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VOLUME PRIMO
Sean MacMalcom
Stampato e venduto
da Lulu.com
In memoria di
Emilio G. G.
quest’opera
è rispettosamente dedicata
dall’autore
4 Sean MacMalcom
MIDDA’S CHRONICLES 5
Introduzione
Caro lettore,
il libro che reggi fra le mani è per me motivo di smisurato orgoglio per
molteplici ragioni. Il fatto stesso che questo sia un libro e che tu stia
leggendo queste righe è sicuramente la prima fra le tante, ma non l’unica.
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MIDDA’S CHRONICLES 9
Sommario
Introduzione ...................................................................................................... 5
Sommario ........................................................................................................... 9
Due occhi color ghiaccio troneggiavano sul suo viso, adorno anche con
rosee labbra e un sottile naso, ove una manciata di lentiggini apparivano
quasi lì spruzzate, gettate distrattamente al centro di quel volto ovale
leggermente appuntito verso il mento. Proprio nella parte mediana di
quest’ultimo, poi, si offriva una piccola fossetta, quasi a voler sottolineare
un carattere ribelle in quella forma perfetta: non solo essa, però, si
proponeva in tale compito, laddove sulla pelle chiara, quasi candida, uno
sfregio si concedeva simile a blasfemia, nell’esser posizionato in
corrispondenza dell’occhio sinistro nella forma di una lunga cicatrice
verticale.
Attorno al viso, non sufficientemente corti da lasciarle scoperte le
orecchie ma non così lunghi da celarle il collo tornito, erano capelli
corvini, lucenti nei riflessi, incantevoli nella fluidità: essi si offrivano lisci e
compatti, tali da apparire come un unico manto, ma al tempo stesso quasi
singolarmente enumerabili in ogni fremito del suo capo. La maggior parte
delle donne, e degli uomini, avrebbero considerato sprecato un simile
tesoro, nell’essere modellato in un taglio così poco femminile, così
castigato, che non permetteva di porre in risalto capelli tanto meravigliosi,
tanto attraenti: se solo fossero giunti fino alla schiena, se solo avessero
offerto un velo maggiore attorno a quelle spalle, sicuramente la sua
bellezza sarebbe apparsa decuplicata. Ma colei che si proponeva in grado
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di sfoggiare senza timori una cicatrice sul viso come ella faceva,
evidentemente, non desiderava assolutamente porre in risalto la propria
beltà.
«E’ in momenti come questo che penso di non farmi pagare mai
abbastanza…» sussurrò fra i denti.
Il principale vantaggio nel lottare contro dei non morti del genere
zombie, da sempre, si poteva ritrovare nella lentezza fisica dei medesimi: i
cadaveri rianimati, anche in virtù delle migliori negromanzie, non
avrebbero mai potuto recuperare l’agilità posseduta in vita. E maggiore la
loro putrefazione si fosse proposta, minore la possibilità di movimento e i
riflessi si sarebbero mostrati presenti in qualsiasi atto, anche nel più
semplice come il camminare. Nel combattimento fisico qualsiasi essere
vivente, anche non allenato come guerriero, avrebbe pertanto dimostrato
una velocità maggiore rispetto anche al più rapido degli zombie.
Dove la lentezza fisica, l’assenza di riflessi, l’impaccio di movimenti
dati da un corpo privo di una propria anima si sarebbero offerti quali i
principali vantaggi nel lottare contro dei simili non morti, decisamente
molte si sarebbero potute contestare le difficoltà che avrebbero reso lo
scontro improponibile anche al migliore dei combattenti. Uno zombie non
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avrebbe mai conosciuto stanchezza, sconforto, dolore e, soprattutto, non si
sarebbe mai arrestato se anche solo una minima possibilità di movimento
gli fosse stata concessa. Altri generi di non morti avrebbero potuto essere
vinti nella distruzione dei loro cuori o delle loro teste, fonti focali in un
attaccamento alla vita anche oltre la morte, ma non gli zombie: essi non
avevano di questi limiti, di queste debolezze e se privati del cuore o della
testa stessa, avrebbero ugualmente avanzato inesorabilmente contro i
propri avversari, contro le proprie prede, spronati dal desiderio di
adempiere alla missione della negromanzia fonte per loro di rianimazione.
Oltre all’apparente mancanza di punti deboli e all’impossibilità di
arrestare la loro avanzata, che già avrebbero reso uno solo fra simili
cadaveri un nemico temibile anche per il più forte dei guerrieri, gli zombie
trovavano la propria principale forza nel numero: non agivano
praticamente mai in unità singole, dato che tutti i malefici fonti di simili
abomini erano da sempre destinati ad ampie schiere, le quali, ancor
peggio, avrebbero potuto rinvigorire le proprie fila a ogni nemico
abbattuto, a ogni avversario ucciso.
Le negromanzie, atte a generare ciò che si stava offrendo in quel
frangente di fronte allo sguardo della donna, erano solitamente legate a
uno specifico luogo, poste in essere da stregoni o chierici oscuri desiderosi
di preservare contesti a loro sacri dall’assalto di avventurieri, soldati o
semplici ladri che avrebbero altresì potuto violare quei luoghi
semplicemente con la propria presenza o, peggio, con le proprie razzie.
Molti dei cadaveri in movimento davanti a lei, i meno decomposti,
appartenevano sicuramente a disgraziati giunti in quell’immonda palude
in un passato non remoto, per uno scopo o, forse, per semplice e tragico
caso, e mostravano in evidenza i segni di quelle che erano state le
esistenze ormai perdute. Simboli i quali un tempo li avevano visti
contrapposti in vita, li proponevano uniti nella morte, concedendo allo
sguardo soldati dell’esercito di Kofreya, vestiti nelle proprie tradizionali
uniformi blu e argento, accanto a briganti delle valli, riconoscibili dalle
vesti di nera lana grezza. Nell’ammasso eterogeneo di corpi straziati dalla
putrefazione della morte, talvolta ormai così decomposti da apparire come
veri e propri scheletri, non mancavano poi di dimostrare la propria
presenza anche molti pastori e semplici contadini, giunti fino a quel luogo
maledetto per chissà quale imperscrutabile ragione.
Simile indecisione, però, le costò più caro di quanto non avesse preso
in considerazione: il piede destro si pose in fallo su un cranio già segnato
dalla rovina del tempo, portandola a scivolare nell’oceano di putrefazione
dal quale aveva cercato fuga.
