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Antonio Montanari

Stellette addio.

L’8 Settembre 1943


del soldato Alfredo Azzalli

© Antonio Montanari
Riproduzione riservata
Edizione informatica 2009
Stellette addio, pag. 2

Premessa
«Non conosco un solo libro di guerra scritto da un
soldato semplice, da un contadino soldato». Sono
parole di Nuto Revelli, riproposte dai giornali il 6
febbraio 2004, all’indomani della sua scomparsa.
Le pagine che seguono non sono «un libro», ma
frammenti di ricordi, di «un contadino soldato» lungo
un anno di guerra: vissuto lontano dalla guerra perché
lui aveva dato un calcio alle stellette; ma pure dentro
la guerra, perché, come disertore, doveva sfuggire alla
caccia dei repubblichini. Se lo avessero catturato,
l’avrebbero passato per le armi.
«Migliaia di ventenni scelsero come me di rifiutare
Salò. Pur non essendo ancora informati dei campi di
sterminio e di altri orrori e barbarie sentivamo
l’impossibilità di aderire alla parte fascista, alleata o
sottoposta ai “camerati nazisti”. Un’alleanza che
prometteva altri lutti e dolori, che sbarrava il
cammino verso la fine della tragedia e la conquista
della libertà, mai vissuta nella nostra giovinezza.» Così
ha scritto Mario Fazio (La cosa giusta, «La Stampa», 14
settembre 2003).
Alfredo Azzalli, mio suocero, è fra quelle migliaia di
ventenni che «scelsero di rifiutare Salò».

1. A Fiume
Otto settembre 1943. Il giorno del suo ventesimo
compleanno per Alfredo Azzalli trascorre come tutti
gli altri. In guerra. Tra le guardie di frontiera. A Villa
del Nevoso, sulla strada che da Fiume porta a San
Pietro del Carso, Postumia e molto più avanti a
Lubiana. Alle 19,42 la Radio italiana annuncia
l’armistizio.
Il re e la regina hanno appena lasciato Villa Savoia. Al
Quirinale si è temuto un colpo di mano. L’Eiar è stata
preceduta da Radio Londra. Badoglio legge un
proclama: «Ogni atto di ostilità contro le forze anglo-
americane deve cessare da parte delle forze italiane, in
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ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi


da qualsiasi altra provenienza».
Verso le quattro del pomeriggio, Alfredo Azzalli è
partito in autoblindo per fare la solita scorta al
generale Didio.
«Noi seguivamo la sua macchina. Temevamo gli
attacchi dei partigiani. Ma tutte le volte che ci siamo
spostati non è successo nulla. Siamo sempre arrivati
tranquilli a destinazione. Andavamo a Trieste o nei
paesi vicini a Villa del Nevoso. Percorrevamo ogni
volta una sessantina di chilometri.»
Il piccolo corteo è preceduto da un motociclista.
Nell’autoblindo sono ammassati una ventina di
ragazzi. Quel pomeriggio viaggiano verso Fiume.
Arrivano che sono le due di notte del nove settembre:
«C’era la luna piena. Non sapevamo niente di quello che
era successo la sera prima. Forse il generale conosceva
la notizia. Non noi. Lui aveva a bordo una radio. Ogni
tanto la nostra colonna si fermava. Forse in quei
momenti si metteva in contatto con altre postazioni. A
Fiume ci siamo resi conto che doveva essere successo
qualcosa di grosso. La gente era in giro per le strade,
ed esultava. I civili prendevano le armi ai militari:
sparavano per aria, le pallottole fischiavano sopra le
nostre teste. Nei fossi c’erano i cannoni italiani
abbandonati dai nostri in fuga. Tutti cercavano di
scappare e rientrare in Italia. Una baraonda
indescrivibile».
Verso le otto del mattino, il generale raduna quella
ventina di soldati, e gli parla: «Da questo momento, io
non sono più il vostro comandante. Fate quello che
volete. Se riuscite ad andare a casa, potete farlo».
Commenta Alfredo Azzalli: «Il generale doveva avere
anche lui i suoi pensieri. Lo faceva capire il tono con
cui ci mise in libertà».
Andare a casa, ma come? «Bisognava gettare la divisa.
I civili di Fiume ci offrivano vestiti borghesi che a noi
servivano per non essere riconosciuti dai tedeschi, e
per non essere catturati. I civili avevano bisogno delle
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nostre armi. Le passavano anche ai partigiani.»


