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CAPITALISMO COGNITIVO, CRISI E LOTTA DI CLASSE

IL PARADIGMA POSTOPERAISTA

La crisi globale dell’economia capitalistica esplosa nel 2008 ha riaperto un


dibattito – quello sul concetto di lavoro produttivo – che sembrava chiuso da
trent’anni: da quando, cioè, il processo di terziarizzazione del lavoro associato
alla transizione dal fordismo al postfordimo ha sancito l’inutilità (nonché la
sostanziale impossibilità) di tenere in piedi la contrapposizione “merceologica”
fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Parlando di contrapposizione
merceologica ci si riferisce qui, da un alto, alla distinzione fra produzione
materiale e immateriale, dall’altro, a quella fra sfera produttiva di merci e
servizi e sfere della distribuzione commerciale e della circolazione dei capitali.
Lo stesso Marx - pur ribadendo a più riprese il concetto secondo cui - dal punto
di vista capitalistico - appare produttiva qualsiasi attività generi plusvalore, a
prescindere dal settore in cui viene espletata - è parso talvolta legittimare, in
sintonia con il pensiero degli economisti “classici”, una contrapposizione fra
economia reale (D-M-D’) ed economia finanziaria (D-D’, cioè produzione di
denaro a mezzo di denaro) , con un implicito riconoscimento della superiorità
“morale” della prima nei confronti della seconda. Come argomentavo in un
lavoro del 19801, questa gerarchia morale rinvia ad un’altra contrapposizione
concettuale che svolge un ruolo centrale nell’impianto teorico marxiano: quella
fra valore d’uso, assunto a fondamento “antropologico” della produzione intesa
come “ricambio organico fra uomo e natura”, e valore di scambio, agente della
“perversione” mercantile che dirotta la finalità della produzione dal
soddisfacimento di bisogni all’accumulazione di denaro. Nel saggio appena
citato, suggerivo che, in una fase caratterizzata da processi di
intellettualizzazione/terziarizzazione del lavoro, dalla migrazione degli
investimenti verso settori tecnologicamente avanzati (con particolare
riferimento alle nuove tecnologie della comunicazione) e dalla colonizzazione
della sfera riproduttiva da parte del mercato capitalistico, non ha senso
contrapporre la “bontà” della sfera produttiva materiale (più prossima al valore
d’uso) alla “cattiveria” di un capitalismo immateriale esclusivamente proteso
alla realizzazione di profitto, in quanto le due dimensioni appaiono
irreversibilmente compenetrate l’una nell’altra.

La natura eminentemente finanziaria dell’attuale crisi globale, tuttavia,


sembra avere riportato indietro la lancetta della storia, riproponendo la duplice
equazione: 1) lavoro produttivo = lavoro materiale = economia reale = etica,
2) lavoro improduttivo = lavoro immateriale = economia virtuale/finanziaria =
parassitismo (sovraprofitti, rendite monopolistiche, ecc). La novità consiste nel
fatto che, nel passaggio d’epoca fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo
scorso, questa equazione “morale” era appannaggio esclusivo della sinistra
tradizionale, che assisteva impotente e sgomenta ai processi di ristrutturazione
capitalistica che stavano facendo letteralmente a pezzi la composizione di
classe caratteristica della fase fordista, mentre la trionfante ideologia
neoliberista celebrava i fasti dei processi di globalizzazione e di
finanziarizzazione dell’economia, preludio a un nuovo ciclo di espansione dei
profitti capitalistici a danno dei redditi delle classi subalterne. Viceversa oggi i
neoliberisti “pentiti” versano lacrime di coccodrillo, allineandosi – sul piano
1 Cfr. C. Formenti, La fine del valore d’uso. Riproduzione, informazione, controllo, Feltrinelli, Milano 1980.
della diagnosi se non su quello della cura – ai socialdemocratici nel denunciare
le colpe di un capitalismo “selvaggio” che per decenni si è fatto gioco delle
“buone regole” del mercato (ma non doveva essere deregolamentato?).
Assistiamo così a una stucchevole pantomima in cui si cerca di distinguere
(visto che nessuno ormai, da sinistra come da destra, mette più in discussione
l’egemonia del mercato) fra capitalismo produttivo buono (economia reale) e
capitalismo finanziario cattivo (quello dei subprime e della cartolarizzazione
deregolamentata dei debiti). Nei paragrafi a seguire tenterò di dimostrare –
riprendendo le tesi postoperaiste2 in merito e mettendole a confronto con
quelle di alcuni teorici della New Economy - che i meccanismi della crisi in
corso non sono il prodotto di “degenerazioni” speculative, bensì delle
dinamiche strutturali del neocapitalismo cognitivo (o, se si preferisce,
informazionale3) Sosterrò inoltre il punto di vista secondo cui i meccanismi
della crisi attuale sono del tutto omologhi a quelli della “bolla speculativa” della
New Economy (2000/2001) – per cui l’intero primo decennio del XXI secolo si
presenta come la fase inaugurale di una crisi strutturale “lunga”, destinata a
proseguire nei prossimi anni (a prescindere da contingenti riprese
congiunturali). Successivamente – sempre attraverso un confronto con le teorie
postoperaiste, affronterò alcuni problemi relativi alla nuova composizione di
classe, alle nuove forme del conflitto sociale e all’organizzazione politica dei
movimenti.