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Una leggera vibrazione nella quiete della melma la mise in guardia nei
confronti di un pericolo alle proprie spalle ed ella fu abbastanza rapida e
scattante da rigirarsi e sferrare un nuovo colpo con il pugno destro, l’unica
arma che ora aveva a disposizione. Questa volta, il metallo non si smorzò
nella sostanza viscida ma andò a schiantarsi con decisione su una
superficie più consistente: fu in conseguenza di quell’impatto che la donna
guerriero dovette ricredersi su ogni considerazione in merito a quella
palude immonda. Il pugno, infatti, colpendo un’area evidentemente
organica, generò una profonda ferita nella medesima e da essa una
sostanza simile a sangue fluorescente si riversò all’esterno, sul terreno e
sul suo braccio, colpevole di quella violenza. In quella fluorescenza
improvvisa, che per un istante abbagliò lo sguardo della donna, ormai
abituato all’oscurità, quel budello tenebroso rivelò un mondo prima
impensabile all’interno della palude di Grykoo.
La melma, in cui ella affondava i piedi in quel momento, non era
fango, ma una sorta di bava riversata sul terreno da dozzine e dozzine di
larve mollicce, di dimensioni variabili da quelle di un grosso ratto a quelle
di una piccola pecora: le larve, muovendosi lente nei loro stessi fluidi
corporei, ricoprivano tutto il suolo fin dove il suo sguardo era capace di
spingersi. Ma tali creature non erano le sole ad abitare quell’anfratto:
lungo le pareti, parzialmente immerse nella bava, erano dei bachi enormi,
di dimensioni mostruose, la cui vista fece increspare la pelle della donna
guerriero al pensiero di cosa sarebbe potuto uscire da essi.
Quell’immagine mentale la portò a cercare rapidamente altre informazioni
attorno a sé, alla ricerca raccapricciata dei “genitori” di quelle creature
orride, nella semioscurità concessa dalla linfa fluorescente della larva che
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il suo pugno aveva violentemente ucciso. Lo sguardo percorse ogni pollice
di ciò che le fu concesso vedere, ritrovando anche la posizione della sua
lama e individuando molti cunicoli scavati lungo le pareti di quel baratro:
gallerie sotterranee sicuramente perfette quali accoglienti rifugi per le
creature che la circondavano, raggiunto il secondo stadio della loro
esistenza. Forse, o almeno così ella sperava, in quel momento tali esseri
stavano riposando e solo simile eventualità le avrebbe concessa salva la
vita: non avrebbe mai avuto problemi ad affrontare uomini, vivi o morti,
ma doversi confrontare con fenomeni simili laddove era il loro terreno, la
loro casa, sarebbe equivalso probabilmente a un suicidio.
Senza prendere fiato dal lungo sforzo compiuto nella scalata, ella si
pose immediatamente in piedi, sfoderando di nuovo la spada, prima a
riposo sul fianco destro, nell’assumere una posizione di guardia.
Sfruttando la luminescenza del braccio libero, ormai sempre minore a
causa del parziale essiccamento della linfa fluorescente, cercò di scrutare
avanti a sé, nel tunnel che le era offerto oltre la porta, per valutare la
nuova via così proposta.
Secondo una prima valutazione, il percorso in ascesa compiuto l’aveva
condotta appena a metà della risalita totale: avrebbe potuto, quindi,
ignorare quella via e proseguire oltre. O, altrimenti, avrebbe potuto
imboccare quel percorso in pietra, solido e amplio, nella speranza che esso
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la potesse condurre a qualche destinazione, se non addirittura alla meta
della sua missione: il santuario.
Quando al fin...
iabituati gli occhi chiari alla presenza della luce, Midda avanzò
con discrezione e decisione nel corridoio, accostandosi fino
R all’apertura. Oltre alla medesima, una porta in pietra non
dissimile da quella che l’aveva condotta dal budello al
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corridoio, le si offrì la visione di un’amplia grotta sotterranea, una
conformazione naturale di origine calcarea che si estendeva in ampiezza
per una cinquantina di piedi e in lunghezza per un centinaio, prima di
curvare verso sinistra e non permetterle, in tal modo, di spingersi oltre con
lo sguardo. La grotta apparve illuminata dalla presenza di due file di
torce, disposte lungo i lati della medesima: tali fiaccole creavano un
bagliore incerto ma costante, raggi di luce che andavano a infrangersi
contro ogni forma generando danze di inquietanti ombre. L’inquietudine
di quelle ombre, in realtà, non nasceva tanto dal chiaroscuro, quanto dalle
figure che lo generavano: un’infinità incalcolabile di ossa sbiancate, le
quali riempivano quasi integralmente la superficie visibile della grotta
ammassandosi in maniera scomposta sul fondo della stessa. Ossa umane
che di umano avevano ormai solo la forma, dove tutto ciò che un tempo
erano state si proponeva perso, dimenticato nelle carni non più presenti.
Quella visione lasciò interdetta la donna guerriero, nel dubbio di quale
insana fede potesse aver generato un simile mattatoio. Abituata alla morte
in ogni suo aspetto, anche in quelli più sgradevoli, non vi furono timori
alla vista di quell’orrido spettacolo: solo domande, questioni che, sperava,
non avrebbero mai trovato risposta.
Non scorgendo alcun apparente pericolo, ella oltrepassò la soglia
senza soffermarsi a offrirle alcuno sguardo come invece si era concessa
alla prima, nel desiderio di non lasciarsi distrarre inutilmente. Ciò che
aveva generato un simile cimitero avrebbe potuto giungere da un
momento all’altro ed ella non desiderava permettere alle proprie ossa di
aggiungersi a quella macabra collezione.
Tali esse apparvero agli occhi della donna, nonostante i loro corpi si
concedessero in dimensioni maggiori di quelle di un cavallo, con peli
lunghi e ispidi più di quelli di un orso: posta innanzi a tale spettacolo,
Midda non ebbe del resto dubbi nell’ipotizzare come un cavallo o un orso
sarebbero potuti essere divorati senza problemi da creature tanto
raccapriccianti. Il rumore prodotto dalle ali, grandi come vele di
un’imbarcazione di pescatori, risultò tremendo, assordante, in uno
spostamento d’aria tale per cui un uomo sarebbe potuto essere sbalzato a
terra se colto di sorpresa. La gamma di colore in cui si proposero, non
differenziandosi da quello dei loro parenti minori, spaziò fra molte
tonalità di marrone, partendo da sfumature più chiare sulle ali per
giungere a gradazioni più intense sul corpo. I loro capi erano poi ornati da
antenne lunghe come frecce d’arco e occhi composti grandi come meloni
maturi. La principale, forse unica, differenza nel confronto con i loro
corrispettivi naturali, era infine dettata dalle bocche: non spiritrombe
come quelle di qualsiasi altro lepidottero, ma grandi fauci armate di
piccoli e sottili denti, inadatti a un predatore ma perfetti per divoratori di
carogne.
Il loro numero si impose quale difficilmente calcolabile, data la loro
grandezza e il caos che, con la loro presenza, erano capaci di creare: essi si
rigettavano confusi e in continuo movimento nella grotta maestra,
emettendo sordi brontolii, versi incomprensibili all’orecchio umano i quali
avrebbero potuto esprimere qualsiasi sentimento, dal semplice e naturale
stupore alla fame più incontenibile. Falene, colossali creature necrofaghe,
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che da tempi remoti in quelle caverne avevano trovato nutrimento e
protezione, vivendo dei sacrifici offerti dal santuario maledetto, il quale
attraverso il lungo pozzo sopra il capo di Midda procurava loro cibo e
vita.
