomo non abbia legato l'opera sua alla sua regio ne, caso piuttosto raro nella nostra letteratura, per quanto dalla regione natal e egli appaia il pi distaccato fra i nostri poeti moderni, e sebbene egli fosse c ittadino dell'Italia grande e universale e dell'universo ottocentesco, egli tutt avia lo specchio di quella mente cittadina che proprio marchigiana. Ho cercato i nutilmente, o quasi, un focolare marchigiano. Inutilmente se ne cercherebbero gl i echi in Leopardi. Ma pure, quando ebbi veduto tre o quattro di queste borgate e cittadine lungo lo schienale dei colli, simili ad altrettante tappe nel giro i nfinito da altura ad altura, e visitata la citt di Recanati, mi accorsi che quell o che d un senso alle Marche il tipo di vita dedicata ai semplici mestieri umani, e tutto il pittoresco si riduce alla visione del fabbro, della tessitrice, del gruppo di ragazze che in una stanza a terreno dietro la finestrella stanno intor no alla macchina da cucire. l'artigianato, insomma, che nelle Marche molto vivo e che ultimamente molte scuole professionali hanno ribadito nel suo assetto. Orb ene, questo pure il solo pittoresco leopardiano, se pittoresco pu dirsi; meglio, la sua intimit, il suo rapporto stretto con la sua terra. Tutta la sua poesia ris uona dell'alacre voce di questi mestieri; rappresentano essi la vita nella sua s olitudine, il coro sereno nella sua inquietudine. Una divisione vecchia come la costituzione della societ marchigiana, separa i vec chi palazzi dalla vita popolare; e pure vi si intuisce uno stretto rapporto, com e fra gente libera e che conosce il valore della gerarchia. Qui non il palazzo s olitario tra la chiesa e la torre, ma pi palazzi. All'ombra di essi vive un'umani t ben limitata nei suoi confini e certa dei suoi confini, come se gli accenti egu alitari che hanno dominato tanta parte del nostro tempo non vi fossero pervenuti . Quando Leopardi si affacciava al balcone per guardare la Nerina o la Silvia, d oveva avere la medesima impressione di colui che oggi da uno di questi balconi o sserva una donna che lavora tra le amiche nel suo pianterreno intorno alla lampa da. Esse levano gli occhi al sorriso, un tranquillo sorriso. Domina il medesimo silenzio fra questo coro di rumori e brusii della fatica umana; l'improvviso tur bamento dell'aria che si riempie di voci di ragazzi, o d'un canto, o del suono d ell'ora, come in quella poesia. Dentro i palazzi, la stessa vita d'un tempo e la vicenda familiare di allora: padri imperiosi come si conviene a una razza teocr atica, giovani che pensano al mondo grande fuori dell'infinito digradare e risal ire dei colli fino all'ultimo monte, una febbre di conoscere e di essere nella v ita civile di l dal monte, e nel medesimo tempo quel rimanere legati a certi cara tteri della regione che sono esclusivi, con una certa bruschezza e un certo orgo glio di persone abituate secolarmente alla dolce e dolorosa tirannia familiare.

Quel fuggire la propria terra che era proprio di Leopardi, e rimpiangerla di con tinuo, e tornarvi, e ripartire, e il ricordo degli aspetti di questa vita, tanto sommessa, ma alacre e viva, ancora la storia di molti marchigiani; e quest'acce nto desto e urbano, senza selvatichezza, rivolto tutto alle cose reali, sempre l eopardiano. Voglio dire che Leopardi, se mai un autore ha nel sangue la sua origine, nella s ua fuga ed evasione da questo mondo proprio il personaggio che delle Marche ha s erbato la memoria eterna come possono essere eterni gli accenti dei poeti; e la sua terra lo spiega. La sua poesia, come tutta la Marca interna, uniforme, che v i rimanda da paese e da monte a monte come un'eco, in un mondo uguale di abitudi ni e di atteggiamenti, e con quell'armonia che propria dei luoghi dove ognuno li mitato nella sua attitudine e mestiere, animata di queste visioni, ha il rilievo fermo di un mondo fermo. Basta ricordare di certi canti leopardiani e di molti suoi appunti in prosa il senso che acquistano le voci dei ragazzi, l'affacciarsi di una donna, una scala contro un muro illuminato dalla luce di certe sere, acc anto a certi oggetti, un telaio, una lucerna, un mazzo di fiori: questo accompag namento della vita di tutti i giorni come una nostalgia e un rimpianto di non si sa quale vita intima e felice nei suoi trasalimenti e nelle sue voci, veduto at traverso una secolare ombra di grandi stanze vegliate dai ritratti arcigni degli avi, nel dramma patetico dell'intimit familiare, son cose proprio di lui. Fuori l'incanto semplice della vita piena d'una felicit inconsapevole, la discreta feli cit di vivere in un mondo chiaro, ordinato, esatto, che pu parere anche troppo som messo. Dove suonano le campane a vespro, le strade si riempiono di gente del con tado; e lo stesso Leopardi, che si domanda che sia la vita, il creato, e Dio, se gna in calce ai suoi scritti la data ricordando il giorno, come un contadino dei suoi luoghi: "29 marzo, venerd dell'Addolorata". LE SERPI, IL LUPO E LE VERGINI D'ABRUZZO Nell'autobus che mi portava dal mare alla montagna, erano salite due donne. Non c'era che l'impressione dei loro grandi scialli neri, di cui si coprivano con un lembo la testa contro gli odori dell'autobus, in un gesto molto nobile. Cos avvo lte, come se la macchina portasse due simulacri coperti, parlavano. Mi pareva re citassero dei mottetti. Prima che nascondessero il viso, avevo veduto che una er a giovane e l'altra matura; la giovine era tutta dedicata a costei, le accomodav a il lembo dello scialle sulla testa, e la persuadeva ad appoggiarsi alla sua sp alla contro i balzi dell'autobus. Non mostravano nessuna timidezza, coi loro sci alli e i loro fagotti di tela bianca, fra gente vestita alla cittadina. Piano pi ano sentivo che parlavano di sotto lo scialle che le copriva. Erano state a Lore to in pellegrinaggio. Il racconto che se ne facevano l'una e l'altra voce, aveva un uguale tono di preghiera. La pi vecchia, come vidi poi a una fermata quando ella abbass il lembo dello scial le, aveva due occhi colore del caff, storditi ma pronti, la bocca stretta dalle r ughe: aveva l'aria di chi abbia parlato d'una sua grande miseria di dolore a un personaggio onnipotente che le avesse detto di stare tranquilla. Questo era il s uo segreto, e guardava tutto dall'alto di questa certezza. La pi giovane era pi se rena, piena soltanto dell'esperta tristezza della donna matura che le stava acca nto. Guardavano gli altri come se sentissero di appartenere a una grande famigli a, quella che parla con la divinit. Discorrevano dunque tra di loro con quel tono di lunga preghiera, domanda e risposta, come in chiesa, con la loro voce profon da, in una composizione inalterabile da coro. Cos parlano nelle loro case, cos a D io, cos agli uomini. Vi sono dialetti che serbano nella loro struttura un tono li turgico. Poi entr un'altra donna con uno scialle color tabacco, grande, biondastr a, cosparsa di una peluria virile colore del rame, una specie di stampo irsuto e selvatico come se ne trovano nel profondo del popolo. Anch'essa parlava allo st esso modo, anche questa specie di virago si tir lo scialle sulla testa. Parlavano di l sotto con una monodia come se ne leggono in d'Annunzio. L'ho detto. Ma non vorrei definire l'Abruzzo sullo schema di d'Annunzio. Ma che d'Annunzio abbia portato nell'arte sua molte cose radicate profondamente nel suo popolo, chiaro, e sarebbe chiarissimo se si dicesse che il suo svagare, il suo fantasticare, colorire, incantarsi su sequenze interminabili di parole, tutto ne l fondo popolare abruzzese. Cos il suo senso delle cose e il suo balzo continuo n

el favoloso; e non importa se a Pescara la sua casa fu, lui vivente ancora e die tro suo suggerimento, trasformata in una dimora neoclassica, quasi che egli foss e nato nell'architettura di Gardone e non in una casuccia marina appena intonaca ta, coi balconi inginocchiati; anche questi sono spariti, e la pietra che un tem po era soltanto nello scalino della porta, ora fa qui un gran lusso morto dapper tutto. Quando il mio autobus sost a Chieti, due bimbe della citt salirono a curiosare sul predellino; si misero a parlare con le donne dello scialle. L'attenzione di que ste donne si punt sulle trecce delle bimbe, le quali mostravano i capelli ancora troppo corti per poterli avvolgere intorno alla testa. Le donne dello scialle co nsideravano come usano queste trecce nelle citt, e i modi di rigirarle e di appun tarle. Le bimbe sedettero sul predellino dell'autobus come sulla soglia d'una ca sa. Le donne posarono le braccia coperte dallo scialle sulla spalliera davanti, come aprendo due ali nere felpate. I loro discorsi erano una lunga enumerazione, un lungo dire la stessa cosa, le trecce delle bambine, fino a quando anche nell a mia mente queste trecce si impressero piene di strani sensi. Accade sempre nella vita popolare abruzzese che i fatti acquistino un significat o superiore; c' una sensitivit naturale di gente che annette a tutte le cose un se nso esoterico. C' qualcosa di molto pi antico della paganit, rimasto a una civilt ch iusa e impervia, in una solitudine in cui tutto acquista lunghissime risonanze. L'Abruzzo ancora legato, nella sua parte popolare, a fatti supremi, a complessi originarii, che si potrebbero definire brevemente: il serpente, il lupo, le forz e occulte e nemiche dell'uomo, la violenza della natura; e poi la verginit, la ca stit; e il loro rovescio, lo scatenamento dei sensi. Insomma, il serpente col suo linguaggio tentatore, il suo significato terreno e ultraterreno. Nelle feste ch e cominciano di primavera, i serpenti appena svegli strisciano in un cerchio di persone, ornati di nastrini verdi e rossi, sono intrecciati a forma di monile al collo delle giovani donne e dei giovani dai visi estatici, alle orecchie e ai p olsi. Appena ieri si celebrata la festa delle vergini, le fanciulle ornate di or i e di amuleti, coronate di fiori, coi loro sguardi acerbi e le bocche sigillate e proterve. E domani si celebrer la festa dei talami. E poi quella del lupo. Si pu immaginare questo popolo, prima che le strade d'oggi vi portassero tutta la no vit del mondo attuale, attanagliato dalle tentazioni pi oscure nei suoi recessi, n ei suoi boschi, nei suoi paesi solitari sui cocuzzoli dei monti o nelle valli. M ille mediatori, stregoni, incantatori, esorcisti, tenevano rapporti con l'incono scibile, e i santi si confondevano con essi. Terrore delle forze della natura ch e soverchiano l'uomo, intervento delle forze occulte e divine, potere propiziato rio dell'innocenza e della verginit, ecco il complesso tipico abruzzese. La stessa arte abruzzese partecipa di queste cose. Le forme illustri che qui son o pervenute, architettura, scultura, pittura, sono state riprodotte con una fant asia popolare, rozza, ma piena di un impeto primitivo. Si direbbe che la fantasi a abruzzese riproduca di continuo le immagini della vita amplificandole e riempi endole dei significati pi occulti. Poi, appena svegli alla civilt, il senso dell'u omo e della vita torna in questi uomini esatto, dettato da un istinto sicuro. Ab ituati secolarmente a definire la posizione dell'uomo di fronte alle forze della natura, si orientano subito in quelle della civilt. Sono proverbialmente pratici . Ma abituati alle cose ornate, serbano un certo ornamento nel loro modo di espr imersi; presso un abruzzese anche di media cultura si pu notare una cura particol are del linguaggio significativo, della parola pi efficace ed esatta, e non impor ta se poi vien fuori una parola soltanto colorita. In tutti i loro discorsi c' un a ricerca di questa esattezza di espressione. Lo stesso d'Annunzio fu, sotto la coloritura del suo linguaggio, un ricercatore di espressioni esatte, e anche tro ppo; insomma l'ultimo degli scrittori puristi. E la fantasia e il linguaggio dei due poeti abruzzesi lontani nei secoli ma parenti per ispirazione naturale, Ovi dio e d'Annunzio, sono penetrati del medesimo scrupolo del linguaggio elegante, del potere di rendere miti e favole apparentandole con la natura in una fantasia del medesimo colore, la stessa ricchezza di enumerazione del loro popolo, lo st esso compiacimento delle similitudini, lo stesso complesso del peccato e del ser pente tentatore, e infine lo stesso potere di celebrare quello che fortunato: ca ntori di fasti. Il senso dell'animo abruzzese contenuto nei termini di vita e mo

rte, sconfitta e vittoria, verginit e lussuria. Tutto umano, carnale, e portato a i culmini del fantastico e del simbolico. Tanto che poi gli abruzzesi immessi ne lla vita urbana hanno un potere reale di capire e di orientarsi, magari con quel tanto di pastorale che rimane attaccato a ognuno di essi; lo stesso d'Annunzio non riuscito mai a correggere il suo accento dialettale, e spesso la sua eleganz a era tipicamente provinciale non senza sospetto di pacchianeria. Poich tutta la tradizione abruzzese fondata sull'uomo, l'animo loro tutto nella vittoria dell'u omo in quanto tale. Non immagino neppure una mistica abruzzese, quella mistica c he pure tra i popoli pi realistici della terra, come i vecchi toscani, introduce un grano di pazzia; la pazzia dei toccati da Dio. E strascinare la lingua sul pa vimento dei santuari, coronarsi di serpenti, non misticismo. Sono terribili scon giuri per placare l'ignoto che intorno all'uomo. La vita abruzzese culmina nelle grandi feste dell'anno, e nei grandi avvenimenti della vita, nascita, matrimonio, morte; col risveglio dei serpi a primavera, il risveglio dei nudi istinti nella grande estate arrabbiata sotto la sferza del s ole. Di questi giorni si recita a Pretoro lo spettacolo del Lupo. Lungo il declivio d el paese, la folla si dispone ad anfiteatro davanti a un palcoscenico di assi. D ue contadini, due uomini poich come nell'uso antico le donne non fanno teatro, si sono divise le parti; moglie e marito. Quello vestito da donna recita in falset to. La moglie sta preparando il desinare. Un bimbo vagisce nella culla. Il marit o siede, mangia e beve, poi esce. La donna torna alle sue faccende di casa. Non si accorge che il lupo entrato ( un altro contadino rivestito d'una pelle di lupo , e che ha calzato un paio di guanti con tre dita). Il lupo va carponi verso la culla del bimbo, lo addenta alle fasce e se lo porta via. La donna se ne accorge , si dispera, e invoca il Santo. Il Santo appare in forma di immagine, ed il sol o personaggio non reale della scena; la stessa immagine che stata portata la mat tina in processione. La donna gli parla e invoca la sua protezione. A sentire ch e la donna si rivolta al Santo, il lupo torna indietro, e quatto quatto rimette il bimbo nella culla. Intanto rincasato il marito. La donna ringrazia il Santo. Il marito fatto sicuro della divina protezione prende a calci il lupo. Grandi ri sate del pubblico. La rappresentazione dura un quarto d'ora. Le campane d'Abruzzo fanno uno squillo acuto come quello dell'incudine, e questo suono non si ode che in Abruzzo. Le ascoltai tutta una mattina, frettolose come i colpi dell'incudine, nella piazza di Guardiagrele. A tratti veniva da un nego zio il sospiro di un'armonica, del riparatore di armoniche. A tratti era un lung o belato di agnelli. Passavano i carretti carichi di agnelli per la Pasqua. Le b estie erano legate e giacevano l'una sull'altra. Quelle di sotto erano tramortit e o gi morte, quelle di sopra, scosse da un brivido terribile e continuo, sanguin anti e digiune, cercavano di levare la testa di sopra al cumulo dei morti, fino a quando si abbattevano con la testa ciondoloni fuori del carretto. Questi solch i di dolore innocente passano tra l'indifferenza di tutti con la fatalit che hann o i dolori sotto il cielo alto e chiaro del sud. Questa contro le bestie la crud elt meridionale. Al suono della campana, vidi sbucare sulla strada un piccolo corteo. Precedevano il prete e il crocifero. Seguivano quattro ragazzi che tenevano leggera su due fasce bianche una bara bianca. Dietro veniva un gruppo di giovani donne, vestite di verde e di rosa. Entrarono in chiesa. Poco dopo le ragazze uscirono in frott a, e tornarono con le mani piene di caramelle e di confetti, di quei confetti co me di Pasqua combinano in Abruzzo, disposti a modo di foglie intorno a un ramett o verde. La chiesa era deserta. S'erano ritirati il prete e il chierico. Intorno alla bara bianca era affaccendato il gruppo delle ragazze. Le quali si chinaron o su di essa, la scoperchiarono, e guardarono il morticino che era l dentro, un b imbo di quattro anni, si misero diligenti a raccomodargli un velo. E poi nelle m ani del morticino ponevano quei confetti e quei rametti, e quelle caramelle, ogn una con una sua idea, chi gliela posava sul cuscino, chi di lato, chi nella tasc a del vestituccio; non pareva pi che fosse un bimbo morto, ma una creatura incorr uttibile, un simulacro, qualcosa di pasta dolce. Quelle mani diligenti ed espert e si muovevano su di lui ad accomodare, atteggiare, ornare, le mani fugaci e pro nte; che poi si fermarono sull'orlo della bara bianca; i visi si chinarono a bac

