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Antonio Montanari

I giorni dell’ira

Settembre 1943-settembre 1944


a Rimini e a San Marino

Ed. il Ponte 1997

Versione informatica 2009


Riproduzione riservata
© by Antonio Montanari, Rimini (Italy)
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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Bisogna avere il coraggio di confessare e


di riconoscere le piaghe e le ferite
dell’uomo malato, spogliarle dei cenci
vergognosi con i quali si cerca di
mascherarle. Se non si conosce il
male, se non lo si riconosce, come si
può guarirlo?
Jean-Marie Lustiger, Cardinale di Parigi,
1989

Mai forse come allora si toccò con mano


quale barbarie potesse produrre il
delirio della potenza.
Noberto Bobbio, 1997
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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PREMESSA

CAPITOLO I, 10 giugno 1940: «Vincere!»

CAPITOLO II, «Giovinezza», addio

CAPITOLO III, Dopo il 25 luglio 1943

CAPITOLO IV, Repubblichini e nazisti

CAPITOLO V, Il delitto Paolini

CAPITOLO VI, Tra Rimini e San Marino

CAPITOLO VII, Fascisti e tedeschi di casa sul Titano

CAPITOLO VIII, L’arresto di Giuseppe Babbi

CAPITOLO IX, Le bombe inglesi

CAPITOLO X, I ricatti nazisti

CAPITOLO XI, I giorni del silenzio

CAPITOLO XII, Il crepuscolo degli eroi

CAPITOLO XIII, Alla ricerca della verginità perduta

CAPITOLO XIV, Tra ieri ed oggi

NOTA BIBLIOGRAFICA
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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Un soldato tedesco «ha scritto un libro» sulla guerra a cui ha


partecipato, ed è andato «personalmente, mezzo secolo dopo, nei paesi
dove» era stato a combattere con i commilitoni. Lì «voleva essere
festeggiato»; e lì «mostra con la mano destra un foglio scritto a mac-
china, timbrato e firmato: è il certificato di buona condotta
rilasciatogli dalle autorità italiane». Questo soldato è il piccolo, quasi
impercettibile protagonista in cui Ferdinando Camon riassume il
significato polemico del suo romanzo Mai visti sole e luna (1994).
Quel soldato «ride benignamente come uno che è in pace con tutti e a
tutti vuol bene». «Ha qualcosa che splende in bocca quando ride, una
specie di stella, che manda lampetti […]: ma non è una stella,
guardando bene si può vedere che in basso a sinistra gli luccica un
dente d’oro».
Così si conclude il libro. Il lettore rammentandosi di aver
incontrato (molto prima) un soldato che rimanda a questo della
conclusione, si rimette a sfogliare all’indietro il volume fino a che
trova il passo con cui termina il cap. 7: «Uno dei due era più contento
dell’altro, e sorridendo apriva così larga la bocca da fare vedere che in
basso a sinistra gli mancava un dente». Il particolare del dente
mancante, rimpiazzato dalla capsula d’oro, conferma: è lui, il soldato
che chiude il romanzo. Ride oggi, sorrideva allora.
Ma perché sorrideva? Il lettore allora ricorda le scene strazianti
che precedono quel sorriso, riassunte da Camon in queste parole: «Da
quel momento ognuno ha capito che l’urlo della bestia sta strozzato
nella gola di ogni uomo, ma che ci vuole un’altra bestia per tirarlo
fuori». In mezzo al dolore delle madri, il capo tedesco appariva
soddisfatto e «lanciava verso i due scherani uno sguardo di de-
gnazione come per dire: ‘Noi siamo uomini, questi mah’. I due soldati
rispondevano con un sorrisino di soddisfazione per approvare». E uno
dei due mostrava (appunto) quello spazio vuoto tra i denti, in basso a
sinistra.
Ha spiegato Camon: «Questa storia del nazista che torna in Italia
convinto di essere stato un soldato buono, mi è caduta proprio
addosso. Ha uno spunto vero. Il libro è nato dalla mia irosa reazione
al fatto che egli si era presentato convinto di una sua biografia onesta.
Invece ne aveva combinate di tutti i colori. Come lui, in Germania ce
ne sono centinaia di migliaia e occupano posti di potere reale, cioè
economico. Sono loro che guidano l’Europa verso l’unione. In fondo
l’Italia sta vivendo proprio per opera loro un’altra sconfitta. E questo
mi fa arrabbiare due volte».
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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In queste mie pagine proseguo ed approfondisco il lavoro


iniziato con il volume Rimini ieri, Dalla caduta del fascismo alla
Repubblica, apparso nel 1989 e quasi subito esaurito. Seguendo la
successione cronologica degli eventi locali, inquadrati nel contesto
nazionale, ricostruisco le vicende e le tragedie dei mesi
«repubblichini» tra Rimini e la Repubblica di San Marino, divenuta da
Stato neutrale la succursale della violenza dei fascisti e dei nazisti,
oltre che rifugio dei “centomila” italiani tra cui fui pure io con i miei
genitori.

Memorie di eccezionale valore sono quelle che riporto


relativamente alla vita istituzionale e politica di San Marino
nell’immediato dopoguerra. Sono state scritte dal prof. Giovanni
Franciosi, celebre docente al liceo scientifico Serpieri della nostra
città.
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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CAPITOLO I
10 GIUGNO 1940: «VINCERE!»

Il Cinegiornale Luce n. 1571 proiettato alla fine dell’agosto 1939


è dedicato a Rimini: «Gaia, spensierata, salubre vita balneare di
grandi e piccini su una delle più belle spiagge del Litorale Adriatico…».
Il primo settembre le truppe tedesche varcano il confine polacco.
Inizia il secondo conflitto mondiale. La vita diventa meno
spensierata. L’ultima estate di pace passa in mezzo a presagi funesti.
Gerarchi e damazze del regime giungono in massa sulla Riviera, me-
scolandosi alla ricca borghesia. Seguono l’esempio del duce che ha
scelto Riccione come «villeggiatura preferita». Mussolini vi arriva a
sorpresa a bordo di un idrovolante bianco tra gli sguardi divertiti dei
bagnanti. Sui giornali illusioni e menzogne si sprecano in titoli
cubitali. Sabato 2 settembre Il Popolo d’Italia garantisce: «L’Italia con
le armi al piede». «Ricordati che Mussolini ha sempre ragione»,
ammonisce un decalogo pubblicato dal Popolo di Romagna il 14
settembre: «Convinciti che la politica non è il tuo mestiere… Lui tratta
per tutti». Ne basta ed avanza.
Il 31 maggio 1940 nel teatro Vittorio Emanuele II di Rimini, un
corsivista del Resto del Carlino Piero Pedrazza se la prende con le
«potenze demoplutogiudaiche» sostenendo che il popolo italiano
«bramoso di scendere in campo, “scalpitava come polledra di sangue
generoso”». Il loggione batte le mani in modo sospetto. Tra gli
universitari presenti tira aria di fronda. È successo altre volte. Alle
Idi di Marzo del 1939 il ritmo militare della sfilata sotto il palco delle
autorità e davanti alla statua di Giulio Cesare dono del duce, era stato
inframmezzato da impercettibili passi di danza sul motivo della
Danza delle ore di Ponchielli. Benito Totti campione italiano dei
medioleggeri era sceso dal palco per raggiungere i camerati ballerini.
Ricevette la sua lezione soltanto Ennio Macina, figlio del sindacalista
Mario che negli anni Venti aveva conosciuto il “santo manganel”. La
fronda nascosta diventa lentamente vera opposizione. Le goliardate
cedono il passo ad un impegno serio e drammatico: «Cominciò ad
incrinarsi in noi qualcosa di quel fragile edificio in cui avevamo
vissuto il periodo avventuroso e struggente della giovinezza. E in
breve tempo l’edificio, data la sua scarsa consistenza, andò in
briciole», racconta Guido Nozzoli.

Lunedì 10 giugno 1940 Mussolini dichiara guerra ad Inghilterra


e Francia: «Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e
reazionarie dell’Occidente». Anche Rimini è stata mobilitata dai
lugubri rintocchi del campanone civico, a cui hanno fatto eco tutte le
altre campane. Non sono state usate le sirene, divenute segnale per
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gli allarmi aerei. «La parola d’ordine: Vincere!», tuona Mussolini:


«Popolo italiano corri alle armi». Soltanto i fedelissimi in camicia nera
o in orbace applaudono ed invocano il suo nome. Molti piangono. C’è
chi ricorda il ’15-’18. «Dalla folla si alza un immenso grido», esulta il
Corriere della Sera. Quella sera Renato Rascel presenta a Roma nella
sua rivista teatrale un brano inedito e strampalato: «È arrivata la
bufera». Donna Rachele da una settimana si trova al mare a Riccione
con i figli piccoli. La notizia della guerra, annota Galeazzo Ciano nel
suo Diario , «non sorprende nessuno e non desta eccessivi entusiasmi».
La mattina dell’11 giugno si formano code davanti ai negozi di generi
alimentari. Non si crede ad una guerra breve e si ha paura della fame.

Sogna giorni diversi la signora Luisa Sacchi, anni trentuno. Si è


sposata domenica mattina 9 giugno ed è arrivata a Roma verso
mezzanotte. Il 10 mentre sta pranzando vede facce stralunate nel ri-
storante: «Girava la voce che il duce avrebbe parlato alle 18. A questa
notizia ci rattristammo molto. Andammo a piazza Venezia: era piena
di gente. Il silenzio e la tristezza dominavano l’atmosfera. Apparve il
duce e disse che da quel momento l’Italia era entrata in guerra.
Tornammo in albergo, ed iniziò subito l’oscuramento. Decidemmo di
andarcene il più presto possibile, dopo i primi allarmi. Dalle stazioni
ferroviarie, si vedevano partire gli scaglioni di soldati per il fronte.
C’erano sposine e ragazze che piangevano. Una ragazza che si era
sposata nella mia stessa chiesa, alla messa dopo la mia, perdette su-
bito il marito».
La stessa sera il ministro della Cultura popolare Alessandro
Pavolini impartisce le consuete direttive ai quotidiani: scrivere che si
tratta di una guerra «proletaria»! In quelle ore, una nostra nave
trasporta dalla Libia verso l’Italia un folto gruppo di bambini dai sei ai
dodici anni, figli di residenti in Africa. Debbono trascorrere le
vacanze in varie colonie marine, tra cui quelle di Rimini e Riccione.
La guerra prolungherà a cinque anni, con varie peregrinazioni, un
soggiorno che avrà il sapore di un’inattesa prigionia.
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CAPITOLO II
«GIOVINEZZA», ADDIO

L’ultima manifestazione del fascio riminese il 23 marzo ’43 ha


un «entusiasmo di facciata». Tre mesi prima su segnalazione di una
spia della Polizia sono stati arrestati Guido Nozzoli e Gino Pagliarani.
L’imputazione, «attività politica contraria al regime» mediante volan-
tini intitolati «Non credere, non obbedire, non combattere». Nozzoli è
stato preso a Bologna, dove svolgeva servizio militare: lo hanno anche
accusato di essere detentore di libri proibiti dal regime come il
Tallone di ferro di London o La madre di Gor’kij che peraltro venivano
venduti anche sulle bancarelle. Pagliarani, che aveva redatto il
volantino, ne aveva mandato copie ad una persona rivelatasi agente
provocatore dell’Ovra.
«Gino e Guido, i nostri aedi inquieti e prediletti, erano finiti in
galera, primi fra gli studenti di tutta la regione», scrive Sergio Zavoli:
«I due giovani intellettuali riminesi erano diventati due piccoli leader
sui quali cominciava ad orientarsi un po’ la bussola dell’antifascismo
riminese. La notizia attraversò la città e fece correre, soprattutto in
noi giovani, un piccolo brivido». Le vicende personali di quei giovani,
tutti nati attorno al ’20, appartengono al più vasto mosaico della
storia cittadina, nel travaglio dei cambiamenti che segnano la vita del
Paese. C’erano minoranze che non cercavano affidandosi al «credere,
obbedire, combattere» o che avevano cominciato a cercare confusa-
mente, senza trovare; e c’era la grande maggioranza degli studenti in-
truppati che non cercavano e non trovavano, ma si rassegnavano e si
lasciavano trasportare, «specchio della maggioranza nazionale degli
italiani di tutte le classi: borghesia, ceto medio, proletariato» [L.
Faenza].

Il 24 marzo ’43 due classi del liceo scientifico Serpieri, al ter-


mine delle lezioni di ginnastica, rifiutano l’invocazione al duce.
Gridano soltanto il «saluto al Re». Tra quegli studenti c’è Sauro
Casadei che scrive: «Il 3 aprile arrivano a scuola esponenti della
milizia per arrestare e interrogare sette ragazzi: un compagno ha
fatto i loro nomi segnalandoli come presunti sobillatori». Al fascio,
spiega Faenza, pensarono che si trattasse di «una pericolosa minaccia
all’ordine pubblico» e convocarono il capitano dei carabinieri Giovanni
Bracco, il cui figlio Cesare faceva parte della scolaresca incriminata.
«Ne era seguita la denuncia dei giovani e la condanna di tutti a un
anno di sospensione dalle scuole del Regno. Sei di essi avevano subìto
anche una punizione aggiuntiva», il carcere a Forlì dopo esser stati
malmenati e frustati alla Rocca, le prigioni di Rimini: Sauro Casadei
ed Abner Fascioli passeranno trenta giorni in cella, quindici in più
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degli altri compagni.


Il 18 luglio l’ultima sfilata dei giovani fascisti percorre le vie di
Rimini, con inni e discorsi. La banda della GIL intona gli inni della
patria e della rivoluzione. La solita musica. Che stava per cambiare. I
primi manifesti antifascisti apparsi nel giugno ’43 nelle sale d’aspetto
delle stazioni ferroviarie fra Rimini e Imola, sono nati nelle riunioni
della parrocchia di San Nicolò fra Ercole Tiboni, Renato Zangheri e
don Angelo Campana, insegnante di Religione al liceo classico. Tiboni
diventerà socialista, Zangheri comunista. Oggetto degli incontri, ha
ricordato Vincenzo Cananzi, erano temi vari: «dal significato della
democrazia, al valore dell’economia di mercato, dai rapporti fede e
politica alla liceità della ribellione ai regimi totalitari, dalle differenze
ideologiche tra i vari partiti politici ai mutamenti da introdurre
nell’economia al termine della guerra».

«Qualcosa allora aveva cominciato a muoversi nel sottosuolo


della città, sia pure impercettibilmente», ha scritto Faenza
raccontando il periodo tra la fine del ’42 e l’inizio del ’43: «Alcuni
giovani, toccati dalla resistenza armata russa e dalla sua capacità
controffensiva a Stalingrado, avevano cercato contatti con elementi
antifascisti. Altri giovani tra cui lo Zangheri, allora attento lettore di
scritti tomistici, si erano invece interessati agli incontri di studio
sulla dottrina sociale della Chiesa e sul pensiero di don Sturzo, presso
la Fuci di via Bonsi, a cui era presente l’ex popolare Giuseppe Babbi e
qualche volta Benigno Zaccagnini».
A Rimini «c’erano poi i ragazzi sfollati dalle città del Nord. Un
centinaio circa, disseminati per le varie scuole e nei due licei. Costoro
avevano portato con sé, nelle classi, un’atmosfera diversa, il clima del
dramma delle loro città che poteva per essi volgersi in tragedia, ma
che intanto imponeva agli altri, anche ai meno sensibili, una pausa di
riflessione, scuotendoli da una sonnolenta atmosfera provinciale».
Zangheri, che nella primavera del ’43 organizza la lettura di un
dattiloscritto che riproduce la vita di Gramsci scritta da Togliatti, a
diciassette anni nel 1942 ha collaborato al periodico studentesco
fascista riminese Testa di Ponte scrivendo contro «i vigliacchi di
pensiero e dell’azione». Ma ha pure polemizzato con Glauco Jotti
portavoce di quegli squadristi a cui prudevano le mani e stavano in
attesa di un semplice ordine per usare il manganello: «Assaltiamo per
ora noi stessi […] perché ognuno ha le sue colpe, e se qualcosa vi è
ancora di lercio nella nostra coscienza, togliamolo».
A Testa di Ponte ha collaborato anche Sergio Zavoli: «Oggi più di
ieri abbiamo bisogno di scuotere i famosi “montoni belanti”, “pecore
rognose”… Attorno a te c’è ancora troppa gente che non sa e non è de-
gna di vivere questo grande momento… Deve essere dato a tutti il
privilegio di ‘vivere’ e ‘vincere’. Con ogni mezzo». In un altro suo
articolo si legge: «Io non sono psicologo: pure con la fiducia nelle
nostre idee e in quelle delle generazioni capaci di comprenderci,
arriveremo!».
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La tragedia della guerra, con la constatazione di quanto fosse


stato illusorio il sogno di un conflitto rapido e con la scoperta di
un’impreparazione militare che andava a scontrarsi con i miti del
guerriero fascista, costringe ad una scelta i ragazzi allevati al canto di
Giovinezza. Sono studenti, operai, contadini. Le documentazioni
storiche limitano spesso il discorso a quel gruppo di giovani, quasi
sempre intellettuali, che hanno potuto e saputo riproporre le vicende
della guerra, attraverso scritti ed interventi. Per gli altri basta
riandare alle cronache dolorose di quei mesi tra ’43 e ’44, ed allora
ritroviamo accanto ad un professore di scuola media come il
santarcangiolese Rino Molari, il ferroviere di Rimini Walter Ghelfi,
entrambi fucilati a Fossoli nel luglio ’44 assieme ad Edo Bertaccini di
Coriano, capitano dell’ottava brigata Garibaldi.
La contestazione, tra serietà di un impegno politico che
s’affacciava pallido nell’ansietà giovanile e goliardate che avevano
mosso alcuni nelle occasioni ufficiali del regime, diventa opposizione,
sacrificio personale, rischio della lotta. È la guerra. La guerra civile.
Compagni delle stesse classi e nelle stesse adunate si ritrovano
nemici su barricate opposte. Le strade si sono divise.
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CAPITOLO III
DOPO IL 25 LUGLIO 1943

Alle 22.45 del 25 luglio 1943 l’Eiar trasmette la notizia della


caduta di Mussolini. Il duce è stato arrestato alle 17 all’uscita da un
breve colloquio con Vittorio Emanuele III a Villa Savoia sulla via
Salaria. Fatto salire dai regi carabinieri a bordo di un’ambulanza, è
trasferito a Ponza, poi tradotto alla Maddalena ed a Campo Impera-
tore sul Gran Sasso. Quel pomeriggio tra i soldati ignari trasportati
all’improvviso dalla Cecchignola a presidiare l’immenso parco di Villa
Savoia, c’era il romagnolo Gino Pilandri. La mattina dopo, ha
ricordato Pilandri a Bruno Ghigi, il re «piccolo, traballante, sorretto
da due ufficiali perché non scivolasse nell’erba», andò a distribuire
tavolette di cioccolata ai militari rimasti in servizio per tutta la notte.
Il 25 luglio ’43 segna un cambiamento radicale nella storia
italiana. Partiamo da questa data per ricostruire le vicende dei «giorni
dell’ira», i terribili dodici mesi che vanno dal settembre ’43 al
settembre ’44, vissuti a Rimini ed a San Marino. 26 luglio ’43: «Molta
gente che non aveva sentito la radio o letto i giornali, era uscita di
casa ignara di quanto accaduto, portando come al solito il distintivo
del fascio all’occhiello della giacca». [V. Reffi] Comincia la caccia alle
ex camicie nere. Mentre percorre via Garibaldi viene picchiato a
sangue con uno zoccolo in testa da cinque persone Giuffrida Platania,
un «acceso fascista» che «non sapeva darsi pace», ben noto in città.
La stessa mattina alcuni sammarinesi s’incontrano a Rimini
nello studio del dentista dottor Alvaro Casali, allo scopo di
organizzare una manifestazione per indurre il governo di San Marino
alle dimissioni. Tra 27 e 28 luglio sono arrestati alcuni esponenti del
fascismo riminese: Giuffrida Platania, Perindo Buratti, Eugenio
Lazzarotto, Giuseppe Betti e Valerio Lancia (che era stato anche il fe-
derale della città). Li libereranno i tedeschi il 13 settembre.
Racconterà Buratti: «Il 27 o 28 luglio del ’43 andai a Roma. Mi ac-
compagnai col capitano dei carabinieri Bracco che da Rimini era stato
trasferito a Roma… Quando, dopo una decina di giorni, tornai, il mio
amico e fascista Motta, commissario di PS mandò un agente a casa
mia -abitavo in piazza Malatesta- a vedere se c’ero. E poiché c’ero mi
mandò a dire che andassi da lui. Non temessi: era un amico e un
fascista. E mi mise in galera. Per protezione, mi disse».
Qualche altro personaggio in vista cerca raccomandazioni per il
futuro, presso gli antifascisti. È il caso dell’avv. Salvatore Corrias,
dell’Istituto di Cultura fascista, che va a trovare il socialista Mario
Macina, padre di quell’Ennio picchiato quattro anni prima dal pugile
Benito Totti per aver denigrato il passo romano con movenze frivole.
Corrias è il primo a fare discorsi antifascisti in piazza.
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Otto settembre, tutti a casa. Qualcuno organizza la resistenza ai


nazifascisti, come Carlo Capanna, uno studente riminese
dell’Accademia aeronautica di Forlì, che se ne scappa a Meldola con
un fucile, una pistola ed un grosso pacco di caricatori per il fucile. Il
10 settembre, giorno dell’occupazione tedesca di Roma, a Rimini due
autocarri-radio dei nazisti s’installano in piazza Giulio Cesare. L’11
una pattuglia di motociclisti germanici giunge sul piazzale della
nostra stazione ferroviaria. Il 12 alcuni reparti nazisti presidiano i
punti nevralgici della città. I Comandi tedeschi occupano i migliori
alberghi.
Lo stesso giorno la prefettura di Forlì pubblica un bando del
Feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante in capo tedesco in
Italia, che segna la resa italiana ai nazisti: «Il territorio dell’Italia a me
sottoposta è dichiarato territorio di guerra. In esso sono valide le
leggi tedesche di guerra». Soldati, ufficiali e comandanti italiani che
opporranno resistenza agli ordini emanati dai tedeschi verranno
trattati «come FRANCOTIRATORI». Sui proclami dei nazisti, notte-
tempo sono apposte strisce con «A morte i tedeschi e i fascisti»,
stampate a Morciano dalla tipografia di Luigi Cavalli.
Mussolini il 12 settembre è liberato a Campo Imperatore, sul
Gran Sasso, da un commando di paracadutisti tedeschi che lo
conduce in Germania. La notizia mette in agitazione la Milizia
riminese: un suo reparto sfila velocemente per il corso d’Augusto. Il
18 Mussolini parla da Radio Monaco: «Sono sicuro che la
riconoscerete: è la voce che vi ha chiamato a raccolta nei momenti
difficili». È una voce stanca che aveva perso i toni abituali. Nasce la
repubblica sociale italiana, la famigerata «repubblichina» di Salò.
L’Italia è divisa in due. Al Nord ed al Centro, tedeschi e fascisti. Al
Sud, il regno che ha per capitale Brindisi (e Salerno dall’11 febbraio
1944).
«Il fascismo della Repubblica sociale non fu un fenomeno
marginale e neppure l’ultima impennata di un regime destinato a
scomparire.» [L. Klinkhammer]

I tedeschi fanno scuola ai ‘nuovi’ fascisti di Salò: dal berretto


nero (copiato da quello delle SS tedesche), fino alla ferocia
dell’«occhio per occhio, pietà l’è morta», ed agli atteggiamenti contro
gli ebrei: «Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica».
Rispuntano i ras del terrorismo ad ogni costo. I tedeschi trattano i
repubblichini con distacco. Non si fidano. E la gente? «Nessun popolo
gradisce la presenza nei propri territori di forze armate straniere
emananti decreti e ordinanze e esercenti atti di imperio»: lo sostiene
Mussolini sul Corriere della Sera.
La sera del 12 settembre, a Rimini, i repubblichini Paolo Tacchi,
Perindo Buratti e Gualtiero Frontali s’incontrano nello studio di
quest’ultimo in via Bonsi con un gruppo di antifascisti cittadini, in
vista di un patto di non aggressione per evitare massacri «tra gli
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italiani». Racconterà Buratti: «Ci riunimmo per salvare Rimini dai


tedeschi al di sopra delle inimicizie di parte, animati solo da amor di
patria». Tacchi non ha mai parlato di quell’incontro, il cui spirito però
lo si può dedurre da parole che lui stesso scrisse a proposito della
costituzione del fascio repubblichino: «Difesa morale e materiale
dell’Italia» soprattutto nei confronti dei tedeschi.
Il comunista Decio Mercanti ricorda che la riunione «venne in-
detta nell’intento di gettare le basi per la costituzione di un Comitato
di Concordia tra fascisti e antifascisti», che «avrebbe dovuto portare
alla pacificazione fra le due parti per impedire delle rappresaglie». Nei
repubblichini forse agiva il ricordo di un’analoga iniziativa del 2
agosto 1921, quando Mussolini cercò invano di eliminare dal suo
partito le punte estremistiche ed eversive dello squadrismo agrario, e
propose un patto di pacificazione col partito socialista e con i sinda-
cati, che durò soltanto fino a novembre.
L’atteggiamento conciliatorio dei repubblichini riminesi si ri-
trova anche in altre città. A Ferrara il federale Igino Ghisellini
«propone un accordo con i partiti antifascisti» e «concorda una tregua
tra le parti». La sua è una «posizione tollerante» che si scontra con la
linea dura di Pavolini, Farinacci, Ricci e Mezzasoma. A rimetterci è lo
stesso Ghisellini: egli avrebbe voluto portare al congresso del pfr a Ve-
rona (14 novembre ’43) il suo progetto di pacificazione nazionale, di
accordo con i partiti antifascisti e di tolleranza per i protagonisti del
colpo di Stato del 25 luglio. Ma proprio quel 14 novembre Ghisellini è
ucciso in modo misterioso. Viaggia in auto. Il suo corpo, trapassato da
sei colpi di rivoltella, è trovato senza stivali e senza portafogli nella
cunetta della strada provinciale che porta al paesino dov’era sfollato.
L’assassinio è attribuito ai partigiani, anche se i carabinieri
dimostrano che il federale è stato ucciso da qualcuno che viaggiava
con lui. In seguito si diffonde la voce che Ghisellini è stato ammazzato
dai suoi. Lo stesso 14 novembre avviene la vendetta nella città di
Ghisellini, a Ferrara, con i tredici martiri del Castello.