A era gettata per sfuggire alla morsa degli zombie, Midda aveva
trovato una porta in pietra con un complicato bassorilievo alla sua
base, raffigurante la celebrazione di un oscuro e sacrilego rito.
Quella scultura, che l’aveva attratta e, per un istante, quasi ipnotizzata nel
lavoro di intarsio estremamente curato realizzato dal suo autore, sembrò
prendere vita nel momento in cui ella balzò fuori dal pozzo, gridando
selvaggiamente.
Il tempio, o per lo meno la parte del santuario in cui ella si ritrovò, era
stato realizzato su pianta ottagonale, con lati di oltre cinquanta piedi di
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lunghezza e altrettanti di altezza. La volta, come già nel bassorilievo,
risaliva nelle forme di un’enorme cupola, di cui era praticamente
impossibile scorgere la cima nella semioscurità che imperava a tale
altezza: la luce delle torce e dei bracieri presenti all’interno, difatti, si
diffondeva solo per pochi piedi, non riuscendo a vincere su un’innaturale
oscurità dominante. L’intera struttura apparve edificata in pietra
massiccia, in apparenza costituita degli stessi marmi e travertini con i
quali il pozzo e tutti i sotterranei erano stati rivestiti: diversamente da
quanto già offerto agli occhi della donna, però, quelle nuove pareti
sembrarono rilucere di strane tonalità sanguigne, venature rosso acceso
delle quali ella non era in grado di comprendere l’esatta natura e di certo,
per quanto un primo istinto potesse far pensare veramente al sangue, quel
vermiglio non avrebbe potuto essere tale, date le tonalità troppo vive e
intense che lo caratterizzavano. A ogni spigolo delle alte pareti, poi, era
distinguibile un’ampia colonna, a base anch’essa ottagonale, che dal
terreno si levava a sostegno delle volte della cupola superiore. Su ogni
colonna una statua era posta, scolpita in essa, quasi a voler apparire
fuoriuscente dalla pietra stessa di quei pilastri: le otto statue, fra loro
diverse, raffiguravano sagome similmente umane ma che, senza troppo
impegno, dimostravano una natura mostruosa. Divinità, probabilmente,
divinità oscure non diverse da quelle raffigurate sulle volte di ogni porta
che ella aveva oltrepassato e sulle quali non aveva voluto soffermare lo
sguardo.
A pochi passi dal perimetro più esterno del santuario, una fila di basse
e sottili colonne prive di volte superiori segnava il contorno di una breve
scalinata in discesa, utile a lasciar affossare l’intero cuore del tempio. Se la
zona fra le pareti esterne e quell’ornamentale colonnato appariva
praticamente vuota, nella sola eccezione rappresentata dai bracieri
disposti a distanza regolare l’uno dall’altro, all’interno di quel margine un
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numero incredibile di uomini e donne erano presenti: sicuramente gli
adepti di quel culto blasfemo. Essi, indossando tuniche bianche o beige,
senza apparente regolarità in tali colori, celavano i propri capi sotto ampli
cappucci, che non poterono però nascondere le espressioni stupite, se non
anche sconvolte, come reazione alla comparsa della donna guerriero fra
loro.
Tutti gli adepti sembravano stretti attorno a lei, ma più che verso il
pozzo, in realtà, la loro concentrazione era rivolta, almeno fino a prima di
quell’ingresso in scena, a un altare, posto a pochi passi da lei in quello che
era il vero centro del santuario. Sollevato rispetto al resto del tempio, esso
si proponeva in forma squadrata, lungo almeno nove piedi e largo tre, in
pietra nera e lucente scolpita con cura non inferiore a quanto presente
all’interno del gotico delubro e dei suoi sotterranei, raffigurante
probabilmente altre empie scene. Midda, però, non ebbe attenzione da
rivolgere all’arte di quell’oscena ara: tutta la sua concentrazione fu infatti
richiamata, prima, dalla vittima posta su di essa e, poi, dal carnefice
accanto a lei.
L’ostia, la vittima sacrificale, si concesse quale una giovane donna,
come raffigurato nel bassorilievo: ella presentava un corpo ancora
fanciullesco, con pelle chiara e lentigginosa, lunghi capelli rossi scomposti
e scure vesti squarciate, le quali a malapena ne coprivano le intimità. Priva
di sensi, forse per il terrore, forse in conseguenza di qualche droga o,
peggio, perché già morta, era stata incatenata all’altare con lunghe e
avvolgenti catene, non dissimili da quelle della divinità raffigurata nelle
colonne del tempio stesso. La presenza di quelle spire metalliche si
propose quale controverso indizio: se, da un lato, avrebbe potuto lasciare
supporre che la vita non avesse ancora abbandonato quel corpo, dove
inutile altrimenti sarebbe stato costringerla all’altare in quel modo,
dall’altro lato non garantiva assolutamente tale ipotesi, soprattutto nel
presentare tanta rassomiglianza con l’oscura e sofferente dea scolpita.
Sopra la vittima, infine, si presentava la figura del celebrante,
dell’officiante di quel blasfemo e violento credo. E fu proprio nei suoi
occhi che la donna guerriero ritrovò la ragione della propria missione in
quel luogo sacrilego.
«Te ne devo dare atto.» riprese l’albino «Non sei uomo. Ciò che la
maggior parte degli stolti ignora è che proprio in voi donne risiede una
forza superiore, una resistenza incredibile al dolore e alla fatica. Voi
donne, create per essere madri, per offrire la vita, siete in questo superiori
agli uomini e per questo essi vi temono.»
«Ciò non toglie che, uomo o donna, la tua vita stia per venir meno.»
continuò l’altro «Non combattere oltre. Non opporre ulteriore resistenza:
accetta la fine, posso ancora essere clemente verso di te. Posso ancora
offrirti salvezza se accetterai volontariamente l’abbraccio della morte: non
desidero lasciare sprecata la tua esistenza, la tua forza vitale, il tuo
animo.»
«Io non sarò mai dimenticata. Il mio nome non sarà mai scordato.»
sussurrò, inarcando un angolo della bocca in un lieve sorriso beffardo «Al
contrario di te, albino.»
«Come riesci a trovare ancora speranza?» domandò il monaco, mentre
dietro di lui le due creature d’ombra iniziavano a fremere di impazienza
«Come riesci a credere ancora di poter sopravvivere? Sei in piedi a
stento… disarmata… rifiutare l’idea dell’imminente fine è da stolti!»
«Sottovalutare il proprio avversario è da stolti.» replicò la donna.