iare l'oggetto delle loro cure, non senza dare l'ultimo tocco al velo. Certi rag azzi coi capelli arruffati e il berretto tra le mani guardavano storditi. La cas sa fu chiusa come le ragazze avrebbero chiuso la madia di casa, e poi lo stesso corteo usc dalla chiesa. Quando il corteo fu sulla piazza, e la campanella ripres e a battere, dal pugno di una di quelle ragazze, neppur tristi, ma materne e fra terne, fu gittata una manciata di confetti che rimbalz sul legno bianco della cas sa e crepit in terra. Certe donne si curvarono a raccattare i confetti. CIVILT DI NAPOLI A Napoli quello che mi colpisce l'importanza dell'uomo su tutte le cose; altrove la citt, la sua architettura, la sua storia, le sue attitudini che vi parlano ch iaro al primo passo; a Napoli la vita coi suoi atteggiamenti fermi a un tempo ch e non di ieri n d'oggi, come fissati a un punto che non nuovo n antico ma di sempr e, la media d'una civilt che metropolitana e paesana. A Napoli l'uomo ha avuto se coli per adattarsi e per posarsi, vi ha formato i depositi sociali composti d'un a vera e propria razza, che regge come certi muri apparentemente decrepiti i gra ndi edifizi storici. Dico che solamente l'uomo stretto parente della natura riesce a costruire aspett i di citt di pietra terribile; questo accaduto ai primordi delle citt italiane, ac cadde ed ancor vivo a Napoli. Non c' che a Napoli un'architettura monumentale cos estranea alla terra; importata anch'essa, e spesso da tutt'altro genio che non q uello napoletano, costituisce la storia morale di questo popolo: un colle vi div enta fortezza e insieme una montagna abitata, i portoni spropositati vi reggono spesso abitazioni strettissime, scenari di muro compatto rosa e giallo sono come una prigione urbana, e giganteschi candelieri di marmo fanno da ornamento alle piazze; sono altrettanti terrori di una storia in cui tutto si confuso in un med esimo sentimento, e nello stesso tempo troppo grevi e forti perch non vi si insin ui il sospetto d'una certa ironia o esagerazione. Forse non v' nessuna sproporzione fra lo scenario e l'uomo; quel tanto che in alc uni quartieri di Napoli inaspettatamente duro e cupo come una prigione, fanatico perfino, risponde al fondamentale pessimismo napoletano, al suo sentimento dell e classi nella storia, perch non c' luogo come questo dove i limiti delle classi s iano segnati da ogni cosa, ma intanto esse sono solidali, con caratteri comuni, in una strettissima parentela. ancora qualcosa che rimane della vecchia Italia. Qui nella scala sociale, si assiste al sorprendente ripetersi di tipi con caratt eri comuni, e torna a mente quanto scrive Stendhal: che le sole fortune distingu ono in Italia un uomo dall'altro, non la nascita o la categoria sociale. E il gu sto del plebeo, che oggi un atteggiamento delle societ eleganti e un curioso segn o dei tempi, a Napoli un carattere naturale tra i pi raffinati cittadini. Dicevo prima dell'importanza dell'uomo rispetto alla natura e all'architettura. In nessun altro paese si ha l'impressione come qui che veicoli, automobili carro zze tranvai, siano minori di proporzioni che altrove, in modo che l'uomo vi sta dentro enorme come in una figurazione primitiva e, meglio, come in una figurazio ne popolare. Altrove il veicolo e la macchina confondono e limitano l'uomo, a Na poli un tranvai e una carrozza carichi di gente danno l'idea della folla che si serve della macchina come un tempo del ciuco o del cavallo, e non della macchina che domina l'uomo: v' sempre l'idea della gita pi che della costrizione metropoli tana, un'evasione festiva, come con un giocattolo poco serio. E poi, con la faci lit dei napoletani di interpellarsi e di porgersi l'aiuto l'un l'altro. Sar effetto dell'aria e della luce che vi si stende specchiata dal mare, come un' eterna campagna mediterranea, che isola uomini e cose in un'armonia che fu gi il fondamento di un'arte felice e di pieno equilibrio, ma a Napoli l'architettura n on ha un predominio schiacciante come nel settentrione, rimane invenzione degli uomini o segno delle loro ambizioni e dei loro timori, tanto che il barocco spag nuolo porta qui tutti i suoi caratteri di tetraggine e d'isolamento, e l'archite ttura dove pi allettante simula non so che ordine popolare che poi un'ordine mora le. La pietra, spesso lavorata fino al vaniloquio, durissima pietra e non riesce mai a formare un paesaggio e un mondo puramente architettonico; invece qualcosa come un sentimento e uno stato d'animo; vi concorre la luce, l'idea del mare, d el cielo, a renderla ostile, e in nessun luogo tanto facile come qui vedere il c onvento e il palazzo che somigliano a prigioni, o, al contrario, palazzi che sem

brano case di campagna perduti nella grande citt. S, ma con un sentimento dell'ari a e della luce che troveremo pi agitato andando pi gi nell'Italia meridionale. Si d irebbe che in un ambiente d'aria e di luce buone per tutti, prodighe a tutti, ar ia e luce diventino la conquista pi importante, il segno palese del benessere, de lla ricchezza, della potenza; sole e aria e veduta sono qui al sommo dei pensier i di tutti, formano il motore di questa civilt. E bisogna essere meridionale per capirlo bene. La natura di Napoli lontana da quello che di solito intendiamo qua ndo diciamo campo, mare, monte. L'occhio vuole la sua parte, un modo di dire mer idionale. Bisogna conoscere la campagna che si stende da Napoli a Salerno per re ndersi conto come essa abbia il suo ordine, il suo ritmo, il suo schema, con que l gusto degli elementi diversi disposti opportunamente, che il prodotto d'una ci vilt complessa come il gusto toscano dei poderi. La campagna napoletana il segno d'una disposizione dell'animo fermata in una stagione classica, senza decadenze n imbarbarimenti. Lo stile vi s' mantenuto in un rapporto originale, come in un mo dello d'architettura. Si notino a Napoli gl'infiniti chioschi dove non si vende che acqua, ornati di f rutta, o la frutta stessa nei piccoli mercati, che un vero lusso, e la cucina, q uasi tutta tendente a certi sapori acidi che sono assai nel gusto delle donne e dei ragazzi, e quindi delle creature pi vicine agli elementi originali della crea zione. La terra vi fornisce un vino aspro, che un'altra nota di questi sapori. N apoli non s' scordata la natura, e pur tra le fortezze e i vecchi androni pi scuri grida l'invito alla bellezza delle derrate, a uno spettacolo puramente visivo, come se la bellezza fosse tutto. In un mondo che si adorna tanto facilmente degl i appellativi di meccanico, questa citt da un pezzo ha conosciuto i piaceri delle evasioni nella natura, che un carattere d'oggi. Gli stranieri vi corrono come a non si sa che bizzarra variet, e ne scrivono, anche, con una leggerezza incauta; pochi hanno capito l'essenza estremamente libera e intelligente di questo paese . La quale essenza si pu misurare meglio in questi tempi in cui stanno crollando tutti i convenzionalismi cui si era affidata una societ nel pieno benessere, e ch e s'era fatte tante comode virt. Al primo segno di malessere vediamo virt e conven zioni crollare, caratteri insospettati uscir fuori, e le civilt in fama di raffin ate mostrare non si sa che stupida barbarie. proprio questo il tempo in cui si misura cosa voglia dire civilt, e civilt antica, e senso del diritto e della giustizia. Nei paesi a civilt antica la resistenza a un tempo duro come questo un fatto aiutato da un'esperienza secolare delle cris i di civilt. Il comico Altavilla, attore del San Carlino verso il 1855, diceva: "Quando sono triste mi metto a letto, e vedo ragazze e carrozze". Fu costui uno degli ultimi Pulcinella della gran pulcinelleria bianca e nera, gaia e funebre, con cui Napol i, caduta in un'epoca sventurata, motteggiava con atroce forza il suo destino. C he era poi il destino di gran parte d'Italia. Due artisti di altri due splendidi paesi, il genovese Magnasco e il veneziano Tiepolo, avevano gi carpito al suo na scere questa nuova famiglia e ridevole mitologia: Pulcinella e Pulcinellino; Pul cinella che suona la chitarra, Pulcinella che nasce da un uovo covato da una gal lina faraona tra una famiglia di Pulcinelli, Pulcinella in riposo fra capre cani e pastorelli d'Arcadia che sono poi tutti della stessa famiglia pulcinellesca. Basta vedere insieme una scelta di queste raffigurazioni per rendersi conto che quella fu un'evasione dell'arte italiana come lo era stata la grande pittura dei guerrieri e degli eroi. Sei e Settecento furono in Europa quasi la riscossa let teraria e pittorica dei poveri e dei derelitti e dei vagabondi, l'epica delle di fferenze sociali che improvvisamente invadevano una storia nuova e non pi europea n universale. Sono l i Rembrandt, i Callot, i Goya. Ma l'Italia non fece mai del poverismo o del populismo. Per la prima volta, forse, ella si rivolgeva alla sua vita reale, senza pi l'intervento del Cielo, e senza pi il coraggio della fuga ne l divino. Nei tetri banchetti d'ombre del Magnasco, nell'epica pulcinellesca del Tiepolo, nei vagabondi di Caravaggio, nelle figure della nuova societ popolare che animano le scene del Piazzetta, c' un mondo pudico che non ama mettere in piazza i suoi segreti e i suoi dolori. Anzi, gli atteggiamenti sono rimasti gli stessi, uguali i riti; solo che i protagonisti sono altri. L'interpretazione che ne diedero i

viaggiatori superficiali in Italia nota, e fin con l'influire anche fra noi. Ma l a cosa era forte, e tanto che nuovamente si sparse per il mondo come una risata tonante. Circostanza curiosa, furono genovesi, veneziani e napoletani i nuovi de scrittori di quella rovina le cui macerie richiesero tutti i secoli seguenti per lo sgombero. Pulcinella si metteva il naso di cartone e il berretto bianco a do minare lo spazio che avevano dominato i guerrieri e i santi; era signore e servo , cavaliere e pitocco. Anzich mostrare le sue piaghe, l'Italia mise la maschera. Come al crollo dell'Impero romano, la maschera popolare saliva le scene e parlav a la verit che soltanto ai buffoni consentito dire. E che mescolanza di profano e di sacro. Si sa che la divinit pi vicina agl'italiani era stata sempre la Vergine, e poi la donna nei momenti trionfanti della sua vita, la giovane sposa, la madre, la pred iletta del Ciclo. Ma la dolce Toscana aveva finito di parlare. E in Napoli la Ve rgine madre diventava la Madre Dolorosa che, vestita di nero, tendeva al cielo e ai fedeli la mano con un fazzoletto di pizzo, mentre lacrime di gelo le solcava no le gote e un pugnale dall'impugnatura simile a quella d'una sciabola le trapa ssava il seno. Intanto, agli angoli delle strade, dove si erano vedute le mani g iunte della Vergine, il suo manto celeste, il bambino ignudo e ricco di grazie, si sostitu l'immagine del Crocifisso. Napoli fu dominata da questa immagine piaga ta, flagellata, coronata di spine, ignuda, oppure vestita dalla cintola in gi con una veste scarlatta a pieghe del tipo di quella che copre il Volto Santo di Luc ca, e che d l'immagine d'un costume dissueto, tra la regalit d'un'antica porpora e la veste dell'infanzia. Questa immagine popol i vicoli pi oscuri, gli antri pi mis teriosi; era l'immagine della sofferenza virile e non pi della grazia celeste e d ella intercessione femminile. Napoli diventa un mondo complesso e inestricabile, e nel golfo pi ridente del mondo si addensava una citt misteriosa come Londra del Settecento e Parigi dell'Ottocento, una citt adatta agli scrittori di romanzi co me si intendeva il romanzo allora, e cio un intrico di passioni in una citt fatta per le apparizioni singolari e che nel suo ventre formicola di tutte le passioni , dalla pi abietta alla pi sublime. Questo sviluppo della citt, il suo addensarsi e il suo complicarsi al punto che un giorno si sarebbe dovuto rompere col piccone , era nuovissimo fenomeno in Italia. Con un'opera assidua, che ricorda il lavoro dei protozoi, delle conchiglie, dei celenterati nel fondo del mare, la vita abi ssale di un popolo addensatesi in modo incontrollabile aveva dato l'assalto alle strade, ai palazzi, alle dimore, e trasformato architettura, grandi portoni, va sti cortili e palazzi, in un meandro di tane e di sotterranei. Era stupefacente osservare quello che era accaduto di un androne di casa patrizia; lo stesso lavo ro che sul Colosseo, sul Foro e su tanti monumenti romani aveva fatto l'umanit mi nuta in tanti secoli, quando tali monumenti erano abitati. un peccato che Francesco Mastriani, romanziere napoletano vissuto tra il 1819 e il 1891, non fosse un uomo di genio. Studente di medicina, abbandon l'Universit pe r darsi alla letteratura. Si dovette impiegare alla Dogana, e qui, seguendo le c omitive degli stranieri, e facendo ad essi da guida nelle ore libere, impar ingle se e francese. Sposato e con quattro figli, abit tutta la vita in quel quartiere di Sanit simile a una valle oscura nella citt, coi misteri, l'ombra, la malinconia delle valli, sormontate da un ponte che ne sbarra il cielo nella luce di Capodi monte, il ponte dal quale le povere donne tradite e offese si buttavano credendo che non fosse peccato cadere da tanta luminosa altezza. Mastriani scrisse cento sette romanzi, e dal 1875 li pubblic tutti in appendice nel giornale "Roma", diet ro il compenso di due lire la puntata che negli ultimi anni gli fu elevato a cin que. Ho trovato ancora qualcuno che si ricorda di Mastriani. Questo nome dir poco ai s ettentrionali, ma noto e amico ai meridionali, specie a quelli nati nei paesi do ve i libri di Mastriani arrivano con Ponson du Terrail, de Kock, Montepin. Picco lo di statura, calvo, con barba e baffi alla Napoleone DI, indossava un vecchio vestito nero e un gil bianco. Siccome aveva la mania delle cravatte, la moglie di ligente gliene ritagliava in ogni straccio e in ogni residuo di vestito o di sto ffa; egli si vantava di possederne sessanta. Portava in tasca una boccettina d'i nchiostro, e dove che fosse scriveva. Era celebre nel popolino. Qualcuno lo indi cava come "l'autore dei romanzi di Mastriani". Scriveva anche aspettando i signo

rini cui dava lezioni di lingua e di grammatica oltre che di inglese e di france se, per arrotondare il magro bilancio familiare. Faceva anche brindisi in rima, cantava e suonava, dirigeva bene le quadriglie nei balli familiari. I suoi roman zi sono storie complicate di donne cadute nella colpa per bisogno, di donne che abbandonano il frutto della loro colpa e che lo ritrovano dopo molti anni nell'a biezione, di figli spurii che ritrovano i fratelli legittimi, di ricchi e di str anieri che portano di colpo una povera fanciulla del popolo e una traviata al ma trimonio, di personaggi che muoiono e risuscitano perch il pubblico reclamava al giornale nuove puntate del romanzo; e poi mezzani, ladri, assassini, venditori d i carne umana, tutta l'organizzazione intorno alla colpa e al delitto. Fra gli a ltri, poich nella sua fantasia si confondevano i suoi casi personali e quelli del l'umanit, uno dei suoi fantasmi il padrone di casa, ossessione del popolino napol etano come del povero romanziere. Con una fantasia sbrigliata, in una lingua tra accademica e dialettale, sollecitato dal primo libro che gli capitava sottocchi o, vedeva al modo del comico Altavilla ragazze e carrozze dal fondo della sua mi seria. Descriveva alla brava la vita di lusso. Ma, e questa una prova dell'animo suo, senza invidia e senza desideri malsani. Aveva dei meridionali la facile im pressionabilit verso i problemi filosofici e sociali, il risalire dal particolare al generale, e il ridurre il generale a un particolare. Peccato che non fosse u n artista e che non riuscisse a cucire insieme i suoi personaggi, tanto che i su oi romanzi si possono considerare una lunga digressione su problemi sociali, int ramezzata da brevi descrizioni di caratteri e di passioni che non riescono mai a mettersi in movimento con quella illusione di vita che propria dei romanzieri. Nel gennaio del 1891, quando chin il capo sui suoi fogli, usciva "Il Paese della Cuccagna" di Matilde Serao, e la Serao lo consider come un precursore. Uno di que gli umili precursori di cui riesciremmo appena a mettere insieme cento pagine d' antologia, ma che aveva intuito oscuramente il genio naturale dell'Italia meridi onale, quello che form poi la sua tradizione sociale: la Serao, Di Giacomo, Verga . Un fatto per vide molto bene Francesco Mastriani, e fu la profondit, densit, avvent urosit di Napoli. Egli trov nella sua citt la dimensione fantastica e il mistero ch e sono stati sempre la qualit pi attraente d'un romanzo. Non appare per nulla grat uito nella sua opera numerosa e disordinata che un intrico di personaggi e di av venture, di strade e di luoghi, di smarrimenti e di ritrovamenti, accada fra Bor go Loreto, Sanit, Vicaria, Chiaia; davanti alle sue invenzioni non ci prende alcu n dubbio che quanto egli racconta si possa svolgere a Napoli: di ci gli diamo cre dito illimitato. In genere, la letteratura sulle citt italiane aperta e chiara, g li arbitrii della fantasia possono essere assai pochi, trattandosi d'una societ c on caratteri familiari, e che, almeno fino al tempo di Mastriani, era un comples so di societ provinciali in citt di provincia. Ma anche oggi che la vita italiana s' fatta complessa, basta il nome di Napoli per evocare, alla fantasia di chi v' p assato una volta, un mondo molteplice e avventuroso. E tanto che il giudizio cor rente su Napoli diverso da persona a persona, ognuno legge in questa citt secondo il suo cuore e il suo sentimento, a meno che non accetti le comode e generiche definizioni che se ne sono date da gente estranea e superficiale la quale scambi la filosofia del vivere con la spensieratezza, il realismo con la buffoneria, il carattere con la maschera. Lo stesso Pulcinella era la maschera del buon senso e del realismo; era il personaggio moderno che, staccandosi da una tradizione in costume, eroica e favolosa e classicizzante, assumeva un costume anch'esso. Era l'epica della vita quotidiana. Tanto che proprio da fatti come questi nasce in Italia, e non soltanto in Italia, la commedia borghese. Nasce cos anche in Franci a, e le maschere sono la sua aria vitale. Alle origini del teatro moderno c' la m aschera che di quando in quando rispunta. La maschera vuol dire carattere e vita di tutti i giorni in una passione, vizio, virt, tendenza: l'uomo che si occupa d ell'umano. La maschera estremamente seria, anche quando scherza, essendo i suoi scherzi sempre intorno alla realt e a una realt precisa. Fa ridere perch non evita un solo urto con la realt, non la supera e non la trasforma e non ne evade. Lotta e si dibatte intorno ad essa. Stretta nel cerchio della realt, essa pensa sempre alla stessa cosa e non mira che al suo scopo. La maschera d'una enorme seriet. Di solito, quelli che visitano Napoli si fermano agli aspetti pi appariscenti del