Alla riunione riminese del 12 settembre sono presenti, tra gli


antifascisti, il dc Giuseppe Babbi, il socialista Gomberto Bordoni, il
comunista Isaia Pagliarani ed il repubblicano Dario Celli. Le te-
stimonianze sulle altre persone invitate all’incontro sono discordanti.
Secondo Perindo Buratti la riunione «si sciolse con un nulla di fatto».
Tutti sono stati «d’accordo per invocare una tregua fraterna allo
scopo di salvare la nostra città e tutti eravamo animati da questo
sentimento, ma quando gli antifascisti affermarono che non potevano
garantirci la calma nel territorio di nostra giurisdizione, noi fascisti
non potemmo se non rispondere che ad atti di guerra avremmo ri-
sposto con atti di guerra».
Per Decio Mercanti la riunione «si concluse su un accordo di
massima: necessità di un compromesso. E di ritrovarsi in un
successivo incontro con la redazione di un eventuale documento.
Questo non ebbe mai luogo. Il comandante tedesco infatti avendo sa-
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puto della riunione per la costituzione del Comitato, diede ordini al


capitano dei carabinieri Bracco (il quale ne informò il rag. Frontali)
che nessuna riunione di quel genere doveva aver luogo pena l’arresto
immediato di coloro che vi avessero partecipato. Quella fu l’ultima in-
formazione data da Frontali agli antifascisti che intervennero alla
prima e, quindi, unica riunione».
Ancora Buratti riferisce: «Rimanemmo a discutere fino a notte
alta. In verità» Babbi e Celli «erano per l’accordo, Bordoni ci pensava
sù e Pagliarani disse che non se la sentiva. E le ragioni non erano
tanto politiche ed ideologiche quanto pratiche. Perché noi fascisti
potevamo garantire ai tedeschi che non avremmo turbato l’ordine
pubblico con persecuzioni contro gli antifascisti perché avevamo
sotto controllo i nostri; i democristiani potevano assicurare che i loro
non avrebbero svolto azioni di disturbo contro le truppe tedesche, in
quanto potevano contare sulla organizzazione ecclesiastica; essendo
pochi, i repubblicani potevano passarsi la parola, ma i comunisti?
Bisogna dire, ammette Buratti, che Pagliarani fu onesto quando non
volle impegnarsi per i suoi dato che, allora, il partito comunista non
era organizzato. Sarebbe bastato un cavo telefonico manomesso da
non si sa chi per farci mettere tutti in galera. E così il patto di tregua
fallì».
Conferma Gualtiero Frontali: «L’iniziativa fu condivisa per
quanto si riferiva alla libertà, al rispetto delle idee politiche ma
incontrò difficoltà sull’impegno dei partiti a sconsigliare e vietare atti
di sabotaggio contro i tedeschi, e ciò per mancanza di contatti con i
partigiani. Ci si doveva riunire qualche giorno dopo ma fui diffidato
dal capitano dei carabinieri. Non era gradito, questo tentativo, ai te-
deschi forse perché temevano un accordo contro di essi. Ci si lasciò,
così, delusi. Restò solo l’impegno personale al reciproco rispetto e a
svolgere opera di concordia tra le varie correnti politiche».
Frontali e Mercanti, schierati su posizioni politiche opposte,
concordano su di un punto: l’intervento tedesco contro ogni tentativo
di pacificazione. Di quella riunione riminese c’è traccia tra i
documenti ufficiali della repubblica di Salò, in una relazione
prefettizia, secondo cui vi era stato nella nostra città un incontro dei
fascisti «con gli esponenti del CLN, conclusosi con l’impegno da ambo
le parti di evitare di molestarsi».

Il Cln di Rimini non si era ancora costituito alla data del 12 set-
tembre ’43. Aveva cominciato a prendere forma dopo l’8 settembre,
ma nascerà ufficialmente soltanto nel marzo 1944. Lo ricorda
Giuseppe Babbi, aggiungendo: «Inizialmente eravamo in tre con il
socialista Gomberto Bordoni e il repubblicano maestro Dario Celli. A
noi si unirono poi appartenenti ad altri partiti, come il comunista
Isaia Pagliarani, che però più tardi si distaccò da noi in seguito ad un
fiero litigio con Bordoni. Lo scopo delle nostre riunioni (talvolta ci
vedevamo nella casa del signor [Giovanni] Grossi nel borgo San
Giuliano, talaltra in altri posti sicuri) era di svolgere un’attività
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 16

politica di formazione democratica e di difesa contro il tedesco


invasore». L’iniziativa dell’incontro, spiega lo storico Stefano Pivato,
fu accolta da quegli antifascisti «a titolo personale. Coloro che par-
teciparono furono sconfessati dai loro partiti»: «la Federazione
clandestina del P.C. giudicò severamente il principio di un patto di
concordia che portava al tradimento degli ideali antifascisti, e
allontanò quelli che avevano partecipato, da posizioni di dirigenti».
Nozzoli definisce quella riunione «una sconcertante operazione
che ancor oggi non capisco come avesse potuto trovare udienza in
una parte del Cln». «Per quel che ne so», aggiunge, «pur dichiarandosi
certo della sconfitta, Tacchi disse che il fascio sarebbe stato ricosti-
tuito in ogni caso, con o senza il suo assenso, con una differenza: che
lui, conoscendo Rimini e i riminesi, avrebbe potuto far da mediatore
con i tedeschi, impedendo rappresaglie e interventi troppo pesanti ai
danni della popolazione, mentre un segretario venuto da fuori non av-
rebbe avuto certamente simili preoccupazioni». Era un «periodo con-
fuso», ed è difficile sapere «che cosa avesse in mente un uomo
imprevedibile» come Tacchi, prosegue Nozzoli: «Forse, rendendosi
conto che stava per mettere i piedi in un terreno minato, in un primo
momento, nel formulare le sua proposta, pensava veramente di fare
quel che prometteva… O forse no. In ogni caso soddisfaceva
contemporaneamente due esigenze: quella di mettersi alla testa del
fascismo riminese compiacendo i suoi superiori, e quella di
assicurarsi delle benemerenze con gli avversari in previsione della
sconfitta. In seguito, però, o perché travolto dalle passioni della lotta
o perché trascinato dall’ingranaggio del potere, cambiò volto e com-
portamento».
Veramente i repubblichini volevano «salvare Rimini dai tede-
schi»? Scrive Mercanti: «I fascisti che avevano aderito alla repubblica
di Salò divennero i collaboratori, le spie dei tedeschi, della Gestapo».
Celestino Giuliani, uno dei capi della Resistenza nel Riminese,
testimonia che «spie nazi-fasciste» erano sparse in ogni luogo.

Il 13 settembre sei tedeschi giunti a bordo di un’autoambulanza,


s’impadroniscono dell’aeroporto di Miramare: qui, racconta Carlo
Capanna, «erano scappati tutti, la gente rubava a più non posso. Per
procurarsi la benzina, qualcuno aveva sforacchiato i serbatoi degli
aerei». Alle 17 ufficiali nazisti si presentano alla caserma Giulio
Cesare, e la fanno sgomberare da due carabinieri. Nessuno reagisce.
Le truppe germaniche giunte in forza si installano nei punti periferici,
requisendo case per costituirvi magazzini di viveri.
Il 15 settembre Mussolini riprende «la suprema direzione del
Fascismo», come annuncia da Roma l’agenzia giornalistica Stefani.
Nomina Alessandro Pavolini segretario provvisorio del partito ed
ordina a tutte le autorità militari, politiche, amministrative e
scolastiche che erano state destituite dalle loro funzioni dal «governo
della capitolazione», di riprendere i loro posti.
Il 16 a Rimini nasce il fascio repubblicano, con venti iscritti. I
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 17

fondatori sono Paolo Tacchi, Giuffrida Platania, Cesare Frontali e


Perindo Buratti. «Scattammo una foto», ha detto Buratti: «Volevamo
che poi non venissero fuori a vantare primogeniture, come successe
per la marcia su Roma…». A capo del fascio, per tre mesi, c’è un
triumvirato capeggiato da Paolo Tacchi, con Frontali e lo stesso Bu-
ratti. Da dicembre, gli iscritti saranno un migliaio. E Tacchi ne
resterà a capo, diventando segretario. Il candidato favorito era
Buratti che però rifiuta, proponendo il nome di Tacchi: «Paolo se lo
meritava». E Tacchi viene eletto. Come vice è scelto Mario Mosca, un
ufficiale di artiglieria residente nel borgo San Giuliano.
Il perché della nascita del fascio riminese, lo spiegherà Tacchi in
una lettera al Carlino nel 1964: «La costituzione del f.r. derivò da un
motivo ideale e da un motivo storico: motivo ideale quello dell’uomo
che, avendo militato sotto una determinata bandiera nell’ora in cui
essa era vittoriosa, non la getta tra i rifiuti quando si profila l’ora
della sconfitta e se deve essere vinto vuol finire in piedi…». Ma il 31
agosto ’44 all’avvicinarsi del fronte alleato Tacchi scapperà da
Rimini, con la carovana dei repubblichini, e le sue due amanti, dopo
essersi procurato un certificato di partigiano.

Il settembre ’43, in tutta l’Italia del Nord, è il mese del sacco


tedesco. Lentamente nella repubblica di Salò quel generale tentativo
di pacificazione che era stato sperimentato in un momento di «paure,
prudenze, stanchezze, opportunismi» [G. Bocca], lascia il posto alla
guerra civile. La politica della mano tesa cede il passo allo scontro.
Alla fine di ottobre il ministro alla Cultura popolare, Fernando
Mezzasoma, interviene presso quei giornali che si sono distinti nel
raccogliere e propagare i messaggi di pacificazione, ed ordina di non
pubblicare più appelli «per la fraternizzazione degli italiani»,
aggiungendo: «Dopo quarantacinque giorni di avvelenamento
dell’opinione pubblica, di scandali, di predicazione dell’odio e di caccia
all’uomo, certe manifestazioni rivelano solo viltà e tiepidezza».
Il 23 settembre Mussolini giunge in aereo a Forlì, con i suoi
‘carcerieri’, l’ambasciatore Rudolph Rahn ed il generale delle SS Karl
Wolff. Sale alla Rocca delle Caminate, poco distante da Predappio,
dove il 27 avviene la prima riunione del governo di Salò. Si decide il
reclutamento di un nuovo esercito, «per volontariato e per
coscrizione». Ministro della Difesa nazionale è nominato Rodolfo
Graziani che il 5 ottobre annuncia la costituzione delle forze armate
dello Stato nazionale repubblicano. I tedeschi vogliono che il recluta-
mento sia obbligatorio, con addestramento delle reclute in Germania.
La legge sul nuovo esercito è del 28 ottobre, ma con effetto re-
troattivo: le forze armate di Salò «si intendono» costituite alla data del
9 settembre. In quel provvedimento, scrive lo storico Silvio Bertoldi,
«non vi è nessun rapporto con la realtà»: infatti, «mancano i mezzi, le
caserme sono semidistrutte, denari per pagare i soldati non se ne
trovano, non si sa nemmeno se le reclute si presenteranno e se vi
sarà il coraggio sufficiente per tentare l’arruolamento in simili
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 18

condizioni».
Il primo novembre Mussolini annuncia ad Hitler il richiamo alle
armi dei giovani del ’24. Ma con il bando del 9 novembre sono
chiamati i militari nati nel secondo e terzo quadrimestre del ’24,
quelli del ’23 e ’24 in congedo provvisorio (ossia, gente scappata l’8
settembre), e tutti quelli del ’25 della leva di terra. I prefetti sono
impegnati «personalmente» da Mussolini a far rispettare la chiamata:
«Il successo della presentazione sarà il segno sicuro della ripresa
nazionale».
I giovani rispondono in 51.162, secondo le cifre fornite a dicem-
bre da Graziani. Quelli dell’Emilia-Romagna sono in testa, con 16.415
militari. La nostra regione, con i suoi 72 mila iscritti al pfr, è la più
neofascista: ecco la ragione dell’alto numero di reclute. Una gran
parte di questi ragazzi scappa alla prima occasione. Ha scritto
Bertoldi: «Ognuno ha nella valigetta un secondo abito borghese per qu-
ando quello che indossa sarà ritirato e sostituito dalla divisa. L’abito
borghese è stato la grande risorsa dell’otto settembre. Chi
prudentemente lo aveva si è salvato. Chi non lo possedeva è finito in
Germania. I ragazzi sanno che anche stavolta c’è il rischio di finire in
Germania e si preparano. La lezione è servita».
Salò ordina in novembre di «passare per le armi» gli «elementi
antinazionali al soldo del nemico» che compiano «atti proditori nei
riguardi dei fascisti repubblichini».

Sta nascendo la resistenza armata. Molti salgono in montagna


per combattere contro i nazifascisti. Altri cercano rifugio come e dove
capita. Vercelli è un nome che fa paura. Lì vengono convogliati i
coscritti destinati alle Divisioni da inviare in Germania. Per
convincere le reclute ad obbedire, i fascisti di Salò ricorrono ad
«un’arma brutale, mai usata prima in Italia: l’arresto dei loro genitori
o dei loro fratelli in caso di mancata presentazione». Luigi Sapucci,
classe 1923, fuggito da Bologna dove prestava servizio militare
nonostante fosse stato fermato da fascisti armati, racconta che ogni
15-20 giorni i giovani chiamati alla armi «erano continuamente
invitati a partire a mezzo di cartoline precetto: ricordo che me ne
arrivarono sicuramente tre. Inoltre sovente venivano affissi sui muri
delle varie contrade bandi, con l’ordine di presentarsi, pena la fuci-
lazione sul posto».
Il 18 novembre è pubblicato anche a Rimini il bando del ten. col.
Dino Pancrazi, comandante del Distretto militare di Forlì, che
promette ai richiamati che consegnassero in caserma le armi, un
premio di 100 lire per una pistola, di 200 per un moschetto, di 500
per un fucile mitragliatore. Il bando «consigliava i richiamati di
portarsi dietro un cucchiaio, una forchetta, una scodella
(possibilmente metallica) ed un asciugatoio». Per convincere i giovani
ad obbedire agli ordini di Salò il nuovo comandante del Distretto, col.
Dominici, il 25 novembre «rende noto che per quei giovani che non si
presenteranno alle armi il Capo della Provincia denuncerà al Tri-
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 19

bunale i capifamiglia».
L’immagine della morte accompagna la repubblica di Salò sin
dal suo nascere. Il 5 novembre, il segretario del pfr Alessandro
Pavolini incita i suoi uomini ad applicare i metodi di repressione usati
dai tedeschi: «Di fronte al ripetersi di atti proditori nei riguardi dei
fascisti repubblicani per parte di elementi antinazionali al soldo del
nemico», egli «ordina alle squadre del partito di procedere
all’immediato arresto degli esecutori materiali o dei mandanti morali
degli assassinii», e di passarli per le armi «previo giudizio dei Tri-
bunali speciali». «Praticamente», osserva Arrigo Petacco, «le squadre
hanno carta bianca di arrestare chi meglio credono. È l’inizio di una
spirale di violenza che insanguinerà il paese e della quale Pavolini
sarà il principale responsabile». Intanto, i tedeschi deportano 600
mila soldati italiani.

Appena nasce a Rimini il nuovo fascio, appaiono per le strade i


simboli di una violenza che terrorizza. Dopo la riunione di dicembre
al Cinema Impero, durante la quale viene scelto come segretario
Paolo Tacchi, «si vide subito di che pasta erano fatti i nuovi militi. Non
avevano ancora dato il nero agli scarponi e messo in ordine le divise
grigio-verdi, prelevate da chissà quale fondo di magazzino, ma
avevano già il moschetto a tracolla e un piglio piuttosto truculento»,
racconta Guido Nozzoli, classe 1918. Quei militi inscenano «alcune
bravate. Quelli che mi trovai di fronte davanti al Palazzo Gioia, alla
fine della loro adunanza, pur essendo dei ragazzini, con un’arma a
portata di mano dovevano sentirsi importantissimi».
Giulio Mancini, classe 1927, ricostruisce quei momenti: «Una
mattina mi trovai in centro a Rimini, per fare delle spese; ci fu un
rastrellamento; i fascisti avevano fatto dei posti di blocco per la città,
negli incroci avevano rastrellato tutti i ragazzi che lavoravano per i
tedeschi, in stazione, a chiudere le buche delle bombe, e ci portarono
tutti alla Colonia nel fiume». (La Colonia solare Montalti sul
Marecchia alle Celle, era divenuta la sede del fascio repubblichino.)
Prosegue Mancini: «Loro ci hanno preso, ci hanno messi in fila, con
violenza, e poi ci hanno chiusi in una camera, ne facevano uscire due
alla volta e cominciavano a menare… Cominciavano col farci mettere
in ginocchio, con le mani per terra, su con la testa; partivano con una
piccola rincorsa, e calci nel sedere e via; poi ricominciavano sempre
da capo, sette, otto, dieci volte…».
Mancini è «riuscito ad avere meno botte degli altri. Alcuni li
hanno portati anche nel fiume e li buttavano giù nel gorgo, poi quando
si arrampicavano per venire su, gli pestavano le mani; sono
intervenuti anche i tedeschi e molti sono stati parecchi giorni a casa,
perché erano feriti nelle mani. Io mi sono salvato perché Tacchi (che
aveva la moglie sfollata a Covignano, alla villa Ruffi, io abitavo lì
vicino), Tacchi si è interessato a guardare i documenti e mi ha man-
dato via subito». I tedeschi vanno a protestare con Tacchi, perché con
i pestaggi sottrae manodopera alla Todt, l’organizzazione germanica
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 20

del lavoro: «e Tacchi ha avuto delle grane» conclude Mancini.


Giacomo Signoretti, classe 1925, ricorda i repubblichini di
Tavullia, «gran parte ragazzi di 16-18 anni, che sovente si davano a
furti, saccheggi e alla caccia di giovani che non avevano risposto alla
chiamata alle armi». Quelli che venivano catturati, i repubblichini li
picchiavano e torturavano, e poi li fucilavano come «traditori della
patria». A suo fratello Augusto tagliarono «i capelli a mò di croce»,
prima dell’esecuzione capitale. Con Augusto Signoretti furono uccisi
altri quattro giovani del posto: Giuseppe Benelli, Nino Balducci, Ivo
D’Angeli e Celestino Gerboni. «Dopo la fucilazione i loro corpi vennero
abbandonati, e soltanto la pietà dei cittadini di Tavullia provvide a
raccogliere i corpi straziati dei poveri giovani barbaramente
assassinati».
Il dottor Alberto Sirocchi, cognato dello scrittore Gianni Quonda-
matteo, ricorda un’azione partigiana, più umanitaria che politica
forse: «l’incursione notturna nel Comune di Gemmano per asportare
dagli uffici di Stato civile e leva, i registri e tutti gli schedari della
popolazione e per distruggere i nominativi di tutti i giovani che
potevano essere soggetti alla chiamata alla leva da parte della repub-
blica sociale». «L’operazione si svolse senza nessun intoppo», precisa
Sirocchi, «dei registri e delle schede, portati nella canonica, venne ef-
fettuata una cernita: quelli da salvare, furono nascosti in ripostigli
della canonica stessa e quelli da distruggere, vennero bruciati
accanto alla chiesa in tombini che un tempo servivano per la
sepoltura dei morti».
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 21

CAPITOLO IV
REPUBBLICHINI E NAZISTI

Il calvario di Rimini inizia il primo novembre 1943 alle 11.50


con una missione di diciotto aerei inglesi divisi in tre squadriglie.
Continuerà fino all’alba del 21 settembre 1944, giorno della
liberazione. Ci saranno in tutto 396 bombardamenti. Non resterà in
piedi che qualche brandello di muro.
La gente scappa senza una meta precisa, racconta nel suo diario
Flavio Lombardini: «Sul volto di ciascuno si notava la disperazione». Il
4 novembre ’43, venticinquesimo anniversario della Vittoria, sono se-
polte le vittime del bombardamento di tre giorni prima. Vengono
stampati e diffusi migliaia di volantini con la scritta «basta con la
guerra: vogliamo la pace e il ritorno alla libertà». Chi li ha pubblicati?
Annota Lombardini: i responsabili sono «da ricercarsi fra i
‘sovversivi’ d’ispirazione anarchica». Ma il desiderio di pace non
fioriva soltanto fra i seguaci di Bakunin. «I borghi Marina, San
Giuliano e Sant’Andrea, maggiormente indiziati, vengono
minuziosamente setacciati. Segni iniziali di resistenza. Se qualcuno si
muove, i tedeschi distruggono tutto. Si registrano alcuni arresti fra
gli elementi più sospetti».
Il 27 novembre lascia il suo incarico il Commissario prefettizio
avvocato Eugenio Bianchini. Lo sostituisce Ugo Ughi, il cui nome è
stato imposto al prefetto di Forlì da Paolo Tacchi. Ughi, nato a Rimini
nel 1908, è un funzionario dell’ente ospedaliero cittadino. Capitano
combattente sul fronte albanese e su quello greco, l’8 settembre era a
casa in licenza. Ughi accetta controvoglia, ma prima tenta di rifiutare
l’incarico. Cerca di utilizzare ambiguamente la cartolina precetto che
gli è appena arrivata. Dice all’Esercito che deve fare il Commissario in
Comune a Rimini, e comunica alla Prefettura che deve partire per le
armi. Tenta cioè di servirsi della cartolina come «arma per evitare»
sia il ritorno in divisa sia la nomina politica. Da Forlì lo costringono a
scegliere: «Non c’erano scappatoie e scelsi l’incarico civile».
Nelle sue memorie Ughi ricorda «i veti e le pretese dei Comandi
Tedeschi». Scrive Lombardini, sotto la data dello stesso 27 novembre
1943: «I tedeschi la fanno da padroni assoluti. Il loro comportamento
nei confronti delle Autorità civili e dei pochi riminesi che vivono ai
margini della città o sfollati nelle campagne… si palesa aggressivo,
spesse volte disumano. Sentono per noi un disprezzo senza limiti… e
lo dimostrano con retate di giovani, razzìe di bestiame, cereali, auto-
mezzi…». Cominciano ad operare i partigiani: «Vengono abbattuti pali
telefonici, poste mine anticarro, messa in opera ogni forma di sa-
botaggio». La reazione tedesca è dura, spietata. I civili sono costretti a
lavori massacranti. Al mare si demoliscono le ville e si distrugge il
viale Principe Amedeo per creare postazioni di difesa antisbarco.
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 22

Il 26 ottobre ’43 il Commissario Prefettizio ha avvisato: «In caso


di nuovi atti di sabotaggio comunque compiuti il Comando militare
germanico procederà alla deportazione dei cittadini in ostaggio»: da
parte italiana i colpevoli sarebbero stati puniti con la pena di morte.
Noi dunque peggio dei tedeschi. Ai nazisti non piacerà lo zelo dei
repubblichini riminesi. Comunque tra fascisti di Salò e tedeschi ci
sarà sempre uno scambio di favori in nome della stessa causa ed in
vista di un fine comune. I fascisti fanno da spietati servitori ai nazisti.
Testimonia il pittore Demos Bonini: «Una notte, il ras della Ri-
mini repubblichina [Paolo Tacchi], venne ad arrestarmi come
ostaggio politico, e assieme ad altri otto finii nelle mani dei tedeschi…
Fummo portati al Comando di Villa Spina sulle colline riminesi e
passammo tre giorni in uno stanzone vuoto, in piedi o sdraiati sul
pavimento…». Era il dicembre ’43: «Poi venne la fine della prigionia,
ma la vigilanza della polizia politica era sempre presente. Così co-
minciò la lunga fuga, mai in casa, via per le montagne vicine, par-
tenza all’alba, e ritorno alla sera».
Pietro Arpesella, che a Riccione aveva partecipato al salvataggio
di tre generali inglesi, ricorda quanto si fosse dato da fare Paolo
Tacchi per catturare lui e gli altri antifascisti che avevano agito in
quell’occasione. Ad aiutarlo, ci furono i carabinieri, «rischiando di
persona»: il maresciallo Fico, attraverso il brigadiere in pensione
Russo, fa sapere ad Arpesella che Tacchi ha dato un ordine preciso: se
lo prendono, non arrestarlo ma fucilarlo sul posto.
La famiglia Lanzetti subisce le ire di Tacchi per aver dato ospi-
talità ad un soldato inglese. All’arresto dei fratelli Gino ed Anselmo
segue il loro trasferimento a Lugo, dove i due vengono colpiti con
«botte da orbi». A Bologna deve svolgersi il processo contro di loro, li
salva un bombardamento: «Avevamo una scorta di dodici persone con
due carabinieri; i dodici se la sono squagliata» ed i due carabinieri
dicono ai Lanzetti: «Noi vi diamo la libertà». Maria Geroni, moglie di
Anselmo Lanzetti, aggiunge: «Dopo l’arresto di mio marito, una sera si
presenta Platania e si mette a parlare», dicendo che «Tacchi voleva
che la famiglia dei Lanzetti fosse sterminata».

Dopo i bombardamenti del 26 novembre e del 28, 29, 30


dicembre, Rimini diventa una «Città morta»: così la definisce Ugo Ughi
nel suo rapporto al prefetto, scritto il 2 gennaio ’44. «Una sola cosa mi
conforta», scrive Ughi, «che Iddio e gli uomini dopo la sperata vittoria
vendichino tanta strage e tanti danni arrecati su una Città inerme…».
Le relazioni di Ughi al prefetto sono una fonte di cronaca sulla vita a
Rimini sotto i bombardamenti, con i segni della realtà politica di quei
giorni. I protagonisti sono divisi su due opposti palcoscenici. Da una
parte la gente comune, con la sua sofferenza in quel tragico spettacolo
di morte, con la distruzione lenta della città voluta non dal caso ma
dai piani di guerra decisi dopo la conferenza di Teheran, svoltasi dal
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 23

28 novembre al 2 dicembre ’43. Dall’altra, il capo


dell’amministrazione pubblica che ostenta sicurezza nella «sperata
vittoria» e negli incrollabili destini della Patria, secondo gli ultimi
scampoli della logora retorica di regime.
A volte sembra quasi che Ughi non riesca a rendersi conto di
quanto scrive. Dopo i bombardamenti succedutisi dal 28 al 30
dicembre ’43 egli riferisce: «La cittadinanza -percossa da così vasta
sciagura- ha mantenuto contegno calmo e, vorrei dire, spartano: gran
parte lavoravano sulle macerie…». Don Angelo Campana racconta
invece che quei «tre bombardamenti costrinsero tutti ad andare via,
ben pochi rimasero» in città. Dopo l’incursione del 21 gennaio ’44
Ughi osserva: «La popolazione presente in Rimini ha tenuto un
contegno tranquillissimo: i bombardamenti subìti l’hanno già
spiritualmente corazzata». Ed aggiunge di sperare nella «risurrezione
di Rimini». «Tutta Rimini e dintorni in campagna!», riporta don
Serafino Tamagnini nella «Cronaca parrocchiale» di Vecciano
(Coriano). Il potere mostra certezza in se stesso, pur in mezzo alle
difficoltà: «Durissimo il mio compito - quello del camerata Tacchi Se-
gretario del Fascio… attivissimo il Fascio». Tra la gente si acuisce
«l’odio ai fascisti, causa di tutti i guai d’Italia», spiega don Tamagnini.

Il 30 gennaio ’44 Ughi definisce Rimini una «Città quasi deserta».