Non era facile pensare al cambio fra un fucile «modello
91», quello della Grande guerra, e quattro stracci con
cui nascondere il proprio stato di combattente italiano.
Non per nostalgia militarista od orgoglio.
«La nostra paura era che, una volta consegnate le
armi, i civili ci ammazzassero tutti. Per fortuna non fu
così. Ci hanno trattato con i guanti. Non ci hanno fatto
alcun male. Sono stato invitato ad entrare in una casa.
Mi hanno dato da mangiare anche un pezzo di
formaggio, e mi hanno regalato degli indumenti civili
in cambio della divisa.»
Ora che è in borghese, la guardia di frontiera Azzalli
Alfredo ripensa ai suoi otto mesi di vita da soldato:
arruolato il 5 gennaio 1943, partito dal distretto di
Ferrara, destinato per addestramento alla caserma
«Principe di Piemonte» a San Pietro del Carso. Qui
trascorre due mesi.
«Le divise ce le diedero soltanto diciassette giorni dopo
l’arrivo. Avevamo vestiti civili leggeri, non adatti a
quel clima rigido. Dormivamo in coppia nella stessa
branda per utilizzare due coperte che però non
bastavano a proteggerci dal freddo. Incontrai un
compaesano che conoscevo bene, Bruno Musacchi. Era
di servizio sedentario da tre anni come attendente del
capitano medico, nella stessa caserma di San Pietro del
Carso. Venne nelle camerate a vedere se c’erano
ragazzi delle nostre parti. Ci siamo abbracciati. Mi
sono messo a piangere come un bambino.»
Da Argenta i genitori di Alfredo arrivano a trovare il
loro figlio a San Pietro del Carso. Dentro il pacco di
viveri che gli consegnano, ci sono anche i cappelletti.
Hanno progettato di fermarsi nell’albergo del paese,
ma Bruno Musacchi li consiglia, per motivi di
sicurezza, di non pernottare e di tornare a casa.
Il primo trasferimento di Alfredo è a circa un
chilometro, in un accampamento di baracche di legno.
Vi resta per tutto marzo ed aprile.
«Si vedevano soltanto persone che entravano nel bosco
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a tagliare la legna: ne uscivano con carri pieni di


tronchi. Non parlavamo con nessuno. C’erano paura e
diffidenza. Bruno Musacchi, di nascosto, ogni giorno
mi portava una gavetta di maccheroni.»

2. Ricordi di famiglia
Alfredo Azzalli nasce ad Argenta, quinto figlio di un
bovaro, Giovanni (classe 1884), e di Angela (Angelina)
Venturoli di due anni più anziana del marito. Il loro
fondo si chiama la Colombarina, distante due
chilometri dal paese. Gli altri quattro fratelli sono
Primo del 1904, che a vent’anni ha fatto il militare in
Cavalleria al tempo del delitto Matteotti; Rosina del
1907, Ada dell’11 ed Adele del ’14. In casa con loro
sette, vivono anche la nonna paterna, Maddalena
Pazzafini (classe 1856, vedova di Antonio, bovaro
anch’egli), e suo figlio Vincenzo Azzalli, trentadue
anni.
Un altro fratello di Giovanni e di Vincenzo, ha
partecipato alla Grande guerra come bersagliere. Lo ha
ucciso una pleurite contratta al fronte. Aveva aiutato
dei commilitoni ammalati, e trasportato i loro zaini.
Una sudata e la notte passata nell’umidità d’una chiesa
abbandonata, gli furono fatali. Si chiamava Alfredo.
Quando Giovanni ha avuto l’ultimo figlio, ha rinnovato
il suo nome.
Anche Vincenzo, detto Cencino, ha fatto la Grande
guerra. Era attendente del generale di cavalleria
Sammarzano, a Padova. Quando morì suo fratello,
Vincenzo scappò a casa senza licenza. Gliela avevano
rifiutata. Carattere ribelle, mal volentieri si
sottometteva agli ordini e non sopportava i divieti.
Rischiò l’accusa di diserzione, e la conseguente
condanna alla fucilazione. Lo salvò lo stesso generale
Sammarzano che lo proteggeva come un figlio. Aveva
bisogno della sua competenza per curare i propri
cavalli.
Alla Grande guerra c’era stato anche Giovanni, il
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fratello di Cencino, e padre del nostro Alfredo. Non ad