la citt, alla sua nobilt, alla spensieratezza che sembra emanare sempre da tutto q uello che vivace e naturale, al suo tessere di gesti la vita quotidiana. Certo, si tratta d'una mobilit estrema, ed difficile indovinarne lo scopo, tanto che mol ti non gliene attribuiscono alcuno, se non proprio la manifestazione di una gran de vitalit; e invece tutto un modo e una rete di rapporti di cui fatta quella vit a. Percorrevo in carrozzella i paesi alle falde del Vesuvio, fino a Torre del Gr eco. Il cavallo trottava con la vivacit d'un meridionale; il cocchiere si voltava di quando in quando a raccontarmi la storia d'un altro suo cavallo che gli era stato requisito, una bellezza, un fuoco, un lampo; il padrone, che non lo poteva dimenticare, lo andava a trovare al reggimento in una citt vicina, e sapeva che la generosa bestia era tenuta bene, se l'era presa il colonnello. Questo discors o era interrotto di continuo da un rapido occhieggiare del cocchiere all'ingiro, saluti, cenni col capo, con la mano, con la bocca, con le spalle, a gente la pi diversa che incontravamo lungo il viaggio, e non da strada a strada, ma da paese a paese. La strada era un avvenimento: organetti che suonavano e l'armonia era subito travolta e ripresa volubilmente da un vocio di monelli, tintinnio di carr etti colmi di verdure, grida di mercanti ambulanti, da tutto quello che di vario e alacre si pu rovesciare sulla strada d'un paese vesuviano, da case troppo alte e uniformi che, viste di profilo, mettono fuori i loro mille balconi. E sui bal coni, a distanza, altre persone parlavano allo stesso modo, cio a cenni; da un pu nto all'altro della strada. La stessa cosa notai poi andando in carrozzella a Na poli. Il cocchiere non faceva che salutare, accennare, sorridere, ammiccare, ai suoi conoscenti da quartiere a quartiere. E questo complesso di rapporti mobile e diffuso come quello delle api e degli uccelli, cui allo stesso modo bastava un tremito, un movimento, uno scrollo, significava farsi vivo, accennare a una sol idariet con gli uguali, con gl'inferiori, coi superiori, con gli amici, coi conos centi: insomma, con tutta la gente di cui presto o tardi avrebbe avuto bisogno c olui, o che di colui avrebbe avuto bisogno. Questo l'aspetto pi evidente della solidariet napoletana, della citt pi soccorrevole , pietosa e legata del mondo, complesso forse unico, quale possono produrre seco li di vita difficile e un'esperienza vasta come la storia. Queste non sono forme oziose e non sono ossequio servile. Una tale solidariet fa s che non si trover mai un napoletano che si umilii a un altro uomo ma gli parler da uguale, cio da uomo, cosa che alla fine esclude l'odio verso i fortunati, cio l'odio sociale. E quell o che i napoletani chiamano "fetente", cio l'uomo capace di cattive azioni, egois ta, imbrogliatore, si rivela subito al primo colpo d'occhio; mentre spesso, d'un uomo livellato dalla vita moderna, ci si accorger troppo tardi e a nostre spese che si tratta d'un vero fetente. Nel suo senso migliore, la vita napoletana popo lare una tragedia fra uomini. E che cosa di meglio ogni migliore vita civile? Cotesta tregua la osserver meglio chi si trover di fronte alla vita del popolo min uto che, raccolto in densi quartieri, sotto il segno della pi stretta solidariet. Qui si vive collettivamente, e quasi disponendo in comune delle risorse di ciasc uno. Esiste in tutta l'Italia meridionale un significato a parte per la parola " comodit". Comodit sono gli oggetti che servono ad alleviare la fatica quotidiana, che la rendono meno grave e la consolano: comodit un balcone assolato, una pentol a, una grattugia, un fornello, un ziro d'olio. Ora, a Napoli queste comodit sono qualche volta il bene comune d'interi gruppi umani, che se le prestano e ridanno , e disporne in comune implica un mondo di rapporti e di discorsi e di interessi solidali. Piccole cose. Ma se vorremo capire il senso della realt dei napoletani , mai smesso dal tempo dei greci, il loro piacere degli oggetti, delle forme e d ei colori, e l'intimit che tale sentimento porta nella vita di tutti i giorni, e l'amore dei beni che vengono dall'industria umana come dalla natura, e il colore di un'ora, del cielo, del mare, e il gesto d'un vicino e il lampo d'un paio d'o cchi di donna, bisogna pensare che l'origine di questo sentimento, eloquentissim o nella vita e nell'arte napoletane, sta in cotesta pratica di vita rivolta assi duamente al mondo sensibile, alla realt. Una solidariet siffatta rende testimone c iascuno della sorte dell'altro; e siccome la vita quello che , con le sue feste e il suo carico di dolore, ecco che gioia e dolore di ciascuno si comunicano a tu tti. Per questo, gran parte della letteratura, popolare o meno, napoletana, cant a delle ore di gioia e delle ore di dolore. Ci che pu diventare anche un vezzo, un

motivo facile, un patetico troppo semplice. Morte e vita, gioia e dolore, sono le frasi pi comuni nelle canzonette; possono diventare maniera stucchevole; ma sa ranno pur sempre nuove nella realt popolare di questo paese il cui nome volato in tutto il mondo a significare tante cose curiose, patetiche, strane, ma una fra tutte: l'uomo in una densit e pienezza e verit di vita. facile dire che a Napoli c' gaiezza e spensieratezza, come facile parlare del dol ce far niente napoletano. Il fatto che ogni napoletano combinato proprio in tutt 'altra maniera, e che non ve n' uno il quale, uscendo di casa la mattina, e rinca sando la sera, si sia dimenticato un istante dello scopo della sua giornata e de l fine che vuol raggiungere. Quale che sia la sua occupazione, egli pone una tal e attenzione a quello che fa, tanto che una certa lentezza napoletana dovuta pro prio a questo impegno, alla minuzia con cui ognuno compie il suo pi umile lavoro. Del resto, un orto napoletano dice la cura, e il senso della forma di. questo p opolo. L'uomo qui dominato dal fatto di riuscire a ogni costo a strappare quello che vuole strappare alla vita, e vi si metter con tutte le sue risorse; non lo p erder di vista un momento, anche quando sembra che lo dimentichi. Questo d un colo re tanto forte alla vita napoletana; perch una cosa indubitabile: che a Napoli la gente non sia vera, reale, coi piedi ben piantati sulla terra. E da questa seri et proviene la soppravvivenza di vecchi riti e vecchie feste, e la fede del popol o napoletano. Egli aspetta dal cielo la grazia, il benefizio, e li chiede come v anno chiesti, in tutte le forme; vi sono riti che sopravvivono a Napoli perch son o legati ad essi alcuni benefizi. In genere, tutto quello che pare disusato, vec chio, sopravvissuto ad altro tempo, qui vivo non per abitudine e pigrizia come s i crede, o per amore del pittoresco e della rappresentazione, ma perch risponde a ncora a uno scopo. In tutto il pittoresco napoletano v' un senso stretto della ne cessit, e la necessit conserva in vita a Napoli tutto quello che morto o che vuoto formalismo altrove: la necessit, solo movente delle azioni umane, e che d forza, carattere, vivacit alla vita. Mi fermo a guardare la cura della decorazione nei p i piccoli venditori ambulanti, con che teatralit sono disposti una dozzina di fich idindia per dritto, intorno a un melone d'inverno, sotto una luce bianca ad acet ilene; o come il venditore di fuochi artificiali, incoraggiando a comperare un r azzo o una girandola, ne descrive i rumori, i sibili, il volo, l'effetto. Vuoi c onvincere. E la persuasione l'arte napoletana per eccellenza, un'umanissima arte . Molti si sono fermati a questo carattere esteriore, al suo pittoresco, senza g uardarne l'intima ragione: cos venuta fuori la leggenda di Napoli. Ma se per un i stante si sar entrati nel cuore del popolo napoletano, ci si spiegher che somma di forza, di vitalit e di verit richieda questa vita, di quanta virt civile sia capac e quando gli sia chiesta, di quanta proverbiale ingegnosit. PAESAGGI NAPOLETANI Venivo dalle valli della costa di Amalfi, il paese dei devoti delle miracolose M adonne, dove i venti del mare sono capricciosi, le strade tagliate a picco nella roccia, le case sospese sull'orlo dei precipizi e i massi fermi sul punto di un a immane rovina. A ogni punto pi minaccioso la Madonna col Bambino ha la sua nicc hia; anche se gli scogli che si drizzano sulla riva o stanno isolati tra le onde o sono a due a due, uno grande e uno piccolo, e il grande protegge il piccolo d agli assalti del mare; talvolta le piante che sbucano da ogni interstizio del ma sso fanno sulla sommit di tali simulacri naturali una corona d'erbe e di fiori se lvaggi con una simmetria meravigliosa. Il popolo chiama, queste figure di pietra , la Madonna e il Bambino, e ogni paese ha la sua perch questo un tema di quella famosissima strada. Il crinale delle rocce forma anch'esso profili di creature; perci la montagna sembra viva. Si aprono nella montagna, lungo la strada, grotte e caverne, volte e nicchie, absidi come di cattedrali, e il piccone e la mina ha nno messo alla luce del sole decorazioni di stalattiti. Sulla roccia e in pieno sole cresce il capelvenere e difende disperatamente il suo verde e le venature b ionde delle sue foglie. Ogni commessura della roccia ha le sue piante erranti, d i colore azzurro come sono le piante sulla pietra; pi oltre l'ulivo ha lo stesso colore. come se fossero alimentati dalla salsedine. La gente di questi luoghi, d a Positano a Maiori, abita paesi nobilissimi, di vecchia architettura amalfitana , con cupole, portichetti, giardini sospesi in alto. Le case sono spaziose e cir condate di orti e giardini a terrazze, separate l'una dall'altra con un sentimen

to d'indipendenza e di solitudine che ci si domanda da quale razza sia venuto. S i vede spesso gente povera uscire da palazzetti del Settecento, col giardino ric co, una decorazione di stucco alle finestre, e magari con le due stanze superior i sprofondate. S'immagina che gente del popolo, rimasta nel paese dopo la parten za d'una razza di signori, abbia occupato le case loro. Ed cos. Erano citt fiorenti e prospere al tempo della navigazione a vela, avevano commerc i con Genova cui fornivano legni e uomini, conobbero i commerci del Mediterraneo occidentale insieme con la lor grande amica. La strada di Amalfi e di Sorrento non era ancora aperta, il cammino pi facile era il mare. Per valicare il passo di Monte Sant'Angelo, che li divide dal versante di Castellammare, si prendeva una sedia e quattro portatori per tre ore di cammino. Qui stavano gran signori, i q uali coi commerci adottavano le mode e le eleganze vedute nei paesi ricchi. I ve lieri tornavano a Positano carichi di mobili comperati a Genova. Nello stile del paese, rimasto pi intatto che ad Amalfi, essi si fecero palazzi e ville, capolav ori di architettura popolare che sarebbe opportuno difendere con le leggi stesse che difendono il paesaggio e i monumenti illustri. Essi sono la nobilt del popol o. Fino a qualche anno fa, e all'arrivo di qualche antiquario accorto, questi pa esi erano ricchi di bei mobili settecenteschi, e ancor oggi capita di vedere, pe r una porta aperta in un vicolo, fra tante cose comuni, un mobile illustre, una delizia settecentesca che la padrona di casa v'invita a guardare, dicendo orgogl iosa che un mobile di famiglia. Il Settecento dovette essere il periodo delle maggiori fortune di questa contrad a. Il tema di quell'architettura, ma complicato con quello originale del luogo, pur sempre quello settecentesco. Venne la navigazione a vapore, gli armatori abb andonarono le loro ville e i palazzi, il mare divenne deserto, alcuni quartieri abbandonati crollarono, e mostrano ancor oggi certi disegni di caminetti, di alt ane, di balconcini, perfino di cucine, che hanno un gusto inimitabile, che sono la traduzione di tante cose ricche e illustri in uno stile del luogo che rammemo rava fantasticando le cose visitate. La gente, alcuni si diedero alla pesca, alt ri emigrarono in America, dove seguitarono l'altra loro attitudine naturale, all e piante e ai frutti. Perch sono architetti e agricoltori nati. La terra, strappata a palmo a palmo alla montagna e alla roccia, buona; in lugli o e in agosto si vedono le arance attaccate all'albero, i limoni sono il frutto di tutto l'anno, le rose fioriscono senza stagioni, alle prime piogge di settemb re si seminano gli ortaggi che altrove vanno a primavera, ed la seconda semina d ell'annata. Si pu dire che la terra la trasportino col fazzoletto, e dove la rocc ia fa imbuto la circondano di una mora di sassi, contro le intemperie. Questi so no per la montagna scoscesa i loro orti e uliveti famosi. Vi portano su, quando non possono altro, la sabbia del mare. E gente diversa da ogni altra della regio ne, sono taciturni e pratici; le donne sono anch'esse da fatica, hanno della vir ago, e fra di loro non si sente mai dire di quei drammi sentimentali che scoppia no sovente nei climi morbidi. Sono architetti nati, ho detto, e le loro case le fanno con logica, con un sapiente sfruttamento del terreno, con un tale senso di costruttori che il funzionalismo moderno ha in loro dei precursori. un'antica c orporazione naturale che nessuno ha ancora pensato a ricostruire, prima che i mo delli bastardi dell'architettura comune penetrino fin l. La loro casa ha l'orto, il cortile davanti al portico, sul portico la terrazza. A terreno sono le stanze della vita comune, sopra, al livello della terrazza, quelle di abitazione. I te tti sono a cupole lisce, e dall'alto fanno un panorama di bagni romani, o turchi che forse lo stesso. All'orto, all'albero, al cortile e alla terrazza sacrifica no lo spazio altrimenti adatto a ingrandire l'abitazione; colorano la casa di du e colori spesso, e dentro di un bellissimo bianco in cui la luce grande della co ntrada fa l'atmosfera d'un bagno vitale, l'indimenticabile chiarit del Mezzogiorn o. Ho veduto certi mulini loro, composti di cilindri e di cubi di muratura sovra pposti che ricordano le nude forme della moderna architettura monumentale. Mi pa re certo che la consuetudine invalsa in alcune citt dell'Europa settentrionale, d i tingere i palazzi di due colori, sia nata in queste contrade che i settentrion ali conoscono a meraviglia. Il sole in queste valli scompare prima della sua ora, e alle cinque la valle imm ersa nell'ombra uguale e pur tanto chiara che d'estate dura due o tre ore, ed ha

del lungo crepuscolo, quale si vede nell'Europa del nord. Ma basta valicare il passo di Sorrento per trovarvi una natura diversa, e quella precisamente che va sotto il nome di napoletana. Ho detto che in questa costiera non esistono gradaz ioni di luce; si passa dal sole sfolgorante alla fosforescenza del crepuscolo di tre ore, ci che influisce anche sui sentimenti. Il sole tanto vibrato che a chi non sia abituato d strani e pur piacevoli disturbi, come si sente raccontare di c ontrade favolose pi a sud. una luce immensa che si mette in lotta con gli organis mi, li sconvolge, li rinnova, e l'uomo si sente scintilla dell'immenso creato. M a passata la sella di Sorrento, verso la punta della Campanella, come se quel lu me abbagliante lo posassero in terra, e vi vengono incontro le ombre vivide, i c hiari e gli scuri, e si rivedono i vapori che velano le cose. Il rosa e il grigi o riprendono il loro dominio, questi colori tutti napoletani, checch ne pensino i pittori. Qui gli orti felici si stendono in tutto il loro lusso naturale. Il pi no napoletano, la chioma dell'arancio, la natura della vite di questa contrada, chi li ha veduti una volta li distingue fra mille. La vite alta e forma viali d' ombra; l'arancio ha la chioma irta e tutta fiammelle, al contrario dell'arancio greve e tondo della Sicilia; il pino gracile ha qualcosa del fiore dell'agave. A Sorrento la vitalit del popolo, felice dei suoi orti, della sua aria, della sua luce, vi riporta a qualcosa di immortale, di estatico. A Sorrento le ragazze ab bracciate parlano ridenti e si baciano, secondo l'abitudine delle ragazze di Nap oli, cos facili ad abbandonarsi fra di loro e a baciarsi in pubblico nell'atto di dirsi qualcosa all'orecchio. La loro razza tutt'altra, e gli occhi, le labbra, il colore, sono segni che si riconoscono. Sui muriccioli le bambine coi grandi o cchi e la carnagione calda sembrano conoscere la felicit segreta del mondo natura le; la vita vi si snoda intorno senza fatica apparente, coi carrettini di verdur a e di vino, al trotterello facile dell'asino piccolo. Vigne e agrumeti formano un profondo bosco, col verde luminoso degli aranci. E i fiori sgargianti, bizzar ri, popolari, rosa e viola, vi mettono una fiammella. Alle finestre le donne, nell'ombra dei giardini ragazzi e bambine, e quasi nelle profondit di stanze lussuose. facile dire che Tasso il sentimento dei suoi orti e dei suoi giardini, rischiaranti tanto soavemente il suo poema, li avesse da un a reminiscenza di questi suoi luoghi, e tutta la sua pastorelleria, capricciosa alle soglie del Barocco, e i suoi canti agresti, gli strumenti rustici che si se ntono nelle sue selve, che hanno un timbro miracolosamente salvo da ogni convenz ionalit, li abbia tratti da qui. E anche le mollezze e i piaceri dei suoi giardin i incantati appartengono a quest'ozio. E le colombe che volano nelle sue liriche , i fiori che si aprono al principio dei suoi madrigali, somigliano a questi, e a queste colombe che si vedono bianchissime volare all'improvviso come innalzate da un'improvvisa tempesta. Le strade dei paesi lungo la costa di Sorrento si aprono col loro Settecento div enuto popolare, il Settecento che attecch qui e ricorda i buoni affari e l'agiate zza d'un secolo ornato e intraprendente. E questa la seconda zona. La terza quel la alle falde del Vesuvio, da Pompei a Napoli. La casa diviene bassa, e tronca, con una lunga scala esterna che quasi fa da ancora sulla terra. La terra d'oro, e si ferma sulla strada come un torrente rappreso; si ricorda dell'eruzioni. Si pu dire, osservando case come queste, e la propaggine della scala, che sono la tr aduzione architettonica del vulcano che le domina. La natura ha un'armonia cos gr ande che vi si pu scoprire un tema uguale e universale per tutto. I paesi sono ch iari come le pietre d'un letto di torrente all'asciutto. E tutto questo popolo d i verdure, di fiori, di pozzi, di asini bendati intorno al pozzo, e gli orti dis posti come in una geometria, e l'incombente Vesuvio colore di rosa, che sembra u n plastico, di cui sfuggono quasi le dimensioni reali, v' da giurare che occhi di migliaia d'anni e gli stessi occhi di Virgilio ed Orazio li abbiano veduti semp re gli stessi, e gli stessi atteggiamenti degli agricoltori, e perfino i loro ca ppelli e i loro vestiti rustici. V' una delicatezza di scavo, una gracilit da paes aggio antico, tutta opposta all'idea che di solito ci si fa, sullo sgargiante de lla terra napoletana. Quelli che vivono sulle falde del Vesuvio non credono al Vesuvio. Non lo chiaman o neppur Vesuvio; lo chiamano la Montagna. Non ci credono, o non ci pensano, com e l'uomo non pensa alla morte. E non ci sono che i napoletani, per proporsi solt