Le definizioni dell’attuale fase di sviluppo capitalistico, associata alla


rivoluzione digitale, sono molteplici: economia della conoscenza4, economia
informazionale5, economia dell’informazione in rete6, economia della creatività7,
ecc. Dietro a tanta varietà di termini si nasconde, tuttavia, una sostanziale
convergenza in merito alle caratteristiche di fondo del nuovo modo di produrre,
in particolare a due suoi aspetti fondamentali: da un lato, il fatto che la
produzione di conoscenze diviene la fonte principale, se non esclusiva, della
creazione di valore, dall’altro, il fatto che questa risorsa strategica non è più
concentrata nelle mani di una ristretta minoranza ma viene ridistribuendosi in
nuovi strati di classe emergenti (anche questi variamente connotati: knowledge
workers, classe hacker, classe creativa, ecc.)8. Nell’elaborazione teorica
postoperaista questi concetti vengono reinterpretati alla luce della visionaria
anticipazione del ruolo del general intellect da parte del Marx dei Grundrisse.
Da un lato, l’incremento geometrico della produttività consentito dalla
2 Farò soprattutto riferimento, in questo contesto, al seguente volume collettaneo: A. Fumagalli, S. Mezzadra (a cura di), Crisi

dell’economia globale, ombre corte, Verona 2009..

3 Per il concetto di capitalismo informazionale, vedi M. Castells, L’età dell’informazione: economia, società, cultura, 3 voll. Tr. it. Università

Bocconi Editore, Milano 2002-2003.

4 Cfr, P. Drucker, La società postcapitalistica, Tr. it. Sperling & Kupfer, Milano 1993.

5 Vedi nota 3

6 Cfr. Y. Benkler, La ricchezza della Rete, Tr. it. Università Bocconi Editore, Milano 2007.

7 Cfr. R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa, Tr. it. Mondadori, Milano 2003.

8 Per un’analisi della discussione teorica sulla composizione di classe nel capitalismo cognitivo, cfr. C. Formenti, Cybersoviet. utopie

postdemocratiche e nuovi media, Raffaello Cortina, Milano 2008.


cooperazione sociale, che si sviluppa spontaneamente all’interno delle reti di
relazioni mediate dal computer, viene letto come conferma della diagnosi
marxiana del venir meno – superato un determinato livello di sviluppo delle
forze produttive del lavoro sociale – della possibilità di assumere la quantità
immediata di lavoro come misura del valore – il quale appare ormai piuttosto il
prodotto del sapere sociale incorporato nel sistema del macchinismo
industriale. Dall’altro lato, l’attenzione si sposta dal lavoro morto (il sistema
delle macchine) al lavoro vivo (i sistemi organizzativi immateriali che sfruttano
le reti di macchine digitali), il quale diventa il vero depositario del general
intellect. Il significato profondo della transizione dal fordismo al postfordismo è
iscritto in una battuta che mi è capitato di cogliere al volo in un dibattito fra
“smanettoni” su Facebook9 : “siamo noi che insegniamo alla macchina; la
macchina siamo noi” –battuta che sintetizza alla perfezione la capacità delle
tecnologie digitali di intercettare “in tempo reale” la creatività linguistica, il
capitale sociale, le emozioni, i sentimenti e i desideri messi in campo dalle
moltitudini di prosumer interconnessi attraverso le reti di computer. Ciò
significa, argomentano i teorici postoperaisti10, che l’appropriazione gratuita
del surplus generato dalla cooperazione sociale del lavoro – operazione che,
come ci ha insegnato Marx, è da sempre associata al modo di produzione
capitalistico – deve oggi assumere una forma peculiare, determinata dalle
caratteristiche storiche del capitalismo cognitivo.