addestrare cavalli, ma nell’inferno della prima linea.
Una notte sono tornati indietro in otto, dei duecento
che erano partiti. Lo mandavano a minare i reticolati
nemici.
A casa era rimasto con la moglie di Giovanni soltanto il
loro figlio Primo. Il capofamiglia era lui: a undici anni,
aveva dovuto imparare a mandare avanti la barca.
Governava la stalla, con un vecchio garzone che il
«padrone» gli aveva dato per aiuto.
Giovanni era di idee socialiste. Nel 1923 alla
Colombarina, i fascisti gli diedero fuoco alla casa. Lo
volevano far trasferire più lontano dal paese. Lui
rifiuta ed annuncia: «Domattina semino dove sto». Fa
così. Ma cercano di intimidirlo: gli bruciano il fienile.
Una balla di paglia incendiata uccide la cavalla.
L’allarme lo dà Natale Fabbri, detto Nuvlòn, un suo
cugino che passava lì davanti tornando dalla casa della
morosa, situata verso Bando. A volte, se faceva tardi,
entrava dagli Azzalli, e si metteva nel letto di
Vincenzo. Nessun danno alla casa, separata dal fienile
con una divisione in muratura, ed alle altre
trentaquattro bestie della stalla, messe in salvo dopo
l’arrivo di Natale.
Giovanni conosceva i presunti mandanti, una famiglia
proveniente dal Veneto, e gli disse qualcosa. Non s’era
accorto di nulla quella notte. Eppure le precauzioni le
aveva prese, calcolando che le sue idee non erano
gradite ai fascisti che comandavano in paese.
L’uccisione del parroco don Giovanni Minzoni il 23
agosto 1923, aveva dimostrato la loro violenza. Dietro
la porta d’ingresso Giovanni Azzalli teneva sempre
pronto un fucile da caccia. Carico. Poco dopo la sua
famiglia si trasferisce nel fondo Beneficio di via
Bulgarina, il cui «padrone» è Giacomo Maccagnani,
fratello di Romildo, il proprietario della Colombarina.

3. Il 25 luglio
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Maggio 1943. Alfredo Azzalli è trasferito in un


caposaldo. Un’altra baracca in mezzo ai boschi, ad una
decina di chilometri da Postumia: «Ogni notte turni di
sentinella per due ore. Restavamo vestiti anche
durante il riposo. Dovevamo essere pronti per
rispondere ad un eventuale attacco nemico. Ogni tanto
un gruppo di una quindicina di soldati guidati da un
ufficiale andava in appostamento nei punti strategici».
Nelle vicinanze c’erano altre caserme italiane con la
Milizia fascista: «Ce ne stavamo alla larga. Erano già
accaduti scontri tra militi e soldati dell’Esercito». Il
vitto è scarso. Patate, cavoli, riso, poco pane nero e
poca carne. E qualche volta, con la carne, un contorno
di vermi. La Milizia ha caserme nuove ed un
trattamento speciale: «Noi soldati mangiavamo nelle
gavette. Loro a tavola e nei piatti. Poi alla Milizia
davano una paga superiore alla nostra».
Inizio di luglio. Altro trasferimento, sul monte
Pomario: «Eravamo circa sessanta soldati, divisi in
gruppi di sei per tenda. Non c’erano brande ma giacigli
fatti con rami di alberi, e sopra un paio di coperte. E
proprio a monte Pomario mi trovavo il 25 luglio,
giorno della caduta di Mussolini. Sùbito non abbiamo
saputo niente. La mattina dopo abbiamo appreso che
era nata un po’ di confusione: che il duce era stato
arrestato, e che Badoglio lo aveva sostituito al
governo. Si pensava che la guerra potesse finire
presto. I militari erano stanchi. La voce della caduta di
Mussolini e del suo arresto, si sparse mentre eravamo
nel piazzale. Non so come fosse giunta sin lì. Soltanto il
generale aveva una radio».
Qualche giorno dopo il capitano lo convoca: è «un
milanese richiamato alle armi, buonissimo e paterno
con tutti noi». Gli propone di andare a Villa del Nevoso
per il servizio di scorta al generale Didio, comandante
del Corpo.
«Vedendomi titubante, mi consiglia di accettare e mi
dice: “Un giorno ti verrà in mente il tuo capitano”. Fui
selezionato con altri ventun militari, uno ogni
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caposaldo. Il gruppo era comandato da un tenente


degli Arditi, siciliano, una brava persona.»
Si lascia convincere. E va a Villa del Nevoso. Fine di
luglio. Quaranta giorni prima dell’otto settembre.
«C’erano il Comando e sei o sette caserme. Potemmo
finalmente fare un bagno, cambiare le divise ed
alloggiare in camere con brande, materassi e lenzuola.
E soprattutto, il vitto era abbondante. Mi ricordai delle
parole del capitano milanese. Stavamo come dei
pascià, avevamo abbandonato le tende dove eravamo
vissuti come delle bestie.»
Gli abitanti della zona sono di origine slava: «A noi
militari, non ci odiavano, come facevano con quelli
della Milizia».

