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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA


Corso di laurea in Filosofia

TESI DI LAUREA

PROLEGOMENI A UNO STUDIO DEL CONCETTO D’IMMAGINE IN


WALTER BENJAMIN.

Relatore
Prof. Paolo Gambazzi

Correlatore
Prof. Giorgio Agamben

Laureando
Walter Bonaventura
1
2
INDICE
p. 7 Introduzione
1

p. 13 1.1 Benjamin e Goethe

p. 15 1.2 Forma, apparenza e conoscenza

p. 23 1.3 Conoscenza e salvataggio dei fenomeni

p. 31 2.1 Mito, violenza e apparenza

p. 35 2.2 Lingua nominale come lingua della verità

p. 50 3.3 Lingua giudicante come lingua dell’apparenza

p. 59 3.1 Storia e apparenza nel Trauerspiel barocco

p. 70 3.2.1 Allegoria e lingua giudicante

p. 89 3.2.2 Allegoria e verità

p. 93 4.1 Arte, filosofia e verità

p. 106 4.2 Bellezza della verità e forma della filosofia

p. 123 Nota di Giorgio Agamben

p. 127 I. Opere di Walter Benjamin consultate

p. 129 II. Testi consultati

p. 139 Credits & License

3
4
AVVERTENZA:
La quasi totalità delle citazioni di Walter Benjamin, qui nelle traduzioni indicate
nelle note al testo e in bibliografia, sono state verificate sulle versioni in lingua
tedesca, contenute nell'edizione completa delle opere indicata anch’essa in
bibliografia. Ove tali traduzioni siano parse imprecise, inappropriate, e, al limite,
inaccettabili, si è provveduto a modificarle con nuove versioni fornite, se
necessario, di apposita nota esplicativa. Allo stesso modo si è ritenuto opportuno,
talvolta, riportare, tra parentesi quadre, la parola tedesca.

5
6
INTRODUZIONE

Questo lavoro nacque dall’esigenza di comprendere il ruolo


teorico-conoscitivo e il valore metodologico del concetto di
immagine dialettica, negli scritti benjaminiani successivi alla sua
fallita abilitazione alla libera docenza. Nel tentativo di illuminare
questo concetto – a partire da quello goethiano di Urphänomen
cui si lega nel lavoro sui passages parigini – emersero numerose
ragioni per le quali le radici dell’immagine dialettica avrebbero
dovuto essere cercate negli scritti precedenti la succitata
abilitazione, che alcuni raggruppano sotto l’etichetta di “pre-
materialistici”. Spostando lo sguardo su tali scritti, ci si accorse di
come la concettualità ruotante attorno all’immagine dialettica
rientrasse in un contesto molto più ampio di quello meramente
metodologico e gnoseologico. Ci pare di poter racchiudere questo
contesto all’interno di un tentativo di Benjamin di confrontarsi con
il grande tema del mito.
Il confronto con questo tema esercitò indubbiamente un
grosso fascino e una potente attrazione sull’allora giovane
Benjamin e, in quegl’anni, non solo su di lui. Egli si spinse a
indagare i legami che il mito intrattiene con la lingua, col diritto,
con l’arte, con la storia, con la politica, con la tecnica. Indagine
che, probabilmente, gli rivelò ben presto il carattere ambiguo e
demonico e la forza pericolosamente seduttiva, che pertiene a
tutto ciò venga anche solo sfiorato dal mito.
Proprio il contatto col mito e la conoscenza delle sue
strutture e dinamiche, unito alla sempre maggiore consapevolezza
dei bui destini, che i venti venefici del mito si apprestavano ad
apparecchiare per gli anni a venire dell’Europa, spinsero Benjamin
a ingaggiarsi nella costruzione di barricate su tutti i fronti da lui
raggiungibili. La sua posizione di intellettuale assunse così sempre
maggior consapevolezza dell’intrinseca politicità del pensiero, e
dell’alto tenore politico che pertiene al pensiero come azione. La
lettera sulla lingua indirizzata a Buber e il saggio su Bachofen, per
citare solamente due scritti apparentemente minori, sono un chiaro
esempio di questa sua posizione.
7
I numerosi fronti su cui Benjamin si trovò a contrastare
questa avanzata, sono riconducibili principalmente a due. Due
fronti che, in certo qual modo, seppur tra loro opposti, si
rivelarono, ai suoi lungimiranti occhi, come fondamentalmente
convergenti.
Da un lato coloro che, allestendo veri e propri laboratori e
officine di miti, si dedicavano a quella che Kerény chiama
“tecnicizzazione del mito”, con l’aiuto o, al massimo, il silenzio
dei sedicenti custodi della tradizione e del passato, dei Valori e
degli Ideali; coloro che tentavano di spacciare un nuovo
apparentemente rivoluzionario, ma, in realtà, legato potentemente
con il marcio e la barbarie insite nella tradizione. Coloro che,
nascosti da una maschera rivoluzionaria, lavoravano alacremente
per perfezionare i meccanismi e i rapporti di dominazione e
sfruttamento, con l’aiuto dei frutti avvelenati della più
ipocritamente neutrale delle tradizioni: quella tecnico-medico-
scientifica. Coloro che speravano in un mondo, dove i dominati
partecipassero attivamente alla propria dominazione (non senza
prima superare rigorose selezioni) trovando in ciò anche la propria
realizzazione, vale a dire la propria felicità. Dall’altra parte coloro
che, forti di altrettanti Valori e paladini di altrettanti Ideali,
dovevano apparire agli occhi di Benjamin come degli
irresponsabili – e, dunque, corresponsabili – al galoppo del
progresso, ignari della catastrofe imminente; coloro che speravano
in un’autoestinzione degli avversari e in un autoriscatto degli
oppressi, secondo le leggi deterministiche della loro concezione
della storia; tattica, questa, che, nella loro strategia politica,
andava sotto il nome di “attesa della situazione rivoluzionaria”.
Proprio nell’affidarsi a Valori e Ideali, Benjamin scorgeva il
convergere dei due fronti. 1 Valori e Ideali si nutrivano di un insano
rapporto con la tradizione e, più in generale, con la storia. Insano
rapporto che trovava radici in una concezione storicistica della
storia, che faceva dell’obiettività (presunta) e dell’accesso diretto

1
In una lettera a Rang del 1923, Benjamin scrive: « È proprietà comune della mancanza di
coscienza e della povertà di idee, quella di soffocare la pluralità etica delle idee sotto
l’opaca generalità del principio ».
8
al passato il suo punto di forza. Benjamin puntò allora la sua
potenza di pensiero sul rapporto con la tradizione, mostrando
come il passato non sia “là già da sempre”, ma sia “già da sempre
passato” e, dunque, a priori, inaccessibile a uno sguardo diretto e
obiettivante. Mostrando come il passato si apra alla conoscibilità
solamente in un rapporto di polarizzazione, dove passato e
presente dello storico si implicano e si modificano a vicenda.
Mostrando come il passato dello storicismo fosse privo di contatti
con la materica e dialettica “sostanza” del mondo: la vita,
l’esperienza; come quel passato fosse confinato in una mitica
rigidità e di come divenisse, quindi, paradossalmente, ingombrante
proprio per la sua inessenzialità. Benjamin mostrò come questa
inessenzialità, questa lontananza mitica, questo carattere astorico
non fossero per nulla tratti innocui, ma pericolosi e forieri di
sciagure e catastrofi. Quando, infatti, il mitico incombe sugli
umani abitanti del mondo, i loro destini gli vengono sottratti per
essere affidati a potenze oscure, a leggi non scritte. E che altro
sono Valori e Ideali, se non Leggi non scritte depositate e garantite
nel e dal mitico libro della Storia? Che altro sono se non
demoniche potenze che, sottraendo e custodendo per sé la
capacità di decisione, gettano gli umani nell’abisso senza fondo,
ma luminosissimo di apparenze, della colpa? Apparenze che
giocano il loro potere seduttivo in tutti i piani della realtà: nella
lingua, nel diritto, nella politica, nell’arte, ma anche nei dettagli:
gli specchi, l’illuminazione, la pubblicità, i passages, lo spaccio
dei sentimenti, la moda… Con le sue riflessioni Benjamin mostrò
come una tale idea di tradizione, dunque di storia, disinneschi
ogni progetto politico genuinamente rivoluzionario, trasformandosi
in pesante fardello da onorare con culti e sacrifici (il sacrificio è
uno dei fondamenti dell’ordine mitico). Mostrò come ogni futuro,
che si produca a partire da tale visione, non possa essere altro che
un nuovo posticcio, un “sempre uguale ritorno dell’identico” (altro
fondamento dell’ordine mitico) abbigliato e mascherato con la
moda corrente, vale a dire mera apparenza, tempo reificato già
pronto a inghiottire le speranze in esso riposte.

9
Il nichilismo messianico che egli propone come metodo della
politica, va visto come una lama utilizzata per separare nettamente
ogni trascendenza, sia essa volta al futuro che al passato, per
restituire passato e futuro alle singole e viventi individualità, nella
consapevolezza che la redenzione non spetta a noi mortali, cui
spetta solamente un avere a che fare con il qui e ora nella sua
contingente cogenza. Con un qui e ora carico di tempo, ove il
passato, sempre prossimo al tramonto, può, in ogni momento,
riprendersi le sue possibilità e preparare la stretta porticina da cui
può entrare il Messia.
L’immagine, nel suo carattere di apparenza, non può sottrarsi
a questa ambiguità, oscillando tra un carattere demonico,
d’illusione, e uno più genuinamente salvifico-messianico.
L’immagine dialettica, che dunque racchiude essa stessa una
dialettica dell’immagine, divenne una sorta di operatore che
avrebbe dovuto, ponendosi dalla parte dell’apparenza salvifica,
neutralizzare il carattere demonico-mitico dell’apparenza e fornire
una diversa idea di storia.
Di tutto ciò, nel presente lavoro, si troveranno solamente
degli accenni. Questo perché si è ritenuto necessario giungere,
dapprima, a una maggiore e più chiara comprensione di quella
che potremmo chiamare la preistoria dell’immagine dialettica,
venendo a capo di questioni riguardanti la lingua, il mito, l’arte, la
filosofia nel loro rapporto con l’apparenza e con ciò che appare: i
fenomeni. Diversamente, un approccio che avesse voluto subito
misurarsi con l’immagine dialettica, senza questo lavoro
preparatorio, oltre a correre il rischio di risultare superficiale,
avrebbe sicuramente incontrato nodi teorici che difficilmente
avrebbero potuto essere sciolti. Detto questo, è implicito il nostro
augurio di poter portare a termine questa ricerca in un futuro
lavoro, più direttamente incentrato sull’immagine dialettica e
l’immagine in generale.

10
11
12
1

Ciò che voglio è distorcere la cosa ben al di là


dell’apparenza ma, nella distorsione, ricondurla ad
essere testimonianza dell’apparenza.
Francis Bacon

1.1 Benjamin e Goethe.

Leggendo il libro in cui Scholem narra della sua amicizia con


Walter Benjamin, troviamo, sparsi qua e là, degli accenni
all’interesse che quest’ultimo nutrì per gli studi che Goethe dedicò
al mondo naturale. Tra questi figura l’estratto di una lettera di
Benjamin del settembre 1918 dove, tra l’altro, dice: « […] per cui
non ho lavorato, e in particolare non ho affrontato l’etica; in
compenso, ho studiato molto Goethe, leggendo fra l’altro la sua
Metamorfosi delle piante […] ».
Dato l’intento biografico del libro, Scholem non si sofferma
qui in dettagli sui percorsi speculativi di Benjamin, il cui
chiarimento è invece lo scopo di questo nostro scritto, anche se,
vista la grande capacità di assimilazione e dissimulazione di
Benjamin prima lettore e poi produttore di pensiero, il compito
non sarà agevole.2 Si tratterà di leggere la produzione naturalistica
goethiana, per rintracciarvi una chiave ermeneutica che ci
permetta di aprire alla comprensione alcuni scritti benjaminiani.3
Questa apertura dovrebbe poi portare a individuare alcune idee
portanti del pensiero di Benjamin e a seguirle all’interno della sua
apparentemente eterogenea opera.

2
Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, Adelphi, Milano 1992, p. 175. «
Le sue facoltà intellettuali tendevano a fare di lui sempre più un commentatore di testi
importanti, intorno ai quali riusciva a cristallizzarsi il suo pensiero. Il suo talento
speculativo non si adoperava più tanto a escogitare cose nuove, quanto a penetrare il dato,
interpretandolo e trasformandolo in senso paradigmatico ».
3
Per i riferimenti alle edizioni delle opere di Goethe consultate, rimandiamo alla nostra
bibliografia.
13
È infatti nostra convinzione, che un chiarimento del concetto
di immagine in generale, dell’immagine dialettica in particolare,
nell’opera di Benjamin, possa agevolmente partire dal rapporto
che questi intrattenne con il pensiero e le opere di Goethe.
Leggendo la Morfologia, potremo chiarire il concetto di
Urphänomen e di come Benjamin intenda l’immagine dialettica
come origine, come matrice generativa della storia – che poi si
trasforma nelle Tesi (ma già nel Dramma barocco) in monade –
vale a dire il potere “redentivo-messianico” proprio dell’immagine;
leggendo i saggi Per una critica della violenza, Sulla lingua in
generale e sulla lingua degli uomini, Dramma barocco tedesco
potremo approfondire il lato “mitico-oscuro-demonico”
dell’immagine e i suoi legami col tema dell’apparenza, della
violenza, del mito e del diritto. 4
Questi testi, su cui verterà il confronto, mostrano che
Goethe divenne presto un autore di riferimento, come attesta
anche l’importante posizione assegnatagli nell’economia
intellettuale della sua dissertazione di laurea Il concetto di critica
nel romanticismo tedesco, nonché dall’esoterico saggio sulle
Affinità elettive.5
Il lavoro cercherà di procedere a stretto ridosso dei testi, nei
quali tenteremo di rintracciare quei passi che, più o meno
segretamente, rinviano ad analoghe posizioni goethiane. Ci pare
infatti di poter scorgere una comunanza, un tratto comune tra
Benjamin e Goethe, nel tentativo di trovare una ratio, un
linguaggio, che salvino i fenomeni nella loro specificità e unità,
mettendo a punto degli strumenti metodologico-conoscitivi atti a
far parlare i fenomeni stessi, a far sì che i particolari, che il finito,
nella sua sussunzione nell’universale operata dal pensiero, non si
appiattisca sull’universalità astratta dei linguaggi scientifici
dominanti; a far sì, cioè, che gli uomini, nel loro pretendere a una

4
Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus novus, Einaudi, Torino 1962, pp.
5-30; Id., Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini, in Angelus novus, op. cit., pp.
53-70; Id., Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi 1980 [d’ora in poi TP].
5
Id., Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, Einaudi, Torino
1982, pp. 3-116; Id., Le affinità elettive di Goethe, in Id., Il concetto di critica nel
romanticismo…, op. cit., pp. 179-254.
14
conoscenza oggettiva, non scambino le mediazioni della
conoscenza per la realtà delle cose; a non trasformare la visione in
concetti, il concetto in parole e poi operare e agire con queste
parole come se fossero cose.

1.2 Forma, apparenza e conoscenza.

Quando Goethe intraprese gli studi di botanica, sotto la


guida del suo interesse per il mondo delle forme e delle loro
metamorfosi, si distinse immediatamente dall’approccio della
maggior parte dei botanici di allora. Questa sua distinzione, che
troviamo anche nell’approccio agli studi sulla natura del colore, fu
pagata a caro prezzo. Egli, per molto tempo, fu considerato nel
migliore dei casi un dilettante della scienza, quando non fosse
addirittura trattato come un tolemaico, a causa della sua polemica
con le posizioni newtoniane.6
A questa disciplina, che gli si andava man mano delineando
tra le mani, egli dette il nome di Morfologia, ponendo anche molta
attenzione nel fornirla di una vera e propria autonoma
epistemologia. Il tutto in maniera non sistematica, consegnando le
sue riflessioni a scritti rintracciabili un po’ ovunque nella sua
immensa opera.
In quanto studio delle forme assunte dalla natura nelle sue
metamorfosi, la Morfologia si delineò come descrizione e
rappresentazione di processi fenomenici, differenziandosi così
subito da altre ricerche di storia naturale. Scopo di quest’ultima è
quello di determinare e classificare i fenomeni in base a un ordine
causale; scopo di Goethe è quello di descrivere la modalità stessa
del loro apparire:
Giacché qui non si chiedono le cause, bensì le condizioni nelle
quali i fenomeni appaiono […]. 7

6
Per una più ampia considerazione di questo aspetto, cfr. G. Giorello e A. Grieco, Una
bella successione di molteplici forme, in AA.VV, Goethe scienziato, a cura di G. Giorello e
A. Grieco, Einaudi, Torino 1998, pp. 3-25.
7
J. W. Goethe, Teoria della natura, Boringhieri, Torino 1958, p. 51.
15
Nelle ricerche fisiche mi si impose la convinzione che, in ogni
considerazione degli oggetti, il dovere supremo è di ricercare
accuratamente ogni condizione nella quale un fenomeno appare […]8
Questo concetto di apparenza suona a noi, oggi, come poco
familiare, come indebolito dalla svalutazione operatane
dall’idealismo. Questi lo ha infatti ridotto a involucro di
un’essenza, a velo destinato a cadere con l’avanzata del sapere e
della riflessione compiuti.
Per Goethe l’apparenza si configura, invece, come il darsi
del mondo in immagine, come il dischiudersi di un mondo dotato
di senso. Per lui nell’immagine convergono sensibilità e intelletto,
di modo che quest’ultimo non perda il contatto con l’esperienza e
la prima possa acquisire una forma distinta. I sensi non sono per
lui ostacoli, ma momenti di formazione e di verifica
dell'esperienza, luoghi in cui il fenomeno, lungi dal presentarsi
come inganno e mistificazione, si costituisce come realtà per
l'uomo:
Sono pochi, invero, quelli che si entusiasmano di ciò che appare
soltanto allo spirito. I sensi, il sentimento, la passione, esercitano su di
noi un potere ben più forte; e non a caso, poiché siamo nati non già
per osservare e meditare, ma per vivere.9
La questione dell’apparenza, lo si sarà capito, rientra nella
più ampia problematica del valore dell’esperienza e del suo
rapporto con la conoscenza. Ciò che emerge dagli studi
naturalistici goethiani – che si pongono in polemica aperta con la
teoria dei colori di Newton, e, dunque, anche con l’equivalente
concezione filosofica kantiana dell’esperienza – è la ricerca di
una via alternativa alla riduzione della realtà naturale a elementi
univocamente determinati, cercando invece di tradurre tale realtà
in concetti che ne mantengano la differenziazione qualitativa. Ciò
che Goethe non accetta è la rigida divisione e riduzione, da parte
del razionalismo scientifico, della realtà in soggetto e oggetto,
della riduzione della singolarità e peculiarità dei fenomeni a mera
particolarità. Ciò che propone è la riformulazione dei concetti di

8
Ibid., p. 66.
9
Id., Opere, (a cura di L. Mazzucchetti), 5 voll., Sansoni, Firenze, 1961, vol. 5, p. 76.
16
soggetto e oggetto in vista di un’idea di esperienza, che mantenga i
suoi caratteri di unicità e compiutezza.
A ciò occorre aggiungere che, di pochi mesi precedenti la
lettura degli scritti botanici di Goethe, e contemporanea alla
redazione della tesi di laurea sul romanticismo tedesco, è la
stesura dello scritto benjaminiano Sul programma della filosofia
futura.
In questo scritto Benjamin tenta di uscire dalle aporie della
filosofia trascendentale kantiana, dovute, secondo lui, non a limiti
immanenti, ma all’impoverimento imposto dall’illuminismo alla
metafisica, non più in grado di coprire l’intero arco
dell’esperienza:
Il fatto che Kant poté iniziare la sua straordinaria opera proprio
sotto la costellazione dell’illuminismo significa che questa fu
intrapresa entro un ambito di esperienza ridotto per così dire al punto
zero, al minimo di significato […] questo infimo concetto d’esperienza
ha influenzato limitandolo anche il pensiero kantiano. Si intende con
ciò ovviamente proprio quel dato di fatto spesso rilevato come la
cecità religiosa e storica dell’illuminismo.10
Il termine “metafisica”, in tale scritto, appare sì nel senso
kantiano di “struttura della conoscenza di natura”, ma anche come
possibilità di un concetto che evada dai limiti criticistici entro i
quali solo, in Kant, può costituirsi la conoscenza come sistema
della natura. Tale metafisica speculativa, dice Benjamin, fu
intravista come possibile dallo stesso Kant, che non avrebbe
altrimenti chiamato una sua opera Prolegomeni a ogni futura
metafisica (libro che lo stesso scritto benjaminiano richiama nel
titolo). Ciò, però, appunto, solamente sulla scorta di una
restituzione del concetto di esperienza alla sua integralità.
Detto questo, possiamo immaginare l’effetto che devono aver
prodotto in Benjamin gli scritti scientifici goethiani.
In uno scritto recante il titolo Glückliches Ereignis [Un
fortunato evento] Goethe racconta del suo riavvicinamento a

10
W. Benjamin, Sul programma della filosofia futura, in Id., Metafisica della gioventù. Scritti
1910-1918, Einaudi, Torino 1982.
17
Schiller, avvenuto casualmente in una società di ricercatori di
scienze naturali, che teneva le sue riunioni a Jena.
Riportiamo qui alcuni passi significativi per la comprensione
della posizione goethiana, anche in riferimento all’allora grande
interesse suscitato dalla filosofia di Kant (di cui Schiller costituiva
un’entusiasta ammiratore):
Aveva accettato [scil.: Schiller] con gioia la filosofia kantiana che
innalza a tanto livello il soggetto mentre sembra limitarlo; la filosofia
kantiana sviluppava ciò che di straordinario la natura aveva portato
nell’essere di Schiller, ed egli, nel più alto sentimento di libertà e
autonomia, era irriconoscente con la grande madre che certo non lo
aveva trattato da matrigna. Invece di considerarla autonoma, vivente
nei suoi stadi più profondi fino a quelli più elevati, procreante secondo
leggi, l’assumeva nella prospettiva di certe naturalità umane ed
empiriche. […] così l’enorme abisso tra i nostri due modi di pensare si
spalancava in modo sempre più deciso.
Dopo aver raccontato dell’incontro alla riunione dei
naturalisti, Goethe continua:
Schiller osservava molto ragionevolmente e acutamente e in una
forma a me molto gradita che un modo così frammentario [scil.: come
quello dei naturalisti] di considerare la natura non poteva in nessun
caso piacere a quel profano che volentieri si sarebbe dedicato al suo
studio. Risposi che per lo stesso studioso esperto esso probabilmente
rimaneva inquietante e che poteva ben esserci altro modo di prendere
in esame la natura che non quello che la isolava e la sezionava: si
poteva invece rappresentarla operante e vivente nella sua tensione
verso quel tutto che è nelle parti. Schiller […] non poteva ammettere
che ciò che io sostenevo derivasse già dall’esperienza. Giungemmo a
casa sua, la conversazione mi spinse a entrare; lì esposi animatamente
la metamorfosi delle piante e con alcuni tratti di penna formai davanti
ai suoi occhi una pianta simbolica. […] Quando terminai, scosse la
testa e disse: « Questa non è esperienza, è un idea. » Io replicai un po’
seccato: infatti, il punto che ci divideva era, nelle parole di Schiller,
indicato nel modo più rigoroso. […] il vecchio rancore stava
rimettendosi in movimento; mi controllai e risposi: « Può farmi molto
piacere avere un’idea senza che lo sappia e perfino vederla con gli
occhi. » […] Schiller replicò da colto kantiano […] Sono frasi come
queste che mi rendono del tutto infelice: « Come può essere data
un’esperienza che sia conforme a un’idea? specificità di un’idea

18
consiste infatti nell’impossibilità di avere un’esperienza che sia
conseguente a essa. »11
Apparirà ora più chiara la similarità tra l’intento del progetto
goethiano e quello benjaminiano: l’indagine e la riflessione sulle
forme dell’esperienza, in vista di una “fondazione gnoseologica di
un concetto superiore di esperienza”. Ciò significava per Goethe –
e per Benjamin – l’individuazione di una nuova metafisica, con la
quale poter calare la conoscenza autentica così profondamente
nell’esperienza empirica, da potersi dare verità anche del caduco e
del fragile.
Pur non volendo condurre, con questo scritto, un lavoro
filologico sulle fonti benjaminiane, ci pare utile segnalare qui due
scritti goethiani in cui appare il problema della Darstellung.12
In tali studi – risalenti all’incirca al 1795 e recanti i titoli di
Begriffe einer Physiologie e di Betrachtung über Morphologie
überhaupt [rispettivamente: Concetti per una fisiologia e
Osservazioni sulla morfologia in generale] – Goethe si pone il
problema della differenza epistemologica che corre tra la
“spiegazione” [Erklärung] e “l’esposizione” [Darstellung]:
Necessità di radunare tutti i modi di rappresentazione [Art ihrer
Darstellung] non di spiegare [erklären] le cose e la loro essenza, ma di
rendere conto in qualche modo dei fenomeni e comunicare ad altri ciò
che si è visto e conosciuto.13
E ancora

11
J. W. Goethe, La metamorfosi delle piante, op. cit., pp. 97-98.
12
Problema centrale in Benjamin – e non solo in lui – che consiste nell’interrogarsi sulla
non neutralità del rapporto esposizione-conoscenza; stile-verità; forma-idea. Per queste
problematiche, inserite nel contesto del rapporto arte e filosofia, cfr. M. Carboni, Non vedi
niente lì?, Castelvecchi, Roma 1999, pp. 61-63.
13
Betrachtung über Morphologie überhaupt, trad. it. in La metamorfosi delle piante, cit., pp.
100-1. Spiegare le cose e la loro essenza significa giudicarle, irrigidirle nel loro divenire,
esaurirle, pretendere di compierle, sezionarle, ma, nel Frammento Teologico-politico
Benjamin scrive: « Solo il Messia stesso compie ogni accadere storico e precisamente nel
senso che egli soltanto redime, compie e produce la relazione fra questo e il messianico
stesso. Per questo nulla di storico può volersi da se stesso riferire al messianico. »
19
La morfologia può essere considerata o come dottrina a sé, o come
scienza ausiliaria della fisiologia14 […]. Proponendosi solo di esporre,
non già di spiegare, essa accoglie il meno possibile dalle altre
discipline ausiliarie della fisiologia […]. La morfologia deve contenere
la teoria della forma, formazione e trasformazione dei corpi organici
[…].15
Il problema della Darstellung, che costituirà il centro teorico
della Premessa gnoseologica al libro sul TRAUERSPIEL, sembra,
quindi, rientrare nell’influenza che Goethe poté esercitare sul
benjaminiano tentativo di andare oltre le limitazioni che la
filosofia kantiana pone all'indagine sulla natura. Intento che
Benjamin condivise, oltre che con Goethe, anche con i romantici
tedeschi oggetto della sua tesi di laurea: traduzione della realtà e
non sua riduzione. In questo atteggiamento andrebbe forse
ricercata l'importanza che la traduzione assumerà per i romantici
e, poi, per Benjamin stesso. Compito della Darstellung sarà proprio
questo: tradurre il singolare nell'unità dell'idea, anziché ridurlo
all'universalità astratta del concetto. Compito che – come
sottolinea l’epigrafe goethiana, tratta dai Materialien zur

14
Ci sembra significativo riportare qui una definizione che Goethe da della fisiologia e che
si trova nei due scritti da cui sono tratte queste citazioni: « E poiché la fisiologia è
quell’operazione dello spirito con cui, osservando e ragionando, tendiamo a ricomporre un
tutto dal vivo e dal morto, dal noto e dall’ignoto, dal compiuto e dall’incompiuto, un tutto
che sia visibile insieme ed invisibile, il cui aspetto esterno debba apparirci solo come un
tutto, il cui interno solo come una parte, e le cui manifestazioni e operazioni rimanerci
sempre misteriose, si vede subito perché la fisiologia sia così a lungo rimasta, e forse sia
condannata in eterno a rimanere, in ritardo: l’uomo non cessa mai di sentire i propri limiti,
ma di rado è disposto a riconoscerli ».
15
Ibid., pp. 100-103. Non avendo potuto confrontare la traduzione con il testo tedesco, non
ne siamo sicuri, ma l’ultimo sintagma “forma, formazione e trasformazione” potrebbe essere
un espediente del traduttore per rendere ciò che Goethe, probabilmente, avrebbe potuto
esprimere con un unico concetto: Bildung. Nella Formazione e trasformazione delle nature
organiche, scritto a Jena nel 1807 e pubblicato nel 1817 nel primo quaderno di Morfologia,
Goethe discute infatti sull'esigenza di « conoscere il vivente in quanto tale » cogliendolo
con una visione intuitiva e propone una distinzione molto importante tra il concetto di
Gestalt e quello di Bildung. « Per indicare il complesso dell'esistenza di un essere reale, il
tedesco si serve della parola Gestalt, forma; termine nel quale si astrae ciò che è mobile, e
si ammette stabilito, concluso e fissato nei suoi caratteri, un tutto unico. Ora, se
esaminiamo le forme esistenti, ma in particolar modo le organiche, ci accorgiamo che in
esse non v'è mai nulla di immobile, di fisso, di concluso, ma ogni cosa ondeggia in un
continuo moto. Perciò il tedesco si serve opportunamente della parola Bildung, formazione,
per indicare sia ciò che è già prodotto, sia ciò che sta producendosi. » (Op5, 77-78).
20
Geschichte der Farbenlehre e posta in apertura del libro sul
TRAUERSPIEL – avvicina molto la filosofia, il sapere, all’arte:
Poiché nel sapere come nella riflessione non si può mettere
insieme un tutto, in quanto a quello manca l'interno, a questa
l'esterno, noi dobbiamo di necessità pensare la scienza come un'arte
se da essa ci aspettiamo un genere qualsiasi di interezza. E questa non
dobbiamo cercarla nell’universale, nel ridondante, bensì, come l'arte si
espone sempre tutta in ogni singola opera d'arte, così la scienza
dovrebbe pure ogni volta mostrarsi in ogni singolo oggetto trattato.16
Tale trasposizione delle categorie naturalistiche goethiane
nell’ambito estetico verrà così legittimata da Benjamin:
Gli studi di scienza naturale di Goethe occupano nell’intreccio
della sua opera letteraria il posto che riveste spesso l’estetica in artisti
mediocri… Goethe appartiene a quella famiglia di grandi spiriti, per i
quali in fondo non si dà un’arte in senso stretto. Per lui la dottrina
dell’Urphänomen in quanto scienza della natura fu al tempo stesso la
vera dottrina dell’arte, come per Dante lo furono la filosofia della
scolastica e per Dürer le arti tecniche.17
Un’ulteriore conferma possiamo trovarla in uno scritto ove
Goethe, un po’ sconsolatamente, traccia un resoconto delle
incomprensioni che produsse il suo scritto sulla metamorfosi delle
piante:
[…] nessuno voleva ammettere che si potessero combinare scienza
e poesia. Si dimenticava che la scienza è uscita dalla poesia, né si
considerava che, mutando i tempi, le due potrebbero amichevolmente
ritrovarsi, con reciproco vantaggio, su un piano superiore.18
Tornando al valore dell’apparenza, non sarà inutile leggere
un frammento di Scholem – risalente al soggiorno svizzero del
maggio-giugno 1918 – con cui introdurre il posto che tale
questione occupa nelle riflessioni di Benjamin:

16
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 3.
17
Id., La politica e l’intuizione della natura di Goethe, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II 2,
pp. 719-20. Cfr. anche, su questo tema, l’ultima parte della tesi di laurea di Benjamin Il
concetto di critica nel romanticismo tedesco.
18
J. W. Goethe, Schicksal der Druckschrift, trad. it., Vicende dell'opuscolo, in Id., La
metamorfosi delle piante, op. cit., p. 86.
21
Fin dall’inizio discutemmo a lungo sul suo Programma della
filosofia futura. Egli parlò del contenuto del concetto di esperienza, su
cui l’opera si fondava, e che secondo il suo intendimento abbracciava
il legame spirituale e psicologico dell’uomo con il mondo, quale si
realizza negli ambiti che non sono stati ancora penetrati dalla
conoscenza. Quando osservai che, di conseguenza, si sarebbero
legittimamente potute includere in tale concetto di esperienza anche le
discipline divinatorie, egli mi rispose con questa formulazione estrema:
« Una filosofia che non comprenda in sé e non sia in grado di
esplicare la possibilità della divinazione a partire dai fondi di caffè,
non può essere una vera filosofia. » […] E’ partendo da queste
prospettive (e certo non da quella di una presunta tossicomania...) che
si spiega il vivo interesse da lui dimostrato saltuariamente per le
esperienze con l’hashish. Già in Svizzera, dove in seguito vidi sul suo
tavolo Les paradis Artificiels di Baudelaire, egli mi parlò, nel corso di
una discussione sul saggio citato, dell’ampliamento dell’esperienza
umana che a luogo durante le allucinazioni, che a suo parere
includevano sempre qualcosa di più di quanto non sia espresso in un
termine come “illusione”. Di Kant egli diceva che aveva “posto i
fondamenti di un’esperienza di rango inferiore”.19
Stabilire il valore dell’apparenza per Benjamin risulta
complesso e ce ne occuperemo più avanti. Vorremmo però
introdurre qui il tema.
Sicuramente c’è in Benjamin un valore positivo
dell’apparenza in quanto darsi dei fenomeni, nella misura in cui
questo avviene nel mondo profano che, come dice nel frammento
teologico-politico, è radicalmente separato dal mondo messianico
ove ogni cosa risplende trasfigurata alla luce della parusia. Proprio
questa separazione radicale, però, getta una luce d’ombra
sull’apparenza, aprendo per essa la possibilità di vedersi
consegnata all’ambito del demonico, del mitico, del caduco,
sottraendola alla sfera della creazione ove solo possono darsi il
bene e la giustizia. E però questa separazione, che trattiene gli
umani al di qua del messianico, li costringe a misurarsi con questi
lati oscuri. Non per nulla Benjamin auspica come metodo della
politica mondiale il nichilismo.