Il giorno prima le bombe hanno arrecato «irreparabile offesa» al
Tempio malatestiano: «Dall’immane ferita aperta verso il cielo non più
sale a Dio la preghiera dei fedeli, ma sì una invocazione di giusta
vendetta contro gli assassini degli innocenti e i distruttori dei più alti
valori dello spirito e della civiltà umana», dei quali ovviamente i
fascisti si sentono eredi ed incarnazione. Le autorità sono sempre «sul
posto prima del cessare dell’allarme». «Calmo ed ordinato il contegno
della popolazione presente»: Rimini dà un esempio «meritevole… di
essere posto all’ordine del giorno della Nazione».
Don Tamagnini scrive: «La storia d’Italia e del mondo non ha
forse visto spettacolo più triste! Che orrore! Che disfatta! Povera
Patria! Povera Rimini!».
Dalle campagne e dai Comuni limitrofi, scendono a Rimini i
«corvi umani», contro cui nulla può, precisa Ughi, «la dinamica energia
del Segretario del Fascio», Paolo Tacchi. Nelle retrovie, racconta don
Tamagnini, i tedeschi procedono al saccheggio «delle nostre belle
contrade. Razzìe di bestiame, rubamenti a mano armata nelle case e
nei campi, oltraggi alle persone…». Il 23 marzo ’44, Ughi elogia ancora
il comportamento «veramente ammirevole» della popolazione di
Rimini che «merita di essere additata ad esempio di elevatezza
morale, di sentimento patriottico, di spartano stoicismo non solo alle
Città di Romagna, ma a tutta l’Italia». «Serenità e stoicismo», ribadisce
tre giorni dopo, quando viene sconvolto il Cimitero: «…oggi anche la
maledizione dei morti» perseguita «i selvaggi nemici».
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 24

«Serenità». La gente vive invece nel terrore. Dal cielo, arrivano


le bombe. E sulla terra ci sono repubblichini e nazisti. I tedeschi
rastrellano in continuazione la popolazione per i lavori forzati.
Qualcuno riesce a fuggire col cuore in gola, gettandosi tra l’erba alta
dei campi della periferia. E per trovare forza a continuare a scappare
e placare l’arsura, mangia fili d’erba. Qualcun altro è meno fortunato.
Athos Olmeda, un riccionese di diciotto anni, è ucciso per essere
andato a bere ad una fontanella: i tedeschi sospettavano una fuga.
Nella piazza di un paese della Val Marecchia, un soldato tedesco
sporge dal telone posteriore di un camion, con una mano dalla quale
tende «una borraccia seguita da una voce lamentosa che chiedeva
“Wasser!”», acqua. Un ragazzo di dodici anni vuole vedere, e
s’avvicina a quegli autocarri nazisti «carichi di morti e di feriti».
Caritatevolmente, il ragazzo afferra la borraccia, corre alla fontana,
mentre il veicolo si avvia: «Un altro braccio improvvisamente si
sporge dal camion, agguanta per i polsi il fanciullo con borraccia e
tutto e lo issa di peso dentro l’automezzo…», sotto gli occhi del padre e
della madre. Invano il ragazzo tenta di liberarsi. Il suo destino è
ormai segnato da quella borraccia. Non ritornerà più a casa,
«scambiato probabilmente per una staffetta partigiana o comunque
uno scampato a una strage e perciò nemico e da trattenere…». Solo
mezzo secolo dopo, scrive Rodolfo Francesconi, il suo destino è stato
ricostruito perché «il nome, puntigliosamente, figura ancora in due
elenchi: quello di un carico arrivato ad Auschwitz e, quello più
terribile, di un gruppo di prigionieri avviati alla camera a gas».
La strada per Auschwitz passa da Forlì, dove all’albergo
Commercio in corso Diaz, è allestito nel ’44 un «campo di concentra-
mento degli ebrei» della nostra provincia. Non si sa quante persone vi
siano state segregate. Grazie alle ricerche di Paola Saiani si sa che a
Forlì furono compiuti due eccidi restati sconosciuti: il 5 settembre (30
vittime, 26 identificate di cui 10 ebree), ed il 17 settembre (7 donne
ebree uccise: erano le madri, mogli e sorelle delle vittime precedenti).
Spararono le SS tedesche, i repubblichini vigilavano attorno. Gli
uccisi erano italiani e stranieri, tutti arrestati nella provincia e
trasferiti a Forlì nel tragico hotel sulla via di Auschwitz. Una
testimone di quegli orrori fu suor Pierina Silvetti che nel ’44 era
assistente al reclusorio femminile del capoluogo, e che ricorda i fatti
in un diario: «Credevamo davvero che le donne sarebbero state rispar-
miate, perché un ufficiale delle SS ci aveva assicurato che le av-
rebbero rimpatriate. […] Poche ore dopo sapemmo la terribile verità,
erano state fucilate» alle Casermette, in aperta campagna. Nella
primavera del ’45, suor Pierina fu portata dal Comando alleato a
riconoscere quei corpi che «giacevano decomposti l’uno accanto
all’altro, tutti portavano i fori dei proiettili alle gambe e alla testa».

I nazi-fascisti all’inizio del ’44 mettono in atto un piano di


spoliazione per lasciare agli italiani ed ai loro alleati soltanto «terra
bruciata». I documenti non sono numerosi, scrive Bruno Ghigi, ma
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 25

appaiono sufficientemente eloquenti per dimostrare «quali altri


terribili rischi, oltre ai continui bombardamenti» avrebbe corso Ri-
mini se i tedeschi avessero potuto portare a termine i loro piani di
demolizione di seicento tra case e ville. Il Commissario straordinario
Ughi il 4 aprile ’44 invia al Prefetto un’allarmata relazione su
Bellaria, parlando di un’«eccitazione, ora allo stato di ebollizione»
capace di esplodere «al verificarsi delle demolizioni»: «il dolore e l’ira e
l’angoscia dell’attesa fanno velo e impediscono il giudizio sereno e la
rassegnazione». Per Rimini «è palese una maggior compostezza nel
racchiuso dolore», perché «parte dei proprietari degli edifici in
demolizione appartiene al ceto medio in possesso di qualche altra
risorsa economica».
Il linguaggio del Commissario straordinario oscilla in
un’ambiguità disarmante. Per i bellariesi s’invoca «un intervento di
più alta autorità», capace «forse» di «abbinare l’azione di
convincimento alla sia pur vaga eventualità di misure di energie» per
«sedare gli animi». Il Commissario Ughi non poteva ignorare che le
misure energiche venivano prese, se necessario, e non studiate come
«vaga eventualità».
Il «Piano di evacuazione» avrebbe costretto i riminesi ad una
deportazione a tappe forzate in sette giorni fino a Tebano (Ravenna),
nella zona all’incirca di Riolo Terme. Erano 114 chilometri da
percorre a piedi con questa scansione: 20 (Rimini- Montalbano
attraverso Canonica), 13 (Montalbano-Longiano-Calisese), 18
(Calisese-San Carlo), 16 (San Carlo- Fratta), 15 (Fratta-Vecchiaz-
zano), 12 (Vecchiazzano-Villagrappa) e 20 (Villagrappa-Tebano). «Gli
sfollandi potranno trasportare con loro indumenti ed oggetti stret-
tamente necessari», dice il «Pro memoria» della Prefettura di Forlì (13
aprile ’44), che citava «ordini pervenuti dal Comando germanico». Il
piano interessava una profondità dalla costa di circa dieci chilometri.
Il 30 aprile il Commissario Ughi rende noto che «per ordine delle
autorità militari germaniche è fatto obbligo alla popolazione di
evacuare, entro il giorno 15 maggio» le zone costiere, mentre il
Comune si riserva «di trattare colle autorità militari germaniche circa
la possibilità di permanere o accedere ai poderi, orti e terreni […] ai
fini della coltivazione e della custodia e raccolta del bestiame e dei
prodotti». Secondo gli ordini tedeschi, non sono state concesse
eccezioni: lo sgombero è «assolutamente obbligatorio per tutti, e
perciò anche per la popolazione colonica e per la massa del bestiame».
Perché il piano non venne attuato? Ha scritto Maurizio Casadei
che la causa va rintracciata nella «ferma opposizione in massa della
gente e delle amministrazioni locali». Mutava anche la situazione
militare al Sud d’Italia. La sera dell’11 maggio inizia l’offensiva
alleata contro la «linea Gustav» che seguiva il corso del fiume
Garigliano dalla foce a Montecassino e poi, attraverso l’Appennino
molisano, arrivava all’Adriatico. Il 18 maggio il corpo polacco inserito
nell’VIII armata britannica riesce, dopo durissimi combattimenti, a
impossessarsi di Montecassino dove i tedeschi avevano installato
artiglierie che tenevano sotto controllo la parte decisiva del fronte. La
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 26

«linea Gustav» era spezzata. E il 4 giugno Roma viene liberata. Per la


costa riminese non si parla più della deportazione dei civili.

Il 18 febbraio 1944 ai renitenti e ai disertori è comminata da


Graziani la pena di morte, dopo una protesta di Kesselring su
quell’esercito che è una «burletta». Graziani chiama anche alle armi le
classi ’22 e ’23, ed il primo quadrimestre del ’24, entro il 25 febbraio.
Pena di morte a chi non si presenterà. Uguale trattamento a chi si as-
senterà «per tre giorni». Adesso, i soldati che scappano, li chiamano
«assenti». Poi Graziani fa marcia indietro. Perdona chi si è presentato
prima del 9 marzo, e quelli che, arrestati entro tale data, si arruo-
leranno “volontari”. Infine, i disertori costituitisi non saranno uccisi
ma mandati in galera per un minimo di dieci anni.
Nel marzo ’44, racconta Luigi Sapucci, «il problema di rimanere
a casa stava diventando sempre più difficile, perché la repubblica
sociale aveva messo insieme una certa rete di informatori». Sapucci
decide di arrendersi agli eventi, si arruola, viene mandato come aiuto
cuciniere a Padova. Qui trova due compaesani di Mulazzano, Libero
Pedrelli e Ottorino [Vittorio] Giovagnoli, che diserteranno, saranno
ripresi nelle loro case, e poi fucilati: «Alla fine della sparatoria diversi
tedeschi corsero ad immergere le loro dita nel sangue ancor caldo che
sgorgava dai corpi delle due vittime e a sbaffiare i nostri volti di-
cendoci: “Buono sangue italiano?”». Il 25 aprile ’44, Graziani pro-
mette il perdono agli «sbandati».

«A Viserba, c’era un fascista che tutti i giorni si metteva in


mezzo alla strada, in divisa nera, pistola al fianco, due pugnali alla
cintura, mentre un disco suonava ‘Giovinezza’», rammenta Nicola
Padovani, classe 1921. A Viserba, nella corderia, vengono rinchiusi
gli italiani rastrellati dai tedeschi e dai repubblichini. Salvatore
Berardi, classe 1932, giocando con altri ragazzi suoi coetanei, aveva
scoperto per caso che una specie di fogna collegava la corderia con la
fossa esterna dove scorreva l’acqua per il mulino: «Essendo dei
bambini noi allora potevamo girare senza paura e così ci av-
vicinammo ai cancelli», per avvisare i prigionieri italiani di quella
possibile via di fuga. «Ne sono usciti molti, e a guerra finita, in tanti
sono ritornati qui per ringraziarci».
Ma nella corderia si trovano anche i «turkestani prigionieri dei
tedeschi». Addestrati dai nazisti, «quando iniziarono ad uscire dalla
corderia si dimostrarono subito più cattivi degli stessi tedeschi,
perché quando vedevano i giovani cercavano di catturarli per portarli
come prigionieri alla corderia».

La gente ricorda i rastrellamenti operati dai militi di Salò


assieme ai tedeschi. Un episodio accaduto in Valmarecchia a Ponte di
Casteldeci: «I rastrellatori tedeschi… oltre il bestiame razziato
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 27

avevano nove ragazzi che consegnarono ai repubblichini… Per


evitare che durante la notte i prigionieri fuggissero, li avevano messi
sul ponte, e all’entrata e all’uscita del ponte s’erano accampati
centinaia di militi».
Nonostante questo imponente servizio di sorveglianza, un ra-
strellato di origine slava riesce a fuggire. «Al mattino presto i militi
prendono gli altri otto prigionieri, ad uno ad uno gli tagliano i capelli
con la baionetta, asportando anche diverse parti della pelle della
testa, poi li conducono nel fiume e gli chiedono qual era il loro ultimo
desiderio…». Uno di quei ragazzi vuole una sigaretta, come nei film.
Un altro va a lavarsi il viso nell’acqua del fiume, altri bevono: «Poi li
fecero mettere tre per tre, con le braccia incatenate l’uno all’altro, e
quando erano a posto un milite dalla strada li ha falciati con un mi-
tra». Era il sabato santo, 8 aprile 1944.
I repubblichini spogliarono di scarpe, portafogli e documenti
quei giovani, e stavano per andarsene quando si accorsero che uno di
loro era ancora vivo: un grosso busto di gesso che indossava, aveva
ridotto l’effetto delle pallottole. Si era alzato dal mucchio dei cadaveri,
chiedendo perdono: «Sono figlio di mamma anch’io, lasciatemi vivere».
Una seconda raffica lo fulmina. Poi «il brigatista boia, prende delle
bombe a mano e le lancia sui cadaveri, riducendoli in uno stato
pietoso». La testimonianza è di Benedetto Carattoni.
A Tavullia, le bombe a mano i repubblichini le tirano contro la
popolazione inerme che attende un’assegnazione di grano. Ricorda
Carlo Toni che dopo l’otto settembre fu costretto dai carabinieri di
Cattolica a presentarsi al Distretto militare di Forlì, dove assistette
alla fucilazione di un gruppo di reclute (che rifiutavano di indossare
la divisa di Salò), e di altri soldati che avevano tentato un’evasione:
«Le fucilazioni furono eseguite alla presenza delle reclute in modo da
intimorirle a non tentare altre fughe». A Gabicce, c’era il Comando dei
Bersaglieri di Salò: due militari che hanno tentato di scappare, Rasi e
Spinelli, vengono ripresi e giustiziati entro le mura del cimitero di
Cattolica.
Una pensionata comunale di Tavullia, Luigia Benelli, così ritrae
la situazione della primavera del ’44 nel suo paese: con l’arrivo di
molti militi della Legione Tagliamento, comandati dal cap. Antonio
Fabbri, quella popolazione, «visse giorni tristi, difficili e tragici».
Anche qui cinque giovani fucilati accanto alle mura del cimitero per
non aver risposto alla chiamata alle armi. Tra i fascisti, ricorda la
Benelli, «oltre ai fanatici, vi erano anche dei buoni ragazzi, ingannati,
costretti a dover prestar servizio militare perché presi in rastrella-
menti». Ne ricorda uno, con la testa rapata a zero, per punizione:
aveva rifiutato di partecipare al plotone di esecuzione. Un altro era
stato incarcerato, e raccontava: «Vede, per non fare del male agli altri,
mi hanno messo in prigione».
Nella settimana santa del ’44 tedeschi e repubblichini danno la
caccia ai partigiani tra i monti della Val Marecchia: siamo a Fragheto,
frazione di Casteldeci. Candido Gabrielli, classe 1921, vede arrivare i
partigiani che portano con loro un soldato germanico. «Lo scontro tra
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 28

partigiani e tedeschi… durò tre o quattro ore», e si risolse con la fuga


dei partigiani, sopraffatti dalle truppe hitleriane. Il tedesco
prigioniero riesce a scappare, raggiunge il suo Comando che decide
un’azione di rappresaglia contro la popolazione di Fragheto, rea di
aver ospitato i partigiani. I nazisti passano casa per casa, «uccidendo
vecchi, donne, bambini». Le case vengono incendiate. È il venerdì
santo. Le vittime civili furono 33, tra cui «un bimbo di 18 mesi», come
scrive Guglielmo Marconi nelle sue memorie dove è riportato un
bollettino militare partigiano sullo scontro armato tra partigiani e
tedeschi, prima dell’eccidio: «Dopo quasi tre ore di combattimento i
tedeschi lasciavano sul terreno più di cento [uomini] tra morti e
feriti, mentre i nostri reparti si ritiravano con soli quattro morti e due
feriti leggeri». Poi, «i tedeschi fucilarono trentatré persone della
popolazione locale, unicamente responsabile dell’esser stata vicino al
luogo del combattimento». Marconi parla di responsabilità di
«brigatisti italiani» e di «sete di sangue dei fascisti» che «si scagliò
anche sui pochi civili, vecchi, donne e bimbi del luogo… senza che fos-
sero colpevoli di atti di guerra».
La domenica di Pasqua, mons. Luigi Donati si unisce a Ponte
Messa ad un gruppo di persone che stava andando a Fragheto: «Ci
siamo trovati di fronte ad uno spettacolo terribile, raccapricciante.
[…] La maggior parte delle case bruciate aveva il tetto di lastre che
era crollato seppellendo persone e cose, lì sotto il fuoco ardeva
ancora». A chi gli chiedeva notizie, nei giorni successivi, sulla ferocia
di tedeschi e repubblichini, abbattutasi a Fragheto, mons. Donati
rispondeva: «Mi vergogno di essere uomo».

I Tre Martiri di Rimini rappresentano bene l’immagine di gente


comune, oscuri attori che la cieca violenza nazi-fascista fa diventare
protagonisti, recidendo vite giovani. Sono ragazzi costretti a vedere
nella lotta armata l’unica strada per riconquistare la libertà per tutti.
La Resistenza (quasi sempre) fece dimenticare ai suoi uomini le dif-
ferenze sociali, e quelle ideologiche. A ricrearle, quelle differenze,
spesso ci hanno pensato gli storici, quando hanno ricostruito le
vicende di quei momenti.
In una stanza al pianterreno del convento delle Grazie, trasfor-
mata in prigione, trascorsero le loro ultime ore Mario Capelli (23
anni), Luigi Nicolò (22) e Adelio Pagliarani (19), i Tre Martiri, che
erano stati sorpresi nella base partigiana di via Ducale a Rimini.
«Penso che siano stati collocati lì, perché quella stanza funzionava già
da prigione e, per di più, il luogo non era molto lontano dal Comando
tedesco»: infatti erano frequenti le ispezioni dei militari germanici.
Così ricorda quei momenti padre Teodosio Lombardi che allora si
trovava nel convento del Covignano. Prosegue padre Lombardi: «Il
padre Callisto Ciavatti… ebbe contatti con i tre partigiani e li visitò
più volte, fino al giorno in cui furono condotti nella piazza Giulio
Cesare di Rimini per essere impiccati». Era il 16 agosto ’44.
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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Nel 1946 padre Ciavatti inviò al tribunale di Forlì, dove si discu-


teva la causa per la morte dei Tre Martiri, una deposizione scritta che
ricostruisce in maniera molto particolareggiata quanto avvenne alle
Grazie il 15 agosto 1944: quel giorno, scriveva padre Ciavatti, «fui
informato dal Comando tedesco di Covignano della cattura operata
dal Segretario Politico di Rimini [Paolo Tacchi], di tre giovani della
città di Rimini. Fui pure informato che sarebbero stati giustiziati
l’indomani mattina. Mi presentai al Comando tedesco alle 19 del
giorno stesso, dopo aver porto ai tre prigionieri il mio primo saluto. I
tre prigionieri, sottoposti evidentemente a torture, erano in condi-
zioni pietose. Il Comando tedesco, dopo ripetute richieste, mi
concesse di portare l’assistenza spirituale ai detenuti, il mattino
seguente alle 6.30. Successivamente però potei ancora intervenire,
attraverso l’interprete, onde commutare la pena di morte nella depor-
tazione. Alle 20 circa uscii dal Comando di Covignano, con la
promessa fattami, tramite l’interprete, di rivedere la cosa e con
l’ordine di non presentarmi al mattino successivo, attendendo nuove
disposizioni. Ma fatti pochi passi, incontrai Tacchi. Egli mi chiese in
tono perentorio il perché della mia visita e, alle mie spiegazioni,
esclamò: “Niente da fare, padre. La giustizia umana è ormai
compiuta”. Ma il dubbio che mi percosse in quel momento, diventò
certezza allorché, incontrato di nuovo il Tacchi, verso le 22, egli ebbe
ad esclamarmi: “Padre, lei è servito!”. Poco dopo l’interprete mi con-
fermava la condanna a morte per impiccagione dei tre giovani».
Padre Lombardi, la mattina dell’impiccagione dei giovani, si
reca a dir Messa nella chiesa di San Gaudenzio: «Nel ritorno al con-
vento», racconta, «vidi i Tre Martiri, legati con le mani dietro la
schiena, scortati dai tedeschi, che si dirigevano verso Rimini».
Padre Amedeo Carpani, che si trovava pure lui al convento del
Covignano, il 16 agosto mattina si alzò alle tre e andò subito sotto il
portico della Chiesa, «pensando al destino dei poveri giovani». Non ha
più speranze di salvarli dall’esecuzione capitale. La sera prima, è
andato assieme a padre Callisto Ciavatti, a scongiurare il Comando
tedesco «di non ucciderli, ma di portarli eventualmente in Germania».
Conferma padre Carpani: «Non ci fu niente da fare, anche perché
Tacchi, che comandava a Rimini, era molto deciso a giustiziarli».
Padre Carpani, alle sei di quel 16 agosto, vede arrivare «sul piazzale
delle Grazie gli ufficiali tedeschi, con una piccola squadra di Mongoli,
a prelevare i tre giovani», che, con le mani legate dietro alla schiena,
vengono condotti in piazza Giulio Cesare: essi «erano convinti di
essere fucilati, ma poi quando seppero che venivano impiccati
rimasero molto male». Padre Carpani «di nascosto riuscì a seguire i
particolari di quella triste vicenda andando sino alla piazza» Giulio
Cesare.

Chi era quel Leone Celli (barbiere, originario di Forlimpopoli)


che aveva permesso la cattura dei tre giovani? Un «infame» come
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 30

scrissero i partigiani nella relazione sul fatto? O anche lui una vittima
degli eventi? Celli si sarebbe trovato coinvolto casualmente nella
vicenda. Assieme ad altre persone verso l'8 agosto, aveva assistito
alle minacce rivolte da un contadino ad una vecchietta che
raccoglieva frutta da un albero del podere. Celli ne prese le difese,
minacciando il contadino per il tono violento usato contro la donna,
eccessivo rispetto all'entità del furto subìto. Qualche giorno dopo
quell'episodio, è incendiata una trebbiatrice, il 12 agosto. Celli viene
sospettato di essere l'autore del sabotaggio. Fermato dai
repubblichini, forse perché picchiato o forse per evitare guai peggiori,
scambiò la propria salvezza con la delazione: «So dove ci sono dei
partigiani», avrebbe detto. Lui, come barbiere, in via Ducale, c'era
stato qualche volta.
Quando furono arrestati i Tre Martiri? Il 13 agosto verso le
17.30, secondo un articolo di Montemaggi del ’64 in cui si riportava
una testimonianza di Paolo Tacchi. Montemaggi nel ’94 ha spostato
l'evento al giorno 14 in base al «Rapporto riservato» (stilato il 30
agosto), del 471° Gruppo germanico. Nel «Diario di guerra» del
Comando Supremo della Decima Armata tedesca, la notizia è
registrata il 15 agosto: lì si trova anche scritto che la cattura dei tre
«banditen» avvenne «nell'ospizio Marino (poco a sud-est di Rimini)» in
località Comasco: è un errore. I tre giovani sono stati catturati
nell'Ospedalino Infantile (Aiuto Materno, via Ducale). Padre Carpani
ricorda il 14 agosto. In altre fonti si parla di quanto tempo i tre
giovani restarono nelle mani dei nazi-fascisti. Secondo Maria
Pascucci («Il ras di Rimini [Tacchi] li tortura per far loro confessare i
nomi. Essi tacciono e resistono…»), si tratta di «tre giorni». Essendo
stata eseguita l'esecuzione capitale il 16 mattina, la cattura sarebbe
dunque avvenuta il 13 pomeriggio. Per Guido Nozzoli, tra l'arresto e
l'esecuzione non passarono che trentasei ore. Quindi la cattura
sarebbe del 14. Chi vi era presente? Secondo Montemaggi (1994),
c'era Alfredo Cecchetti [Cicchetti]. Per Nozzoli, Cicchetti non era
nella base di via Ducale al momento dell'irruzione.

Ad un pranzo ufficiale di ringraziamento da parte dei tedeschi ai


medici dell’ospedale di Rimini nel giugno ’44, Paolo Tacchi ha
pronunciato «una specie di discorso»: «…penso che la guerra per noi
sia già perduta… […] La Germania e l’Italia… ormai sono fuori com-
battimento». Il col. Christiani, ascoltando le parole di Tacchi, tradotte
da un interprete, «diventò pallido e mostrò la sua incredulità e soffe-
renza». Un allarme aereo tolse dall’imbarazzo gli invitati italiani, già
in preda ad un «certo panico» per quell’incidente politico. Ognuno
«prese la via della fuga». [M. Righi]
Quando, nell’estate del ’44, il ten. col. Werner von Lutze se ne va
da Rimini, il nostro Municipio gli regala per ricordo un portasigarette
d’argento, dal valore di 2.400 lire. Alle gentilezze, i nazisti
rispondono requisendo tutti gli automezzi. È del luglio il bando
tedesco che obbliga tutti gli uomini dai 18 ai 30 anni, a presentarsi a
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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lavorare per le truppe germaniche. Il 12 agosto il maresciallo


Kesselring annuncia che sono previste feroci rappresaglie contro le
popolazioni residenti dove agiscono i partigiani.
Dal primo luglio ’44, «tutti gli iscritti regolarmente al Partito
Fascista Repubblicano di età fra i 18 e i 60 anni e non appartenenti
alle Forze Armate Repubblicane, costituiscono il corpo ausiliario delle
Camicie Nere composto dalle squadre di azione». Le brigate nere,
scrive Petacco, «si riveleranno nella loro stragrande maggioranza
delle bande di canaglie e di torturatori», che misero in atto la ‘carta
bianca’ che era stata concessa nel novembre ’43 di passare per le
armi gli antifascisti, e che costituì «l’inizio di una spirale di violenza
che insanguinerà il Paese».
Il 15 luglio ’44 i partigiani sono stati riconosciuti dal governo
italiano «come parti integranti dello sforzo bellico della nazione». Dal
5 luglio, l’ingresso a Rimini è vietato senza un lasciapassare. Annota
nel suo diario, Lombardini: «La città è irriconoscibile. Sul viso di qu-
anti incontro noto i segni della disperazione. Quando avrà fine il triste
calvario? L’avanzata delle truppe alleate procede lentamente. Sono
ancora assai lontane».
L’attacco alleato alla Linea Gotica inizia nella notte tra il 25 ed il
26 agosto 1944, sulle rive del fiume Metauro. L’arrivo a Rimini il 21
settembre apre le porte all’Italia del Nord. Il fiume Marecchia, scrive
il Quartier generale alleato, era «l’ultima barriera prima della
pianura». I soldati alleati che girano per le nostre strade tra le infinite
macerie, hanno sulla bocca una sola esclamazione: «Cassino,
Cassino!».
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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CAPITOLO V
IL DELITTO PAOLINI

Estate 1944. Sulla strada che da Fiorentino porta verso


Mercatino Conca, in comune di Montegrimano alla curva dopo
Montelicciano, al Poggio c’è la casa di Anna Ceccolini, detta Netta. Vi è
ospitato da otto anni un confinato politico marchigiano proveniente
da Roma, il sarto Duilio Paolini, 49 anni, che ha con sé due figli, Elio
nato nel ’27 ed Ines del ’30. La sera del 12 luglio un nuovo
rastrellamento dei repubblichini mette a soqquadro il paese. È da
poco passata mezzanotte quando colpi di accetta demoliscono la porta
d’ingresso dell’abitazione di Anna Ceccolini. Duilio Paolini si trova in
casa con la figlia. Elio invece è alla macchia: sentendo i primi spari, ha
deciso di andare a nascondersi ed ha pregato inutilmente il padre di
seguirlo. Il sarto è stanco, spera che non gli accada nulla, resterà a
dormire nel proprio letto.
Verso le tre del mattino il giovane Paolini ritorna a casa
insospettito dai colpi uditi distintamente. Trova segni di devastazione
non soltanto sulla porta, ma anche all’interno. Lo accoglie la sorella.
Ines piange stravolta. Tra singhiozzi irrefrenabili racconta la cattura
del padre. Lo hanno preso mentre dormiva, lo hanno legato con una
corda alle mani ed ai piedi «alla maniera degli animali», e lo hanno
caricato a bordo di un’auto targata San Marino, portando via anche i
tagli di stoffa e gli abiti in prova che erano nel suo laboratorio.
Elio chiede altre notizie ad una vicina, la signora Severi che gli
racconta: Ines è corsa dietro a suo padre in preda al panico ed ha
continuato ad urlare: «Papà mio, dove lo portate?». I fascisti l’hanno
cacciata indietro con i moschetti. Ines Paolini vivrà con gli occhi
rivolti soltanto alla tragedia della sua famiglia, con la coscienza
annientata, all’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà a
Roma. Suo padre fu portato vicino al cimitero del paese, e lì i fascisti
lo hanno torturato. Nascosto dietro un covone di grano il colono
Galliano Severi, classe 1897, assiste impotente alla ferocia dei
repubblichini contro il sarto di Montelicciano. Sanguinante, colpito a
morte e forse già senza vita, Paolini è stato ricaricato sull’auto
sammarinese. Di lui non si avranno più notizie. Il suo corpo non è mai
stato ritrovato. La lapide che a Montegrimano ricorda le vittime della
guerra reca il nome di Duilio Paolini come disperso civile assieme a
quello di Tommaso D’Antonio.