anto i problemi immediati della vita, e uno per volta, il problema del giorno, i l problema dell'ora, e non altro. Non ci pensare. Non te ne incaricare. Questo a ntico, saggio, longevo. La met del mondo d'oggi si guasta i nervi e perde troppo presto la vita per pensare alle cose che gli accadranno, e che quando accadranno si presenteranno sotto un aspetto diverso da quello immaginato. E sar troppo tar di per capire che non ne valeva la pena. L'ultima capitale di questa saggezza Na poli. Non si tratta d'indifferenza, e neppure di non voler vedere. Questo si chi ama tenere tutta spalancata la porta dell'inatteso, dei capricci della sorte, e dell'equilibrio naturale del mondo secondo cui tutto si accomoda. E si accomoda perch l'uomo pensa ad accomodarlo. Ma intanto, prima, non ha affrettato, col suo pensiero e con la sua fantasia, d'un millesimo la fatalit e la catastrofe. "Fai q uel che stai facendo", era un modo romano che conteneva lo stesso esplicito divi eto del "non te ne incaricare" napoletano. Sperare fino all'ultimo, significa, i n definitiva, volere sino all'ultimo: sotto l'apparente disinteresse una manifes tazione di volont. Una scienza primitiva e un pregiudizio rimasto nel popolo, san no che le parole evocano spesso i fatti e i fantasmi. Ma se accadesse? Se la Montagna si scatenasse? La lava avanza lentissimamente. G li uomini la guardano avanzare. Anche ora l'ultima parola non detta, e non sar de tta mai. La guardano; il terreno offre infinite combinazioni alla massa mostruos a, come i numeri del lotto; s' vista a volte dividersi la corrente incandescente davanti a un vigneto. Tutto quello che s' taciuto per anni, per anni non pensato, si affaccia alla memoria, come nell'uomo che combatte si fa strada la coscienza primitiva della difesa e dell'offesa. Se bisogna abbandonare la casa, l'uomo co n le masserizie e i figliuoli gi sul carretto non crede fino all'ultimo di dovers ene proprio andare; stacca tanti passi quanti gliene contende la lava; se la lav a si ferma egli si ferma. Fino all'ultimo egli non crede, non vuole. Egli ha pia ntato i suoi orti e le sue vigne, i suoi frutteti, i giardini, le case. Tutto in torno creato con gli elementi del Vesuvio e i muriccioli e le mura, e le cupole delle abitazioni impostate e saldate come le pareti d'un orcio. Un giorno, una p ioggia di lapilli neri ha concimato la vigna, e la vite gracile divenuta robusta e pi abbondante. In una natura arida come questa, molte specie di vitigni, delle cento e pi specie che prosperano sulle rocce basaltiche coperte d'uno strato di cenere di pochi palmi, che quanto basta a render buono un campo, sono venute fuo ri da semi erranti. Il vino colore violetto e amaranto. E poi i peschi, i mandor li, gli aranci; i legumi e gli ortaggi; i piselli alti appena due palmi; i magri cavoli verdebl, sulla cenere grigia e molle che serba l'impronta lucente della v anga e della zappa. Dove la cenere appena rimossa, d'un colore vivo e quasi umido. La primavera sosp esa nell'aria, per il tremolare rosato dei peschi. In basso in questo grigio che ho detto, e sul grigio i tronchi scortecciati e dipinti di bianco degli alberi. E gli alberi acquistano sul terreno chiaro cadenze di persone, e il bianco rico rda le vesti, e piegati dal vento i tronchi sembrano umani, con sopra questi vel i rosa, tra cui il risentirsi delle prime foglie verdi come il rinverdire d'una capigliatura di vecchio personaggio di favola. In un patio tra mura d'un bianco di latte dove la bocca nera del forno sta da un canto, i fiori diventano enormi, e i buffi vasi di creta, sulle colonne di calce mozze, che rappresentano facce umane, tengono ancora prigionieri i vecchi spiriti del paganesimo. Guarda la dil igenza dei solchi, l'ordine degli orti, i cannicci che coprono le chiome degli a ranci carichi. In un paese di aspetti e di fatti antichi come l'Italia, questo l embo di terra col suo sapor di cenere, serba l'antico in nessuna pietra, ma nell 'ordine del campo. lo stesso,, ordine degli stucchi di vita agreste nel museo de lle Terme a Roma, degli affreschi di Pompei, delle nostalgie campestri di Virgil io e di Orazio. Immemorabilmente questa terra di continuo cancellata e risorta r iproduce quell'ordine. Un'antichit vivente, perenne e prospera, una antichit di og ni attimo. Nei cortili profondi e ombrosi, nei patio, negli androni, stanno donn e e bambini, il cagnuolo accucciato, un gallo nero su una sedia, la pianticella propizia della ruta. "Questa dev'essere gente fatta in un modo diverso da ogni altra." "Lo , difatti. In alcune di queste contrade hanno abolito la stazione dei carabin ieri. Non s' mai sentito dire d'un delitto o d'un furto."

Dai loro cortili e dai loro patio, guardano stupiti noi che guardiamo quell'anti ca semenza d'uomini. Di solito, gli stranieri non guardano agli uomini. Vedono l 'Italia come fosse caduta dal cielo. Quando si accorgeranno che l'hanno costruit a gli uomini? Oh, gli uomini. Ne ho incontrati fin sotto il cratere del Vesuvio. Suonavano la chitarra. Usciti dall'ombra propizia dei cortili bianchi, e dagli sguardi assortiti di tan ti occhi bianchi e neri, avevamo lasciato le ultime case piantate ai limiti dell a lava, con la loro forma di cubo come un'affermazione semplice e costruttiva di fronte alla natura tondeggiante della montagna, all'informe della lava che prem e da tutte le parti in un mare rappreso; pareva a tratti che su quell'onda i dad i bianchi delle . case pencolassero come le vele in mare. Pi sopra c' il bosco dei pini, coi suoi profondi recessi. Ma pi oltre, dopo qualche orticello in cui gli ortaggi diventano nani, d'un regno infantile, comincia il deserto, sonoro di pie tra arida; la cenere nel pugno di una mano pesante: ha il colore d'una brace che cova un fuoco non ancora spento. Salendo, la massa di cenere preme da tutte le parti; il viottolo aperto ieri, riaperto oggi, sostenuto dalle macerie di pietre , molle. Il mondo abitato lontano. Se ne intravedono le case bianche, i campanil i rosa; simili a macchie d'inchiostro le tracce delle antiche eruzioni si spando no nella pianura - sopra sono ricresciuti gli orti e le abitazioni. Sembra di in travedere in queste macchie quello che si trova nella profondit della terra, allo stesso modo che, guardando un mare dall'alto, se ne scorgono gli scuri degli sc ogli e i chiari dei banchi di sabbia. In una di queste macchie Pompei. Ma non pr oprio il deserto. La montagna emana un tenue calore, da animale, da vivente. Si scorge un ciuffo d'erbacce secche e ci si domanda in quale mai stagione rinverd. Si spalanca sotto gli occhi la valle infernale, d'un colore di zolfo, di muffa, di ingrommatura. Con una fantasia stracca e disordinata, il deserto di lava rif l e immagini che si leggono in tutti gli elementi disordinati e lubrici: stracci e panni luridi, cordami rappresi in cerchio, nudit decapitate e mutilate, col real ismo dei carnai. una materia sorda che acquista una forma sol perch materia, sol perch gli occhi umani vi cercano una forma. Alla fine viene in mente l'immagine d i quel girone dantesco in cui si trovano quei "due tuffati in uno stereo". quell o. A questo punto, tra la cenere rosea e l'infernale stereo, apparvero i due suonat ori di chitarra. Cantavano e suonavano "Ohi Mari"; lass in cima, stringendo la fo rma esatta delle chitarre, umani, come se li avesse messi l in un suo canto streg ato l'Ariosto. Non si pensava che fossero posteggiatori, ma personaggi, apparizi oni avventurose; e cos un ragazzo che vendeva certe arance appena staccate dall'a lbero, poco pi oltre, e non dico la bellezza di quella forma e di quel colore del frutto in quell'informe e tra quei colori da chimici. Il Vesuvio e la chitarra, il Vesuvio e le arance d'oro. Ma non cos tutta la vita? Fino a quando il gigante non d uno scrollo. E quella canzone, cantata tante volte sul mare d'argento, in vista del Vesuvio lontano e benigno come un totem, portata lass, nella realt, segn ava lo stacco tra la vita e la morte, tra le illusioni dell'uomo e il nulla. Il Vesuvio in questi giorni attivo. Ancora sotto l'orlo dei cratere, in vista de lla colonna di fumo gialla e rosea, discutevamo che rumore facesse. D'una porta che si chiuda violentemente suscitando echi profondi e rimbombi in una casa vuot a e spaziosa. No, un rumore pi elementare. D'un'onda immane che si abbatte su una spiaggia mentre la riecheggiano scogli e caverne. Come se stesse per soffocare, il vulcano vomit certi stracci incandescenti di lava, che si posarono e si spens ero tra il verde minerale del cono eruttivo, un verde che pareva il miraggio d'u n bosco tenerissimo. Intorno a quella convulsione le fumarole esili e bianche fi orivano incensando. Nel deserto di lava, muffito di sterili bianchi, di violetti , di gialli, in una natura tutta minerale, in quella solitudine disperata in cui la montagna pareva soffrire senza tregua n rimedio tutti i dolori della terra, e terna condannata ai dolori del parto, mentre piccoli uomini sul ciglio dell'altr o versante si profilavano nel cielo con l'aria assorta della gente agli spettaco li, si lev battendo le ali una creatura di quei luoghi, un essere vivo e romito: un gufo. I COSTRUTTORI DEL GARGANO

Vi sono popoli che hanno un talento istintivo e storico per l'architettura. E si capisce per quelli che hanno da celebrare una potenza e da attestare una forza. Ma s'immagina difficilmente un gruppo di pastori e di contadini che porti una p reoccupazione architettonica nella sua abitazione, nel suo forno, nel suo rifugi o di montagna. Da Manfredonia a Monte S. Angelo, si va prima per un pendio sul m are, di poche case sparse tra i campi di olivi e di mandorli, di olivi e di pini d'Aleppo. La montagna una pietraia deserta l davanti, e si misura dove e come il vento la tormenta. In una piega del terreno, in una ruga, in una valle, dove il vento non arriva, qualche albero si leva, una macchia verde descrive la sua pac e. Ma salendo per la strada bianca, quello che era il deserto appare un bastione di pietrame, e non qui soltanto, ma su tutti i poggi e i monti intorno; alla fi ne, sull'intero promontorio. Tutto quello che si scorge, dalle valli asciutte al le cime, una immane opera di muri a secco che sostengono le terrazze degli olivi , dei mandorli, delle vigne, del grano. Un movimento a spirale avvolge monte die tro monte, i viottoli serpeggianti e le strade tortuose rifanno un movimento con corde; il mare che sembra levarsi inclinato sulla linea dell'orizzonte, rigato a llo stesso modo dalle correnti: tutto sullo stesso disegno, simile all'avvolgers i di certe conchiglie. Sulla cima di qualche poggio sta come un fossile un edifi cio bianco. Si capisce d'essere capitati entro un'opera tra le pi ingegnose degli uomini e, c ome succede, si pensa alla natura di questi uomini. Una tale opera dei campi sta ta compiuta in settant'anni, da quando il Gargano fin di essere un feudo regio co i suoi boschi profondi dell'interno. Il lavoro parla per gli abitanti. Come lo s catenarsi d'una girandola, questo vortice diventa pi grandioso e pi complicato a m ano a mano che si risale il monte. Poche volte la fatica umana d uno sbigottiment o simile. Una donna, nell'autobus, con due occhi di fuoco di notte, posa per un attimo lo sguardo su di voi. Non vi guarder mai pi. Tutto qui molto importante. A un certo punto, l'occhio si abitua a discernere nient'altro che questa immane pa zienza. Qua e l nelle valli, spuntano certi enormi comignoli, e non se ne scorge l'abitazione. Si scorge bens la porta incardinata nel masso. La vigna ancora nuda , i mandorli gi verdi con qualche vecchio fiocco fiorito, colore della polvere, g li ulivi alleggeriti sono gracili e ai loro piedi il grano d'un colore nuovo; ma non c' traccia d'uomo se non questi enormi camini dalla forma di torri, di campa nili, di lanterne, di vecchi casolari, bianchi come la pietra, e un filo di fumo annunzia che qualcuno vivo l sotto, chiuso come un minatore. Tutta la terra atto rno lavorata come una miniera. In fondo alla valle, una borgata disposta in riga su quattro o cinque file, seguendo il disegno delle terrazze che la sovrastano per la montagna, tinta di bianco come tutta la pietra che si vede. Un lembo di t erra miracolosamente in piena, arriva verde di grano proprio fino alla striscia del mare turchino. Gli stessi comignoli che si sono veduti prima, annunziano la citt di Monte Sant'A ngelo, prendono forma sopra al ciglio roccioso del monte, figurano come le cuspi di di una lontana citt turrita e bianca; si scorgono poi i tetti, le case basse d isposte in riga sulla cima, che coprono il monte come un tetto, della stessa for ma, e spioventi come gli embrici d'un tetto, e, sopra, questi comignoli sproposi tati, a torrione, a elmo, a turbante; se una citt moderna dovesse avere i suoi co mignoli delle proporzioni di questi, in rapporto all'altezza degli edifici, si d ovrebbe presentare con camini della grandezza delle Torri di Bologna o del campa nile di Pisa. Questi camini dicono tutto: il vento che tira, il freddo d'inverno , la bisogna del pane. Da una casa esce un tale con un'asse sulla testa, e sopra ci sono due pani di dieci o dodici chili ciascuno, quanto basta a una famiglia di cinque o sei persone, di qui, per due giorni. Non avevo mai veduto un pane di questa posta. A parte la donna dell'autobus, con gli occhi di fuoco di notte, non ho veduto qu i altre donne, fuori, se non vecchie. Una scritta all'ingresso della citt avverte che qui si tocca il quaranta per mille della natalit, la quota pi alta d'Italia, a quanto pare. Ci si accorge subito di trovarsi fra gente dura e gelosa, quella cio che ha costruito l'enorme monumento dei bastioni delle sue montagne. Tanto du ra, che neppure il matrimonio accade senza dramma. L'uomo ha spesso bisogno di un atto di forza anche in ci. Che un contrasto qualun

que coi parenti della sua bella si faccia strada, che lo prenda un dubbio sui se ntimenti della donna amata, e l'uomo, che fino a quel giorno non riuscito a parl are alla sua sospirata se non stando sulla soglia della porta, con la madre muta testimone, e la fanciulla rifugiata ai piedi del letto, quest'uomo spalleggiato dai suoi compagni si presenta nella casa di lei, in un'ora in cui ella sola con la madre, e quando i suoi compagni con l'inganno e con la forza hanno condotto fuori la vecchia, egli si chiude la porta alle spalle e diventa signore dell'ama ta. A ogni denunzia di colpi di questo genere, e dei ratti in campagna, o nel co rso d'una festa, i carabinieri sanno che tutto finir col pranzo di nozze. Spesso, per la povera condizione degli sposi che non possono redigere lunghe note di be ni e di oggetti di corredo da far leggere solennemente per bocca del notaio dava nti al vicinato, e da far portare alle comari nelle canestre, il ratto buonissim o rimedio che dispensa da tante malagevoli formalit. Pensano gli amici a preparar e una lauta cena ai due fuggiaschi, e un buon letto. La mattina dopo, le madri d ei due sposi per amore e per forza, vanno a informarsi se tutto sia andato bene. Il letto molto alto, le assi sono sostenute da due alti trespoli, e per salirvi ci vuole una scaletta o una sedia, anche al prete e al medico quando sar l'ora. Quella del ratto una vecchia usanza illirica. noto che di l, sull'altra sponda de ll'Adriatico, il rituale del matrimonio comporta anche un ratto simulato, a cava llo, prima della celebrazione. Qui rimasto l'uso nel suo vigore primitivo. Il ra tto pu capitare anche a una donna sorda al richiamo dell'amante, e che per avvent ura ami un altro. Tutto finir ugualmente col matrimonio; ma con quale cuore? E si tratta proprio d'un richiamo d'amore, al modo degli uccelli e delle fiere, un s ibilo sordo come dei grilli d'estate, cui la donna, se vuoi rispondere, si affac cia dietro i vetri o sulla porta, a cui corre, se fuori, strisciando lungo il mu ro fino alla porta di casa sua. E poi i figli, le grandi famiglie che servono pe r il lavoro della montagna, dove sono di pietra anche gli ammostatoi, dove sono scavate nella roccia le gabbie per i torchi, dove i pani sono grandi come la lun a piena, dove il vento chiamato lucifero, e suscita nei crudi inverni i racconti delle streghe, dove si lavora fino a settant'anni e si campa spesso fino a cent o, dove gli uomini ripetono sempre la medesima storia e nascono forti, crescono intraprendenti contadini pastori e artigiani, negati a ogni forma d'industria, m a per quello che sanno fare ricercati in tutto il Tavoliere, per un buon grande pane sicuro, e che neppure nell'emigrazione scordano le loro attitudini, rimanen do carpentieri, muratori e imprenditori di lavori stradali e di costruzioni. Han no il genio dell'architettura come in altri, non pi molti, paesi d'Italia; e dava nti alla loro citt costruita mirabilmente sullo scrimolo del monte e su due valli , ci si pu chiedere se, per avventura, tante invenzioni preziose d'architettura, non soltanto popolare, non vadano proposte a modello d'una moderna architettura povera di idee e pretenziosa, come quella che ci propone stabilimenti balneari e palagi tutti del medesimo stile. Non esiste da noi un documento che metta sotto gli occhi l'arte di costruire una casa come fanno qui, a Ischia, a Positano, ad Amalfi. Arte di fare scale, passaggi, portici, di risolvere problemi di pendenz e, di prospettive, di variarle infinitamente. Arte di legare gli uomini ai loro luoghi. tanta la vocazione di questi di Monte Sant'Angelo, che essi chiamano pagliai anc he certi rifugi di montagna costruiti di pietra a forma di capanna. I loro avi d ella preistoria abitavano qui in caverne che si vedono ancora, adattate gi mirabi lmente ad abitazione. Appena il romanico glorioso fece illustre la Puglia, quest i montanari trasportarono sulle loro abitazioni il modello delle facciate di que lle chiese, quadrate e rettangolari, e adattandole, in modo che la pi modesta cas uccia ha questo egregio frontespizio. In molti luoghi, ancora la caverna primiti va sormontata da un comignolo e chiusa da una di queste facciate. Ed una caverna il famoso santuario di S. Michele Arcangelo che pare sia apparso qui per la pri ma volta alla adorazione dei fedeli, prendendo il posto di Apollo che qui aveva un tempio. Poich egli lasci l'impronta del suo piede nudo, i pellegrini di tutta l a regione e delle regioni vicine tracciano sui muri e sulle scale del santuario l'impronta della loro mano e il loro nome. Le impronte di quei piedi e di quelle mani sono come una lunga eco delle sessant amila persone che passano qui ogni anno.