19
G. Scholem, Walter Benjamin. Storia di un'amicizia, op. cit. pp. 99-100.
22
L’apparenza pare dunque configurarsi come ambito ambiguo
e paradossale che, proprio in questa paradossalità, racchiude un
compito: precisamente il compito della sua redenzione. Infatti,
nonostante solamente il Messia possa redimere, compiere e
produrre la relazione tra l’accadere storico e il messianico stesso,
purtuttavia l’ordine profano del Profano può favorire l’avvento del
regno messianico:
Il Profano non è, dunque, una categoria del Regno, ma una
categoria - e certamente una delle più pertinenti - del suo più facile
approssimarsi. 20

1.3 Conoscenza e salvataggio dei fenomeni.

In un frammento non pubblicato da Goethe e datato 15


gennaio 1978, che può considerarsi un’appendice a una lettera
inviata a Schiller due giorni dopo, egli traccia quello che dovrebbe
essere il metodo della sua morfologia e quelli che sono i pericoli
da cui debba guardarsi:
V’è però una grande differenza se, come fanno i teorici, per amor
di un ipotesi si riempie di file di numeri un frammento d’esperienza, o
se si sacrifica il frammento empirico all’idea del fenomeno puro.
Infatti, poiché l’osservatore non vede mai con gli occhi l’Urphänomen,
ma molto dipende dal suo stato d’animo, dalle condizioni dell’organo
in quel dato momento, dalla luce, dall’aria, dalla situazione
atmosferica, dai corpi, dal modo di trattarli e da mille altre
circostanze, pretendere di attenersi all’individualità del fenomeno e
osservarla, misurarla, soppesarla è come pretendere di bere un mare .21
Questa impossibile pretesa di attenersi all’individualità del
fenomeno (empirico), come dice Goethe, la ritroviamo in alcune
considerazioni che Benjamin fa nella sez. N del libro sui passages,
segnatamente nel frammento N 2,3 a proposito dello status
dell’oggetto di una storiografia materialistico-dialettica. Egli

20
W. Benjamin, Frammento teologico-politico, in Id., Il concetto di critica nel romanticismo
tedesco, op. cit., p. 171.
21
J. W. Goethe, Erfahrung und Wissenschaft, trad. it., Esperienza e scienza, in Id., La
metamorfosi delle piante, op. cit., p. 135.
23
afferma che « l’essere di allora » dell’oggetto storico non può
pretendere a una sua consistenza in sé, a una sua individualità, in
quanto esso si concretizza in se stesso (nel suo essere attuale)
solamente grazie all’interesse che lo storico pone in quell’oggetto.
Quest’interesse non è un interesse arbitrario, ma si precostituisce
nell’incontro tra l’immagine del passato e il qui e ora dello storico,
della sua situazione presente, in virtù di quell’indice segreto che il
passato reca con sé e che lo rinvia alla redenzione.22
Occorre qui una precisazione lessicale: spesso, nelle
traduzioni italiane, il termine goethiano Urphänomen viene reso
con “fenomeno puro”, tralasciando così di sottolineare ciò che di
più significativo Goethe intendeva designare con questo termine.
L’Urphänomen è infatti ciò che, restando invariato nella
molteplicità e nella metamorfosi infinita delle forme, si pone come
origine delle stesse, ma non come arché, come punto d’origine da
cui poi le forme si allontanano, piuttosto come un’origine che
rimane attiva entro ogni forma, quasi come suo “motore interno”,
come sua fonte; infatti ogni forma è come tale trasformata, ed è
egualmente lontana dall’Urphänomen come lo è qualsiasi altra.
Dunque per Goethe la dinamica delle trasformazioni non va
rintracciata nel principio di causalità, ma nel fatto che ogni evento
costituisce la condizione perché l’evento successivo appaia; e
costituendo tale condizione un restringimento dell’infinita
molteplicità delle manifestazioni della forma, occorrerà di volta in
volta leggere ogni forma limitata alla luce dell’Urphänomen per
comprendere il senso e la logica della sua condizione rispetto a
quelle prossime o remote. L’Urphänomen, quindi, come origine
che si invera nella stessa successione delle forme, come natura
naturante immanente ai fenomeni, sorgente insita nel darsi stesso
dell’apparenza. Quindi il tipo, l’Urphänomen genera le molteplici
forme; è origine nel senso che da origine; perciò precede la
molteplicità delle forme sul piano logico, ma non su quello
ontologico; egli si da come primum, non come derivato, come

22
Il topos di quest’incontro tra l’interesse e il suo oggetto non è altri che ciò che Benjamin
chiama immagine dialettica.
24
ricavato per induzione dalle molteplici forme; si da come pura
possibilità es-posta nelle forme; come infinito nel finito.
Willst Du ins Unendliche schreiten,| Geh im Endlichen nach alle
Seiten.
Goethe vuol giungere a un procedimento che non sia
costrittivo e che non pieghi l’apparire dei fenomeni a ipotesi
preformate; vuole cogliere le leggi dei fenomeni nel fenomeno
stesso:
L’ideale sarebbe capire che ogni elemento reale è già teoria.
Soprattutto non si cerchi nulla dietro i fenomeni: essi sono la teoria.23
Un’origine, insomma, che si invera nella stessa successione
delle forme.
Ecco perché ci pare più appropriato tradurre Urphänomen
con “fenomeno originario” o, ancora meglio, con “fenomeno
originante”; quando infatti un participio – o un nome derivato da
un participio (come tratto, ousia …) – si fa incontro a noi nella
lingua, occorre sempre porre attenzione alla dimensione temporale
che esso ci indica (una determinazione che in qualche modo
attiene al movimento) non fermandosi solamente alla prospettiva
spaziale che resta, invece, in certo qual modo, attinente a
un’immobilità (vedi, ad esempio, la sostanziale differenza che
passa tra substantia e ousia).
Proseguendo nella lettura del frammento precedente, e
terminando con essa queste considerazioni lessicali, apparirà
evidente l’inadeguatezza della resa in italiano con “fenomeno
puro”.
Goethe continua con la descrizione del suo metodo di
lavoro, distinguendolo in tre fasi: percezione in natura del
fenomeno empirico (che, come tale, è sempre frammento) che
diviene, tramite esperimento – vale a dire tramite variazione
controllata delle condizioni e circostanze in cui il fenomeno
empirico si manifesta – fenomeno scientifico e, da ultimo, come
risultato di tutte le esperienze e di tutti gli esperimenti,
Urphänomen. Di questo Goethe dice:

23
MuR, 565.
25
Esso non può mai essere isolato, ma si mostra in una serie costante
di fenomeni: per rappresentarlo, lo spirito umano determina
l’empiricamente oscillante, esclude il casuale, isola l’impuro, sviluppa
l’incerto e scopre l’ignoto. 24
Ecco che questo suo non presentasi mai isolato, ma sempre
in una serie costante di fenomeni, impedisce di chiamarlo “puro”
[rein], pena la caduta in un ossimoro.25
A questo punto scopriamo di essere giunti proprio ove la
connessione tra Benjamin e Goethe è più salda. Troviamo in
questo passo goethiano un piccolo sunto di alcuni importanti
pensieri benjaminiani.
Nella Premessa al libro sul TRAUERSPIEL, Benjamin si pone,
come già detto, il problema del metodo della Darstellung
filosofica. Di contro al sistema come forma della filosofia del XIX
secolo, egli rivendica l’inconclusività che pertiene all’autentico
filosofare. La forma della Darstellung filosofica non può essere
qualcosa di estrinseco al modo più proprio del darsi stesso della
verità. Il filosofare dovrà essere attento a situare i fenomeni in una
luce tale, che permetta loro di svelare da soli i nessi reciproci e le
loro segrete costruzioni; dovrà indugiare presso di essi e
continuamente riaccostarli da capo, rinunciando alla sillogistica
continuità del processo di pensiero, propria, appunto, dei sistemi
filosofici. La verità non dovrà essere esplicitazione del mistero, ma
rivelazione che gli rende giustizia, pena:
[…] un sincretismo che cerca di catturare la verità in una ragnatela
tesa tra le conoscenze, come se la verità venisse da fuori, volando.26
Il metodo della Darstellung filosofica dovrà essere,
propriamente, una Umweg, una via indiretta, un girare attorno ai
fenomeni che sfugga l’irrigidimento totalitario del sistema e la sua
inarrestabile catena dialettico-deduttiva.
A tale metodo corrisponde, come ben determinato genere
letterario, il trattato.

24
[Corsivo nostro].
25
Ancora più errato sarebbe intendere la sua purezza in senso kantiano, come a priori:
proprio l’a priori Goethe contesta a Schiller.
26
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1980, p. 4.
26
La rinuncia a un decorso ininterrotto dell’intenzione è il suo primo
contrassegno. Il pensiero, sobriamente, riprende da capo,
circostanziatamente torna alla cosa stessa.27
Solo esso consente una comprensione non univoca del
fenomeno, che salvi la plurivocità dei suoi significati.
Questa incessante respirazione è la più specifica forma d’esserci
della contemplazione. Poiché in quanto essa, nell’osservazione
[Betrachtung] di un unico e medesimo oggetto ne segue i diversi gradi
di senso, ottiene un impulso a un sempre rinnovato avvio e insieme la
giustificazione della sua ritmica intermittente. Come nei mosaici, in
cui la frammentazione in capricciose particelle non lede la maestà, la
meditazione [Betrachtung] filosofica non soffre una perdita di slancio.
Gli uni e l’altra si compongono di elementi singoli e disparati; nulla
potrebbe insegnare più potentemente il trascendente impeto delle
immagini dei santi come della verità.28
Tutto ciò non significa dispersione nella mera particolarità,
ma consapevolezza del carattere trascendente, del valore
differenziale, diacritico della verità, che appare fulminea tra gli
estremi che costituiscono l’idea. Tutto ciò mira a quel platonico
salvataggio dei fenomeni nella loro unicità.
Questa scoperta fu fondamentale: Benjamin non
l’abbandonerà più. In essa possiamo trovare già il nucleo teorico
germinale della concettualità che ruoterà attorno alla categoria
dell’immagine dialettica: la sua fulmineità, la sua condizione di
sospensione della dialettica, il suo carattere per certi versi
involontario, il suo legame con un’esperienza ove soggetto e
oggetto abbandonano la loro rigida contrapposizione, il suo
carattere sintetico e apparentemente “a priori”, il suo dipendere
dalla prontezza di spirito e dalla presa salda dell’osservatore…
Egli stesso fu cosciente del legame teorico che connetteva i
suoi lavori alle scoperte fatte durante il lavoro sul TRAUERSPIEL e
del contributo che a esse dettero gli studi goethiani; in un
frammento che si trova nella sezione gnoseologica dei Passages,
leggiamo:

27
Ivi.
28
Ibid., pp. 4-5.
27
Durante lo studio dell’esposizione simmelliana del concetto di
verità in Goethe, mi apparve con molta chiarezza che il mio concetto
di Ursprung nel libro sul dramma barocco è una rigorosa e cogente
trasposizione di questo fondamentale concetto goethiano dal campo
della natura a quello della storia. Ursprung: è il concetto di
Urphänomen ripreso dalla connessione pagana della natura e riposto
nelle connessioni giudaiche della storia. Ora, nel lavoro sui passages,
ho a che fare ancora con un’esplorazione dell’origine. Io inseguo,
cioè, l’origine delle figure e dei mutamenti dei passages dal loro inizio
fino al loro declino, e la colgo nei fatti economici. Questi fatti,
considerati dal punto di vista della causalità, cioè come cause, non
sarebbero affatto un Urphänomen – lo diventano solo in quanto, nel
proprio stesso svolgersi [Entwicklung] – meglio sarebbe detto nel loro
dipanarsi [Auswicklung] – fanno sorgere dal loro seno la serie delle
concrete forme storiche dei passages, come la foglia dispiega da sé
l’intero regno dell’empirico mondo vegetale.29
E ancora:
Al pensiero appartiene tanto il movimento quanto la sospensione
dei pensieri. L'immagine dialettica appare là, dove il pensiero si arresta
in una costellazione satura di tensioni. Essa è la cesura nel movimento
del pensiero. Naturalmente il suo non è un luogo qualsiasi. Essa va
cercata, in una parola, là, dove la tensione tra gli opposti dialettici è al
massimo. […]30

Negli ambiti, con i quali abbiamo a che fare, si dà solo


conoscenza fulminea. Il testo è il tuono che lungamente continua poi a
rintronare.31

Aspetto pedagogico di questo proposito: « Educare in noi il


medium creatore di immagini allo sguardo stereoscopico e
dimensionale nella profondità delle ombre della storia. » La frase è
tratta da Rudolf Borchardt, Epilegomena zu Dante, I, Berlin 1923, pp.
56-57. 32

Un deciso distacco dal concetto di " verità atemporale " è


opportuno. La verità, però, non è – come pensa il marxismo – solo una

29
Id., Parigi capitale del XIX secolo. I passages di Parigi, Einaudi, Torino 1986, fr. 2a, 4,
[aggiunta manoscritta al TP].
30
Ibid., fr. N 10a, 3.
31
Ibid., fr. N 1, 1.
32
Ibid., fr. N 1, 8.
28
funzione temporale della conoscenza, ma è legata a un nocciolo
temporale contemporaneamente riposto nel conosciuto e nel
conoscente. Questo è così vero, che l'Eterno in ogni caso è piuttosto
una gala al vestito che un'idea.33
Quest’ultimo frammento può essere fruttuosamente accostato
a una nota espressione di Goethe, aiutandoci anche a capire che
cosa quest’ultimo intendesse dire a Schiller esclamando di poter
vedere un’idea.
Vi è un empirismo delicato che s’identifica nel modo più intimo
con l’oggetto e così diventa vera e propria teoria. Ma questo
potenziamento delle capacità intellettuali appartiene a un’epoca di
alta cultura.34
Si capisce che la “delicata empiria” è proprio il luogo dove si
da l'esperienza di una verità che salva l’unicità del fenomeno.
Quando più sopra si è accennato al carattere trascendente della
verità, infatti, occorre stare attenti a come si intende tale
peculiarità. La trasposizione dell’Urphänomen nel contesto della
storia come concetto di Ursprung, infatti, contiene anche una
critica a Goethe e al fatto che in lui l’Urphänomen tende a
confondersi con il modello, con l’archetipo [Vorbild, Urbild],
oscillando così tra idealismo oggettivo (le idee sono concetti delle
cose) e trascendentalismo kantiano (le idee sono le leggi delle
cose). E infatti nel frammento N 2a, 4 sopra citato, l’aggettivo
pagana sta a indicare la miticità dell’Urphänomen goethiano, il
suo carattere di fondamento eterno della vita che si evolve e muta
nel tempo, la valenza classica e archetipica di tale nozione di
origine, privata della sua valenza storica e sottolineata
ampiamente dal culto della natura, dal panteismo goethiano.35
Ursprung è invece un « vortice che sta nel fiume del divenire
e trascina dentro la sua ritmica il materiale della nascita »; ciò
significa che l’Ursprung recupera la sua valenza trascendentale

33
Ibid., fr. N 3, 2.
34
MuR, 565.
35
Questo carattere mitico viene affermato esplicitamente da Benjamin nell’ultima parte de
Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Lo stesso tardo Goethe porrà capo a
un’integrale riformulazione delle sue dottrine sull’Urphänomen, con la scena della discesa
alle madri che sta al centro delle intenzioni del secondo Faust.
29
solamente riaffermando pienamente il suo originario peso storico-
effettuale.
Tornando al frammento citato più sopra sull’analogia tra il
trattato e il mosaico, possiamo pensare di individuarvi un primo
accennarsi di quello che sarà poi il metodo con cui “provocare”
immagini dialettiche. Mi riferisco alla teorie benjaminiane della
citazione, del montaggio e degli “scarti”, dell’insignificante e
dell’Ausdruckslose.36
Giunti a questo punto, prima di cimentarci con l’esposizione
del modello filosofico che emerge dagli scritti benjaminiani sopra
citati, vorremmo proseguire il nostro scritto cercando di sondare le
origini della scoperta benjaminiana della Darstellung. Qui, sempre
tenendo presente lo scopo di questo studio – ossia l’immagine –
dovremo cercare di venire a capo di questioni quali l’apparenza,
la violenza, il diritto, il giudizio.

36
Cfr. per queste la sezione K e la sezione N del libro sui passages, ma anche i saggi su
Brecht, sull’opera d’arte, sulla fotografia nonché lo scritto Einbahnstraße.
30
2

2.1 Mito, violenza e apparenza.

Il mito è un’immagine in pieno sole, sottratta alla


luce-ombra della storicità.
Massimo Raffaelli

Riprovevole è ogni violenza mitica, che pone il diritto, e che si


può chiamare dominante.37
La violenza mitica pone il diritto nel senso che pone leggi,
regole, che trasformano uomini e donne immediatamente in
colpevoli: li gettano nel mondo della colpa ove sottostanno a un
giudizio permanente.
Ciò perché uomini e donne, nell’ambito mitico, occupano
una posizione di perenne separazione da queste forze, ne sono
schiacciati in quanto non possono prendervi parte. 38 Ed è la loro
impotenza nei confronti di queste forze e del diritto da loro posto
e configurato, nei confronti del loro potere, che trasforma tali forze
in potenze mitico-demoniche, vale a dire in potenze capaci di
violenza distruttiva.39

37
W. Benjamin, Per la critica della violenza, op. cit., p. 30.
38
Cfr. frammento di Anassimandro: « Il principio degli esseri è l'indefinito [...] In ciò da cui
gli esseri traggono la loro origine, ivi si compie altresì la loro dissoluzione, secondo
necessità: infatti reciprocamente scontano la pena e pagano la colpa commessa, secondo
l'ordine del tempo. » In questo frammento l’individuazione degli esseri, la loro separazione
dal tutto originario, costituisce un ingiustizia (adikías) che gli esseri debbono espiare.
Ingiustizia che nulla ha a che fare con la volontà di un creatore, ma possiede carattere
inevitabile: è destino, è ingiustizia fatale. A tale situazione di colpevolezza metafisica si
riferisce Benjamin con l’espressione: « Il destino è il contesto colpevole di ciò che vive », o
con quest’altra: « Forse Hebbel era sulla giusta strada, quando vide nell’individuazione la
colpa originale […] ».
39
Mi preme qui sottolineare come “l’ambito mitico” non vada inteso storicisticamente come
già e ben situato in un preciso momento storico – la Grecia arcaica – ma come concetto
critico, come Urphänomen che agevola la comprensione di tutta una serie di fenomeni
rintracciabili – in maniera più o meno marcata – in ogni epoca. Di tale consapevolezza da
prova lo stesso Benjamin – a pag. 29 del saggio qui in questione – affermando che « […]
31
A ogni loro passo uomini e donne, che vivono in totale
separazione dalle forze demoniche e in totale assoggettamento alla
loro violenza costituente il diritto, uomini e donne che vedono le
loro relazioni (con gli altri esseri umani, con gli dei, con le cose)
regolate da statuti giuridici40 nei confronti dei quali sono impotenti,
perché separati e cioè ignari di esse, tale umanità si trova nella
possibilità continua di poter infrangere queste regole senza
saperlo. Regole che tracciano confini posti dal diritto mitico
(confini difesi e vigilati dalle forze mitiche), dal suo potere;41
confini che tratteggiano la separazione tra mondo degli dèi e
mondo degli uomini:
Creazione di diritto è creazione di potere, e intanto un atto di
immediata violenza
e potere è
il principio di ogni diritto mitico.42
Dunque potere-diritto-violenza appaiono intrinsecamente
connessi, come risuona nel lemma tedesco Gewalt.43
Questa continua possibilità di superare i confini, di
infrangere leggi non scritte, fa sì che uomini e donne possano, in
ogni momento, incorrere nel castigo. Questo “in ogni momento”

l’impero del mito è già scosso qua e là nel presente […] », ma anche nelle sue analisi del
rapporto uomo-tecnica o in quelle sulla tragedia greca di contro al Trauerspiel.
40
Cfr. W. Benjamin, Destino e carattere, in id., Il concetto di critica nel romanticismo
tedesco, Einaudi, Torino 1982, p. 120.
41
Cfr. Id., Per la critica della violenza, op. cit., pp. 24-25.
42
Ibid., p. 24.
43
Occorrerebbe verificare come tale ambito mitico abbia sempre a che fare con ciò che
Benjamin, nel saggio sull’opera d’arte, definisce valore cultuale, o, meglio, di come
quest’ultimo trovi fondamento nell’ambito mitico. Questo valore conferisce ai fenomeni di
tale ambito il loro carattere auratico, vale a dire il loro carattere di ineliminabile
separatezza e inavvicinabilità. A ciò si lega la necessità delle comunità umane di
approntare tecnologie con cui superare tale iato: riti e sacrifici. Loro fine è
l’immedesimazione (Einfühlung) nelle potenze inavvicinabili. Loro termine (limite) è la
conferma dell’esistenza della separazione e dell’inadeguatezza di ogni tentativo di
superarla in tal modo. Da tale verifica – che andrebbe condotta sull’opera d’arte (ad es. sul
teatro borghese vs. cinema e teatro epico, ma anche sull’intenzione benjaminiana di attuare
un superamento filosofico del surrealismo, posto quest’ultimo come tentativo di creare una
mitologia moderna [cfr. Le paysan de Paris di Aragon]), su diritto vs. giustizia, sul concetto
di storia (storicismo vs. nichilismo messianico) – dovrebbe emergere il carattere
eminentemente politico del pensiero di Benjamin su tali questioni.
32
assume il senso della minaccia e, più propriamente, di un destino
minaccioso. « Il potere che conserva il diritto è quello che
minaccia ».44 Ecco allora che uomini e donne nell’ambito mitico
soccombono perennemente a un « destino minaccioso di castigo ».
Castigo, perché l’intervento del diritto è volto a punire l’infrazione
di leggi non conosciute e non scritte; altrimenti sarebbe pena.
Minaccioso, perché privo di quella determinatezza e precisione,
sia nei confronti del soggetto colpito, sia verso lo scopo, tipiche
invece dell’intimidazione.
Questa violenza coronata dal destino, che è origine mitica
del diritto, si manifesta apertamente nel potere supremo, quello di
vita e di morte, in cui il diritto si conferma e si rifonda più che in
ogni altro atto giuridico, aprendo altresì lo spazio della colpa
come topos dell’umanità.
Il diritto non condanna al castigo, ma alla colpa. Il destino è il
contesto colpevole di ciò che vive.45
Perciò gli umani, viventi nell’ambito mitico in questa
minaccia continua al proprio essere (alla propria nuda vita
portatrice di colpa) e all’essere del mondo che li circonda,
sperimentano l’esistente come apparenza; vedono come ogni cosa
mostri già nel suo nascere una subitanea inclinazione al non
essere; vedono questo non essere come destino, e, schiacciati
dall’obiettività del mito, sperimentano l’originaria colpa
dell’esistente (colpa come essere in debito, come mancanza, come
fragilità ontologica). 46

44
Ibid., p. 14.
45
Id., Destino e carattere, op. cit., p. 121.
46
Questa tendenza generale al non essere, questa consistenza umbratile dell’esistente, fa sì
che tratto comune dell’arte antica sia – come emerge dalle analisi di Riegl – il tentativo di
delineare nettamente gli individui (umani e cose) rispetto allo spazio circostante (spazio
che, non a caso, è riempito-dominato da tutta la pletora delle forze-personaggi mitico-
demoniche); la loro precisa individuazione, vale a dire il loro maggiore valore ontologico,
permette agli individui di essere se stessi e di non confondersi col caos, di non svanire nel
non essere, senza lasciare traccia alcuna. Uguale tendenza – con alcuni aggiustamenti
concettuali – utilizzerà Benjamin nel suo saggio su Kafka; a p. 281 (in Angelus novus)
possiamo leggere: « Ciò che appare in forma libera e sciolta nel fare di questi messaggeri, è,
in modo più pesante e più cupo, la legge di tutto questo mondo di creature. Nessuna ha un
posto fisso, contorni netti e inconfondibili; nessuna che non sia in atto di salire o di cadere
[…] Non si può nemmeno parlare di ordini o di gerarchie. Il mondo del mito, che
33
Questa obiettività del mito altri non è che l’obiettività della
separazione, l’obiettività della colpa, che, però, alla luce della
grazia divina, apparirà invece come ingannevole oggettività,
rivelando la natura di “ciarla” dell’intero ambito demonico-mitico.
L’acosmismo – che si può indicare come tratto
caratterizzante la tradizione giudaico-cristiana nella sua lotta per
la liquidazione del mito –risolve il problema del destino mitico,
anteponendo alla separazione produttrice di colpa (quella tra
uomini e dèi) una più originaria separazione tra Dio e creazione,
nella quale il primo emette un giudizio di bontà sulla seconda. 47
Bontà che non ha nulla di morale, ma si presenta come conferma
della bontà ontologica della creazione. Nell’acosmismo la
caducità creaturale, il lutto della physis, il loro essere soggetti di
colpa, il loro appartenere all’ambito demonico del mito/diritto, si
rivelano – alla luce della grazia divina - per ciò che sono:
fantasmagorie, apparenze irrigidite, ingannevole oggettività cui si
apre la prospettiva della salvezza:
E quando l’altissimo verrà a raccogliere la messe dal cimitero,/ Io,
teschio, sarò un volto d’angelo. 48
La giustizia divina – che si radica e si trasferisce nella
giustezza e bontà della creazione, ed è giudizio divino [Gericht] e
parola giudicante-raddrizzante-orientante [richtenden Wort] –
sgretola e distrugge la facies hippocratica e polverosa del mondo
irrigidito e conservato dal diritto, trasponendolo nel regno dei
cieli, vale a dire operando la sua redenzione. Ciò avviene
fulmineamente, ma non sanguinosamente, in quanto purifica –

inviterebbe a farlo, è infinitamente più giovane del mondo di Kafka, a cui già il mito ha
promesso la redenzione ».
47
Si potrebbe dire che nell’ambito mitico vige un “peccato dell’origine” (ove il genitivo è
sia oggettivo che soggettivo) – che getta l’esistente nella colpa – anziché il “peccato
originale” della tradizione biblica. In quest’ultima la separazione dall’originaria unità
divina, la creazione, avviene per volontà buona del creatore, mentre la separazione
produttrice di colpa, la caduta, il “peccato dell’origine del mondo decaduto” avviene per la
volontà della prima coppia. Di qui la possibilità di un riscatto, di una salvezza, di una
purificazione.
48
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 229. Tale frattura tra storia
mondana e storia della salvezza sta a fondamento di qualsiasi concezione allegorica, di
contro a una concezione classica del simbolo inteso come chiusa e autonoma totalità. Su
ciò cfr. più avanti.
34
incenerendolo – il velo dell’apparenza. Il diritto, invece,
incatenando la creatura, la nuda vita, a un’apparenza di vita,
negando il vivente, è violenza sanguinosa e conservatrice. 49
Violenza mitica e violenza divina, diritto e giustizia, vita e
vivente, purezza e purificazione. Queste, dunque, le coppie
antitetiche emergenti dall’analisi benjaminiana del diritto e del
mito. Queste le coppie che occorre ora porre ancor più in
costellazione, inserendo un ulteriore elemento, che appare nel
saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo del 1916 e
nella parte conclusiva del TRAUERSPIEL – (abbozzato, come
recitava l’originaria dedica alla moglie, anch’esso nel 1916) –: il
giudizio.

2.2 Lingua nominale come lingua della verità.

Dio non è affatto il male, ma nella lotta tra il


bene e il male l’uomo intravede l’abisso.
Georges Bataille, Il Piccolo, Gremese, Roma
1981.