«Io non sono giunta qui per perire.» sussurrò Midda, a denti stretti,
mentre lottando contro il dolore di un ginocchio quasi fratturato, tornò a
sollevarsi in posizione eretta «E chiunque cercherà di offrirmi morte,
dovrà affrontare le conseguenze di tale folle tentativo.»
«Mi hai rimproverato di sottovalutare il mio avversario…» rispose
sprezzante il monaco «… e non posso che prendere atto di come tu non sia
una donna comune, un guerriero come altri. Ma, ora, sono io che vorrei
offrirti un consiglio: non sopravvalutarti. Le forze che stai sfidando vanno
al di là di ogni tua possibilità di immaginazione.»
Il volto dell’uomo, per la prima volta, non celò più alcun sentimento,
dimostrando tutta la rabbia, tutta l’ira, tutta la paura dello stesso in quel
combattimento: sentimenti forti e quasi infantili, di chi si era troppo
abituato ad avere facilmente la meglio sui propri nemici e si ritrovava
sconvolto da tanta volontà di vivere.
Midda, non potendo mantenere la posizione a lungo, sdraiata a terra
sotto egli nell’equilibrio precario offerto dai corpi morti, decise di agire
d’impulso, tentando il tutto per tutto in un ultimo gesto d’offesa. La mano
destra si mosse, quindi, con tutta la rapidità che avrebbe potuto
concedere, ruotando sul gomito che ancora reggeva l’impeto dell’arma
avversaria e portandosi ad afferrare con forza il manico della medesima
per tirarla lateralmente, guidando in tal modo la stessa energia nemica a
sbilanciarne la postura: l’albino, colto di sorpresa da tale gesto, non poté
fare altro che seguire quel sbilanciamento, piegandosi in avanti sulla
donna e offrendosi per un attimo scoperto di fronte a ogni possibile
attacco. Proprio in quell’attimo fuggevole, la spada scattò rapida e
mortale, dirigendosi verso il volto avversario, verso gli occhi di ambra del
suo nemico: in un movimento netto e controllato, la punta della lama
squarciò il volto avversario da tempia a tempia, frantumando il suo setto
nasale e sbalzando le pietre oculari fuori dai propri bulbi.
Il tempo stesso sembrò fermarsi in conseguenza di quel gesto che
sapeva di blasfemia: le due gemme magiche vennero sbalzate lontano dai
contendenti, compiendo un lungo moto parabolico che le condusse a
scontrarsi con l’orlo dell’abisso da cui la donna era emersa, al centro del
tempio. E nel momento in cui esse ricaddero al suolo, tintinnando nel
silenzio di quell’istante, un’immensa esplosione di luce scaturì dal volto
dell’albino mentre un grido di puro e disumano dolore esplose dalla sua
gola. Allontanandosi dalla donna, cieco nei movimenti, egli si portò le
mani al viso, sfogando in un urlo straziante tutto il patimento che lo stava
dilaniando: la luce irradiata dalle orbite ormai vuote aumentò, diventando
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insopportabile e richiedendo anche alla mercenaria di coprirsi gli occhi,
nel non riuscire a sopportare ulteriormente tanta intensità.
E in un boato che scosse le colonne stesse del santuario maledetto,
tutto ebbe fine.
Facendo leva sulla propria spada, ella ritrovò una posizione verticale,
ergendosi sopra la massa di cadaveri ed estendendo il proprio sguardo
all’intero tempio. Le gemme di Sarth’Okhrin giacevano ancora dove erano
state sbalzate dal colpo di grazia, vicino al bordo del pozzo: ormai prive di
un detentore, senza più energia vitale ad animarle, esse apparivano quasi
spente. Due comunissime gocce di ambra, che in un mercato non
sarebbero state valutate neanche per il valore di un pezzo d’oro, ma che,
in esse, racchiudevano un potere quasi divino, per cui molti uomini erano
morti in passato e molti altri sarebbero probabilmente morti in futuro.
Poco lontano, invece, si proponevano i resti del corpo dell’albino.
L’esplosione di luce non era stata fine a se stessa: del volto del monaco,
infatti, rimaneva solo il ricordo, laddove l’intero capo e la parte superiore
del busto, fino a sotto le spalle, risultava essere scomparsa, lasciando un
residuo a metà fra il bruciato e il molliccio.
Nel territorio di Kriarya era una vasta parte della palude di Grykoo: un
tempo, secondo quanto narravano leggende e ballate, laguna ricca di vita
animale e vegetale nonché di attività umane, ora ridotta a una landa
desolata e infetta, in cui nessuno si sarebbe mai voluto inoltrare e da cui
nessuno, inoltratosi in essa, ne aveva mai fatto ritorno. Nella palude di
Grykoo, infatti, non la vita ma la morte si poneva dominatrice su ogni
cosa: lo stesso concetto di esistenza, paradossalmente, appariva quasi in
contrasto con la natura di quella zona, una minaccia che non avrebbe
potuto, che non avrebbe dovuto, turbare la quiete lì presente. Non i vivi,
ma i morti avrebbero per sempre abitato le nere acque fangose di ciò che
un tempo era stata definita laguna: i morti che entro quei confini
giacevano, lì erano in grado di rianimarsi nel difendere la loro palude da
invasori viventi. Nel cuore di quell’area, poi, un santuario consacrato a
oscure divinità si ergeva da epoche remote maestoso e mortale: quasi
nessuno, salvo gli adepti di quei riti blasfemi, era mai giunto fino a tale
edificazione; nessuno, poi, era mai sopravvissuto per poterne riportare
voce, per offrire descrizione degli incubi orrendi che lì trovavano
concretizzazione.
Nessuno prima di lei…
Proprio davanti alle alte mura di Kriarya, ella aveva appena fatto
ritorno dall’ultima sua missione, nel corso della quale aveva espugnato il
santuario perduto nella palude di Grykoo, sterminando gli adepti di quel
blasfemo culto per impossessarsi di due gemme magiche, che le avrebbero
fruttato una grande ricompensa, pari a non meno di quattro volte il prezzo
inizialmente pattuito.
76 Sean MacMalcom
Accanto a lei, stretta al punto di sembrare aggrappata quasi come una
bambina alla madre, era una giovane fanciulla con lunghi capelli rossi e
forme ancora adolescenziali avvolte in una tunica di tessuto bianco,
adornato con vaste macchie di sangue rappreso. Gli occhi verdi della
ragazza osservavano spaventati il centro urbano che si estendeva davanti
a loro, con le mille insidie di esso che l’avrebbero attesa oltre quelle mura.
Camne era il nome con cui la giovane dai capelli rossi si era presentata
alla sua salvatrice quando aveva ripreso conoscenza.