4. Scappare da Fiume
A Fiume, quella mattina del 9 settembre 1943, ci sono
soldati d’ogni tipo. Alfredo Azzalli incontra un giovane
di Bologna: «Si chiamava Bondioli, e la pensava come
me: tornare a casa. Decidemmo così di avviarci verso
Trieste. A piedi. C’era una marea di gente che
percorreva le strade nella nostra stessa direzione». Ma
c’era anche chi proveniva in senso contrario.
Dall’Italia verso l’Istria, ed i loro paesi d’origine.
«A loro chiedevamo informazioni per evitare i posti di
blocco istituiti dai tedeschi per catturarci. Dopo due
giorni di cammino, e mentre eravamo lontani da
Trieste circa un giorno e mezzo di strada, si
cominciava ad avere fame. Ci fermammo in una
caserma degli alpini. Ci diedero da mangiare.»
Ogni tanto di notte Azzalli, Bondioli e gli altri si
fermano a riposare. Appoggiati ad un masso. Oppure
sotto un cespuglio. Al chiaro di luna.
«Durante la fuga buttai in una scarpata i miei
documenti e la valigia. Tenni soltanto dei fazzoletti. Li
usai più tardi per fasciarmi i piedi che cominciavano a
piagarsi. Giunti alle porte di Trieste, incontrammo un
gruppo di soldati in fuga. Saranno stati duecento.
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C’erano i tedeschi piazzati con le armi dietro una siepe,


ai bordi di un bosco. Non ci fermarono. Forse capirono
che poteva essere rischioso per loro cercare di
bloccare un gruppo così numeroso di persone.»
A Trieste, finalmente. A bordo di un autobus escono
dalla città: «A piedi raggiungemmo Monfalcone per
strade secondarie».
Il desiderio di tornare a casa e la necessità di sfuggire
alla cattura tedesca, li fa camminare per quaranta e
più chilometri al giorno: «Per sicurezza evitavamo i
centri urbani, passando attraverso la campagna
veneta. Incontravamo contadini che ci offrivano pane,
polenta, latte ed acqua. Di notte ci si fermava a
riposare dietro un pagliaio o in un fienile. Si dormiva
poco. Temevamo di essere catturati per una spiata. Per
questo non parlavamo con nessuno della situazione
politica. Eravamo diffidenti. E con molta paura».
Ormai le scarpe sono un ricordo. Consumate. Bruciate
dalla strada percorsa.
«Arrivati nei pressi di Abano, vedemmo un treno merci
fermo. Ci invogliò a salire. Fu la prima ed unica volta.
Dopo una quarantina di chilometri di viaggio, arrivò
sopra di noi un caccia tedesco che si mise a
mitragliare. Per fortuna vollero soltanto spaventarci e
non colpire. Eravamo in tanti, ad essere aggrappati ai
vagoni. Con la velocità di un fulmine scendemmo e ci
sparpagliammo in messo ai campi.»
In quel fuggi-fuggi, Alfredo Azzalli non ritrova il
compagno bolognese Bondioli. Prosegue da solo.
«I ferrovieri in quei giorni fecero un bel servizio per i
militari sbandati. Nelle vicinanze delle stazioni
rallentavano i convogli a passo d’uomo, per dar modo
ai fuggitivi di scendere e proseguire a piedi.»

5. Verso casa
Sempre attraverso i campi, Alfredo giunge in provincia
di Ferrara. A casa, insomma. Si accompagna ad altri
due giovani. Uno è faentino.
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«Attraversammo il Po a bordo di una piccola barca, di


uno del posto. Era quasi il tramonto del 21 settembre.
Ci fermammo in una casa colonica. Chiesi se per favore
potevano ospitarci nel fienile. Aggiunsi in dialetto che
ormai ero giunto a destinazione, ad Argenta; e che mi
sarebbe dispiaciuto essere catturato proprio allora.
Quando il contadino sente nominare Argenta, mi dice:
“Io ho fatto il militare con uno del vostro stesso paese.
Si chiama Primo Azzalli, è della classe 1904”. Sono suo
fratello, gli rispondo. E lui mi spiega che mi aveva visto
bambino, ritratto in una foto che mio fratello Primo
teneva con sé sotto le armi. M’invita in casa. Mi fa
sedere a tavola con i suoi. Pollo e patate fritte. Mi fa
dormire in un letto. Mi riposai come un papa.»
La mattina dopo i tre ripartono ed arrivano a
Portomaggiore: «Poco dopo, ad un passaggio a livello
chiuso, c’era un’auto ferma. Il conducente comprende
la nostra situazione. Ci chiede dove stavamo andando.
Lui era diretto a Filo di Argenta. Ci offrì un passaggio
quando gli dissi che dovevo arrivare ad Argenta. Noi
avevamo la solita paura di cadere in un tranello.
Accettammo. Lui era solo e noi in tre, casomai ci fosse
stato bisogno di difenderci».
Tutto va a buon fine, per Alfredo Azzalli, scaricato
quasi davanti a casa.
«I miei immaginavano che arrivassi, e mi stavano
aspettando con tanta ansia. Avevano paura che in un
viaggio così lungo potessi rimetterci la pelle. Il faentino
prosegue con una bicicletta della mia famiglia. Era il
22 settembre.»
Il giorno prima è stata liberata Rimini, dove Alfredo
Azzalli ha la fidanzata, Graziella Montebelli. Ma
ovviamente non lo sa.
Il giorno dopo, 23 settembre, Mussolini giunge in aereo
a Forlì: i nazisti lo hanno prelevato a Campo
Imperatore sul Gran Sasso il 12. Mussolini sale alla
Rocca delle Caminate, poco distante da Predappio,
dove il 27 avviene la prima riunione della Repubblica
Sociale. Il 9 novembre sono richiamati alle armi anche
Stellette addio, pag. 11