Nel saggio sulla lingua Benjamin vede l’esistenza della


lingua come realtà che si estende a tutto, senza eccezione, vale a
dire una lingua che non si limita alla sola espressione spirituale
dell’uomo.
[…] è essenziale a ogni cosa comunicare il proprio contenuto
spirituale.50
Questa comunicazione si configura come espressione e, più
propriamente, come espressione nella lingua. Dunque: l’essere
spirituale delle cose si comunica, si esprime in un essere
linguistico. Il pericolo che sorge a questo punto, avverte Benjamin,

49
Di qui l’importanza del compimento della legge da parte del messia, che
“disattivandola”, apre così la via alla vita redenta. La legge, infatti, apre il mondo all’azione
del male, del peccato. Anche su ciò, cfr. più avanti.
50
W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Angelus novus, op. cit.,
p. 53.
35
è quello di considerare l’essere spirituale come coincidente con
l’essere linguistico mentre, invece, l’essere spirituale che si
comunica nella lingua va tenuto distinto da essa. Pericolo che
corre ogni teoria mistica della lingua in cui si sostiene l’identità di
parola e cosa. Il paradosso dell’identità tra essenza spirituale e
linguistica va tenuto distinto all’inizio di ogni teoria del
linguaggio, in quanto la sua soluzione trova posto solamente al
centro di tale teoria. Centro che, per Benjamin, coincide con la
trattazione dell’idea di linguaggio che scaturisce dall’analisi del
primo libro della bibbia: la Genesi. Qui si scopre che l’identità tra
parola e cosa è riservata solamente alla parola divina, in quanto
creatrice.
La distinzione che occorre tenere presente si fonda sull’idea
di lingua come medium, di contro a quelle teorie che la
interpretano come mezzo. Quest’idea vede l’identità tra essere
spirituale ed essere linguistico solamente in quanto l’essere
spirituale è comunicabile. Questa comunicabilità – vale a dire
l’espressione dell’essere spirituale nella lingua, il suo comunicarsi
nella lingua, in un essere linguistico – è ciò che Benjamin chiama
lingua delle cose. Di qui un primo risultato: la lingua comunica se
stessa. Quest’affermazione, sottolinea Benjamin, non è
assolutamente una tautologia. A differenza della teoria borghese
della lingua, ove un essere spirituale manifesta con la massima
chiarezza la sua comunicabilità attraverso la lingua, l’affermazione
benjaminiana sottolinea il fatto che quanto è comunicabile in un
essere spirituale è immediatamente la sua lingua; è ciò in cui esso
si comunica. Vi è dunque una situazione di immediatezza della
comunicazione spirituale, data dal carattere mediale della lingua.
Questa immediatezza, posta da Benjamin a problema
fondamentale della teoria linguistica, è la magia della lingua.51

51
Dal punto di vista ontologico-gnoseologico: non c’è un mondo prima della lingua; non ci
sono delle cose al di fuori della lingua che, tramite essa, vengano significate, dette. Non vi
sarà neppure un indicibile nel senso di qualcosa che lo strumento lingua non raggiunge o
non fa “passare” nella lingua. V’è invece una pura comunicabilità delle cose che è
immediatamente lingua, già da sempre lingua. Non c’è mondo se non già come lingua e,
perciò, il problema del dicibile e dell’indicibile sta per forza all’interno (?) del linguaggio.
Non per nulla ora Benjamin passa a una lettura della Genesi, mettendo a punto una sorta di
36
L’immediata comunicabilità dell’essere spirituale delle cose –
come Benjamin mostrerà più avanti nel saggio in questione,
analizzando la Bibbia – è possibile sul fondamento dalla bontà
della creazione. “Ed egli vide che ciò era buono”, è il giudizio di
Dio sulla sua creazione delle cose del mondo. Tale bontà fonda
l’esistenza di una lingua in generale, rendendo comunicabile tutta
la creazione:
[…] ciò che in un essere spirituale è comunicabile è la sua lingua.
Tutto riposa su questo è (che significa « è immediatamente »). 52
Questo è, posto in corsivo da Benjamin, sta lì come
indicatore del valore ontologico di questa immediata
comunicabilità dell’essere spirituale: il comunicabile, la
comunicabilità della creazione, è, infatti, la lingua stessa: è
immediatezza nella comunicazione del concreto (garantito,
quest’ultimo, dalla sua bontà ontologica). 53
Tale acquisizione fa affiorare spontaneamente, al centro della
filosofia del linguaggio, secondo Benjamin, il concetto di
rivelazione.54 La lingua della creazione assume carattere di
rivelazione proprio per la suddetta bontà creaturale. Se « ogni
lingua comunica se stessa », la rivelazione (come ciò che non
conosce l’indicibile, ciò che non conosce ombra) è il “se stessa”
della comunicabilità della creazione; vale a dire: la sua lingua.55
Benjamin sposta ora la sua attenzione sulla lingua dell’uomo.
Lingua che, unica tra le altre, può accogliere la comunicabilità
delle cose – vale a dire la lingua in generale e cioè la loro essenza
spirituale in quanto è comunicabile – nel nome. Nel nome le cose
si comunicano all’uomo e nel nome l’uomo comunica la propria

ontologia linguistica, ove non v’è un fuori della lingua, un esterno alla lingua, ma
un’incommensurabile e specifica infinità della lingua stessa.
52
Ibid., p. 55.
53
Buono=percepibile=comunicabile=conoscibile=vero: da ciò il carattere etico della
conoscenza della verità e della sua lingua.
54
Cfr. Ibid., p. 59 [corsivo nostro].
55
L’esistenza di questa “lingua in generale” (comunicabilità) permette ciò che Benjamin,
altrove, chiama « lettura di ciò che non è mai stato scritto ». Qualsiasi considerazione sul
grande interesse e sulla grande sensibilità fisiognomica di Benjamin, dovrà partire da questo
punto.
37
essenza spirituale, in quanto essa è comunicabile: vale a dire che
l’uomo comunica, nella sua lingua denominante, la sua lingua, e
non potrà mai, dunque, “attraversarla”, ma solamente dimorare in
essa; vale a dire che nel nome più nulla si comunica e nel nome la
lingua stessa e assolutamente si comunica. Non v’è qui
trasmissione di significati e contenuti, ma solamente il puro
comunicarsi della stessa comunicabilità; v’è autotrasparenza della
lingua a se stessa.56
In questa pura lingua, il cui estratto è il nome, l’uomo
conosce le cose. Perciò Benjamin definisce il nome come « lingua
della lingua », ove il genitivo designa il rapporto del medio, non
quello del mezzo. E se le cose comunicano tra di esse in virtù di
una comunità più o meno materiale, di una magia della materia
immediata e infinita – in quanto la loro lingua è muta – nella
lingua dell’uomo la comunità con le cose è immateriale e
spirituale e la sonorità della lingua umana è simbolo di questa
magia.
Con queste acquisizioni, Benjamin passa all’esame dei primi
capitoli della Genesi, spiegando come la Bibbia si riveli
insostituibile per un’analisi dell’essenza della lingua. In quanto si
considera come rivelazione e in quanto in essa la lingua è
presupposta come una realtà ultima, si vede necessariamente
costretta a sviluppare i fatti linguistici elementari.
La varietà ritmica degli atti di creazione del primo capitolo rispetta
tuttavia una sorta di schema fondamentale da cui solo quello della
creazione dell’uomo si diparte nettamente. […] Ma il ritmo secondo
cui si compie la creazione della natura (secondo Genesi, I) è: sia (fiat)
– fece (creò) – nominò . – In singoli atti di creazione (I, 3; I, II 57) appare
solo il fiat. In questo fiat e nel « nominò » all’inizio e alla fine degli atti
appare ogni volta la profonda e chiara relazione dell’atto della
creazione alla lingua. Esso ha inizio con l’onnipotenza creatrice della

56
In altre parole: il nome adamitico, la lingua paradisiaca, assume carattere di
trascendentalità: condizione di possibilità perché qualcosa in generale possa essere detto;
ancora: alla domanda propriamente filosofica “che esperienza occorre pensare perché
qualcosa come un *dire* sia possibile” occorrerà rispondere: il nome.
57
Segnalo qui un probabile refuso dell’ed. italiana: la versione tedesca – contenuta nel vol.
II, tomo I delle Gesammelte Schriften, segnatamente a p. 148 – riporta I, 14 al posto di I, II,
che, in effetti, è l’esatto riferimento al versetto biblico qui in questione.
38
lingua, e alla fine si incorpora, per così dire, l’oggetto creato, lo
nomina. Essa è quindi ciò che crea e ciò che compie, è il verbo e il
nome. In Dio il nome è creatore perché è verbo, e il verbo di Dio è
conoscente perché è nome. « Ed egli vide che ciò era buono », vale a
dire: lo aveva conosciuto mediante il nome. Il rapporto assoluto del
nome alla conoscenza sussiste solo in Dio, solo in esso il nome,
essendo intimamente identico al verbo creatore, è il puro medio della
conoscenza. Vale a dire che Dio ha fatto le cose conoscibili nei loro
nomi. Ma l’uomo le nomina a misura della conoscenza.58
È qui che trova posto il paradosso dell’identità tra essenza
spirituale ed essenza linguistica che, come dice Benjamin al
principio del saggio, se posto all’inizio come ipotesi, rischia di
essere l’abisso in cui può rovinare ogni teoria del linguaggio.
Garanzia di quest’identità, che significa garanzia di conoscibilità,
sussiste solo in Dio. Solo in lui il nome (l’essenza linguistica) è
intimamente anche parola creatrice; solo in lui la parola crea
un’essenza spirituale che può venire nominata (dunque conosciuta
integralmente e immediatamente). La parola divina è giudizio
[Gericht] che compie perché in esso il nome è intimamente
identico al verbo creatore; il giudizio dell’uomo dopo la caduta,
invece, è compimento apparente, è irrigidimento, è violenza
distruttiva. Solo Dio è garante di quella bontà ontologica della
creazione in cui si fonda la comunicabilità delle cose, vale a dire
la possibilità, per l’uomo, di accoglierne la lingua muta e senza
nome e di trasporla in suoni nel nome.
Proprio questo fa l’uomo: conosce nella stessa lingua in cui
Dio crea. E ciò perché, nel creare l’uomo, Dio non ha voluto
sottoporlo alla lingua, ma lasciare che, in esso, uscisse
liberamente:
Dio riposò quando ebbe affidato a se stessa, nell’uomo, la sua
forza creatrice. Questa forza, privata della sua attualità divina, è

58
W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., pp. 61-62. Qui a
margine due brevi note sulla traduzione. Nella versione citata alla nota precedente non v’è
traccia del fiat ; con esso il traduttore vuole rendere il sintagma “Es werde”, introdotto da
Lutero nella sua traduzione della Bibbia. Egli rende, inoltre, confuso il testo tradotto,
traducendo il termine tedesco Wort, vale a dire “parola”, talvolta con “verbo” e talvolta con
“parola”. “Verbo” andrà comunque considerato non nel ristretto senso della categoria
grammaticale, ma, nel senso più generale del latino verbum, ovverosia “parola”.
39
divenuta conoscenza. […] Ogni lingua umana è solo riflesso del verbo
nel nome. Il nome eguaglia così poco il verbo come la conoscenza la
creazione. 59
Dunque la parola umana è il nome delle cose e questo nome
dipende dal modo in cui le cose gli si comunicano, al contrario
della parola divina che, conoscendo le cose nel nome, le crea.
Vale a dire: la conoscenza insita nella parola divina è creazione
spontanea che accade assolutamente, senza limiti e infinitamente
dalla lingua divina, mentre la conoscenza insita nella lingua
dell’uomo è, in parte, passività, ricettività:
Ma per ricezione e spontaneità insieme, come si ritrovano, in
questa connessione unica, solo nel campo linguistico, la lingua ha un
termine proprio, che vale anche per questa ricezione dell’innominato
nel nome. È la traduzione della lingua delle cose in quella dell’uomo. 60
Benjamin raggiunge qui un doppio traguardo intermedio: la
messa in discussione della teoria borghese della lingua e di quella
– contraria, ma omologa – mistica. Se la prima pone la lingua
come insieme di puri segni convenzionali delle cose – come, con
una bella immagine di Roland Barthes, un vetro trasparente tra gli
umani e le cose – la seconda equivoca identificando tout court
parola ed essenza della cosa. Come visto sopra, la cosa in sé non
possiede parola, ma solamente un essere linguistico, una
comunicabilità che esprime, che comunica l’essere spirituale, la
lingua muta e senza nome della cosa nei suoni del nome con cui
l’uomo l’accoglie e la conosce; e, al contrario, la parola umana
non è la cosa stessa, ma la sua essenza spirituale in quanto
comunicabile, la sua lingua:
La risposta alla questione: che cosa comunica la lingua? è quindi:
ogni lingua comunica se stessa. Il linguaggio di questa lampada, per
esempio, non comunica la lampada (poiché l’essenza spirituale della
lampada, in quanto comunicabile, non è per nulla la lampada stessa),

59
Id., Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., p. 62.
60
Ibid., pp. 63-64.
40
ma la lampada-del-linguaggio, la lampada nella comunicazione, la
lampada nell’espressione.61
Questa comunicazione-condivisione [Mit-teilung] è
traduzione di una lingua imperfetta in una più perfetta; elemento
di questa perfezione – vale a dire ciò che si aggiunge – è la
conoscenza.62
La figura più profonda di tale conoscenza paradisiaca, in cui
la lingua umana partecipa più intimamente all’infinita semplicità
del verbo divino, è il nome proprio dell’uomo. Nel nome proprio
di un essere umano, precisa Benjamin, non vi è, propriamente,
alcuna conoscenza in senso metafisico-ontologico. Tant’è che lo si
assegna alla nascita:
Il nome proprio è la comunità dell’uomo con la parola creatrice di
Dio.63
Prima di procedere oltre nella lettura del saggio – per arrivare
a ciò che interessa pienamente la nostra ricerca: il giudizio – ci
pare opportuno spendere due parole sul concetto di conoscenza
[Erkenntnis], onde evitare possibili confusioni.
È noto come questo concetto pervada, con la sua
complessità, la prima parte dell’introduzione all’opera sul
TRAUERSPIEL: la Erkenntniskritische Vorrede. Lì Benjamin traccia
una contrapposizione tra Erkenntnis e Darstellung della verità, tra

61
Ibid., p. 55. La lampada stessa, nel suo tradursi nel nome, si ritrae; il mondo intero si
ritrae per lasciar posto alla sua espressione nel medium linguistico, grazie al nesso tra
l’Anschauung e la nominazione. Si ritrae perché la lingua pura paradisiaca non è creatrice,
ma solamente conoscente, perfettamente conoscente (perfettamente simbolica). Dopo la
caduta la situazione si aggrava, nel senso che il nome, venendo meno la sua pura capacità
conoscitiva, non possederà più la forza per esprimere il mondo ormai ritratto. L’unica sua
possibilità sarà dunque quella di mostrare tale impossibilità, tale frattura. Pena
l’irrigidimento mitico del giudizio.
62
Occorrerebbe soffermarsi qui su tale concetto di traduzione, dato che in seguito diverrà
oggetto del saggio Il compito del traduttore, ma ci riserviamo di farlo in altro momento. Per
ora solo una fuggevole osservazione. Il fenomeno della traduzione permette di trasporre una
lingua meno perfetta in una più perfetta mediante una continuità di trasformazioni e non,
dice Benjamin, misurare astratte regioni di somiglianza ed eguaglianza. La facoltà che
presiede a tale tipo di trasposizione non è che la facoltà mimetica cui si riferisce il breve
scritto benjaminiano. È lì che Benjamin parla della lettura di ciò che non è mai stato scritto,
vale a dire della lingua muta delle cose.
63
Ibid., p. 63.
41
conoscenza come giudizio o conoscenza intenzionante ed
esposizione della verità, tra concetto e idea, conducendo una
spietata critica della prima e affermando la seconda come unico e
proprio metodo del trattato filosofico.64 Senza addentrarci nei
dettagli di tale critica – di cui ci occuperemo più oltre, in quanto
la sua comprensione necessita delle acquisizioni forniteci dal
saggio sulla lingua qui in questione – ci preme ora sottolineare
come la Wahreit Darstellung si avvicini proprio al modello
conoscitivo fornitoci dalla lingua paradisiaca dell’uomo; a quella
conoscenza che, secondo Benjamin, si aggiunge nella traduzione
della lingua muta delle cose nella lingua sonora dell’uomo.
Conoscenza la cui oggettività è garantita in Dio. Conoscenza che,
in seguito al peccato originale, si trasformerà nella ciarla della
conoscenza concettuale, astratta e giudicante.
Riprendendo la lettura troviamo un’affermazione che
permette di procedere oltre:
La lingua delle cose può passare nella lingua della conoscenza e
del nome solo in traduzione […]65.
Nella versione originale il verbo utilizzato, e qui tradotto con
“passare”, dice eingehen. Potrebbe qui venire reso con “entrare”,
che in questo caso sarebbe più appropriato. L’idea di una lingua
come medium – di contro a una intesa come mezzo – mal
sopporta l’immagine di “passaggio”; molto meglio, dunque,
“entrare in”, “dimorare”, confermati e rafforzati anche dal corsivo
della preposizione nella. Ma, considerando anche gli altri sensi del
verbo, si può notare che ciò che li accomuna è l’idea di un
movimento che finisce, che termina. In senso botanico, o riferito
ad animali, eingehen può, infatti, indicare il “deperire”, il
“morire”, il “cessare di esistere”: può, cioè, venire utilizzato come
sinonimo di ansterben, sterben: deperire, morire. Forzando un po’
potremmo quindi tradurre con “mortificare”. Quest’ultima è parola
importante del lessico benjaminiano, ove assume il senso di

64
Tale critica non sarebbe possibile senza le acquisizioni sulla natura della lingua che
scaturiscono dalla trattazione dell’allegoria e , quindi, sul carattere allegorico della lingua
decaduta.
65
Ibid., p. 65.
42
“portare a morte per redimere”.66 Se, come pratica ascetica dei
santi, la mortificazione porta al distacco dello spirito dalle cose
terrene, qui potremmo intendere il comunicarsi della lingua delle
cose nella lingua dell’uomo, il suo tradursi nel nome, come
mortificazione di quella « magica comunità materiale » che
costituisce la comunicazione tra le cose. Traduzione che – in
quanto mortificazione – redimerebbe tali essenze spirituali ancora
mute e senza nome non senza, però, la loro morte.67 E infatti
Benjamin dice « nur in der Übersetzung eingehen ». Quel nur,
quel “solamente”, è segno di qualche cosa che va perduto,
distrutto, mortificato: ciò che si consuma nella traduzione, è,
precisamente, la creatività della parola divina, che diveniva nelle
cose « comunicazione della materia in magica affinità ».68 Perché è
chiaro che la lingua dell’uomo – seppur paradisiaca e, quindi,
perfettamente e immediatamente conoscente – è, appunto, solo
conoscente, non creatrice come la parola divina. Si potrebbe dire
che la lingua dell’uomo sta alla parola di Dio, come l’evocazione
sta alla creazione, o, con le parole di Benjamin:
Ma il nome non è soltanto l’ultima esclamazione [Ausruf], ma
anche la vera evocazione [Anruf]della lingua. 69

66
Questa ipotesi di traduzione una trova conferma ermeneutica nell’essenza più propria
dell’allegoria barocca che, come si vedrà considerando la sua dialettica materiale-spirituale,
sta tutta in questo “mortificare”. Una conferma filologica, invece, nell’uso di questo verbo
in passaggi chiave del libro sul TP. Qui solo due significativi esempi. A p. 10 (GS, I, I, p.
213) della Premessa viene impiegato per indicare il modo con cui i fenomeni “entrano” nel
regno delle idee: Die Phänomene gehen aber nicht integral in ihrem rohen empirischen
Bestande, dem der Schein sich beimischt, sondern in ihren Elementen allein, gerettet, in das
Reich der Ideen ein. A p. 12-13 (GS, I, I, 216) a proposito della verità come morte
dell’intenzione: Die Wahreit ist ein aus Ideen gebildetes intentionsloses Sein. Das ihr
gemäße Verhalten ist demnach nicht ein Meinen im Erkennen, sondern ein in sie Eingehen
und Verschwinden. Die Wahreit ist der Tod der Intention.
67
Da intendersi nel senso di “quel ritrarsi del mondo”, quello “scomparire” ricordato a
proposito della lampada nella n. 60. Il nome sarebbe dunque la traccia della cosa nella
lingua, la sua impronta. Cfr. La facoltà mimetica e la Dottrina della somiglianza.
68
Ibid., p. 64. Quando Benjamin parla di magia, usa il termine Magie e non Zauber. Ciò è
dovuto, probabilmente, all’appartenenza di Zauber all’area semantica del mito:
incantesimo, sortilegio, fascino, inganno, illusione, trucco. Ma la filosofia deve “den Zauber
lösen”: rompere l’incanto dell’apparenza mitico-demonica.
69
Ibid., p. 58. Aus-ruf: chiamar-fuori, vale a dire Dio chiama-fuori all’essere le cose
(creandole). An-ruf: chiamar-dentro, vale a dire l’uomo chiama-dentro la lingua le cose
(nominandole).
43
Tale è la magia della lingua paradisiaca. Essa non può venire
dissimulata neppure dalla presenza dell’albero della conoscenza
del bene e del male. La creazione, nella sua condizione
paradisiaca, esclude il male, la mancanza, il negativo.70 Tutto è
bene, buono, conoscibile, dunque nominabile. Il sapere sul male,
a cui seduce il serpente, è senza nome perché nulla ne è del male
nel paradiso; non vi è, per esso,
quel nesso di contemplazione [Anschauung] e nominazione in cui
è intimamente intesa la muta comunicazione delle cose (degli animali)
al linguaggio verbale degli uomini che l’accoglie nel nome.71
Il sapere sul male si rivela un sapere vuoto, un sapere della
mancanza, un sapere del nulla che apre alla parola l’abisso della
mediatezza di ogni comunicazione; quell’abisso ove la
coincidenza tra essenza spirituale ed essenza linguistica viene a
mancare. Solo la parola divina crea dal nulla: il sapere del bene e
del male si rivela perciò un’imitazione improduttiva della parola
creatrice. Con esso il nome non accoglie più in sé la lingua muta
delle cose, ma deve comunicare qualcosa fuori di sé. Solamente
nello spazio aperto dalla colpa può darsi qualcosa come un
“significare”; la caduta apre l’abisso della significazione.
Questa rottura del nesso di contemplazione e nominazione è
veramente atto dia-bolico, in quanto d’ora in poi l’uomo vedrà sì
la singolarità della cosa, ma non potrà dire la sua unicità; potrà
nominarla – cioè conoscerla – solamente all’interno di un giudizio
che la sussuma nell’universale.72Troviamo qui, cioè, l’origine
[Ursprung] mitica del dualismo tra essenza e apparenza, ovverosia
l’impossibilità del linguaggio umano di cogliere le cose nella loro

70
Qui si illumina una breve affermazione – contenuta in una lettera spedita a M. Buber da
Berlino il 23 febbraio 1927 – in cui Benjamin accomuna l’elemento creaturale e il negativo:
[…] Una cosa posso dirle con assoluta certezza: il concetto del negativo è del tutto assente
dalla mia teoria dell’esposizione [Darstellung]. È proprio questo a permettere all’elemento
creaturale di esprimersi […]. (trad. parzialmente modificata)(Lettera contenuta in Martin
Buber, La modernità della parola. Lettere scelte 1918-1938, Giuntina, Firenze 2000, p. 188).
71
Ibid., p. 65.
72
Come per Goethe, anche per Benjamin fra il generale e il particolare non c’è relazione di
sussunzione logica, ma di esposizione ideale o simbolica; medium di tale esposizione è
l’idea-nome.
44
unicità e pienezza; di cogliere la verità nella sua diretta
determinazione, nella sua immediatezza.73
Questo è il vero peccato originale dello spirito linguistico:
Il nome esce da se stesso in questa conoscenza: il peccato
originale è l’atto di nascita delle parole umane, in cui il nome non vive
più intatto, uscite fuori dalla lingua nominale, conoscente, quasi si
potrebbe dire: dalla loro propria magia immanente, per diventare
espressamente magiche, per così dire dall’esterno. La parola deve
comunicare qualcosa (fuori di se stessa). 74
Tale fuoriuscita, tale allontanamento dalla parola divina,
condanna la conoscenza del bene e del male a essere solamente
ciarla, apparenza.
José Bergamin,75– pensatore per certi versi affine a Benjamin
– tentando di comprendere la fascinazione del demonico, la luce
del suo apparire [Schein], ricorda come per Isaia il demonio sia «
colui che nasce tutte le mattine » e come Paolo lo dichiari « velato
di luce angelica », mentre per lo Zohar è « luce tenebrosa ».

73
Questo problema darà l’avvio, ad esempio, alla dialettica nella Fenomenologia dello
spirito di Hegel: ciò che dico non è ciò che vedo; vedo il particolare ma dico l’universale, il
concetto, l’astratto, del quale però non faccio esperienza (infatti Benjamin vede la nascita
dell’astrazione come effetto del giudizio, seguito al peccato originale. Inoltre ricordiamo
che Benjamin cerca, giò dal saggio sulla filosofia futura, un superiore concetto di
esperienza, la goethiana “delicata empiria”, dove i fenomeni siano già teoria nella loro
unicità-singolarità). Quest’universale deve venire contestualizzato dal linguaggio – che
assume carattere deittico – tramite quegli elementi che, molto tempo dopo, É. Benveniste
chiamerà shifters. Nasce, quindi, il problema filosofico dell’esperienza e del valore
gnoseologico della percezione (non per nulla il primo titolo assegnato da Hegel a quella
che sarà la Fenomenologia dello spirito fu Fenomenologia dello spirito. Scienza della
coscienza dell’esperienza). La nozione di esperienza acquista qui il suo spessore di per-
corso, di Um-weg. Non a caso il termine con cui Hegel designa l’esperienza è Erfahrung:
L’esperienza si fa ancora cammino, iter, odós (méth-odos) attraverso il quale si raggiunge la
verità; infatti il termine tedesco Erfahrung è collegato al verbo erfahren, composto da
fahren, viaggiare, e dal prefisso inseparabile er, in cui è presente sia l’idea del divenire che
quella del patire. Dal peccato originale, dunque, nascono tempo e storia come sostanza
della vita umana.
74
Ibid., p. 66.
75
Nel saggio L’importanza del demonio, in José Bergamin, Decadenza dell’analfabetismo,
Bompiani, Milano 2000, pp. 67-107.
45
[…] « colui che nasce al mattino », che nasce tutti i mattini – è
colui che con questo nome luminoso di tentatore e nemico assume il
dominio delle ombre.76
La luminosità del mondo cui Dio volta le spalle, la nostra
luce mondana, è la luce del demonio; ma tale luce, in quanto
assenza di Dio, è, propriamente, ombra:
Questa negazione della luce divina, quest’ombra di Dio, può
apparirci come luce (ed è come se lo fosse: perché questo apparire o
questa apparenza è il suo essere per i nostri sensi).77
Questo « come se lo fosse » è proprio il paradosso, la
« complicazione cosmica » – dice Bergamin – in cui ci attira il
punto di vista del demonio. Punto di vista che, affermando
l’assenza di Dio (l’ombra) come unico sapere positivo (luce), scava
il suo proprio abisso in cui continuamente rovinare; l’abisso della
demonica apparenza con la sua “luce tenebrosa”.
La domanda sul bene e sul male e la conoscenza che le
corrisponde è sapere nulla, è sapere positivo dell’assenza di Dio,
ma – nel mondo redento, nel paradiso – tale assenza è,
propriamente, nulla, parola vana, ciarla.
Poiché – bisogna dirlo ancora una volta – ciarla fu la domanda sul
bene e sul male nel mondo dopo la creazione.78
Nell’abisso di tale parola trova la sua rovina [Verfall] il beato
spirito linguistico.
La parola esteriormente comunicante, quasi una parodia della
parola espressamente mediata nei confronti della parola espressamente
immediata, del verbo creatore divino, e la rovina del beato spirito
linguistico, dello spirito adamitico, che si trova fra di esse.79
La parola esteriormente comunicante, la ciarla e, dunque,
l’uomo ciarliero, conoscono una sola purificazione: il giudizio
[Gericht]. 80

76
Ibid., pp. 71-72.
77
Ibid., p. 73.
78
W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., p. 67.
79
Ibid., p. 66.
80
Benjamin utilizza due termini diversi, Gericht e Urteil. Nella versione italiana il traduttore
non tiene conto di tale differenziazione, rendendo entrambe le parole con giudizio. In
46
Gericht non è, qui, solo atto del giudizio, ma altresì luogo
del giudizio, istanza di giudizio, ovverosia tribunale, corte. Tale è
il significato principale in tedesco. Il senso in cui va inteso qui
equivale, dunque, al senso che acquista “giudizio” nelle locuzioni
italiane “citare in giudizio” e “giudizio universale” [Jüngstes
Gericht].
Giudizio che è, chiaramente, quello divino, in fronte al quale
si ritrova la coppia di peccatori, per sottostare alla sua parola
giudicante [richtenden Wort], al suo castigo: la cacciata dal
paradiso. Solamente per la parola divina, giudicante – dunque
giusta in quanto conoscenza e creazione s’identificano – la
conoscenza del bene e del male è immediata. Tale immediatezza è
giudizio:
Nel peccato originale, essendo stata offesa la purezza eterna del
nome, si alzò la più severa purezza della parola giudicante, del
giudizio.81
Qui, però, giudizio non è Gericht, ma Urteil: l’atto del
giudizio, la sentenza, la condanna, il castigo 82, ma anche giudizio
come atto conoscitivo.
Solamente questa parola giudicante ripristina l’immediatezza
del nome, abbandonato dall’uomo:
Bene e male, infatti, sono, come innominabili, senza nome, al di
fuori della lingua nominale, che l’uomo abbandona proprio nell’abisso
di questa domanda. 83

questo modo, a parer nostro, la comprensione del già difficile passo diventa molto ardua.
Soprattutto non si comprende l’affermazione sull’origine mitica del diritto, che pare
scaturire dal nulla. Essa è invece sapientemente preparata dall’utilizzo di alcuni termini
chiave (Gericht, Urteil, richtenden Wort, richterlichen Urteil…) giocati nel loro senso
teologico, giuridico, morale, linguistico, gnoseologico.
81
Ibid., p. 66.
82
Cfr. Paolo, Romani 5:16 « Riguardo al dono non avviene quello che è avvenuto nel caso
dell'uno che ha peccato; perché dopo una sola trasgressione il giudizio è diventato
condanna, mentre il dono diventa giustificazione dopo molte trasgressioni. », che nella
traduzione di Lutero suona: Und nicht ist die Gabe allein über eine Sünde, wie durch des
einen Sünders eine Sünde alles Verderben. Denn das Urteil ist gekommen aus einer Sünde
zur Verdammnis; die Gabe aber hilft auch aus vielen Sünden zur Gerechtigkeit. [corsivi e
sottolineature nostre]
83
W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., 67.
47
Giudizio, sentenza, purificazione, sono, rispettivamente,
luogo, strumento ed effetto di quella che, nel saggio sulla violenza,
Benjamin chiama “pura violenza divina”, “giustizia divina”.
Oltre a costituirsi in giudizio emesso dal tribunale divino,
Urteil è anche conseguenza del peccato originale: la conoscenza
dell’umanità caduta non sarà più fondata nel nome – vale a dire
“immediatezza nella comunicazione del concreto” – ma nel
giudizio, nella mediatezza della comunicazione, nella lingua
ridotta (almeno in parte, aggiunge Benjamin) a mezzo, segno,
costretta a comunicare qualcosa fuori da sé. Effetto di ciò, sostiene
Benjamin, è l’astrazione. L’unica immediatezza ormai possibile
alla parola umana, che ha preso la forma del giudizio, è
“immediatezza nella comunicazione dell’astrazione”. Ma tale
immediatezza, alla luce della parola giudicante divina (unica in
grado di conoscere immediatamente bene e male) si rivela come
mediatezza, come apparenza, come abisso della ciarla.
Nel finale dell’opera sul TRAUERSPIEL Benjamin riprende
tutto ciò, esponendolo in maniera più consapevole.
La Bibbia introduce il male mediante il concetto di sapere.
Diventare tali da avere « conoscenza del bene e del male » suggerisce
il serpente ai primi uomini. Ma di Dio, dopo la creazione, è detto: « E
Iddio vide tutto quello che aveva fatto; ed ecco, era molto buono ».
Sicché il sapere intorno al male non ha alcun oggetto. Questo non è
del mondo. Esso nasce soltanto nell’uomo stesso, col desiderio di
sapere, e soprattutto col giudizio. […] Dunque il sapere intorno al
bene e al male è il contrario di ogni sapere concreto. […] È
« chiacchiera » nel senso profondo in cui Kierkegaard intendeva
questa parola. In quanto trionfo della soggettività e in quanto irruzione
[Anbruch, che contiene l’idea di rottura: brechen] della tirannia
arbitraria [Willkürherrschaft] su tutte le cose, quel sapere è l’origine di
ogni concezione allegorica. Nello stesso peccato originale, l’unità
della colpa e del significare scaturisce dall’albero della conoscenza
come astrazione. Nelle astrazioni vive l’allegorico: in quanto
astrazione, in quanto facoltà dello stesso spirito linguistico, esso ha la
sua dimora nel peccato originale.84 Perché il bene e il male stanno,

84
Allegorico come continuo differire del significato, come già da sempre mancata
coincidenza tra significante e significato, come arbitrio della significazione dunque come
essenza del linguaggio umano (bisognoso di redenzione).
48
innominabili in quanto privi di nome, al di fuori della lingua dei nomi,
nella quale l'uomo paradisiaco nomina le cose, abbandonata
nell’abisso di quella domanda. 85 Il nome è per la lingua solo un
fondamento nel quale si radicano gli elementi concreti. Invece gli
elementi astratti della lingua si radicano nella parola giudicante, nel
giudizio [Urteil]. E, mentre con il tribunale terrestre [Gericht] la
precaria soggettività del giudizio si àncora profondamente, con le
pene, nella realtà, in quello celeste l’apparenza del male viene
riconosciuta in pieno [ganz zu seinem Recht = ottenere piena
giustizia]. Qui la confessata soggettività riesce a trionfare sopra ogni
ingannevole oggettività del diritto e si colloca, in quanto opera « la
somma sapienza e ’l primo amore », in quanto inferno, dentro
l’onnipotenza divina. Essa non è apparenza ma neppure è pieno
essere: essa è il rispecchiamento reale della soggettività vuota nel
bene. Nel male tout court la soggettività attinge la sua realtà e la vede
come un mero rispecchiamento di se stessa in Dio.86
Si intende qui perché Benjamin veda nel peccato originale,
nella nascita della conoscenza come giudizio, l’origine mitica del
diritto. Questi, come conoscenza del bene e del male, nel «
tribunale terrestre » [Gericht] è « ingannevole oggettività ».87 Come
tale è sapere di un non essere, è separazione tra bene e male e
quindi separazione del vivente dalla sua fonte di vita. Come tale è
colpa, separazione e forse ciò risuona nel tedesco Ur-teil:
separazione originaria, bando. 88 Come tale il carattere prescrittivo
del diritto si configura come violenza mitica e distruttrice.
Ciò rimane ora da indagare: la relazione tra l’abisso della
ciarla, della colpa, della separazione, del giudizio e la coscienza,
intesa quest’ultima come nascita della soggettività89.