La fuga di Midda dal tempio, dopo il recupero delle pietre, non aveva
offerto fortunatamente eccessivi ostacoli: persino gli zombie, infatti, non
erano apparsi di fronte al suo cammino, forse in conseguenza della
sconfitta del monaco albino, celebrante dei riti oscuri del santuario, forse
in virtù del possesso da parte della donna delle gemme di Sarth’Okhrin,
con le misteriose e occulte capacità delle quali comunque ella non
intendeva assolutamente avere a che fare. Il suo incarico si era esaurito nel
recupero di quelle due gocce d’ambra e al di fuori di tale compito ella non
aveva alcun desiderio d’azione. L’unica difficoltà incontrata nel lasciare le
lande desolate della palude di Grykoo era stata proprio la presenza della
fanciulla, inizialmente trasportata di peso perché ancora priva di sensi: la
donna guerriero, per quanto forte e tenace, non aveva alcuna inumana
capacità di riprendersi dalle ferite che aveva subito. Solo il tempo le
avrebbe riconcesso tutte le proprie energie, tutta la propria combattività e,
per tale ragione, il condurre seco l’ultima prigioniera del tempio blasfemo
non era stata un’impresa banale: nonostante il lieve peso della ragazza e il
minimo ingombro che ella le offriva, la donna era stata costretta a farsene
carico in spalla, sulla schiena ancora dolente per i troppi colpi incassati, e a
condurla passo dopo passo attraverso la melma e le sabbie mobili, a denti
stretti per non gemere il proprio male.
Dopo quasi un intero giorno dall’uscita dal territorio della palude di
Grykoo, la giovane aveva finalmente ritrovato coscienza di sé, riaprendo
gli occhi e presentandosi con il nome di Camne Marge, dell’isola di
Dairlan.
Dairlan era una piccola isola lungo la costa nord-ovest del continente,
a molte settimane di nave dalla loro attuale posizione. Come la maggior
parte delle piccole isole, essa non era controllata da alcun monarca, ma
riconosciuta e rispettata da tutti quale territorio libero e autonomo,
autogestito dai propri abitanti in una sorta di sistema democratico che la
garantiva quale porto sicuro per navi di qualsiasi bandiera. Pensare che la
fanciulla fosse stata rapita tanto a nord per essere condotta fino a quel
tempio maledetto aveva un qualcosa di perverso.
Dopo alcuni giorni di cammino nelle valli kofreyote, nel corso delle
quali la donna guerriero aveva avuto modo di iniziare a ritemprarsi al fine
di non giungere a Kriarya eccessivamente debole, Midda e Camne
giunsero quindi alle porte della capitale di quella provincia: la prima
desiderosa di riscuotere la propria ricompensa e rimettersi completamente
in forze prima di intraprendere il viaggio verso nord, la seconda
intimorita da ciò che avrebbe potuto trovare all’interno dei quelle mura.
Giungendo così alla porta, la donna guerriero avanzò con passo fermo
e schiena dritta attraverso la solita folla di mercanti nomadi lì impegnati in
ogni genere di affari, tenendo accanto a sé la ragazza e non offrendo
alcuno sguardo a tutti coloro che, al contrario, a loro ne donavano
parecchi. Era ormai abituata a una simile accoglienza e nonostante la
maggior parte di quelle persone sapessero, ora, con chi avevano a che fare,
essi non rinunciavano a bearsi per pochi istanti della vista di quel corpo
inarrivabile, considerato più che sprecato nell’attività mercenaria che ella
aveva scelto per la propria vita.
«Sei stata gentile a portarci una tua amica, sfregiata.» commentò una
voce maschile.
I Con le sue insidie, i suoi tesori nascosti, le sue leggi, il suo potere,
il mare da sempre era apparso agli occhi di ogni mortale come la
più evidente manifestazione dell’esistenza degli dei: dove la terra stessa
avrebbe potuto essere piegata ai voleri degli uomini, forgiata per costruire
città e fortezze, templi e campi coltivati, il mare si sarebbe concesso
indomito e indomabile, capace di dispensare vita o morte a chiunque in
esso avesse osato avventurarsi in base ai propri esclusivi capricci. Come
per ogni divinità, anche i desideri del medesimo sarebbero potuti essere
interpretati e, soprattutto, avrebbero dovuto essere rispettati: a coloro che
si fossero dimostrati in grado di compiere questo, comprendendo il mare e
i suoi voleri, esso avrebbe offerto la propria generosità, concedendo
abbondantemente i propri frutti non diversamente da una madre che dona
il proprio seno al figlio per nutrirlo.
Ma la capacità di sapersi avvicinare al mare, di saperlo rispettare e
interpretare non era mai stata concessa a tutti: al contrario, tale conoscenza
era da sempre risultata, invero, più arcana e mistica della stessa
stregoneria, della negromanzia, dove anche stregoni e negromanti nulla
avrebbero potuto di fronte a tanta indomabile e fiera volontà. Il dono di
poter comprendere il mare era, infatti, concesso solo ai suoi eletti, ai suoi
figli prediletti, coloro che per sorte, per destino avevano avuto la fortuna
di nascere nella sua grazia: pescatori e marinai quindi, concepiti e cresciuti
a contatto con il mare ancor più che con la terra, capaci di nuotare ancor
prima di camminare, che mai avrebbero sfidato o contrastato il volere
delle correnti ma a esse si sarebbero affidati, lasciandosi trascinare nel
compimento del loro e del proprio desiderio di vita. Solo essi, coloro che
avevano avuto la fortuna di nascere con il mare nell’animo e l’animo nel
mare, sarebbero stati in grado di veleggiare sulla sua superficie, di
attraversarne le mille insidie con una possibilità di fare ritorno a casa. Non
una certezza ma solo una viva speranza perché, nonostante la benedizione
del mare verso di essi, anche marinai e pescatori non avrebbero mai
dovuto considerare la sua potenza domata, i suoi pericoli scampati: così
come il mare si proponeva a offrir loro la vita, esso si sarebbe potuto
impegnare nel toglierla con altrettanta facilità, freddamente, cinicamente
forse, ma concedendosi assolutamente equo e imparziale, non osservando
volto alcuno prima di compiere le proprie scelte. Il più ricco fra i potenti e
196 Sean MacMalcom
il più povero fra i derelitti si sarebbero offerti sempre uguali di fronte a
esso ancor più che nell’impegno improrogabile con la morte: se l’ultimo
grande appuntamento di ogni mortale avrebbe potuto essere rimandato,
seppur non a tempo indeterminato, grazie alla forza e al denaro, nel
confronto con il mare nessuna preferenza sarebbe mai stata offerta, nessun
distinguo sarebbe mai stato compiuto.
Equo era il mare, imparziale giudice davanti al quale alcun uomo,
donna o bambino avrebbe mai potuto mancare di rispetto tentando raggiri
e menzogne: il più saggio e il più folle fra i tiranni dell’umanità avrebbero
potuto anche essere ingannati, piegati a un volere esterno dal proprio, ma
non il mare, non la sua divina potenza.