i militari della leva del 1923 in congedo provvisorio


(ossia scappati dopo l’8 settembre).
Tra loro c’è anche Alfredo Azzalli: «Io non volevo
presentarmi perché avevo fatto tanta fatica a
salvarmi. Non volevo rischiare nuovamente. Però,
visto che i bandi dei chiamati alle armi erano sempre
più feroci, pena la fucilazione, mi sono presentato di
mala voglia al distretto con altri quattro compaesani:
Rino Gualandi, Gino Mantovani, Rolando Nardini e
Mendez Travasoni. Ci destinarono a Novara. Partimmo
il 5 gennaio 1944. Nella caserma di Novara
rimanemmo sette giorni».
Vengono a sapere che al Comando formavano gruppi
da inviare in Germania. Alfredo Azzalli si confida con
gli amici: «Sono scappato dalla Jugoslavia, in Germania
non ci vado». Insieme decidono di tornare al paese.
Abbandonano la caserma. Prendono il treno per
Milano, dove giungono sul mezzogiorno. Dopo tre ore
partono per Bologna.
Prima di risalire sul treno verso casa, Alfredo Azzalli
esce dalla stazione. In una tabaccheria scrive una
cartolina alla famiglia: «Saluti da Milano, mentre sto
per andare in Germania». La cartolina sarebbe servita
poi: «A chiunque avesse chiesto di me, i miei
l’avrebbero potuta mostrare. Era il mio alibi». Partito
per la Germania. Invece, ritorna ad Argenta.
Per non essere visti in paese, i cinque scendono alla
stazione di Consandolo, quella prima di Argenta, a
quasi sette chilometri. Arrivano a casa attraverso i
campi. Alfredo Azzalli si ferma dalla sorella Adele che
abita fra Boccaleone ed Argenta, rinchiudendosi nel
fienile. Di notte va a casa propria, accompagnato dal
cognato, Alberto Pollini.
Suo fratello Primo Azzalli, la mattina dopo sul far del
giorno, prende con sé i propri figli Gloriano di tredici
anni e Livio di dieci, e li trasferisce da una cognata,
Giovanna Pollini (cugina di Alberto Pollini), a Filo di
Argenta. Non dovevano sapere nulla dell’arrivo di
Alfredo. Il quale alla sera s’incontra con i quattro
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compaesani scappati con lui da Milano: «Siamo amici.


Però ciascuno ci pensi bene prima di prendere una
decisione. Non dobbiamo poi rimproverare gli altri per
quello che scegliamo di fare».
Lui decide di rimanere. Loro vogliono ritornare in
caserma per non mettere nei guai i famigliari.
Ripartono per Novara. Poi sono spediti in Germania.
Quattro mesi di addestramento. Rimpatrio, pronti per
il fronte. A quel punto diserteranno. Catturati. Fucilati.
Il 19 agosto 1944.

6. A Rimini
Alfredo Azzalli decide, per maggior sicurezza, di
andarsene da Argenta a Rimini, nella casa della
fidanzata Graziella Montebelli, in zona Celle sulla via
Emilia.
I loro padri erano amici, si erano conosciuti tramite il
dottor Bragliani, un medico di Ferrara, che aveva
proprietà terriere anche ad Argenta. Il babbo di
Alfredo lo accompagnava spesso a caccia. In una delle
tante battute, ha conosciuto Luigi Montebelli, il padre
della Graziella, che era stato attendente di Bragliani
durante la Grande guerra, dove pure lui aveva
conosciuto la vita di trincea. D’inverno Bragliani, con
un gruppo di «signori» della zona, andava a caccia a
Lesina nel Gargano.
(Tra loro c’era anche il conte Manzoni: il suo nome
resta legato alla strage della vedova e dei tre figli,
compiuta il 7 luglio 1945.)
A Lesina avevano una casa: «Mio padre li
accompagnava come “uomo di caccia”, mentre Luigi
faceva il cuoco».
Alfredo Azzalli resta in casa Montebelli ben poco. I
tedeschi piazzano davanti all’abitazione un fortino di
cemento armato con un cannone. Temono lo sbarco
degli anglo-americani.
«Prima che la casa fosse distrutta con una cannonata,
fummo costretti a sfollare. Ci rifugiammo a Poggio
Stellette addio, pag. 13