85
La frase recita: Den Gut und Bösen stehen unbenennbar, als Namenlose, außerhalb der
Namensprache, in welcher der paradiesische Mensch Die Dinge benannt hat und die er im
Abgrund jener Fragestellung verläßt.
86
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., pp. 250-52. In fondo all’abisso
dell’allegoria, nel regno della spiritualità assoluta separata da Dio, accade il miracolo, il
rovesciamento dialettico.
87
A proposito di questa ingannevole obiettività, v’è un passo di Hegel (dove??!!) che
definisce il mondo dell’etica greca e dei suoi valori oggettivi, extraindividuali, come «
un’oggettività presupposta, una mitologia ».
88
In tedesco separazione è Absonderung; tale termine vale anche per astrazione. Sul
significato teorico centrale della vicinanza di questi due concetti, cfr. più avanti, pp. 58-9.
89
Che alla luce della grazia divina si rivela però vuota.
49
2.3 Lingua giudicante come lingua dell’apparenza.

I morti si nutrono di giudizi, i viventi di amore.


Elias Canetti, La provincia dell'uomo, trad. it. di
Furio Jesi, Bompiani, Milano 1986.

In alcuni testi di Scholem dedicati alla Kabbalah90 si possono


trovare alcune considerazioni che possono servire da punto di
partenza.
L’Albero della Vita e l’Albero della Conoscenza erano collegati in
perfetta armonia fino a quando Adamo venne a separarli, dando così
sostanza al male […] Quindi fu Adamo che attivò il male potenziale
celato nell’Albero della Conoscenza, separando i due alberi e
separando inoltre l’Albero della Conoscenza dal suo frutto, ora
distaccato dalla sua fonte. […] L’essenza del peccato di Adamo fu che
introdusse la “separazione sopra e sotto”, in ciò che doveva essere
unito, una separazione della quale ogni peccato è fondamentalmente
una ripetizione […]. In effetti, questa concezione tende anch’essa a
sottolineare il potere del giudizio contenuto nell’Albero della
Conoscenza dal potere dell’amore e della pietà contenuto nell’Albero
della Vita. […] il primo è una forza restrittiva, con la tendenza a
diventare autonoma […].91
Conseguenza del peccato originale fu l’introduzione della
separazione del mondo dal proprio creatore, dal proprio principio
e fondamento. l’attivazione del male contenuto in potenza nel
frutto dell’Albero della Conoscenza.92 Un male potenziale che

90
Nella lettera del giugno 1917 a Scholem, Benjamin parla di F. von Baader, di Molitor –
vale a dire di scrittori di area tedesca cui si deve parte della ricezione della Kabbalah in
quell’area – di Shekhinà, di “idea della creazione avvenuta due volte”…e di forte interesse
per tali idee.
91
Gershom Scholem, La cabala, Edizioni Mediterranee, Roma 1982, p. 129.
92
Questo albero, nella tradizione cabalistica, diviene spesso emblema delle restrizioni, dei
divieti, delle limitazioni – che devono tenere a freno le potenze dell’impuro introdotte col
peccato originale – contenuti nella Torah data a Mosè. Risulta chiaro, infatti, come il puro,
la purezza, non possano sussistere che all’interno di un rapporto con i loro opposti:
l’impuro e l’impurità. Tutt’altra cosa è invece la purificazione, legata all’intervento
inceneritore – e messianico – della giustizia divina.
50
possiamo intendere come forma paradisiaca della contingenza.
Come sapere di nulla il male sta in potenza nel frutto dell’albero,
ma, in quanto in potenza, esso può anche non-non essere,
ovverosia accadere, passare all’atto, contingere. È quanto accade
col peccato originale. Solamente che questo accadere rimane pur
sempre l’accadere di un nulla. Siffatto accadere di un nulla è la
condizione di colpa, espressa dal racconto della Genesi con il
sopravvenuto nuovo stato dell’uomo e l’avvenuta degradazione
ontologica: la sua condizione di mortale, la contingenza del suo
essere, la fuoriuscita dalla pura lingua evocativa del nome.93
In questo senso va intesa la seguente affermazione di
Benjamin:
L’albero della conoscenza non era nel giardino di Dio per le
informazioni che avrebbe potuto dare sul bene e sul male, ma come
emblema del giudizio sull’interrogante. Questa grandiosa ironia è il
contrassegno dell’origine mitica del diritto.94
Giudizio torna qui a essere Gericht, nel senso della
locuzione tedesca Gottes Gerichte: castighi di Dio. Castigo che
consiste nell’impedire all’umanità caduta l’accesso all’altro albero,
quello della vita.
Genesi 3:22 Poi Dio il signore disse: « Ecco, l’uomo è diventato
come uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male.
Guardiamo che egli non stenda la mano e prenda anche del frutto
dell'albero della vita, ne mangi e viva per sempre ».

Genesi 3:23 Perciò Dio il signore mandò via l’uomo dal giardino
d'Eden, perché lavorasse la terra da cui era stato tratto.

93
Occorrerebbe verificare se tale contingenza, se tale “nulla che accade” abbia a che fare
con il poter avere e con il poter non avere una lingua; se, cioè, il peccato originale sia
l’origine mitica dell’infanzia dell’uomo (del resto, la coppia adamitica venne creata già
adulta e parlante). Cfr. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, p. 135, sulla
testimonianza come relazione tra una possibilità di dire e il suo aver luogo, che può darsi
solamente attraverso la relazione a un’impossibilità di dire, cioè come contingenza, come
poter non essere. È chiaro, infatti, che la lingua pura paradisiaca non dice nulla, e solo
qualcosa come il giudizio inaugura la scissione tra lingua e discorso in cui può insinuarsi
una possibilità di dire e, cioè, una conoscenza, una storia. Solo questa scissione crea lo
spazio ove può insinuarsi il significato. In questo topos sta la pratica artistica e, più in
generale, la cultura, come tentativo di appropriazione dell’inappropriabile, come tentativo
di “dare voce”, (evocare, Anruf) a ciò che non la possiede più.
94
W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., p. 67.
51
Genesi 3:24 Così egli scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino
d’Eden i cherubini, che vibravano da ogni parte una spada
fiammeggiante, per custodire la via dell’albero della vita.
La connessione che si mostra è quindi quella tra diritto,
giudizio sull’interrogante, separazione e giudizio come potenza
restrittiva che tende a divenire autonoma forma di conoscenza.
Quest’ultima è concezione che si lega, nella Kabbalah, alla
teoria delle Sefiròth che, semplificando, costituiscono le dieci sfere
della potenza divina. Di queste la quinta Sefirà, Gevurà o Din, è
potenza divina che si manifesta soprattutto come potenza
giudicante e punitiva. 95 Tale Sefirà, fintanto che rimane nel mondo
dell’unità divina, forma un tutto armonico con le altre Sefiròth –
saggezza, intelligenza, amore, misericordia – riposando
beatamente in se stessa. Le altre Sefiròth ne temperano il carattere
terribile e potente. Siffatta dinamica unità – che trova nel legame
tra l’albero della vita e quello della conoscenza nel giardino
dell’Eden il suo emblema – si rompe in conseguenza del peccato
originale, scatenando la Sefirà del giudizio, con la sua forza
restrittiva, dall’influsso delle altre.
Questa parola giudicante scaccia i primi uomini dal paradiso; essi
stessi l’hanno provocata, secondo un’eterna legge per cui questa
parola giudicante punisce – e attende – la [ o “alla”: cfr. nota]
provocazione di sé come la sola e più profonda colpa.96

95
Riporto qui le Sefiròth, trascrivendole da G. Scholem, Le grandi correnti della mistica
ebraica, Einaudi, Torino 1993; 1. Kèther ‘Elyòn, la “suprema corona” della divinità; 2.
Chokhmà, la “saggezza” o idea primordiale di Dio; 3. Binà, “l’intelligenza” dispiegantesi di
Dio; 4. Chèsed, “l’amore” o “grazia” di Dio; 5. Gevurà o Din, la “potenza” di Dio, che si
manifesta soprattutto come potenza giudicante e punitiva; 6. Rachamìm, la “misericordia”
di Dio, mediatrice tra gli opposti delle due Sefiròth […]; 7. Nètzach, la “stabile durata” di
Dio; 8. Hod, la “maestà” di Dio; 9. Yesòd, il “fondamento” di tutte le forze attive e
generanti di Dio; 10. Malkhùth, il “regno” di Dio, indicato per lo più nello Zòhar come
Kenèseth Yisraèl, il mistico archetipo della comunità d’Israele, o come Shekhinà.
96
W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., p. 66. Questo “e
attende” (und erwartet) è ambiguo: se verbo transitivo – nel senso, cioè, di “aspettare” –
sembra inserire un elemento di necessità nell’accadere della provocazione, della colpa
(necessità presente anche nella dottrina delle Sefiròth, segno dell’influsso della gnosi con le
sue teorie emanazioniste. L’emanazione – dunque la caduta verso gli strati inferiori
dell’essere – avviene necessariamente; la caduta sembra essere invece causata dalla volontà
della coppia adamitica); se invece usato come intransitivo, nel senso di “badare a qualche
cosa, attendere a un compito”, allora il senso cambia, diventando: la parola giudicante che
52
Se da un lato tale forza diviene quel tribunale [Gericht] al cui
cospetto la coppia adamitica viene condannata e castigata,
dall’altro diviene nuova capacità conoscitiva, giudizio [Urteil]
umano, in virtù del pasto costituito dal frutto dell’albero della
conoscenza del bene e del male. Essa dovrà supplire alla oramai
perduta lingua nominale.
Il secondo effetto è che dal peccato originale – come ripristino
dell’immediatezza, in esso violata, del nome – sorge una nuova magia,
quella del giudizio, che non riposa più beata in se stessa.97
Tale umano giudizio, sprovvisto dell’attualità creatrice della
parola divina e del fondamento in essa di cui godeva il nome,
ripristina sì l’immediatezza – questo il motivo per cui rimane
anch’esso “magia” – ma nella comunicazione dell’astrazione, non
del concreto. Una parodia del giudizio divino, dunque. 98
Questa nuova magia, il giudizio, tentando di unire ciò che
oramai è separato (la physis e il significato, le cose e la loro
espressione, l’Anschauung e la nominazione); si potrebbe dire:
l’essere e la lingua) crea così un mondo fittizio di legami apparenti
ove la lingua diviene semplice segno e la conoscenza si trasforma
in mera accumulazione di tali segni: in sapere.99 Effetto di tale
magia è l’immediata apparizione della coscienza [Bewußtsein] –
dunque di un soggetto della conoscenza – come topos in cui
questa unione, questa conoscenza, trova apparente garanzia e
fondamento.
La conoscenza è un avere. Il suo stesso oggetto si determina in
quanto va posseduto – sia pure trascendentalmente – nella coscienza.
Esso conserva il carattere di proprietà.100

attende (che sorveglia, che vigila, che bada) al proprio risveglio come la sola e più profonda
colpa.
97
Ibid., pp. 66-7.
98
Tale autonoma forma di conoscenza, come avremo modo di vedere, in seguito, nel lavoro
sul TP, diverrà il sapere assoluto del melanconico, sedotto a esso da Satana. Diverrà
l’oggetto, la condizione e la forma stessa della melanconia.
99
Di qui lo stato di iperdenominazione cui soggiacciono le cose nella lingua degli uomini;
iperdenominazione che è fondamento della tristezza e di ogni ammutolire delle cose.
100
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 6.
53
Questo dice Benjamin nell’introduzione al TRAUERSPIEL; e,
qualche riga più sotto, aggiunge che la forma con cui si da questo
possesso, inerisce a un “nesso nella coscienza” e non –
contrariamente a quanto accade per la verità – a un essere. In
quanto tale, in quanto l’oggetto della conoscenza non esiste
dapprima come un qualcosa che si espone [Sich-Darstellendes] da
sé, ma come un possesso nella coscienza, per esso l’esposizione
[Darstellung] è secondaria.
In altre parole, il problema è quello della rinuncia – da parte
del pensiero che, come Eros, insegue la verità – alla riflessione e
all’elaborazione di una propria lingua che la corrisponda e la
accolga nel suo rivelarsi. Un’esposizione [Darstellung], uno stile
filosofico, in cui la verità possa mortificarsi, spegnersi. Punto fermo
rimane ciò che più sopra indicammo come “carattere trascendente
della verità” cui solo una Umweg, un détournement, un excursus
possono corrispondere. 101
Al racconto della Genesi il sorgere della coscienza, della
soggettività, non sfugge: suo emblema è la sopraggiunta coscienza
della condizione di nudità da parte della coppia adamitica dopo il
pasto proibito:
Genesi 3:7 Allora si aprirono gli occhi ad entrambi e s’accorsero
che erano nudi; unirono delle foglie di fico e se ne fecero delle
cinture.

101
Sull’Umweg cfr. più sopra, p. 14; sul détournement come pratica situazionista di
“disgaggio” del pensiero il discorso sarebbe lungo e complesso; basti qui accennare a come
tale prassi possa legittimamente trovare un’antecedente nella teoria benjaminiana della
citazione, ricordando l’aforisma racchiuso in Strada a senso unico: «Le citazioni, nel mio
lavoro, sono come briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati e strappano
l'assenso all'ozioso viandante. »; sull’excursus vorrei invece riportare un brano di Roland
Barthes, letto alla lezione inaugurale della sua attività al Collége de France, a proposito del
metodo che avrebbe voluto adottare per le sue lezioni: « […] ciò che può essere oppressivo
in un insegnamento non è alla fin fine il sapere o la cultura che esso convoglia, ma le forme
discorsive attraverso cui vengono proposti. Dal momento che […] questo insegnamento ha
per oggetto il discorso colto nella fatalità del suo potere, il metodo non può realisticamente
vertere che sui mezzi atti a vanificare, a sminuire, o per lo meno ad attenuare questo
potere. E io mi persuado sempre di più, sia scrivendo, sia insegnando, che l’operazione
fondamentale di questo metodo di sminuimento è, se si scrive, la frammentazione, e, se si
espone, la digressione, ovvero, per dirla con una parola preziosamente ambigua: l’excursus.
»
54
La vergogna che assale i primi due abitanti diviene cifra della
natura non più specchio della gloria divina, ma sostrato della
colpa. 102
La bontà ontologica della creazione, simboleggiata dalla
nudità, è svanita. Questa perdita diviene lo scotto pagato alla
caduta. La copertura di questa nudità con le foglie dell'albero
della conoscenza, con la « magia della parola giudicante »,
diviene l'infinita elaborazione del lutto, da parte della conoscenza
oramai decaduta, costretta a pagare un infinito pegno per tale
scomparsa. 103 Perciò Benjamin potrà affermare, nel TRAUERSPIEL,
che
Adamo, primogenito di una pura creazione, ha la tristezza
[Traurigkeit] creaturale.104
Nello Zohar possiamo trovare una descrizione di tale sapere
magico. Esso viene dalla caduta dell’uomo che diviene vittima
della morte, dal suo legame con la materia da cui proviene. Le
foglie dell’albero della conoscenza, visto come albero della morte,
con cui viene coperta la nudità, divengono simbolo centrale di
questo sapere magico:
Infatti solo nella nudità di Adamo, che si determinava quando lo
splendore della luce divina era allontanato da lui, irrompe la magia,
concepita come un sapere che può coprire questa nudità. Solo con la
corporeità terrestre, che è una conseguenza del peccato originale,
sorgeva anche la magia, che veniva così ad assumere un carattere
demoniaco. La magia è legata all’esistenza del corpo.105
La natura, simboleggiata dalla nudità, dopo la caduta non
esprime più nulla, non si comunica più nel nome dell’uomo. È ciò
che Benjamin, al termine del saggio sulla lingua, chiama mutismo
della natura: mutismo a cui si allude parlando della profonda

102
In questo processo di soggettivazione si situa, probabilmente, la separazione tra anima e
corpo, tra soggetto e nuda vita biologica.
103
Questa infinita elaborazione del lutto, del Trauer – causato dalla originaria s-
coincidenza tra significante e significato, dalla originaria “perdita-sottrazione” del mondo –
è ciò che spinge l’allegorico nell’abisso della sua ricerca del significato, sedotto e tentato
dalle tre promesse sataniche.
104
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 147.
105
Gershom Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1980, pp. 222-23.
55
tristezza [Traurigkeit] della natura. Essa è triste [traurig] perché
soggiace all’iperdenominazione della nuova magia della parola
giudicante, della chiacchiera;
In ogni afflizione, in ogni lutto [Trauer] v’è una profonda
inclinazione al mutismo [Sprachlosigkeit], che è molto di più che
inabilità o riluttanza alla con-divisione [Mitteilung]. 106
Ritroviamo qui ciò che più sopra avevamo indicato come
tratto caratterizzante l’ambito demonico-mitico: la separazione.
Separazione nei cui confronti la nuova parola giudicante – con
l’iperdenominazione e l’accumulazione dei segni nel sapere –
reitera il tentativo, perennemente destinato allo scacco, di
colmarla. Non è un caso che, tra le considerazioni sugli effetti
della caduta e quelle sulla tristezza della natura, Benjamin accenni
alla costruzione della torre di Babele come tentativo di risolvere la
distanza terra-cielo:
Poiché gli uomini avevano offeso la purezza del nome, bastava
solamente che si compisse il distacco da quella contemplazione delle
cose ove la loro lingua entra in quella dell’uomo, perché fosse tolto
agli uomini il comune fondamento del già scosso spirito linguistico. I
segni devono confondersi dove le cose si complicano. […] In questo
distacco dalle cose, che era l’asservimento, sorse il piano della torre di
Babele e con esso la confusione delle lingue.107
Da tale scacco, da tale colpa originaria, trae la sua
trascendenza la verità, la sua inappropriabilità; in tale non-
coincidenza tra conoscenza e verità trova il suo topos la
soggettività, il sé come consapevolezza [Bewußtsein] del proprio
carattere apparente e del proprio essere vuoto. Al contrario una
soggettività che non riconosca ciò e si intenda come identità con
se stessa, come ipostasi dotata di una sostanzialità, non potrà che
irrigidirsi e sottostare, priva di vita, all’ingannevole oggettività del
diritto. Quest’ultimo non è altri, infatti, che l’imago mortis della
verità assegnata a un punto fisso ed eterno, divenuto legge.

106
W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., p. 69.
107
Ibid., p. 67. Anche qui Benjamin usa il verbo eingehen per indicare il “passaggio” dalla
lingua delle cose a quella degli uomini. Cfr., per questo verbo, le considerazioni fatte a p.
29 e ivi n. 66.
56
Si capisce allora cosa intenda Benjamin parlando – nel
saggio sulla lingua – di origine mitica del diritto e indicandolo –
nel saggio sulla violenza – come potenza mitico demonica, come
potenza mortifera che, nel suo carattere prescrittivo, nel suo
giudicare sul ciò che è bene e ciò che è male, irrigidisce e
pietrifica il vivente in apparenza di vita.108
In ciò si può pensare una consonanza con il messianismo
delle lettere di Paolo, specialmente in quella ai Romani:
Romani 3:20 perché mediante le opere della legge nessuno sarà
giustificato davanti a lui; infatti la legge dà soltanto la conoscenza del
peccato.

Romani 5:13 Poiché, fino alla legge, il peccato era nel mondo, ma
il peccato non è imputato quando non c’è legge.

Romani 5:20 La legge poi è intervenuta a moltiplicare la


trasgressione; ma dove il peccato è abbondato, la grazia è
sovrabbondata.

Romani 6:14 infatti il peccato non avrà più potere su di voi;


perché non siete sotto la legge ma sotto la grazia.

Romani 7:7 Che cosa diremo dunque? La legge è peccato? No di


certo! Anzi, io non avrei conosciuto il peccato se non per mezzo della
legge; poiché non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non
avesse detto: « Non concupire ».

Romani 7:8 Ma il peccato, còlta l’occasione, per mezzo del


comandamento, produsse in me ogni concupiscenza; perché senza la
legge il peccato è morto.

Corinzi 15:56 Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del


peccato è la legge.
Compito della venuta del Messia è proprio il compimento
della legge.109 Perciò qualcosa come un ethos potrà darsi solo se si

108
Nel saggio sulla violenza l’ambito della lingua viene indicato come sfera immune da
violenza. Lingua come possibile antidoto, dunque, all’irrigidimento mortale del diritto.
109
Cfr. per questo rapporto Paolo-Benjamin, Giorgio Agamben, Il tempo che resta. Un
commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000 e gli appunti delle sue
lezioni.
57
riuscirà a disgiungere, una buona volta, l'etica dall'etica della
legge. Questa è l'idea centrale dello scritto benjaminiano Destino
e carattere, ma anche ciò che da risalto all’intera sua opera:
riscattare la prassi del pensiero dal suo irrigidimento, non significa
altro che riscoprire il valore etico-politico – e, diremmo anche,
anarchico – del pensiero. Per questo si può appropriatamente
parlare di un nichilismo messianico benjaminiano.110
In questo perenne scacco, in questo dover trovare dimora
nella caducità umana, possiamo trovare il ponte che riporta al
Trauerspiel come forma che, nella sua intenzione, mette in opera
tale mortificazione; al Trauerspiel come allegoria della condizione
umana perché:
Nello spirito dell’allegoria, esso è concepito fin dall’inizio come
rovina, come frammento. Se altre risplendono stupende come il primo
giorno, questa forma tiene ferma nell’ultimo giorno l’immagine del
bello. 111

110
L’immagine dialettica non è che un operatore, una mechané di questo nichilismo.
111
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 253.
58
3

3.1 La storia come apparenza nel Trauerspiel barocco.

Hai notato queste buche nella sabbia - diceva un


saggio a un compagno di strada. - Sono le tracce
più antiche che si conoscano delle parole. Ed è il
vento che le ha scavate.
Edmond Jabès, Il libro della condivisione,
Raffaello Cortina Editore, Milano 1992.

Con la lettura benjaminiana della Genesi, abbiamo visto di


come egli individui le origini dello status linguistico dell’uomo, del
suo carattere di soggettività e della conformazione che il mondo
assume per esso, nella frattura originaria tra storia e verità e nel
carattere trascendente di quest’ultima. Una cosa occorre
aggiungere a quanto più sopra indicammo come separazione tra le
cose e la loro espressione, frutto dell’esclusione dalla lingua
nominale paradisiaca: in tale frattura si situa la separazione tra
natura e cultura, il carattere essenzialmente allegorico-astraente
della lingua come giudizio o, in altre parole, con tale scissione si
inaugura la storia, il tempo mondano dell’umanità , come anche,
però, la possibilità della sua salvezza. In questo iato riluce ciò che,
più sopra, indicammo come ambiguità essenziale dell’apparenza,
dell’immagine. Il suo carattere mitico-demonico, la sua luce
ingannevole, da un lato; la sua forza messianica, il suo potere
dirompente e dissipatore, dall’altro.
Non a caso queste considerazioni ci hanno portato al
cospetto del Trauerspiel: proprio la riflessione sull’apparenza
artistica conduce Benjamin a individuare il valore salvifico, il
valore di verità inerente all’immagine e alla bellezza.
Perciò un genere teatrale come il Trauerspiel e un’epoca
come il barocco attrassero l’interesse della riflessione
benjaminiana. Il primo altro non è che il tentativo d’elaborazione
formale di un dramma interamente mondano in cui
59
la vita storica quale se la rappresentava la sua epoca è il suo
contenuto intrinseco, il suo vero oggetto. 112
Il primo altro non è che una forma teatrale lontana oramai dalla
tragedia intesa come conflitto dell’eroe col mito e col destino; la
seconda costituisce l’orizzonte di senso entro cui tale forma d’arte
poté corrispondere al Kunstwollen barocco.
Tratto caratterizzante di quest’epoca fu proprio la profonda
consapevolezza del carattere di caducità del mondo e
dell’esistenza. Negli ambienti riformati luterani, ove la dottrina
della giustificazione per fede – con la sua idea del mondo come
stato di colpa immodificabile da qualsiasi atto umano – svalutava
il valore delle opere e, quindi, indirettamente, dell’intera vita
mondana, in questi ambienti, appunto, ove crebbero e vissero i
grandi scrittori barocchi tedeschi, la parola Trauerspiel veniva
utilizzata ugualmente per il teatro e per gli accadimenti storici.
L’idea della catastrofe dominava:
L’uomo religioso del barocco si aggrappa tanto al mondo perché si
sente, solidale con esso, sospinto contro una cataratta. Non esiste
un’escatologia barocca; e proprio per questo c’è un meccanismo che
raccoglie ed esalta tutto ciò che è nato sulla terra, prima di
consegnarlo alla fine. […] Le forme anche più esaltate del
bizantinismo barocco non dissimulano neppure la tensione tra mondo
e trascendenza. […] Nel dramma barocco, il monarca come i martiri
non sfuggono all’immanenza.113
Il tempo che dominava era un tempo interamente
secolarizzato. Ciò significa che l’arco temporale veniva sentito
come mai compiuto, ma, non per questo, come infinito. In quanto
tale esso era, dunque, assolutamente lontano da ogni idea
illuministico-ottocentesca di progresso, anzi: esso appariva
all’uomo barocco come inesorabilmente finito, come appiattito
sull’immanenza, come infinitamente distante, in ogni suo punto,
dalla salvezza.114

112
Ibid., p. 44.
113
Ibid., pp. 49-50.
114
Anche questa questione del tempo si illuminerà con il rovesciamento messianico
dell’allegoria, scoprendo come questo suo appiattimento sull’immanenza sia apparenza,
condizione soggettiva che, una volta redenta, si mostra come figura della resurrezione,
60
Dove il medioevo pone in evidenza la caducità degli eventi
mondani e la fragilità della creatura come stazioni della via della
salvezza, il Trauerspiel tedesco si sprofonda completamente nella
desolazione della condizione terrestre. Esso conosce una redenzione
che giace più nella profondità di questa stessa fatalità che nella messa
in atto di un divino progetto salvifico.115
Questa svalutazione delle opere portò al delinearsi di un
mondo vuoto. Se ciò, dice Benjamin, trascinò la gente di poco
conto ad aggrapparsi alla morale della fedeltà alle piccole cose,
gettò le nature spiritualmente più ricche nello sconforto e nel
tedium vitae:
Poiché coloro che scavavano più a fondo si vedevano gettati
nell’esistenza come in un campo di macerie, al centro di azioni a
metà, inautentiche.116
Il sentimento, la tonalità emotiva dominante è il lutto,
l’afflizione [Trauer], la cui particolare capacità consiste in un
continuo incremento dell’approfondimento della sua intenzione:
La profondità [Tiefsinn] è soprattutto di chi è triste.117
Tale condizione patologica – vicina, nella sua mortificazione
[Ertötung] degli affetti, all’apátheia stoica – trasforma ogni cosa,
che sia estranea o la meno appariscente, in cifra di un’enigmatica

della verità. Su ciò cfr. ciò che dice Benjamin a proposito della concezione messianica del
tempo in Schlegel ne Il concetto di critica del romanticismo tedesco, alle pp. 85-87. Ciò che
è in questione è lo stillstand, l’attimo del compimento, dell’Erfullüng. Proprio l’infinita
distanza dalla salvezza, proprio la tensione che si crea tra tempo profano e tempo
messianico è quella che Benjamin indica nel frammento teologico-politico con l’idea delle
forze vettoriali. In questa tensione trova spazio una redenzione che giace più nella
profondità di questa stessa fatalità che nella messa in atto di un divino progetto salvifico.
115
Ibid., p. 67.
116
Ibid., p. 138.
117
Ibid., p. 139. C’è, in questa concisa affermazione, una ricchezza di significati, legata alla
parola Tiefsinn, fondamentale per la comprensione delle connessioni tracciate da Benjamin
tra il Trauerspiel, il melanconico, l’allegoria, che risultano illuminarsi a vicenda in un gioco
di rimandi. (A questo carattere d’intreccio si deve la nota affermazione di G. Lukács sullo
scritto benjaminiano qui in questione: esso ha per oggetto, per metodo e per contenuto
l’allegoria). Tiefsinn (letteralmente senso profondo, con tutta l’ampiezza semantico-
metaforica che “senso” e “profondo” possiedono anche nella nostra lingua) vale sia per
profondità di pensiero, sia per meditazione, sia per significato nascosto (il tema barocco
della cifra, del segreto, dell’enigma), sia per pensosità, sia, infine, per melanconia.
61
sapienza.118 In tal modo il contesto, che si apre al dotto e al
rimuginatore melanconico, all’allegorico, diviene
incomparabilmente fecondo per la meditazione. Tanto è vero che
per il sapiente la natura e la storia – ridotta a natura inanimata –
divengono il libro cifrato in cui inabissarsi per attingere un sapere
segreto. L’intero creato diviene scrittura:
Il Rinascimento esplora il mondo [Weltraum], il Barocco le
biblioteche. La sua meditazione [Sinnen] si risolve nella forma del
libro. 119
In questo fenomeno, dove il vedere trapassa in leggere e il
leggere in vedere, c’è un avvicinarsi dei due poli della scrittura e
dell’immagine, ove può cogliersi un rimando alla figuratività
comune alla parola e al segno o, meglio, al loro carattere
significante. Ridotto il mondo a puro segno, ad apparenza
misteriosa, a significante che, visto come emblema di
qualcos’altro, si presta a essere letto, interpretato – e a sua volta
riallegorizzato in un processo di accumulazione continua – il
sapiente e rimuginatore consuma e percorre sino al fondo la
separazione da ogni forma di trascendenza e di salvezza. Un
fondo, però, dislocato in continuazione; un fondo che s’allontana
– apparentemente, come si scoprirà poi – infinitamente.120
Attraversa, cioè, l’intero tragitto della sua melanconia, nel quale