Allo scopo di meglio approfondire le implicazioni economiche (analisi


della crisi) e politiche (nuovi conflitti e relativi problemi organizzativi) di tale
visione, tuttavia, conviene metterla preliminarmente a confronto con le tesi di
alcuni “apologeti” della rivoluzione digitale. Mi riferisco, in particolare, a cinque
di queste tesi, che intendo qui di seguito sinteticamente richiamare: 1) la
rivoluzione digitale sancisce la fine del monopolio capitalistico sui mezzi di
produzione; 2) il lavoro gratuito incentivato dal proliferare di motivazioni non
economiche alla cooperazione produttiva sociale svolge un ruolo determinante
nel nuovo modo di produrre; 3) le cosiddette tecnologie del Web 2.0
favoriscono lo sviluppo di modalità di cooperazione produttiva “orizzontali”,
alternative alla tradizionale organizzazione gerarchica dell’impresa
capitalistica; 4) l’accesso ai commons immateriali dovrebbe essere preservato
dalle eccessive pretese dei detentori dei diritti di proprietà intellettuale; 5) il
punto di approdo della New Economy potrebbe essere una nuova forma di
capitalismo senza proprietà o, addirittura, una terza via fra capitalismo e
socialismo, una sorta di “socialismo digitale” depurato dalle aporie del
socialismo tradizionale.

Le prime due tesi sono al centro dell’opera fondamentale11 del


neoliberale (o anarco-capitalista, come lui stesso ama a volte definirsi) Yochai
Benkler. Per Benkler, la causa prima dell’attuale rivoluzione nel modo di
produrre, è il fatto che i costi irrisori (paragonati a quelli vigenti nel modo di
produzione fordista) degli attuali mezzi di produzione (in quanto riducibili al
possesso di un computer e all’accesso a Internet) hanno permesso a un

9 Quasi certamente si tratta di una citazione ma non sono riuscito a rintracciarne la fonte.

1Cfr. C. Vercellone “Crisi della legge del valore e divenire rendita del profitto”, in Crisi dell’economia globale…cit.

11 Cfr. Y. Benkler, op. cit.


miliardo di esseri umani di partecipare “alla pari” a una competizione che si
svolge principalmente sul terreno della produzione di informazione e
conoscenza. Sempre Benkler, mette in luce come tale competizione non
avvenga solo, né principalmente, sul piano del mercato, ma anche e
soprattutto sul piano della “cooperazione competitiva”, perlopiù spontanea e
gratuita, fra prosumer motivati da incentivi non economici (acquisizione di
capitale sociale e reputazionale, ricerca di identità e riconoscimento, puro
piacere, ecc.), come hanno ampiamente dimostrato, fra gli altri, fenomeni
come il successo delle comunità del software open source e della libera
enciclopedia online Wikipedia. Resta da stabilire - posto che Benkler ipotizza la
piena compatibilità fra questi fenomeni e l’economia di mercato – come le
imprese capitalistiche possano convivere con le nuove forme di produttività
sociale, ciò che, in concreto, significa chiedersi come possano trasformarle in
fonti di profitto.