Avendo necessità di raggiungere una città portuale per fare rotta verso
l’isola di Dairlan, situata lungo la costa nord-occidentale del continente,
Midda Bontor, donna guerriero nonché mercenaria, e Camne Marge, sua
protetta, seguirono la soluzione più semplice, che apparve essere anche la
migliore. Esse diressero il proprio cammino verso Seviath, ponendosi al
seguito di una carovana commerciale partita da Kriarya pochi giorni
prima: la mercenaria, in cambio di un posto per se stessa e per la propria
compagna in tale convoglio, aveva offerto i propri servigi di guerriera, in
uno scambio di favori che non avrebbe potuto lasciare insoddisfatti i
mercanti della carovana, più che lieti di averla al proprio fianco, e che, in
realtà, non le aveva poi richiesto alcun reale impegno.
Il viaggio, infatti, ebbe modo di dimostrarsi assolutamente tranquillo,
nel percorrere vie già note e normalmente sicure, concedendo così alla
donna la possibilità di riposare il proprio fisico e curare le proprie ferite,
conseguenza delle sue ultime disavventure, opportunamente nascoste
sotto un amplio manto per non offrire notorietà di tale debilitata
condizione presso i nuovi compagni di viaggio.
La penisola principale del regno di Tranith si mostrava attraversata
dal proseguo della catena montuosa di Rou’Farth, la medesima che
divideva il confine fra Kofreya e Y’Shalf, e proprio nel punto in cui i monti
giungevano a incontrare il mare era stata fondata in tempi immemori la
città di Seviath.
Essa si offriva alta e imponente lungo il litorale, costruita sul crinale
stesso dei monti tale da apparire appoggiata come un velo a essi,
risplendente di marmi bianchi e bordi dorati, luminescente di mille piccoli
smalti che in mosaici multicolori decoravano ogni tetto, rendendola simile
a un meraviglioso gioiello, un diadema forse lì appoggiato da qualche dea
dei mari per non essere perso fra i flutti. Le forme delle architetture si
mostravano molto differenti dallo stile kofreyota e da quello y’shalfico:
laddove infatti le costruzioni in quelle terre erano solite tendersi verso il
cielo quasi a volerlo sfidare, in Tranith esse preferivano seguire le curve
del territorio, crescendo su di esso come un manto vegetale in edifici bassi
ma, spesso, molto contorti. Nessuno avrebbe saputo dire come e perché
fosse nato un tale stile, ma in tutto il regno e in particolare a Seviath le
case, le locande, i templi sembravano volersi sbizzarrire in ogni forma che
MIDDA’S CHRONICLES 199
mente umana fosse in grado di concepire, plasmandosi in aspetti sempre
originali e quasi mai ripetuti, mostrandosi a volte geometriche altre
caotiche, a volte più simili alla normalità altre tanto fantasiose da non
permettere comprendere cosa volessero rappresentare. Scalinate spesso
attorcigliate in spirali vertiginose congiungevano i vari livelli della città,
dalla costa frastagliata, nella forma di dozzine di moli diversi, fino a
sfiorare quasi le nuvole, fra le estremità degli edifici eretti più in alto sul
crinale del monte.
Nel versante più basso della città era accentrato il maggiore interesse
economico e commerciale, accalcandosi spontaneamente e naturalmente
attorno ai numerosi approdi, alle lunghe banchine in pietra che
sembravano voler violare il mare pur addentrandosi in esso con assoluto
rispetto, nella consapevolezza dei limiti da non poter prevaricare, da non
dover oltrepassare. Tante, tantissime erano le navi lì attraccate, apparendo
sulla superficie tranquilla dell’acqua come una vera e propria foresta di
alberi e vele, dondolanti quasi all’unisono eppur ognuna con un proprio
ritmo, una propria indipendenza, come le infinite onde del mare. Più
vicino ai moli, più accostate al porto, erano accentrate tutte le attività
mercantili, presenti in lunghe distese di banchi e banconi originariamente
forse concepiti per poter essere mobili e itineranti ma divenuti, nel tempo,
più immobili degli edifici stessi alle loro spalle. In un così vasto mercato
ogni genere di beni avrebbe potuto trovare il proprio giusto spazio, allo
scopo di soddisfare qualsiasi richiesta, esigenza, desiderio o sfizio di
qualsivoglia possibile cliente: sebbene la maggior parte degli acquirenti
fossero in realtà i mercanti delle varie carovane, in una ripartizione delle
competenze territoriali verso l’interno del continente, non mancavano
infatti anche compratori privati, persone comuni di ogni estrazione e ceto
sociale, anche se per lo più benestanti, che aggirandosi in quella fiera
cercavano di trasformare in realtà ogni propria fantasia. Stoffe preziose,
gioielli lucenti, spezie rare, ma anche terribili armi, attrezzature di ogni
natura e persino schiavi trovavano i propri spazi in quel contesto,
presentano le migliori offerte da ogni parte dei tre continenti.
Nel lato superiore della città era concentrato il potere politico della
medesima, in alcuna contrapposizione con quello economico,
rappresentato qual era dalle più antiche e ricche famiglie di mercanti di
tutta Seviath: in un regno che aveva fatto del commercio la propria
principale attività, tanto da arrivare a vendere interi territori nel
mantenere la pace e l’indipendenza, non avrebbe infatti mai potuto essere
una nobiltà di sangue a guidare le questioni politiche interne ed esterne.
Nobili e feudatari risultavano così sostituiti in quelle terre da potenti
mercanti, proprietari e armatori di flotte intere di navi che
quotidianamente attraversavano i mari a raggiungere mete per chiunque
200 Sean MacMalcom
altro inarrivabili: a loro, alla loro bravura, alla loro capacità di gestire i
propri affari era offerto l’onere e l’onore di scegliere in merito alle
questioni pubbliche, richiedendo ai medesimi lo stesso impegno e la stessa
dedizione che avrebbero posto in quelle private. E per quanto ovviamente
gli interessi privati spesso arrivassero a interferire in quelli pubblici,
l’assoluta libertà di mercato e la conseguente frammentazione dei domini
commerciali permettevano un’equa ripartizione dell’autorità, non
concedendo eccessi ad alcuna famiglia, non permettendo l’accentramento
del potere nelle mani di uno solo. Sul versante più alto della città, così, le
più sfarzose e lucenti costruzioni offrivano il bagliore delle proprie
decorazioni smaltate, dei propri colori abbaglianti, presentandosi quasi
come una lunga fila di luci guida per le navi più lontane, laddove neanche
i reali fari eretti lungo la frontiera dei moli sarebbero riusciti a mostrarsi.
