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IL PARADIGMA POSTOPERAISTA
3 Per il concetto di capitalismo informazionale, vedi M. Castells, L’età dell’informazione: economia, società, cultura, 3 voll. Tr. it. Università
4 Cfr, P. Drucker, La società postcapitalistica, Tr. it. Sperling & Kupfer, Milano 1993.
5 Vedi nota 3
6 Cfr. Y. Benkler, La ricchezza della Rete, Tr. it. Università Bocconi Editore, Milano 2007.
7 Cfr. R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa, Tr. it. Mondadori, Milano 2003.
8 Per un’analisi della discussione teorica sulla composizione di classe nel capitalismo cognitivo, cfr. C. Formenti, Cybersoviet. utopie
9 Quasi certamente si tratta di una citazione ma non sono riuscito a rintracciarne la fonte.
1Cfr. C. Vercellone “Crisi della legge del valore e divenire rendita del profitto”, in Crisi dell’economia globale…cit.
Il che ci porta alla terza tesi, sviluppata, fra gli altri, da autori come Don
Tapscott12 e Clay Shirky13. Gli apologeti dell’economia 2.0 concentrano
l’attenzione sulla natura dis-economica, ove gestita con i tradizionali modelli
organizzativi gerarchici, delle attività di condivisione dei contenuti amatoriali
(self generated content) prodotti da blogger, utenti di reti di file sharing,
frequentatori delle piattaforme per il social networking, ecc.. Per esempio, gli
utenti di Flickr (la nota piattaforma per la condivisione di fotografie amatoriali)
investono tempo ed energie per condividere, classificare e rendere fruibili
(Shirky parla di una scala a tre pioli dell’agire cooperativo in rete: condivisione ,
collaborazione e azione collettiva) i loro lavori; la stessa attività, se esercitata
da un’impresa gerarchicamente strutturata, imporrebbe costi di gestione tali da
distruggere qualsiasi margine di profitto. Uguale discorso vale per altri ambienti
di condivisione di video (YouTube), testi (Wiki) e informazioni (le notizie,
argomentano i teorici del Web 2.0, non debbono più passare necessariamente
attraverso le imprese editoriali, in quanto sono divenute parte di un sistema di
comunicazione composto da un insieme di organizzazioni formali e informali,
nonché da singoli individui). Il coordinamento in tempo reale – frutto, al tempo
stesso, degli automatismi del software e della cooperazione spontanea, e a
volte inconsapevole, come quella fra gli utenti dei motori di ricerca – sostituisce
la pianificazione, per cui l’azione di gruppo diviene imprevedibile. Tutto ciò
sembrerebbe implicare inefficienza ed elevati rischi di fallimento, ma il punto è
esattamente questo, sostiene Shirky14: ancorché inefficiente secondo i criteri
fordisti, la logica del wiki si rivela, in simili contesti, più efficace di quella della
fabbrica, nella misura in cui consente ai singoli membri della comunità di
lavorare su quel che vogliono e di farlo quando vogliono, mentre la produzione
collettiva procede con modalità simili a quelle che presiedono alla formazione
di una barriera corallina piuttosto che a quelle della catena di montaggio.
Quanto ai rischi di fallimento: è vero che aumentano esponenzialmente, in
compenso i costi relativi vengono praticamente azzerati, visto che la
produzione cooperativa delle comunità online può selezionare la qualità dei
prodotti a posteriori (sfruttando i meccanismi di valutazione collettiva
12 Cfr. D. Tapscott, A. D. Williams, Wikinomics 2.0, Tr. it. Rizzoli, Milano 2008.
13 Cfr. C. Shirky, Uno per uno, tutti per tutti, Tr. it. codice, Torino 2009.
14 Op. cit.
incorporati nella Rete), senza preoccuparsi della quantità degli scarti
(elevatissima ma, come si è appena detto, ininfluente dal punto di vista dei
costi). Tutti questi discorsi, apparentemente convincenti, non rispondono
tuttavia a un interrogativo: ammesso che il capitale impari ad attingere i frutti
della cooperazione sociale spontanea e gratuita che si sviluppa in rete, come
può a trasformarli in fonti di plusvalore e profitto?
16 Si tratta di licenze che consentono di utilizzare liberamente testi, immagini e suoni rispettando una serie di condizioni (citazione della
fonte, impegno a non sfruttare commercialmente l’opera, ecc) , che si ispirano al modello cui della GPL, la licenza utilizzata per
17 Cfr. K. Kelly, “The New Socialism: Global Collectivist Society Is Coming Online”, articolo apparso su “Wired Magazine”, all’indirizzo.