118
Nella traduzione da noi utilizzata Filippini traduce (a p. 140) il termine benjaminiano
unscheinbarste con “intima” anziché con “poco appariscente”. Sfugge la motivazione di
tale scelta, in quanto il lemma tedesco sta a indicare una condizione di poca o nulla
apparenza e, in senso traslato, di modestia, di prosaicità, di umiltà. Se a ciò aggiungiamo
l’appena affermata estraneità tra rimuginatore e cose, l’unica spiegazione plausibile diviene
quella di un refuso tipografico, con il quale “infima” è divenuto “intima”. Oltretutto,
tenendo per buona la traduzione di Filippini, non si capirebbe affatto la connessione che,
meno di mezza pagina prima, Benjamin traccia tra il lutto e la pompa, l’ostentazione delle
Haupt- und Staatsaktionen (una forma tarda del Trauerspiel): anche la cosa più infima fa
sfoggio di sé, in quanto portatrice di quella enigmatica saggezza, che l’intenzione luttuosa
riconosce nella sua estraneità da essa.
119
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 140. Segnaliamo anche qui
l’utilizzo del verbo eingehen, reso stavolta con “risolvere”. Cfr. p. 29 e ivi n. 66.
120
Cfr., in seguito, le tre apparenze che si sciolgono con il rovesciamento dialettico
dell’allegoria; una di queste è l’apparenza (satanica) dell’infinito nel vuoto abisso del male.
62
ritrova un mondo in cui cresce verso il cielo il cumulo delle
macerie davanti a lui. 121
Eppure: anche lo sprofondamento [Versenkung] portava troppo
facilmente nel senza fondo [ins Bodenlose]. È quel che insegna la
teoria della disposizione melanconica. 122
Ciò spiega perché, nella Melencolia di Albrecht Dürer, gli
arnesi della vita attiva – la sega, la pialla, la riga, i chiodi… -
giacciano inerti al suolo: stanno lì come oggetti del rimuginare,
come soglie che, nella loro materialità esanime e in-significante,
spalancano l’abisso della profondità melanconica, della
meditazione profonda, dello scarto in cui rovina la vuota
soggettività.123 Questo è lo scarto in cui cultura e storia
dell’umanità decaduta si situano.
Paradigma del melanconico ed emblema dei difetti della
creazione diviene il re, il principe, il sovrano. La storia non sfugge
al panorama di secolarizzazione e di appiattimento
sull’immanenza tipico dell’età barocca. Alla reggenza divina
dell’accadere storico, che dominò il pensiero politico-giuridico
dell’età medioevale, si sostituisce quella del sovrano. Abbiamo già
accennato a come la parola Trauerspiel venisse utilizzata e per il
teatro e per gli eventi storici. L’idea di un progressivo
scivolamento verso la catastrofe, portò a considerare la storia
come uno sconsolato dipanarsi della cronaca del mondo
nell’ambito di un tempo mortale, come luogo di intrecci satanici
dominanti i destini degli umani, cui solamente la figura assoluta e
dominante del sovrano-tiranno può e deve cercare di tenere
121
Qui andrebbe probabilmente radicata una lettura che volesse cogliere il volto
dell’Angelus novus, l’angelo della storia della celebre Tesi IX.
122
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., pp. 141-42. Per sprofondamento
[Versenkung] s’intende, qui, lo sprofondare in sé della meditazione; quella che poi
Benjamin chiamerà ponderación mysteriosa, nella quale occorre, però, tenere presente tutto
lo spettro semantico-metaforico ricordato nelle note 117 e 123 su Tiefsinn e su grübeln.
123
Anche qui, come sottolineato nella nota 117 sul senso di Tiefsinn, occorrerebbe leggere
il testo tedesco per coglierne tutta l’ampiezza dei significati. Un solo esempio: nel termine
grübeln, rimuginare, il lettore tedesco coglie il rimando alla profondità significato da die
Grube, la fossa, come pure quello allo scavare (graben) che determina tale profondità e
anche, soprattutto, quello a das Grab: la tomba, la fossa, il sepolcro. Dunque l’intero
ambito semantico-metaforico, qui evocato da Benjamin, corrisponde perfettamente alla sua
caratterizzazione dell’intenzione luttuosa che domina l’uomo barocco.
63
testa. 124 Ecco, allora, che la storia viene ad assumere i tratti di una
rappresentazione luttuosa [Trauerspiel] e, in quanto costituita di
intrecci, di intrighi, di giochi [Spiel] diviene esclusivamente storia
politica, dove per politica è appunto da intendersi l’intrigo, il mero
gioco per il potere fine a se stesso. Di qui all’eleggere la corte
come luogo per eccellenza, come palcoscenico [Schauplatz] il
passo è brevissimo.
Il sovrano rappresenta la storia. Egli impugna l’accadere storico
come uno scettro.125
Nella corte storia, Trauerspiel e politica trovano la loro scena
d’elezione.
Al re e al suo potere sovrano spetta il compito di gestire il
gioco (Spiel) – luttuoso (trauer) in quanto necessariamente
destinato al fallimento – all’interno di una storia completamente
mondanizzata. Suo dovere-potere è quello di evitare lo stato
d’eccezione in cui la storia permanentemente si trova; strumento
di tale dovere-potere è la decisione (Entschluß – Entscheidung).
Con tale atto de-cisivivo, ri-solutivo, non sorretto da alcuna ratio o
diritto preesistente, la sovranità, sciogliendo lo stato d’eccezione e
contemporaneamente inaugurando un nuovo ordine, giunge alla
sua autofondazione come violenza creatrice di diritto.126 In questo
sovrapporsi della figura del sovrano a quella del tiranno, a quella
di colui che decide dello stato di eccezione, il Trauerspiel
riconosce la rivelazione della storia e insieme l’istanza che
impone un limite alle sue alterne vicende […]. 127
Da questa acquisizione sulla natura della sovranità,
Benjamin trae due importanti e fondamentali conseguenze: la

124
Qui Benjamin parla di « Un elemento derivante dal paganesimo germanico e dall’oscura
credenza nel prevalere del destino » che si lega alla svalutazione luterana delle opere.
125
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 47.
126
È da questo autofondarsi nel nulla che trae origine l’assoluto arbitrio del sovrano
barocco. Una delle conseguenze, sulla quale non ci soffermeremo, è l’impossibilità della
coesistenza di più poteri sovrani e, quindi, ad esempio secondo Hobbes, il perenne stato di
conflitto tra poteri sovrani. Un frammento di un Trauerspiel di Gryphius, citato da Benjamin
a p. 50, recita: « Chi metta qualcuno su un trono | Al fianco suo, è degno che gli si tolga |
Porpora e corona. Un solo principe e un solo sole | Vi sono per il mondo e per i regni. ».
127
Ibid., p. 55.
64
natura cosmologica dell’argomentazione con cui il Trauerspiel
glorifica il sovrano e il carattere di spazializzazione dei fenomeni
temporali, vale a dire la riduzione della storia a storia naturale.
La decisione, seppur sovrana, non riesce a sottrarsi a quel
meccanismo che raccoglie ed esalta tutto ciò che sta sulla terra,
prima di consegnarlo alla morte; obbedisce, cioè, a quella
dialettica dell’epoca che, all’ideale di piena stabilizzazione e
restaurazione, contrappone l’idea della storia come rovina, come
catastrofe. Il sovrano, separando e costituendo, con la sua
decisione, l’ambito del politico come spazio dell’ordine, del
diritto, trionfa del caos e delle forze mitico-sataniche. In quanto
tale a esso spetta la magnificenza e l’ostentazione della sua
pompa, che, come emblemi del suo trionfo, lo pongono in
rapporto diretto con esseri divini e come divino viene glorificato.
Tale gloria, dice Benjamin, rimane, però, pagana:
Nel dramma barocco, il monarca come i martiri non sfuggono
all’immanenza. – All’iperbole teologica si sostituisce un’appassionata
argomentazione cosmologica. Ripetuta innumerevoli volte, la
comparazione del principe con il sole attraversa tutta la letteratura
dell’epoca.128
In altre parole, lo spazio inaugurato dalla decisione sovrana
si rivela in tutta la sua apparenza e caducità, e, ancora una volta,
la salvezza, che pareva a portata di scettro, si mostra come non
dissimile dall’anticamera della disperazione, dello sprofondamento
luttuoso, del fallimento, e, spesso, come estrema conseguenza,
della follia del sovrano. In tale catastrofe la figura del sovrano-
tiranno s’intreccia con quella del martire e il dramma del destino
fa suoi elementi del dramma martirologico. 129 Siffatta situazione,
però, per essere ancor meglio compresa, richiede l’analisi del
fenomeno della secolarizzazione del tempo in caratteri spaziali.
La trasposizione di dati originariamente temporali in una
improprietà e simultaneità spaziale – che connota il linguaggio
formale del Trauerspiel – scaturisce esattamente dall’assenza di

128
Ibid., p. 50.
129
Archetipo del dramma martirologico è la Passione di Cristo. I suoi antecedenti storici
sono i Misteri e le Sacre rappresentazioni medioevali.
65
ogni prospettiva escatologica, determinata dalla situazione
teologica dell’epoca. Tale assenza, continua Benjamin,
caratterizzava i drammi dell’intera Europa, ma
[…] la fuga sconsiderata dentro una natura disgraziata è
specificamente tedesca.130
Il punto è proprio questo: il dramma mondano s’arresta ai
limiti della trascendenza e il sovrano, fin lì glorificato nella sua
ostensione di magnificenza, si scopre decaduto allo stadio della
misera e umana creatura che è, signore, come s’è già detto, di uno
stato creaturale privo di grazia. Per quanto alti siano il suo rango e
il suo trono rispetto al suddito e allo stato, per quanto egli
signoreggi sulle creature, sempre creatura rimane.
Segno significativo di tale ambigua situazione è
l’apparentamento con l’animale: « animale celeste », « animale
divino », « animale indiscreto e permaloso », diviene l’uomo; ma
anche la vera e propria rappresentazione di monarchi in forme
ferine: « Nabucodonosor in catene, con piume d’aquila e munito
d’artigli, in mezzo a molti animali feroci […] ». Questa dialettica,
tra creatura sublime e animale, si costituisce come fecondo
meccanismo drammaturgico, in quanto permette, e giustifica,
l’insorgere repentino della follia e della forza brutale nel sovrano,
al momento della sua imminente caduta. Forza brutale e follia,
necessarie per trascinare con sé, nella rovina, l’intero mondo a lui
sottoposto.
Il mondo di tali drammi, pertanto, appare come un mondo
interamente secolarizzato, conchiuso, solidale – nel bene e nel
male – con la figura del sovrano, che – agli occhi degli studiosi del
diritto non meno che a quelli dei drammaturghi – appare come
quella di un novello Adamo: signore dell’intera creazione, sì, ma,
inevitabilmente, colpevole anche della sua caduta. Il nome del
sovrano, a cui si lega l’onore della sua regalità, mostra, nel
contesto della vita creaturale, tutto il suo carattere di apparenza, il
suo divenire

130
Ibid., p. 67.
66
[…] solamente scudo destinato a coprire la vulnerabile physis
dell’uomo.131
Come nel paradiso terrestre, dopo la caduta, anche qui il
nome decaduto mostra il suo nulla. A questo sconsolato dipanarsi
della cronaca del mondo, il monarca barocco oppone la forza
della decisione sovrana, con la quale tenta una restaurazione della
sospensione paradisiaca del tempo. Nello spazio politico che si
crea, i drammaturghi barocchi installano la figura imponente del
sovrano con la sua onoratissima e saldissima virtù che, però, nulla
può contro il naturale divenire della storia:
secondo il senso della drammaturgia martirologica, ragione della
catastrofe non è la trasgressione etica, bensí la situazione stessa
dell’uomo creatura.132
In ciò sta l’origine dell’uso di una metaforica tale, che,
stabilendo l’analogia tra la storicità e il divenire naturale, smussa
ogni possibile riflessione etica. Il conferire evidenza ai principi
morali con esempi tratti dalla natura, in realtà, sortisce l’effetto
opposto: li distrugge. I complotti etico-storici vengono resi con
dimostrazioni di storia naturale; i caratteri e le disposizioni
vengono restituiti tramite le inclinazioni naturali delle piante; le
posizioni sociali divengono le posizioni di stelle, pianeti ed esseri
divini nel cosmo e così via, in un’apoteosi e in un accumulo
metaforico, che porta a riconnetterci a quanto sopra dicevamo
riguardo l’argomentazione cosmologica. Come lì ciò che innalzava
il sovrano si rivelava, poi, la scaturigine della sua rovina, anche
qui la riduzione della storicità a storia naturale, segna per un verso
la possibilità-necessità della decisione sovrana, per l’altro verso il
carattere di apparenza e fragilità dello spazio così ritagliato dal
caos delle forze primordiali, e il suo inevitabile destino di
disfacimento. E non ha caso si parla qui di “spazio ritagliato”: esso
non è altri, infatti, che la corte, la corte come scena, come teatro
[Schauplatz] nel quale si sposta la storia tramite la strada
tracciatale dalla natura:

131
Ibid., p. 75. In tedesco, come in italiano, scudo possiede anche il significato di stemma,
emblema.
132
Ibid., p. 77. La causa è cioè ontologica, non etico-morale. Di qui l’ineluttabilità.
67
Così, per il barocco, la natura è soltanto una via che porta fuori
dal tempo […]. 133
È qui, nello spazio della corte, che Trauerspiel e dramma
pastorale confondono i loro confini, in virtù della coincidenza
della loro concezione della natura. In essa, nella corte, la
successione delle azioni drammatiche avviene come nei giorni
della creazione, quando non c’era storia; in essa il drammaturgo
barocco pone in atto il tentativo di circoscrivere e analizzare il
movimento temporale in immagine spaziale; in essa il dramma
barocco vede l’eterno e naturale fondale della storia.
Tutto ciò portò anche a una trasformazione delle tecniche
drammaturgiche. La condensazione del tempo nello spazio
richiese, via via, più che una vera drammaturgia (vale a dire una
regia della diacronia dell'azione e dello svolgimento drammatico)
una coreografia (ossia una regia della sincronia delle azioni). Al
punto che, dice Benjamin, nella dissoluzione del dramma barocco
il suo posto venne occupato dal balletto.
Seguendo l’analisi benjaminiana della secolarizzazione del
tempo nello spazio ci ritroviamo, dunque, al medesimo esito che
produsse l’analisi dell’argomentazione cosmologica: la storia
rimane campo dell’apparenza, del mito, del potere di forze
demonico-caotiche, cui nemmeno la decisione sovrana riesce a
contrapporre un seppur minimo ordine salvifico. In questa visione
si può individuare l’inaugurazione di una sensibilità moderna, che
separa nettamente l’Europa barocca – con le sue forme d’arte, le
sue forme politiche, le sue antropologie – da quella medioevale, e
che potremmo anche chiamare nichilismo e/o secolarizzazione:
[…] là dove il mistero cristiano come la cronaca esibiscono la
totalità del decorso storico, il flusso della storia del mondo in quanto
storia della salvezza, le Haupt- und Staatsaktion hanno a che fare
soltanto con una parte degli accadimenti prammatici. La cristianità,
cioè l’Europa, è suddivisa in una serie di cristianesimi europei, le cui

133
Arthur Hübscher, Barock als Gestaltung antithetischen Lebensgefühls. Grundlegung einer
Phaseologie der Geistesgeschichte, cit. in W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op.
cit., p. 81.
68
azioni storiche non hanno più la pretesa di snodarsi nell’alveo del
processo della salvezza.134
Il carattere di destino assunto dall’alternanza di ascesa e
caduta dei regni – ove nessuna morale riesce a generare azioni
valide – produce un’idea della storia ridotta a politica di corte e
governata da leggi dotate della stessa ineluttabilità di quelle che
governano il mondo naturale. La politica di corte, vista
esclusivamente come intreccio, come intrigo e trama satanica,
diviene spazio per la comparsa in scena di un tipo teatrale, la cui
importanza drammaturgica si riscontra non solo nel Trauerspiel,
ma nell’intero nuovo “dramma” europeo: l’intrigante, col suo
vanitoso zelo e il suo indaffarato aggirarsi nei meandri della corte,
dedito all’ordito di complotti e piani diabolici e subdole
macchinazioni, la cui origine, dice Benjamin, va ricercata nella
figura rinascimentale del cortigiano. L’obbligatorietà di tale figura
per l’economia del “dramma” va ricondotta, anch’essa, alla
tendenza del Trauerspiel alla trasposizione dello sviluppo
temporale e discreto in un continuum spaziale. Egli diviene, in un
certo senso, il coreografo della simultaneità di azioni che
riempiono, confusamente, la scena del Trauerspiel.
L’unica contropartita alle indegne azioni dell’intrigante, che
sembra sguazzare in tale confusione – allegoria della confusione
morale che domina come un destino l’intera storia – veniva
assegnata alla contemplazione appassionata:
Il vanitoso indaffaramento dell’intrigante era considerato l’indegna
contropartita della contemplazione appassionata, alla quale
unicamente veniva attribuita la facoltà di sciogliere e sollevare l’eletto
dall’irretimento nelle sataniche trame della storia, in cui il barocco
vedeva soltanto politica.135

134
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 64.
135
Ibid., p. 141. Vorremmo far rilevare, qui, la maestria linguistica di Benjamin che, con il
gioco dei significati di due semplici parole, arricchisce allegoricamente il senso di queste
poche righe (maestria troppo spesso ignorata dai traduttori italiani). La prima è un verbo:
entbinden; la seconda un sostantivo: Verstrickung. Il verbo sta per dispensare, esonerare,
sollevare, sciogliere (binden significa legare, vincolare) e ben rende l’azione di liberazione
dalle maglie sataniche della storia; il sostantivo, infatti, viene dal verbo verstricken, che
significa letteralmente “usare” per il lavoro a maglia, come stricken indica proprio il “fare
alla maglia”. In senso traslato, viene utilizzato per rendere l’idea del coinvolgimento,
69
Ma, come visto più sopra, anche lo sprofondarsi in sé della
meditazione melanconica – che conduce all’infinito progresso
nella profondità dei significati, che sfuggono incessantemente –
separa il melanconico dalla totalità vivente del significato, dal
mondo, imprigionandolo nel labirinto delle vuote apparenze di un
cosmo reificato, ridotto a dimora di Satana e delle potenze
demoniche di morte.
Alle corti dei signori è comunemente freddo e sempre è inverno,
perché il sole della giustizia è da loro lontano… ragion per cui
tremano le persone di corte a furia di freddo, timore, tristezza.136

3.2

Esiste un punto d'arrivo, ma nessuna via; ciò che


chiamiamo via non è che la nostra esitazione.
Franz Kafka, Confessioni e diari, Milano, 1991,
p. 716

3.2.1 Allegoria e lingua giudicante.


Lingua denominante come lingua paradisiaco-adamitica e
lingua giudicante come lingua dell’umanità decaduta, lingua del
lutto, sono le due tipologie linguistiche delineatesi nel confronto

dell’irretimento e, nella forma riflessiva, significa anche sbagliarsi, invischiarsi. Ma, ancora
più interessante, sempre in relazione alla figura dell’intrigante, diviene il rifarsi al sostantivo
che verstricken richiama: Strick. Quest’ultimo, che nell’uso più comune sta per corda, fune,
possiede anche il significato di briccone, birbante. Se si può ipotizzare che tale significato
provenga dall’uso della forca per tali personaggi – o di altri supplizi perpetrati con corde e
funi – come non pensare, qui, alla misera fine che spetta all’intrigante in molti “drammi”; o
come non rammentare lo Iago rinchiuso in una minuscola gabbia appesa, con una fune,
all’esterno del castello, nella scena finale dell’Otello nella versione cinematografica di
Orson Welles?
136
Aegidius Albertinus, Lucifers Königreich und Seelengejäidt: oder Narrenhatz, Augsburg
1617, cit. in W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 144. Ma si ricordi, per il
motivo del mondo gelido, il celebre, cinico e beffardo inizio del Riccardo III di
Shakespeare: « Ora l’inverno del nostro scontento è fatto estate sfolgorante da questo sole di
York: e le nuvole che incombevano sulla nostra casa, sono sepolte nel profondo seno
dell’oceano. »
70
con il saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini.
Ora, qui, si cercherà di scoprire come questo saggio, entrando in
costellazione con le parti del libro sul barocco dedicate al
Trauerspiel e alla melanconia, conduca al cuore
teoretico-concettuale di quest’opera benjaminiana, ossia alla
trattazione dell’allegoria e di come quest’ultima getti significative e
decisive chiarificazioni sulla Premessa.
Abbiamo considerato come il Trauerspiel sia la messa in
scena dello stato di colpa dell’umanità, della sua condizione
creaturale, della sua caducità e dell’impossibilità di un’uscita da
tale situazione; di come ciò accada nell’ambito di una
secolarizzazione del tempo nello spazio – che porta a un’idea
della storia come storia naturale – e di un’assoluta trascendenza e
lontananza della verità salvifica – che porta alla melanconia come
Stimmung dell’epoca. Questi due ambiti, che tendono a esaurire
l’intera epoca barocca, preparano e delineano un mondo
disponibile alla considerazione allegorica. Tale considerazione
può, a sua volta, essere letta come allegoria della perdita dei
significati e dell’ipertrofia dei significanti, seguite al peccato
originale. I paragoni del sovrano con Adamo e il tentativo di
sospensione del tempo – attuati nei Trauerspiel – ne costituiscono i
segni più evidenti.
Ciò che qui è in questione è l’esposizione che Benjamin
attua, in vista di una rivalutazione, dell’allegoria di contro al
simbolo (per lo meno dell’uso che il classicismo fa del concetto di
simbolo).137
Per addentrarci in tale trattazione, prendiamo le mosse dalla
connessione che lo Zohar, più sopra citato, istituiva tra sapere,
nudità, natura decaduta, magia.138 Il problema di fondo è, dice
Scholem, quello della domanda sulla natura della Torah prima e
dopo il peccato originale e, di conseguenza, sulla natura dei

137
Tutto ciò nell’intento di trovare una Darstellungsweise, una forma adeguata alla filosofia
e al suo compito di indagare la verità.
138
Cfr. p. 34 Qui prendiamo sul serio quanto ricordato da Scholem a proposito di una
confidenza che Benjamin fece a Rychner e ad Adorno: che il libro sul barocco avrebbe
potuto essere meglio compreso da lettori che avessero qualche dimestichezza con la
Kabbalah.
71
cambiamenti subiti dalla lingua della rivelazione e sui suoi
rapporti con la storia dell’uomo. L’autore dello Zohar e i suoi
contemporanei cercarono di risolvere il problema distinguendo
due aspetti della Torah: la Torah de-beri’ah, ossia la Torah nello
stato della creazione, la Torah de-’atsiluth, ovvero la Torah nello
stato dell’emanazione. Semplificando, la seconda s’identifica con
Dio, essendo la sua diretta emanazione; la prima, essendo creata,
s’identifica con la Torah così come si manifesta realmente dopo la
sua rivelazione agli uomini, vale a dire così come viene
configurata e trasmessa dalla tradizione. Se la seconda, in quanto
diretta emanazione divina, s’identifica con la decima Sefirà, la
Shekhinà – nella quale culmina il processo di emanazione con cui
Dio emerge dalla sua vita nascosta ed è vista, perciò, come mistico
archetipo d’Israele, come “regno di Dio” – la prima, la Torah de-
beri’ah, viene considerata come il necessario abito che ricopre la
nudità – oramai rivelata e, dunque, vergognosa – della Shekhinà
decaduta a causa del peccato originale; abito che, solo, le
permette di apparire nel mondo terreno. Se la seconda è pura
manifestazione della verità divina, simboleggiata dall’albero
paradisiaco della vita e, quindi, inaccessibile all’umanità
decaduta, la prima viene a coincidere con l’albero della
conoscenza del bene e del male, ossia con la necessità per
l’umanità decaduta di trovare un accesso alla pura verità divina.
Tale necessità viene a configurarsi come magia della parola
giudicante, come accumulazione del sapere, infinito compito che
spetta alla conoscenza ormai decaduta, nel tentativo di supplire
alla perdita della bontà ontologica della creatura. E infatti l’albero
della conoscenza del bene e del male, nella tradizione cabalistica,
diviene emblema delle restrizioni, dei divieti, delle limitazioni
contenuti nelle tavole della legge date a Mosè – ossia nella Torah
de-beri’ah – che devono tenere a freno le potenze dell’impuro e
del negativo introdotte col peccato originale; potenze che, invece,
nella Torah de-’atsiluth, in quanto mistica manifestazione
dell’unità divina, sono nulla.
Si assiste, qui, a una particolare dialettica tra le due Torah,
ove quella creata, quella dell’umanità decaduta, mantiene il suo

72
valore di rivelazione – e dunque di guida concreta per l’esistenza –
solamente non pretendendo per sé il valore mistico della Torah de-
’atsiluth, e, pertanto, esclusivamente esponendosi nel medium
della tradizione e della sua rielaborazione storica. In tal modo
l’infinita interpretazione e il continuo commento della Torah
tendono a divenire – da compiti che tentano di corrispondere ai
quarantanove livelli di significato della stessa rivelazione – un
corpo unico con essa. Lo studio della Torah rivelata si delinea
come sforzo per rammemorare, nell’adesso della lettura, ciò che,
nella storia, non è mai stato: la Torah de-’atsiluth, il cui mistico e
divino significato è da sempre e per sempre inaccessibile
all’umanità profana, resa conoscibile nella sua mistica e divina
verità solamente con la venuta del Messia. Detto altrimenti, in
questo ambito dell’ebraismo la copertura della vergognosa nudità,
con gli abiti foggiati dalle foglie di fico della conoscenza, nella
consapevolezza del suo carattere apparente e provvisorio,
trasforma l’infinita distanza e l’impossibile identificazione delle
due Torah, in punto di forza da cui conferire significato etico
all’esistenza terrena e con cui contrastare le potenze del male e
del nulla che dominano il mondo decaduto. L’importanza etico-
politica che acquista qui la prassi della conoscenza, del sapere, va
sicuramente posta in relazione con le forti e profonde istanze
messianiche presenti nell’ebraismo. Qui il particolare e il singolo
acquistano pienezza, una speranza di pienezza, che li promuove
di rango.139 Ma ciò è possibile proprio perché il rapporto col
compimento è tanto più proficuo, quanto più è tesa la relazione tra
profano e messianico, tra singolare e universale. Paradossalmente,
l’assoluta separazione del messianico dalla profanità del mondo
conferisce, a ogni istante di quest’ultimo e a ogni azione in esso
consumata, uno spessore e una concretezza storica
inimmaginabili in un contesto ove domini un’etica consolatoria
140

139
Cfr. la “redenzione in profondità” a p. 38 e n. 114 a p. 44.
140
È, questo spessore, il risultato di quel meccanismo che accoglie ed esalta tutto ciò che è
terreno prima di consegnarlo alla fine. Il residuo mitico che però permane nell’allegoria, e
che va dissolto, consiste nel carattere di destino che assume questo meccanismo. Esso deve
divenire mechané, nel senso di qualcosa, come dice Hölderlin, di “insegnabile”, di
73
inserita in una « già garantita economia della salvezza » – come
può essere la cristianità medioevale ove il singolare tende a
perdersi nell’universale – o, di converso, in una situazione, come
quella dell’età barocca, dove, la scomparsa completa
dell’orizzonte di salvezza, appiattisce il singolare su se stesso. 141
Ma, come si vedrà, l’esito del libro sul Trauerspiel sarà proprio la
scoperta della valenza messianico-redentiva dell’allegoria, a patto,
però, che non si lasci sedurre dal totalitarismo mitico demonico
del simbolo.
Il mondo dell’allegoria è il mondo dove la nudità della
natura, non più specchio della gloria divina, si costituisce come
sostrato della colpa. In quanto in esso la vita fluisce via, siffatto
mondo si presenta all’interno di una dialettica tra assoluta
materialità inanimata – che conferisce carattere di cifra e di
enigma anche alle cose più infime – e assoluta spiritualità senza
Dio – manifestantesi nell’infinito rimando dei significati.
Tanto è il significato e tanto è l’abbandono alla morte, perché è la
morte che più profondamente incide la frastagliata linea di
demarcazione tra la physis e il significato. Ma se la natura è da sempre
in balia della morte, essa è anche da sempre allegorica. Così il
significato e la morte sono maturi a compenetrarsi intimamente nello
sviluppo storico come, in forma di germi [Keime], nello stato di
peccato e privo di grazia della creatura.142
In questo stato peccaminoso e disgraziato, in cui si
compenetrano morte e significato, e in cui si fonda il punto di vista
barocco, Benjamin individua una prospettiva moderna del mito. In
quest’ottica l’allegoria si mostra come forma barocca della storia

ripetibile. Esso va sottratto all’ambito mitico per essere consegnato alla ragione, ma una
ragione conscia della sua caducità e conscia di dover adottare una Darstellung adeguata.
141
È ciò che esprime magnificamente Benjamin nel Frammento teologico-politico, manifesto
del suo nichilismo messianico e, quindi, testo fondamentale per comprendere la valenza
anarchica del pensiero benjaminiano.
142
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., pp. 170-71. Keime può assumere il
significato di germi patogeni, ma anche quello di germoglio, di embrione e, dunque, in
senso figurato, quello di germe o seme, nel senso di qualcosa che può dar origine a qualche
cosa d’altro. Anche qui la bravura di Benjamin riesce, con una sola parola, con un solo
nome, a rendere un intero ragionamento; in questo caso la dialettica non risolta, la
dialettica in sospensione tra caduta e salvezza, insita nel compenetrarsi della morte e del
significato, vale a dire nella storia tout court.
74
della natura significante, come l’epos ne costituiva la forma
classica. In questo mondo mitico la morte s’è insediata; tale
mondo diviene, così, inevitabilmente, dominio di Satana e,
ponendo le creature sotto il segno di Saturno, le getta nel lutto e
nell’afflizione [Trauer].
La questione, come s’è considerato più sopra a proposito del
Trauerspiel, è strettamente legata alla categoria del tempo. Il
divenire del tempo, la costitutiva storicità del mondo decaduto con
la sua separazione dalla verità, producono un infinito differimento
tra le cose e la loro espressione e invalidano, dunque, la possibilità
dell’unità tra oggetto sensibile e oggetto sovrasensibile, che
costituisce il paradosso del simbolo teologico; minano, vale a dire,
la possibilità di una lingua puramente simbolica: la paradisiaca
lingua nominale di Adamo.143 Quest’unità infranta depone ai piedi
dell’osservatore melanconico la storia come morto repertorio
d’immagini, di segni, di frammenti e di rovine:
Mentre nel simbolo, con la trasfigurazione della caducità
fuggevolmente si rivela il volto trasfigurato della natura nella luce della
redenzione, nell’allegoria si propone agli occhi dell’osservatore la
facies hippocratica della storia come un pietrificato paesaggio
primevo.144
Ogni cosa del mondo profano, impedita oramai
all'espressione del suo semplice essere spirituale nel nome, si
presenta all'intenzione conoscitiva come qualcosa di diverso da
quello che è, come natura morta che, – al pari della Shekhinà
decaduta – necessita, per mostrarsi, d’essere continuamente
rivestita degli abiti della conoscenza. Questo è l'abisso del male,

143
Una Darstellung consapevole non può ignorare questo infinito differimento, tentando di
ricostituire il nesso tra nominazione e Anschauung, tentando un accesso diretto alle cose
con un approccio mistico-intuitivo; non può nemmeno permettersi di averne nostalgia
tentando un ritorno a casa in una nuova lingua simbolica, seguendo un percorso di purezza.
Ciò la porterebbe a una nuova sintesi, che, ignorando la propria impossibilità, sarebbe
mitica. Essa deve, invece, trovare una strada, una forma, una lingua che mostri, presenti,
esponga questa impossibilità, questo limite immanente. Deve, cioè, percorrere la strada di
una purificazione. Tale strada, nella Premessa al TP, sembra costituirsi per Benjamin come
rammemorazione nel senso ricordato più sopra a proposito dello studio della Torah, come
anamnesi in senso platonico, come ex-vocare ciò che non è mai stato.
144
Ivi.
75
la caducità della creatura, fondamento dell'allegorico in quanto
astrazione, in quanto lingua giudicante. Di qui il proliferare e
l’accumularsi ipertrofico degli stucchi, degli abbellimenti, dei
decori; delle allegorie, dei tropi, del gonfiarsi della scrittura dal
suo stesso interno, quasi come l’effetto della putrefazione d’un
cadavere; della pompa, dell’ostentazione e della magnificenza di
corti e sovrani nei Trauerspiel e nelle Haupt- und Staatsaktion;
delle Wunderkammer e delle ricerche erudite; dell’emblematica e
dell’araldica. Tutto ciò nel tentativo di occultare l’inevitabile
configurarsi in un volto, di tutto ciò che la storia ha, fin dall’inizio,
di inopportuno, di doloroso, di sbagliato; un volto ove « ogni falsa
apparenza della totalità si spegne » e che, dunque, in quanto
trionfo dell’inespressivo [Ausdruckslose] e minimo della
seduzione, si mostra per ciò che è: il teschio di un morto.
Proprio qui l’allegoria barocca si contrappone maggiormente
al simbolo del classicismo. Dove quest’ultimo vede la bellezza
della forma umana come pienezza dell’essere, come totalità
momentanea, come armonia classica, il barocco coglie,
nell’assoluta mancanza di libertà espressiva del teschio,
l’enigmatica, ma significativa, espressione dell’aspetto naturale
supremamente degradato, dell’umano come dominio della colpa,
della caducità, della morte. Perciò l’allegoria si contrappone
all’immobilità del simbolo, presentandosi come un progresso
lungo una serie infinita di momenti, come storia dei dolori del
mondo, significante esclusivamente nelle stazioni della sua caduta.
Meglio si intende, allora, l’infinito progresso nella profondità
dei significati, che caratterizza il melanconico. In questo inoltrarsi
nello sprofondamento melanconico, l’allegorico, cadendo in una
vera e propria vertigine dei significanti, diviene preda della
seduzione del sapere assoluto. Tale seduzione, tale infinito
procedere nel vuoto abisso del male, trasforma il mondo in un
labirinto, dominato dall’ambiguità dei significanti allegorici e
dall’eccesso dei significati possibili. Perciò Benjamin può
affermare che questo sapere allegorico dischiude la falsa promessa
di esperire concretamente:

76
[…] un regno della spiritualità assoluta, e cioè senza Dio […].145
dove, però,
Lo stato d’animo che in esso predomina è il lutto, insieme padre
[Mutter] e contenuto intrinseco delle allegorie.146
Le tre originarie promesse sataniche, che scaturiscono da
questo regno, allettando l’allegorista, sono:
[…] l’apparenza della libertà – nello scandagliare il proibito;
l’apparenza dell’autonomia – nella secessione dalla comunità dei
devoti; l’apparenza dell’infinito – nel vuoto abisso del male. Poiché è
di tutte le virtù avere davanti a sé una fine – il loro stesso esempio, in
Dio; così come ogni abiezione dischiude un infinito progresso dentro
la profondità. 147
In questo sprofondamento l’allegoria mostra la sua ottica
speculare, il suo ribaltarsi continuo di estremi contrari, il suo
movimento eccentrico, la sua dialettica tra materiale e spirituale;
in altre parole sfoggia ciò che getta l’allegorista nella disperazione
melanconica.
Questa condizione, secondo Benjamin, va ricercata nella
decisiva corrispondenza tra Saturno e il complesso
sintomatologico entro il quale la teoria umorale e l’astrologia
pongono il carattere melanconico. L’immagine mitologica di
Saturno presenta una polarità immanente alla sua stessa struttura.
Egli domina l’età dell’oro, ma ne viene poi anche scalzato; genera
i figli, ma poi li divora, provocando, così, la sua eterna sterilità; in
virtù della sua qualità di pianeta freddo, grave e asciutto, genera
esseri assolutamente materiali e viene, perciò, posto a presiedere il
lavoro nei campi; in virtù della sua posizione, in quanto più alto di
tutti gli altri pianeti, genera esseri assolutamente spirituali,
contemplativi, incuranti della vita terrena e diviene protettore delle
ricerche più sublimi.
[…] tutta la saggezza del melanconico è asservita [hörig] alla
profondità; essa è estratta da uno sprofondamento nella vita delle cose

145
Ibid., p. 246.
146
Ivi.
147
Ibid., p. 247. Tali promesse, nei Trauerspiel, si mostrano perennemente all'opera ora nel
tiranno e ora nell'intrigante.
77
creaturali e nulla le giunge del suono della rivelazione. Tutto ciò che è
saturnino rimanda alle profondità della terra […]. 148
In questa profondità lontana da Dio, in questa secessione
dalla totalità vivente del mondo ove ogni cosa, personaggio,
situazione può significarne qualsiasi altra, l’allegorista
melanconico soccombe alle seduzioni sataniche sopra riportate.
Sotto lo sguardo della melanconia l’oggetto diventa allegorico,
essa permette che in lui la vita defluisca via; lasciandolo lì come
morto, ma garantito per l’eternità, per l’allegorico esso giace, lì,
incondizionatamente. Il che significa che, da ora, esso è
completamente incapace di irradiare un significato, un senso; il
significato che gli compete è quello che l’allegorico gli presta.149
Questa circostanza, queste seduzioni sataniche, sostiene
Benjamin, ammantano la conoscenza – in quanto tentativo di
penetrazione nei segreti del mondo – di un aura diabolica,
trasformandola da tentativo di salvezza in pronuncia
d’un’imparziale verdetto di annientamento sul mondo profano. Di
qui le caratteristiche antinomie del mondo allegorizzato, ove, allo
stesso tempo, il dettaglio e l’accessorio [Requisit] così svalutati,
proprio per la loro capacità di alludere ad altro, di trascendersi,
acquistano una potenza tale da apparire incommensurabili con le
cose del mondo profano; una potenza che li innalza e santifica su
di un piano diverso. 150

148
Ibid., p. 153-54. L’aggettivo hörig è da riferire a der Hörige, che assume il significato di
“servo”, “schiavo”, sottolineando come la promessa satanica di libertà sia in realtà
apparente e di come, per l’allegorico, si prospetti un destino di sudditanza alle forze
caotiche che sprigionano dai recessi più profondi della creazione decaduta; sudditanza che
ingenera e riproduce, in un circolo di abiezione, la sua melanconia.
149
Ibid., p. 191.
150
Requisit, nel linguaggio teatrale, significa accessorio di scena. Nel saggio sull’opera di
Calderón El mayor monstruo, los celos (in W. Benjamin, Opere complete, II. Scritti 1923-
1927, Einaudi, Torino 2001.) Benjamin conduce un affascinante lettura di uno di questi
accessori, nella fattispecie un pugnale, e di come attorno a esso non solo si snodino punti
importanti, dal punto di vista drammaturgico, della vicenda, ma di come proprio questi
accessori siano « […] il segno distintivo dell’autentico dramma del destino romantico
rispetto alla tragedia antica, che nel profondo si nega all’ordine del fato. ». Il dramma
moderno, il Trauerspiel, è dramma del destino nel senso di una rappresentazione, di una
drammaturgia, di una messa in scena del « placido e fatale decorso della natura. » come
destino tragico. La tragedia antica, invece, « nel profondo si nega al fato »: in essa v’è resa
dei conti (seppur silenziosa) tra l’eroe (vincitore nel suo sacrificio, in quanto in esso giunge
78
Per cui il mondo profano nella contemplazione allegorica viene
tanto elevato di rango quanto svalutato.151
Questa possibilità illimitata propria dei significanti di
divenire continuamente risignificati, o, meglio, la disponibilità di
significanti e significati a divenire mero sostrato per il continuo
processo di risignificazione, sino a giacere lì come morte cose
pietrificate, strappate alla storia e consegnate alla natura, viene
afferrata dall’allegorico
non scansando minimamente l’arbitrio in quanto drastica
dichiarazione del potere [Macht] del sapere [Wissen]. 152
Tale infinito movimento di sollevamento e caduta, tale
continua mortificazione di ogni intenzione redentiva, costituisce lo
spazio e la dinamica del rimuginare del sapiente, nel quale l’unico
e poderoso suo divertissement si ribalta incessantemente nello
scavo dell’abisso della sua melanconia.
Più in generale, questo abisso e questa rovina costituiscono,
rispettivamente, il topos della cultura, della conoscenza, della
storia, e la sua forma più propria: il frammento, la rovina. Ed è in
questo spazio che si presenta eminentemente il carattere arbitrario
della decisione sovrana, del potere assoluto e della saggezza del
sovrano barocco, con cui egli sottrae al caos lo spazio politico,
ponendo così il diritto. Ciò è indicato dall'etimo stesso del termine
“decisione”: Entscheidung. Nel linguaggio giuridico essa sta per
sentenza, decisione, giudizio. Dunque la decisone sovrana, che,
ponendo il diritto, pecca di hybris nei confronti del giudizio
[Gericht] divino – unico che può ricomporre l'infranto e la

alla dignità di un carattere, di un ethos) e l’antico diritto incarnato nelle potenze del mito.
Paradossalmente la tragedia antica è dramma del destino in un senso opposto al Trauerspiel:
in essa il dramma si consuma a scapito delle potenze del destino, la tragedia è il loro
dramma. In essa la supremazia del destino viene posta in discussione attraverso lo «
sviluppo morale di elementi mitici ». Tragedia, dunque, come messa in scena del mito, ma
come rappresentazione che apre alla possibilità di una nuova e superiore storia, di una
nuova e superiore lingua, di un nuovo e superiore diritto. Trauerspiel, invece, come messa
in scena della storia come mito, dell’accadere storico che tende a chiudersi in rigidità
mitica: in destino tragico. In esso non c’è alcuna moralità, ma, solamente, decorso,
meccanica temporalità naturale, tempo ridotto a spazio, destino confermato nella storia.
151
Ibid., p. 180.
152
Ibid., p. 192.
79
separazione che domina il mondo profano153 – si ritrova ad essere
giudizio [Urteil] mitico, che irrigidisce e svuota, pietrifica il
vivente; a essere giudizio [Entscheidung] che scioglie [scheidet],
divide [teilt], separa [absondert] il vivente dalla sua fonte di vita.
Nell’ambito della decisione è, quindi, già allegoricamente
significata la possibilità del suo rovesciamento: la disfatta, la follia,
la morte del re e dell'intero mondo ch’egli trascina con sé. La
decisione sovrana mostra, qui, tutto il suo carattere di apparenza
e, dunque, la sua impotenza nel sottrarre il vivente « all’ambito
colpevole di ciò che vive », al destino; mostra, ancora una volta,
nel suo presentarsi come atto dia-bolico, l’affinità tra il sovrano e
Adamo, tra la rottura del nesso di Anschauung e nominazione
provocata dal sapere sul bene e sul male, dal giudizio, e il
tentativo – impossibile – di separare definitivamente lo spazio
politico dal caos delle forze mitiche. Mostra come
la creazione giuridica [Rechtsetzung] […] non depone affatto la
violenza [Gewalt], ma ne fa solo ora in senso stretto, e cioè
immediatamente, violenza creatrice di diritto [rechtsetzenden], in
quanto insedia come diritto [Recht], col nome di potere [Macht], non
già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma intimamente
e necessariamente legato a essa.154
Tanto è vero che, dal fondo di quest’abisso, il ghigno
sardonico del diavolo – contrassegno del carattere d’inganno
demonico che assume l’innalzamento di rango provocato
dall’allegoria nel suo oggetto – colpisce l’allegorico.

153
Unico che può garantire la non paradossalità del simbolo teologico (unità di oggetto
sensibile e oggetto sovrasensibile).
154
W. Benjamin, Per la critica della violenza, op. cit., p. 24. Nel saggio sulle affinità
elettive, Benjamin affida alla decisione un valore forse meno nichilista, meno melanconico
di quanto accada nel libro sul barocco. In quel saggio la decisione appare, pur sempre nel
suo carattere di apparenza-impotenza, come una delle poche risorse che competano agli
uomini per sottrarsi all’ambito mitico-demonico: i personaggi della novella, al contrario di
quelli del romanzo, si salvano proprio grazie alla decisione, che interrompe la caduta
rovinosa entro i confini dell’ambito colpevole di ciò che vive, entro il destino, nel quale
sono invece confinati Ottilia e gli altri. Pare che, in quel saggio, il nichilismo benjaminiano
tout court – che sembra dominare il libro sul barocco, per lo meno sino alle ultime cinque o
sei pagine – assuma tratti messianici più marcati e che il cielo barocco gravido di
nuvolaglia che si muove scura verso la terra, si trasformi nell’eternità di un tramonto.
80
Fondamentale per la comprensione delle antinomie
dell’allegoria diviene, giunti a questo punto, la decisività che, per
tale habitus di pensiero, acquista la consapevolezza che non solo
la caducità, la separazione, ma anche la colpa, assieme con esse,
si insedi nel mondo. Di qui il nesso tra caducità-apparenza e
colpevolezza-demonicità. La colpa non sta solamente in colui che,
osservando allegoricamente, tradisce il mondo per il desiderio di
sapere, ma altresì nell’oggetto della contemplazione. Quest’ultimo,
proprio perché oppresso dalla colpa, non può trovare un
compimento di senso in se stesso; la pienezza del simbolo
teologico gli è negata. Ecco, allora, il mutismo della natura di cui
parla Benjamin anche nel saggio sulla lingua, ed ecco la caduta
nel lutto dell’intera natura.
Giungiamo qui a un punto fondamentale per la
comprensione delle connessioni tra il libro sul TRAUERSPIEL e il
saggio sulla lingua. Qui Benjamin afferma la sostanziale identità
tra lingua decaduta e lingua allegorica, tra lingua del giudizio,
fondamento dell’astrazione, e allegoria. Identità che si fonda sulla
caducità, sulla demonicità, sul luttuoso mutismo della natura.
La scoperta che la trattazione del Trauerspiel e dell’allegoria
portasse, infine, a un’interrogazione dello statuto della lingua in
generale, fu talmente evidente per lo stesso Benjamin, da indurlo
a utilizzare qui le stesse parole utilizzate nel saggio sulla lingua,
con poche, significative sostituzioni. 155 Nel saggio sulla lingua, il

155
Vale la pena riportare qui i due testi per un loro confronto. Dal TP (GS I, I, p. 398): «Weil
sie stumm ist, trauert die gefallene Natur. Doch noch tiefer führt in das Wesen der Natur die
Umkehrung dieses Satzes ein: ihre Traurigkeit macht sie verstummen. Es ist in aller Trauer
der Hang zur Sprachlosigkeit und das ist unendlich viel mehr als Unfähigkeit oder Unlust
zur Mitteilung. Das Traurige fühlt sich so durch und durch erkannt vom Unerkennbaren.
Benannt zu sein - selbst wenn der Nennende ein Göttergleicher und Seliger ist - bleibt
vielleicht immer eine Ahnung von Trauer. Wie viel mehr aber, nicht benannt, sondern nur
gelesen, unsicher durch den Allegoriker gelesen und hochbedeutend nur durch ihn
geworden zu sein. » Dal saggio sulla lingua (GS II, I, p. 155): «Weil sie stumm ist, trauert die
Natur. Doch noch tiefer führt in das Wesen der Natur die Umkehrung dieses Satzes ein: die
Traurigkeit der Natur macht sie verstummen. Es ist in aller Trauer der tiefste Hang zur
Sprachlosigkeit, und das ist unendlich viel mehr als Unfähigkeit oder Unlust zur Mitteilung.
Das Traurige fühlt sich so durch und durch erkannt vom Unerkennbaren. Benannt zu sein -
selbst wenn der Nennende ein Göttergleicher und Seliger ist - bleibt vielleicht immer eine
Ahnung von Trauer. Wieviel mehr aber benannt zu sein, nicht aus der einen seligen
81
presagio del lutto delle mute cose della natura veniva, già nello
stato paradisiaco, dall’essere conosciute dall’inconoscibile;
dunque ancor maggiormente, in seguito, dal non essere più
nominate dalla beata lingua paradisiaca nominale, ma dalle cento
lingue degli uomini ove il nome era già appassito. Nel libro sul
barocco, dove emerge come lingua e natura decadute informino di
sé l’intero orizzonte mondano, il lutto non proviene nemmeno dal
fatto che le cose siano conosciute dall’inconoscibile, ma
dall’essere solamente lette, con incertezza, dall’allegorico, e, solo
tramite lui, solo tramite il suo arbitrio, divenire così altamente
significative. 156
Dunque l’origine dell’allegoria, prosegue Benjamin, va
ricercata nell’intima fusione che il medioevo decretò tra physis e
colpa e, quindi, tra ciò che è materiale e ciò che è demoniaco.
Meglio: tra ciò che è materiale e la concentrazione delle svariate
istanze pagane demoniache in una figura teologica rigorosamente
definita: Satana. La creatura muta, salvata in quanto espressa
nell’allegoria, in quanto spiritualizzata, come s’è già detto, viene
al contempo lasciata lì come oggetto privo di vita, nella sua pura
materialità, asservendo così il sapere allegorico alla profondità e
l’allegorico allo sprofondamento melanconico, ove cade preda
delle tentazioni sataniche.
Nel lutto, Satana, più che spaventare, è tentatore. In quanto
iniziatore egli fuorvia verso un sapere che diviene qui causa di una
condotta colpevole, imperdonabile. Se l’insegnamento socratico può
errare nell’asserzione secondo cui il sapere del bene induce a fare il
bene, ciò è ancora più vero per quanto riguarda il sapere del male. E
non è una luce interiore, un lumen naturale, che nella notte della

Paradiesessprache der Namen, sondern aus den hunderten Menschensprachen, in denen der
Namen schon welkte, und die dennoch nach Gottes Spruch die Dinge erkennen. »
156
Dal punto di vista storico qui va collocata la nascita dell’allegoresi barocca, come
momento di scontro e di risignificazione tra le istanze pagano-classiche, rinate nel
rinascimento, e la concezione cristiana della natura decaduta; come la loro sopravvivenza
nell’Europa cristiana in forma di demoni e la necessità di salvarli, svalutandoli,
nell’interpretazione allegorica; come tentativo di riappropriarsi di una tradizione oramai
lontana dalla sensibilità corrente.
82
tristezza [Traurigkeit] si schiude come questo sapere; bensì come
bagliore sotterraneo che traluce dal grembo della terra.157
Il correlato formale-stilistico della polarità tra materialità e
spiritualità, tra svalutazione e innalzamento di rango, viene colto
da Benjamin come possibilità, per l’allegoria, di essere sia
convenzione sia espressione, sia scrittura sia immagine. La
materialità assoluta, il mutismo delle cose, il loro carattere di puri
significanti, di cifre potenzialmente e arbitrariamente
risignificabili, spingono sul loro carattere di convenzione,
conferendo a qualsiasi cosa un carattere emblematico di scrittura
segreta, di runa, di ideogramma. Tale aspetto trova conferma nella
tecnica, fredda e disinvolta, con cui l’allegorico dispone dei suoi
segni, per conferire loro qualsiasi significato la sua erudizione gli
proponga (questo il divertissement cui si accennava poco sopra). È
proprio tale eccesso, però, a far acquisire alla muta cosa un forte
carattere espressivo con cui la materia si spiritualizza. Il muto
silenzio delle cose viene superato in direzione di una spiritualità
assoluta, di un puro significato. Ma in questa pura esteriorità del
significato, nel suo barocco e ipertrofico accumulo, nella
lontananza dalla materialità, l’allegorico sperimenta la sua
massima distanza dal suono della rivelazione.158 Qui, in questo
rioscurarsi del significato, nel suo riacquistare carattere
emblematico ed enigmatico, la pura superficialità (nel senso della
superficie) degli stucchi e delle decorazioni barocche, l’eruttiva
espressione dell’allegoresi, rivela il riaffiorare del rimando a ciò
che v’è di più profondo, all’abisso del significato, alla morte:
ridiventa, insomma, materia risignificabile.159
In questa dialettica antinomica, priva di sintesi e armonia,
ciò che è scritto tende all’immagine e viceversa; in questa
mancanza di sintesi, in questo tradimento del mondo per amore
del sapere, l’allegorico, posto sotto le insegne di Saturno, incontra
la risata satanica dell’inferno.

157
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 245.
158
Qui mancano assolutamente quegli elementi concreti che trovano la loro radice nel
nome.
159
Questo “profondo”, si rivela, infine, come una sorta di “profondità” della superficie.
83
In lui, certo, l’ammutolire della materia è superato. Precisamente
nella risata, e attraverso uno spettacolo [Vorstellung] estremamente
eccentrico, la materia acquista un’esuberanza di spirito. Diventa
talmente spirituale che eccede ampiamente il linguaggio. Vuole
innalzarsi talmente tanto, da sfociare nella stridula risata.160
Con questa dialettica l’ideogramma [Schriftbild] barocco
approda al frammento, alla rovina, nella rigorosa contrapposizione
al simbolo plastico, all’immagine della totalità organica,
dimostrandosi come « magistrale controparte della classicità ».
Non era conforme all’essenza del classicismo accordare alla bella
e sensibile physis l’illibertà, l’incompiutezza, la fragilità. Ma proprio
queste l’allegoria del barocco porta nascoste sotto il suo sfarzo
chiassoso, con un’accentuazione prima improponibile. Un profondo e
scrupoloso presentimento della problematica dell’arte […] insorge
come contraccolpo alla sua autocelebrazione [Selbstherrlichkeit]
rinascimentale.161
Con il culto barocco della rovina, dei ruderi,
[…] l’allegoria si confessa al di là della bellezza. Le allegorie sono,
nel regno del pensiero, ciò che le rovine sono nel regno delle cose.
[…] Ciò che sta lì staccato, sfinito, abbattuto in macerie, il frammento
altamente significativo, il rottame: questa è la nobile materia della
creazione barocca. […] Ciò che l’antichità ha lasciato in eredità sono,
per i poeti barocchi, gli elementi con cui, pezzo per pezzo, si fonde la
nuova totalità. Anzi: si costruisce. Perché la visione compiuta di
questo nuovo era: rovina.162

160
Ibid., p. 243-44. L’ultima frase, nella traduzione italiana da cui citiamo, è
inspiegabilmente assente.
161
Ibid., p. 182. La problematica dell’arte pone problemi gnoseologici e di metodo
fondamentali per la filosofia e per la sua Darstellung.
162
Ibid., p. 184-85. Le rovine che l’angelus osserva salire al cielo. Si “costruisce”, non si
“ricostruisce” perché non v’è nulla, del passato, che rimanga intero e riutilizzabile così
com’era: tutto è già rovina e sarà rovina. Ciò che importa è, dunque, non il risultato, ma la
costruzione, le sue modalità, il suo essere mezzo senza fine… La questione dell’eredità del
passato è fondamentale anche per Benjamin; problema principale è l’indagine del rapporto
tra pensiero e tradizione; tradizione non più intesa come continuità, ma attraversata da una
rottura. Essa, per il presente, rischia di divenire fardello pesante da portare sulla schiena.
L’allegoria nasce spesso in epoche in cui c’è rottura col passato: essa è un modo per
riattualizzarlo, ripolarizzarlo; perciò il concetto di immagine dialettica si forma, per
Benjamin, nel confronto con l’allegoria e ne assume alcune caratteristiche: la non totalità,
la non sintesi, la cesura, il privo d’espressione, il suo nichilismo, il suo carattere costruttivo-
combinatorio…
84
Da qui la pratica artistica non come fantasia, come facoltà
creativa in senso moderno, ma come Ars inveniendi, come arte
combinatoria, come ostentazione della fattura, in cui e per cui
l’erudizione si rivela fondamentale.163 Di qui la natura che appare,
ai poeti barocchi, meno nei boccioli e nei fiori che nella
marcescenza e nel deperimento delle sue creature; una natura
sentita come
[…] un’eterna caducità entro la quale soltanto lo sguardo saturnino
di quella generazione riconosceva la storia. […] col decadimento, solo
e unicamente con esso l’evento storico si contrae e trova posto sulla
scena. La quintessenza di quelle cose in disfacimento è l’opposto
estremo di quel concetto di natura trasfigurata che era stato concepito
dal primo rinascimento.164
Al comandamento che ordinava di fracassare tale decaduta
natura, per poi leggervi nei suoi cocci il vero significato, fissato,
come scritto – con il quale l’allegoria tenta di salvare il caduco
nell’eterno – non poteva sfuggire la figura umana. Solamente sul
cadavere, sulle disiecta membra del corpo umano,
l’allegorizzazione della physis può imporsi con la massima
energia, in quanto lì l’uomo
[…] pianta in asso la sua physis convenzionale e provvista di una
coscienza per poi distribuirla tra le multiformi regioni del significato.165
Ecco, allora, tutto il repertorio d’orrore e di martirio di cui si
compiacciono i Trauerspiel, con il cui contributo la scena diviene
ancora più fosca e confusa. Infatti dove, come qui, domina
l’onnipotenza del significare allegorico, le cose vengono raccolte
secondo i loro significati. Ma recando, queste, su di sé,
l’inevitabile sigillo del troppo-terreno, mancando una reale
partecipazione del significato all’esserci delle cose nella loro
materialità, e rimanendo l’espressione del significato, proprio in
quanto allegorica, irrimediabilmente diversa dalla sua

163
Si combina e si costruisce con ciò che c’è, con ciò che è andato ed/o è stato distrutto,
mostrando come questo “ciò che c’è” sia “tutto ciò che c’è”. Ciò è possibile grazie
all’erudizione, che Benjamin chiama filologia.
164
Ibid., p. 186.
165
Ibid., p. 231.
85
realizzazione storica, 166 la raccolta si trasforma in dispersione,
l’ordine apparente del sapere in disordine diabolico, la profonda
melanconia in allegria infernale, la stanza dell’allegorista
nell’antro del mago o nel laboratorio dell’alchimista e, vincitore
unico, rimane il sembiante rigido della natura significante e una
volta per tutte la storia rimane rinchiusa nell’accessorio [Requisit]:
Conformemente alla dialettica di questa forma d’espressione, il
fanatismo della raccolta ha il suo contrappeso nella fiacchezza della
disposizione: particolarmente paradossale la rigogliosa distribuzione di
strumenti di penitenza o di violenza.167
Tutto ciò, se da una parte consegna il mondo alla volatilità
del significato, dall’altra lo riduce alla componente materiale più
effimera e adeguata a questa volatilità: la polvere.
In polvere, alla fine, viene ridotta persino la stessa lingua.
Conformemente all’intenzione allegorica del barocco, anch’essa è
costretta ad assistere alle continue ribellioni dei suoi elementi, in
un gioco che assomiglia al sezionamento di un cadavere, o alle
pratiche di mortificazione del corpo, nel quale solamente i
frammenti riescono ad accedere a un’espressività diversa e a un
significato maggiore. Nulla contraddistingue la lirica barocca più
rigorosamente, sostiene Benjamin, della sua mancanza
d’apparenza. Apparenza che, con il suo trasfigurare e illuminare il
contenuto dell’opera d’arte, portava un tempo a ricercare in essa
l’essenza della forma artistica. Tale mancanza, tale insufficiente
avvolgimento del contenuto, mette a nudo la lingua e in essa
[…] la sillaba e il suono, emancipati da qualsiasi connessione
tradizionale di senso, si pavoneggiano come cose atte a essere sfruttate
allegoricamente.168
Presentandosi come rovina, anche la lingua vien presa nella
dialettica dell’allegoria e, messa da parte la sua funzione
meramente comunicativa, si presenta come forma naturale da
allegorizzare, da innalzare alle altezze degli dei, dalle quali poi,
però, meglio e con più fracasso precipitare. Non a caso l’aspetto
166
Altrimenti sarebbe parousia, simbolo teologico, coincidenza di Profano e Messianico.
167
Ibid., p. 196.
168
Ibid., p. 219.
86
fonetico rimane per il barocco un che di puramente sensibile,
mentre solamente nella scrittura dimora il significato. Esso cerca
soggiorno nella parola pronunciata solamente come un’ineluttabile
malattia che, riecheggiando, irrompe in un ristagno del sentimento
pronto a sgorgare, risvegliando il lutto.
Il significato ricompare qui e diviene, come ricorre altrove,
fondamento della tristezza [Traurigkeit]. La sua estrema asprezza
dovrebbe contenere l’antiteticità di suono e significato qualora si
riuscisse a restituire entrambi in uno, senza che essi venissero a
coincidere nel senso dell’organica costruzione linguistica. […] Il
ribaltamento della pura sonorità del linguaggio creaturale nell’ironia
gravida di significato, che riecheggia dalla bocca dell’intrigante, è
estremamente caratterizzante del rapporto tra questo compito e la
lingua.169
A questo punto la distanza tra lingua paradisiaca e lingua
decaduta, tra nome e allegoria è estrema, e la separazione, che il
giudizio in seguito al peccato originale ha provocato tra verità e
sapere, tra salvezza e umanità, è abissale.
D’altra parte però, alla meditazione, quando non mira tanto e
pazientemente alla verità quanto incondizionatamente e
obbligatoriamente, con tutto l’acume del suo sguardo, al sapere
assoluto, le cose si sottraggono nel loro semplice essere per poi
presentarsi a essa come una rete di enigmatici rinvii allegorici e, di
conseguenza, come polvere. L’intenzione dell’allegoria è così
contrastante rispetto a quella della verità, che in essa, più che in
qualunque altro luogo, risulta chiaramente la coincidenza di una
curiosità pura e puntata sul mero sapere e della presuntuosa
separatezza [Absonderung] dell’uomo.170
Se, ricordando quanto detto da Benjamin nel saggio sulla
lingua, dal peccato originale sorge la nuova magia della lingua
giudicante come ripristino dell’immediatezza e supplenza alla
oramai perduta lingua nominale, ciò che l’allegoria obbliga a
sperimentare è proprio il carattere d’apparenza che costituisce il
giudizio e lo stato di separazione in cui viene gettata l’umanità.171
169
Ibid., p. 222.
170
Ibid., p. 245-46.
171
“Separazione”, in tedesco, è Absonderung e, in quanto tale, può essere usato come
sinonimo di “astrazione”.
87
Il sapere frutto della lingua decaduta, che vorrebbe supplire
l’immediatezza nella comunicazione del concreto propria del
nome, si mostra come supplizio e sacrificio di tale immediatezza,
nell’astrazione, nel mero sapere.172 Un mero sapere che, infatti,
costituisce la vergogna della coppia adamitica dopo il pasto
proibito; un mero sapere che si lega, in quanto magico – come
visto più sopra anche nello Zohar – alla materialità, alla carne, alla
corporeità. Un sapere la cui parvenza di spiritualità assoluta è
promessa satanica di libertà, di autonomia, d’infinito, ma che, in
quanto satanica, e in quanto, dunque, emancipata dal sacro, si
rivela, appunto, come separazione, come privatezza di vita, come
astrazione, come dimorante esclusivamente nella materialità
esanime: nella facies hippocratica del mondo.
Il resto è silenzio. Poiché tutto ciò che non è stato vissuto
sprofonda irrimediabilmente in questo spazio in cui soltanto
ingannevolmente aleggia la parola della saggezza.173
La coscienza [Bewußtsein], sorta anch’essa col giudizio, si
rivela come il luogo vuoto di questo sapere, come l’impossibile
sintesi dei poli che costituiscono l’ambito satanico della spiritualità
assoluta e della guasta materialità; come
[…] loro sintesi ingannevole, che scimmiotta quella autentica,
quella della vita. 174

172
Ogni giudizio comporta e richiede un sacrificio: il sacrificio della nominabilità della cosa stessa
in nome dell’esattezza del suo riferirvisi. Il giudizio sopprime quel Mit del Mit-teilung che è alla
base della comunità, lasciando sussistere solamente il Teilen. Di qui la spinta di Benjamin verso le
possibilità dell’epica moderna, del narrare, del mostrare, del nominare che si incarnano nel teatro
epico brechtiano, nelle pratiche del surrealismo, in romanzi quali Alexanderplatz, nel cinema,
nella fotografia. Sempre con la consapevolezza, però, che la lingua è da sempre decaduta e quindi
da sempre “giudicante” e dunque produttrice di “separazione astrazione”. Perciò la forma di quel
Mit andrà pensata in negativo come mancanza, come im-possibile, come contingente, come
frattura e come ciò che non può/non deve nascondere il proprio non poter essere narrato,
mostrato, nominato. In altre parole come una forma che esibisca la sua finitezza, la sua
contingenza, la sua ontologica mancanza come potenza-di-non. La forma come Ausdrücklose.

173
Ibid., p. 160.
174
Ibid., p. 247. In altro luogo, segnatamente a p. 193, Benjamin, a proposito di questa
dialettica tra spirituale e materiale, tra innalzamento e svalutazione dell’oggetto allegorico,
già era ricorso alle scimmie: « È vero che la clamorosa ostentazione con la quale l’oggetto
banale sembra emergere dalla profondità dell’allegoria ben presto fa posto al suo sconsolato
volto quotidiano, è vero che all’assorta partecipazione del malato a quanto è isolato e
88
La coscienza, dunque, come estraneità alla vita, come potere
disgregante. Nel potere del giudizio, nel sapere, l’umano, col suo
tentativo di ricomporre l’unità infranta della verità, soccombe a
questo suo stesso potere che, separandosi da lui, si costituisce
come diritto, come potenza demonica, come destino; vale a dire si
assoggetta alla violenza del diritto che irrigidisce il vivente in
vuota soggettività sprofondata in un mondo inerte. Il bando, la
cacciata dal paradiso, l’avvio della storia come decadenza, e la
condanna a vivere in un tempo radicalmente finito, ma non
compiuto, stanno tutti in questo giudizio, in questa separazione
originaria [Ur-teil]. Il sovrano del Trauerspiel, i cui lineamenti
magistralmente ha mostrato Benjamin, diviene l’emblema di
questo mondo privo di un orizzonte di salvezza, in quanto:
Il Trauerspiel tedesco non è mai riuscito ad animarsi, a destare il
limpido sguardo dell’autoriflessione nel suo interno. Esso è rimasto
sorprendentemente oscuro a se stesso ed ha saputo dipingere il
melanconico soltanto coi colori crudi e usurati dei libri medioevali
sulle complessioni.175
Colui che, invece, riuscì in questo sguardo vivificante, in
fronte al quale la grezza scena della melanconia tratteggiata dal
Trauerspiel incomincia la sua vita più intima, è il genio düreriano
della melanconia alata.