Il che ci porta alla terza tesi, sviluppata, fra gli altri, da autori come Don
Tapscott12 e Clay Shirky13. Gli apologeti dell’economia 2.0 concentrano
l’attenzione sulla natura dis-economica, ove gestita con i tradizionali modelli
organizzativi gerarchici, delle attività di condivisione dei contenuti amatoriali
(self generated content) prodotti da blogger, utenti di reti di file sharing,
frequentatori delle piattaforme per il social networking, ecc.. Per esempio, gli
utenti di Flickr (la nota piattaforma per la condivisione di fotografie amatoriali)
investono tempo ed energie per condividere, classificare e rendere fruibili
(Shirky parla di una scala a tre pioli dell’agire cooperativo in rete: condivisione ,
collaborazione e azione collettiva) i loro lavori; la stessa attività, se esercitata
da un’impresa gerarchicamente strutturata, imporrebbe costi di gestione tali da
distruggere qualsiasi margine di profitto. Uguale discorso vale per altri ambienti
di condivisione di video (YouTube), testi (Wiki) e informazioni (le notizie,
argomentano i teorici del Web 2.0, non debbono più passare necessariamente
attraverso le imprese editoriali, in quanto sono divenute parte di un sistema di
comunicazione composto da un insieme di organizzazioni formali e informali,
nonché da singoli individui). Il coordinamento in tempo reale – frutto, al tempo
stesso, degli automatismi del software e della cooperazione spontanea, e a
volte inconsapevole, come quella fra gli utenti dei motori di ricerca – sostituisce
la pianificazione, per cui l’azione di gruppo diviene imprevedibile. Tutto ciò
sembrerebbe implicare inefficienza ed elevati rischi di fallimento, ma il punto è
esattamente questo, sostiene Shirky14: ancorché inefficiente secondo i criteri
fordisti, la logica del wiki si rivela, in simili contesti, più efficace di quella della
fabbrica, nella misura in cui consente ai singoli membri della comunità di
lavorare su quel che vogliono e di farlo quando vogliono, mentre la produzione
collettiva procede con modalità simili a quelle che presiedono alla formazione
di una barriera corallina piuttosto che a quelle della catena di montaggio.
Quanto ai rischi di fallimento: è vero che aumentano esponenzialmente, in
compenso i costi relativi vengono praticamente azzerati, visto che la
produzione cooperativa delle comunità online può selezionare la qualità dei
prodotti a posteriori (sfruttando i meccanismi di valutazione collettiva
12 Cfr. D. Tapscott, A. D. Williams, Wikinomics 2.0, Tr. it. Rizzoli, Milano 2008.

13 Cfr. C. Shirky, Uno per uno, tutti per tutti, Tr. it. codice, Torino 2009.

14 Op. cit.
incorporati nella Rete), senza preoccuparsi della quantità degli scarti
(elevatissima ma, come si è appena detto, ininfluente dal punto di vista dei
costi). Tutti questi discorsi, apparentemente convincenti, non rispondono
tuttavia a un interrogativo: ammesso che il capitale impari ad attingere i frutti
della cooperazione sociale spontanea e gratuita che si sviluppa in rete, come
può a trasformarli in fonti di plusvalore e profitto?

La domanda ruota attorno a un’irriducibile aporia: da un lato, la


cooperazione sociale spontanea e gratuita si riferisce alla produzione di
commons immateriali che esulano dalla logica del mercato, dall’altro, il capitale
può estrarre plusvalore da tale produzione solo nella misura in cui riesce a
“privatizzare” i commons attraverso inedite operazioni di enclosure (per
esempio inasprendo le leggi sulla proprietà intellettuale ed estendendone la
validità nello spazio e nel tempo). Al tempo stesso, la logica delle enclosure
funziona come un boomerang, perché inaridisce alla fonte le motivazioni stesse
che spingono individui e gruppi alla cooperazione spontanea e gratuita. Gli
apologeti della New Economy tentano di aggirare l’ostacolo attraverso la
quarta e la quinta tesi (i commons vanno protetti dall’invadenza del copyright,
il capitalismo cognitivo può evolvere verso forme di capitalismo senza proprietà
e/o di socialismo digitale). Oltre al già citato Benkler, è soprattutto Lawrence
Lessig15, l’avvocato che ha inventato l’alternativa giuridica – le licenze Creative
Commons16 – alla proprietà intellettuale, a sostenere la tesi della necessità di
“riequilibrare” la relazione fra interesse sociale alla libera circolazione del
sapere e interesse privato alla tutela della proprietà intellettuale. Lessig
configura uno scenario in cui le imprese capitalistiche imparino a sfruttare la
gallina delle uova d’oro (la conoscenza collettiva generata dal libero accesso
delle comunità online ai commons immateriali) senza soffocarla per eccesso di
avidità. Un esempio di questa lungimiranza è offerto dai modelli di business di
imprese come Google (il motore di ricerca che sfrutta l’enorme mole di dati
generata dai propri utenti rivendendola sul mercato degli annunci pubblicitari)
e Ibm (il colosso dell’hardware che ha ricostruito la propria egemonia sul
mercato ICT scambiando conoscenze e informazioni con le comunità degli
sviluppatori indipendenti di software open source). Assai oltre si spinge Kevin
Kelly17 il quale dichiara che non ci si può esimere – ove si prenda atto
dell’inarrestabile impulso alla condivisione diffuso fra le masse degli utenti
della Rete – di parlare di “collettivismo digitale”. Quando grandi quantità di
individui che possiedono i propri mezzi di produzione cooperano alla
realizzazione di obiettivi comuni, condividono liberamente e gratuitamente i
propri prodotti e sono disposti a lavorare gratuitamente, sostiene ancora Kelly,
esiste un solo termine in grado di descrivere appropriatamente il fenomeno:
siamo di fronte a un’inedita forma di socialismo digitale. Un termine che non