Estate 1989. A Montelicciano nel piccolo groviglio di case che


s’arrampicano lungo la costa dopo la chiesa, incontro Guerrino
Casadei, classe 1915. L’8 settembre ’43 era soldato a Rimini. Anche
lui scappò. Ritornò al suo paese dove visse nascosto sino alla
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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Liberazione: «I fascisti di Salò passavano spesso. Facevano paura». «Sì,


i repubblichini venivano da fuori», mi conferma Giuseppe Bartoli,
classe 1905, primo sindaco del dopoguerra a Montegrimano: «Li
guidava Marino Fattori, un colonnello di San Marino. Erano tutti
ragazzi». «Fattori era micidiale», aggiunge Guerrino Casadei, mentre la
moglie con qualche frase mozza e con lo sguardo sembra invitarlo alla
moderazione. Il ricordo delle antiche paure è ancora ben vivo,
associato a quelle delle vendette che si ebbero allora. Casadei precisa:
«Sono fatti veri, poi sono tutti morti», i protagonisti di quei giorni.
Marino Fattori dopo la liberazione sarà fucilato nei pressi di Sondrio.
Stessa sorte ebbe suo figlio Federico, tenente dei repubblichini.
Il nome di Montelicciano ritorna spesso nelle cronache del ’44: a
febbraio i fascisti arrestano Giuseppe Bartoli e Galliano Severi, il
testimone delle torture inflitte a Paolini: «Ci trasferirono a Mercatino
Conca, in camera di sicurezza. Per una settimana. Senza mangiare,
dovevano portarcelo da casa i nostri», mi dice Pippo Bartoli: «Era una
commedia. Bisognava piangere, ma veniva anche da ridere. Perché?
Mah, di giorno ci tenevano fuori della caserma, non in camera di
sicurezza». Volevano metterli nella tentazione di fuggire e chiudere i
conti con una fucilata alle spalle. «Un giorno arriva la convocazione ai
repubblichini di Mercatino. “Cosa vorranno da noi?”, ci chiedono. “Vi
manderanno a combattere al Nord”, gli abbiamo risposto. Fu allora
che i repubblichini scapparono tutti».

A Montelicciano la casa del sarto non era frequentata soltanto


dai clienti. Paolini possedeva uno dei rari apparecchi radio della zona,
che lui sintonizzava sulle stazioni di Londra e di Mosca. Nel paese e
nei dintorni Paolini era conosciuto da tutti. Antifascista tenace,
amava fare commenti coloriti, e per quella radio ha avuto delle beghe:
nel ’43 è stato arrestato e condannato ad un mese di carcere.
L’apparecchio venne sequestrato, ma Paolini tornato libero ne
acquistò un altro.
Il sarto sospettava che a denunciarlo fosse stato un certo
Dominici, abituale frequentatore delle serate radiofoniche nella sua
abitazione. In Dominici, identificava quella «spia fascista dell’Ovra», la
polizia politica segreta del regime, di cui gli aveva parlato
confidenzialmente il maresciallo dei carabinieri di Mercatino.
Giuseppe Maiani allarga i sospetti: «L’avvisammo che parlava
troppo liberamente e che tra i frequentatori della sua casa ci poteva
essere qualcuno pronto a tradirlo. L’abbiamo anche diffidato a non
fidarsi ciecamente degli Stacciarini e di De Tommaso, ma lui non si è
mai curato delle nostre osservazioni». De Tommaso aveva ferito
Galliano Severi per discorsi avversi al fascismo fatti in Comune a
Montegrimano.
Alle osservazioni degli amici sugli Stacciarini, Paolini
rispondeva che se il padre era stato un gerarca e manganellatore, non
era detto che il figlio Antonio, originario di Montemaggio ed ex
sergente della Milizia, «dovesse essere tale e quale». Tuttavia Paolini
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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fa seguire attentamente Antonio Stacciarini da Francesco (Popo)


Penserini. A Paolini è dato l’incarico di Commissario politico del
gruppo partigiano di Montegrimano costituitosi nell’aprile ’44 sotto il
comando di Antonio Stacciarini. Il gruppo si limita a rimediare armi
ed a compiere qualche sparatoria a scopo intimidatorio, senza mai
arrivare ad azioni di rilievo. A giugno doveva congiungersi con il
distaccamento «Montefeltro» della quinta brigata Garibaldi «Pesaro».
Nella trasferta verso l’interno incontra i fascisti e si sbanda: ognuno
vaga fra monti e fossi fino alla Liberazione. Nei primi mesi del ’44, è
giunto nella zona un gruppo di dodici perseguitati mantovani, fuggiti
di casa.
In luglio, i tedeschi li arrestano: di quelle persone, si perderà
ogni traccia: «Chi li ha traditi?... Mistero; non è il primo, né sarà
l’ultimo». Il 10 luglio a Montegrimano e a Meleto, su segnalazione dei
fascisti, i tedeschi rastrellano una dozzina di persone, deportandole
in Germania: «non direttamente partigiani, sono antifascisti»: in quei
momenti, «qualche fascista di Montegrimano e di San Marino»
prendeva nota di quanto accadeva, ha scritto Sandro Severi. Le SS
ammisero che nei rapporti dei propri informatori, c’erano pure delle
«deformazioni». Che, volute dalle spie italiane, costarono la vita a
parecchie persone.

I repubblichini arrivavano spesso a Montelicciano guidati dai


Fattori padre e figlio che viaggiavano «a bordo di motociclette Guzzi,
che avevano incorporata sopra il manubrio una mitragliatrice.
Venivano in paese per intimidire la popolazione», racconta Elio
Paolini: «Una sera, tra fine ’43 ed inizio ’44, abbiamo visto arrivare un
camion di fascisti che, appena scesi, si sono precipitati in casa nostra
con le pistole spianate, urlando: “Chi è Paolini Duilio?” Quando li ho
sentiti arrivare ho subito spento la luce e detto a mio padre: “I fa-
scisti, i fascisti!”. Mio padre, pronto, scappò sul terrazzo e di lì si
buttò nella sottostante macchia, mentre i fascisti urlavano: “Sparagli,
sparagli!”». Duilio Paolini fugge in aperta campagna, e si nasconde per
un mese nonostante il freddo invernale tra le pecore di un ovile
messogli a disposizione di un amico di Monte Giardino, Domenico
Bertucci.
Perché Duilio Paolini è ricercato dai repubblichini? Non poteva
essere ancora una volta colpa della radio. Il sarto svolge un’intensa
attività politica di propaganda tra i giovani. Chiedo a Bartoli perché
Paolini, dopo quel tentativo di cattura fallito, non abbia preso
precauzioni: «Era troppo sicuro di sé, credeva di non aver fatto del
male a nessuno. Era convinto delle sue idee di giustizia. Accanito. Era
uno che ci sapeva fare. Parlava di politica con tutti. Col poliziotto, col
fascista, col prete». Nel ’44 a Montelicciano è parroco dal ’27 don
Giuseppe Villa, sui settant’anni di età: «Una brava persona», secondo
Guerrino Casadei. Dopo l’8 settembre, la nascita di Salò ed i richiami
per gli ‘sbandati’, dice confidenzialmente ai ragazzi del paese: «Non
andate via sotto le armi. Non date retta a quello che dico in chiesa»,
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cioè agli ordini per arruolarsi che i fascisti facevano diffondere anche
dall’altare.
«Duilio Paolini viveva diviso dalla moglie. In paese si era legato
con Olga Geri che da lui ebbe un figlio», morto a Roma verso la metà
degli anni Ottanta: la Geri, mi spiega Pippo Bartoli, abitava in un’altra
casa, vicina a quella di Paolini, che aveva sul retro una porta da cui
era possibile uscire nei campi. «Bastava che si fosse nascosto lì quella
notte, ma forse era destino che finisse così».

Galliano Severi, che ha assistito alle torture inflitte a Paolini,


diffonde subito la notizia del suo assassinio. La gente aggiunge
particolari mai verificati come quello del cadavere gettato sotto il
ponte di Ornaccia, sulla strada per Combarbio. Nessuno può
confermare, non ci sono testimoni e soprattutto quel corpo non sarà
mai rinvenuto. Per tutti, in paese, è un delitto politico delle brigate
nere. Una diversa versione dei fatti viene fornita dalle SS di Forlì il 25
agosto ad una delegazione sammarinese: Paolini è stato arrestato «da
un mese circa» e fucilato «pochi giorni fa».
La delegazione sammarinese è a colloquio con il comandate delle
SS di Forlì, capitano Kurt Schutze, per una vicenda alla quale Paolini
era del tutto estraneo. Il 12 agosto sul Titano brigatisti neri italiani ed
un gruppo di SS hanno arrestato sei sammarinesi: Nazzareno Arzilli,
Ermenegildo Gasperoni, Luigi Giancecchi, Vincenzo Pedini ed i fratelli
Armando e Giuseppe Renzi. Fascisti di Rimini e nazisti sconfinano
spesso nella neutrale San Marino alla ricerca di oppositori politici e
partigiani. Le spie sono italiane. La protezione armata è quella
germanica. Il 18 marzo a Serravalle i fascisti riminesi hanno fatto
catturare dai sammarinesi Giuseppe Babbi, un esponente del
cattolicesimo democratico consegnato alle SS.
Le autorità della Repubblica riescono a non far deportare i loro
concittadini protagonisti della vicenda del 12 agosto. La lunga
trattativa condotta da Ezio Balducci, Marino Belluzzi e Federico Bigi,
si conclude appunto il 25: gli arrestati possono tornare liberi.
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CAPITOLO VI
TRA RIMINI E SAN MARINO

Francesco Balsimelli ha rievocato così l’estate del ’44 sul Titano,


quando era Capitano Reggente: «Numerosi e gravi casi di sabotaggio si
verificarono nei paesi vicini e nella stessa Rimini, senza che la polizia
germanica e fascista riuscissero ad evitarli ed a scoprirli, onde le
repressioni e le rappresaglie di infame memoria». A San Marino
invece «le cose procedettero con abbastanza calma, nonostante alcune
intemperanze da parte di elementi forestieri e nostrani». Dietro la
formula fredda e diplomatica delle «intemperanze», si nasconde la
realtà di partigiani che da Rimini salivano a San Marino per trovare
rifugio o per organizzarsi, senza mai ricevere un aiuto concreto come
ad esempio un lasciapassare diplomatico.
Ai primi di luglio a Serravalle avviene il «presunto attentato ad
un’auto repubblichina entrata in San Marino», racconta Giordano
Bruno Reffi che era caporale della Milizia Confinaria e nel
dopoguerra rivestirà alti incarichi nel Governo del Titano. La vettura
di proprietà di Paolo Tacchi aveva a bordo il repubblichino Francesco
Raffaellini, considerato la spia che aveva fatto arrestare Babbi a
Serravalle. Reffi parla di una «scenata» di Tacchi a Raffaellini: il
federale riminese «sospettava che i colpi che avevano perforato la
macchina fossero partiti dall’interno della stessa auto». Raffaellini
rispose a Tacchi: «Ma cosa dici, Paolino? Come puoi pensare ad una
cosa del genere?».
Tacchi scende subito a Rimini per far ritorno la stessa sera a
Serravalle con un rinforzo di repubblichini. Per tutta la notte, Tacchi
discute con il Ministro plenipotenziario di San Marino Ezio Balducci,
su di una possibile rappresaglia da attuare nel luogo dell’attentato.
Balducci si oppone in modo fermo. All’alba Tacchi si porta via
ugualmente «delle persone prese fra gli sfollati italiani», testimonia
ancora Reffi. Nel dopoguerra Balducci difenderà in tribunale Tacchi
dall’accusa di aver compiuto quel rastrellamento e sosterrà che il ras
di Rimini se ne era andato senza aver commesso «violenza alcuna».
Grazie a quell’attentato vero o presunto che fosse, Tacchi può
accanirsi contro San Marino ed i rifugiati italiani. Ogni atto di
violenza commesso dai repubblichini riminesi nel territorio neutrale
del Titano è ora giustificato con gli spari di Serravalle. Le spie fasciste
sospettano su tanti ospiti della Repubblica e su abitanti delle zone di
confine. Uno degli indiziati è appunto Duilio Paolini. I repubblichini si
organizzano con i camerati tedeschi. Dopo la cattura di Paolini nella
notte tra 12 e 13 luglio, i nazisti hanno tutto il tempo per preparare
la versione ufficiale: sono stati loro ad arrestare e fucilare il sarto di
Montelicciano. È la versione comunicata alle autorità del Titano il 25
agosto, giorno in cui sono liberati i sei sammarinesi.
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L’agosto ’44, racconta ancora il Capitano Reggente Balsimelli,


«non trascorse immune da complicazioni e da pericoli»: sulla strada
tra Dogana e Serravalle il giorno 6 sono stati rinvenuti manifestini
«incitanti alla guerra contro i tedeschi», sparsi sulla carreggiata ed
affissi alle piante». Il fatto, ha scritto Balsimelli, «costituiva un grave
rischio per l’incolumità della nostra neutrale Repubblica». Nella notte
del 10 «ignoti, spacciandosi per partigiani, avevano svolto azioni di
estorsione a Montegiardino». Il 12 c’è il già ricordato arresto di
Nazzareno Arzilli, Ermenegildo Gasperoni, Luigi Giancecchi,
Vincenzo Pedini e dei fratelli Armando e Giuseppe Renzi. La sera
dello stesso 12 agosto a Rimini in località Fornaci Marchesini viene
data alla fiamme una trebbiatrice al servizio dei tedeschi come atto di
sabotaggio contro requisizioni, razzie e rubamenti compiuti dalle
truppe germaniche. A tutto ciò il Comitato di Liberazione Nazionale
ha reagito con un appello del primo luglio: non trebbiate il grano per
impedire che i tedeschi se lo prendano e lo portino in Germania.
L’incendio della trebbiatrice è l’antefatto del sacrificio dei Tre Martiri
di Rimini.

Il 29 agosto la delegazione sammarinese che ha trattato a Forlì


con il capitano Kurt Schutze invia ai Capitani Reggenti il suo
rapporto dove appare il nome di Duilio Paolini: «Il Comando SS di
Forlì è informato che nella zona di Montemaggio, Montelicciano e
Montegrimano e regione limitrofa si trovano nuclei di partigiani.
Nella zona suaccennata scorrazza la banda composta di non meno
trenta partigiani, al comando del già famoso Stacciarini». Della banda
avrebbero fatto parte anche «ex ufficiali del R. Esercito Italiano».
Prosegue il documento: «Informatori al servizio del Comando di
Polizia tedesco, che hanno avuto e tuttora mantengono rapporti con
queste bande, assicurano che la banda Stacciarini ha avuto l’ordine
del Comando superiore dei partigiani di sconfinare nel territorio della
Repubblica ed ivi rifugiarsi in caso di reazione tedesca».
È a questo punto che appare il nome di Paolini: «Da informazioni
pervenute al Comando delle SS e da deposizione del sarto di
Montelicciano Paolini, da un mese circa arrestato e pochi giorni fa
fucilato, risulta che i Sammarinesi Gasperoni Gildo e Giancecchi Luigi
sono in contatto con le bande che hanno stanza in prossimità dei
confini della Repubblica di San Marino». Secondo le SS il sarto era
stato un delatore. Dopo l’orrore della sua morte violenta, ecco
l’infamia di una falsa accusa. Poteva fare nomi Paolini, ho chiesto a
Pippo Bartoli che mi ha riposto: «Non conosceva gli arrestati». Perché
allora le SS parlarono di una «deposizione»? In quel tragico gioco di
reciproci favori fatti all’insegna della disumana ferocia che talora
caratterizzò più i repubblichini degli stessi nazisti, le SS
mascherarono l’omicidio compiuto delle brigate nere che attuavano
le spietate direttive impartite da Salò.
Per fortuna non tutti i repubblichini erano come certi
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personaggi che agirono tra Rimini e San Marino: «A Montegrimano, il


segretario del fascio era Enzo Pozzi, figlio di un signore, che faceva il
vagabondo», mi ha detto Pippo Bartoli: «Quando c’erano pericoli, ci
avvisava. Faceva la spia per opportunismo, ma aveva l’animo buono.
Era senza nessuna idea, uno di quelli che sono contro tutti. Rompeva
le scatole alla gente. Arrestava i genitori dei richiamati alla leva.
Dopo la Liberazione Pozzi finì in un campo di concentramento,
arrestato dalla polizia alleata. Fu preso dai partigiani. L’ho salvato io,
perché non aveva fatto nulla di male». Non ha mai voluto vendette,
Bartoli «per dare una lezione morale» a quanti negli anni precedenti
avevano elevato la violenza a credo politico.

Alle 17 circa del 29 agosto 1944 fra Montelicciano e San


Marino, a duecento metri dal confine della Repubblica, viene ucciso in
un’imboscata un russo ex prigioniero di guerra aggregato all’esercito
germanico, «mentre con una carretta unitamente ad un militare te-
desco, andava in perlustrazione nelle varie case per inventariare o
procurare gli alloggi alla truppa che stava ripiegando dal fronte delle
Marche». Le truppe naziste per rappresaglia arrestano molte persone
(pare dodici sammarinesi e sette italiani). Tra di loro c’è Guerrino
Maiani: «In colonna, a piedi dalle Capanne, sotto una scorta siamo
stati portati ai Monti di Montelicciano, sull’aia del contadino
Temeroli», dov’era stato ucciso il russo. «Siamo stati messi contro un
muro. Sull’aia, distesi per terra, con i fucili puntati addosso c’era già
un altro gruppo di rastrellati italiani mentre la casa di Temeroli
bruciava, incendiata dalle truppe tedesche [...]. I soldati erano tutti
schierati con le armi in mano pronti a sparare». Un altro rastrellato,
l’anziano Erminio Podeschi, lo rimandano indietro, dicendogli: «Tu
vecchio vai a casa e quando sai che ci sono i ribelli vieni a dirlo a noi
al Comando di Montegrimano».
«A piedi, passando per i calanchi, siamo stati portati ai bagni di
Meleto» su di un camion aperto, e «abbiamo raggiunto Montegrimano».
Così Guerrino Maiani. Suo fratello Giuseppe prosegue: «Portati nei lo-
cali del Comune [...] ci hanno costretto a spogliarci...»: per tre giorni,
restano «nudi come quando nostra madre ci mise al mondo». E nudi li
mandano a prendere l’acqua nella fontana pubblica, nella piazza del
paese. Dalla loro cella, i prigionieri ascoltano le torture inflitte dai
tedeschi a due partigiani, Renato Parlanti e Mario Galli. Poi vengono
interrogati «con due pistole puntate alla tempia, un fucile al petto»,
precisa Giuseppe Maiani: «Volevano sapere se noi conoscevamo i ri-
belli» della banda Stacciarini, «e chi aveva ucciso il tedesco.
L’interrogatorio veniva di tanto in tanto interrotto da botte; durò
circa un’ora».
Il governo di San Marino interviene subito presso le SS. Spiega
Federico Bigi: «Trovai sempre un’estrema durezza nelle trattative da
parte del Comando tedesco» che esigeva che almeno dieci persone fos-
sero fucilate per rappresaglia. «Quel comandante arrivò a
prospettarmi una soluzione veramente terrificante... la consegna da
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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parte mia di dieci italiani scelti a mio piacimento fra i rifugiati di San
Marino», in cambio della libertà per il gruppo arrestato il 29 agosto.
Bigi riesce ad ottenere il 4 settembre la consegna di tutti i prigionieri
senza contropartita, e li fa trasferire nel carcere della Rocca, «per
ragioni di sicurezza nel timore che venissero nuovamente arrestati o
prelevati».
Nella notte tra il 31 agosto ed il primo settembre i tedeschi
hanno ucciso, a furia di botte, i due partigiani torturati nel ‘carcere’ di
Montegrimano, Renato Parlanti (22 anni) e Mario Galli (30). Erano
stati «catturati armati in una zona liberata dagli inglesi», come aveva
confessato a Giuseppe Maiani lo stesso Parlanti. Maiani aggiunge un
particolare: durante il ritorno a San Marino, il 4 settembre, «siamo
ripassati dai bagni di Meleto e lì ci ha investito un irrespirabile fetore
di cadaveri in decomposizione. Dopo il passaggio del fronte venimmo
a sapere che nel fosso di quella località erano stati trovati i corpi di
Parlanti e Galli ammazzati dai tedeschi».
Perché i nazisti hanno graziato il gruppo degli arrestati il 29
agosto? Il Comando germanico era consapevole «che la fucilazione di
innocenti cittadini sammarinesi, in quanto sudditi di uno stato neu-
trale, avrebbe suscitato non poche proteste diplomatiche», sostiene
Francesco Balsimelli. Del fatto, avrebbe poi approfittato
inevitabilmente la propaganda alleata. Infine, conclude Balsimelli, «a
Montegrimano cominciavano ad arrivare le granate alleate».

Tutti gli episodi narrati mettono in luce gli stretti collegamenti


esistenti tra la storia di San Marino e quella italiana nel periodo
1943-44. Da San Marino partono spedizioni punitive in territorio ita-
liano, guidate dal repubblichino Marino Fattori. A San Marino
approdano spavalderie e bravate delle brigate nere riminesi,
comandate da Paolo Tacchi. Sono fatti in apparenza confusi ed
ambigui. Ma che, come il delitto Paolini, dimostrano l’esistenza di
rapporti di collaborazione tra fascisti ed SS, sui quali si è spesso ta-
ciuto per dimostrare che i repubblichini erano in stato di sudditanza
nei confronti dei tedeschi, considerati gli unici responsabili di tutto.
L’«attentato» di Serravalle a Tacchi, stando alla testimonianza di
Reffi, si presenta collegato ad una strategia del terrore messa in atto
dai fascisti riminesi con rappresaglie e violenze in territorio
sammarinese. Più confuse ed ambigue dei fatti stessi, appaiono poi
certe ricostruzioni storiche che non hanno tenuto conto della suc-
cessione degli episodi.
Per comprendere il senso di questi avvenimenti è necessario
ripercorrere la vita politica sul Titano, dal luglio ’43 al 20 settembre
’44, giorno in cui gli alleati raggiungono l’antica Terra della Libertà. È
il tempo in cui San Marino deve di continuo fronteggiare i fascisti
locali, i repubblichini italiani e quei tedeschi intenzionati a diventare
anche gli occupanti del Monte Titano.
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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CAPITOLO VII
FASCISTI E TEDESCHI DI CASA SUL TITANO

Quando la sera del 25 luglio 1943 alle 22.45 la Radio italiana


annuncia la caduta di Mussolini, all’albergo Titano (noto covo dei
fascisti sammarinesi), si svolge la solita partita a poker dei capi
locali. Il segretario di Stato Giuliano Gozi «rimase tranquillissimo»,
mentre suo fratello Manlio (segretario del pfs) «fu colto da emozione».
Ricorda Federico Bigi che da Roma arrivò una telefonata del console
sammarinese: Badoglio è nostro amico, non c’è nulla da temere. «La
serata si chiuse con questo commento umoristico di Giuliano Gozi:
“Allora vorrà dire che a Palazzo al posto del duce metteremo il
ritratto del maresciallo Badoglio”». C’era poco da ridere, per la verità.
Anche San Marino stava per cambiare aria. Ma non senza traumi.
Anzi, la Repubblica dovrà vivere momenti assai dolorosi.
«L’ora della resa dei conti era giunta anche per questi parodianti
buffoni, e vani risultarono gli espedienti posti in atto il giorno 26
luglio, colla pubblicazione di un manifesto della Reggenza del tempo,
in cui alle suadenti e fraterne raccomandazioni di calma e disciplina,
si aggiungevano minacce di applicare con rigore le leggi contro coloro
che intendessero turbare l’ordine pubblico. Non mancava il pistolotto
in elogio al Maresciallo Badoglio che lo si considerava un caldo amico
della Repubblica. Questa ostentata premessa che mascherava una
latente paura, non servì che a prolungare di poche ore la vita
dell’infausto regime»: è una testimonianza del dottor Alvaro Casali.
Gli antifascisti locali si riuniscono subito a Rimini, il pomeriggio
del 26, nell’ambulatorio dello stesso dottor Casali, un socialista che
nel ’40 era stato costretto ad emigrare in Francia, da dove era tornato
dopo l’occupazione tedesca, aprendo due studi, uno a Borgo ed uno a
Rimini. Da quell’incontro, nasce il progetto di una manifestazione
popolare che si tiene il 28 luglio al Teatro del Borgo, alla presenza di
una folla strabocchevole. La vedova del dottor Casali, Antonia
Amadei, ricorda che da Borgomaggiore gli antifascisti in corteo
salirono al Palazzo della Reggenza, «per chiedere le dimissioni del Go-
verno e lo scioglimento del Consiglio fascista».

Il giorno prima, 27 luglio, è stato sciolto il partito fascista


sammarinese. Nella riunione del 26 a Rimini, era nato il «Comitato
per la libertà» che il 27 tiene una seconda riunione «nella quale si
decise di rompere ogni indugio e di passar la sera stessa all’azione, so-
prattutto perchè nella stessa mattina i fascisti di San Marino avevano
assunto un atteggiamento di sfida ed avevano promesso, siccome il
loro vecchio sistema, bastonate e piombo ai loro oppositori», si legge
in un numero unico del Comitato stesso, edito il 3 settembre ’43 con il
titolo 28 luglio .
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«La notte non si dormì», prosegue il foglio: «Giovani vibranti


d’entusiasmo e di fede s’irradiarono per ogni frazione della
Repubblica, chiamando a raccolta il popolo alla riscossa…». All’alba
del 28 «una folla, forse non mai adunata nel nostro paese», invase «le
anguste vie del Borgo, raggiante di sole e di gioia». Il comizio di Borgo
fu presieduto da Francesco Balsimelli che poi guidò il corteo assieme
all’avv. Teodoro Lonfernini e ad Alvaro Casali. «Si svolsero lunghe
trattative dei dimostranti con i Capitani Reggenti che infine decreta-
rono lo scioglimento del governo. A mezzogiorno fu costituito un
governo provvisorio di venti membri, che nel pomeriggio fu poi
allargato a trenta. Tra i quali mi ritrovai anch’io, ventitreenne»,
spiega Federico Bigi, noto esponente democristiano. Suonarono a
festa tutte le campane. Alla testa del corteo c’erano le bande musicali,
racconta una cronaca del tempo, dove si legge anche che i fascisti
sammarinesi si erano illusi di tenere il potere pure dopo il crollo di
Mussolini.
Chi erano gli uomini del fascio sul Titano? «Praticamente un
unico personaggio con i suoi famigliari riassumeva tutti i poteri effet-
tivi. Si tratta di Giuliano Gozi, al quale non si perdona d’esser stato
accentratore assolutista, despota, segretario al Ministero degli
Interni; egli assunse anche quello degli Esteri, vale a dire l’intero
Gabinetto sammarinese che si compone appunto di due soli Ministri»,
prosegue quella cronaca. Come un dittatore, «S.E. Gozi nominò vice
cancelliere un suo cugino, Enrichetto Gozi, e Segretario del partito
fascista sammarinese il fratello Manlio».