Il sagrestano del tempio, sotto la grotta umida ed enorme che si apre nella chie sa, mi offre una reliquia. Una scheggia del masso. Ancora pietra, la pietra. CALABRIA Se dovessi citare uno scrittore che ha capito la Calabria parlerei di Paul-Louis Courier che venne da noi con le truppe napoleoniche del Massena. Per quanto egl i si soffermi poco sul paesaggio, basta per dargli colore, nelle sue lettere, il colore di quella guerriglia: le bande defilate sui costoni dei monti, l'arrivo improvviso nei paesi dell'altopiano (chi arrivava primo sparava); i boschi con g l'impiccati agli alberi da cui qualcuno si spiccava facilmente ("s'impicca prest o e male"); Courier torn tre volte al campo spogliato dei suoi panni; e quando ru ppe in mare e la tempesta lo port sino a Scilla; e lo spettacolo degli invasori c he tra il vino e le cose saccheggiate li schiantava di colpo la perniciosa. E i tribunali rustici. Un giorno capit in uno di questi tribunali uno degli ufficiali invasori, persona colta a quanto pare, giacch percorreva la Magna Grecia con la spada e un Virgilio: il tribunale ebbe un occhio di riguardo per lui, poich era u n uomo di lettere, e gli offr di scegliersi lui stesso la morte che meno gli disp iacesse. Non si potrebbe essere pi giusti. Figurarsi la discussione. Ci penso spe sso. Questa proprio la Calabria con la sua natura, il suo carattere, e diciamo p ure la sua cavalleria e il suo talento filosofia). Sono pochi i paesi d'Italia c he abbiano conosciuto meglio della Calabria l'ingiustizia, il sopruso, la violen za: eppure, forse per ci, questa regione tiene al sommo del suo carattere il sens o del diritto e del torto, e l'attitudine a giudicare, distinguere, spartire giu sto e ingiusto. Guardate i suoi campioni: Gioacchino da Fiore, Francesco da Paol a, Tomaso Campanella; non trovate che torri di giustizia e castelli di utopia. E nelle sue favole popolari, gli sciocchi mitici sono sciocchi filosofici che dis tinguono, interpretano, vanno al fondo delle cose e delle parole trovandovi la s uprema imbecillit. Poich il calabrese s'innamora come pochi delle grandi idee e delle idee universal i; il passato, la grandezza umana, la forza civile, parlano a lui con accenti de l suo sangue; perci esso tra i pi facili a diventare ingiusto e prepotente sapendo di esserlo, facendosene anzi un culto disperato e una missione come della giust izia: posizione esatta da angelo condannato. In ogni terra la lotta fra giusto e ingiusto, e in ogni cuore d'uomo. Da noi essa fu sempre quotidiana anche con la natura. Da secoli noi amiamo la verit come gli aspetti della nostra terra; e l'i mmagine delle cose, il senso delle cose, poich per esse abbiamo tenuto fede alla nostra tradizione. Quale sia la tradizione dei calabresi difficile dirlo. Un tema divenuto chiariss imo e dominante di questa regione povera di grandi memorie archeologiche perdute in cento flagelli naturali, la stessa natura che prende atteggiamenti d'archite ttura, l'opera dell'uomo che fa tutt'uno con essa; quello che, attraverso terrem oti, alluvioni, franamenti, ha resistito, natura, roccia, pietra, albero, uomo. Guardate la chiesetta bizantina di San Marco a Rossano, o il panorama di Corigli ano Calabro, e Santa Severina, e la Colonna di Giunone Lacinia sul mare di Croto ne. Chi ama queste cose - e lo so, difficile amarle -, non conosce neppure il pe rch di questo suo attaccamento. Vi sono altri e pi bei paesaggi che danno il senso della trionfante presenza dell'uomo, come se l'uomo li avesse ridotti in suo po tere e resi soggetti, che sono la chiara immagine della sua storia e delle sue a bitudini: c' nella Lombardia dei canali la geometria di Leonardo; v' la Toscana do ve la natura non che l'introduzione all'architettura e la sua pi bella introduzio ne. Ma in Calabria siamo ancora al primo balzare dell'uomo nella sua abitazione terrena tra mille forze nemiche; essa tutta nell'atteggiarsi dei monti, delle sp iagge, dei colli; l'uomo vive in mezzo alla natura ancora sottomesso, come press o una bestia di cui non conosce la forza ma che sa potente, e non sa bene se nem ica o amica, ma vi sta come figlio, con tutto quanto insondabile in questa affez ione, con lo stesso struggimento che d l'atteggiarsi d'una figura familiare terri bile e alta ma cara come in Calabria la paternit. Certo non pi bella Egina davanti ad Atene; e ai greci vecchi e nuovi trema il cuore a scorgerla di lontano. Poic h questo il paese, e tale sentimento il patriottismo. Uno di questi luoghi Tiriolo. Gli alberi solitari nella valle nuda, il paese sul colle addensato come un mucchio di semi o un armento, il cocuzzolo accanto pela

to; e la donna con la sua roba sulla testa, sola. Grande solitudine dell'uomo, l a stessa che nel paesaggio attorno a Roma. una bellezza di pura geologia, di con formazione del terreno e di storia della terra, che ha il ricordo di un cosmo op erante, dei geli delle epoche remote, degli oceani che lambivano le cime dei mon ti e ritirandosi hanno scavato le terrazze; l'elaborazione della natura e il suo rivolgimento e il suo cambiar positura e aspetto. In Calabria i venti del mare e la luce e il sole hanno compiuto l'opera, l'hanno risecchita, mondata, invecch iata, mummificata, come nella scogliera di Scilla. Il mare deserto, paesi rifugi ati sui colli e sui monti in guardia, castelli e palazzi solitari, terre coltiva bili rare e motivo di contese secolari, e fiumi rovinosi, e paesi dove a poche m iglia di distanza mutano il costume e il dialetto, e che soltanto in questi anni allacciano buone strade, formano tutta l'immagine d'una societ. Non conosco altr i luoghi che come la Calabria abbiano il senso della gerarchia della vita, dove ognuno il suo personaggio e nient'altro, dove l'imbecille parla da imbecille, da rozzo il rozzo, da signore il signore. Come nei drammi di Shakespeare, ciascuno ha il suo linguaggio, il suo mondo, appartiene a una tradizione di tipi e di fa miglie, direi addirittura di discendenze. Mi fa ancora pena se ripenso all'avven tura d'un agitatore socialista che venticinque anni fa, in uno di nostri paesi, teneva un suo discorso dal balcone d'una casa; quando arriv a dire "siamo tutti u guali", dalle porte del paese ad anfiteatro, dai ballatoi, dai vicoli, gli rispo se un coro enorme di risate. Era la povera gente che rideva. La vita dura, la vita di tipo antico dispone a queste cose. Tant' vero che in Calabria, per mutar condizione, nel tempo di prima non v'era al tro mezzo che l'emigrazione, cio l'adattamento dell'uomo ad altro lavoro e ad alt ra vita, e questo soltanto gli dava il diritto, al suo ritorno, di smettere il c ostume della sua categoria; e cos l'avere fatto parte dell'esercito per un numero di anni. E questo non tanto primitivo come sembra a prima vista. Abbiamo veduto che le rivoluzioni di tipo socialista di dopo guerra hanno sommosso popoli inte ri con l'introduzione di alcune comodit materiali, e quella che fu una volta l'el argizione dei diritti dell'uomo, divenuta in Russia, per esempio, elargizione de i benefizi della vita confortevole, nei quali benefizi, prima del lavoro delle m acchine, era tutto il segno del privilegio di alcune classi. Uno dei caratteri d ella civilt d'oggi d'avere ridotto al minimo il prezzo di tali privilegi, e la ri voluzione socialista ha per veri autori le macchine. Vale a dire che la vita ant ica regge dove le differenze materiali sono pi profonde, e cos reggono le distinzi oni e gli abissi fra le classi, l dove dalla semina del grano allo sfornare il pa ne l'uomo schiavo di se stesso. La Calabria ancora sul punto di questa trasforma zione. Ma una penisola cos stretta ha una vita profonda e di lenta penetrazione. Ancora tutta la sua vita nella mancanza di bisogni, o nella loro limitatezza, pe r cui avere olio, vino, lana e grano in casa gi la ricchezza. Questo permette di star fermi, guardare, contemplare, pensare, che poi la libert suprema dell'uomo. Ricorder il gesto con cui una povera donna, aiutandomi a portare una valigia in u na stazione sperduta, quando misi mano al borsellino mi disse: "Grazie, non ne ho bisogno; l'ho fatto per rispetto di voi": e la sua veste era tutta una toppa. E con la mancanza di bisogni, diviene prezioso quello che la te rra e la luce danno, a tal punto che ogni cosa cara per la fatica e la lotta che rappresenta, sia un frutto o un sacchetto di sementi. Perci ogni conquista la tr adizione, la vita, il passato, e ogni merc rappresenta le arti pi antiche dell'uom o. Ancora per poco, certo. Ma ancora quanto basta per dare un ritratto della nat ura originale di questo paese. La forza della Calabria nella sua struttura familiare. La famiglia la sua spinta vitale, il campo del suo genio, il suo dramma e la sua poesia. I figli rapprese ntano un continuo atto di fede nella vita, una promessa e una speranza, una forz a che deve correggere il destino individuale dei padri. Altrimenti non si capire bbe il significato della parabola che percorre ogni calabrese di modesta condizi one che si affaccia alla vita: proprio nel momento in cui egli, giovane, deve af frontare la vita, pensa a sposarsi; mentre avrebbe bisogno di lottare solo, si c rea una responsabilit; senza il peso del gruppo familiare a lui pare inutile comb attere. Se rimane solo e libero di s, porter il suo individualismo, proprio della sua stessa natura inquieta, cavillosa, ragionante, alle manifestazioni pi sfrenat

e. Egli ha bisogno naturalmente del freno della famiglia; questo il solo mezzo a ttraverso cui egli si potr fissare nella societ. Per s egli non conquisterebbe null a; gli bastano la sua fantasia e la sua filosofia della vita, lo appaga il mondo esterno del suo paese che egli ama, che vorrebbe fuggire, cui torna sempre, e s i pu dire che non abbia il senso della conquista sociale se non ha una famiglia d a recare in porto. il contrario di quanto accade negli altri paesi, che l'uomo p ervenga alla famiglia dopo aver vinto la sua battaglia per l'esistenza. Naturalm ente, questa etica calabrese richiede qualit virili anche nella donna, o come vol ete, primordialmente femminili. escluso ogni senso edonistico. Il calabrese non acquista neppure socialmente rispettabilit se non ha famiglia. Q uesto un sentimento tutto regionale dell'autorit e del comando, essendo la Calabr ia uno dei paesi che ha in maggior grado il senso della gerarchia, il senso pate rno, patriarcale. Si tratta di temperamenti facile preda alle passioni: fantasio si, volubili, sensibili, la famiglia li frena; capaci di astrarre, diventano pra tici. Da ci proviene al calabrese un altro ordine di pensieri, quello di fronte a ll'autorit. Per lui chi comanda ha il diritto di comandare, e il comando una funz ione indiscutibile. Disposto naturalmente a una funzione patriarcale, egli entra cos nell'ordine sociale. Difatti monarchico, unitario, buon soldato. In Calabria considerata una vergogna non essere abili al servizio militare. Il calabrese im magina il potere come qualcosa di astratto; il potere non per lui altro che sost anzialmente giusto, e le ingiustizie che ne possono derivare dipendono da chi am ministra questo potere. Poich ha un senso primitivo della giustizia, per cui nei vecchi tempi si eresse a brigante giustiziere, egli diffida degli esecutori del potere, mentre colloca il potere nella dimensione pi alta e inattaccabile. Ma nello stesso tempo, il calabrese sa che il potere un fatto umano e che basta pervenire a parlare con esso perch si pieghi alle necessit umane. Questo teocrazia e insieme senso degli uomini. facile vedere gente del popolo, in Calabria, che crede di placare i rappresentanti del potere con le offerte di frutti della terr a; un cesto di arance, una bottiglia di essenze, un barile di vino, un agnello. Per quanto ci possa sembrare un futile dono propiziatorio, ha il suo effetto. Qua ndo ero ragazzo in Calabria, vedevo che tutta la vita sociale girava intorno a q uesti doni stagionali; l'invio delle primizie, dei frutti e degli animali, che s i spedivano non soltanto tra vicini ma da paese a paese. Allora, come oggi, la f amiglia di un carcerato che si presentasse all'avvocato non andava mai a mani vu ote; col denaro portava anche doni. Per quanto sia grande l'autorit cui il calabr ese si rivolge con questi mezzi primitivi, come volete rimanere insensibili all' offerta semplice, che parla a quanto abbiamo nel cuore di pi antico, di una cesta di frutta o di un animale dei boschi dell'Aspromonte e della Sila? Vidi molti a nni fa uno di questi doni offerti a un cardinale in Roma, e ricordo come egli so rrise. Si stabiliva cos un contatto tra uomo e uomo. Poich, se il calabrese ha il senso dell'autorit come un fatto irrazionale e indiscutibile, sa tuttavia che si tratta sempre di una autorit di uomini. E annettendo ai prodotti della sua terra un valore inestimabile, e sovrattutto un valore emotivo, sa che anche Dio sorrid erebbe del suo paniere di frutta, offerto da uomo a uomo e da vecchio ragazzo a vecchio ragazzo. Lo spirito tradizionale del calabrese dunque gerarchico, abituato a spartire il dritto e il torto in tutte le sue manifestazioni. D'altra parte il potere, il co mando della societ, sono considerati a tal punto, e per un'abitudine secolare all 'oppressione, che tutto il movimento profondo della Calabria tende da cinquant'a nni al mutamento di condizione, partecipare al potere in qualsiasi forma, divent ando magari il pi umile servo di esso. E questo l'altro aspetto della questione. E non una cagione trascurabile del malessere sociale. Una recente statistica ha rivelato che la citt di Catanzaro conta un numero di avvocati maggiore che non la citt di Milano. Migliaia di studenti escono ogni anno dalle scuole classiche del le tre Calabrie, e sono destinati ugualmente ad aumentare il numero di detti avv ocati. Manca in Calabria un assetto moderno che apra alle energie giovani il cam po delle arti, dei mestieri e delle professioni tecniche. Se si vogliono meno av vocati, bisogna aprire pi scuole professionali e officine. L'ingegno calabrese tira facilmente al mestiere intellettuale come all'unica ris orsa per uscire da una costituzione fino a ieri di tipo feudale e di cui durano