15 Cfr. L. Lessig, Cultura libera, Tr. it. Apogeo, Milano 2005.

16 Si tratta di licenze che consentono di utilizzare liberamente testi, immagini e suoni rispettando una serie di condizioni (citazione della

fonte, impegno a non sfruttare commercialmente l’opera, ecc) , che si ispirano al modello cui della GPL, la licenza utilizzata per

proteggere il software libero dall’appropriazione proprietaria da parte delle softwarehouse.

17 Cfr. K. Kelly, “The New Socialism: Global Collectivist Society Is Coming Online”, articolo apparso su “Wired Magazine”, all’indirizzo.

http://www.wired.com/culture/culturereviews/magazine/17-06/nep_newsocialism
dovrebbe più preoccupare il popolo americano, aggiunge, perché non ha nulla
da spartire con il socialismo storico, crollato nel 1989, né con i suoi residui in
Oriente e in America Latina. Si tratta infatti, di un socialismo che non inneggia
alla lotta di classe e al controllo statale sul mercato, ma appare, al contrario,
perfettamente in linea con la tradizione del libertarismo americano, con il suo
mix di individualismo e comunitarismo, antimonopolista più che antimercato,
anche se, almeno su un punto, conserva un tratto rivoluzionario: nella misura
in cui si fonda sulla libera condivisione dei commons immateriali, il nuovo modo
di produrre è infatti incompatibile con le tradizionali forme di proprietà privata e
in particolare con la proprietà intellettuale. Né va trascurato il concetto (che
Kelly condivide con gli autori citati in precedenza) secondo cui questa inedita
forma di socialismo avrebbe poco da spartire con la tradizione egualitaria del
socialismo europeo: le dinamiche di rete non appiattiscono le differenze ma, al
contrario, le esaltano; rispecchiano le leggi di potenza (il principio 80/20 di
paretiana memoria) in quanto i network non sono tenuti assieme dalle masse
che gestiscono poche connessioni, bensì dalle élite che gestiscono tantissime
connessioni; selezionano una nuova aristocrazia meritocratica che garantisce
fra l’altro la capacità, da parte di questo “socialismo senza stato”, di gestire
processi produttivi su larga scala18.

Più che a contestare queste tesi, l’approccio teorico postoperaista aiuta a


smascherarne il carattere di “mezze verità”, incapaci di cogliere i nodi cruciali
della relazione fra nuovo modo di produrre, crisi globale, conflitto sociale. A
partire dal discorso su commons immateriali e nuove enclosure. Sulle tracce
della “Grande Trasformazione” di Polanyi (già ripresa da Rifkin nel suo lavoro
sulla New Economy come “economia dell’accesso”19), Christian Marazzi
richiama l’attenzione20 sul fatto che l’intera storia del modo di produzione
capitalistico può essere letta come alternanza di fasi di desocializzazione e
risocializzazione, nel senso che il meccanismo delle enclosure si ripropone
periodicamente come colonizzazione capitalistica (desocializzazione) di attività
sociali esterne al mercato (come l’espropriazione settecentesca dei terreni
demaniali da parte dei proto capitalisti agrari in Inghilterra), cui seguono
momenti di emancipazione (risocializzazione) di determinate attività sociali
dalla logica del mercato (dai servizi sociali – sanità, formazione, ecc. –
demandati allo stato attraverso il meccanismo del welfare, ai commons
immateriali che la Rete ha generato dando vita a nuovi ambiti di relazioni
sociali esterni al mercato). In questo senso, non si può dire che il sistema
capitalistico capitale “residua” un esterno, occorre piuttosto dire che il suo
sviluppo da un lato distrugge l’esterno, dall’altro crea continuamente nuove
esternalità. In tale oscillazione, tuttavia, non vi è nulla di spontaneo: essa è il
prodotto di violente operazioni di espropriazione che il potere politico si occupa
di volta in volta di realizzare per conto del capitale, dopo averle legittimate sul
piano ideologico/giuridico. Dalle leggi della dinastia Tudor, ai provvedimenti di
deregulation dei governi Thatcher e Reagan, al Digital Millenium Copyright Act
si susseguono da secoli atti politici finalizzati all’invenzione di merci fittizie e
18 Cfr. op. cit.