Il primo agosto, il «Comitato per la libertà» creato dall’assemblea


del 28 luglio, esulta: «È caduta la tirannia che per oltre un ventennio
ha deviato la Repubblica dal suo millenario cammino». I cittadini sono
invitati «a mantenere quell’attitudine di calma che è lo spettacolo più
grande che possa dare un popolo offeso nelle proprie prerogative ma
sicuro del proprio diritto».
Il 10 agosto lo stesso Comitato cancella tutti i provvedimenti
presi dal governo sammarinese tra primo aprile 1923 e 27 luglio
1943. Ne destituisce i vecchi componenti. Nomina un Sindacato
straordinario «che indaghi sulle responsabilità politiche e am-
ministrative di tutti gli esponenti del governo e del partito fascista ed
applichi le eventuali sanzioni a norma di legge». Ed invita la
repubblica a girare pagina: non più arbitrii, abusi, privilegi,
immunità, connivenze «create da un regime dispotico e incontrollato».
Il 5 settembre vengono convocati i Comizi elettorali a lista unica
per scegliere i sessanta componenti del Consiglio Grande e Generale
che, nella prima seduta del 16 settembre, ascoltano il discorso
dell’anziano leader socialista Gino Giacomini, mandato esule a Roma
dal fascismo: «Noi non abbiamo né vendette da compiere né collere da
sfogare. Esse sarebbero una meschinità e una degradazione indegna
di noi e della nostra Terra». Ci si affidava ad una «giustizia alta e
serena» che accertasse «le responsabilità del malgoverno, che ha
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trascinato il Paese a tante funeste contingenze». Sembrava che il


peggio fosse passato per sempre.

Il 5 ottobre 1943 un reparto di SS con tre autoblinde entra in


territorio sammarinese, guidato dai fascisti del luogo, per arrestare
gli esponenti più rappresentativi del «Comitato per la libertà» e per
«abbattere il Governo Democratico sorto dalla caduta del fascismo»,
come narrerà Alvaro Casali in una sua «Memoria storica». Le SS «dopo
aver forzato e prelevato tre prigionieri alleati ivi internati,
arrestarono alcuni cittadini notoriamente antifascisti e li
trascinarono oltre confine sotto la minaccia della fucilazione»,
scriverà Casali che, quella mattina del 5 ottobre 1943, riesce a
sottrarsi alla cattura.
Le SS andarono poi al Palazzo del Governo e «minacciarono con
le armi i Capitani Reggenti ingiungendo loro di cedere il potere agli
spodestati fascisti che erano accorsi in veste di salvatori del Paese»,
racconta ancora Casali. Le SS provenivano da Pesaro, precisa Gildo
Gasperoni, aggiungendo che della presenza dei tre prigionieri inglesi
«venne a conoscenza un fascista repubblichino di Verucchio». Ecco
perchè si può ritenere che le SS siano state chiamate dai
repubblichini riminesi. (Secondo la vedova Casali, il «fascista di
Verucchio» era un veterinario di quella località.)
Tedeschi, repubblichini italiani e sammarinesi perlustrano San
Marino, da Borgo a Città. Sono circa le 7, ricorda la vedova Casali,
quando vede dalla finestra della propria abitazione, i militari tedeschi
che entrano nella casa dell’avv. Teodoro Lonfernini che sarà poi
arrestato. Le SS arrivano anche nell’appartamento di Casali. Tra gli
accompagnatori dei tedeschi, la moglie del medico riconosce Marino
Berti, e lo rimprovera: «E tu non ti vergogni a girare con questi tipi».
Per tutta risposta i nazisti le puntano una pistola al petto e perqui-
siscono la casa. I repubblichini ed i tedeschi trovano soltanto un
revolver a tamburo, che sequestrano. Usciti dall’abitazione, SS e
fascisti tentano di bloccare i figli di Casali, che hanno diciotto e sedici
anni. I due ragazzi riescono a scappare.
«Quel giorno per i sammarinesi fu di confusione, di paura»,
spiega la signora Casali: «Ricordo che mio marito, come tanti altri
antifascisti cercati dai fascisti sammarinesi, da quelli italiani e dai
tedeschi, era scappato per le campagne, e dal suo nascondiglio mi
aveva mandato un messaggio di stare tranquilla». Qualche giorno
dopo Giordano Giacomini avvisa i Casali «che nella notte sarebbero
venuti i tedeschi a portare via gli uomini», racconta ancora la signora:
«Allora mio marito Alvaro, Gino e Remy Giacomini con Doro Lon-
fernini scapparono di casa». Trovano rifugio ad Acquaviva dal suocero
di Lonfernini, poi vanno a Torriana da Sandrino Tosi ed infine a
Rimini, dove sono ospitati da Giovanni Grossi e da Aldo Pelliccioni.
Gli arrestati del 5 ottobre vengono portati a Montelicciano.
Ricordando quel periodo, Federico Bigi parla di «premonitrici
incursioni armate nel nostro territorio di tedeschi e repubblichini
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italiani». Nazisti e brigatisti neri cercano di esportare sul Titano la


guerra civile di Salò. Rientra nella logica repubblichina l’attacco ad
alcuni protagonisti del 28 luglio, che erano nel «Comitato per la
libertà» della Repubblica.
Un’altra testimonianza di Alvaro Casali: «Dalla vicina Rimini,
quasi ogni giorno gruppi di brigatisti facevano le loro incursioni sul
territorio della Repubblica, abbandonandosi a sistematiche
sopraffazioni, perquisizioni domiciliari, requisizioni di generi
alimentari, rapimenti di elementi rifugiati, spari di armi e continue
minacce di rastrellamenti. I Tedeschi, pur non mostrando simpatia
per il governo, non arrivarono mai a simili eccessi...». Aggiunge lo
storico Cristoforo Buscarini: «I fascisti sammarinesi, forti della
complicità di quelli italiani e delle truppe tedesche, si abbandonarono
a rilevanti atti di violenza fino al tentato omicidio».

Il governo sammarinese riesce ad ottenere la liberazione dei


propri concittadini arrestati il 5 ottobre ’43. L’ambasciatore tedesco a
Roma il 22 ottobre viene informato dal ministero italiano degli Affari
esteri su «alcuni incidenti verificatisi nel territorio della Serenissima
Repubblica di San Marino mediante procedimenti arbitrari da parte
di Autorità Militari Germaniche». Il console tedesco a Venezia
esprime a San Marino il rammarico dell’ambasciatore, e comunica
che «sono stati impartiti ordini precisi» per far rispettare la neutralità
sammarinese: «Inoltre sono stati dati ordini di rendere responsabili i
colpevoli».
Questo documento, trascurato finora, è importante per due
motivi. Anzitutto, perché riconoscendo che gli incidenti erano da
condannare come violazioni della neutralità di San Marino,
implicitamente scaricava la responsabilità dell’accaduto sui
repubblichini riminesi che avevano guidato le SS nel territorio del
Titano, istigandole alla cattura di antifascisti locali che nulla avevano
che fare con la situazione italiana. Secondo motivo. La comunicazione
all’ambasciatore tedesco è del 22 ottobre. Il 25 dello stesso mese sale
a San Marino il feldmaresciallo Erwin Rommel, per quella che non fu
una semplice visita da turista.
Precisa Casali: «Per allontanare altri pericoli, il Governo
sammarinese credette opportuno di prendere contatti coi vicini
Comandi Tedeschi e mentre le trattative si stavano avviando», ecco
arrivare Rommel. Dalle domande rivolte da Rommel a Federico Bigi,
si deduce che era un’ispezione vera e propria per verificare la si-
tuazione politico-militare di San Marino, e la dotazione di armi e
munizioni. Non si trattava di una gita.
Dopo le chiare risposte di Bigi («Non esiste munizionamento» per
i quattro cannoni donati dal re d’Italia nel 1907, che sparano a salve
tappi di legno e polvere nera; per i pochi fucili modello ’91, i caricatori
sono chiusi nelle casse, e quindi è come se quelle armi fossero non
usabili), Rommel propone un ‘modus vivendi’: i tedeschi avrebbero
rispettato San Marino, se San Marino avesse garantito che nessuna
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azione di sabotaggio provenisse dal suo territorio. I profughi inoltre


non dovevano possedere armi.
A Rommel, chiede il segretario di Stato avv. Gustavo Babboni: «E
i fascisti?». Rommel dà una risposta precisa, riferita da Bigi: «I
fascisti, sammarinesi o italiani, devono essere tutti disarmati anche
loro». Non fu così, invece. Il ‘modus vivendi’, commenta Bigi, «seppure
con qualche eccezione, resse fino al settembre 1944». Sostiene invece
Gildo Gasperoni: «Le promesse del grosso personaggio dell’armata
tedesca non servirono tuttavia ad interrompere le scorrerie dei
fascisti repubblicani».
Prosegue Gasperoni: i repubblichini «anzi intensificarono le loro
gesta provocatorie nel cercare […] di incoraggiare i fascisti locali a
svolgere opera di spionaggio sui fatti politici sammarinesi […]. Così i
fascisti di Rimini, capitanati dal famigerato Paolo Tacchi,
provocavano ogni giorno incidenti di rilievo con requisizioni di
derrate, perquisizioni in abitazioni di famiglie che ospitavano gli
sfollati (in quel tempo erano centomila) e forse più sequestri di
automezzi».

Quando sale a San Marino, Erwin Rommel è già famoso. Nato nel
1891, combattente nella prima guerra mondiale, dopo aver aderito al
nazismo, compie una fortunata carriera militare. Nella seconda
guerra mondiale combatte in Polonia e in Francia, poi nel ’41 viene
posto a capo dell’Afrika Korps in Libia. Qui rivela grandi doti di
strategia, conquistando Tobruk e spingendosi fino ad El-Alamein.
Quest’ultima impresa gli vale il titolo di feldmaresciallo. Ma la lunga
avanzata, determinando un allontanamento dalle basi, consentì la
controffensiva del maresciallo inglese Montgomery, che lo costrinse
ad una sia pur abile ritirata in Tunisia (1942). Rimpatriato, combatte
in Italia ed in Normandia, dove rimane gravemente ferito. Sospettato
(pur essendo ancora degente) di partecipazione all’attentato del 20
luglio ’44 contro Hitler, si ucciderà per evitare il processo.
Il generale Eisenhower su Rommel dà un giudizio poco benevolo,
affermando che scappò velocemente dalla Tunisia per mettere in
salvo la pelle. Per il colonnello delle SS Eugenio Dollmann, Rommel
era un uomo molto duro. Secondo Montemaggi, quando si reca a San
Marino, «Rommel non andava d’accordo col collega, feldmaresciallo
Albert Kesselring. Il disaccordo era in fase acuta. Rommel voleva
abbandonare l’Italia peninsulare e impostare le difese del Terzo Reich
proprio sulla ‘Linea degli Appennini’ - con San Marino come punto
cruciale della sua linea difensiva. Kesselring voleva invece difendersi
lungo tutta la penisola, logorando i nemici anglo-americani metro per
metro». Anche questo commento di Montemaggi conferma che il
viaggio di Rommel a San Marino fu una vera e propria ispezione
militare.

Dopo la ‘visita’ di Rommel i fascisti locali riprendono fiato,


Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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rammenta Giordano Bruno Reffi. Il 28 ottobre ’43 nel Consiglio di


Stato (una specie di governo d’emergenza), sono inseriti su nomina
della Reggenza anche cinque cittadini non appartenenti al Consiglio
Grande e Generale uscito dalle elezioni di settembre. I nomi di questi
cinque, sono suggeriti da Giuliano Gozi, il duce di San Marino, che
pone anche se stesso nella lista. Il provvedimento passa alla storia
come il «patto di pacificazione cittadina» che, negli intenti, doveva
risolvere tutti i guai. Gli avvenimenti successivi daranno ragione a
quanti erano contrari. Non si tratta soltanto di critiche postume, ma
di polemiche che divisero allora il fronte antifascista sammarinese,
tra coloro che accettavano il patto e chi invece rifiutava, come
Gasperoni, «qualsiasi compromesso con il fascismo».
Per neutralizzare i fascisti, puntualizza Bigi, «sarebbe stato
necessario che San Marino disponesse di corpi armati agguerriti ed
efficienti, mentre avevamo solo i fucili da caccia». La «pacificazione»
favorì unicamente i capi del disciolto regime fascista che furono
messi «al riparo di qualsiasi rischio penale per le responsabilità
assunte nel Ventennio», mi dice Cristoforo Buscarini.
Il patto, si legge nel verbale dello stesso 28 ottobre ’43, era nato
dalla volontà di giungere ad una tregua «nelle competizioni di parte al
fine di fronteggiare, da sammarinesi, la triste situazione». Si
auspicava così che non si ripetessero quei «dolorosi fatti» come
l’arresto degli antifascisti del 5 ottobre, «fatti che hanno turbato la
pace cittadina». In pratica si premiava la violenza fascista
dimostratasi un abile grimaldello per far rientrare nel governo della
Repubblica, personaggi usciti di scena dopo la caduta del regime, il 28
luglio. Questo particolare aspetto non sfuggiva ai partigiani riminesi
sfollati a San Marino, come Angelo Galluzzi, secondo il quale il
comportamento dei cittadini della Repubblica era «decisamente,
favorevole ai nazisti e ai fascisti».

Per tradurre in pratica l’accordo con Rommel e rispettare il


«patto di pacificazione», il 20 dicembre 1943 come «contentino verso
l’esterno» per calmare i tedeschi (dice Bigi), fu approvata una legge
che comminava una condanna sino a dieci anni per chi prestasse in
qualsiasi modo aiuto a prigionieri di guerra, militari disertori (gli
‘sbandati’) e partigiani. Fu un cedimento ai tedeschi? Bigi sostiene di
no, perchè «non si deve dimenticare che San Marino ha ospitato e
salvaguardato Comitati di Liberazione al completo, numerosissimi
antifascisti ed ebrei, numerosi militari alleati, un numero enorme di
disertori italiani, oltre i centomila profughi». I primi a violare il patto
di pacificazione saranno i repubblichini, con il ferimento di Alvaro Ca-
sali il 6 febbraio ’44. Gli spareranno al cuore, ma non lo uccideranno.
Sbagliarono mira per due soli centimetri.
Con il patto del 28 ottobre, viene richiamato in patria il dottor
Ezio Balducci, a cui sono affidati i difficili compiti di Ministro
plenipotenziario ed Inviato straordinario presso gli Stati belligeranti.
Si trovava in esilio. Nel 1934 i fratelli Gozi, per liberarsi di lui, lo
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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avevano accusato di «complotto contro lo Stato» e fatto condannare a


venti anni di lavori pubblici.
Sul processo contro Balducci, presento parte di un documento,
«La Repubblica in gramaglie», dell’avv. Ferruccio Martelli che fu
assieme allo stesso Balducci tra i condannati. Il 26 marzo ’34, giorno
in cui fu emessa la sentenza sul famigerato «complotto», resterà «come
uno dei più vergognosi degli ultimi dieci anni di storia nel nostro
Paese», come un disonore per la Repubblica, scrive Martelli. «A San
Marino la giustizia è morta»: «solo in tristissime epoche può capitare
di vedere, in un processo, svilupparsi tanto artificio, tanta
impudenza, tanta malafede». Non prove ma falsificazioni hanno
guidato la giustizia, soltanto per «mettere gli avversari fuori causa».
«La sentenza di questo processo rimarrà nella storia di San
Marino bollata a lettere di fuoco, quale documento di perfidia ed
infamia», concludeva l’avv. Martelli da Roma il 10 aprile ’34.

Il partito fascista repubblichino di San Marino viene costituito il


4 gennaio 1944. Giuliano Gozi ne assume la segreteria, più che per
stare a galla per non rimanere il solo capro espiatorio della
situazione. «Calcolo non errato», spiega Bigi, come si vedrà nel
dopoguerra. E nel dopoguerra Gozi si giustificherà: «Lo feci per
evitare incursioni ed aggressioni di fascisti italiani a San Marino». È
un’autodifesa, ma nello stesso tempo una grave accusa verso i
repubblichini riminesi di Tacchi.
Domenica 6 febbraio ’44 il socialista Alvaro Casali è aggredito e
ferito a colpi di pistola. Conserverà quel ‘ricordo’ in corpo per tutta la
vita. Casali è assalito da Marino Gatti. Fra loro, per separarli, si mette
Gildo Gasperoni. Così Casali può fuggire. Chi ha sparato? Gatti o
Marino Berti che era sopraggiunto nel frattempo? Gasperoni non sa
rispondere.
La vedova di Casali accusa Berti: «Anch’esso armato, si mise
all’inseguimento e sparò su mio marito che, raggiunta la porta di
casa, mentre stava per entrare, fu colpito da una pallottola del Berti
sotto l’ascella». Ma Berti ha dalla sua le sentenze che parlano di un
calibro 7.65, quello dell’arma usata da Gatti. La rivoltella di Berti era
infatti una calibro 9.
Quella mattina resta ferita anche la signora Pia Michetti, moglie
dell’avv. Lonfernini, la quale ricorda: «Gatti con la bocca cercava di
strappare la linguetta di una bomba a mano, come se volesse gettarla
in mezzo alla piazza gremita di gente che usciva dalla messa delle 11.
Ad un certo momento... cominciò a sparare contro di me... poi non
contento di avermi sparato si mise ad inseguirmi mentre io cercavo di
andare a rifugiarmi nella Farmacia del dottor Fausto Amadori... Mi
sono ritrovata di fronte al Gatti, con la sua rivoltella spianata verso di
me». L’intervento del prof. Manlio Monticelli salva la signora Mi-
chetti.
Racconta la vedova del dottor Casali che alla vigilia della spa-
ratoria «il 5 febbraio, quando a San Marino è la festa di Sant’Agata
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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patrona della Repubblica, era giunta da Faenza una squadra di cami-


cie nere guidata dal dottor Marino Fattori» di San Marino. Fattori,
come abbiamo visto, era solito condurre spedizioni punitive dei re-
pubblichini italiani.
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CAPITOLO VIII
L’ARRESTO DI GIUSEPPE BABBI

Il 18 marzo a Serravalle Giuseppe Babbi viene arrestato, dopo


aver subìto una serie di minacce da parte di fascisti riminesi e
sammarinesi. Babbi (l’antifascista più in vista a Rimini, secondo
Oreste Cavallari), militava nelle file cattoliche ed era uno dei maggiori
esponenti del Comitato di Liberazione Nazionale cittadino. In casa
non parlava di politica, «per non coinvolgere la famiglia», dice il figlio
Andrea: «Dopo il bombardamento del 28 dicembre ’43, siamo sfollati a
Dogana di San Marino, in località Saponara, in casa di mio zio Alfredo
Babbi».
La vigilia di San Giuseppe, Babbi è avvicinato dal maresciallo dei
Carabinieri di Serravalle, che gli comunica la necessità di parlargli in
caserma. «Qualunque cosa lei abbia da dirmi, può dirmela qui», replica
Babbi. Il maresciallo «prese mio padre per un braccio e per il collo e lo
trascinò fino alla stazione ferroviaria di Serravalle, dove c’era il
trenino fermo con accanto poliziotti italiani ed un militare delle SS
tedesche. Mio padre fu caricato a forza sul treno che partì verso Ri-
mini», racconta ancora Andrea Babbi. «Alla stazione di Dogana il treno
si fermò; il maresciallo scese con i Carabinieri, lasciando mio padre in
mano alla polizia italiana, anche se il treno era ancora nel territorio
neutrale di San Marino.» L’arresto di Giuseppe Babbi, prosegue il
figlio, mise «in crisi il gruppo degli antifascisti che lui frequentava».
L’altro figlio di Babbi, Angelo, la mattina del 19 al Commissa-
riato di Rimini apprende la notizia che l’indomani suo padre sarebbe
stato trasferito a Bologna. Verso le 10.30 del giorno 20, riesce a
vederlo alla stazione ferroviaria di Rimini. Giuseppe Babbi viene
avviato verso il treno quando si accorge della presenza del figlio, a cui
fa segno di allontanarsi. Soltanto a fine aprile Angelo Babbi può avere
il permesso per un colloquio col padre nel carcere di Bologna, alla pre-
senza degli agenti: «... però noi parlavamo in dialetto. Mio padre mi
disse che l’avevano interrogato più volte e che con lui c’erano... un
ragazzo di Rimini, Walter Ghelfi e il prof. Rino Molari di Santar-
cangelo».
Una delle ultime volte che Angelo Babbi si reca a Bologna dal
padre, la famiglia Molari gli affida un pacco da consegnare al
professore. «Ma fui costretto a portarlo indietro, perché sia Molari
che Ghelfi erano già stati portati nel campo di concentramento di
Fossoli di Carpi, dove entrambi furono fucilati», nella notte fra il 12 ed
il 13 luglio. Babbi invece viene liberato il 17 luglio. Babbi ha
cinquant’anni, Molari trentatré e Ghelfi ventidue. (Dal febbraio del
’44 alla liberazione, nel campo di Fossoli transitarono migliaia di
prigionieri: inglesi, ebrei, italiani, antifascisti, intellettuali cattolici
come Molari. Vi passò anche lo scrittore Primo Levi.)
Babbi, scrisse Oreste Cavallari, «con poca istruzione e molta
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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miseria, si era fatto da sé con forte carattere e forte personalità.


Tutti, anche gli avversari politici, ne riconoscevano la forza d’animo e
la purezza d’ideali». Nato a Roncofreddo nel 1893, si era trasferito nel
1904 con la famiglia a Rimini, dove lavora prima come commesso di
farmacia e poi, dal 1913, come ferroviere. Si dedica all’attività
politica ed a quella sindacale. «Nel 1921 contrastò duramente le ten-
denze filofasciste» di don Domenico Garattoni e dell’avvocato Mario
Bonini, «costringendoli... a presentare le dimissioni dal Partito
Popolare», scrive lo storico Piergiorgio Grassi. Sturziano, davanti al
problema agrario Babbi sostiene idee per allora «molto audaci», dif-
ferenziando nettamente il partito popolare «dal comportamento degli
agrari e delle forze economiche, appoggiate da il Resto del Carlino,
che si preparavano a chiedere l’intervento delle squadre fasciste di
Leandro Arpinati». Nel 1923 per la sua posizione di antifascista viene
espulso dalle Ferrovie e si trasforma in rappresentante di commercio
nel settore dei mobili. Nel ’43 riprende la sua attività politica, in modo
clandestino, «chiamando a raccolta gli antichi popolari e qualche
giovane dell’Azione Cattolica in vista della fondazione di un nuovo
partito», scrive ancora Grassi.

Su Walter Ghelfi abbiamo poche notizie: ferroviere, il 13 marzo


’44 raggiunge l’Ottava brigata Garibaldi sull’Appennino tosco-emi-
liano. «Per il suo coraggio, per la sua fede, per il suo altruismo che lo
faceva eccellere sugli altri, fu nominato Commissario Politico di
Compagnia», si legge ne Il Garibaldino del 16 agosto 1945. In aprile fu
catturato nei pressi di Santa Sofia. Carcerato, torturato, si riduce in
misere condizioni fisiche, ma non ‘parla’: «non tradì i suoi compagni
in arme».
Rino Molari è un docente di lettere di Santarcangelo che
nell’anno scolastico ’43-44 insegna a Riccione, dove fa amicizia con il
parroco di San Lorenzo in Strada don Giovanni Montali, suo
compaesano. Poi entra in contatto con l’antifascismo del Cesenate e
della Valmarecchia. Trasporta materiale clandestino. Al Provve-
ditorato agli studi di Forlì, per le sue idee, lo giudicano un «elemento
poco raccomandabile». Una spia della Repubblica di Salò, Giuseppe
Ascoli (alias «capitano Mario Rossi») figlio del generale Ettore Ascoli,
lo fa arrestare il 28 aprile ’44.
Tonino Guerra in quell’anno cerca di apprendere e di tradurre in
realtà la lezione politica e morale di Rino Molari. Ricevuti in consegna
dei manifestini lasciati da Molari (nel frattempo ucciso) ad un fabbro,
Guerra è fermato da un fascista del suo paese, portato poi a Forlì,
quindi a Fossoli («e sono stato nella stessa baracca dove era stato
Rino Molari quattro o cinque giorni prima, la numero 19»), infine in
prigionia in Germania per un anno.
A don Montali, come scriverà don Domenico Calandrini, «la
guerra civile... barbaramente spense il fratello e la sorella, trucidati
in casa vecchi e stanchi, e gettati nell’attiguo pozzo, per rabbia contro
il vecchio prete che non s’era fatto sorprendere ed arrestare in
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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canonica». Ha ricordato Maurizio Casadei che don Montali «una volta,


ritornando da un viaggio trovò il soffitto della camera sfondato dalle
pallottole sparate dalla strada. Poi, dopo che i fascisti nel marzo 1944
arrestarono per attività ‘sovversiva’ il professor Rino Molari […] la
situazione si aggravò. Sospettato di essere un cospiratore e di aiutare
partigiani e prigionieri alleati, don Giovanni dovette fuggire, vestito
in borghese, a San Marino, prima a Valdragone e poi a Montegiar-
dino». Quando la mattina del 15 settembre ’44, i greci liberano San
Lorenzo, nel pozzo vicino alla chiesa si scoprono i corpi di Giulia e
Luigi Montali. Avevano cinquantanove e sessantasei anni.
Nel Giornale di Rimini del 2 settembre ’45 si legge che a Giu-
seppe Ascoli «e ad altri due o tre individui in costume da ufficiali e
sottufficiali dei bersaglieri […] si imputa il bieco assassinio» dei due
fratelli Montali. Ascoli, come si è visto, è il collaborazionista che fece
arrestare il prof. Molari. Gli assassini si sarebbero vantati della loro
impresa poco dopo «nel ristorante dell’albergo riccionese dove ri-
siedevano i comandanti del battaglione». Secondo Amedeo
Montemaggi (vedi Il Ponte, 9 ottobre 1988), in quei giorni «si
incolparono falsamente i tedeschi o i bersaglieri».
Ho ascoltato due nipoti di don Montali. Don Michele Bertozzi:
«Don Montali forse sapeva qualcosa di grosso, ma non mi volle mai
dire niente». La signora Maria Teresa Avellini Semprini: «Luigi
Montali forse era stato colpito al cuore, difficile stabilirlo perché il
corpo era in stato di decomposizione. Giulia aveva invece ricevuto
una fucilata alla testa». La signora Avellini era stata allieva di Rino
Molari nel ’43-44, e rammentava che cosa era stato raccontato allora
dell’arresto del suo insegnante: «Alla pensione Alba, dove Molari era
ospite, si presentarono dei fascisti che si sedettero al ristorante,
parlando a voce alta fra loro: “Come ci pesa questa divisa...”. Molari
avrebbe detto: “Trovate la maniera di buttarla via, venite con me...”.
Così, con l’inganno, Molari venne arrestato».

