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Antonio Montanari

Rimini.
Da Cesare a Sigismondo
Quante storie. 1
Quante storie, I, pag. 2

1. Il segreto di una «città di misura»

Quante storie macina la Storia. Quella di Rimini e del


suo territorio è «antica e aperta». La definizione
(1980) è del compianto prof. Giancarlo Susini,
docente di Storia all’Università di Bologna. «Antica»:
la città, intesa come «luogo d’incontro popolare» e
«punto di riferimento psicologico», è ancora entro o
poco oltre le mura romane e malatestiane. «Aperta»:
lungo i secoli Rimini ha tenuto le fila con l’Oriente e
con il mondo per le vie del mare. Senza essere mai
levantina, in essa «qualche suo campanile si leva su
come un minareto».

L’attaccamento al passato e l’apertura al nuovo sono


confluiti in quello che Susini chiama «il segreto di
Rimini», l’essere cioè una «città di misura» che dai
secoli andati ha tratto ispirazione nel progettare il
presente e nell’immaginare il futuro.

Ogni volta diversa ma alla fine eternamente uguale a


se stessa, Rimini appare ancor oggi come sospesa tra
mito e realtà, alla ricerca di un’identità definita ma
non definitiva, nel divenire inquieto dell’attuale
società globalizzata.

Proseguiva Susini nel 1980: nonostante calamità


naturali, errori urbanistici, guerre, invasioni,
distruzioni, «nonostante tutto» Rimini ha potuto
«conservare emblematicamente il disegno dell’arco e
del ponte e ripetere il primo sulla fronte del Tempio
Malatestiano, dando l’avvio ad un clima eccelso nel
cuore del Rinascimento».

E proprio nel passato Susini invitava a cercare quel


nostro «segreto», mentre già tutto appariva cambiato
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profondamente, dall’entroterra alla zona balneare.


Ancora adesso dalle parole di Susini, resta la lezione
che egli ha impartito allora: la Storia aiuta a
comprendere i tempi in cui viviamo, e ci rende
responsabili delle scelte per quelli futuri.

Forse l’«antica» città è oggi percepita diversamente,


come un’immagine soltanto ideale. Di certo, anche
l’«antica» città obbliga a riflettere, con le sue storie
dipanatesi lungo secoli e secoli, su quale realtà
lasciare ai posteri. Pure a questo serve la Storia.
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2. Da Cesare a Sigismondo, sogni di


gloria

Il nostro ideale viaggio nella storia di Rimini e del suo


territorio comincia dal Tempio malatestiano, voluto a
metà del XV secolo da Sigismondo Pandolfo Malatesti
e disegnato da Leon Battista Alberti. «La città che
Sigismondo aveva ereditato non richiedeva
immediati interventi funzionali né alla cinta muraria,
né al porto da poco definitivamente sistemato (1417),
né al sistema viario» (Pasini, p. 52). I suoi maggiori
interventi, «quelli più appariscenti e celebri e
fortunatamente ancora esistenti, sono il Castello ed il
Tempio». Il primo è costruito fra 1437 e 1446, «come
palazzo-fortezza splendido e potente ad esaltazione e
difesa della Signoria». Il secondo, è «eretto per un
voto, a gloria di Dio e della sua famiglia» fra il 1447 ed
il 1460 (ib., p. 51). Su entrambi i monumenti, precisa
Pasini, «Sigismondo volle che prima di tutto fosse
specificato che essi erano stati fatti ‘per la città’».

«Ma ciò non doveva bastare a far sì che i due edifici


fossero circondati dall’affetto popolare», hanno
osservato Grazia Gobbi e Paolo Sica: nel Castello «si
leggevano i segni inequivocabili di un dominio
dinastico assoluto», ed il Tempio era «il simbolo di una
cultura non tanto e non solo estranea alla città,
quanto calata dal vertice e incapace di allargarsi e di
comunicare» (p. 64). Era la cultura modellata
sull’esempio delle principali corti italiane, improntata
al mecenatismo a cui s’accompagnava lo
smantellamento «del sistema clientelare dei notabili
locali»: presso Sigismondo a Rimini «sostano o
gravitano più o meno a lungo Brunelleschi, Agostino
di Duccio, Piero della Francesca, Leon Battista
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Alberti, oltre a una serie di artisti minori…» (ib., pp.


55-56).

Alberti disegnò «la grande e severa facciata» del


Tempio, «scandita nella parte inferiore da quattro
semicolonne ispirate al vicino Arco di Augusto»
(Grafton, pp. 417-418). Si stabilisce così una specie di
consanguineità, «non certo estranea alla suggestione
dei simboli della potenza e del potere», con uno dei
due monumenti romani che già erano stati simboli del
libero Comune nel Medioevo.