19 Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione. le origini economiche e politiche della nostra epoca, Tr. it. Einaudi, Torino 1974. Vedi inoltre J.

Rifkin, L’era dell’accesso, Tr. it. Mondadori, Milano 2000.

20 Cfr. C. Marazzi, “La violenza del capitalismo finanziario”, in Crisi dell’economia globale…cit.
alla creazione di scarsità artificiale: divengono merce la terra, la forza lavoro, la
salute, il sapere, tutte le forme di creatività umana, le emozioni, i sentimenti,
ecc.

Non meno decisivo il contributo della teoria postoperaista all’analisi del


processo di finanziarizzazione come fondamentale – se non l’unico – strumento
per estrarre plusvalore dalle nuove forme di cooperazione sociale del lavoro e,
al tempo stesso, come fattore scatenante della crisi. In un precedente lavoro21
avevo polemizzato, in sintonia con le tesi di Manuel Castells22 e Michael
Mandel23, con l’utilizzo del termine “bolla speculativa” in relazione al crollo dei
valori borsistici dei titoli tecnologici nel 2000-2001. Dopo avere analizzato i
meccanismi tipici del capitalismo dot.com - 1) creazione di imprese da parte di
innovatori puri “alla Schumpeter”, capaci di inventare servizi a partire dai
bisogni indotti dallo sviluppo di Internet ma privi di risorse finanziarie; 2)
finanziamento delle imprese da parte di venture capitalist disposti ad assumere
rischi elevati; 3) esordio in borsa con crescita esponenziale del valore dei titoli,
misurato in termini di aspettative future di profitto senza aggancio al valore
“reale” delle risorse aziendali -, sostenevo infatti che la presunta
“sopravalutazione” dei titoli era al contrario un elemento strutturale della New
Economy, data l’impossibilità di valutare “oggettivamente” il valore del capitale
cognitivo inscritto nelle reti sociali mobilitate dai nuovi progetti d’impresa.
Interventi più recenti hanno ulteriormente approfondito il punto. Bernard
Paulré24 e Carlo Vercellone25 convergono per esempio sulla definizione del ruolo
dei mercati finanziari: il primo definendoli come “mercati di opinione”, nella
misura in cui valutano una capacità di produzione che, da un lato, appare
cognitiva, condivisa e cooperativa, dall’altro proiettata verso il futuro; il
secondo affermando che il valore del capitale cognitivo è “espressione
soggettiva” dei profili futuri da parte dei mercati finanziari i quali, in tal modo,
si appropriano di un valore borsistico fittizio che assume la natura di vera e
propria rendita. Sempre Vercellone riformula il concetto di rendita collegandolo
alla capacità di intercettare la “produttività differenziale” generata dalla
creatività del lavoro vivo (decodificando in chiave marxista i consigli che
Benkler e soci rivolgono alle imprese, quando le invitano ad adattarsi alla
produttività “extraeconomica” dei social network), e contribuisce in tal modo a
sgombrare il campo dalle insulsaggini “morali” (vedi la parte introduttiva di
questo articolo) in merito al “parassitismo” di certi meccanismi del capitalismo
cognitivo.

Sempre attraverso i concetti di finanziarizzazione e rendita, Christian


Marazzi mette a sua volta in luce la sostanziale continuità fra “bolla
tecnologica” del 2000-2001 e “bolla immobiliare” del 2008. In primo luogo,
distogliendo l'attenzione dal fatto che le due crisi hanno avuto inizio in settori
diversi per richiamarla su un altro, più importante aspetto: nell'attuale fase,
21 Cfr. C. Formenti, Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy, Einaudi, Torino 2002.

22 Cfr. M. Castells, Galassia Internet, Tr. it. Feltrinelli, Milano 2002.

23 Cfr. M. Mandel, Internet Depression, Tr. it, Fazi, Roma 2001.

2 Cfr. B. Paulré, “”capitalismo cognitivo e finaziarizzazione dei sistemi economici”, in Crisi dell’economia globale…cit.