http://www.wired.com/culture/culturereviews/magazine/17-06/nep_newsocialism
dovrebbe più preoccupare il popolo americano, aggiunge, perché non ha nulla
da spartire con il socialismo storico, crollato nel 1989, né con i suoi residui in
Oriente e in America Latina. Si tratta infatti, di un socialismo che non inneggia
alla lotta di classe e al controllo statale sul mercato, ma appare, al contrario,
perfettamente in linea con la tradizione del libertarismo americano, con il suo
mix di individualismo e comunitarismo, antimonopolista più che antimercato,
anche se, almeno su un punto, conserva un tratto rivoluzionario: nella misura
in cui si fonda sulla libera condivisione dei commons immateriali, il nuovo modo
di produrre è infatti incompatibile con le tradizionali forme di proprietà privata e
in particolare con la proprietà intellettuale. Né va trascurato il concetto (che
Kelly condivide con gli autori citati in precedenza) secondo cui questa inedita
forma di socialismo avrebbe poco da spartire con la tradizione egualitaria del
socialismo europeo: le dinamiche di rete non appiattiscono le differenze ma, al
contrario, le esaltano; rispecchiano le leggi di potenza (il principio 80/20 di
paretiana memoria) in quanto i network non sono tenuti assieme dalle masse
che gestiscono poche connessioni, bensì dalle élite che gestiscono tantissime
connessioni; selezionano una nuova aristocrazia meritocratica che garantisce
fra l’altro la capacità, da parte di questo “socialismo senza stato”, di gestire
processi produttivi su larga scala18.
19 Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione. le origini economiche e politiche della nostra epoca, Tr. it. Einaudi, Torino 1974. Vedi inoltre J.
20 Cfr. C. Marazzi, “La violenza del capitalismo finanziario”, in Crisi dell’economia globale…cit.
alla creazione di scarsità artificiale: divengono merce la terra, la forza lavoro, la
salute, il sapere, tutte le forme di creatività umana, le emozioni, i sentimenti,
ecc.
2 Cfr. B. Paulré, “”capitalismo cognitivo e finaziarizzazione dei sistemi economici”, in Crisi dell’economia globale…cit.
Se è vero che non esistono oggi le condizioni per uscire dalla crisi
attraverso un nuovo New Deal, nella misura in cui il capitalismo cognitivo non
può invertire il corso della storia, abbandonando la strada della
finanziarizzazione e tornando alle “buone” regole dell'economia “reale”; e se è
vero che l'alternativa di un “New Deal dal basso” è appesa alla capacità di
identificare i soggetti e le lotte che possono assumersi tale compito30; è
altrettanto vero che la “biopolitica delle moltitudini” che caratterizza l'attuale
vulgata postoperaista non sembra all'altezza del compito. Come ho già
argomentato altrove31, non è possibile tracciare un equazione fra
comportamenti antagonisti dell'operaio massa negli anni Settanta (a suo tempo
interpretati come “rifiuto del lavoro”) e gli attuali attriti fra comunità di
prosumer online e imprese dot.com. Il rischio è infatti quello – dal momento che
le nuove forme di appropriazione capitalistica della produttività del lavoro
sociale implicano la necessità di inseguire i lavoratori in tutti i loro momenti di
vita – di attribuire a qualsiasi manifestazione di “indisciplina” sociale (infedeltà
nei confronti delle gerarchie aziendali, violazioni del copyright, resistenza
all'indebitamento, ecc.) una patente “ontologica” (in quanto opposizione fra
capitale e “nuda vita”) di antagonismo, Il che non aiuta minimamente ad
approfondire l'analisi concreta della nuova composizione di classe. Né, tanto
meno, aiuta ad affrontare il problema dell'organizzazione politica delle lotte. Se
oggi, come riconosce Antonio Negri32, il problema di fondo è quello di costruire
un nuovo soggetto nelle lotte, e se nessuno pensa più che questo possa essere
fatto attraverso la forma partito, ciò non significa che non occorra creare
soluzioni organizzative in grado di sedimentare identità, memoria, simboli e
tradizioni. Un compito che non può essere delegato all'astrazione metafisica
della moltitudine.
31 Cfr. Cybersoviet…cit.
32 Cfr. A. Negri, “Qualche riflessione sulla rendita dentro la grande crisi”, in Crisi dell’economia globale…cit.
33 Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano 2008.
Ora, a parte il fatto che le argomentazioni di Arrighi sono complesse e
richiederebbero ben altro approfondimento, appare qui implicita l'intenzione,
da un lato, di caratterizzare come “terminale” l'attuale fase di sviluppo
capitalistico, dall'altro di preservare l'egemonia politico-culturale del lavoro
cognitivo dei paesi sviluppati sulle lotte globali. Così non si fanno tuttavia i
conti con il carattere profondamente stratificato della classe operaia globale
che, come scrive Karl Heinz Roth34, si articola nelle seguenti grandi aree (in
ordine di peso numerico): famiglie che vivono di agricoltura di sussistenza,
lavoratori dell'economia sommersa nelle città slum, classe operaia dei paesi
emergenti, nuove forme di lavoro nei paesi sviluppati). Ma l'obiettivo strategico
che lo stesso Roth individua – costruire un nuovo sistema di sicurezza sociale
rivendicando un “reddito di vita” che garantisca a tutti continuità di
remunerazione, a prescindere dall'attività praticata e dall'esistenza di contratti
di lavoro – non rispecchia questa composizione, nella misura in cui appare
realisticamente praticabile solo per l'ultima area (cioè per un'infima minoranza
a livello globale). Possiamo immaginare un futuro in cui le lotte della classe
operaia dei paesi emergenti non svolgano un ruolo strategico (a prescindere
dall'avverarsi della profezia di Arrighi sul secolo cinese)?
34 Cfr. K. H. Roth, “Crisi globale, proletarizzazione globale e contro-prospettive”, in Crisi dell’economia globale…cit.