3.2.2 Allegoria e verità.


Sapere, non azione è la forma d’esserci più propria del male.176
Infatti, come detto più sopra, nell’incisione düreriana gli
oggetti della vita attiva giacciono inerti a terra, oggetto del

infimo segue un deluso lasciar cadere l’emblema svuotato, la ritmica del quale un
osservatore attrezzato speculativamente sa ritrovare, ripetutamente e significativamente, nel
comportamento delle scimmie. Ma sempre e di nuovo si affollano i particolari amorfi, che
soli si propongono come allegorici .».
175
Ibid., p. 161. Questo “limpido sguardo” riesce, invece, secondo Benjamin, a Calderón e
a Shakespeare.
176
Ibid., p. 246. Filippini travisa completamente il senso di questa affermazione
traducendo: « Essere, non sapere: questa è la forma più peculiare di esistenza del male .» Il
testo tedesco recita, invece: Wissen, nicht Handeln ist die eigenste Daseinform des Bösen.
89
rimuginare del melanconico, in quanto la lingua decaduta, il
giudizio, il sapere, non rivelano più nulla o, meglio, rivelano il
nulla di tutte le cose, il loro carattere allegorico e la loro
appartenenza all’ambito satanico-demonico, che apre allo
sprofondamento nell’oscurità della terra del melanconico. Però ciò
che rimaneva inspiegato, allora, era il perché questi oggetti inerti
al suolo non calamitino, come dovrebbero, lo sguardo dell'uomo
meditabondo di Dürer, che sembra colto, invece, nell'attimo in cui
lo distoglie dalle profondità sataniche, per portarlo sul pipistrello
reggente il cartiglio con la scritta « Melencolia I ». Il pipistrello in
volo, nei Hieroglyphica di Orapollo, sta a significare proprio il
tentativo dell’uomo di superare audacemente la miseria della sua
condizione, osando l’impossibile.177 La figura alata diviene qui, per
Benjamin, emblema del suo profondo nichilismo messianico; in
essa vi coglie l'attimo messianico, la speranza nella non speranza.
Perché certo, l’allegoria – in quanto sapere profondo, rovina,
abisso, inferno – è sì sapere demonico, sapere della separazione e
della caducità e del “vanitas vanitatum omnia vanitas” di biblica
ascendenza; ma proprio il suo insediarsi sul terreno della storia,
del profano, della limitatezza, dell’apparenza anziché su quello
del mito, la sua inquietudine, il suo infinito differire il significato,
il suo carattere accumulativo-distruttivo, gli impediscono di
conchiudersi in totalità – come invece accade nel simbolo – e di
pretendersi verità.178 Queste sue peculiarità la sospingono, invece,
verso il suo autosmascheramento, verso un’autoallegoresi che
suscita la confessione del suo carattere di fantasmagoria irrigidita,
di ingannevole oggettività, impedendogli di raggiungere
quell’autotrasparenza, quell’autofondazione tipica del mito. La
separazione e la lontananza dell’allegoria dal suono della
rivelazione, di fronte al mondo vero, rivelano il loro carattere
177
Cfr. per questa interpretazione, Giorgio Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella
cultura occidentale, Einaudi, Torino 1977 2. A p. 173 del TP, Benjamin si riferisce agli
Hieroglyphica come a una fonte cui attinsero gli umanisti cercandovi metodi di
interpretazione dei geroglifici. In questo sforzo interpretativo situa uno dei motivi dello
sviluppo storico della forma allegorica.
178
Ciò che occuperà Benjamin, dopo il TP, è la messa a punto di strumenti ove questo
residuo mitico dell’allegoria scompaia. Andrà, cioè, non verso la purezza auspicata da
Kraus, ma verso una purificazione-distruzione.
90
esclusivamente soggettivo. La perdita del mondo, che si cela in
essa, diviene il presupposto per un rovesciamento in cui, solo, un
barlume della verità può divenire, nell’attimo, visibile.
Arrivando al fondo dell’abisso, l’allegoria attua quindi il suo
capovolgimento dialettico: non trovando più nulla da allegorizzare
e non potendo quindi far altro – in virtù della sua legge – che
continuare a scavare sul fondo, allegorizza se stessa come
allegoria della redenzione.
La sconfortante confusione del Golgota [Schädelstätte] che si
ritrova quale schema delle figurazioni allegoriche in migliaia di stampe
e di descrizioni dell’epoca non è soltanto il simbolo della desolazione
di ogni esistenza umana. La caducità è in esse non soltanto significata,
allegoricamente esposta, quanto, a sua volta significante, offerta come
allegoria. Come allegoria della resurrezione.179
In un sol colpo il sapiente, l'allegorico, si ridesta vigile nel
mondo di Dio e la speranza rinasce dalla presunta infinità della
sua assenza. Con quell'unica piroetta, che anche chi precipita può
attuare, si disperde ciò che per l'allegoria era più intrinsecamente
peculiare, vale a dire le tre promesse sataniche: il sapere segreto –
vale a dire l’apparenza della libertà nello scandagliare il proibito;
il tirannico arbitrio nell’ambito delle cose morte – cioè l’apparenza
dell’autonomia con la conseguente secessione dalla comunità dei
devoti; la presunta infinità della disperazione – ossia l’apparenza
dell’infinita discesa nel vuoto abisso del male. In altre parole
l’affondamento allegorico, portato al suo limite, rimuove l’ultima
fantasmagoria dell’obiettività.180
L'allegorico scopre che l'inganno diabolico – responsabile
del suo sprofondarsi melanconico – non è che mitica apparenza a
sua volta e, infatti, il diavolo, così come inatteso appare dalle
profondità della terra, altrettanto improvvisamente scompare in
una nube di zolfo - e che il sapere che l'aveva condotto laggiù,
alla luce del mondo redento e della grazia divina così

179
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 249
180
Giunti a questo disvelamento, nel dramma barocco il sovrano, che incarna questa
fantasmagoria irrigidita in cui il diritto trova autofondamento, si fa martire e muore,
trascinando con sé tutto il suo mondo e mostrando così, dunque, l’apparenza del suo essere
ab-solutus.
91
paradossalmente ritrovata, si rivela per il suo carattere di vuota
chiacchiera così come vuota si scopre la soggettività: la sua realtà è
mero rispecchiamento di se stessa in Dio.181
Nell’allegoria il giudizio, la lingua giudicante dell’umanità
decaduta, divengono emblema di questo sapere vuoto e della
conoscenza astratta che da esso scaturisce, ma anche emblema di un
suo possibile rovesciamento. Contro la conoscenza intellettuale, vuota e
astratta, Benjamin rivolge tutta la sua potenza di pensiero, delineando la
sua metodologia critica e la sua teoria della conoscenza nella Premessa
al TRAUERSPIEL. Contro una pretesa razionalità sistematica, che nella
sua hybris filosofica pretende di possedere la verità. Solamente con una
Darstellung filosofica che tenga conto del ribaltamento dialettico-
messianico proprio dell’allegoria sarà possibile un sapere che tenga
conto delle modalità stesse con cui si da la verità. Ove è chiaro che si
tratta, come già detto più sopra, di un messianico nichilista: come
nell'allegoria lo scavarsi l'abisso della ponderación mysteriosa è solo
momento preparatorio alla salvezza – che arriva poi dal cielo, non dalla
terra – preparazione al miracolo, così la ricerca filosofica può solo
preparare l'avvento del messianico.
Di ciò che è più grande - dell'adempimento dell'utopia - non si può
parlare, ma solo testimoniare.182
Tale anche il senso delle ultime righe del TRAUERSPIEL: solo
un'assunzione integrale della finitezza può aprire alla verità, così come
solo un'immagine del bello che deponga il suo carattere espressivo e si
professi quindi finita, interrotta, cesura, rovina, frammento e polvere può
creare uno spazio ove può vibrare, per un attimo, la vita-verità.
Nello spirito dell'allegoria, esso è concepito fin dall'inizio come rovina,
come frammento. Se altre risplendono stupende come il primo giorno, questa
forma tiene ferma nell'ultimo giorno l'immagine del bello.183

181
Di qui la cosiddetta “verbosità” del barocco e la sua tendenza all’accumulo e
all’affastellamento di rovine e frammenti, nei quali solo può rilucere la salvezza.
182
Id., Paul Scheerbart: Lesabéndio, in Id., Il concetto di critica nel romanticismo tedesco,
op. cit., p. 130.
183
Ibid., p. 253.

92
4

“Beauty is truth, truth beauty,” - that is all Ye


know on earth, and all ye need to know.
John Keats, Poems, London 1817.

4.1 Arte, filosofia e verità.


Dopo questa analisi sulla lingua e sull’allegoria, possiamo
dunque tornare al problema con cui terminammo il primo
capitolo, la Darstellung, ovverosia la questione della forma e del
metodo della filosofia.
Già con quanto detto finora si può sostenere che l’idea di
filosofia che Benjamin persegue è quella di un pensiero molto
vicino all’arte. Questo non nel senso di un presupposto, di un
pregiudizio, di un approccio ingenuo con il quale scansare le
difficoltà che un uso critico della ragione pone innanzi, ma, al
contrario, come risultato di un lavoro sul campo, che vede la
messa in opera della razionalità nell’ambito della riflessione
sull’arte e che scopre come questa messa in opera ponga al
pensiero problemi e questioni che sono comuni, propriamente,
alla filosofia come all’arte, in quanto entrambe hanno a che fare
con la messa a punto di forme.
Da questo punto di vista la riflessione sull’arte pone alla
filosofia il compito di interrogarsi sui problemi della forma e del
contenuto, dello stile e della rappresentazione, della verità e della
bellezza, dell’apparenza e dell’espressione. Di contro a una
tendenza – individuabile lungo tutta la storia della filosofia – che
vede la scrittura come semplice mezzo di comunicazione del
pensiero, ove il piano espressivo viene implicitamente posto come
neutro rispetto al contenuto concettuale veicolato; contro una
tendenza che vede l’interrogazione radicale del proprio essere
iscritta nel significante, del proprio essere forma come
appannaggio esclusivo dell’esperienza estetico-letteraria e come
non pertinente a un discorso sulla verità e sul sapere; contro
questa tendenza si pone la ricerca benjaminiana, nella
93
consapevolezza che il nesso tra Darstellungsweise, tra medium
espressivo e contenuto di pensiero è assolutamente fondamentale
e, si potrebbe dire, pregiudicante. In certo qual modo questa
questione attraversa tutti i gli scritti di Benjamin, sia a livello dei
soggetti trattati, sia a livello dei metodi e delle innumerevoli forme
espositive da lui sperimentate.
Non potendo condurre un’esauriente analisi di tutti gli scritti
di Benjamin, ci soffermeremo ancora sul libro sul TRAUERSPIEL, in
special modo sulla Premessa, in quanto rappresenta un nodo
centrale per due motivi: da una parte in quel lavoro Benjamin
utilizza la quasi totalità delle riflessioni elaborate negli altri scritti
precedenti e contemporanei, giungendo a una loro più ampia
tematizzazione e a una loro migliore coordinazione.184 Dall’altra è
nostra convinzione che una lettura e un’analisi della produzione
benjaminiana posteriore, possa assumere tutta la sua pregnanza
solamente partendo da una comprensione e un’acquisizione dei
problemi – alcuni risolti, altri lasciati aperti – posti in quest’opera.
Dunque, dicevamo, arte e filosofia. Questa, con la prima,
condivide un fare che è composizione, costruzione; un operare
che consiste nel dare forma a qualche cosa. In questo loro
procedere, fondamentale diviene, perciò, il rapporto tra forma e
conoscenza; rapporto che non può fare a meno di porre in
questione la codificazione storica della forma e la consistenza
storica della conoscenza, il suo rapporto con la tradizione e con il
divenire. È questo rapporto problematico che avvicina Benjamin
agli scritti scientifici di Goethe, come pure ai romantici e alle loro
speculazioni sulla critica. In questo senso, in un contesto di crisi
della razionalità filosofica – che possiamo, seppur riduttivamente,
individuare nella crisi dell’idealismo tedesco e nella sopraggiunta

184
Questo risultato viene proprio dalla messa in opera, dalla messa al lavoro della massa
delle sue riflessioni attorno a un centro ben preciso: il Trauerspiel. In un frammento del
Passagenwerk [N 1,3] questa messa in opera assume in pieno la sua valenza metodologica:
« Dire qualcosa sull'aspetto metodologico della stesura stessa: quando si attende ad un
lavoro, tutto ciò a cui si sta pensando deve ad ogni costo esservi incorporato. Sia che in ciò
si manifesti l'intensità del lavoro, sia che i pensieri portino in sé sin dal principio un telos
ad esso rivolto. Questo vale anche per il caso presente, in cui si devono caratterizzare e
custodire gli intervalli della riflessione, le distanze tra le parti più essenziali di questo
lavoro, rivolte con estrema intensità verso l'esterno ».
94
coscienza dell’impossibilità del sistema, dell’impossibilità di una
conoscenza che si fa assoluta, sistematica, e dell’incapacità di
quest’ultima di rendere conto dei fenomeni nella loro singolarità –
Benjamin fa proprio l’augurio goethiano di una ricomposizione
della frattura che separa scienza e arte. Il suo tentativo fu quello di
trovare un pensiero che si sottraesse al riduttivismo e all’astrazione
del sapere concettuale tipico della prima, e che, al contempo, non
rinunciasse alla razionalità e al valore di verità del pensiero,
scadendo in misticismo volgare o in forme pericolose di
irrazionalismo o in un nichilismo relativista. La capacità veritativa
dell’arte, il suo potere universalizzante – che non pregiudica la
consistenza delle sue singole opere e delle sue singole forme,
riducendole a mere particolarità disciolte nell’universalità astratta
del concetto – furono gli obiettivi e i compiti che polarizzarono la
riflessione di Benjamin.
Il dominio dell’arte, abbandonata l’idea di una filosofia come
sistema – idea che, nel saggio Sul programma della filosofia futura,
era vista da Benjamin come ancora possibile – il dominio dell’arte,
dicevamo, sembra presentarsi a Benjamin come quel superiore
ambito d’esperienza di cui l’appena citato saggio avvertiva
l’esigenza.
Il sistema, chiamato da Benjamin anche “ideale del
problema”, si rivela nella Premessa come chimera pericolosa.
L’unica forma con cui la logica sistematica si riferisce alla verità,
dice Benjamin nella Premessa, è costituita da una sillogistica
continuità nel processo del pensiero, da « un nesso scientifico
privo di lacune ». Qui il potere astraente del giudizio, della lingua
giudicante, del concetto classificatorio, mostrano appieno la loro
colpevolezza, consistente nel rendersi immemori del loro oggetto,
di non porsi all’ascolto e all’osservazione di esso, di quegli
elementi concreti che hanno, invece, la loro radice nel nome. Il
fatto che la conoscenza riduca il suo oggetto a mera funzione di
schemi e momenti organizzativi precostituiti, a mero possesso
nella coscienza, produce quella frattura tra esperienza e
conoscenza, responsabile di quell’impoverimento del concetto di

95
esperienza di cui parla Benjamin nel saggio Sul programma della
filosofia futura a proposito di Kant.
Sulla base di ciò, la Darstellung assume in pieno la sua
importanza. Se la filosofia vuole porsi come Darstellung della
verità, essa dovrà corrispondere alla forma con cui si da la verità,
rispettandone ciò che più sopra abbiamo indicato come la sua
“trascendenza” o, che è lo stesso, la sua perdita già da sempre
avvenuta. Se questa forma non è un “possedere nella coscienza”,
ma “diretta determinazione”, la Darstellung dovrà porsi come
Umweg, come Darstellung del darsi stesso della cosa, della sua
verità, nella consapevolezza che quest’ultima non è mai
anticipabile nel sistema come forma trascendentale; la verità non
entra mai a far parte di un rapporto intenzionante. Ecco che,
allora, sulla scia di Goethe, nessun sistema di leggi va cercato
dietro il darsi dei fenomeni, nessuna verità si darà mai all’interno
di un sistema di conoscenze, ma, al contrario, ogni fenomeno è già
di per sé teoria e la Darstellung deve, quindi, porsi come
esposizione di questa, come esposizione di idee in cui salvare i
fenomeni senza volatilizzarli. Un’epistemologia riduttiva che
ponga come proprio fine la definizione a priori di strutture
universalmente valide e necessarie dell’esperienza, finisce per
ridurre la verità alla logicità del sistema di queste strutture,
sacrificando a essa l’unicità e la singolarità del fenomeno nel
momento in cui questo viene assunto, come oggetto,
nell’universalità del concetto. In altre parole il sistema sarebbe
possibile solamente presupponendo una lingua non decaduta, una
lingua divina conoscente e creatrice al contempo, al cui giudizio
non consegua un’astrazione, un infinito differire del significato,
un’irriducibile trascendenza della verità. Ecco perché, allora,
L’oggetto della conoscenza, in quanto oggetto determinato
nell’intenzione concettuale, non è la verità.185
Pensarlo come tale comporta, dunque, un irrigidimento
mitico del fenomeno, dell’apparenza. Comporta una sorta di
ripetizione del peccato originale, una hybris in cui si vuole porre

185
Ibid., p. 12.
96
come essere ciò che è solo apparenza, fenomeno. Ecco perché,
allora, Benjamin sostiene che al filosofare autentico pertiene
l’inconclusività e che nulla, in esso, possa pretendere a validità
definitiva. Il rapporto con la verità risulta essere indiretto e
mediato e la Darstellungsweise dovrà essere, quindi,
fondamentalmente allegorica e “limitarsi” non a spiegare, ma a
mostrare, nella sua forma, questa irriducibilità della verità alla
conoscenza. Ciò comporta, inoltre, il costituirsi di ogni Darstellung
filosofica come interpretazione. Infatti, come dice Benjamin nel
frammento Teologico-politico,
Solo il Messia stesso compie ogni accadere storico e precisamente
nel senso che egli soltanto redime, compie e produce la relazione fra
questo e il messianico stesso. Per questo nulla di storico può volersi da
se stesso riferire al messianico.186
La conoscenza concettuale e giudicante, dunque, la ricerca
del “che cosa”, dell’essenza, risultano in tutto il loro carattere
mitico.
La verità è un essere privo d’intenzione formato da idee. La
reazione [Verhalten] a lei conforme è, dunque, non un intendere, un
voler-dire [Meinen] nella conoscenza, ma in essa ritirare [Eingehen] e
scomparire. La verità è la morte dell’intenzione.187
Unicamente una Darstellung filosofica consapevole del
carattere allegorico della lingua, della sua condizione di colpa, del
fatto che nella lingua decaduta più nulla si comunica, si vuole-
dire, si in-tende – se non la lingua stessa – potrà corrispondere alla
forma del darsi stesso della verità. Perciò compito della filosofia e
della critica non è l'articolazione di un sistema concettuale in cui
intrappolare la verità come se venisse da fuori, ma la Darstellung
delle idee le quali « si offrono all'osservazione ». Il fatto che la
186
Id., Frammento teologico-politico, op. cit., p. 171.
187
Id., Il dramma barocco tedesco, op. cit., pp. 12-13. V’è un passo di Benjamin che, ne Il
concetto di critica nel romanticismo tedesco (p. 103), dando una definizione di critica,
recita: « Critica è la preparazione [Darstellung] del nucleo prosaico di ogni opera. Il
concetto di Darstellung è inteso qui nel senso chimico di preparazione, cioè come
produzione di una sostanza attraverso un determinato procedimento, al quale altre sostanze
vengono sottoposte ». Perciò si è scelto di rendere Verhalten, solitamente tradotto con
“comportamento”, con il significato strettamente chimico di “reazione”. Invece
sull’importanza di Eingehen nel lessico benjaminiano, cfr. p. 29 e ivi n. 66.
97
verità rinunci a un “voler dire” nella conoscenza, a un “in-
tendere”, per risolversi, invece, in essa, nella sua forma
d'esposizione, mostra la teorizzazione della ricerca filosofica
benjaminiana come vera e propria pratica artistica: messa in forma
della verità. La forma espositiva, la Darstellungsweise diviene quel
velo che, se si vuol rendere giustizia alla trascendenza della verità,
è impossibile togliere, pena la distruzione di essa o, meglio, la sua
reificazione in esattezza, giustezza.
Precisamente questo può essere il significato della favola
dell’immagine velata, a Sais, la quale, mostrata, provoca la distruzione
di colui che riteneva di poter interrogare la verità. A determinare
questo esito non è un’enigmatica crudeltà della situazione, bensì la
natura stessa della verità, al cospetto della quale anche il più puro
fuoco della ricerca si spegne, come sott’acqua.188
Qui giungiamo, a nostro avviso, al centro teorico delle
argomentazioni benjaminiane; a quella sua personale
interpretazione del platonismo che, identificando nome e idea,
giunge a una sorta di punto d’indifferenza tra realismo e
nominalismo, a una diagonalizzazione del problema sul valore
ontologico delle idee platoniche.
Dopo il frammento sopra citato, Benjamin continua così:
In quanto di ordine ideale, l’essere della verità è diverso dal
genere d’essere dei fenomeni [Erscheinungen]. Per cui, la struttura
della verità esige un essere che per la sua non intenzionalità, somigli a
quello puro e semplice delle cose, ma che questo superi per
consistenza [Bestandhaftigkeit]. Non in quanto un in-tendere [Meinen]
che troverebbe nell’empiria la sua determinazione, bensì in quanto
potenza [Gewalt] che sola imprime l’essenza di questa stessa empiria,
consiste la verità. L’essere sottratto a ogni fenomenicità, l’unico essere
a cui spetti questa potenza, è quello del nome. Esso determina la datità
[Gegebenheit] delle idee. Ma esse si danno non tanto in una lingua
originaria, quanto a un interrogare, a un percepire, a un udire
originario [Urvernehmen], nel quale le parole possiedono una nobiltà
denominativa, non perduta a vantaggio del significato conoscitivo. 189

188
Ibid., p. 13.
189
Ivi.
98
Nel nome, dunque, si da quella specifica “salvazione dei
fenomeni” che costituisce l’obiettivo della Darstellung filosofica.
Nel nome, come darsi dell’idea, Benjamin rintraccia quella
“delicata empiria”, quell’Urphänomen che, per Goethe, costituisce
la teoria che gli stessi fenomeni già sono e che conferisce loro
maggior tangibilità e perspicuità. Non, dunque, l’idea come
concetto in cui i fenomeni si risolvono integralmente, e nemmeno
come loro legge regolativa, come circoscrizione di un ambito
kantiano di validità assoluta. I fenomeni e la teoria non
costituiscono due poli opposti, ché, se così fosse, i concetti
sarebbero meri segni, meri mezzi e la filosofia si ridurrebbe a
strumento in cui nulla ne è delle cose, dei fenomeni. Riconoscere
l’essere delle cose, solamente nella misura in cui esso viene
assunto nel concetto – come proprietà di una coscienza, di un
soggetto – significa porre la realtà obiettiva alla mercé della
tirannia di questo soggetto. Significa cadere nell’inganno
demonico o, meglio, satanico – di cui s’è parlato a proposito
dell’allegorico e del Trauerspiel – dove la soggettività, al cospetto
del giudizio celeste, scopre il suo essere nulla, il suo essere vuota.
Tale gnoseologia, fondata sul dualismo metafisico soggetto-
oggetto, rappresenta ciò contro cui Benjamin punta la sua
riflessione e ciò di cui la filosofia deve sbarazzarsi, allo stesso
modo con cui l’allegoria, infine, giunge al proprio
autosmascheramento, scoprendo il suo carattere di “ciarla”. Infatti,
nonostante la lingua dell’uomo sia decaduta e impossibilitata al
recupero di una pura lingua denominante, di una lingua originaria
come quella adamitica, pure il pensiero deve porre attenzione alle
tracce delle cose che nelle parole si conservano, a quegli elementi
concreti di cui il nome costituisce il fondamento in cui radicarsi.
Perciò la filosofia tenta di corrispondere, nonostante tutto, al
compito di nominare le cose assegnato da Dio all’uomo. « Ma il
nome non è soltanto l’ultima esclamazione [Ausruf], ma anche la
vera evocazione [Anruf] della lingua », diceva Benjamin nel saggio
sulla lingua. La filosofia come nominazione diviene, allora, un ex-
vocare, un chiamare fuori ciò che, dopo la caduta, si sottrae alla
lingua, cercando di dare voce alla lingua muta delle cose. Perché

99
L’idea è un che di linguistico e, precisamente, ciò che nell’essenza
della parola è ogni volta quel momento per cui la parola è simbolo.190
Ciò che la conoscenza astratta, concettuale e giudicante ignora, è
proprio questo carattere simbolico della parola, vale a dire il suo
più o meno nascosto rimando alle cose. In quanto tale, in quanto
sapere separato, dicevamo più sopra, essa produce un infinito
differimento tra le cose e la loro espressione e invalida, dunque, la
possibilità dell'unità tra oggetto sensibile e oggetto sovrasensibile,
che costituisce il paradosso del simbolo teologico; mina, vale a
dire, la possibilità di una lingua puramente simbolica: la
paradisiaca lingua nominale di Adamo. Quest'unità infranta
depone ai piedi dell'osservatore melanconico la storia come morto
repertorio d'immagini, di segni, di frammenti e di rovine. Benjamin
ci mostra, qui, il pericolo che corre il pensatore sedotto dal sapere,
il pericolo dello sprofondamento melanconico.
Il ricercatore predispone il mondo alla sua scomposizione
nell’ambito dell’idea, e lo fa suddividendolo dall’interno in concetti.
Ciò che lo lega al filosofo è l’interesse allo spegnimento [Verlöschen]
della mera empiria, mentre il filosofo è legato all’artista dal compito
della Darstellung. Una concezione corrente ha subordinato troppo da
vicino il filosofo al ricercatore, spesso al ricercatore nelle sue forme
minori.191
La scomposizione del mondo in concetti corrisponde alla
preoccupazione del pensiero sistematico per la certezza assoluta;
certezza raggiungibile solamente nel momento in cui il particolare
viene assunto come possesso certo di una coscienza, di un
soggetto, nell’universalità di un concetto che, al contempo,
volatilizza la concretezza del particolare, che rimane lì, inerte,
come gli arnesi della vita attiva nell’incisione düreriana della
Melencolia. La filosofia, invece, seppur partecipe a questa
scomposizione dei fenomeni nei concetti – che la accomuna alla
scienza –deve porre attenzione anche al loro recupero e alla loro
configurazione, alla loro Darstellung nell’idea, avvicinandosi così
all’operare artistico.

190
Ivi.
191
Ibid., p. 9.
100
La distinzione in concetti si solleva al di sopra di ogni sospetto di
distruttiva cavillosità soltanto qualora miri a quel salvataggio dei
fenomeni nelle idee che è il platonico tà phainómena sóthein.
Attraverso il loro ruolo mediatore i concetti concedono ai fenomeni di
far parte dell’essere delle idee. E appunto questo ruolo mediatore li
rende idonei all’altro e ugualmente originario compito della filosofia:
alla Darstellung delle idee.192
Qui appare abbastanza chiaramente come le idee, la cui
datità e determinata dal nome, costituiscano la lettura
benjaminiana dell’Urphänomen goethiano. Il nome è quella
“superiore empiria” che non è né universalità astratta, né
fenomeno, al pari di questi, rintracciabile nella mera empiria e
disponibile all’intenzione conoscitiva.
Come tale, l’idea appartiene in un ambito per principio diverso da
quello in cui rientra ciò che essa coglie. Sicché, quale criterio del suo
esistere [Bestand] non si può adottare quello pertinente la questione se
essa comprenda sotto di sé ciò che ha colto, come il concetto di
genere comprende sotto di sé le specie. Poiché il compito dell’idea
non è questo. Un paragone potrà esporre il significato. Le idee si
rapportano alle cose come le costellazioni alle stelle.193
Esse non sono, dunque, né i concetti né le leggi delle cose,
ma un campo di forze entro il quale singolarità e universalità,
diventando indiscernibili, permettono al fenomeno singolo di
divenire totalità, perdendo ogni suo carattere episodico;
permettono, vale a dire, il suo salvataggio. Perciò:
Nella percezione, nell’interrogazione, nell’udibilità [Vernehmen]
empirica, nella quale le parole si sono scomposte, alle parole
appartiene, ora, accanto a un loro più o meno nascosto lato simbolico,
un palese significato profano. È compito del filosofo restituire
nuovamente, attraverso l’esposizione [Darstellung], il primato del
carattere simbolico della parola, nel quale l’idea giunge
all’autotrasparenza e che costituisce l’esatto contrario di una
comunicazione rivolta all’esterno. 194