Berni (lungo la valle del Marecchia dopo


Santarcangelo di Romagna), nel palazzo Marcosanti
dove rimasi per circa tre mesi.»
La moglie di Luigi, Aurelia Vittori, presenta Alfredo
Azzalli alla gente come un suo figlio. Lei ed i suoi
famigliari sono tutti di carnagione scura. Alfredo è un
biondino di pelle chiara, come un tedesco. Qualcuno
sussurra all’Aurelia: «Come mai siete così diversi, voi e
vostro figlio?». Lei impavida si giustifica con la più
ovvia delle scuse: «Capirete, quando si è giovani sono
cose che succedono».
Il 18 febbraio 1944 a renitenti e disertori il
maresciallo Rodolfo Graziani, ministro della Difesa
nazionale di Salò, minaccia la pena di morte. Poi fa
marcia indietro. Perdona chi si è presentato prima del
9 marzo e chi, arrestato entro tale data, si arruolerà
come «volontario». Per i disertori costituitisi, la
condanna capitale è trasformata in dieci anni di
carcere. Il 25 aprile Graziani ci ripensa e promette il
perdono agli «sbandati».
Alfredo Azzalli teme di mettere nei guai la famiglia
Montebelli che lo ospita a Poggio Berni. Decide di
ritornare ad Argenta. Parte sul biroccio condotto da
«Talio» (Italiano) Valentini. Traguardo di tappa, è
Viserba di Rimini, alla stazione ferroviaria della linea
per Ferrara. Sul biroccio l’accompagna Luigi
Montebelli: sua figlia Giovanna li segue in bicicletta per
rendere la scena più famigliare. (Il viaggio di andata a
Rimini, sempre in treno, lo aveva fatto con Alfeo
Pollini, marito di sua sorella Rosina.)
Luigi sale in vagone con Alfredo, e lo segue fino a San
Biagio, la stazione che precede Argenta.
«Era verso sera. Anche questa volta fui fortunato. In
treno, nei pressi di Cervia, uno della Milizia ferroviaria
si mise a questionare con un passeggero anziano che
era seduto vicino a me, e che non aveva i documenti in
regola. Lo fece scendere alla prima stazione per altri
controlli. Io fingevo di leggere il giornale che avevo
comperato a Viserba. Mi mostravo tranquillo, ma
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dentro di me avevo un grosso spavento. I miei


documenti erano finiti in quel crepaccio in Jugoslavia.»

7. Ancora a casa
San Biagio, verso mezzanotte. Sotto la pioggia, a piedi,
Alfredo e Luigi Montebelli avanzano verso la casa degli
Azzalli. Attraverso strade di campagna. Stanno lontani
dalle abitazioni, dove potevano trovarsi nascosti i
tedeschi. Quando arrivano, il fratello di Alfredo prende
i propri figli Gloriano e Livio e li porta ancora una volta
via di casa, dalla cognata Giovanna Pollini.
«Primo, mio babbo e Luigi fecero una galleria nel
fienile. Aprirono un buco nel granaio. E sistemarono
un letto.»
Luigi torna a Rimini. Gloriano e Livio sono riportati in
casa. «Era la fine di maggio. Rimasi chiuso nel granaio
sino allo sfollamento avvenuto a novembre.»
A chiunque chieda di Alfredo, sua madre Angelina
risponde che è stato mandato in Germania. E mostra la
cartolina che suo figlio ha spedito da Milano.
«Di giorno, non mi facevo vedere da nessuno. Di notte
uscivo dal nascondiglio per andare a dormire con mio
zio Vincenzo che aveva un letto a due piazze. Mi
teneva informato sugli avvenimenti. Lui andava
sempre da un suo cugino, Umberto Azzalli, che faceva
il giornalaio, ad ascoltare Radio Londra.»
In quella stessa camera dorme la mamma di Vincenzo,
Maddalena, che era cieca ed aveva quasi novant’anni:
«Sentendo bisbigliare, credeva che suo figlio Cencino
parlasse da solo, e diceva: “A cred propi che te dventa
mat, guerda cum che t’at ci ardôt”, credo proprio che
tu diventi matto, guarda come ti sei ridotto. Prima che
facesse giorno tornavo nel nascondiglio».
Nella casa degli Azzalli si sono alcuni sfollati. Tra loro,
una famiglia di Pieve Santo Stefano (Arezzo) ed il
capostazione di Argenta, Dario Pagnini con la moglie
Adele e la figlia Maria Teresa, originari di Rimini,
alloggiati nella stalla della cavalla.
Stellette addio, pag. 15