Prima di arrivare a Rimini, Alberti vive a Firenze e


Roma. Nella capitale medicea raggiunge «una
posizione importante e autorevole» (Grafton, p. 225)
come intellettuale che sapeva destreggiarsi abilmente
nelle dispute letterarie e nelle questioni filosofiche.
Nella città del papa, l’archeologia pagana gli permette
d’esprimersi come studioso d’Antiquaria, alla ricerca
di una perfezione che ai suoi occhi soltanto le opere
classiche potevano rappresentare e suggerire. Il suo
progetto per il Tempio riminese concilia la sapienza
del letterato e la tecnica dell’architetto il quale
proietta nel presente la lezione del passato. Il
richiamo all’Arco di Augusto è una specie di
manifesto, una dichiarazione di principio in cui lo
stesso Sigismondo non poteva non riconoscersi.

Nella politica interna Sigismondo proietta la sua


«spregiudicatezza prepotente» ed un «opportunismo
scoperto ma a volte accattivante, fatto di intuizioni
penetranti e di disinvolta improvvisazione» (Gobbi, p.
55). Alla vita di corte imprime un svolta, «facendole
spazio nella città»: all’austera gestione dello zio Carlo,
marito di Elisabetta Gonzaga (morto nel 1429) e del
fratello Galeotto Roberto «il beato» (scomparso nel
1432 a 21 anni), subentra una vivacità alimentata da
tornei, cacce, cortei e festeggiamenti (ib.).

All’inizio dell’ideale viaggio nella storia cittadina,


siamo come illuminati da un gioco di specchi che si
rinviano a vicenda immagini singolarmente
decifrabili, ma pronte a confondersi fra loro nelle
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prospettive cangianti secondo lo spostarsi del nostro


occhio. L’età di Sigismondo richiama quella di Roma.
Davanti al Tempio scorre immutato nei secoli il lungo
cammino che dall’Appennino conduce al porto,
attraversando il foro, «dove Cexero inperadore se
fermò e fece la decieria alli suoi capitanii» il 12
gennaio del 49 d. C., manifestando l’intenzione di
«volere el triumpho romano per forza», come annota
Gaspare Broglio nel descrivere le nozze di Roberto
Malatesti con Elisabetta di Montefeltro (1475).

Simmetrici rispetto al foro sono l’Arco di Augusto ed il


Ponte di Tiberio, che assurgono ad effigi della gloria
latina e delle gesta di quegli eroi e condottieri.
Termini della città, i due monumenti nel contempo si
offrono quasi come presagi della sfida politica che
Sigismondo tenta senza fortuna con i potenti del suo
tempo, prima di raccogliersi sconfitto nella fama più
eterna, quella tutta ideale del Tempio.
Quante storie, I, pag. 7

3. Nel Tempio i ricordi dell’età romana

Nella parte alta dell’Arco d’Augusto «son figurate in


alto rilievo le teste e parte del busto delle quattro
divinità tutelari della colonia, caratterizzate dagli
attributi a ciascuna spettanti. Nella fronte verso
Roma appaiono Giove, il nume supremo […] e Apollo,
il dio protettore della casa d’Augusto; nella fronte
verso Rimini sono scolpiti Nettuno, il dio
dell’elemento marino donde Rimini traeva in parte,
col suo porto, la sua prosperità, e Minerva galeata
[con elmo di pelle, n.d.r.] (non Marte, come taluni
han ritenuto), la dea che aveva giustamente in tutela
una città di funzioni e di tradizioni così
eminentemente militari» (Aurigemma, p. 11). Per
ogni divinità c’è un emblema che la caratterizza: «per
Giove il fulmine, per Apollo il corvo e la cetra, per
Nettuno il tridente e il delfino, per Minerva il gladio
con balteo [cintura di cuoio dei militari, n.d.r.] e un
trofeo con lorica [leggera corazza dei soldati, n.d.r.] e
paludamento». Mansuelli suggeriva nel 1960 la dea
Roma al posto di Minerva. Sul corvo di Apollo, Ovidio
racconta nei Fasti della sua punizione da parte del dio
per avergli mentito: fu posto in cielo vicino alla coppa
(con cui era stato mandato a raccogliere acqua), ma
non abbastanza da poterne bere. Nel fronte orientale,
«la testa di bue che si vede nel serraglione testimonia
che Rimini era diventata colonia romana» (Matteini,
p. 122).