25 Cfr. C. Vercellone, op. cit.


l'economia finanziaria si spalma su tutto il ciclo economico, è consustanziale a
tutte le produzioni di beni e servizi26; dal momento che i profitti non vengono
reinvestiti in processi direttamente produttivi, non si ottengono cioè come
eccedenze dei ricavi sui costi, bensì come eccedenze dei valori in borsa,
spostando di volta in volta i capitali laddove esistono le migliori opportunità di
“produrre denaro a mezzo di denaro”, per cui non esistono sostanziali
differenze fra la logica che ha determinato l'incremento geometrico dei titoli
tecnologici nella seconda metà degli anni Novanta e la logica che in questo
primo decennio del XXI secolo ha inondato i mercati mondiali con i subprime (i
titoli creati cartolarizzando l'esposizione debitoria delle famiglie americane nel
settore immobiliare). In entrambi i casi non esisteva alcuna relazione fra valore
nominale dei titoli e valore effettivo degli asset sottostanti, in entrambi casi il
valore era il prodotto di proiezioni e aspettative future “arbitrate” dalla finanza
globale, in entrambi i casi il ruolo delle reti tecnologiche - in quanto simbolo e
strumento al tempo stesso delle dinamiche in atto – appariva strategico. La
vera differenza fra il 2000 e il 2008, paradossalmente, è poi quella che meglio
spiega la continuità e i meccanismi profondi della crisi. Mentre il “miracolo”
della New Economy aveva alimentato il mito di un “comunismo dei ricchi”27,
prospettando ai lavoratori della conoscenza la possibilità di una condivisione di
massa dei sovraprofitti generati dalla borsa (attraverso le stock option,
l'esercizio “amatoriale” del trading online e la riconversione degli investimenti
dei fondi di pensione nei settori ad alto rischio e ad alto reddito), la nuova crisi
arriva al culmine del processo di impoverimento delle classi medie provocato
dalla bolla tecnologica (con i relativi licenziamenti di massa, il taglio delle
retribuzioni e l'outsourcing di investimenti e lavoro verso i Paesi emergenti).
Finché hanno potuto realizzare sovraprofitti (o rendite monopolistiche), le
imprese non li reinvestivano nella sfera della produzione, per cui non
contribuivano alla crescita di occupazione e salari, poi si è tentato di speculare
sullo stesso impoverimento delle classi subalterne, alimentandone i consumi
tramite indebitamento (e cartolarizzando i titoli poggianti su tali debiti).

Rilette alla luce di questo schema interpretativo, le mezze verità degli


apologeti della rivoluzione digitale assumono tutt'altro aspetto: l'attenzione
non si concentra più sulla tecnologia, sulla ridistribuzione dei mezzi produttivi,
sulle schermaglie giuridiche (“quanto” copyright è giusto accettare) e sul sogno
di un socialismo “americano” senza lotta di classe, ma si sposta sui conflitti
sociali che, in ultima istanza, governano i fenomeni di cui ci stiamo occupando.
Rivoluzione digitale e finanziarizzazione ci appaiono come due facce della
stessa medaglia, due momenti dell'esodo28 del capitale dalla produzione
industriale, provocato dal ciclo mondiale di lotte operaie negli anni Sessanta e
Settanta del secolo scorso; emerge la trama di uno scenario di grande
complessità, che vede il modo di produzione capitalista impegnato nell'immane
sforzo di sopravvivere e adattarsi all'ambiente socioculturale che i suoi stessi
processi di ristrutturazione tecnologica hanno generato. Il semplice fatto che i
nuovi commons, frutto di quei processi di informatizzazione che miravano in
primo luogo a disintegrare la composizione di classe del ciclo fordista, facciano
26 Cfr. C. Marazzi, op. cit.

27 Cfr. C. Formenti, Mercanti…cit.

28 Cfr. B. Paulré, op. cit.


tornare di attualità la parola socialismo, conferma la consapevolezza della sfida
che essi incorporano per il capitalismo cognitivo, perché, come scrive Marazzi,
il capitalismo non dimentica mai che la produzione del comune ne precede lo
sviluppo, lo anticipa, lo eccede, ne determina l'articolazione29. Se esiste un
socialismo digitale, dunque, il suo spettro evoca necessariamente – in barba
alle tesi di Kelly – il ritorno della lotta di classe. Su quest'ultimo piano, tuttavia,
le analisi postoperaiste appaiono meno convincenti di quelle fin qui descritte.