Don Walter Bacchini sino al giugno ’44 è cappellano di don


Montali a San Lorenzo in Strada. Una domenica durante l’omelia
sostiene che la gente non la si nutre con il ferro dei cannoni, ma con il
pane. Un giovane lo denuncia al fascio di Riccione. Provvedimenti su
di lui non vengono presi, ma lo segnalano a Forlì: «Ci fu a Riccione, mi
hanno detto, una specie di riunione per il caso provocato da me. Forse
per la mia giovane età o per la stima che aveva preso molti nei miei
confronti, la cosa fu messa a tacere». L’unica traccia dell’episodio
rimase in un certificato militare, ove fu annotato che don Bacchini
«aveva manifestato sentimenti antifascisti». Quell’atteggiamento di
rivolta contro la dittatura, mi ha spiegato don Walter in un lungo,
amichevole colloquio, «non era dovuto a me in particolare, ma al fatto
di aver avuto la fortuna di essere stato accanto ad un campione della
libertà come don Giovanni Montali».
Ha scritto lo stesso don Montali il 15 febbraio 1945: «Venuto il
fascismo, non mi lasciai spostare da esso neppure di un pollice dal
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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mio programma. Ebbi l’onore di parecchie dimostrazioni ostili da


parte di esso: ne ricordo una molto clamorosa nel 1932 a S.
Lorenzino, ove erano convenute tutte le autorità di Riccione, con otto
automobili senza contare quelli che si servirono della bicicletta. Ne
ebbi un’altra, anch’essa molto clamorosa, ai 10 giugno 1940, alla
sera, per aver sostenuto che l’Italia non doveva entrare in guerra a
fianco della Germania, perché il mondo non le avrebbe lasciato
vincere la guerra. Nello stesso anno fui denunziato dal Segretario
politico di Riccione alle autorità di Forlì, presso le quali dovei andare
a difendermi personalmente ed ebbi l’onore di essere diffidato.
Parecchi anni addietro, nella speranza di potermi annoverare tra i
fascisti, da un amico mi fu proposta la tessera ad honorem, che
naturalmente rifiutai, dicendo che l’avrei presa se la tessera desse
ingegno. Nei miei discorsi dal pergamo o dall’altare, il più delle volte
vigilati da emissari del fascio, ho parlato spesso della dignità
dell’uomo, della libertà che Dio ha concesso all’uomo quale “maggior
don che Dio fesse creando”».

A San Marino il 23 marzo ’44 il segretario repubblichino


Giuliano Gozi pubblica un proclama in cui si parla del «conforto che mi
viene anche dalla piena fiducia personale del Duce». «I fascisti sono
tenuti strettamente all’ordine e alla disciplina, astenendosi in modo
assoluto da qualsiasi atto di violenza», sentenzia Gozi. Parole. Che
nascondevano le violenze fino ad allora perpetrate, e che saranno
smentite dai fatti successivi.
Il primo aprile inizia la reggenza di Francesco Balsimelli e
Sanzio Valentini, proprio nel semestre più drammatico per la
Repubblica. Nello stesso mese di aprile, racconta Montemaggi, «si
acuiscono le tensioni col Governo fascista italiano, il quale
rimproverava a San Marino di esser diventata asilo di migliaia di
disertori, di renitenti alla leva, di antifascisti». Ezio Balducci, gran
diplomatico di San Marino, è «perseguito da mandato di cattura e
denunciato al Tribunale speciale fascista». Ai repubblichini dà fastidio
che Balducci abbia raggiunto un «tacito accordo» (come lo definisce
Balsimelli) con i nazisti, per salvaguardare sul Titano ebrei ben
conosciuti dai tedeschi. I repubblichini italiani erano più pericolosi
dell’apparato germanico. Ciononostante, nel dopoguerra, Balducci
cercherà di difendere Tacchi, dicendo che il federale riminese aveva
avallato le dichiarazioni sammarinesi, secondo cui non esistevano
ebrei nella Repubblica. Ma che bisogno aveva San Marino di una
conferma dai fascisti riminesi?

Primo maggio ’44. Clandestinamente, viene celebrata la festa


del Lavoro. «Quando i fascisti trovarono i cantieri deserti andarono su
tutte le furie», testimonia Gildo Gasperoni: «Come cani arrabbiati
passarono minacciosi per le case degli operai ad intimar loro di
recarsi a lavorare, minacciando persecuzioni verso tutti coloro che
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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non avessero ubbidito». Proprio quella mattina Gasperoni viene


arrestato con un tranello: il maresciallo Tugnoli, comandante i
carabinieri di Borgo, lo invita in caserma per informazioni.
«Ingenuamente, in buona fede», ammette Gasperoni, «lo seguii». Giunto
in caserma, venne subito rinchiuso in camera di sicurezza.
Secondo Gasperoni, a farlo arrestare è stato il col. Marino
Fattori, per vendicarsi del «successo di resistenza operaia» del Primo
maggio. Ma c’era anche un altro motivo: Gasperoni ha combattuto in
Spagna con i ’rossi’. «Udii una conversazione del maresciallo con il
carabiniere: gli diceva che il giorno dopo alle nove sarebbe venuto a
prelevarmi il colonnello Fattori per portarmi in Italia a render conto
dei miei ‘crimini’ consumati in Spagna contro i nostri fratelli italiani
che combatterono a fianco delle truppe di Franco», spiega Gasperoni.
L’arrestato trascorre una nottata insonne. Al mattino
successivo, mette in atto il progetto di evasione. Attende che siano
aperti i catenacci della porta, dà un improvviso spintone, e tra lo
stupore dei carabinieri, «con due balzi mi trovai» all’ingresso. Esce
dall’edificio, ruba l’auto che doveva tradurlo in Italia, fugge verso la
Baldasserona a nascondersi «nella cripta dove la leggenda afferma
che dormisse» il Santo fondatore della Repubblica. Si dà alla macchia
e poi viene ospitato da diversi amici.
Quattro giugno. Gasperoni viene nuovamente catturato, assieme
a quattro riminesi (Decio Mercanti, Giuseppe Polazzi, Leo Casalboni
ed Elio Ferrari), al cimitero di Montalbo. Ha scritto Mercanti:
«Cominciò a piovigginare. Avevamo appena iniziata la riunione
quando appaiono, all’improvviso, il figlio del maggiore Fattori e due
altri fascisti, con i mitra spianati; ci costringono ad alzare le mani e a
stare con le spalle al muro. Pochi minuti dopo arrivano i Carabinieri
sammarinesi armati...»: con loro c’è anche Fattori padre. «Io ero
l’ultimo della fila, vicino alla scarpata. In un momento di
disattenzione dei fascisti», precisa Mercanti, «tentai di fuggire quando
Gatti mi sparò...; allora mi saltarono addosso i Fattori; fui picchiato e
colpito fortemente al petto con il calcio del fucile».
Li interroga Paolo Tacchi assieme a Marino Fattori. Gasperoni è
trattenuto a San Marino e sarà presto liberato. Per gli italiani si
prospetta la fucilazione: vengono tradotti prima a Rimini e poi
consegnati dalle SS in mano della Gestapo a Forlì. Mercanti riesce a
fuggire per strada verso il 15 giugno durante un allarme aereo,
mentre veniva condotto al palazzo di Giustizia. Ferrari e Casalboni
dovevano essere fucilati il 29 giugno: si erano già scavati la fossa
quando un bombardamento mise in fuga il plotone di esecuzione. Li
aiutò a scappare il frate che li aveva assistiti spiritualmente.

Don Montali ha scritto: «Cercato a morte, il 20 giugno ’44


scappai a San Marino, dove mi tenni per lo più nascosto per evitare di
essere preso e consegnato». Don Ferdinando Zamagni ricorda che in
settembre al convento di Valdragone ebbe occasione di incontrare
don Montali «in incognito, perché era stata decretata la sua
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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eliminazione dai fascisti». Il parroco di San Lorenzino era costretto a


non farsi vedere perché anche nella neutrale San Marino lo avrebbe
potuto raggiungere la vendetta fascista.
La gente sapeva come era stato preso Babbi, ceduto dal governo
sammarinese ai repubblichini italiani dopo un lungo tergiversare; e
sapeva che era stato liberato soltanto perché del suo caso era stata
interessata la diplomazia alleata.
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CAPITOLO IX
LE BOMBE INGLESI

Il giorno più tragico della storia di San Marino è il 26 giugno ’44:


«Erano le 11 circa. La gente guardava ignara il consueto orrendo
spettacolo, quando un susseguirsi di scoppi fragorosi parve scuotere
la mole del Titano», ha scritto Balsimelli. Quattro squadroni di
bombardieri inglesi sganciano 243 bombe. Muoiono quaranta
sammarinesi e ventitré italiani. «Fu il terrore». Balsimelli ricorda che
si fece capo alla Radio vaticana per trasmettere una nota di protesta.
Venne interessato anche il governo svedese, perché intervenisse
presso le potenze alleate in favore di San Marino.
Il 7 agosto gli alleati dichiarano di aver già disposto «da tempo» il
rispetto della neutralità sammarinese, «subordinatamente rispetto
norme internazionali». Chi non vuole più rispettare la sovranità della
piccola Repubblica è adesso la Germania. Il 28 luglio ’44 il Comando
di Ferrara comunica che sarà costretto a ciò, «non appena che
necessità di carattere militare richiedessero il transito di essa da
parte di automezzi o pedestre», senza occupazione o misure coercitive
contro la popolazione, e senza requisizioni. Il patto di Rommel
dell’ottobre ’43 è così violato dagli stessi tedeschi. Quella
dichiarazione, commenta Balsimelli, «significava la guerra in casa».
Viene decisa una missione al Nord, da Mussolini. I diplomatici
sammarinesi partono il primo agosto.
Perché San Marino è stata colpita dagli aerei inglesi? Matteini
parla di «informazioni di dubbia esattezza» in base alle quali agì l’Alto
Comando Militare Britannico. Montemaggi aggiunge che agli inglesi
«era stato riferito che i tedeschi si erano impadroniti della Repubblica
dal febbraio e che dai primi di giugno stavano ammassandovi depositi
di munizioni». Tali notizie (precisa Montemaggi), erano state
trasmesse, «secondo i documenti» del Public Record office inglese,
attraverso «non precisati ’prigionieri di guerra’». «Che tale dizione non
intenda coprire le informazioni sballate di qualche agente segreto in
vena di errori?», si chiede Montemaggi.
Le segnalazioni agli inglesi possono essere considerate né false
né errate in base ad un documento sammarinese dello stesso 26
giugno ’44, indirizzato al maggiore Gunther, comandante germanico
della piazza di Forlì, e pubblicato da Bruno Ghigi: «Preghiamo di voler
ordinare alle Truppe Germaniche di esimersi dal frequentare a
gruppo od isolatamente il nostro territorio per togliere qualsiasi
motivo di apprensione alla popolazione e con esso qualsiasi parvenza
di motivo di offesa aerea nemica». Questo testo dimostra che i
tedeschi a San Marino erano di casa.
I fascisti utilizzarono i nazisti per regolare conti ‘interni’, quasi
che i cittadini sammarinesi fossero divenuti improvvisamente
italiani, e che la neutralità del Titano non esistesse più quando si
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 55

trattava di dare la caccia ad antifascisti italiani rifugiati là. Per


osservatori più o meno smaliziati, per spie attente alla sostanza delle
cose e non a sottili distinguo diplomatici, era facile concludere che
San Marino si dimostrava troppo arrendevole nei confronti del
nazismo.

Dunque, le notizie giunte agli inglesi sull’occupazione di San


Marino già dal febbraio ’44, più che informazioni sballate di qualche
agente segreto in vena di errore, sono il frutto di un ragionamento
politico, molto duro com’era nello stile dell’Intelligence (il servizio
segreto) inglese, ma con una sua logica ferrea che poggiava su dati di
fatto inoppugnabili: la facilità con cui le spedizioni punitive di fascisti
e tedeschi avvenivano sul Titano. Inoltre, ai servizi segreti inglesi
risultava già da tempo che San Marino era un covo di spie.
Una di loro, Roxane Pitt, ha scritto in un suo libro, La spia
timida, Longanesi editore, che nel ’43 «San Marino era piena di gente
che per poche lire vendeva informazioni militari sia da parte alleata
sia dell’Asse». La Pitt vive a Rimini tra la fine degli anni Trenta ed il
tempo della seconda guerra mondiale. Si presenta come la
professoressa Albertina Crico. Insegna lettere italiane allo scientifico
Serpieri ed al Ginnasio. Nel 1939 il suo nome appare tra i commissari
d’esame dei ludi della Gioventù italiana del Littorio della nostra città.
Il volume, che ha come titolo originale Il coraggio della paura,
racconta l’avventura di Roxane Pitt a Rimini ed a San Marino: lei si
era sostituita ad una sorella, sposatasi con un ufficiale italiano poi
disperso in Russia, e scomparsa a sua volta in un campo di
concentramento nazista. Un suo ex alunno mi ha testimoniato: «Era
giovane, bella, disinvolta, elegante e sempre ben pettinata. Alloggiava
all’albergo Aquila d’oro, il più grande e lussuoso in centro, a
quell’epoca. È stata mia insegnate dell’anno scolastico 1938-39. Era
preparata, disponibile con gli alunni, non eccessivamente esigente. Ci
affascinava per quel suo apparire molto moderna: anche oggi, una
donna come lei, si noterebbe. Non mi pare che ci parlasse del fascismo
con molta convinzione: né poteva essere diversamente, pensando alla
sua storia. Ho il ricordo di qualche insegnante fascista convinto, ma
non certo la Crico era tale».
A San Marino (ha scritto la Pitt) giungevano profughi jugoslavi,
ribelli albanesi, «o che so io», tutte persone che «in realtà erano per la
maggior parte spie pagate dalla Germania e persino, per quanto allora
mi sembrasse incredibile, dalla Russia. Chiacchieravano tutti senza
ritegno...», e lei stessa poteva così raccogliere sul Titano le notizie che
passava poi all’Intelligence Service.
Agli occhi inglesi San Marino appariva come un centro di per sé
importante, non solo per posizione strategica, ma anche per quel suo
ondeggiare tra neutralità richiesta agli anglo-americani, e passività
dimostrata nei fatti verso nazisti e fascisti di Salò. Il bombardamento
del 26 giugno, più che frutto di un errore, fu la conseguenza di un
disegno politico e militare ben preciso: tagliare i ponti tra San Marino
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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e quei confinanti dimostratisi così invadenti.

Prima che parta la missione diplomatica sammarinese che il


primo agosto si recherà al Nord per trattare con Mussolini e con
l’ambasciatore tedesco, sul Titano arrivano ufficiali della Sanità
germanica. Vogliono impiantare un ospedale. Se ciò accadesse, per la
Repubblica significherebbe trovarsi coinvolta in pieno nella guerra.
Dai primi di luglio, l’aviazione inglese ha ricevuto l’ordine di non
bombardare la Repubblica. Ma dal 28 dello stesso mese di luglio, come
si è visto, i tedeschi non garantiscono più la neutralità sammarinese.
In caso di «necessità di carattere militare», le truppe naziste var-
cheranno i confini, per farvi transitare uomini e mezzi. San Marino è
tra due fuochi: il pericolo alleato e le minacce tedesche. «Si navigava
tra Scilla e Cariddi», disse il Reggente Balsimelli il 23 settembre ’44, a
liberazione avvenuta.
La delegazione diplomatica è composta, oltre che dallo stesso
Reggente Francesco Balsimelli, da Giuliano Gozi (capo dei re-
pubblichini sammarinesi), da Ezio Balducci (attivissimo plenipoten-
ziario che, dopo il bombardamento del 26 giugno, aveva iniziato a far
la spola tra San Marino ed il Nord, in viaggi sempre più rischiosi), e
dai professori Marino Belluzzi e Leonida Suzzi Valli. La delegazione si
reca nel pomeriggio dello stesso primo agosto a Salò, dove ottiene un
appuntamento con Mussolini per la mattina seguente; e poi va a Fa-
sano, dove alle 19.30 è ricevuta prima dal segretario dell’ambasciata
tedesca, dottor Gherard Gumpert («buon amico della Repubblica e del
dottor Balducci», scrive Balsimelli), e poi dall’ambasciatore stesso,
Rudolf Rahn.
La conversazione con quest’ultimo avviene in francese. Alla fine
i diplomatici vanno a dormire, ospitati nell’ex treno reale di Vittorio
Emanuele III. Rahn, come ambasciatore del Terzo Reich in Italia, ebbe
di fatto «la funzione di un viceré, dell'eminenza grigia che tendeva i
fili che il governo di Mussolini poteva poi ulteriormente elaborare» [L.
Klinkhammer].
La mattina del 2 agosto Mussolini accoglie con saluto romano i
delegati sammarinesi, «due dei quali, Balducci e Gozi, gli erano ben
noti», scrive ancora Balsimelli. «Sarete avvolti dalle fiamme, ma non
sarete incendiati», profetizza Mussolini. Il capo della Repubblica di
Salò garantisce un suo intervento presso i tedeschi perché non
installino a San Marino l’ospedale ’minacciato’. Dopo l’incontro con
Mussolini, la delegazione «riceve la visita di alcuni militi ed ufficiali
sammarinesi delle ‘Brigate Nere’ di stanza a Salò, alcuni dei quali
saranno poi fucilati durante i tragici avvenimenti dell’aprile-maggio
1945», prosegue Balsimelli nella sua ricostruzione di quei contatti
diplomatici. Tra quei fucilati, ci sarà Marino Fattori, ucciso il 6
maggio ’45 a Buglio in Monte. Suo figlio Federico fu invece ucciso il 6
settembre ’44 in Valtellina.
Il 3 agosto, giungono dai tedeschi le assicurazioni attese. Niente
ospedale, niente occupazione: «Passaggio di truppe attraverso
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 57

determinate strade marginali solo in caso di estrema necessità».


«Purtroppo la guerra passò nell’inerme Repubblica seminando altre
stragi, altre rovine», annota Balsimelli.
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 58

CAPITOLO X
I RICATTI NAZISTI

I tedeschi giocano su due fronti. Cercano di farsi consegnare i sei


prigionieri catturati il 12 agosto (Nazzareno Arzilli, Ermenegildo
Gasperoni, Luigi Giancecchi, Vincenzo Pedini ed i fratelli Armando e
Giuseppe Renzi), lasciati in custodia nelle carceri del Titano: e forse lo
fanno per non perdere la faccia nei confronti dei camerati re-
pubblichini. Poi tornano alla carica con la richiesta di installare in
Repubblica un ospedale militare. Sono momenti confusi. I prota-
gonisti, ricostruendoli, non li hanno sezionati con mente fredda, ma
spiegati con partecipazione sentimentale, per cui spesso la retorica
ha impedito un discorso razionale. È una retorica che fu usata anche,
in perfetta buona fede, per salvare la stessa Patria in pericolo, come
accadde a Balsimelli, quando scrisse il 30 luglio ’44 a Mussolini:
«Duce, il mio nome pienamente oscuro nel campo della politica,
appena noto nel campo degli studi, non posso pretendere che voi lo ri-
cordiate come quello di uno studioso che vi fece pervenire negli anni
scorsi alcune pubblicazioni d’indole storica e letteraria che riscossero
l’alto elogio vostro…».
I tedeschi cercano di ricattare San Marino: o ci consegnate i
prigionieri, o avrete in casa i nostri soldati. Cioè, la guerra. Fu in quei
giorni di metà agosto che Balducci, per togliere a Schutze
(comandante delle SS a Forlì), «ogni velleità legale di impadronirsi
dei cinque [in realtà sono sei, n.d.r.] sammarinesi, incarica l’ispettore
Animali di preparare un dossier che comprovi l’esistenza di un
complotto diretto contro il Governo della Repubblica», scrive
Montemaggi.
Il tenente Pietro Animali, ispettore di polizia, prepara un fa-
scicolo che Balducci non approva: «Se diamo questa roba a Schutze,
quello ce li fucila tutti quanti», e fa bruciare la relazione. Questo
particolare conferma quanto imprecise fossero le linee politiche in
quelle fasi della storia sammarinese, che appaiono affannose non per
volontà dei singoli protagonisti ma per le obiettive difficoltà di quella
navigazione «tra Scilla e Cariddi», che impediva di stabilire una rotta
decisa.
Quando verso la metà di agosto i tedeschi tornano alla carica per
installare l’ospedale militare, San Marino decide una nuova missione
al Nord, per parlare con il feldmaresciallo Kesselring a Reggio Emilia,
e con l’ambasciatore Rahn a Fasano. La missione (Balducci, Bigi e
Belluzzi), parte il 21 e torna il 25. I tedeschi rinunciano all’ospedale.
Perché?
Nella notte tra 25 e 26 agosto, inizia l’attacco degli Alleati sulle
rive del fiume Metauro. All’alba del 30, varcheranno il fiume Foglia.
Per le truppe germaniche, è l’inizio della fine. Un ospedale in una zona
che stava per essere invasa dal furore delle armi, ormai non aveva
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 59

più nessun significato. Chi, come Balducci, ritenne di essere stato in


grado di convincere i tedeschi a rinunciare a quell’ospedale, non com-
prese tutta la verità che stava dietro al comportamento definito
«cavalleresco» del generale Max Schrank. Per i nazisti, s’avvicinava
l’ora della resa dei conti con la battaglia di Rimini. Lo sapevano, ma
non potevano certo ammetterlo.

Il 31 agosto i tedeschi transitano per San Marino con autocarri


carichi di munizioni e benzina: «I patti e le assicurazioni tante volte
riconfermate, con l’avanzare degli Alleati, andarono perdendo di
valore, data la necessità che l’esercito germanico aveva di accelerare
per quanto fosse possibile, i movimenti dei reparti e dei mezzi»
[Balsimelli]. I rinforzi diretti alle zone di operazione «ci rendevano in-
volontariamente complici presso gli Alleati, di favorire la resistenza
nemica», annota sempre Balsimelli. Il primo settembre altri auto-
trasporti passano per Borgo e Città. Inoltre i tedeschi «allacciarono
alla nostra rete telefonica dei cavi per comunicazioni col fronte e coi
Comandi limitrofi, isolando Montegiardino e Faetano».
Infine giunge la notizia che i tedeschi stanno per occupare
Dogana e Serravalle per «uno spostamento di fronte ordinato da
Kesselring». Balducci e Belluzzi ottengono la revoca dell’ordine,
rivolgendosi al Quartier generale tedesco di Santarcangelo. Il 3
settembre una radio trasmittente tedesca viene installata a Mon-
tegiardino. I nazisti stavano ritirandosi. «Nella notte del 4, sotto il
Borgo era tutto uno sferragliare di carri armati… Il giorno 5
Montegiardino, Faetano, Chiesanuova erano quasi in stato di occupa-
zione…». I soldati germanici sigillano il centralino telefonico e così
isolano San Marino. Le truppe del Reich hanno portato la guerra nella
Repubblica.
Si susseguono giorni drammatici, con nuovi interventi diplo-
matici, fino a che il 15 settembre gli Alleati informano che il loro
Comando «batterà la zona di San Marino come qualunque altra zona
del fronte», racconta ancora Balsimelli, dato che San Marino era stata
trasformata «in un centro di rifornimenti e prestazioni». Il console
sammarinese a Roma aveva preso contatto con gli Alleati sin dal 9
giugno (giorno in cui nella capitale italiana si era insediato il Governo
Militare Alleato), per spiegare la neutralità della piccola Repubblica,
da rispettare durante il conflitto e dopo la prevista liberazione del
territorio italiano circostante.

Il 5 settembre la Commissione alleata centrale veniva informata


che San Marino, dopo aver «abolito il fascismo il 28 luglio 1943, si
reggeva in forma prettamente democratica». Mentre Balducci tratta
con i tedeschi, i rapporti con gli alleati vengono tenuti da San Marino
attraverso il tenente di vascello Giorgio Zanardi, sfollato a San
Marino assieme ai fratelli Guido e Vittorio. Ma Zanardi non è soltanto
un ufficiale del Regio esercito italiano, bensì anche un agente segreto
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 60

dell’Intelligence inglese.
Zanardi era giunto a San Marino ai primi di giugno del 1944,
poco prima cioè del bombardamento. Grazie al compito affidatogli sul
Titano, di tenere i contatti con gli Alleati, Zanardi poté inserirsi
tranquillamente nelle stanze dei bottoni senza destare alcun sospetto:
l’ex Reggente Balsimelli, a guerra conclusa, parlerà di lui come di un
«ardimentoso ufficiale» che accettò rischiosi incarichi per «ripagare in
qualche modo la generosa ospitalità ricevuta».
Zanardi lascia San Marino il 15 agosto, va a Roma, spiega la
situazione agli Alleati, ritorna sul Titano il 18 settembre: nel frat-
tempo un altro tentativo di evitare che gli inglesi attacchino San
Marino, viene condotto a termine dal sergente della Confinaria
Virginio Reffi che s’avventura nelle Marche.
Arrestato dalle SS, Reffi riesce a fuggire, passa il Foglia e ad Ur-
bino s’incontra con l’Alto Comando inglese, a cui precisa che «sulla
vetta e nei centri abitati non vi erano truppe nemiche», avendo
piazzato i tedeschi qualche batteria solo ai margini del territorio.

Gli Alleati intanto avanzano verso Rimini. Da San Marino,


alcuni partigiani riminesi scendono verso la loro città nel pomeriggio
del 19 settembre, mentre si combatte la battaglia per la presa di
Borgo Maggiore. Li comanda il sottotenente Guido Nozzoli: «Il nostro
era il primo nucleo partigiano che l’Ottava armata incontrava sulla
Linea gotica. Avvicinai un ufficiale per informarlo sul disfacimento
delle difese tedesche a San Marino e sulla drammatica situazione dei
civili rintanati nelle gallerie, ed ebbi la sensazione che non mi ascol-
tasse neppure. Mi ero ingannato».
Ad un ufficiale dell’Intelligence Service, «avvolto in una nube di
profumo», Nozzoli ripete più minuziosamente il racconto. L’indomani
mattina un sottotenente confida a Nozzoli «che il Comando aveva ac-
certato l’esattezza» delle informazioni fornite sullo schieramento te-
desco e sulla ubicazione dei campi minati, «rinunciando al
bombardamento di spianamento di San Marino programmato prima»
dell’arrivo di quel gruppetto di partigiani. Il Titano era salvo con le
sue migliaia di rifugiati.