Nessuna muraglia, nessuna cinta era mai stata eretta a difesa della
città, in quanto alcun pericolo per essa era mai stato previsto o sentito: la
filosofia di vita da sempre imperante in Tranith era infatti rivolta al
compromesso, non al conflitto. Nessun altro regno aveva mai cercato di
dichiarare loro guerra: tutti avevano invece preferito scendere a patti per
garantirsi la possibilità di scambi commerciali con le famiglie tranithe, per
riservarsi il diritto di poter usufruire delle loro reti di contatti, delle loro
risorse economiche. Poter essere loro alleati risultava da sempre offrire più
benefici che costi, ma nonostante ciò anch’essi avrebbero dovuto
confrontarsi con un’antagonista, una nemesi: i veri nemici del regno, i soli
avversari della quiete e della serenità di quelle terre si concedevano essere
i pirati, figli delle acque non diversamente dalla maggior parte dei tranithi
e degli abitanti degli altri regni delle coste. Votati fin dalla nascita al mare,
avevano fatto di esso il proprio unico luogo di vita, sfruttandone il potere,
accompagnandone la furia per compiere le proprie razzie, per accumulare
tesori e influenza al di fuori di qualsiasi legge, del rispetto per qualsiasi
regno o governo costituito: contro di essi alcuna barriera avrebbe mai
potuto difendere Seviath o qualsiasi altra città portuale, dato che il
pericolo da loro rappresentato sarebbe sempre giunto dal mare, dalla
stessa e sola direzione verso la quale mai si sarebbero potuti proteggere,
mai si sarebbero potuti chiudere a meno di non rinunciare alla propria
stessa natura.
Alla deriva
Il destino non era mai apparso avverso agli occhi di Heska e Mab’Luk:
fatta eccezione per la tragedia comune risalente a tredici anni prima, alla
loro vita era sempre stata offerta gioia, pace e serenità. Fin da bambini non
avevano mai avuto preoccupazioni da affrontare, non avevano mai visto
drammi incombere sopra i loro futuri: figlia di un fabbro, lei, e di un
carpentiere, lui, avevano ritrovano nelle rispettive famiglie da sempre una
stabile collaborazione lavorativa e una conseguente unione di fatto ancora
prima di scoprire il proprio amore. Quando quest’ultimo, poi, era esploso
in una dirompente e giovanile passione, i loro padri non avevano avuto da
opporre alcuna obiezione, alcun ostacolo alla consacrazione di tale puro
sentimento: al contrario, essi si erano impegnati molto più di quanto fosse
loro richiesto per rendere tutto in quel giorno praticamente perfetto, per
celebrare al meglio l’unione dei loro unici eredi e in esso vedere
finalmente legate due realtà che a tutti gli effetti, da oltre vent’anni, erano
una sola.
MIDDA’S CHRONICLES 329
Come era noto, purtroppo, laddove gli uomini desideravano proporre
in merito al proprio destino, solo agli dei era concesso realmente di
disporre di esso: e così, la coppia di promessi sposi si stava ritrovando a
dover accettare l’inevitabile fato, l’imposizione che esso aveva dettato
sopra quella giornata da loro sperata fausta ma divenuta troppo presto
tragica.
Mab’Luk, similmente alla maggior parte dei giovani della sua età, era
ancora pieno di illusioni, pieno di ideali, pieno di sogni: la vita serena
offerta dall’isola in cui era nato e cresciuto, poi, non gli aveva mai
permesso di affrontare con più realismo, con più pragmatismo o,
addirittura, con più cinismo la vita e questo, ovviamente, rappresentava
un pericolo per sé e per la propria incolumità. Egli, comunque, non era
uno stolto: comprendeva perfettamente il pericolo rappresentato dai
pirati, dalla loro violenza, dalla loro bramosia di sangue e morte e non si
aspettava assolutamente di poter uscire illeso da quella prova. Ma,
nonostante ciò, aveva intenzione di affrontarla, era deciso a non ignorare
quello che riteneva essere un suo dovere come uomo, come futuro marito
della propria amata: egli voleva dimostrare a lei e, prim’ancora, a se stesso
di essere in grado di poterla proteggere, di poterla difendere da eventuali
pericoli che il mondo avrebbe potuto loro porre di fronte. E per tale
ragione, per quell’ideale forse troppo romantico, egli avrebbe affrontato
fieramente gli invasori, convinto di poter trovare in sé la forza necessaria a
respingerli così come tredici anni prima era stato in grado di fare suo
padre.
Quando la nave, dove Heska aveva trovato rifugio, salpò dal molo di
Konyso’M, la donna non poté evitare di sentire una parte del proprio
cuore e del proprio animo morire: nell’osservare Mab’Luk salutarla con
enfasi dalla spiaggia, gridando incomprensibili dichiarazioni d’eterno
amore e fedeltà, a lei parve ascoltare i lamenti lontani di un condannato a
morte. All’orizzonte, sempre più visibili, distinguibili, grandi erano le navi
nemiche in costante avvicinamento e con esse appariva essere la sentenza
per il suo sposo, per l’uomo a cui avrebbe desiderato essere legata in
eterno, desiderio forse sgradito agli dei che in quello stesso giorno, nel
MIDDA’S CHRONICLES 331
momento in cui le loro promesse stavano per essere pronunciate, avevano
permesso una così tragica evoluzione degli eventi.
La giovane osservò accanto a sé altre donne impegnate a salutare i
propri compagni, i propri mariti, non diversamente da madri che
piangendo lanciavano ultimi strazianti richieste di prudenza alla volta dei
propri figli: ella si senti una persona orrenda nel non riuscire a trovare la
forza di levare la mano, nel non riuscire a trovare l’impulso di salutare il
proprio quasi sposo, ricambiando i suoi gesti, offrendo almeno in
quell’atto il proprio amore. Ma il funereo presagio di morte che anelava
nel suo animo, nel suo cuore non le concedeva speranza, non le offriva
entusiasmo: e salutare in quel momento il proprio amato sarebbe stato
come l’estremo addio durante una cerimonia funebre, gesto per cui ella
non si sentiva ancora pronta, tappa a cui non desiderava ancora giungere.
E piegando il capo fra le mani, a Heska non rimase altro che piangere,
a cercare sfogo al dolore che la straziava dall’interno.
Un ricatto letale
All’epoca in cui Ma’Vret si era scontrato per la prima volta con Midda,
ella non aveva ancora conquistato la medesima aura di leggenda che, al
contrario, la circondava in quei nuovi tempi, rendendola forse qualcosa di
troppo anche per lui: in quel passato ormai lontano, ella era ancora
giovane, ma evidentemente già votata all’assolvimento di compiti oltre
ogni umano destino, che sicuramente l’avrebbero condotta lontano se solo
fosse riuscita a sopravvivere alle infinite insidie che, in essi, l’avrebbero
attesa.
In effetti, pur conoscendola da una vita, egli poco o nulla sapeva in
merito alla compagna, relegato alle sole esperienze dirette che aveva
vissuto insieme a lei: prima avversari, poi compagni di ventura, i due
erano divenuti in maniera quasi naturale amanti e, forse, innamorati. Così
era stato fino al giorno in cui egli si era dichiarato stanco della vita che
stavano conducendo, dei continui rischi a cui votavano le proprie
esistenze e che, prima o poi, avrebbero posto termine alle medesime: solo
una tale decisione aveva condotto alla fine del loro rapporto, alla divisione
474 Sean MacMalcom
dei loro cammini. Nello stesso modo in cui era entrata nella sua vita, più
silenziosa di un alito nella notte, ella ne era uscita, lasciandolo fra quelle
stesse montagne dove ora si erano ritrovati dopo tanti anni.