Se è vero che non esistono oggi le condizioni per uscire dalla crisi
attraverso un nuovo New Deal, nella misura in cui il capitalismo cognitivo non
può invertire il corso della storia, abbandonando la strada della
finanziarizzazione e tornando alle “buone” regole dell'economia “reale”; e se è
vero che l'alternativa di un “New Deal dal basso” è appesa alla capacità di
identificare i soggetti e le lotte che possono assumersi tale compito30; è
altrettanto vero che la “biopolitica delle moltitudini” che caratterizza l'attuale
vulgata postoperaista non sembra all'altezza del compito. Come ho già
argomentato altrove31, non è possibile tracciare un equazione fra
comportamenti antagonisti dell'operaio massa negli anni Settanta (a suo tempo
interpretati come “rifiuto del lavoro”) e gli attuali attriti fra comunità di
prosumer online e imprese dot.com. Il rischio è infatti quello – dal momento che
le nuove forme di appropriazione capitalistica della produttività del lavoro
sociale implicano la necessità di inseguire i lavoratori in tutti i loro momenti di
vita – di attribuire a qualsiasi manifestazione di “indisciplina” sociale (infedeltà
nei confronti delle gerarchie aziendali, violazioni del copyright, resistenza
all'indebitamento, ecc.) una patente “ontologica” (in quanto opposizione fra
capitale e “nuda vita”) di antagonismo, Il che non aiuta minimamente ad
approfondire l'analisi concreta della nuova composizione di classe. Né, tanto
meno, aiuta ad affrontare il problema dell'organizzazione politica delle lotte. Se
oggi, come riconosce Antonio Negri32, il problema di fondo è quello di costruire
un nuovo soggetto nelle lotte, e se nessuno pensa più che questo possa essere
fatto attraverso la forma partito, ciò non significa che non occorra creare
soluzioni organizzative in grado di sedimentare identità, memoria, simboli e
tradizioni. Un compito che non può essere delegato all'astrazione metafisica
della moltitudine.

Non meno discutibili gli effetti dell'inveterato vizio teorico di estrapolare


dalle tendenze più “avanzate” (o presunte tali) dello sviluppo capitalistico, o di
certi settori di classe, la “direzione” verso cui l'intero sistema appare
inevitabilmente destinato a incamminarsi. Significativa, in tal senso, la critica
rivolta alla tesi di Giovanni Arrighi33 in merito al possibile trasferimento
dell'egemonia globale dal modello americano al modello cinese. La critica si
basa sul fatto che l'attuale ciclo di finaziarizzazione avrebbe interrotto
l'alternanza fra cicli lunghi di espansione finanziaria e di espansione materiale.
29 Cfr. C. Marazzi, op. cit.

30 Cfr C. Marazzi, op. cit..

31 Cfr. Cybersoviet…cit.

32 Cfr. A. Negri, “Qualche riflessione sulla rendita dentro la grande crisi”, in Crisi dell’economia globale…cit.

33 Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano 2008.
Ora, a parte il fatto che le argomentazioni di Arrighi sono complesse e
richiederebbero ben altro approfondimento, appare qui implicita l'intenzione,
da un lato, di caratterizzare come “terminale” l'attuale fase di sviluppo
capitalistico, dall'altro di preservare l'egemonia politico-culturale del lavoro
cognitivo dei paesi sviluppati sulle lotte globali. Così non si fanno tuttavia i
conti con il carattere profondamente stratificato della classe operaia globale
che, come scrive Karl Heinz Roth34, si articola nelle seguenti grandi aree (in
ordine di peso numerico): famiglie che vivono di agricoltura di sussistenza,
lavoratori dell'economia sommersa nelle città slum, classe operaia dei paesi
emergenti, nuove forme di lavoro nei paesi sviluppati). Ma l'obiettivo strategico
che lo stesso Roth individua – costruire un nuovo sistema di sicurezza sociale
rivendicando un “reddito di vita” che garantisca a tutti continuità di
remunerazione, a prescindere dall'attività praticata e dall'esistenza di contratti
di lavoro – non rispecchia questa composizione, nella misura in cui appare
realisticamente praticabile solo per l'ultima area (cioè per un'infima minoranza
a livello globale). Possiamo immaginare un futuro in cui le lotte della classe
operaia dei paesi emergenti non svolgano un ruolo strategico (a prescindere
dall'avverarsi della profezia di Arrighi sul secolo cinese)?

34 Cfr. K. H. Roth, “Crisi globale, proletarizzazione globale e contro-prospettive”, in Crisi dell’economia globale…cit.

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