«Il crollo della linea gotica consentì, con il decreto del 23 set-
tembre 1944, di restituire il potere al Consiglio dei LX e di
estromettere i fascisti dal Governo», mi spiega Cristoforo Buscarini
ripercorrendo velocemente gli avvenimenti della Repubblica dopo la
liberazione del territorio riminese dall’occupazione tedesca, av-
venuta il 21 settembre. «Con la legge del 23 ottobre dello stesso ’44,
fu poi avviato un procedimento penale contro i responsabili fascisti.
Si badi bene, però. Il procedimento era limitato agli atti compiuti
dopo il 28 ottobre 1943, e quindi si riferiva unicamente a coloro che
militarono nel partito fascista repubblichino, e compirono atti di vio-
lenza».
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 61

Il 28 ottobre ’43 il Consiglio di Stato aveva decretato un «atto di


pacificazione cittadina che metteva i capi del regime al riparo da
qualsiasi rischio penale per le responsabilità assunte nel Ventennio»,
precisa Buscarini. L’effetto di questo provvedimento era chiaro: «In
tal modo, non pochi gerarchi responsabili del Ventennio superarono
indenni la bufera», aggiunge Buscarini. «La sentenza penale, emessa il
22 gennaio 1946, rivelò particolare indulgenza rispetto alla gravità
delle imputazioni, le quali esulavano dall’ambito puramente politico,
per configurare autentiche, comprovate violenze. Essa fu presto
seguita da ampia amnistia.»
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 62

CAPITOLO XI
I GIORNI DEL SILENZIO

A San Marino dopo la fine della guerra operò il Consiglio dei XII
per le sanzioni contro il fascismo. Ne fece parte anche il professor
Giovanni Franciosi (1894-1981), nipote di quel Pietro Franciosi
(1864-1935) che «storico, filosofo pubblicista e giornalista, fu la
mente del socialismo sammarinese che egli non vide mai disgiunto
dai concetti di democrazia e libertà» [F. Bigi].
Giovanni Franciosi era stato allievo di Righi all’Università di
Bologna, prima di diventare insegnante di matematica e fisica, molto
apprezzato ed amato, al liceo scientifico Serpieri di Rimini. Nel corso
del Ventennio anche lui era stato costretto alle adunate fasciste in
divisa. Nel ’27, apostrofato in maniera arrogante dal seniore Lancia,
si era poi rifiutato di partecipare ad ulteriori manifestazioni. Ed ebbe
ovviamente delle grane. In suo aiuto andò il segretario agli Interni di
San Marino, Giuliano Gozi che Franciosi si trovò a giudicare nel
Consiglio dei XII.
Grazie agli appunti redatti allora da Giovanni Franciosi nel
corso delle sedute del Consiglio, è possibile ricostruire i momenti
principali del processo ai repubblichini del Titano.

I lavori sono inaugurati il 24 dicembre 1945. Il Reggente


Martelli illustra la gravità e l’importanza degli atti da compiere, ed
invita tutti «i componenti a una serena, obiettiva discussione»,
facendoli giurare sul segreto, e che essi giudicheranno «senza amore e
senza odio».
«Seduta calma e tranquilla», commenta Franciosi: «Sembra che
tutti i membri del Consiglio dei XII siano consci della gravità della
funzione che sono chiamati ad assolvere». Franciosi, assieme ad altri
due consiglieri, è poco persuaso «sulla entità e consistenza delle prove
raccolte su molte gravi imputazioni». Ha dubbi anche su alcuni passi
della relazione che il Sindacato istituito dalla legge 23 ottobre ’44, ha
fornito al Consiglio dei XII. Si decide pertanto di convocare il pre-
sidente del Sindacato stesso, avvocato Federico Comandini, «affinché
possa illuminare il Consiglio sulle procedure seguite durante
l’istruttoria e i criteri seguiti nel formulare la sentenza» di primo
grado contro i repubblichini.
Preso atto che, come si è visto, «il compito del Sindacato è limi-
tato al periodo 1943-1944», e che quindi «il Ventennio può venire solo
incidentalmente considerato», Franciosi e altri due consiglieri «fanno
osservare come tutto porti a considerare la opportunità di una pena
contenuta in limiti minimi». D’altra parte, precisa Franciosi, la legge
«votata quasi all’unanimità dal Consiglio dei LX dà la facoltà al
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 63

Consiglio dei XII di scendere, nell’applicazione del Codice, al di sotto


dei minimi che esso prevede». Viene poi ricordato un elemento,
«lamentato anche dal Sindacato, che la cittadinanza non si è molto
interessata al processo».
L’osservazione sottintende uno spirito di riappacificazione, a ri-
prova del quale Franciosi aggiunge un particolare: «Vi è stato perfino
un membro del Consiglio di Liberazione dei più attivi che pur essendo
tra gli accusatori, non si è presentato a deporre quando è stato citato
quale teste, anzi ha rilasciato ad un imputato una dichiarazione che
in un certo modo lo scagiona da un delitto (bastonatura allo stesso)».
Non tutti sono d’accordo con la tesi di Franciosi. Ma alla fine la
proposta di contenere le pene nei limiti minimi, «viene accolta».
Annota Franciosi: «Anche questa seduta calma. Sembra che le
idee di mitezza prevalgano. Ma si ricomincia a manifestare
l’intransigenza e la settarietà di qualcuno»: seguono i nomi. Qualcun
altro è, come Franciosi, «per una condanna più morale che materiale».
C’è infine chi «dà ragione a tutti. Dice che siamo tutti d’accordo.
Chissà da quali elementi lo ricava questo accordo?».

Alla terza seduta (2 gennaio 1946) interviene l’avvocato


Comandini, presidente del Sindacato che ha formulato la relazione
trasmessa al Consiglio dei XII. Gli vengono chiesti alcuni chiarimenti
ritenuti necessari al processo. La domanda principale che gira tra i
componenti del Consiglio dei XII, è questa: in base a quali prove il
Sindacato «ha potuto ravvisare negli atti del partito fascista
repubblichino sammarinese una cospirazione»? E poi: se cospirazione
c’è stata, come si è concretata? La richiesta parte dallo stesso
Franciosi. Altri giudizi calcano la mano. Danno per accertata la
cospirazione, e si chiedono perché non sia stato ipotizzato invece il
più grave reato di attentato alle istituzioni della Repubblica.
«Comandini nega che si possa parlare di attentato». Alla domanda di
Franciosi su come si sia realizzata la cospirazione, Comandini
risponde: «Colla richiesta del potere fatta il 5 giugno». La dichia-
razione di Comandini rende necessaria una «nuova consultazione
degli atti perché molte cose sono rimaste dubbie anche dopo le
delucidazioni date».
È il momento di maggior tensione tra i XII: «La maggioranza
comincia a dimostrare il suo disappunto. Credeva di avere qualche
cosa di più sicuro e di maggiormente colpibile. Nei consiglieri della mi-
noranza aumenta invece il disagio morale»: essi infatti hanno
«l’impressione che la colpabilità degli imputati non venga lumeggiata
in modo da avere una chiara idea». La maggioranza sembra a Fran-
ciosi «disorientata (almeno i capi). Appare via via evidente che alcuni
elementi […] se ne freghino delle risultanze del processo: essi nella
loro incoscienza sono tranquilli e disposti a qualsiasi condanna».

Quarta seduta, 7 gennaio. Il Reggente apre la discussione,


Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 64

credendo che «tutti i Consiglieri si siano formati un’idea chiara del


processo». C’è un gran silenzio nell’aula: sembra che tutti siano consci
della gravità degli atti, annota Franciosi il quale si alza a parlare per
primo: «La costituzione del fascio repubblicano ha portato gravi
difficoltà al Governo in momenti particolarmente difficili […].
L’azione del fascio è stata veramente deplorevole». Secondo Franciosi,
non sono accettabili le tesi della difesa sull’opera svolta dai fascisti
sammarinesi a favore della Repubblica. Infatti, «quando il fascio
repubblicano si è costituito, le relazioni sia coi tedeschi che con la
Repubblica sociale italiana erano normalizzate e nulla era più da
temersi data la condotta di stretta neutralità dal Governo tenuta».
Per Franciosi occorreva distinguere tra azioni moralmente
condannabili, ma non perseguibili penalmente, da quelle che ri-
chiedono invece l’applicazione del codice penale. Dai documenti,
aggiunge, non è emersa pienamente la prova del delitto di
cospirazione contro lo Stato: «Nello stesso atto del 5 giugno 1944 non
si richiede una cessione di poteri, ma solo maggiore partecipazione al
Governo». Franciosi esprime poi un giudizio molto acuto, sotto il
profilo politico: «L’ammissione di cospirazione non è conciliabile coi
compromessi anteriori e posteriori al 5 giugno».

Con la parola «compromessi», Franciosi mette a fuoco il clima


creatosi a San Marino dopo l’atto di «pacificazione cittadina» del 28
ottobre ’43, mediante il quale si aprivano le porte del Governo anche
ai fascisti: ben cinque, su venti componenti, tra cui lo stesso Giuliano
Gozi, il duce di San Marino. Quella di Franciosi è una denuncia basata
su di un’opinione ben precisa. Nella confusa situazione creatasi dopo
il 28 luglio ’43 (caduta del regime fascista sul Titano), i repubblichini
si sono macchiati in un certo senso di colpe ‘permesse’ loro anche
dagli avversari. Quindi, non debbono essere soltanto i repubblichini a
pagare per tutti. Di qui, la propensione di Franciosi alla linea della
clemenza.
Scrive Franciosi che il suo richiamo «a tutti i compromessi
anche dal Giacomini sottoscritti», punge lo stesso Giacomini che
«annaspa per giustificarli e per coprirsi» (quest’ultima parola non è
chiara nel manoscritto), «con una vernice di verginità che gli tolga
qualche scrupolo di coscienza sulla sua posizione». Per provare la
cospirazione occorrerebbe provare anche che in precedenza fossero
stati compiuti atti in questa prospettiva, atti «che non fossero a
conoscenza come per esempio azioni delittuose eventualmente
compiute nelle andate al Nord», di cui non si parla però nei documenti
ufficiali.
Altri interventi di segno opposto alla linea sostenuta da
Franciosi, definiscono «politico» il processo che si sta svolgendo ed
aggiungono che la condotta degli imputati va valutata appunto sotto il
profilo politico e non penale: la conclusione è che i fascisti non
cospirarono soltanto, ma cercarono pure di realizzare un attentato
allo Stato.
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 65

Il dottor Alvaro Casali aggiunge altri particolari su fatti,


intimidazioni o «atti violenti», come l’attentato alla sua persona: «Dice
che in quel giorno (6 febbraio ’44) c’erano in Borgo ben dieci fascisti
di città e che era preparato un vero e proprio complotto per colpire
non solo lui ma anche altri esponenti». Giacomini ribadisce: «Il
processo è politico e come tale non soggiace alle forme procedurali».
Gli risponde Franciosi che per un processo politico occorreva una
«legge eccezionale», non quella normale che era in vigore allora.
In una seduta successiva (di cui negli appunti manca la data),
Franciosi ripresenta le sue considerazioni: crede che «nel dubbio di
una cospirazione, si debbano punire i fascisti per quanto hanno
effettivamente compiuto e sia pienamente provato. La condanna sarà
quindi soprattutto una condanna morale, una solenne deplorazione
[…], aggravata da interdizione e da una mite sentenza». Alla parola
«deplorazione», interviene ironico Giacomini: «Come facciamo coi
bambini delle scuole elementari». Lo scontro all’interno del Consiglio
dei XII si fa aspro. Franciosi, assieme al collega Suzzi Valli, ripete che
è per una «giustizia serena» che scaturisca da un «accurato esame
degli atti». Dalla parte opposta si parla di «giochetti» per perdere
tempo. Franciosi replica sdegnato: «Questo è un linguaggio offensivo».
La maggioranza dei XII è per l’ipotesi della cospirazione, e per
estendere l’accusa a tutti gli appartenenti al fascismo, «anche a quelli
cioè non chiamati dal Sindacato o prosciolti da esso». È possibile sol-
tanto una pena politica, precisa il Commissario della Legge: così, il
Consiglio vota all’unanimità di «dare una sanzione morale a tutti gli
ex fascisti repubblicani, infliggendo la perdita dei diritti politici per
un tempo da determinarsi caso per caso». Osserva Franciosi: ormai il
Consiglio è diviso in due parti, tra chi vuol dare un giudizio sereno in
base agli atti, e chi senza averne letto neppure una riga, è deciso ad
infliggere pene di una certa misura, «indipendentemente dai dubbi (o
certezze)» che possono nascere dall’esame di quegli atti.

Conclusione dei lavori. Si mettono ai voti le accuse alle singole


persone. Per Giuliano Gozi passa la sentenza di sette anni di carcere,
per suo fratello Manlio pena di cinque anni. Scrive Franciosi:
«Durante il procedimento è stato veramente deplorevole il contegno
di alcuni membri della maggioranza che si comportavano come se si
trattasse di fare un giuoco di società piuttosto che di infliggere pene
anche gravi a persone che, se anche colpevoli, meritano che i loro casi
vengano discussi con la serietà che l’ambiente e il caso richiedevano».
Tra la maggioranza, si parla di «atto di giustizia», per il quale non
c’entra per nulla la generosità.
Indipendentemente da quanto ognuno possa pensare sul voto
contrario dato alla sentenza da Franciosi assieme ad altri due
consiglieri, queste sue pagine restano un importante documento su di
un momento cruciale, tra vecchio e nuovo corso degli eventi. In
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 66

Franciosi prevale la volontà di sostituire agli odi del passato la


clemenza di un perdono inteso come rinuncia alla punizione.
Resta l’eterna domanda se giustizia e punizione siano soltanto
una forma di vendetta legalizzata della società, o un bisogno degli
uomini per ricostruire la vita, dopo le violenze e le distruzioni. Gli
appunti di Franciosi trasudano amarezza. Sono pagine utili a capire il
travaglio della storia e dei giudizi che vengono espressi sugli
avvenimenti trascorsi, soprattutto quelli più recenti.

Un’osservazione di Clara Boscaglia ritrae perfettamente questo


dramma umano: «I verbali del Consiglio di Stato nella loro
schematicità non offrono nessuna documentazione del calvario di
quei giorni che i più anziani non sembrano intenzionati a
tramandarci e che i più giovani ignorano perché nessuno si pre-
occupa di farlo conoscere». Ed a sostegno della sua opinione, la
Boscaglia cita proprio Francesco Balsimelli, Reggente nel 1944:
«Checco non rievocava volentieri quel periodo, forse perché troppo
brutto, forse perché vi giocò un ruolo molto importante […]. Mai
accondiscese alle pressioni di chi insisteva perché dalle pagine del
suo diario traesse per le future generazioni la storia degli anni 1943-
1944».
Dopo i «giorni dell’ira», vennero i «giorni del silenzio». Che dura-
rono a lungo, ma non poterono cancellare dalla memoria collettiva e
dei singoli, quei tragici momenti.

Conclusosi il processo al Consiglio dei XII, Manlio Gozi chiese


l’intervento di Franciosi nei confronti suoi e del fratello Giuliano. «La
nostra vita in carcere è insopportabile», gli scrive dal penitenziario di
Urbino nel marzo ’46, invocando un aiuto: «Comprendo che molte
saranno le difficoltà, ché ben conosco la irriducibilità di chi molto se
non tutto può».
In un’altra lettera a Franciosi, scriveva lo stesso Manlio Gozi:
«Nei momenti di disgrazia, quando si è caduti e tutti che prima ti
riverivano ti sfuggono per il timore di compromettersi, il ritrovare un
vecchio amico che, avendo saputo sorvolare su qualche screzio che
può avere questa vecchia amicizia per un po’ raffreddato, si batta a
difesa della giustizia sfidando ire e impopolarità, non è cosa che
càpita sovente e si verifica soltanto in chi la sua vita uniforma a
princìpi di rettitudine e onestà».
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 67

CAPITOLO XII
IL CREPUSCOLO DEGLI EROI

Dopo l’esecuzione capitale dei Tre Martiri, la Polizia di Rimini ha


inviato un rapporto al federale fascista di Forlì: «La cattura, nella
caserma di via Ducale, di tre ribelli è stata opera personale della
intelligente ricerca del Segretario Politico della città di Rimini,
coadiuvato da elementi della Feld-Gendarmeria tedesca». Quel
segretario politico è Paolo Tacchi.
La vicenda umana e politica di Tacchi ha i caratteri di altre
storie nate sotto il fascismo e poi sfociate nello scontro della guerra
civile. La sua figura è emblematica della situazione italiana tra ’43 e
’44. Ricostruirla, significa anche descrivere un tratto di vita na-
zionale con le contraddizioni, le esaltazioni e le miserie morali di ogni
guerra. Nato a Scheggia nel 1905, alto 1.64, occhi castani, colorito
roseo, capelli lisci, a vent’anni è descritto come un giovane «allegro»,
in mezzo ai balli di carnevale. Nel ’35 diventa dirigente dei fasci
giovanili (nelle parate sfila in testa alla premarinara), ed è fra i tren-
totto riminesi che ottengono il brevetto della Marcia su Roma: molti
di loro non si erano mossi dalla città il 28 ottobre ’22.
Nel ’38 il suo comportamento troppo impulsivo è censurato dal
Fascio. Nel ’41 organizza la giornata di propaganda marinara; scrive
un articolo sul Corriere Padano in ricordo di un caduto, e porta i suoi
premarinari in gita a Venezia. Poi c’è il richiamo alle armi come
maresciallo di Marina al deposito di Pola, quindi a Piombino, Roma e
Trapani.
La notte del 25 luglio torna a Rimini in licenza di convalescenza.
Gioca a fare il duro. Dalla stazione ferroviaria Tacchi va verso casa in
via dei Mille; al Caffè Marittimo qualcuno gli grida: «È finita anche per
te»; ne nasce una zuffa sedata per l’intervento di altre persone.
Nominato segretario repubblichino di Rimini, detta legge in città e nel
circondario. Non soltanto: come si è visto, estende la sua influenza a
San Marino. Impone il nome di Ughi quale Commissario al Comune.
Spaventa la gente con minacce, prepotenze, soprusi di ogni tipo. È «il
fascista di punta», come lo definisce Oreste Cavallari.
Cavallari ha consultato documenti ed interrogato nemici ed
amici di Tacchi, ricavandone un ritratto a due luci, senza alcuna
sfumatura. «Un generoso, un uomo pieno di fede, un uomo che si
esaltava nell’azione», per il suo patron Buratti. «Servì mirabilmente la
causa della fraternità, della pace e della fede», attestò nel ’72 mons.
Giuseppe Zaffonato, allora vescovo di Udine, che forse aveva
conosciuto Tacchi nella sede precedente, a Vittorio Veneto dove restò
dal ’44 al ’56 e dove lo ricordano come un patriota sostenuto dalla
destra missina.
«Ligio al dovere e operoso», secondo il cap. Umberto Zamagni di
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 68

Venezia. «Un sadico, un delinquente», «Mezzo normale e mezzo fana-


tico, quando era in divisa voleva fare il ‘duro’, peccato che fosse quasi
sempre in divisa», dicono due riminesi. «Girava armato fino ai denti su
un’auto con mitraglia sempre con la scorta. Voleva combattere, ma a
combattere non andava, non andò. Anzi fuggì», puntualizza Cavallari:
«un uomo sbagliato al posto sbagliato».
Il generale Carlo Capanna mi ha dichiarato: Tacchi era «un
matto, un esaltato e violento. Uno che faceva pressione sui ragazzini».
Federigo Bigi ha definito Tacchi «molto più odioso» del Comandante
delle SS. Secondo Mario Mosca, il suo vice nel partito, «Tacchi era un
impulsivo» che ideava «spericolate e inutili missioni». Un’anziana
signora di Rimini mi dice che il nome di Tacchi per la gente
significava terrore. Tutti conoscevano bene l’arroganza di ‘Paolino’, la
sua aria di spavalderia e di sfida. La violenza esercitata ed esibita
costituiva il suo credo.

Quando Tacchi cade in disgrazia dopo la Liberazione, anche i


suoi ex camerati lo attaccano. Giuffrida Platania dichiara che
‘Paolino’ «era intrattabile specialmente se in compagnia delle sue
belle, la Ines Porcellini e la Maria [Bianca Rosa] Succi, quest’ultima
sua segretaria privata e cassiera del Fascio». Altra accusa di Platania:
Tacchi aveva portato «il suo quartier generale a San Marino, ove so-
leva riposarsi dalle fatiche fasciste in compagnia delle sue compagne
ed amanti abbandonandosi ad orgie neroniane durante le quali spesso
venivano torturati i partigiani caduti nelle imboscate». Il riposo del
guerriero.
Riferisce Cavallari che Platania disse pure «di aver sempre
detestato il Tacchi per i suoi atti di violenza, per le azioni criminose
che questi commetteva soprattutto se ispirato dalle sue amanti».
Bianca Rosa Succi ‘canta’ davanti ai partigiani, nel ’45, accusando
Tacchi di aver bastonato «spesse volte» alla Colonia Montalti, sede del
fascio: «Platania poi, rimproverava Tacchi di essere troppo buono». I
riminesi, aggiungeva la Succi, «quando avevano bisogno di fare affari
o di ottenere qualcosa strisciavano» Tacchi, «magari inneggiando
anche al Fascio Repubblicano».
«Per ordine del Capo della Provincia», leggiamo in una cronaca
del ’45, «il Tacchi aveva avuto l’incarico di comandare tutti gli organi
di polizia, compresi i carabinieri. La sua guardia del corpo era costi-
tuita da militi della Venezia Giulia in un primo tempo, poi da dodici
ragazzi di Corpolò. Verbali e interrogatori erano spesso eseguiti da
una delle donne che se la intendevano con lui, certa Bianca Rosa
Succi». La Succi, in una lettera al presidente del tribunale di Forlì ove
era imputato Tacchi, accusava il suo ex amante di aver organizzato i
rastrellamenti nel Riminese, di aver catturato prigionieri di guerra
alleati, e di aver collaborato con il Comando tedesco per la
compilazione di liste di riminesi da deportare in Germania.
«La Ines Porcellini afferma nella sua deposizione scritta che i
rapporti fra il federale riminese [Tacchi] e gli ufficiali germanici
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 69

furono improntati sempre alla massima cordialità, provocando fre-


quenti reciproci inviti a cene e a divertimenti» scrive Città Nuova il
12 maggio ’46.
A proposito della cattura dei Tre Martiri, Mosca difende Tacchi
da ogni responsabilità, raccontando che «un maresciallo tedesco si
mise alle costole di Tacchi» in via Ducale. Tacchi invece dichiara in
tribunale di aver seguito lui, casualmente, la macchina con il mare-
sciallo tedesco che si recava in via Ducale. Al processo di Forlì del ’46,
dove è imputato anche per l’uccisione di partigiani e di renitenti alla
leva oltre alla «responsabilità presunta» nell’impiccagione dei Tre
Martiri, Tacchi viene condannato a morte. Nel ’49 la Cassazione lo
assolve per non aver commesso il fatto: l’uccisione dei Tre Martiri av-
venne, secondo la sentenza della Suprema Corte, «per circostanze
improvvisamente sorte e non prevedute, per iniziativa e ordine
dell’autorità militare germanica».

Giuffrida Platania ricostruisce al Giornale di Rimini nel ’45 la


spedizione di Cagli, in cui Tacchi rimase ferito. Era stata organizzata,
nel marzo ’44 contro la Quinta brigata Garibaldi, con una cinquantina
di fascisti provenienti da Santarcangelo, Viserba e Bellaria. «La
spedizione di rastrellamento non era ancora giunta sul posto», scrive
il giornale, «che fu accolta da un fitto fuoco di fucileria da parte dei
gruppi di patrioti nascosti nei paraggi». Tacchi venne ferito in modo
«piuttosto grave», come spiegherà lui stesso al Carlino nel ’64, la-
mentando di esser stato «lasciato quasi solo» dai suoi.
Il 15 maggio dello stesso ’44 un altro attentato contro Tacchi
avvenne nei pressi della sede del fascio alla Colonia Montalti, mentre
lui stava ritornando in auto da Santarcangelo: «Gli attentatori
fuggirono, lasciando sul terreno le armi, con tracce di sangue». Ad
agire sono stati due gappisti, Alfredo Cicchetti e Gino Amati. Tacchi
dice di esser stato fatto segno a colpi di mitra e di moschetto. I
partigiani scrissero nella loro relazione che l’attentato non riuscì
«causa inceppamento».
Tacchi elenca in tutto sei attentati alla sua persona. E smentisce
quanto scritto nel ’62 da Adamo Zanelli, che cioè il 2 gennaio ’44 i
gappisti lo ferirono gravemente. Oltre che alla Colonia Montalti e a
Cagli, Tacchi sarebbe stato attaccato (a suo dire) a Spadarolo, alla
Grotta Rossa, a Villa Ruffi ed a Serravalle. Quest’ultimo episodio del
luglio ’44 è il più misterioso. Esso è stato già ricordato. Tacchi parla di
«colpi» contro la sua ‘Topolino’, dalla quale egli era sceso poco prima.
In una pagina di Montemaggi, quei colpi diventano «una raffica di
mitra e lancio di bombe a mano», con un volume di fuoco imponente
che non avrebbe lasciato scampo al conducente della vettura,
Francesco Raffaellini. Tacchi, racconta Giordano Bruno Reffi,
«sospettava che i colpi che avevano perforato la macchina fossero
partiti all’interno della stessa auto», e fece una «scenata» a Raffaellini,
uno dei suoi fedelissimi.
L’attentato sarebbe stato compiuto da due gappisti e da Adelmo
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 70

Ciavatti (Sap), come si legge nelle Relazioni di Celestino Giuliani. In


quei giorni Giuliani non è in zona, ma in montagna da dove rientra
nell’agosto ’44. Ciavatti fu fucilato dai tedeschi che cercavano un suo
fratello, accusato di aver ucciso un soldato nazista. Dei due gappisti,
dei quali nessuno ha voluto farmi i nomi, non parlano gli atti storici
dei Gap («Relazione Gabellini»), dove non è neppure citato l’episodio di
Serravalle che sembra rappresentare e siglare la storia di un
personaggio «ambiguo e contraddittorio» (così lo definisce Bruno
Ghigi) come Tacchi.

L’ultimo giorno dell’agosto ’44 Tacchi scappa da Rimini verso il


Nord con la carovana repubblichina. «Si è parlato sempre e soltanto
del suo successivo ‘soggiorno’ a Como», ci dice un gappista: «Non si è
mai ricordata l’attività criminale che Tacchi svolse a Modena con la
brigata nera ’mobile’ Pappalardo». Nella Gazzetta dell’Emilia del 15
ottobre ’44 si legge che a dar manforte ai camerati di Modena si erano
appena trasferiti molti elementi della brigata nera «Capanni» di Forlì,
della quale faceva parte come terzo battaglione la brigata nera di
Rimini anch’essa intitolata ad Arturo Capanni, segretario federale del
capoluogo ucciso dagli antifascisti il 10 febbraio ’44.
La «Pappalardo» aveva sede a Concordia ed era comandata dal
medico bolognese Franz Pagliani, uno degli autori della strage di Fer-
rara, squadrista fanatico inviso agli stessi tedeschi. Operò tra Modena
e Reggio Emilia. Pagliani era noto per il suo oltranzismo. Professore
universitario, dirigeva l’Istituto di patologia chirurgica all’ateneo di
Bologna. Fu anche federale di Modena ed ispettore regionale per
l’Emilia-Romagna di tutte le brigate nere. A Pagliani fece capo la
corrente più violenta del fascio modenese. Di lui, si ricorda una frase
pronunciata dopo l’adunata del 28 ottobre ’43: «Da oggi cominceranno
a funzionare sul serio i picchetti di esecuzione». Nel gennaio ’44 fu
giudice al processo di Verona.
Il generale tedesco Frido von Senger und Etterlin, comandante
del 14º Corpo d’armata corazzato, definisce Pagliani l’«anima nera»
del brigatismo fascista, un intrigante che von Senger stesso fece di
tutto per estromettere dall’incarico di ispettore regionale. E ciò
avvenne il 28 gennaio ’45, per decisione di Mussolini, dopo l’uccisione
di quattro noti professionisti di Bologna. Von Senger in un libro di me-
morie scrisse parole di fuoco contro le brigate nere emiliane, da lui
definite «nostro comune avversario»: «Autentico flagello della
popolazione, queste erano altrettanto odiate dai cittadini come dalle
autorità […] e da me. Le brigate nere erano composte dai seguaci più
fanatici del partito», i quali «erano capaci di compiere qualsiasi ne-
fandezza quando si trattava di eliminare un avversario politico». Quei
fascisti, prosegue il generale tedesco, si dimostravano solo «fedeli e
devoti al Duce», ed erano «incapaci di esprimere un giudizio
personale».
Von Senger ricorda anche che a seguito di una serie di azioni
terroristiche, violenze, torture ed omicidi compiuti dalle brigate nere
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 71

emiliane nel tardo autunno ’44, lui stesso, come capo della zona di
operazioni, il 21 dicembre convocò a rapporto i maggiori responsabili
politici e militari del fascismo. In quell’occasione Von Senger accusò
le brigate nere di compiere azioni «che hanno tutte le caratteristiche
di assassinii da strada».
Dopo la guerra, Pagliani fu condannato e scontò un lungo pe-
riodo di detenzione prima di tornare a fare il chirurgo, non più a
Bologna, ma a Perugia.
L’ambiente della brigata nera Pappalardo, nel quale questa
testimonianza inedita inserisce la figura di Paolo Tacchi, è uno dei più
terribili dell’Italia di Salò. Circa la presenza di Tacchi a Modena non
esistono atti ufficiali, come precisa una lettera del 26 novembre 1990
scrittami dall’Anpi di Modena: «Delle nefaste gesta della Pappalardo
nel Modenese, possediamo solo documentazioni e nomi di apparte-
nenti alla medesima, ricavati dal processo celebrato contro il
‘comandante’ Franz Pagliani ed altri, ma il Tacchi non figura tra essi.
Abbiamo interessato l’Istituto Storico della Resistenza di Modena
della questione, ma nulla è stato trovato nei suoi archivi sul Tacchi».
Anche Bianca Rosa Succi non porta lumi al riguardo: nell’intervista
concessa a Il Garibaldino del 14 settembre ’45, accenna soltanto a
«rastrellamenti contro i Partigiani in Val Sesia e in altre località del
Nord», compiuti da Tacchi che «divenne comandante del reparto
operativo di Como».
«Perché i partigiani modenesi oggi non sanno nulla di Tacchi?»,
ho chiesto al gappista che mi ha fornito la notizia. La sua risposta: «I
partigiani hanno nascosto le notizie perché anche loro avevano le loro
pecche da coprire».