Ovviamente, in un arco di tempo tanto lungo, la vita era proseguita
per entrambi ed egli, all’interno della comunità nomade di cui presto era
divenuto il principale referente, quasi il responsabile pur non esistendo
una simile e ufficiale figura in quell’organizzazione, aveva dato vita a un
nuovo capitolo della propria esistenza, riscoprendo l’amore fra le braccia
di una donna che presto era divenuta sua moglie e che, dopo pochi anni,
era purtroppo deceduta nel mettere alla luce il loro secondogenito.
L’uomo, un tempo temuto nel nome di Ebano, si era ritrovato così a
piangere nel ricordo di una compagna tanto amata e tanto tristemente
strappatagli di mano, e a essere padre di una bambina e di un bambino, i
quali non avrebbero avuto altro futuro se non in lui. Come nel passato si
era tanto impegnato a offrire la morte, così egli si era dedicato con tutto il
cuore, la mente, l’animo e il corpo a concedere la vita all’unica famiglia
rimastagli, ai suoi figli, H’Anel e M’Eu come erano stati chiamati nei
desideri della madre da loro quasi non conosciuta. E, in effetti, nessuno gli
avrebbe mai potuto rimproverare mancanza di passione nel ruolo di
padre da lui intrapreso, guidando con premura e amore incontrastato i
propri eredi, il frutto dell’amore della moglie perduta, attraverso i lunghi
anni e le molte insidie presenti in quelle montagne, forse l’ultimo dei
luoghi in cui si sarebbe potuto pensare di farli crescere.
Egli era riuscito in tale compito, con costanza, con serietà aveva
cresciuto una bambina, ormai al suo settimo anno di vita, e un bambino,
di due inverni inferiore alla sorella: ancora molto giovani, ma già temprati
dalla durezza della vita che li aveva accolti, i figli di Ma’Vret concedevano
allo sguardo gli stessi occhi scuri come la notte del padre e i suoi capelli
altrettanto neri e ricci, tipici della sua etnia, ereditando altresì una pelle
più chiara, vellutata nei propri toni marroncini, dalla perduta madre.
Entrambi i pargoli, H’Anel già da qualche anno e il piccolo M’Eu solo da
pochi mesi, avevano lasciato la tenda del padre per trovare rifugio e
riposo in un’altra, divisa con bambini loro coetanei secondo le usanze
della comunità: questa situazione, normalmente pesante per Ma’Vret, che
pur mai l’avrebbe ammesso per non apparire debole nel sentimento che
provava a separarsi dai figli, era tornata in effetti solo a suo vantaggio una
settimana prima quando, quasi dal nulla, la chioma corvina di Midda era
rientrata nella sua vita.
Sebbene tanti anni fossero passati dal loro ultimo incontro, sebbene il
tempo li avesse molto cambiati dentro e fuori, il legame che era stato fra
loro non aveva avuto problemi a riemergere, esplodendo in una nuova e
irrefrenabile passione. Non vi erano state domande da parte sua verso la
MIDDA’S CHRONICLES 475
compagna, sebbene la curiosità dei figli avesse continuamente cercato,
durante il giorno e nei momenti di pasto comune, di estorcere alla nuova
giunta informazioni sul proprio passato, sulla propria vita, nell’innocenza
priva di malizia tipica dei bambini: la mercenaria, dal canto proprio, si era
offerta con dolcezza meravigliosa ai due fratelli, subito conquistandone la
simpatia e la fiducia non diversamente da come aveva conquistato quella
del loro genitore in anni ormai dimenticati. L’uomo, ovviamente, non era
uno sciocco e non si era concesso alcuna illusione verso di lei: quella visita,
casuale o volontaria che essa fosse, sarebbe stata sicuramente destinata a
terminare molto prima di quanto egli avrebbe mai desiderato e un nuovo
addio sarebbe dovuto essere rivolto a colei che probabilmente, unica oltre
alla moglie, non avrebbe mai lasciato il suo cuore e i suoi pensieri. Ma egli
conosceva bene le regole di quel gioco, conosceva bene la donna che gli si
offriva di fronte: ella era come il mare, infinito e indomabile, capace di
concedere vita e morte con la medesima semplicità, di meravigliarti e di
terrorizzarti nello stesso istante. Non avrebbe mai potuto trattenerla allo
stesso modo in cui sarebbe risultato impossibile fermare le onde degli
oceani: poteva solo accettare il dono che ella gli stava concedendo, con la
sua compagnia, con la sua presenza, con suo amore in quel momento della
propria vita, non pensando al giorno, alla settimana, al mese dopo, non
preoccupandosi di nulla di così lontano ma vivendo con lei un istante alla
volta, come se ognuno di essi sarebbe potuto essere l’ultimo.
Purtroppo per lui, Ma’Vret non aveva idea di quanto quel suo
pensiero, quella sua filosofia fosse terribilmente vicino alla realtà.
Ringraziamenti
“Il futuro sarebbe giunto senza dubbio troppo presto”: Midda non ha
la minima idea di quanta ragione abbia nel proporre un simile pensiero.
Se desideri saperne di più, volta pagina e getta uno sguardo a
Prossimamente….
Per quanto mi riguarda, invece, con la conclusione di questo quinto
racconto di Midda’s Chronicles e il termine del primo volume di raccolte,
sono arrivato a un momento irrinunciabile, per quanto sempre
estremamente complesso: i ringraziamenti!
Bene. Con questo penso che sia abbastanza… almeno per ora!
Ops… quasi dimenticavo: naturalmente grazie a te che stai leggendo e
che hai avuto la forza e il coraggio di giungere al termine di questo
mattone, titoli di coda inclusi.
Sean MacMalcom
MIDDA’S CHRONICLES 615
Prossimamente…
MIDDA’S CHRONICLES
VOLUME SECONDO
CONDANNATA
E ALTRE STORIE
616 Sean MacMalcom
MIDDA’S CHRONICLES 617
Non fingiamo di essere nulla di più di ciò che siamo, non ci arroghiamo il
diritto di ambire a nulla di più di ciò che la libertà di Internet ci consente
di cercare: non crediamo di essere grandi scrittori, non vogliamo cambiare
il mondo con ciò che scriviamo. Semplicemente seguiamo un interesse,
con passione e umiltà, accogliendo a braccia aperte chiunque voglia unirsi
a noi in questo cammino.
http://newwavenovelers.altervista.org/
618 Sean MacMalcom
Midda Bontor:
donna guerriero per vocazione,
mercenaria per professione.
MIDDA’S CHRONICLES
http://middaschronicles.blogspot.com/