«In tutto eravamo ventiquattro persone. Un sola volta i


tedeschi vennero per controllare. Chiesero di vedere
che cosa c’era nel granaio dove mi trovavo io. Mia
madre, donna energica, rispose pronta che non aveva
le chiavi. Le aveva il padrone. Tornassero quando c’era
lui.»
I militari nazisti si guardarono un po’ attorno, e poi
andarono via. In quel periodo i tedeschi
s’impossessavano di quasi tutti gli animali dei
contadini, ed era difficile rimediare qualche mezzo
chilo di carne. Con la «tessera» («un cartoncino grigio
con il numero, il nome e tanti tagliandi», ha scritto
Marco Innocenti), ne davano pochi etti una volta alla
settimana.
Per salvare dalla requisizione i quattro maiali degli
Azzalli e quello dei Pagnini, il capostazione e Primo
costruiscono un rifugio. Usano le traverse della linea
ferroviaria che era stata bombardata. Lo fanno un po’
distante dalla casa, sottoterra, con un fosso di
comunicazione dove c’era una finestra attraverso la
quale passare per dar da mangiare agli animali.
«Nessuno si sarebbe accorto del rifugio. Ma qualcuno
fece la spia. Un bel giorno i tedeschi vennero con un
carro bestiame a prelevare i nostri maiali. Fecero
molta fatica: qualche bestia tentava di scappare. Alla
fine ci riuscirono. I tedeschi già inferociti ed urlanti,
vennero in casa per portare via la scrofa che era
gravida. L’avevano già presa per le orecchie quando
mia madre, più arrabbiata dei tedeschi, circondata dai
suoi nipoti e da tutti gli altri bambini degli sfollati, si
mise ad urlare: “Non vedete quanti bambini abbiamo?
Che cosa gli diamo da mangiare?”. I tedeschi
lasciarono libera la scrofa e se ne andarono.
Sbraitando.»
L’estate 1944 trascorre «abbastanza tranquilla». Il
fronte è fermo ad Alfonsine. L’attività bellica si svolge
perlopiù con saccheggi di bestiame trasferito verso il
Po.
«Tiravano delle granate. C’era qualche episodio, ma
Stellette addio, pag. 16

soltanto nei punti strategici. Verso metà novembre i


tedeschi ci mandarono via tutti. Dovevano far saltare
la nostra casa e le altre della zona, per avere la visuale
libera. Aspettavano l’esercito alleato. Dovevano
minare i campi. Noi sfollammo a Filo d’Argenta dalla
Giovanna Pollini, sorella dell’Edmea moglie di mio
fratello Primo.»
Anche da Filo debbono andarsene. Solita storia. I
tedeschi minano anche lì. Prima però prendono le
mucche, ed aprono le botti che erano piene di vino.
«Noi siano andati a Longastrino, ai margini delle valli.
Nel fienile di un colono, Sebastiano Zuffi detto Manèla.
Il padrone del fondo era il conte Orsi Mangelli. Ci siamo
rimasti per tutto l’inverno. C’erano altri sfollati. Ma
anche i tedeschi delle SS, che stazionavano in cucina.»
Quei militari arraffano polli e conigli. Fanno grandi
mangiate e bevute. Spesso si ubriacano e poi litigano
fra loro. Sulle tavole maneggiano le bombe a mano
come fossero giocattoli. Baciano i loro fucili dicendo:
«Questo essere grande amore». Fanno paura a tutti.
«Lì, a Longastrino, vicino alla casa che ci ospitava,
avevano costruito un rifugio molto robusto che ci
proteggeva dalle granate. Il 12 aprile 1945 ci fu una
notte d’inferno. Prima illuminarono a giorno la zona di
Argenta. Poi cominciarono a sganciare le bombe. La
terra tremava come per il terremoto.»
Argenta, ha scritto Adamo Antonellini, aveva assunto
un ruolo strategico: «dopo tanti secoli, tornava ad
essere l’unico passaggio possibile verso il nord, fra le
valli di Comacchio e quelle di Campotto».
Ha testimoniato Olao Mingozzi: «A partire dal 6 aprile,
metodicamente, gli alleati si sono dedicati alla
devastazione di tutti i paesi, oltre che con le incursioni
aeree, anche con l’artiglieria. Anita, Longastrino, Filo
hanno subìto bombardamenti a tappeto fin nelle loro
borgatine disseminate lungo la strada che conduce al
Ponte della Bastìa».
Aggiunge Alfredo Azzalli: «Gli aerei bombardavano
Argenta. Ma le artiglierie alleate piazzate vicino alla
Stellette addio, pag. 17