Dopo il 25 aprile ’45 Tacchi cerca di cancellare i precedenti a


suo carico. Nel Garibaldino del 14 settembre ’45 si legge di un padre
Stanislao Sgarbozza «lurido frate, ex cappellano delle Bande Nere»,
che «divenuto membro del C.L.N [di Appiano Gentile] stava lavorando
alacremente per dimostrare alle autorità locali che Tacchi aveva fatto
soltanto del bene e che, nemmeno a Rimini, esisteva nulla a suo
carico».
Secondo il Giornale di Rimini dell’8 luglio ’45, il vice di Tacchi
nel partito e nella brigata «Capanni», Mario Mosca, «rivelò che il
Tacchi […] era in possesso di un certificato di partigiano». Aggiungeva
il giornale che «forse facendosi forte di questa carta il Tacchi non s’è
peritato di scrivere al sindaco di Rimini una lunga lettera nella quale,
“dopo lunghe giornate di dolore”, intende aprire il suo animo per
ottenere “non la pietà ma la giustizia”».
Era particolarmente abile Tacchi, oppure i tempi confusi
dell’immediato dopoguerra favorivano il recupero di personaggi che,
per quanto compromessi con il passato regime, potevano far sempre
comodo in funzione anticomunista, come sembrano dimostrare certe
vicende politico-storiche? Il caso Gladio, ad esempio, potrebbe inse-
gnare qualcosa: con quel simbolo, il gladio appunto, che nel settembre
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 72

’43 i repubblichini avevano messo sulle loro divise, al posto delle


stellette del Regio Esercito.

Il generale Carlo Capanna, medaglia d’argento al valor militare,


nel 1989 mi ha raccontato come lui ‘catturò’ Tacchi nella tarda
primavera del ’45. Il ras repubblichino dopo l’arresto a Como è stato
trasferito a Padova: qui presta servizio militare un ufficiale riminese
amico di Capanna, Piero Albani. Capanna fino al 10 maggio ’45 ha
fatto parte dell’Oss, Office of Strategic Service, il servizio segreto
americano che agiva in appoggio alle forze di liberazione.
Albani viene da Padova a Rimini ad avvisare Capanna di una
voce raccolta in ambienti bene informati: «Tacchi sta per essere
liberato, la dc cerca di tirarlo fuori». Capanna chiede subito al
Commissariato di Pubblica sicurezza di Rimini un mandato di cattura
per ‘Paolino’. Ottenutolo, corre a Padova per eseguirlo. Viaggia a
bordo di un’auto militare americana ed indossa la sua vecchia divisa
dell’Oss, accompagnato dai ricordi politici che lo legano suo malgrado
anche a Tacchi.
Carlo Capanna è figlio di un noto antifascista di vecchia data,
Giuseppe: «Lo hanno arrestato una prima volta nel ’21. Sotto la
dittatura ogni volta che succedeva qualcosa a Mussolini lo portavano
in galera con Isaia Pagliarani, Bordoni, Naccari, Faini», tutti
oppositori del regime. Nel ’24 uno di quegli arresti avviene in modo
diverso dal solito. Dopo che gli hanno messo le manette, suo figlio
Carlo si avventa contro il ‘questurino’ che ferisce Giuseppe Capanna
per immobilizzarlo.
Nei giorni successivi all’8 settembre Carlo Capanna è tra gli
organizzatori della resistenza ai nazifascisti. A Spadarolo fa razzia di
armi, che erano state trasferite dalla caserma dell’artiglieria
riminese appena dato l’annuncio dell’armistizio. Sale a San Leo con
un camion requisito e consegna le armi ai Bucci di Secchiano: passerà
a prenderne la metà prima di salire in montagna. A Spadarolo quel
giorno Capanna va in bici. Ha con sé una pistola. L’arma gli cade in
piazza Mazzini: mentre la recupera, lo osserva un suo ex compagno di
scuola, «Semprini, quello che accomodava le biciclette in un
bugigattolo». «Ecco come succedono le disgrazie», gli dice Semprini.
Capanna prosegue, fa finta di nulla. Qualche giorno dopo la polizia dà
la caccia a Capanna padre, per ordine di Tacchi. Parlando in giro
Giuseppe Capanna ha criticato duramente il tentativo di pacificazione
progettato dai repubblichini.
«I ‘questurini’ prendono un certo Tosi di Corpolò che
rassomigliava a mio padre. Ma visto che non era lui, dovettero
rilasciarlo». Tosi appena libero avvisa Giuseppe Capanna che stavano
per catturarlo. Capanna padre fugge, e si nasconde in un suo podere a
Ponte Uso. La polizia a questo punto arresta la moglie di Giuseppe
Capanna, signora Marzia, e la porta davanti a Tacchi: «Dov’è vostro
marito?».
«Le faccio un regalo se me lo trova», risponde la signora
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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inventando con felice prontezza una storia di tradimenti coniugali e


di affari in pericolo: «È scappato con soldi ed amante. Io debbo fare dei
pagamenti e non so come comportarmi…». Anche Tacchi inventa. Ma
la sua è una balla che non sta in piedi: «Volevamo che vostro marito ci
desse qualcosa per gli sfollati». «E che bisogno c’era d’arrestarmi? Per
dei soldi? Vi darò mille lire. Ma non le ho dietro. Manderò mio figlio a
consegnarvele», risponde la signora.
Due giorni dopo Carlo Capanna porta a Tacchi le mille lire
promesse. Sono presenti Platania e Frontali. Tacchi chiede al giovane
dove sia suo padre. Carlo ripete la storia della fuga d’amore: «Lei è
sadico, sa già come sono andate le cose, ha avuto i soldi ma vuole
rinnovare il dolore». Il colloquio ha una svolta inattesa. Tacchi guarda
fisso Capanna: «Le è caduta una pistola». Capanna ammette: «È vero, è
la mia pistola d’ordinanza». Tacchi ribatte confidenzialmente: «Tu voi
andare a fare il militare». «Lei è sergente, io equivalgo a sottotenente.
Non accetto il tu. Le do del lei. Faccia altrettanto» risponde severo
Capanna. «No, del voi semmai», puntualizza Tacchi.
Capanna da accusato diventa accusatore: «Io ufficiale dovrei
stare a disposizione di un sergente di Marina? Poi, so tutti i suoi
precedenti». Tacchi cambia espressione nel volto. Capanna alza il tiro:
«Lei era impiegato in banca ed ha rubato, e per non finire in galera si è
sparato un colpo ‘intelligente’…». (A Rimini si sapeva che Tacchi si era
ferito di striscio con un’arma da fuoco.) Tacchi comincia ad urlare
come un dannato: «Questo, lo denuncio per diffamazione». Poi lo
licenzia ammonendolo: «Si ricordi bene di non incontrarmi sulla mia
strada, perché altrimenti saranno guai». Capanna saluta: «Ognuno ha
la sua strada davanti, e vedremo chi la spunta».
Le loro strade, due anni dopo quello scontro di fine settembre
alla sede del fascio riminese, s’incontrano a Padova. Le parti si sono
rovesciate. È Capanna a dare la caccia a Tacchi. Con Capanna ci sono
il maresciallo di ps Nicola Galdieri ed il partigiano comunista Nicola
Pericoli: «Al carcere di Padova esibiamo il mandato di cattura, e ci
consegnano Tacchi. Non gli faccio mettere le manette per sottolineare
la differenza di trattamento che noi sapevamo riservare» al nemico,
dice Capanna: «Uno schiaffo morale».
Il comandante la piazza di Padova rifiuta il trasporto. Capanna
replica infuriato: «Vogliamo che Tacchi sia giudicato», ed esce
sbattendo la porta (avrà una punizione di dieci giorni di rigore, poi
annullata). «Con un mezzo di piazza, una Balilla, porto Tacchi via da
Padova. Sempre senza manette. Per strada, Tacchi comincia a
parlare».
Ricostruiamo quel dialogo. Tacchi: «Che cosa dicono di me a
Rimini?». Capanna: «Ne dicono tante. La cosa più grave è
l’impiccagione di quei tre ragazzi…». Tacchi: «Sarà difficile
dimostrarlo…». Capanna: «C’è la denuncia del frate [padre Callisto
Ciavatti] che ha assistito al discorso fra lei ed il capitano tedesco che
voleva mandarli in Germania. E lei, Tacchi, ha voluto che fossero
impiccati. Bisogna dare l’esempio con il suo processo: altrimenti mi
rivolgo alle autorità in alto. È una cosa che bisogna finirla». Tacchi
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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«Allora, per me non c’è più niente da fare. Se io scappo, mi sparate?».


Capanna: «Certo».
Quando a Pontelagoscuro l’auto è ferma per un rifornimento
d’acqua al radiatore, sulla vettura restano soltanto Tacchi e Capanna.
Tacchi dice: «Io scappo». Capanna lo prende per il cravattino e gli
spiega: «Da un delinquente, io non ne faccio un eroe o un martire. Non
scapperai, e non t’ammazzerò». Capanna chiama il maresciallo e gli
ordina di ammanettare Tacchi.
Capanna vuole fermarsi a Forlì, non arrivare a Rimini. Ha già
un’esperienza, l’arresto a Carpi di Giuffrida Platania, di professione
burattinaio, che giunto a Rimini alla caserma dei carabinieri in borgo
San Giovanni, fu sottratto a fatica all’assalto della folla. A Forlì al
momento dell’ingresso in carcere Tacchi consegna i suoi beni a
Capanna e si sfoga contro Ugo Ughi, nominato commissario
straordinario al Comune di Rimini il 27 novembre ’43 per sua
volontà. Secondo Tacchi, Ughi avrebbe ricevuto da Mussolini un
milione per aiutare i fascisti in difficoltà: «Ma ’sto lazzarone è andato
via senza dare niente a nessuno».
L’8 luglio 1945 il primo numero del Giornale di Rimini
annuncia: «Tacchi arrestato».
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CAPITOLO XIII
ALLA RICERCA DELLA VERGINITÀ PERDUTA

All’inizio del 1965 Tacchi farà una specie di giro di propaganda


a San Marino, alla ricerca di pubblica gratitudine per il suo operato
all’epoca della guerra.
Non gli andrà bene, come invece gli era andata con il Resto del
Carlino (edizione di Rimini, capopagina il professor Amedeo
Montemaggi) che l’anno prima aveva ospitato, senza aprire nessun
dibattito storico, una lettera-intervento in cui Tacchi scriveva: «Noi ci
frapponemmo fra la popolazione italiana e l’ira, comprensibile, dei
tedeschi e sempre in noi prevalse, su ogni altra considerazione, e con
personale nostro rischio, la difesa morale e materiale dell’Italia».
Nel marzo ’65 scrisse l’organo degli allora socialdemocratici
sammarinesi Riscossa socialista che, «accompagnato da un ben noto
camerata» locale era tornato sul Titano «il famigerato Paolo Tacchi di
triste memoria, per chiedere nientemeno, con una improntitudine
inqualificabile, un attestato di ‘benemerenza’ per il gran bene che
dispensò al tempo del neonato fascismo locale e durante il tragico
periodo della seconda guerra mondiale».
Tacchi, ha scritto ancora Riscossa socialista, «questo bieco
manganellatore di cui molti concittadini portano ancora nelle carni i
segni delle sue feroci aggressioni, forse per rifarsi una verginità in
Italia, domandava ad un ex Reggente del tempo, una graziosa
testimonianza, credendo di trovare in Repubblica, uomini disposti ad
assecondare questa sfacciata e provocatoria pretesa. Ben ha fatto
l’interpellato a trattarlo nella maniera drastica col metterlo alla
porta, sola e meritata risposta, ma non sarebbe stato male che la
nostra Polizia lo avesse associato per qualche giorno nella frigida
Rocca a meditare sulle sue eroiche gesta, per convincerlo che i Sam-
marinesi hanno buona memoria e non sono disposti a perdonare le
infamie e le violenze ingiustamente subìte!».
Tacchi negli stessi anni confidava a Montemaggi (che ne
riferisce in un libro dell’84), di esser sempre stato «animato verso San
Marino dagli stessi sentimenti che il dantesco Farinata degli Uberti
nutriva verso Firenze, la città che l’aveva ripudiato e che pur egli
amava ed aveva salvato»! L’Inferno di Farinata e dell’Alighieri, Tacchi
lo aveva studiato da giovane proprio a San Marino nelle scuole della
Repubblica (dove non ci sono tracce del suo passaggio).

Tacchi ha cercato sempre di accreditare di se stesso l’immagine


del salvatore della patria e dell’uomo che pagava per colpe non sue.
C’è un’altra sua lettera, inviata il 2 maggio ’48 da Procida a Mario
Mosca, in cui leggiamo che, quando ebbe «necessità che qualcuno di
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
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Savignano certificasse che il giorno» dell’uccisione di Chesi e Battarra


(a Rimini il 24 agosto ’44) egli era stato in quella località, «l’unica per-
sona che mi rilasciò una dichiarazione fu l’antifascista signora della
Posta e Telefoni che aveva raccolta la telefonata che mi informava
dell’accaduto», mentre «lo sapevano tutti in quel paese e meglio i
fascisti dato che ero colà per comporre le loro beghe». Perché i fascisti
non difesero Tacchi?
Gli interrogativi che restano su quelle vicende, sono tanti. Un
esempio lo ricaviamo da un documento del 17 novembre 1944. È il
verbale della Giunta comunale di Rimini relativo alla lettura di sette
relazioni sulla guerra partigiana, a firma rispettivamente di Inno-
cenzo Monti, Guido Nozzoli, Giuseppe Gabellini, Paolo Sobrero, Ar-
naldo Zangheri, Angelo Galluzzi e Veniero Accreman. Negli allegati,
però manca la relazione di Zangheri, inerente al Gap di San Marino.
Arnaldo Zangheri subito dopo la liberazione rivestì la carica di
sindaco provvisorio di Rimini. Nel verbale di Giunta si legge che
«detta relazione viene approvata; ma si chiede lo stralcio del nome di
Stracciarini Tonino».
Antonio Stacciarini (e non Stracciarini) lo abbiamo incontrato
per la vicenda Paolini. Nei documenti partigiani l’unico accenno a
questa tragica storia, è nella relazione di Innocenzo Monti dell’8 no-
vembre ’44, dove si legge: «In M. Diciano (S. Marino) veniva,
nell’agosto del c.a. da un reparto di partigiani agli ordini del sarto
Pavolini [Paolini] assalito un carro trainato da buoi e carico d’armi e
munizioni tedesche. I sei soldati tedeschi di scorta dopo esser stati
disarmati venivano disarmati e rilasciati. Il capo gruppo Paolini, suc-
cessivamente arrestato decedeva per torture inflittegli dai fascisti.
Altri 16 partigiani venivano deportati in Germania». Il paese di
Montelicciano è in Comune di Montegrimano non nella Repubblica di
San Marino, e l’episodio della cattura di Paolini risale al 12 luglio ’44,
non all’agosto.
Perché in Giunta comunale si chiese «lo stralcio del nome di
Stracciarini Tonino»? Questo nome ai più sembrava alquanto
sconosciuto. Terminata la guerra, su Stacciarini si ebbero
probabilmente notizie più precise, e lo si volle depennare dall’elenco
dei partigiani attivi a San Marino. Ma perché sparì la relazione Zan-
gheri? Forse la chiave del piccolo mistero, sta proprio nella vicenda di
Duilio Paolini.

A proposito di atti scomparsi: Bianca Rosa Succi raccontò al


Garibaldino del 14 settembre ’45 che a Padova i repubblichini
avevano distrutto la lista dei circa seicento loro iscritti, «assieme ad
altri documenti compromettenti».
Un altro documento sparì dopo la guerra: l’archivio del partito
comunista clandestino, «conservato in un bidone di bitume vuoto»,
posto in un pozzetto scavato lungo un argine, nei pressi della casa co-
lonica di Franzchin Zani a San Giovanni in Bagno: «Chissà chi ha
avuto interesse a farlo sparire», si è chiesto Guido Nozzoli.
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CAPITOLO XIV
TRA IERI ED OGGI

«Salvò quei giorni di ragazzo […] con franco pudore»: Sergio


Zavoli ricorda il 25 luglio ’43 vissuto da suo padre che con «una
dignità doverosa» fa sparire nell’orto, in una fossa profonda quasi un
metro, «le apparenze» del credo fascista, «giacca, pantaloni, camicia,
cravatta, cinturone, mostrine e stivali». Nei mesi successivi «quando
qualcosa di ridotto al minimo, di irrimediabile e violento tenterà di
riprodurre quel potere sconfessato, sarà come se nulla del falò
riacceso potesse più riguardarlo. E ciò che del regime venne dopo
restò al di fuori della sua storia e si svolse senza di lui, persino
contro».
Come furono i «giorni di ragazzo» di Sergio Zavoli poco più che
ventenne, al tempo in cui il falò si riaccese? Quando all’inizio del ’43
Gino Pagliarani e Guido Nozzoli erano finiti in carcere, si istruirono
«dei processi agli amici di Gino. Si voleva stabilire chi stava con Gino,
chi ci stava tiepidamente, chi invece con convinzione: o, peggio, chi
non ci stava affatto; o, peggio ancora, chi non ne voleva sapere
neanche un po’. E nascevano delle sentenze inappellabili che
scavavano degli abissi, oppure cementavano delle solidarietà che
durano ancora da allora. Ecco quindi profilarsi la presa di coscienza
di ciò che stava avvenendo: e fu grazie ai miei due amici», Gino e
Guido. Questo dichiara il 23 gennaio 1983 Sergio Zavoli alla tavola
rotonda intitolata Autobiografia di una generazione.
Nel 1994 Gino Pagliarani interviene su Chiamami Città a
proposito di una polemica avuta nel ’48 con «l’amico -si fa per dire-
Sergio», e rispolverata da Manlio Masini. Al termine della lettera, a
proposito dell’orazione commemorativa tenuta da Zavoli ai funerali di
Federico Fellini, Pagliarani scrive: «Mi dicono che […] incantò la folla.
Non mi stupisce. Conosce e pratica virtuosamente l’arte della retorica
(fin dai temi del liceo che puntualmente mi leggeva). Gli riconosco -
nonostante qualche bidone- anche la volontà e il merito di aver
riparato con molte delle sue iniziative televisive certi trascorsi
giovanili non di antifascista».
Qualcuno ricorda Zavoli in compagnia di Tacchi, al tempo del
«falò riacceso». Ha scritto Elio Ferrari: «A Rimini chi non lo vedeva in
divisa e con il mitra a tracolla (teste Stelio Urbinati) pure alla colonia
Montalti?», sede del fascio repubblichino.
Amici di Zavoli spiegano che egli fu «costretto» a finire tra le file
di Salò. Aggiunge Ferrari che Zavoli «è stato tranquillo, facendo
l’avanguardista, il soldato nella Repubblica sociale, libero di andare
dove voleva». «Libero» anche di trovarsi a Coriano nell’aprile ’44,
come rammentarono in quel paese quando, in anni ormai lontani,
giunse una troupe della Rai per un’inchiesta televisiva sul fascismo
diretta da Zavoli. Gli operatori non furono però guidati dallo stesso
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 79

Zavoli, ma da un giornalista della sede Rai di Bologna. Nell’aprile ’44


a Coriano avvenne la cattura di due «disertori», Libero Pedrelli e
Vittorio Giovagnoli, poi affidati al tribunale tedesco che li fece fucilare
il 18 maggio ad Ancona.
Finito il secondo conflitto mondiale, Zavoli organizza con amici
comunisti un «giornale parlato» diffuso per altoparlante nel centro di
Rimini. Ad una trasmissione è invitato anche Alberto Marvelli che
però non si reca all’appuntamento. Marvelli, nato in una famiglia che
era stata colpita dalla politica della dittatura (suo padre Alfredo era
stato licenziato senza liquidazione, per non aver voluto aderire al
fascismo, dal quale lo teneva lontano la sua coscienza di cristiano
democratico), durante l’invasione nazista era entrato nella organiz-
zazione tedesca Todt che lavorava alle fortificazioni costiere, non per
collaborare con i tedeschi, ma per «tentare di impedire la
deportazione di tanti giovani, tentare di salvare molte vite e cercare
di fare in modo che i tedeschi non attuassero il loro piano di
demolizione totale delle ville sul mare, per far posto a fortificazioni
antisbarco», come ha scritto il suo biografo ufficiale mons. Fausto
Lanfranchi. Nel dopoguerra Marvelli fu fedele alle istanze di cristiano
democratico che rifiutava ogni dittatura, sia nera che rossa.
La sua mancata partecipazione all’appuntamento radiofonico
con Zavoli fu probabilmente dettata da motivi politici. Il clima della
città di allora è ben descritto in un documento del Cln del 5 marzo ’45
(firmato da Cesare Bianchini futuro primo sindaco comunista di
Rimini, e pubblicato nel ’97 da Valerio Lessi), nel quale si legge: «Gli
uomini come l’ing. Marvelli sono quelli che hanno portato l’Italia alle
attuali condizioni e saranno quelli che la rovineranno ancora di più».
Il 21 marzo ’46 la dc cittadina preannuncia al Cln le dimissioni
di Marvelli dall’incarico di assessore per gli alloggi al Comune di
Rimini.
Nel ’96 Zavoli ha parlato a Rimini di Alberto Marvelli.
Ripensando alla «grande tragedia della guerra», ha detto: «Siamo stati
davvero la comunione dei Santi perché eravamo la società del dolore».

In molti dopo il 25 luglio seppellirono le apparenze del loro


passato fascista. Avevano creduto in Mussolini, rifiutarono l’appoggio
ai repubblichini. Ci fu chi si chiuse nel silenzio della delusione. Altri
sbarcarono su opposte sponde, non sappiamo se per convinzione o
convenienza. Qualcuno cercò di accreditarsi come antico nemico del
regime senza averne titolo.
Ancora oggi sono vive le polemiche. Al di là dei riferimenti alle
singole persone, certe notizie servono a ricostruire un momento
storico. Flavio Lombardini ha ricordato un episodio capitatogli il 6
agosto ’45. Viene avvicinato da «un gruppo di giovani appena in età
della ragione» che vogliono conoscere quale ruolo abbia avuto con il
suo insegnamento di Educazione fisica nelle «scuole fasciste»: «Mi
rifiuto di rispondere perché non ho niente da giustificare».
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 80

Lombardini sta per essere picchiato dal più giovane del gruppo, un
ragazzo sui diciassette anni, che ha al collo un fazzoletto rosso.
In soccorso di Lombardini giunge «un ‘vecchio camerata’ che
occupa un posto di rilievo nel Comitato di Liberazione», il comunista
Arnaldo Zangheri.
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 81

NOTA BIBLIOGRAFICA

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Per gli esatti riferimenti bibliografici delle singole citazioni, qui omessi
per motivi di spazio, rimando ai miei articoli della serie «I GIORNI DELL’IRA»
pubblicati nel settimanale riminese Il Ponte, dai quali questo libro prende
spunto. PARTE PRIMA , IL DELITTO PAOLINI: 1. «Papà mio, dove lo portate?» (3.
12. 1989), 2. La caccia all’uomo (17. 12. 1989), 3. L’agosto di passione (7. 1.
1990); PARTE SECONDA, SAN MARINO: 4. 28 luglio 1943, San Marino volta
pagina (4. 3. 1990), 5. Chi minaccia San Marino (18. 3. 1990), 6. L’attentato
a Casali (1. 4. 1990), 7. La prof. che faceva la spia (29. 4. 1990), 8. Tra saluti
romani e bombe alleate (20. 5. 1990), 9. Fascisti alla sbarra (10. 6. 1990);
PARTE TERZA, RIMINI : 10. La pacificazione impossibile (29. 7. 1990), 11. Foto
di gruppo in camicia nera (30. 9.1990), 12. “Sbandati” al muro (21. 10.
1990), 13. Il Venerdì Santo di Fragheto (4. 11. 1990), 14. Scampoli di
retorica sopra le macerie (15. 11. 1990), 15. Giovani senza più «Giovinezza»
(9. 12. 1990), 16. L’ora delle scelte (6. 1. 1991), 17. Un ducetto di provincia
(3. 2. 1991), 18. La carovana repubblichina in fuga (24. 2. 1991), 19. I mi-
steri del Dopoguerra (10. 3. 1991). Di tutta la serie degli articoli intitolati «I
GIORNI DELL’IRA», è disponibile alla Biblioteca Gambalunghiana di Rimini una
raccolta in volume [segn. M 500 150]. Il presente volume non rispetta la
successione degli articoli, ed è stato integrato in varie parti. Gli articoli della
serie «RIMINI IERI 1939 - 1940» sono stati pubblicati sullo stesso settimanale:
L’ultima estate di pace, 10. 9. 1989; “Chi dei due” è Mat, 24. 9. 1989; Il
Comune se ne fregia, 1. 10. 1989; L’ombra della guerra oscura il sole delle
vacanze, 24. 6. 1990.

Riscossa socialista apparve per un errore di stampa con la data


«1964», poi corretta a mano [«1965»] sulle copie conservate nell’archivio
Antonio Montanari, I giorni dell'ira
PAG. 84

storico del Partito socialista sammarinese.


Gli scritti di F. BALSIMELLI sono riprodotti in A. MONTEMAGGI, San
Marino nella bufera, cit.

Il titolo del presente lavoro, I giorni dell’ira, è ripreso da un passo del


cit. scritto di L. BEDESCHI su don Giovanni Montali.

Un ringraziamento particolare esprimo a mio zio GUIDO NOZZOLI che ha


seguito l’uscita degli articoli nel 1989-91, fornendomi preziose notizie
inedite ed utili suggerimenti.

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