le conseguenze. Sar in alcuni strati la corsa verso l'impiego e il funzionarismo; non si ancora sviluppato il senso dell'iniziativa individuale e del rischio per sonale, n si abolito il concetto della differenza tra impiego di tavolino e mesti ere. O meglio, l'emigrazione aveva rivelato che il calabrese pu diventare anche u n uomo moderno, attivo, intraprendente, capace di correre il mondo a suo solo ri schio. Preti, funzionari, carabinieri, rappresentano il riscatto di famiglie che non hanno altro mezzo per salire e migliorare la propria condizione se non mett endosi sotto le ali dei grandi poteri costitutivi, la Chiesa e lo Stato. Sono qu esti i surrogati fatali dell'emigrazione di un tempo, e di molte fortune che non si possono pi tentare. Ma intanto, la storia di tante ascensioni dalla vita popolare all'attivit civile in Calabria piena di drammi inauditi, di sacrifici e sforzi eroici. Per maturare un figlio che diventi avvocato o medico o prete, molte famiglie hanno sacrifica to tutti i loro membri; in alcune famiglie numerose, per tirare fuori da uno dei figli, in genere il pi piccolo, e gi predestinato, un intellettuale, il padre ha imposto a tutti gli altri figli sacrifici di anni, il contributo finanziario per i dieci o dodici anni della durata degli studi, e i figli si sono sottomessi se nza fiatare a tali sacrifici, hanno affrontato l'emigrazione, l'arruolamento set tennale, dividendo con la famiglia paterna il salario e lo stipendio; solo dopo che il giovane prescelto, aiutato d a ognuno dei suoi fratelli, ha stabilito la sua condizione, soltanto allora i su oi fratelli hanno potuto sposarsi. I fratelli maggiori, aspettando la sistemazio ne del fratello minore, si sono ritrovati coi capelli bianchi, e di fronte a un altro impegno per il resto dei loro anni, il matrimonio cui pervennero per nuovi sacrifici, avendo gi dato la met della loro vita alla creazione dell'opera patern a. Questi fatti possono parere terribili a chi li considera senza l'animo del lu ogo, e comportano certo il loro dramma: una famiglia intera, e dei giovani sulle soglie della vita si sono privati di tutto, dalla semplice sigaretta all'amore; ma non pu sfuggire a nessuno questa attitudine del calabrese al sacrificio, alla totale dedizione di s, all'annullamento della sua personalit di fronte alla legge familiare. Nelle famiglie povere dove il padre non pu arrivare a compiere l'oper a di elevazione familiare, il figlio maggiore assume la parte di padre, e si tro va ad averla terminata vecchio come suo padre, e non per s. Si pensi che umanit pr eziosa si pu cavare da gente siffatta. Molte vite calabresi sono tutta una rinunz ia, e forse neppure tanto dolorosa dacch una tradizione antica ha segnato nel cuo re di ognuno questo potere. Tanto pi grave in quanto il calabrese di sua natura m obile, avido di vita, virile, con una dose di amor proprio e di orgoglio molto s piccata. un paese questo dove la dignit, la nessuna servilit, la personalit, la lib ert interiore, sono le molle dell'esistenza. In molti casi, la biografia del calabrese si pu ridurre alla rinunzia. Ecco una v icenda solita: sposarsi, e dopo quindici giorni o un mese di matrimonio emigrare , come si faceva una volta, o partire soldato. Ma questo gli basta per spingersi nella vita. Per quanto l'Italia abbia la famiglia come centro di ogni manifesta zione di vita, la Calabria tutta nella famiglia. Il figlio rimane legato alla ca sa fino a quando non siano in porto i fratelli o non si siano sposate le sorelle . E le sorelle andranno a marito per ordine di et. Molti matrimoni nell'ambiente calabrese sono ritardati perch la sorella maggiore non ha ancora trovato marito; e in molti luoghi a uno che chieda la figlia minore d'una famiglia, il padre ris ponde offrendo la maggiore, per ordine di et. Questo indica l'annullamento totale dell'uomo di fronte alle necessit familiari, l'uomo considerato come partecipe d ella responsabilit familiare e del suo ordine. Si veda a che punto relegato il pi acere. L'uomo che entra in una famiglia considerato subito un soldato e un difen sore di essa. Tutte le rovine familiari e individuali della Calabria dipendono dallo sganciame nto della vita familiare e da questa struttura, essendo d'altra parte i calabres i eccessivi per natura e capaci delle passioni pi sfrenate, strano in un popolo d i virt tanto primitive. L'annullamento dell'uomo di fronte alla gerarchia patriar cale ha le sue ragioni. I maggiori uomini della Calabria portarono sempre in s qu esto avvertimento: un Abate Gioacchino, un San Francesco da Paola, un Campanella , dominano questa regione come segni di quel genio tutto proprio della regione d

i abbracciare le grandi idee di abnegazione, di impersonare la missione dell'uom o nel viaggio verso la giustizia, l'ordine, la gerarchia, e l'universo considera to come una sola famiglia. Terminata la cerimonia in chiesa, un bambino era rimasto nella chiesa vuota. Sta va inginocchiato dietro un pilastro, piccolo come possono essere piccoli i bambi ni gi vestiti da adulti, coi piedini nudi non ancora appiattiti dal troppo cammin are, i piedini nuovi e paffuti come le sue mani giunte. La sua preghiera consist eva nel guardare tutto all'intorno, i simboli e le immagini, e i fiori posati da vanti alle immagini, poich di maggio, e le donne tornano dai campi la sera con un mazzolino di fiori per la Madonna vestita di azzurro con una parrucca d'oro sot to la corona grande. Tutto bello, tutto grande e maestoso; queste cose non si ve dono altro che in chiesa nei poveri villaggi calabresi: in chiesa la calma e la pace e il lusso dovuto alle cose divine. Fuori un mucchio di stracci, la coabita zione con gli animali; e tuttavia i ragazzi sono belli e sani, belle le donne, f orti gli uomini. I ragazzi sono la maggioranza dei frequentatori nelle chiese, f anno un pubblico turbolento che si aggrappa alla balaustra, striscia fino ai pie di dell'altare, e si appiatta dappertutto per assistere da vicino ai misteri che si celebrano. Qui intuiscono qualcosa di alto, di solenne, di superiore all'uomo. Se dappertut to l'infanzia e l'adolescenza sono la primavera del mondo, in paesi come questi formano la stagione incantata. Qui i ragazzi percorrono gloriosamente le feste e le stagioni, hanno la natura per trastullo fantasioso, i loro giocattoli sono d ipendenti dalla natura, dai frutti, dai fiori: le castagne, le noci, le nocciole , e poi le ciambelle e i dolci delle feste, e poi la canna quando verde, l'olean dro quando si scorteccia facilmente, e d'autunno la creta molle per farci le sta tuine. Qualcuno ha visto i segni della forza e della potenza nei carabinieri, e dice che si far carabiniere. Ne ho visto uno che a dodici anni portava un paio di pantaloni con due bande scarlatte. Mi domando che cosa si tirerebbe fuori da ta nte e cos ardenti vocazioni se questi ragazzi vedessero altri aspetti della vita e della conquista umana. Sono tornato in Calabria dopo molti anni, e ho riveduto queste eterne cose. Poss o immaginare che il ragazzo rimasto solitario nella chiesa vuota nutra chiss qual e inconscia vocazione verso le cose alte e nobili. Cos sono maturati fra noi i mi gliori uomini. Ho riveduto le ragazze nuove di quest'anno, sedute sulla soglia d ella porta; accanto ad esse la madre nera cosparsa di rughe che registrano sul s uo viso i dolori sofferti, le parole dette, le preghiere mormorate; tutta la mob ilit meridionale fissata in queste rughe come i moti della terra sull'intrico di linee dei sismografi. La ragazza appena nuova, intatta, d'un colore che nulla in torno ha, nel vecchio e scabro abitato: il colore ielle cose nuove della natura, dei germogli delle piante e delle foglie tenere della lattuga. Per poco essa so spesa in quella stagione sublime, e dagli stracci, dalle tane oscure, ella si le va con la sua bellezza ignara e gli occhi sereni, simili a quelli di tutta la be llezza e la giovent del mondo dove che sia. La primavera allo stesso modo sospesa sulla Calabria intera, nella stagione che dura sessanta o settanta giorni. Il lino azzurro fa laghi di gemma nei campi, il trifoglio che in Calabria sgargiante copre di colore granato i poggi, e poi tut ta la gamma dei verdi, da quello colore della muffa a quello gemmante come il mu sco, e tra un colore e l'altro quello della terra ora grigio, ora color della fe ccia, ora giallo e bianco abbagliante; e poi la fioritura degli asfodeli, dei co lchici, del croco; e poi gli oleandri, le zagare: l'aria un profumo fluido che s i respira come un'atmosfera sensibile. Per questi due mesi l'anno, la terra pi se vera e pi scabra che sia in Italia sorride. il tempo che bisogna visitarla, varia , orientale e boreale, mediterranea e interna. L'aria trasparente e sonora, tras mette a distanze enormi i rumori e i suoni; chi parla come se mettesse inavverti tamente la mano sul tasto pronto di un organo; perci tutto popolato, sotto il cie lo di cristallo che prolunga la sera indefinitamente in una chiarit di altri mond i lontani nel firmamento, di suoni e di voci, di scampanii di pecore, di richiam i e di canti, ed tutto un esclamare vago e diffuso, in un'eterna felicit di voci umane. A tratti, come su un'onda della radio, una intera frase arriva ai vostri orecchi, non si sa di dove. uno dei fenomeni pi incantati della Calabria. Saranno

le sue montagne ad amplificare e armonizzare le voci, sar l'aria lieve e pronta. Nessuno sa che sia. Ma la gente si chiama da poggio a poggio, e tutta l'aria si mette in moto mentre il lume bianco del sole vibra di questi messaggi. Si pu pro vare a pronunziare una frase a voce discretamente bassa, per sentirla allargarsi e diffondersi. Le voci sono pronte, sveglie, vigorose nella mollezza dell'aria. Conoscevo la Calabria che si percorreva a piedi o sul mulo, la Calabria impervia per cui era un mistero quello che si trovava dall'altra parte delle sue montagn e o nei suoi altopiani solenni. Ora la Calabria si pu percorrere in lungo e in la rgo con le strade tra le pi belle d'Italia. Ho ritrovato la mia terra pi bella di quanto non sospettassi io stesso, coi suoi altipiani interni che paiono d'una co ntrada boreale d'Europa, e la sua vecchia consunta sponda greca dell'Jonio. Avev o trovato la neve nella Sila; si camminava in un bosco profondo di abeti, tra i castagni ancora spogli e irti come piume di aspri sui dorsi delle montagne. La n eve andava ricamando sui rami e sulle gemme i suoi merletti, in terra fra la nev e aveva bucato il croco violetto e azzurro, e la viola alpina. Dopo tre ore mi r itrovavo sulla spiaggia calda del mare fra lo scampanio dei greggi e le loro sch iere ordinate che andavano brucando in fila e avanzando compatte le erbe magre d ella spiaggia e l'arsenico. Si stendeva infinitamente quella sponda greca che da Crotone si prolunga fino al Capo Spartivento, col suo colore di terra antica fr a i colli digradanti dal balzo abissale dei monti, le crete aride, le fioriture enormi di certi poggi, le rocche medievali sugli sproni dei monti, le torri diru te, i castelli abbandonati, i paesi disertati sui colli franosi, con la luce che si affaccia alle finestre vuote dai tetti sprofondati. Questo mutamento di clim a, di natura, di paesaggio, e in due o tre ore, un fatto unico nell'Italia che p ure tanto prodigiosa, e spiega molta storia calabrese dibattuta di continuo fra le stirpi indigene dell'interno e i popoli nuovi, mercantili e civili della cost a, fra trib pastorali e greci. La distanza che oggi in auto breve, dovette appari re a quel tempo enorme, come a molti di noi nell'infanzia appariva ancora insupe rabile. Una distanza di continenti. Questo spiega pure il carattere dei calabres i, primitivo e raffinato, patriarcale e avventuroso, suscettibile di ogni perfez ionamento, di ogni slancio verso l'inconoscibile e il cielo, come spiega le fero ci passioni e insieme il discettare pi filosofico e cavilloso, e la loro antica t radizione monacale. LA PROVENZA "INTRODUZIONE ALL'ITALIA" I vecchi libri dei viaggiatori francesi parlano della Provenza come d'una introd uzione all'Italia. Non si tratta soltanto di alcuni richiami evidenti, come i ri cordi della vita pubblica romana in tutte le citt della Provenza. Scendendo lungo il corso del Rodano, il cielo si apre, l'aria diventa pi vibrata e viva, si sent e il mare, qualcosa rende pi vivaci: siamo in Provenza. L'impressione di trovarsi in una delle provincie del Mediterraneo, quelle che vanno da Atene a Barcellona . L'abitato rustico prende l'individualit propria di questa sponda del Mediterran eo, appaiono il cipresso e l'olivo, la piana si anima di fattorie e di armenti c on un senso di presepe, i fiumi si fanno torrenti e si manifesta la lotta contro i venti e contro le acque. Ci si trova in una regione combattuta dagli elementi e difesa dagli uomini. Prima di scoprire l'archeologia delle citt provenzali si scoprir l'antichit della terra di Provenza. A chi scende dal Borbonese, dal Delfin ato, dalla Borgogna e dell'Alvernia, questo appare proprio un altro mondo. Lass i fiumi sono contenuti in una terra sicura e qua straripano; qui la natura capric ciosa, eccessiva, tenuta a bada dall'uomo che ad essa adatta la sua abitazione c ol patio e il suo campo difeso da cipressi in fila uniti come canne d'organo. Su ll'Altipiano Centrale la foresta ancora druidica, l'abitato rustico scarso, le b orgate e le citt pingui in una terra ben grassa dove la vite a ceppaia grossa e n occhiuta come da noi un arbusto. Lass la vita chiusa, riservata, di pochi figli, e le citt raccolte; qui in Provenza la gente vive sulla strada, parla animatament e, carica di parole. La massa della Francia fino al Rodano compatta come la configurazione del suolo, e per un occhio come quello dell'italiano, abituato naturalmente a distinguere le et della terra, nuova. La Provenza vecchia come la Grecia e l'Italia, vecchia, cio rifatta dagli elementi, dalla storia e dagli uomini. Da Rouen a Bourges la s toria locale chiara: all'epoca delle chiese gotiche e del castello feudale succe

dono secoli di vita accentrata che impoveriscono i focolai di civilt locale; non fiorirono Comuni n Signorie che resero tempestosa ma avventurata e profonda l'Ita lia. La Provenza si stacca da tutto il complesso francese, parla fino al Cinquec ento di Nazione Provenzale, poi fino a oggi di autonomia provenzale, ha una stor ia comunale per quanto il comunalismo non vi abbia recato che frutti amari e nie nte che regga al paragone di Siena, Firenze, Venezia. Ebbe la lotta civile ma no n la prosperit civile. Alla fine, proprio l'unit dar un carattere alle citt provenza li: il Cinquecento e il Settecento. Per la Provenza rappresent la borghesia del vecchio regime oppressa dal feudalismo celta e sempre in lotta con lo strapotere della Capitale e diffidente del poter e centrale. Unitaria ma federalista, i suoi uomini fanno una macchia d'olio nell a vita francese; il pi recente Charles Maurras. Poich lungo il corso del Rodano en trarono in Francia la cultura greco-romana e il Cristianesimo, poich la popolazio ne greco-romana e ligure, essa ha serbato quello che per Renan il senso dominant e del Cristianesimo, "la rivalsa delle parti inferiori dell'umanit sulle superior i, un eccesso di sensibilit". Perci essa prese l'iniziativa di tanti rivolgimenti francesi e si oppose poi ai loro eccessi, fosse la Convenzione o Napoleone. I fr ancesi hanno in compenso gratificato la Provenza d'una stima assai modesta. I pr ovenzali, e con pi accanimento i vecchi, parlano della loro terra come d'un mondo nella nazione. Detestano il pariginismo che pesa tanto sulla Francia intera. Ma non ho mai ascoltato un brontolare pi vivo di quello che nei giardini di Nmes fac eva un vecchio provenzale seduto davanti a un bicchiere d'assenzio. Egli lesse p acatamente a un gruppo d'amici che si trovavano l, tre suoi foglietti pieni di fr izzi in cui si prendeva gioco delle squisitezze parigine, dell'intellettualismo e dell'arrivismo, della moda e dei misteri della fama. Leggeva stando seduto, se nza declamare, senza asprezza e col ritmo di un epigramma. Quel luogo dei giardi ni di Nmes assai bello; costruito nel Settecento su terme romane, l'acqua corre a ncora in quelle piscine adattate a fontane, ed ancora quell'acqua della sorgente cui Nmes deve il suo nome e intorno a cui fu fondata la citt. Ora, colui che legg eva quei fogli mi pareva senza et come quell'acqua, i suoi pensieri forbiti e acu minati sembravano di qualche antico nel chiacchiericcio del Foro o del Pecile. I provenzali parlano volentieri, si radunano volentieri, hanno bisogno di animars i e di crearsi uno scopo alla loro animazione. Che siano le lotte di tori nelle vecchie arene romane ancora frequentate, le feste, le fiere, i balli popolari e i fuochi d'artificio. E allora si vedono le numerose famiglie provenzali, le don ne coi bimbi in braccio, gli uomini coi ragazzi sulle spalle. L'insegna della Pr ovenza la famosa cicala ciarliera. "Lou solu mi fai canta": il sole mi fa cantare . Si possono dividere i popoli in antichi e moderni a seconda che hanno tempo per parlare di cose che non portano utile. I provenzali sono irrimediabilmente antic hi. l'unico popolo che possa dare l'immagine di quello che fu il ciarliero popol o ateniese coronato di cicale; e anche della sua disgregazione. E tuttavia una r iserva per la Francia, quella che serba pi vivi certi caratteri di cavalleria, di amore dell'assoluto; sensuale pagana e cristiana; ha caratteri cos contrastanti da irritare quelli che non capendoli li trovano tortuosi e pieni di "combinazion i". Di questo anche noi italiani sappiamo qualche cosa. Ma della Provenza si pot rebbe dire che un'Italia andata a male, un'Italia mal sortita, un'Italia in cara tteri minuscoli e domestici, dove non riusc n il feudalesimo n il principato, n il C omune n la Signoria, n il Papa n la repubblica, n Roma n Atene; incapace di obbedire senza brontolare, dove tutti vogliono comandare, e dove l'individualismo spinge all'invidia, la personalit alla disgregazione del sentimento civico e nazionale. Gelosi delle tradizioni locali, i provenzali sono facili a imbastardire nel feti cismo delle mode straniere che ha poi per suo contrapposto il senso dell'avventu ra e del cercar mondo anche proprio di loro. Cos l'intelligenza provenzale, chius a tra le sue mura, arriva difficilmente all'universale, perch universalit tipicit, senso profondo della propria civilt e non in quanto cucina abitudini e usi, ma co me animo e ingegno. La Provenza al carattere e all'aspetto tutta nei suoi uomini : Mirabeau e Thiers, Zola e Vauvenargues, Daumier e Czanne. La foga e l'estrema s ecchezza. Per conto loro, i provenzali tutte le volte che hanno avuto da dire nell'arte e