Nettuno rappresenta «un legame ineludibile fra il


centro e la periferia, in piena comunione fra storia
nazionale del presente e storia municipale del
passato»: nell’età di Augusto Rimini ha «un porto certo
fiorente per le attività cantieristiche di marinai e di
carpentieri e di artigiani» (Braccesi, p. 51-52). «La
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posizione della città è tra le più favorevoli. Appennino


alle spalle, con boschi da legname e ampie distese per
il pascolo, che digradano in colline disegnate da filari
di vite. Pianura fertile tutt’intorno, dove la vite si
alterna a frutta, ortaggi e cereali. Boschi di querce un
po’ ovunque, colme di ghiande per i maiali. E di fronte
il mare pescosissimo. Rimini insomma è ricca, non le
manca nulla» (Dal Maso, p. 133). E dal mare il vino
riminese «giunse in ogni porto del Mediterraneo» (ib.,
p. 215).

L’Arco, ha scritto Braccesi, offrì a Sigismondo «il


grande modello, sia ideologico sia monumentale» per
il Tempio, le cui misure nella facciata (è scoperta
recente) sono quelle stesse che in altezza ha la
colonna Traiana (ib., pp. 65-66).

Fra «i materiali epigrafici romani di reimpiego,


utilizzati all’interno del Tempio», figurano tre
iscrizioni: una dedica imperatoria a Settimio Severo
ritrovata sotto l’Arco di Augusto, una dedica onoraria
al patrono della colonia Marco Vettio Valente in cui è
ricordato l’imperatore Traiano (da Porta Montanara),
ed un frammento che ha la sigla «v(ivus) f(ecit)».

Sigismondo con esse inserisce nel Tempio un richiamo


alla storia romana (l’Arco), ed una duplice
sottolineatura autobiografica con il «vivus fecit», e con
la dedica al «patronus civitatis» (come è lo stesso
Sigismondo) che menziona un imperatore «che per il
Signore di Rimini è un secondo modello in quanto
come lui, egli è un optimus nonché cristianissmo
princeps».
Il bassorilievo che all’interno del Tempio raffigura
Rimini con la barca in primo piano e l’antica strada
verso l’Appennino sullo sfondo, perpetua il segno di
una città «antica e aperta».

In età romana la darsena si trovava fra Marecchia ed


Ausa a 172 metri dalle mura della città, ovvero fra
area della stazione ferroviaria ed Anfiteatro. Il porto
alla foce del Marecchia è citato per la prima volta nel
Quante storie, I, pag. 9

1059. Forse era gestito dai Benedettini di San


Giuliano, soggetti direttamente a Roma e non al
vescovo locale. Intanto continuava a prestare
servizio quello romano.

Nel 1417 s’inaugura il porto nuovo sul Marecchia


voluto da Carlo Malatesti. Nel 1438 vi arrivano
l’imperatore greco Giovanni VIII Paleologo ed il
patriarca di Costantinopoli Giuseppe I, diretti a
Ferrara dove era stato trasferito da papa Eugenio IV
il Concilio inaugurato nel 1431 a Basilea. (Cfr. Tonini,
pp. 308-309, Serpieri, pp. 19-32.)

Nei secoli VII e VI a.C. da Verucchio gli Etruschi


controllano i traffici sull’Adriatico (di fatto un lago
greco) fra l’area egea e l’Etruria interna. Sul
declinare del VI sec. i Greci Egineti commerciano con
l’Etruria interna passando per la Rimini preromana
che è il porto di Verucchio, come attestano frammenti
ceramici attici a figure nere. «C’era così, alla foce del
Marecchia, una Rimini prima di Rimini». È possibile
ipotizzare che Verucchio per la sua felice posizione
geografica abbia «esteso la propria sfera di influenza
su tutto il territorio compreso fra il Savio e il
Metauro». (Cfr. Braccesi, pp. 17-26)

«Il bacino del Marecchia si poneva come continuazione


naturale verso nord dell’alta valle del Tevere, ed era
possibile accedervi percorrendo uno dei più bassi ed
agevoli valichi dell’Appennino tosco-romagnolo, che
dovrebbe coincidere con l’attuale Viamaggio,
sfruttato sin da epoca preromana per le
comunicazioni tra i due versanti della penisola,
tirrenico ed adriatico» (Rodriguez, p. 5).
Quante storie, I, pag. 10

4. Il fossile perduto

Luigi Tonini presentando il primo volume della sua


Storia riminese (1848), avvertiva saggiamente il
lettore con le parole di «un chiarissimo scrittore»,
Giuseppe Micali (1769-1844, L’Italia avanti il
dominio dei Romani, 1810), che il tempo è come un
fiume: «conduce sovente a noi le cose galleggianti e
leggiere, e trae sventuratamente al fondo le più
consistenti e gravi» (p. 6). La Storia deve quindi
destreggiarsi tra insuperabili ostacoli, contraddizioni,
silenzi spesso maligni, invenzioni che prendono il
nome di favole.