casa di Longastrino dove eravamo sfollati, sparavano


granate sulle macerie. Il disastro diventava ancora più
grave. Con altri morti. E’ stato uno dei momenti più
tragici della guerra ad Argenta».
Il 13 aprile dalle valli arrivano a bordo di anfibi le
truppe alleate: «I tedeschi in ritirata si nascondono
anche loro nel nostro rifugio. Piangevano perché non
volevano arrendersi. Continuano il saccheggio delle
bestie. A noi ne hanno prese ventidue. Ci hanno
lasciato soltanto con quanto avevamo addosso».
La battaglia di Argenta si conclude il 18: «Non so
quanti siano stati i morti. Tanti. Soltanto dentro una
ghiacciaia utilizzata come rifugio, ce ne furono
novanta. L’avevano centrata in pieno. Morirono in
quel bombardamento anche mio cognato Alfredo
Pollini e sua figlia Verdiana. Mia sorella Ada era
insieme a loro. Per lo spostamento d’aria prodotto da
uno scoppio, finì più distante. Rimase lì ferita per
diciassette ore, sotto le macerie d’un palazzo di due o
tre piani. Sentiva il marito e la figlia lamentarsi e
chiamare. Ma non poteva fare nulla per aiutarli. Le
travi di legno della casa presero fuoco: marito e figlia
morirono bruciati. Lei era protetta da un grosso
masso. Invocava aiuto. Quando i soccorritori l’hanno
sentita, hanno scavato riuscendo a salvarla».
A Longastrino, Alfredo Azzalli non sta più nascosto.
Ormai gli eventi bellici sono giunti a conclusione. I
fascisti hanno paura. Molti di loro scappano. Temono
le vendette. Che arrivano puntuali.
«Passato il fronte, con la casa distrutta, siamo stati
ospitati da mia sorella Adele, vicino a Boccaleone. Lì
abbiamo aspettato che i campi fossero sminati da
squadre organizzate dalle autorità governative. Molti
morirono nel fare quel servizio. Mio zio Vincenzo non
era nelle squadre incaricate ma vedendo che lo
sminamento procedeva a rilento, e che la nostra
famiglia aveva bisogno di lavorare, cominciò da solo a
ripulire il terreno. In una tornatura di terra levò 47
mine. Per lo scoppio di una, perse l’occhio destro. Era il
Stellette addio, pag. 18

15 agosto 1945. Per quella ferita non gli fu


riconosciuto il diritto alla pensione. Aveva agito di sua
iniziativa, spiegarono dal ministero, oltretutto in un
terreno confinante con il suo.»
Vincenzo Azzalli era una persona nota ad Argenta.
Aveva sempre fatto il contadino. Era molto
appassionato al suo lavoro attorno agli animali, un
intenditore di mucche e cavalli. Quando qualche
«padrone» aveva bisogno di un parere per l’acquisto di
bestie, si rivolgeva a lui. Anche il veterinario del paese
Aldo Dalla Casa richiedeva il suo aiuto in parti che si
presentavano difficili. Era nato nel 1891, morì nel
1977, a Rimini in casa di suo nipote Alfredo, con il
quale si era trasferito da Argenta nel 1957.
«Cencino era in confidenza con i grandi proprietari
terrieri che vivevano ad Argenta. Era l’unico
contadino che potesse entrare nel loro bar in paese, il
cosiddetto “caffè dei signori”. Nelle discussioni
politiche, lui non nascondeva mai la propria
avversione a Mussolini ed al fascismo. E faceva
previsioni negative sull’esito della guerra. Forse anche
per questi suoi rapporti con i capi fascisti del paese, la
nostra famiglia che non aveva simpatie per il duce,
mai subì violenze da parte delle squadracce che
agivano ad Argenta e nei suoi dintorni.»
Stellette addio, pag. 19

NOTE

Una parte delle presenti memorie, è stata pubblicata nel volume


di Bruno Ghigi, La guerra sulla Linea gotica dal Metauro al
Senio fino al Po, Ghigi editore, Rimini 2003, pp. 901-904.

Bibliografia
ADAMO ANTONELLINI, Argenta, aprile 1945, «Arzenta!», I, 5,
ottobre 1993, p. 6. (Qui è riportata la cit. testimonianza di Olao
Mingozzi.)
MARCO INNOCENTI, L’Italia del 1943, Come eravamo nell’anno
in cui crollò il fascismo, Mursia, Milano, 1993, pag. 53.
ANTONIO MONTANARI, I giorni dell’ira. Settembre 1943 -
settembre 1944 a Rimini e a San Marino,Il Ponte, Rimini, 1997.
(Il testo integrale è disponibile su Internet, all’indirizzo
<http://digilander.libero.it/monari/ira.html>.)
ANTONIO MONTANARI, Rimini ieri, Dalla caduta del fascismo
alla Repubblica, Il Ponte, Rimini, 1989.

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