nella vita francese l'hanno richiamata a certi termini latini, poich la Francia s i riconosce celta e nordica: Mistral ancora un trovatore, Czanne ripropone alla p ittura francese i grandi temi classici, e in definitiva rinascimentali: Parigi s ar Atene, ma la Provenza Roma; l'una sfonda nell'intellettualismo e nel metafisic o cui adatta male l'opposizione tra internazionale e nazione, quest'altra fantas tica e umana, ha il sentimento della patria locale nella patria grande. Perci la Provenza cronicamente inquieta. Perci la sua storia sconclusionata. Ma anche per questo un freno agli eccessi delle ideologie francesi. Sentirete parlare in Francia di alcune sommit famose, il Mont Saint Michel o il P uy de Dme, o del semplice colle di Montmartre. ancora un riflesso del mondo antic o riconoscere la patria in una sommit, nel profilo d'un monte, nel giro d'una cos ta. Questo il patriottismo, e i Greci quando vedevano quel lembo di terra brucia to del Paler tremavano nel cuore. Grecia e Italia hanno cento di questi profili p er riconoscerli di lontano, cui legare la nostalgia e la gioia del ritorno. E al trettanti ne ha la Provenza. La bellezza d'una terra qualcosa di spontaneo e sen za ragione, naturale e senza scopo, come sempre la bellezza. In questo non ci pu che la natura col suo modo di atteggiare i monti, i colli, di stendere i piani; e una natura sottile come quella del Mediterraneo lavorata dalle piogge dai vent i e dal mare, vecchia e ossificata come i secoli, giovane come le stagioni. Inso mma, il Falero e l'Olimpo, il Soratte o il Vesuvio, le Alpi Apuane o i Colli Eug anei, hanno il profilo d'un parente o d'un amico. Nessuno sa in che consista il loro fascino; forse i monti sono i profili e le facce della terra, su cui si fis sarono sempre gli occhi dell'uomo, e hanno l'eternit dei secoli. La Provenza ha q uesti volti e i caratteri della bellezza antica. Il magro profilo delle Basse Alpi ha lo stesso senso delle Alpi Liguri, solo che sono pi gracili e solitarie nella pianura; pi in qua, verso i Baux, diventano cav e di pietra; questa pietra serv sempre a costruire i paesi sui colli aspri e denu dati; sul colle tagliato con la liscia parete della cava, il paese fatto di piet ra come se vi fosse nato da solo, per simpatia della pietra, germinato da quella durezza. Il paese sul colle ha un'aria nostrana; bisogner girare molto in Franci a per ritrovare un aspetto simile; ce n', nella Francia centrale, qualcuno rifugi ato su un cocuzzolo, sulla strada che percorse Cesare, e sulla via di quell'inva sione ricorda anch'esso l'Italia. A Saint Remy, sulle Basse Alpi, un'edicola dedicata alla famiglia di Augusto e u n Arco, intatti quasi come sono spesso intatti i monumenti romani in Provenza, s egnano la strada romana, quella che si ritrover poi a passare sotto gli Archi di Nmes e di Grange; da qui, verso settentrione, la veduta della piana di Avignone c oi suoi cipressi stretti come nel fondo del quadro tizianesco della Venere del P rado, contro il vento che qui si chiama mistral e che arriva sulle coste settent rionali del Tirreno dove si chiamer Provenza. Dall'altro versante la Camarga, una regione che ricorda la Maremma e il Basso Po, confusa col mare, una specie di i nfinito della terra come sanno combinarne i fiumi impetuosi alle loro foci. I fi umi che hanno creato questo paesaggio, qua prospero e ordinato, in cui mescolato il senso della campagna toscana ma come distesa su un pi largo spazio, e in una natura simile a quella della campagna piemontese, l stepposo, paludoso, arido, so no la Duranza e il Rodano. Pi a occidente, nella Crau, il paese diviene pi arido e selvaggio, popolato di pastori, di montoni e di tori. E a un certo punto leva i l suo viso colore di terra, colore di scavo romano, grigio su grigio, Arles. Si ritrova spesso il ritmo di certe visioni romane come di ricordi che sorprendono a distanza, sotto altri cicli, allontanandosi come echi sempre pi fievoli. Cos l'A lyscamps di Arles ricorda la via Appia, la Casa Quadrata di Nmes, il Tempio della Fortuna Virile a Roma; ma il gran teatro di Grange, "il pi bel muro del mio regn o" come lo chiam Re Sole, non altrove, e non altrove l'Acquedotto romano sul Gard . Un fatto colpisce parlando coi provenzali, ed che essi discorrono delle loro ves tigia romane senza nessun riferimento a Roma; quando confrontano i monumenti rom ani di Provenza, ricordano soltanto la Provenza; come a Arles, come a Nmes, come a Grange, come qui, come l, e mai come a Roma. Roma presente ma molto lontana, lo ntana quanto la vecchia strada che dal Foro partiva, di qua passava per prendere il nome della provincia seguente; cos la porta di Nmes si chiama Porta di Spagna.

Nei discorsi dei provenzali, Roma distante venti secoli, le genti lontane la ri cordano col mondo nel pugno, ma libere e autonome; questo un ricordo vivo del mo ndo romano quale appariva e come pensava. E anche l'arte romana qui, senza mutar e struttura, prendeva il colore dei luoghi, come era solita del resto in tutto i l mondo. Voglio dire che una certa eleganza in qualche modo speciosa e fragile d ell'architettura francese gi nell'architettura romana in terra di Provenza. Non s oltanto le figure che ornano gli archi di trionfo sono di Galli coi baffi appesi sotto il naso e i pantaloni, non soltanto i nomi iscritti tra le panoplie sono gallici con una terminazione in us e in osus, ma qualche elemento che si potrebb e dire neoclassico in confronto al classicismo gi qui come sar poi in tutti i rito rni neoclassici francesi, tra la Maddalena e il Palazzo Borbone e le ville versa gliesi. Il segno pi antico della Provenza si trova in Camarga. Risalendo da Arles verso l e Basse Alpi, poche pietre nella maremma, disposte in modo animato sembrano un f ocolare abbandonato, resti d'un lastrico che forma quasi un'impronta di passi su l deserto. Sono i ricordi d'un'abitazione preistorica, e nella pianura vasta fin o al mare sembra che di qui qualcuno abbia spiccato il volo lasciando la sua orm a. E il ricordo pi vivo nell'Arco di Augusto a Nmes. Una parte di quest'arco non f inita. Quando Augusto vi pass, gli operai non avevano fatto in tempo a terminarlo ; poi non lo terminarono mai pi. ESTATE IN ITALIA Giugno il mese che si vedono molti bambini, poich il tempo buono, li portano fuor i. Ieri era ancora troppo fresco, fra poco far caldo, ma ora l'aria della stessa temperatura del corpo umano. un tempo raro nell'anno. Come in un ambiente favore vole, il corpo umano fiorisce. Niente l'offende come non offende i fiori. Ma i f iori sono troppo grevi diggi, sono troppo grandi e maturi. Ma i visi umani hanno il colore di quando si specchiano in una bell'acqua. Bisogna pensare che pure i fiumi pi torbidi diventano verdi, perfino il Tevere. E gli occhi delle creature d iventano chiari, perfino i nostri, amici miei. un tempo di mezzo. passata l'inquietudine della primavera, e non siamo al distac co dell'estate. Se sentite gli innamorati lungo le spallette dei fiumi, lungo i recinti delle ville, parlano di cose semplici: il piacere di dire cose umane, e di ridire quello che si vede. Tutti sembrano ricordare d'improvviso qualche cosa di urgente, e non altro che l'aspetto di un viso, una frase appena udita, quell o che ha detto uno che non si conosce, un gesto, una memoria lontana, un ricordo di quando non ci si conosceva tra amanti. Non siamo ancora al tempo che le donn e piangono e gli uomini diventano bruschi con l'inquietudine della vastit estiva; ed era il mese scorso quell'altro tempo in cui venivano alle labbra domande com e queste: "Mi vuoi bene? Mi ami? Sempre?". Siamo in un mese tranquillo in cui si sta bene insieme. Ma stavo parlando dei bambini. Ci si ferma per istrada, fra noi, e si domanda qu anto tempo hanno i bambini; in nessun'altra stagione dell'anno si fanno queste c ose. Siccome l'aria buona, libera e chiara, sembra naturale accostare le altre p ersone nella luce nitida; e perci non c' niente di male a guardare un bambino port ato in braccio dalla madre, e guardare la madre pensando che bella, come si pens a che il cielo trasparente e come si guardano i fiori. C' una bellezza per tutti e fiori per tutti. Anche per le rose c' una bellezza buona e familiare, una belle zza non pi vana come solitamente della rosa, ma una grazia semplice e devota essa pu stare nel bicchiere della casa quieta o in chiesa, senza suscitare pensieri p rofani n significati nascosti. un mese sano, rigoglioso, naturale. E perci si guar dano i bambini che hanno le mani semichiuse. Dal vello che copre la loro testina , si capisce senza neppure esser troppo pratici quanto tempo hanno. Cos si capisc e che i frutti (i pomi, le mandorle) sono ancora immaturi sotto la calugine e la peluria che li copre. lo stesso per i bambini. Hanno tanti capelli sulla testa che fanno meravigliare, perch ricordano appunto queste cose, e anche il vello sfr angiato delle bestie piccole e il piumaggio degli uccelli da nido, insomma una b estialit di tutta la natura, ma semplice bestialit, e per questo ridiamo. Quando i bambini sono cos, non hanno pi di tre o quattro mesi; pi tardi avranno i c apelli vivi dei ragazzi, i floridi e vegetali capelli dell'infanzia, che crescon o ritti come il fieno dopo la falciatura. Ma diciamo un po' come li portano le l

oro madri, su una mano quando sono fasciati, come se fossero appiccicati al ramo e come si vede nelle statue della Madonna. O stretti con un braccio sul seno, e i marmocchi stanno a guardare coi loro occhi incerti, curvi sul braccio come su un balcone. Essi sentono certo la madre, grande. Vedono la strada, vedono le pe rsone, vedono gli altri bambini. E vedono i ragazzi grandi che si cominciano a o rientare nel mondo, niente altro che per prendere l'offensiva. Se nessuno fa lor o attenzione, vi buttano in faccia una manata di polvere, e questo il primo sveg liarsi dell'uomo giovane e nuovo. O sono occupati a distruggere qualche cosa, e lo sanno soltanto loro, forse un angolo minuscolo e ordinato della natura, una t ana di formiche o un cespuglio. Il primo istinto offensivo e aggressivo. Ma i piccoli appartengono ancora alla madre, le sono legati, con un'aria di appr endisti. E la madre appartiene a loro. Se si pensa che ancora due anni fa ella v olava come le sue compagne, piangeva, rideva, si stringeva sotto la grondaia al suo uomo nella pioggia di primavera, col ventre pieno di amore. E ora nuove schi ere di altre donne camminano sotto gli alberi, stanno curve sulle spallette del fiume abbracciate al loro uomo, guardano l'acqua che corre, il cielo grande, pen sano alla giovent infinita e alle sempre stesse parole, hanno gli stessi sguardi come se niente al mondo avesse importanza che quello sguardo fisso. Quelle di ie ri passano col piccino appena impastato, calme e paghe. Fanno pensare al latte s correvole, all'umore delle piante, e son tutte del colore del loro seno; hanno i l viso veramente nudo, ma accanto a loro non si pu pensare a male, si pensa alla vita Non si possono dire belle. Chi pensa alla bellezza? Si rasentano come si ra senta il forno del nostro pane, il campo del nostro grano, la vigna con le fogli e spante sul grappolo che matura. Si sta tranquilli come in seno alla natura qua ndo tutto opera per suo conto e non c' niente di male. Questo, nessuno lo pu capir e altro che noi, gente dei paesi della luce. Soltanto noi sappiamo parlare a una donna col suo bambino, che bella perch ha un bambino e per questo anche in pace. Se apriamo con un dito la mano al piccino, ella si fida di noi senza timore che gli si faccia male. Ci si sente animali, quando gli animali sono buoni, e non s iamo altro che istinto. Quando vengono di queste grandi indulgenze plenarie fra di noi, al nostro paese, noi soli possiamo sentirle come si sente l'aria di casa nostra e le voci famili ari. Che significa questa grande uscita dei ragazzi? E portarli fuori in questo modo, che perfino gli uomini se li caricano in braccio? Partono famiglie intere e vagano nell'aria saporita. Si pensa che sia festa, e invece la festa tutta nel la luce. Nessuno di noi pu godere nulla senza pensare a casa sua. Si portano i ra gazzi perfino nel chiasso dell'osteria; nessuno immagina dove si portano; un mod o nostro di godere il mondo. Ricordo una giovane madre di campagna che fu invita ta a un gran pranzo, e siccome la roba era buona si mise quasi a piangere e non voleva mangiare perch non poteva far saggiare la roba al suo bambino. tutta una q uestione di clima. Abituati alla bellezza del mondo, non si capisce poterla gode re da soli. un modo italiano quello che dice "Chi mangia solo si strozza". E una volta, andando su una nave a Sorrento, feci conoscenza con un piccolo uomo vest ito di nero che guardava il mare sospirando. Il mare era bello; le barche carich e di gente felice navigavano leggere, e sotto di loro si scorgeva l'acqua profon damente limpida; voci arrivavano e canti, e le donne sdraiate a prua facevano pe nsare soltanto alla felicit. Il piccolo uomo vestito di nero guardava assorto. Mi disse che non era stato mai a Sorrento, ed era napoletano. No, non era mai stat o a Sorrento. Perch aveva i bambini, e non poteva andare in un luogo bello da ved ere senza i suoi bambini. Aveva quarantenni e non era mai stato a Sorrento. Ora ci andava perch era obbligato. Guardava malvolentieri. Gli pareva troppo bello pe r un uomo solo che non poteva offrire queste cose a nessun altro, quasi non vole va vedere. Questo un segreto della nostra vita, e soltanto noi lo possiamo capir e. Luglio il mese che separa le persone. Ci se ne accorge in citt dove gi alla fine d i giugno gl'innamorati hanno cominciato a disputarsi e a leticare; nei viali sol itari e nelle ville non si sente altro. "Ma tu m'avevi detto..."; "Ma ti giuro c he non l'ho pi veduto..." Superato questo mese, tutto si accomoda; si pensa che v err l'autunno che riavvicina, l'inverno che chiude. Questo un mese senz'ombra, un mese realistico, un mese non romantico, un mese sano. Non giova neppure all'arc

hitettura: i pi bei monumenti, le pi belle facciate, palazzi e cattedrali, sotto q uesta luce impiccioliscono si scopre quanto sia grande la loro vecchiaia calcina ta dai secoli. Soltanto verso sera, quando il sole sull'orizzonte e fa una luce radente sulla terra, l'ombra torna a modellare le facciate e le cattedrali, ripo pola le chiome degli alberi di quel mistero che fa rimpiangere la terra e la gio ia della luce come se si fossero perdute. l'ora in cui si pensa all'eternit dei g iorni. Si distingue foglia per foglia sugli alberi; si scorgono gli oggetti pi lo ntani; sulle colonne istoriate e sui monumenti si legge fino all'ultimo bassoril ievo nel pi alto rocchio e nella pi alta cuspide: si pensa all'infinito lavoro del la natura e degli uomini, a quelli che furono e a quelli che saranno, a tante ma ni quante foglie passano sul mondo. Non soltanto albero per albero e foglia per foglia sono netti nella luce, ma anc he gli uomini. Forse questo il mese in cui si prendono le fotografie per le cart oline illustrate delle citt; forse proprio questa la stagione in cui, da Stoccolm a a Palermo, le citt mostrano ugualmente le loro strade profonde fiancheggiate di chiara ombra, e i passanti vestiti di chiaro; la stagione ferma e lontana come una memoria di breve viaggio, delle cartoline illustrate. Ma non soltanto di questa solitudine nella luce io voglio parlare. Si sa che la luce isola l'uomo, che dove la luce pi grande l'uomo pi solitario e pi suo, pi disti nti gli alberi e l'architettura pi ordinata, pi chiari e dritti anche i pensieri, pi realistica e umana l'arte. Voglio dire della solitudine che nella natura, negl i uomini intenti al lavoro dei campi: la solitudine dell'opera compiuta. Esiste una separazione nella luce e nella natura, una saziet di tutta la terra. Dalla pr imavera brulicante di piante e di creature, dalle citt di maggio e di giugno dove la sera pare che a torme gli uomini vadano con passo lieve incontro alla gioia, tra il rombo esaltato delle macchine e le voci dritte come voli nell'aria legge ra, gli alberi dell'estate si levano reali e carichi di frutti sui campi mietuti , e l'uomo conta il suo raccolto come riepiloga i suoi pensieri. una breve sosta, perch proprio di questo mese si formano i nuovi branchi dei pesc i e degli uccelli, di tutti gli animali del creato, e tra poco si sentir lo squit tio delle volpi, il rosicchiare, come di chi fora la carta con uno spillo, del r iccio nei boschi, e il canto nuovo degli uccelli che hanno abbandonato il nido. Nei mari le nuove famiglie dei pesci si accostano all'acqua tepida delle rive; s ono come essa trasparenti; al pi lieve tonfo scattano fuggendo a raggiera. Un nuo vo ciclo della creazione anima l'universo, mentre i frutti sono appesi agli albe ri. C' qualcosa di occulto che passa fra terra e cielo, poich mai il cielo , come ora, buono alla terra. Verso mezzogiorno si pu sorprendere un aspetto di questo mister o. Le piante si tendono verso l'alto, con tutte le loro foglie, con tutto il lor o essere, come gli animali docili in uno slancio di amore verso il padrone: stan no immobili, assorte, come se bevessero o fossero bevute dal sole. Dal profondo dei boschi, sui piani e sui mari, un vento fresco corre a scuotere quella immobi lit, fa suonare e imbaldanzire le foglie, gonfiare le vele. Le vele sembrano ingi nocchiate, le piante e i fiori stregati dal sole come le donne e gli uomini sull e spiagge. la grande ora. Qualcuno, uomo o animale, in qualche recesso profondo o in qualche solitudine aperta, crede di sentir passare furtivamente e senza las ciar traccia n impronta, col brivido del meriggio, un moto che invita a inseguirl o, una visione aspettata da tempo o una preda. Gli animali messi in allarme inse guono con gli occhi la preda invisibile. Alla stessa ora, quel sommoversi del ve nto percorre le vie della citt, agita le tende e fa ondeggiare le vesti, irrompe nelle botteghe piene d'ombra odorosa di merci come del ricordo di un mondo che f u natura, ed simile al rombo del mare che si riode nelle conchiglie vuote. Tutto il creato si ricorda della natura e anche i colori artificiali delle vesti sple ndono ricordando i mari, i papaveri, i fiori dei prati. Se non si conosce all'alba il passare a frotte delle persone che vanno a spigola re, di quelle che vanno lungo i lidi a raccogliere i frutti di mare, dei mietito ri che partono lontano, non si sa come, di questo mese, la terra sia divenuta gr ande e avventurosa. In altri tempi, di questa stagione emigravano i popoli, fugg endo i cattivi raccolti e andando incontro a terre pi propizie. Questo un mese ch e rende vasti gli orizzonti, grandi le strade: un mese che pi volte ha aperto le