Alla fine l’unica certezza che resta, è quella che Tonini


riassume ed applica per la Rimini pre-cristiana: dai
più antichi storici e geografi «nulla, o assai poco, con
sicurezza, e con precisione storica, ci è pervenuto»,
perché «non solo ne dissero poco assai, ma ancora in
modi sovente oscuri ed incerti» (p. 8).

Di «una impenetrabile oscurità» aveva parlato Antonio


Bianchi (1784-1840) successore in Gambalunga di
Luigi Nardi (bibliotecario fra 1818 e 1837) e maestro
silenzioso di Luigi Tonini che gli subentrò alla morte.
Con genialità Bianchi aveva spostato l’attenzione
dell’ipotetico lettore della sua opera (rimasta
manoscritta sino al 1997).

Dal dubbio che lo assillava per quella «oscurità», e che


lo agitava «non sapendo dunque da qual epoca
cominciare la nostra storia», era passato ad un
elemento che ha qualcosa di diverso dalle consuete
argomentazioni: «dirò frattanto qualche cosa relativa
ai fossili che trovansi nel nostro territorio». Bianchi
avvertiva: è una specie di «prefazione, che chi legge
Quante storie, I, pag. 11

potrà saltare a suo piacere» (Storia di Rimino, pp.


XVI, 6).

Il nostro Giovanni Antonio Battarra (1714-1789) è


autore di una Istoria dei Fossili dell'Agro Riminese, ed
altri siti circonvicini (1780). Il primo a scriverne era
stato nel 1739 il suo maestro Giovanni Bianchi (Iano
Planco, 1693-1775), nel De Conchis minus notis,
dove presenta i Corni d'Ammone ritrovati sul
Covignano, per trattare dell'avanzata della linea del
litorale.

Le «brevissime ma dotte osservazioni geologiche» di


Antonio Bianchi, scrisse Tonini, mostravano «quanto
avanti fosse nelle cognizioni fisiche, di quanta
erudizione, e quanto criterio fornito» (p. XXX).
L'interesse verso la Geologia applicata al discorso
storico, fa di Antonio Bianchi un isolato precursore
degli studi storici moderni.

Questa parte del suo lavoro, contenente prospettive di


assoluta originalità, non è però ripresa da Tonini che
era il più idoneo, non certo per atteggiamento
intellettuale, ma per il suo ruolo culturale di civico
bibliotecario, a seguirne le tracce e a svilupparne gli
argomenti.
Quante storie, I, pag. 12

Bibliografia
Aurigemma = S. Aurigemma, Rimini, Rocca San Casciano, 1934
Bianchi = A. Bianchi, Storia di Rimino dalle origini al 1832. Manoscritti
inediti a cura di Antonio Montanari, Rimini 1997
Braccesi = vedi Rimini Museo
Broglio = vedi Matteini, p. 116
Dal Maso = vedi Rimini Museo
Gobbi-Sica = Grazia Gobbi e Paolo Sica, Rimini, Bari-Roma 1982
Grafton = A. Grafton, Leon Battista Alberti. Un genio universale, Bari-Roma
2003
Matteini = N. Matteini, Rimini, Rocca San Casciano 1963 (qui a p. 116 si cita
il passo di Broglio)
Pasini 1970 = P. G. Pasini, La città, in «S. P. Malatesta e il suo tempo. Mostra
storica», Vicenza 1970
Rimini Museo = Rimini Imperiale II-III secolo, Musei Comunali Rimini, Le
Guide I, Rimini 2003
Rodriguez = E. Rodriguez, Abitati e abitanti lungo l’Ariminus:l’epoca romana,
in «Dalle sorgenti dell’Ariminus al mare. La vallata del Marecchia tra arte e
archeologia», a cura di C. Ravara Montebelli, Rimini 2004
Serpieri = Alessandro Serpieri, Il porto di Rimini dalle origini ad oggi tra
storia e cronaca, Rimini 2004
Susini = G. Susini, «Introduzione» ad Analisi di Rimini antica. Storia e
archeologia per un museo, Rimini 1980, pp. 11-12
Tonini = L. Tonini, Rimini dal principio dell’era volgare all’anno MCC, Rimini
1848

Edizione elettronica 2009

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