strade delle guerre. Ed pure questo il tempo per coricarsi sulla terra: ricco o povero, potente o deb ole, questo il tempo per l'uomo di riprendere contatto con le forze della terra, tornarla ad amare come l'amano i ragazzi, dormirci sopra, risentire il suo anti co odore, avvertire come sale in noi la sua forza tranquilla in cui giacciono i minerali e le acque, i semi e le radici, e il millenario lavoro umano. L'ARCIPELAGO FAVOLOSO A Milazzo, aspettando il treno per Palermo, avevo in mente tutt'altre cose che d i andare a fare esplorazioni. Conobbi in un albergo due abitanti delle isole Eol ie e si cominci a discorrere. Poi, dopo cena, andammo lungo la spiaggia di ponent e, lastricata di cacti, a guardare il deserto mare schiumoso sotto il maestrale e le isole in fondo ferme e nette sulle onde incerte. Uno di quei compagni, poi, m'incurios quando, traversando gli orti di Milazzo, si ferm a ogni striscia di te rra riconoscendo le piante pi familiari e gridandone il nome con entusiasmo. E pe r tutta la sera smani di comprar lumi, frutta, fiammiferi, cocci, francobolli, co me in procinto di chiudersi in una terra deserta. Mi decisi a chiedergli l'itine rario d'un viaggio nelle Eolie, facendogli intendere che mai sarei passato da lu i, e per nulla al mondo avrei sottratto alla sua casa la luce d'una di quelle ca ndele comprate con tanta previdenza a Milazzo. Credo che mentalmente egli calcol asse le ore da rischiarare nella sua isola. La mattina dopo - pioveva - m'imbarcai con la stessa inquietudine di chi vada al le isole Fortunate. C'erano a poppa due corone di rose e non si pot appurare qual e signore fosse morto nelle isole. Un omino magro e nervoso, di Stromboli, quand o il bastimento si mosse, giur che a rimanere un giorno di pi a Milazzo sarebbe mo rto di noia. Il bastimento scricchiolava a ogni giro d'elica, una pioggia fitta e sottile irrorava le corone di fiori a poppa. Poi improvvisamente, sorpassato i l promontorio, il cielo si apr e il mare apparve nero come il catrame e corruccia to. Come spuntato dal mare, l'arcipelago si par nel fondo, con le sue sette montagne senza riva, a picco sul mare che ad ogni spostamento del naviglio parevano alter narsi e cambiare luogo. Primo, a sinistra, si scopr il cratere di Vulcano. A dest ra si scoprivano alternamente le altre isole: Panaria come una balena boccheggia nte, due scogli bianchi e aguzzi fra l'impetuosa corrente del canale, Stromboli con la sua bandiera di fumo che segnava la direzione del vento: scirocco. Nel me zzo Lipari, con le sue case orientali, di pomice bianca sormontata da una montag na bianca bucata regolarmente come un immenso bugno. Le isole, a picco, corrose e sezionate dal mare avevano contorni netti che parevano incrinare il cielo, ora denso e lucente come un cristallo. Il cielo, nell'incrinatura, era una striscia tremante e fulgida. Tra le quattro isole che si vedevano correva quasi un'armon ia di costellazioni; e delle costellazioni avevano la fermezza e la vecchiaia e stupefacenti per questo: ch in esse la vita della terra e degli elementi era domi nante, autonoma, al di sopra di ogni traccia della vita degli uomini i quali ad ogni picco sul mare hanno messo immagini sacre in tabernacoli. Sembra che quella terra viva d'una vita cieca e istintiva. Non che la terra poss a andare in perdizione, piantata com' sugli abissi; ma che cambi positura, che un nuovo strato si sovrapponga agli altri che si distinguono come coluri di vario colore, distese una sull'altra, tra cui nulla della vita degli uomini che furono si ritrova. Terra sempre nuova e da creare, con le case fatte di pomice chiuse da tetti piatti, come vasi ben costruiti: su di essi battono i costruttori fino a che si ode tuonare la casa armonicamente come un gigantesco vaso di coccio per cosso da nocche mostruose. Gli abitanti delle isole mettono ogni calcolo orrido nell'ordine naturale delle cose, considerando tuttavia se stessi, presenti, in u na contingenza fuori della legge dei secoli. La terra in fermento un nemico per i futuri e non per i presenti. La temono come un padrone che concentra in s tutti i poteri. In una rada di Lipari, dalla montagna bianca di pomice si affacciano gli uomini da tutte le finestre scavate nella montagna. Le aperture fatte nel minerale sono stranamente incorniciate da strati diversi, fra cui ve n' uno ch' la schiuma della pomice, lucente, lieve. Ai piedi della montagna un gruppo di abitazioni av volto in una polvere densa. Fra la polvere si vedono figure apparire e scomparir

e a capo basso. Bianchi i letti, i davanzali, bianche di polvere le modanature d elle finestre e delle porte. Le macine di pietra tritano la pomice che si leva a nuvoli, penetra dovunque, risecchisce le rare piante intorno, impregna gli uomi ni, si spinge sul mare bluastro come il verderame. Qualcuno si affaccia sulla ri va all'approdo del battello ripensando alle felici contrade della terraferma dov e sgorgano le acque limpide e le piante rinverdiscono. Il padrone di Vulcano risiede a Lipari. sua la parte infernale dell'isola, quell a che spande sul mare un fetore di idrogeno solforato, circondata da soffi di va pori di zolfo e di anidride carbonica per tutta l'insenatura d'approdo, come da fiori alti e maligni. La foresta dei vapori domina l'isola, e la popola d'un fruscio perpetuo. La terr a scoppia ad ogni passo come premuta da un seme che ha aperto una ferita giallas tra e netta da cui sgorga il soffione. C' una parte dell'isola, che terra nera, s otto la montagna coperta di lava: i contadini delle isole vicine se la sono spar tita e vanno in barca a guardarsela; fa un vino malinconico ed ha l'unica fonte d'acqua dolce di tutto l'arcipelago. Poi il terreno sprofonda, sterile, fra pian te gracili nella palude salmastra, e risale tingendosi di rosso in un cono perfe tto. Il padrone, per conto suo, trae da tutto quel purgatorio, con metodi primor diali, un po' di zolfo. Gli uomini che compiono quella fatica ne tornano laceri e scalzi, addentati dalle mille bocche della foresta dei vapori. Il padrone perc orre sulla sua asina nera, galoppante per la china brulla, la sua terra che non ha scoperto tutti i suoi segreti. Una voce diffusa nelle isole dice che essa ha tracce d'oro. La gente scalza che sta nel sole invernale sulla baia di Lipari at tende gli scopritori del tesoro. Ricordo uno dei barcaioli, che mi port a Vulcano , saltellare per la spiaggia, prender manate di sassi e gittarli da ogni parte g ridando: "Questa moneta!". Somigliava a un Bacco tozzo e peloso sino al naso; un Bacco che era stato emigrante in America. Arrivammo all'alba con una barchetta da naufraghi, rasentando gli scogli percoss i dal mare e fermati in quella positura che quasi una volont di movimento, comune alle opere d'arte incompiute e alle terre vulcaniche. Ovunque la forza delle pr oiezioni vulcaniche sembra di ieri, e ogni sasso sulla spiaggia fa parte di quel l'ordine violento. I due uomini che mi accompagnano, quel tal Bacco peloso, e un Ciclope rachitico che schizza sangue da tutti i pori, dicono davanti a quegli scogli e al mare: "O ggi mansueto; ma glielo dico io che alle volte fa piangere". Il Ciclope allora m ugola come un cane che sogna. Davanti agli scogli precipitati in mare - e sembra d'udirne il perpetuo fracasso - si possono ricordare i Ciclopi, e Polifemo accecato e furente. Gli alberelli macerati dal vento, che sostengono il cielo come una tenda, hanno quel rapporto stupefacente dell'arte antica, piccolo in confronto al suo respiro e al suo sign ificato fantastico. Il signore dell'isola, a cavallo dell'asino nero e nano, vestito di nero, per la china cinerea arriva al trotto. Le sue gambe lunghe, chiuse in certe uose grigi e ed alte si trascinano in terra. Scende e mi mostra la sua vecchia residenza, l a villa che ha dovuto abbandonare. La casa ha le finestre aperte ed disabitata. I balconi di ferro battuto sono crollanti. Allungo la mano verso il cancello. Le sbarre di ferro sono friabili e si frantumano fra le mie mani. Mi accorgo allor a che le grate del pianterreno, le ringhiere, le mensole dei balconi cadono a pe zzi. Come una bestia che appaia di sorpresa, attraverso una stanza terrena soffi a su di me il fiato pestilenziale di una bocca di zolfo. Ecco, da lontano, il Bacco barcaiolo mi chiama. Tre donne sulla scala esterna d' una casupola, al riparo da quel mondo in fermento, le sole abitatrici del versan te orientale, mi porgono un boccale di vino. Viene avanti la pi giovane, uscita d a un racconto cavalleresco, e io vedo per un attimo il suo viso riflesso nel liq uido odoroso e cocente. Mi sembra di bere le sue fattezze di maga decaduta. LE STRADE, IL TEMPO Anche da noi il Governo ha fatto belle e comode strade, tanto che dapprincipio n on si cap bene se non fosse un lusso straordinario. Io vidi la strada dei miei lu oghi tre anni fa, al principio della sua vita: era gialla e appena fatta, i magr i alberelli di acacia piantati sull'argine ancora sollevato come un solco; poi m

e la ricordo di primavera: le erbe e i fiori l'avevano invasa, la confondevano c on la campagna, e solo nel mezzo le peste dei viandanti avevano tracciato un vio ttolo, n pi n meno che se non l'avessero fatta, la strada rotabile. Vi passai in au to, i fiori alti si piegavano sotto la macchina con un soave fruscio, i fiori ch e da noi coprono i luoghi abbandonati. Era bello, pareva di volare su quella sof fice nube gialla e rosata. Incontrai i viandanti in fila, i cavalli e i muli in fila sulla viottola, e dall'alto di quel terrapieno della strada scorgevo i sent ieri secolari disegnati da tante orme, un'impronta incancellabile, davanti a cui si fermavano in argini pi folti che mai le piante, ma senza occupare il sentiero . Ci vogliono molti anni per cancellare un sentiero su cui sono passati uomini e uomini per trecento anni. E ancora qualche viandante per l'immensit della valle, andava come ero andato io tante volte, e della strada non sapeva nulla. Io arri vai a casa proprio in un baleno, a bordo della macchina: la strada che avevo fat to a dorso di mulo le mille volte, il percorso di venti chilometri su cui ogni c osa si presentava gradatamente, si annunziava di lontano, girava, si fermava, to rnava a girare, spariva, ora era una successione rapida e irreale, io e le cose eravamo presi dalla fretta, come alla fine d'un'amicizia e d'un amore. Poi cominciarono i carri, le automobili, e alla fine il dado azzurro dell'autobu s anim di s il paesaggio; era una meraviglia quella cosa semovente, come alle orig ini della sua invenzione. Cos la strada cominci la sua vita, e chi la percorre ora pu avere l'impressione di andar anche troppo piano con la macchina; aspetti di e ssa sono un lampo. Ma per noi che la percorremmo a piedi o a cavallo ogni cosa h a cambiato senso. Fu qui che io ebbi l'impressione del tempo e dello spazio, la prima volta. Erano venti chilometri di sentieri e facevano tutto un mondo, avevano diversi aspetti da miglio a miglio, sembrava di non arrivar mai, e mettendomi in viaggio mi acc adeva spesso di pensare come meraviglioso trovarsi in un luogo e dopo tre ore in un altro. Il tempo diventava davvero un fatto misterioso, e cos il mio spostarmi , e la facolt di trovarmi di qua e di l. Non riuscivo con la fantasia a occupare q uello spazio del viaggio, e neppure a concepirlo se non come una visione. Era un lungo viaggio, da chilometro a chilometro tutto diventava lontano, si entrava d a luogo a luogo nei misteri d'una comunit umana, una mandra, un casolare, carbona i, ortolani: si annunziavano di lontano col loro rumore e odore e colore, nell'a ria erano segnati quasi i confini, e ogni cosa stava nel suo alone di luce diver sa. Potrei percorrere, sul filo di questo ricordo, quasi il cammino della civilt, ieri formata di cose distanti, discontinua, animata di favole, e oggi simultane a, in cui lo spazio e il tempo hanno altro senso cui non ci siamo ancora adattat i del tutto. Oggi io posso percorrere quella mia strada in venti minuti. La pres enza degli uomini lungo quel cammino di tre ore mi dava lo stupore della vita, i l sentimento dell'universo, pensavo alle vite umane pi lontane, ai quattro canti della terra, al coro immenso di sospiri, rumori, opere, canti, sperduto sotto il cielo e insieme disforme e unisono, tanto che nelle mie fantasie puerili sognav o talvolta che tutti gli uomini a un segnale dato si mettessero a gridare o a ca ntare, e se si sarebbe udito questo immenso coro fino agli astri. Ora, invece, l a macchina che corre rompe la solitudine umana, la stessa velocit un filo che leg a tutto il creato, mille gesti sono sorpresi in un attimo, milioni di parole, e quelli che erano i misteri della vita lontana e separata diventano il gesto unic o d'un solo grande sforzo vitale. Ancora oggi non riesco a concepire bene questo fatto nuovo. Case, armenti, orti, creature, sono parvenze di viaggio, necessit e vita, sono nello sforzo umano dei segni dell'ordine e della gerarchia. Ecco come finisce il mondo classico, il mo ndo antico, il mondo della natura. Chi corre vorrebbe fermarsi un attimo solo fr a quelle mura, sotto quelle piante, a udire quel bambino, a guardare quella donn a, ma un sogno impossibile, e rimane soltanto come nostalgia; chi, fermo, guarda correre, vorrebbe anch'egli fuggire; il trionfo dell'uomo; l'uomo sulla sua mac china elementare ha conquistato se stesso e il suo potere sulla creazione. Tutto questo grande, forte, umano. Gi sui miei monti gli uomini non credono pi alle fav ole, gi prendono confidenza con le macchine e senza stupore; ed mirabile questa f acolt umana di adattarsi: ogni fatto primitivo lungi da uomini che hanno vissuto una vita primitiva, quasi che ieri avessimo tutti fatto un sogno e oggi ci trovi

amo adulti, svegli. In pochi mesi, per venti chilometri di strada, crollato un s ecolo. Il sentimento della distanza stringe gli uomini in comunit chiuse, crea nelle pat rie le piccole patrie. Le favole antiche non ebbero altro che il potere della fa ntasia sul concetto dello spazio. Che cos'erano gli antri, i boschi, i mondi sot terranei, se non i luoghi intravisti nei faticosi cammini a piedi o sul dorso de gli animali? Il mezzo di cui gli uomini si servivano, di cui mi sono servito anc h'io per met della mia vita, ingigantiva il paesaggio, dava una conoscenza pi stre tta e insieme pi misteriosa con le cose; dove erano accaduti incidenti di viaggio , dove era caduto un fulmine, dove una mandra era stata sorpresa dalla bufera, d ove una creatura era stata travolta dai torrenti, dove il torrente aveva invaso il campo, era pieno quel breve spazio di straordinarie avventure. Per la necessi t di proporsi un fine, per misurare il tempo, s'erano scelti sul cammino alcuni p unti di riferimento: una casa solitaria, un albero, uno sbancamento del terreno. Gli stessi animali che ci portavano aumentavano il mistero con le loro improvvi se paure, le loro ripugnanze a proseguire, le loro attrazioni verso certe strade e verso certi luoghi, gl'improvvisi galoppi e le impennate. Allora la strada s' animava di remote presenze, di orrori, di timori, di liete liberazioni. Ora gli alberi si piegano al passaggio dell'auto, e si fa appena in tempo a vederli gira re: tutta la natura s' appartata, e l'occhio di chi passa giudica soltanto se pro spera o no; se, in definitiva, utile. Sembra impossibile che qualcuno vada ancor a a piedi o sull'asino; ce n' ancora qualcuno; tutto un altro mondo, e vi sar semp re in qualche luogo della terra. Lo si guarda come ai piedi della scala umana, c ome l'infanzia della terra. Mi ricordo che a un certo punto di questa strada il cavallo mi aveva preso le re dini, e andava all'impazzata minacciando di sbattermi contro gli alberi bassi; m i ricordo, quando dovevo traversare il torrente, con quella voce, con quel tumul to intorno, il cavallo era stordito da quel chiasso, da quel movimento dell'acqu a, levava le froge al cielo, che era immobile e fermo, e lentamente, scegliendo la strada con un istinto sicuro, tastava il fondo dell'acqua con lo zoccolo. Nel le pozze intorno, i girini formavano, sulla sabbia del fondo chiaro, come le mac chie d'un manto d'ermellino, e si misurava la profondit dell'acqua da quel fischi are, sibilare, risucchiare, sovrastato dal suo lontano rombo nelle gole dei mont i. Talvolta, pei torrenti, le donne andavano a raccogliere legna portata dall'al ta montagna sulla corrente, e talvolta era tanto impetuosa l'acqua che le buone donne m'invitavano a scendere sulla riva, e mi portavano sulle spalle. Io vedevo le loro gambe nude col polpaccio duro tuffarsi nella corrente, il piede diventa re cereo, e sentivo nella schiena della portatrice lo stesso sforzo e la stessa incertezza della groppa del cavallo, e la stessa impressione di sicurezza d'aver trovato il fondo. E il cavallo, annusando l'aria, passava accanto a noi in una raggiera di spruzzi. Un simile viaggio portava queste ed altre avventure. Usciti al piano, il galoppo delle cavalcature incontro al sole era una festa; gl'incon tri degli animali fra di loro pieni di nitriti e di richiami, come erano gl'inco ntri degli uomini. Tutto diventava faticoso, prezioso, perfino le pietre portate sulla groppa degli asini, e a ogni passo si misurava la misera condizione umana , assediata dal tempo e dallo spazio. Per questo gli uomini erano amici fra di l oro. L'odore del fiume, l'odore degli orti, l'odore delle mandre, l'odore dei fo rni, degli agrumeti, l'odore dell'abitato come di una stanza che ha aperto le su e finestre al mattino e la nebbia del sonno non s' ancora diradata, questa era la terra, questo era tutto in poco spazio; e poi l'improvviso odore del mare, e il variare degli alberi, pioppi, ulivi, salici, sotto la stessa corrente che facev a inclinare le onde e le piante dalla stessa parte e con un solo colore. E che c osa sono ora queste cose? Parvenze labili d'un viaggio rapido, brevi nostalgie c he si cacciano l'una con l'altra, illusioni di pace e di felicit dove ci si vorre bbe fermare. Ieri erano la fatica di vivere e di camminare, un tempo lungo e pie no di meandri, e ogni cosa segnava la sua ora al sole. Allo stesso modo della vi ta nostra, infanzia e virilit: quella piena di giorni lunghi, questa che guarda l 'orologio e dice di soprassalto: "Com' tardi!".

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