192
Ibid., p. 10.
193
Ibid., p. 11.
194
Ibid., pp. 13-14.
101
Dunque l’idea è il momento simbolico della parola. Ma,
occorre ricordarlo, solamente nel simbolo teologico si appiana il
paradosso dell’unità tra oggetto sensibile e oggetto sovrasensibile;
solamente nella manifestazione più pura del simbolo teologico,
nella parola divina, nella rivelazione – e, dunque, nella lingua
pura adamitica come riflesso del verbo creatore divino – c’è
compiutezza, saturazione, pleroma in cui trovano coincidenza
l’idea, il nome, la cosa. Perciò una Darstellung consapevole, se
deve trattenersi dall’identificare l’oggetto della conoscenza con la
verità, non può nemmeno tentare di ricostituire quel nesso tra
nominazione e Anschauung, che permetteva alla lingua adamitica
un accesso diretto alle cose, un loro totale tradursi nel nome
puramente conoscente; pena il cadere nei paradossi di ogni
approccio mistico-intuitivo, che, come visto nel saggio sulla
lingua, non costituisce altro se non l’omologo opposto della teoria
borghese della lingua come strumento.
Questo intende Benjamin, affermando la Darstellung del
carattere simbolico della parola come il contrario di una
comunicazione verso l’esterno. Infatti continua:
Questo è possibile primariamente attraverso un rammemorare che,
unicamente, indietreggi verso una percezione, un’interrogazione,
un’udibilità originaria [Urvernehmen] – giacché la filosofia non può
arrogarsi un parlare nel senso della rivelazione. Forse l’anamnesi
platonica non è lontana da questa rammemorazione. Solamente che
non si tratta di far presenti [Vergegenwärtigung] delle immagini
all’intuizione; […]195
La Darstellung filosofica non può permettersi di avere
nostalgia dell’unità, già da sempre perduta, del simbolo teologico,
percorrendo la via di un ritorno a casa in una nuova lingua
simbolica, producendo immagini da offrire all’intuizione,
seguendo un percorso di purezza.196 Tale simbolicità costituirebbe
195
Ibid., p. 14.
196
Questo percorso ci pare sia invece quello seguito dal Kraus che emerge dal saggio
benjaminiano su di lui. Per sfuggire al demone, all’abisso mitico della separazione, che
trasforma la lingua in spoglia mortale dell’opinione, in ciarla, e che tramuta chiunque vi si
dedichi in fuggitivo, Kraus tenta una rifondazione della lingua su valori autentici, educando
all’autentico pensiero. Questa è la missione della Fackel. Nella lingua tedesca egli venera «
l’immagine della giustizia divina come lingua »; in essa « egli denuncia l’alto tradimento
102
una sintesi che, ignorando la propria impossibilità insita nella
lingua profana, sarebbe mitico irrigidimento dei fenomeni. Allora,
la filosofia deve trovare una via, una lingua, che mostri, presenti,
esponga questa impossibilità, questo suo limite immanente nella
forma stessa della Darstellung. Non purezza, quindi, ma
purificazione. Non ricerca o evocazione della cosa in sé, ma della
cosa nel linguaggio.197
Ciò che Benjamin affermava nel saggio sulla lingua con
l’esempio della lampada, diviene qui pienamente intelligibile: se la

perpetrato dal diritto contro la giustizia. Più esattamente, dal concetto contro la parola, a
cui deve la sua esistenza »; pertanto il soggetto di questa lingua diviene giudice, il luogo da
cui parla diviene tribunale e le parole sentenze cui segue l’esecuzione. La ricerca di una
lingua, dunque, capace di dire il “che cosa”, la sostanza delle cose, “ciò che è giusto”,
grazie a un soggetto che, ponendosi come sostanza, come positività, riafferma il carattere
legale, universale, assoluto della verità della lingua; di una lingua che, dunque, torna
all’origine, attraverso un percorso di purezza volto a custodire tale purezza dell’origine. In
ciò stanno sia il carattere distruttivo di tale “giustizia della lingua” di Kraus, distruttività che
pone « freno alle ambiguità costruttive del diritto »; sia, però, il carattere idealistico, di falsa
conciliazione di questa soluzione che non prende atto dell’impossibilità di un ritorno
all’origine, dell’impossibilità di una lingua perfettamente conoscente, non decaduta; « […]
che non ci sia un’emancipazione idealistica dal mito, ma solo un’emancipazione
materialistica, e che non ci sia purezza nell’origine della creatura, ma la purificazione,
questa verità ha lasciato le sue tracce nell’umanesimo radicale di Kraus soltanto tardissimo.
Solo il disperato scoprì nella citazione la forza non di custodire, ma di purificare, di
strappare dal contesto, di distruggere; la sola in cui è ancora riposta la speranza che
qualche cosa di questa epoca sopravviva –proprio perché ne è stata divelta. […] Né la
purezza né il sacrificio hanno asservito il demone; ma dove origine e distruzione si
incontrano, è la fine del suo dominio ». Anche nel saggio su Kraus si può notare
l’importanza che Benjamin conferiva alla sfera della lingua, come a quel possibile
correttivo della violenza sanguinosa insita nel mito-diritto, nel giudizio.
197
In una nota di T. W. Adorno a proposito della raccolta benjaminiana di lettere di uomini
tedeschi (Walter Benjamin, Uomini tedeschi. Una serie di lettere, con un saggio di T. W.
Adorno, trad. it. di Clara Bovero e Emilio Castellani, Adelphi, Milano 19922), troviamo
un’interessante affermazione a proposito dell’avversione di Benjamin per il simbolismo di
certa filosofia: « Poiché in una società la cui legge condanna all’astrattezza tutti i rapporti
umani non esiste più concrezione di sorta, la filosofia vorrebbe appunto, disperatamente,
evocarla, senza ingannare sull’assurdità dell’esistenza, ma anche senza dissolversi in essa.
Questo motivo si ritrova in certi movimenti degli anni Venti, come nel cosiddetto Circolo di
Patmos, quello di Hofmannsthal – il quale fu in rapporto con esso per il tramite di Florens
Christian Rang, amico di Benjamin – o anche fra i teologi dialettici e nella fenomenologia,
che pure se ne discosta tanto. Tutti i loro sforzi presumono espressamente il principio che il
singolo non sia soltanto un esemplare della sua specie, né soltanto un singolo esistente. Il
suo significato, quello per cui il singolo è più che se stesso, viene ricercato nelle
determinazioni del suo hic et nunc, non nell’ordine classificatorio. Benjamin ha seguito
quest’impulso più radicalmente di altri. Non sperava nulla dalle evocazioni; sperava la
salvezza solo da una profanità immune da cortine di vapori. » [corsivo nostro]
103
lingua comunica se stessa, se, in seguito alla caduta del puro
potere denominativo del nome v’è un ritrarsi delle cose, un loro
volatilizzarsi nell’infinito rimando dei significati,
Il linguaggio di questa lampada, per esempio, non comunica la
lampada (poiché l'essenza spirituale della lampada, in quanto
comunicabile, non è per nulla la lampada stessa), ma la lampada-del-
linguaggio, la lampada nella comunicazione, la lampada
nell'espressione.198
Questa “lampada nell’espressione” costituisce il momento
simbolico, l’idea che la filosofia deve ripristinare, arrestando la
sillogistica continuità ed evitando l’abisso della significazione:
[…] piuttosto, nella contemplazione filosofica si libera, dal nucleo
più intimo della realtà, l’idea in quanto parola che rivendica
nuovamente i suoi diritti denominativi. Ma il primo ad assumere tale
atteggiamento non è Platone, bensí Adamo, padre degli uomini in
quanto padre della filosofia. L’adamitica assegnazione dei nomi è
talmente lontana dal gioco e dall’arbitrio che, anzi, precisamente in
essa si conferma la condizione paradisiaca in quanto tale, non ancora
costretta a lottare col significato comunicativo delle parole. 199
Siamo qui in presenza di una sorta di immanenza della verità
nel linguaggio creaturale, decaduto.
In una lettera a Hugo von Hofmannsthal del 13 gennaio
1924, Benjamin scrive:
La convinzione che ogni verità ha la sua casa, il suo palazzo avito
nella lingua, che esso è costruito sui più antichi logoi, e che di fronte
alla verità così fondata le percezioni delle scienze particolari restano
subalterne, finché continuano ad arrangiarsi per così dire
vagabondando a caso nella sfera della lingua, prigioniere di quella
concezione della lingua come complesso di segni che imprime sulla
loro terminologia il carattere del più irresponsabile arbitrio. Invece la
filosofia sperimenta la più benefica efficacia di un ordine grazie al
quale le sue percezioni tendono di volta in volta verso parole
perfettamente determinate di cui la superficie incrostata nel concetto si
scioglie al contatto magnetico e rivela le forme della vita linguistica ivi
racchiusa.. Ma per lo scrittore questo rapporto significa la felicità di

198
Id., Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, op. cit., p. 55. [corsivo nostro]
199
Id., Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 14.
104
possedere, nel linguaggio che si dispiega in tal modo davanti ai suoi
occhi, la pietra di paragone della forza del suo pensiero. 200
Filosofia, dunque, non come parola che cerca di alludere, di
simboleggiare, di intuire la verità, ma come verità della parola,
verità della lingua. Il mondo decaduto, privato della garanzia di
bontà ontologica che lo contrassegnava nello stato paradisiaco,
non può più essere posseduto in un puro rapporto conoscitivo, ma
solamente essere “detto” entro i limiti della lingua; esso sta come
“vita linguistica” delle parole; perciò esse sono puro medium in
cui esporre un mondo, in cui – come ci insegna Goethe –
mostrarlo. 201
Si comprende meglio, ora, anche ciò che più sopra veniva
indicato come la “trascendenza” della verità. Al messianico
pertiene il possesso dell’essere della verità. Nel profano tale verità
“non-è” posseduta, ma, solamente, detta, nominata. Nel mondo
decaduto c’è un vero e proprio capovolgimento della condizione
paradisiaca. Se lì il “non-essere” pertiene al male, all’apparenza,
nel mondo profano il male, l’apparenza, il loro “non-essere” è
tutto ciò che c’è. Ciò che costituisce il pericolo mitico-demonico
del sapere, è l’irrigidimento di questo “ tutto ciò che c’è” in “ Tutto
ciò che c’è”, in sintesi assoluta, in Verità; il rischio che, come
dicemmo più sopra con Bergamin, ciò che ci appare come una
luce – che al cospetto del giudizio celeste è ombra, è assenza di
Dio – sia la Luce. Occorre dunque che la filosofia trovi una
Darstellung in grado di mostrare questo “tutto ciò che c’è” entro i
limiti del linguaggio decaduto. Per far ciò occorrerà una forma che
mostri al contempo il tutto e la sua “relatività”, che mostri, cioè, il
suo limite, la sua interruzione.

200
Id., Lettere 1913-1040, Einaudi, Torino 1978, p. 74.
201
Questo “dire” si configura essenzialmente come rammemorazione, come redenzione
dall’oblio, dove non si tratta però di ricordare ciò che è stato, ma “ciò che non è mai stato”, ciò
che da sempre è perduto. Perciò nel denso e bellissimo frammento dei Passages N 8, 1 – dove
troviamo una riflessione su di una lettera di Horkheimer del 16 marzo 1937 a proposito del
problema dell’icompiutezza della storia – Benjamin parla della rammemorazione come
esperienza “teologica” e della storia come forma del ricordo.
105
4.2 Bellezza della verità e forma della filosofia.
In nessun luogo appare un posto, nei compiti dei filosofi, per il
riguardo alla Darstellung. Il concetto di stile filosofico è esente da
paradossalità. 202
Stile filosofico, dunque. Cura della Darstellungsweise, della
sua apparenza. Questo carattere di apparenza della Darstellung
possiede un duplice significato. Da un lato rivela che essa – al pari
di ciò che indaga e di cui tratta – appare, ha una forma, si offre a
una percezione; dall’altro il suo carattere di apparenza deve
rammentare che anch’essa, proprio in quanto apparenza,
appartiene all’ambito della finitezza, della caducità. Perciò è la
stessa Darstellung che deve divenire messa in forma, messa in
opera della verità, rispettando il suo sottrarsi a ogni rapporto
intenzionante. Paradossale e quasi ridicolo sarebbe un sapere che
volesse porre la verità come alcunché di caduco, di finito.
L’ascolto originario, la rammemorazione del carattere simbolico
delle parole, deve dunque trasformare e dare forma alle tracce,
che, nelle parole, recano le cose in esse dileguate; in tale forma
deve riversarsi l’esigenza di rammemorazione e riconoscimento,
che il fenomeno pone alla contemplazione filosofica che fa
esperienza [Erfahrung] di esso.
Occorre però intendersi su questo concetto di forma. Essa
non ha nulla da spartire con l’inconsistenza di certo estetismo
viziato dalla ricerca dell’empatia [Einfühlung] col suo oggetto,
posseduto e goduto e trasformato in “esperienza vissuta” [Erlebnis];
empatia che dovrebbe garantire la bontà dell’evocazione intuitiva
di tale oggetto nella sua forma d’esposizione, sempre alla ricerca
del Grande Tutto, della sintesi ultima; tale impostazione non può
che arrestarsi alla superficie dei fenomeni osservati, alla mercé del
suo ingenuo naturalismo.203 Dalla parte opposta, essa non ha nulla
da condividere nemmeno con una forma arida e vuota, astratta e
inefficace, tipica di certi eccessi di formalismo condannati a

202
Id., Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 9.
203
Nella recensione a un libro di Franz Heyden sulla lirica tedesca (in Walter Benjamin,
Critiche e recensioni, trad. it. di Anna Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1979, pp. 101-3.) si
può leggere un caustico e ironico giudizio di Benjamin su tale genere di ricerche.
106
perdersi lungo le tortuose vie di un’analisi infinita, cui mai è dato
di giungere al cospetto del suo oggetto. La forma qui in questione
è tale, che nasce da una ricerca che si muove tra i fenomeni come
tra tortuose e strette viuzze, alla ricerca dei dettagli
(apparentemente) più insignificanti che le schiudono sempre nuove
vedute, trascritte come punti che tracciano via via la sua rotta,
tenendo in serbo per la fine tutta la forza del panorama che gli si
offre. L’unicità e l’eccezionalità di ogni fenomeno si danno
solamente a un amore per le cose che si trattiene dal possederle,
dallo svelarne il mistero, dal togliere il velo dell’apparenza. A una
ricerca siffatta l’insignificante dettaglio si mostra come soglia da
cui fa irruzione il senso e, dunque, tale ricerca deve nutrirsi di
filologia ed erudizione. Se nel particolare c’è rispecchiato tutto
come in una monade, ecco allora che i dettagli diventano profili
del mondo, di cui diviene possibile una lettura fisiognomica. In
questa prospettiva, filologia ed erudizione sfuggono alla sterilità e
alla pedanteria.204
Questa cura dell’apparenza, della forma della Darstellung, le
cui linee debbono disegnare la curva del battito cardiaco dei più
profondi contenuti del suo oggetto, non può non portare Benjamin
sulla soglia di un’interrogazione della bellezza nel suo nesso con
la verità e, dunque, con la conoscenza.
La comprensione nella concezione platonica del rapporto tra
verità e bellezza è non soltanto l’intento supremo di ogni ricerca di
filosofia dell’arte, ma anche un lavoro indispensabile in vista della
determinazione del concetto stesso di verità.205
Il modo d’essere delle idee, continua Benjamin, mai viene
così chiaramente in luce come nell’ambito di pensiero della teoria
delle idee; idee il cui regno è la verità. Il Simposio, ponendo la
verità come contenuto essenziale della bellezza, definisce bella la
verità.

204
Qui non approfondiremo questo aspetto. Non si può non rammentare, però, il grande
interesse per la fisiognomica sia da parte di Goethe che da parte di Benjamin.
205
Ibid., p. 7.
107
Eros – così va compresa la cosa – non diviene infedele alla sua
originaria premura quando rivolge il suo desiderare verso la verità;
poiché anche la verità è bella.206
Dunque la contemplazione filosofica, come amore per le
cose, non tradisce la sua natura di ricerca della verità volgendo la
sua contemplazione verso l’apparire dei fenomeni, verso la loro
forma, verso la bellezza. In essa si da la verità, in essa la
contemplazione filosofica coglie l’idea e la nomina. Questa non va
pensata, però, come il contenuto di una bellezza che può essere
scoperta, tolta, svelata, per permettere il pieno possesso della
verità, come oggetto di conoscenza, da parte dell’intelletto; va
pensata come rivelazione che alla verità rende giustizia. Abbiamo
già detto di come Benjamin veda l’impossibilità, per l’idea, per la
verità, di darsi nella mera empiria come oggetto da possedere
(conoscere) da parte si un soggetto. La bellezza, nel suo apparire,
fugge sempre da un rapporto intenzionante,
dando a riconoscere la sua incolpevolezza solamente là dove si
mette in salvo presso l’altare della verità. Eros segue questa fuga, non
come inseguitore-persecutore, bensì come innamorato, come amante;
in tal modo che la bellezza, per amore del suo apparire, rifugge
sempre da entrambe: l’intelletto persecutore per timore e per ansia
l’amante. E solo questo può testimoniare che la verità non è
svelamento [Enthüllung] che annienta il segreto, bensì rivelazione
[Offenbarung] che gli rende giustizia. 207
Dunque il darsi della contemplazione filosofica, il suo
apparire in una determinata Darstellungsweise, se vuole rispettare
la trascendenza della verità e rendere giustizia al suo segreto,
dovrà darsi come forma che non seduce, ma che, testimoniando,
nel suo apparire, della verità, renda conto di sé come apparenza e,
quindi, assicuri della sua caducità. Nella Darstellung filosofica qui
delineata si riaffaccia l’idea di traduzione che incontrammo nel
saggio sulla lingua. La Darstellung non dovrà misurare astratte
regioni di somiglianza ed eguaglianza, tentando di riprodurre il
“che cosa” del fenomeno nel concetto, ma dovrà tradurre, tramite

206
Ivi.
207
Ibid., pp. 7-8.
108
una continuità di trasformazioni, la lingua muta delle cose, la loro
lingua meno perfetta, il loro apparire, nella lingua più perfetta
della filosofia: nell’idea. Solamente a questo modo l’idea sarà
contemporaneamente esposta nei fenomeni e questi saranno
salvati nell’idea. Essa dovrà, in breve, « leggere ciò che non è mai
stato scritto ».
L’esempio dei cocci di un vaso, che troviamo nel saggio sulla
traduzione, diviene qui perfettamente intelligibile:
Come i cocci di un vaso, per lasciarsi riunire e ricomporre, devono
susseguirsi nei minimi dettagli, ma non perciò somigliarsi, così, invece
di farsi simile al significato dell'originale, la traduzione deve, anzi,
amorosamente, e fin nei singoli dettagli, rimodellare [anbilden] nella
propria lingua il suo modo di intendere, per rendere riconoscibili così
entrambe - come i cocci in quanto frammenti di un vaso - frammenti di
una lingua più grande. 208
Ribadiamo: se le idee non si danno mai nella mera empiria e
non possono perciò essere catturate nel rapporto di un soggetto
che intenzioni un oggetto, ma possono solamente essere inseguite
“là” dove esse stanno – come eros insegue la bellezza – parimenti
il salvataggio delle idee nella Darstellung non potrà darsi nella
mera empiria della sua forma, ma da essa venire annunciata:
La pratica di simili abbozzi descrittivi del mondo delle idee, in
modo tale che l’empirico da sé in essi prenda dimora [eingehen] e vi si
sciolga, costituisce talmente il compito del filosofo, che questi
s’innalza a un punto intermedio tra il ricercatore e l’artista.209
Si comprende ora perché Benjamin parli delle idee come
dell’oggettiva interpretazione dei fenomeni. La filosofia non ha da
essere Weltanschauung, riflesso oggettivo del mondo nella
coscienza di un soggetto che lo possiede come pensato. In tal caso
essa diverrebbe mitica e totalizzante in quanto autocostituentesi da

208
Id., Il compito del traduttore, in Id., Angelus novus, op. cit., p. 49. Due pagine prima,
nello stesso saggio, leggiamo: « Se diversamente c’è una lingua della verità, nella quale gli
ultimi segreti attorno a cui tutti i pensieri si affaticano sono custoditi privi di tensione e
persino tacitamente, questa lingua della verità è la vera lingua. E proprio questa lingua, nel
cui presentimento e descrizione sta l’unica pienezza che il filosofo può aspettarsi, è
intensivamente nascosta nelle traduzioni ».
209
Id., Il dramma barocco tedesco, op. cit., p. 9.
109
sé come sistema, come totalità chiusa e assoluta. Se la verità non
è, invece, questo possesso, allora l’idea sarà sì punto di vista –
dunque “interpretazione” – ma oggettiva. Proprio come nella
monade senza finestre ove il tutto è rispecchiato da “quel” punto
di vista.
[…] poiché anche la verità è bella. Lo è non tanto in sé quanto per
l’eros. E infatti lo stesso regna nell’amore umano: l’uomo è bello per
l’amante, mentre in sé non lo è; e precisamente perché il suo corpo si
presenta in un ordine superiore a quello del bello. Così anche la verità:
essa è bella non tanto in sé quanto per colui che la cerca. Se ciò
comporta un soffio di relativismo, la bellezza che deve inerire alla
verità non per questo diventa, neppure lontanamente, un epiteto
metaforico.210
Non vi è dualismo soggetto oggetto, in quanto l’idea sorge
dall’incontro tra il conoscente e il conosciuto. Si tratta dunque di
stimolare il fenomeno a una sorta di autoconoscenza ma non,
come nei romantici, potenziandone la coscienza,
“romantizzandolo”, dissolvendolo nell’idea, ma mortificandolo,
insediando in esso il sapere, in modo da sciogliere i suoi contenuti
cosali (le tracce delle cose di cui la rammemorazione si pone in
ascolto nelle parole) nei concetti recuperati poi nell’idea, nel
nome.211

210
Ibid., p. 9. In una piccola prosa in Strada a senso unico troviamo ripetuta la stessa
analogia tra amore umano e conoscenza: « Chi ama non trova attaccamento solo per i
“difetti” dell’amata, per i capricci e le debolezze di una donna: rughe del viso e macchie
della pelle, abiti lisi e andatura, lo avvincono ben più durevolmente e implacabilmente di
ogni bellezza. Lo si è constatato da un pezzo. E perché? Se è vera una teoria secondo cui la
sensazione non si annida nella mente, e noi percepiamo una finestra, una nuvola, un albero
non nel cervello ma piuttosto nel luogo dove li vediamo, allora anche nella contemplazione
dell’amata siamo fuori di noi. Qui, però, tormentosamente intenti e rapiti. Abbacinata, la
sensazione frulla come uno stormo di uccelli nell’alone splendente della donna. E come gli
uccelli cercano riparo nei recessi frondosi dell’albero, così le sensazioni si rifugiano nelle
grinze ombrose, nei gesti sgraziati e nelle piccole pecche del corpo amato, dove si
acquattano al sicuro. E nessuno che passi di là indovina che proprio in quei tratti difettosi,
criticabili, si annida il fulmineo impulso amoroso dello spasimante ».
211
Ci pare che un’idea simile si possa ritrovare in una recensione di Benjamin a un saggio
sui rapporti tra produzione poetica e linguaggio degli schizofrenici (in Walter Benjamin,
Critiche e recensioni, op. cit., pp. 103-4) ove possiamo leggere: « […] poiché se lo
schizofrenico fallisce, nel suo bisogno espressionistico di “cogliere l’essenza, di riprodurre
immediatamente il suo sentimento”, non è “perché la sua oggettivazione richiederebbe un
fondo spirituale e una capacità linguistica e logica che sono a disposizione soltanto del
110
Giunti a questo punto, occorre tentare una risposta a
domande che – nella forma di un’interrogazione dell’ambiguo
status dell’apparenza, dell’immagine, del loro porsi
dialetticamente tra ambito mitico-demonico e ambito della
salvezza e della redenzione – ci accompagnano dall’inizio del
nostro scritto. Se la sfera della colpa risulta fin qui sufficientemente
delineata, cercheremo ora di venire in chiaro sul carattere
salvifico-redentivo dell’apparenza.
Che significa una bellezza che seduce? perché una bellezza
che, nel suo apparire, seduce, si attira la persecuzione
dell’intelletto? e perché solamente rifugiandosi presso l’altare della
verità essa può mostrare il suo carattere di non colpevolezza? Il
saggio sulle affinità elettive di Goethe ci fornirà il punto da cui
partire.212
Anche le acque, come l’elemento tellurico, sono sotto il segno di
questa forza. Ma il lago smentisce la sua natura funesta sotto la morta
superficie del suo specchio. Del « destino demonico che regna attorno
al lago artificiale » parla significativamente una vecchia critica.
L’acqua, come elemento caotico della vita, non minaccia qui in onde
selvagge che recano all’uomo la morte, ma nella quiete enigmatica che
lo fa andare a fondo. E a fondo vanno gli amanti nella misura in cui

poeta e filosofo geniale”, ma perché questa oggettivazione è già stata compiuta


collettivamente dal linguaggio stesso […] »; compiuta, potremmo aggiungere – citando il
Benjamin del saggio sulla sociologia del linguaggio – dal carattere di espressione che è
immanente al linguaggio, dalle sue forze fisiognomiche. [corsivi nostri]
212
Il saggio Goethes Wahlverwandtschaften apparve per la prima volta nella primavera del
1924 sui Neue Deutsche Beiträge diretti da H. von Hofmannsthal. Numerosi accenni a esso
si ritrovano nell’epistolario benjaminiano. Tramite essi, i curatori delle GS ne datano la
composizione tra la fine del 1921 e l’estate del 1922. Ciò significa che la sua stesura, in
parte contemporanea a quella del TP – consegnato nel marzo del 1925 ma, come recitava la
dedica alla prima edizione Rowohlt del 1928, abbozzato nel 1916 – fu il luogo ove
Benjamin sviluppò quelle riflessioni sulla bellezza e sulla conoscenza, che, poi, si
depositarono nella Premessa al TP. Egli stesso, in una lettera del 1921, dice di esso; « […]
per me è altrettanto importante come critica esemplare quanto come lavoro preparatorio di
analisi puramente filosofiche. » In questa costellazione entrano anche il saggio sulla
violenza, composto tra 1920 e 1921; quello su destino e carattere, composto sul finire del
1919; quello sul compito del traduttore del 1921; probabilmente il frammento teologico-
politico, che alcuni datano al 1920-21; il saggio su Calderón e Hebbel del 1923 (apparso
ora per la prima volta in italiano nel II volume della nuova edizione delle opere di
Benjamin in corso presso l’editore Einaudi, in cui inspiegabilmente non appare alcuna
notizia bibliografica) e, naturalmente, la tesi di laurea sul concetto di critica nel
romanticismo tedesco del 1919.
111
regna il destino. […] Li vediamo attirati alla lettera dalla sua antica
potenza.213
Nell’immagine del lago artificiale, che domina il paesaggio
del romanzo goethiano, viene chiaramente in luce il carattere
mitico-demonico e seducente di una bellezza quieta e armoniosa.
La piatta e apparentemente rassicurante bellezza di queste acque
immobili dissimula la presenza, nei suoi fondali, di forze
sovrumane che minacciano l’esistenza attirandola a sé. In essa le
potenze mitiche del diritto, con il loro portato di violenza
disgregante e di potere contrario alla vita, si occultano nella forma
conchiusa di questa bellezza, che non si mostra come centro di
forze vitali.
I personaggi del romanzo, specchiandosi nelle morte acque
del lago, si rivelano inconsapevolmente e completamente in balia
di queste forze istintuali e disgreganti, di natura erotico-demonica;
i loro gesti e le loro azioni – in una parola: il loro destino – si
dipanano in conformità con la legge di questo fondo mitico della
natura. Tale legge ha nome Wahlverwandtschaften, affinità
elettive, ed esercita su di loro la sua carica seduttiva. A tale legge,
che costituisce il motore interno del romanzo, obbedisce quella
sorta di chiasmo interrotto e imperfetto tra le due coppie
protagoniste.
Ma essi stanno al riparo, al vertice della cultura, dalle forze che
essa pretende di avere dominato, anche se, ogni volta, deve rivelarsi
impotente a sottometterle. 214
Benjamin non lo dice esplicitamente, ma in quel “vertice
della cultura” noi individuiamo quella parodia del giudizio divino
che è il giudizio umano, la lingua decaduta dell’uomo, la ciarla
impotente nell’arginare le forze mitiche fuoriuscite da quella
quinta Sefirà, Gevurà o Din – potenza divina che si manifesta
soprattutto come potenza giudicante e punitiva – in seguito al

213
Id., Le affinità elettive di Goethe, op. cit., p. 187.
214
Ibid., p. 188.
112
peccato originale. 215 Ciò trova conferma in quel che Benjamin
scrive subito dopo:
È rimasto loro il senso del decoro, ma hanno perso quello di ciò
che è etico [Sittliche]. Non è qui inteso un giudizio sul loro agire,
bensì uno sulla loro lingua. Poiché senzienti ma sordi, veggenti ma
muti, vanno per la loro via. Sordi verso Dio e muti verso il mondo.216
Mai come qui la lingua si mostra in tutta la sua impotenza:
essa è muta, incapace di nominare un mondo, in quanto sorda
verso Dio e, quindi, incapace di porsi in quella condizione di
udibilità originaria [Urvernehmen], in grado di cogliere la debole
eco della creazione nel mutismo della natura decaduta. La sfera
acustica – che pertiene alla Rivelazione, alla verità, a quel “che di
linguistico” che costituisce l’idea – è a loro interdetta al punto tale,
che il loro mondo, immerso in una “luce opaca d’eclissi solare”,
corre incontro a una dissoluzione ove “tutto ciò che è umano
diviene apparenza, e solo il mitico rimane come essenza”.
Proprio il mitico come essenza caratterizza esattamente il
carattere demonico della bellezza seducente; una bellezza che
provoca e che spinge al possesso come suo compimento; un
compimento che è esaurimento e oblio, un compimento che è
soltanto conciliazione apparente e falso movimento in un tempo
mitico. Se tutto ciò che è bello ha a che fare con l’apparenza e se
tutto ciò che appare ha a che fare con la bellezza, bellezza
demonica sarà quella che reclama per sé un carattere di essenza,
ritirandosi, dunque, completamente nel suo apparire come sua
essenza. L’apparire della bellezza che, cosiffatta, si esaurisce in se
stessa e si autoglorifica come totalità eterna e assoluta, sarà in
realtà totalità falsa e bugiarda perché immemore della sua
integrale caducità; sarà, in altre parole, bellezza nefasta, che si
costituisce come centro da cui irradiano potenze di morte, potenze
contrarie alla vita, potenze che destinano i personaggi del
romanzo a una vita che ha un che di spettrale.

215
Oltre che, probabilmente, una velata allusione alle oscure forze che, al vertice della civilissima
Europa, iniziavano ad agitarne le acque.
216
Ivi.
113
Tale è la bellezza di Ottilia in cui si perde Edoardo.
L’elemento luminoso della sua bellezza rivela il suo carattere
mitico; esso è la luce ingannevole che si specchia nelle calme
acque del lago. L’ambigua incolpevolezza, che caratterizza la
bellezza di Ottilia, nasconde in realtà la soglia per entrare nel
mondo delle potenze mitiche che governano il romanzo, nel
mondo della colpa.
L’impressione favorevole che essa suscita « deriva solo dal suo
apparire […] » […] Essa è chiusa in sé – che più tutto il suo fare e il
suo dire non riesce a toglierla a questa chiusura. Vegetale silenzio […]
grava sulla sua vita e l’oscura anche nei momenti supremi, che
generalmente illuminano quella di tutti.217
Questo mutismo è il segno che nulla vi è di morale nello
svolgersi della sua vicenda, come nulla vi è di morale nella sua
bellezza e nemmeno nella sua decisione di morire, che
[…] non solo rimane nascosta fino all’ultimo agli amici, ma
sembra formarsi, in tutta la sua segretezza, in modo incomprensibile
anche per lei. 218
Tutto accade sotto l’egida della legge senza nome del
destino, cui solamente la decisione, con il suo assumere forma
linguistica, potrebbe sottrarre; infatti
[…] nella decisione il mondo morale è illuminato dallo spirito
linguistico.219
Ma questi personaggi, come già visto, sono muti; nessun
carattere, nel senso pieno della parola, appare in essi e nessuna
forza, che sia veramente vitale e non mitica, appartiene loro.
Perciò
Con questo silenzio s’è insediata, ardente [verzehrend], nel cuore
dell’indole più nobile, l’apparenza.220
Nell’ambito dell’apparenza, nel destino, nella colpa, la
salvezza è continuamente minacciata dalle forze mitiche del

217
Ibid., p. 231-29
218
Ibid., p. 228.
219
Ivi. Sul valore della decisione cfr. p. 61, n. 154.
220
Ibid., p. 230.
114
diritto. Nel corrispondere di Edoardo all’attrazione fatale della
bellezza di Ottilia, questa bellezza dominata dall’apparenza trova
la sua conferma come “il primo e l’essenziale”. Nessuno mondo e
nessuna storia, nessun ricordo sussiste nella bellezza di Ottilia. In
questo suo irrigidirsi, in questa riduzione della storia a natura, in
questo “eterno ritorno dell’identico” sta il segno del dominio del
destino. Perché
[…] la bellezza sopravvive a se stessa come rammemorazione,
così, anche nel fiorire, senza di essa è inessenziale.221
Solamente una bellezza in cui v’è rammemorazione può
essere salvifica, perché solo deponendosi nella verità, come
fondamento del suo apparire, essa raggiunge il suo compimento:
l’amore.
Decisiva, per chi veramente ama, non è la bellezza dell’amato.
Anche se fu quella ad attirarli dapprima l’un verso l’altro, essi
torneranno continuamente a dimenticarla in nome di altre e maggiori
meraviglie, anche se per ritrovarla continuamente, e fino alla fine,
interiorizzata nel ricordo. Diversamente la passione. Anche la più
labile eclissi della bellezza la fa disperare. Poiché solo per l’amore la
bella è il bene più caro: per la passione lo è sempre la più bella.222
La più bella, la bellezza che fa della bellezza la sua essenza,
la bellezza mitica è quella totalità che l’intelletto persegue, nella
speranza di un appagamento in essa, di una conciliazione, che, in
realtà, si scopre mera apparenza e maschera, in quanto tale, di un
continuo tradimento.223
D’altro canto ciò significa che la bellezza, rendendo conto
di se stessa deponendo la sua apparenza nella verità, depone
anche il suo carattere per così dire luminoso, testimoniando della
sua caducità. La sua apparenza subisce una sorta di scossa, di
incrinatura, di interruzione in virtù della quale, solamente, essa

221
Ibid., p. 231.
222
Ibid., p. 238.
223
Si illumina, qui, quella “sillogistica continuità priva di lacune”, che è il solo modo con
cui la logica sistematica riesce a pensare la verità, di cui Benjamin parla nella Premessa al
TP ; quella dialettica priva di sospensione, che trasforma ogni piena singolarità in
strumento, in tappa evanescente di un cammino inarrestabile verso la totalità, nella quale la
sua volontà di potenza crede di possedere la verità.
115
riceve il suo valore di verità. Questa sospensione è il privo
d’espressione [Ausdruckslose]. Il privo d’espressione, dunque,
come motore dell’amore considerato non come apparente e mitica
conciliazione (il matrimonio), ma come carattere distruttivo che,
annientando il carattere di mera apparenza della bellezza, la
ritrova salvata nella luce della verità, ove giunge al suo
compimento al di fuori della totalità falsa, ormai ridotta in pezzi.
Tale annientamento non ha nulla ha che fare con il sacrificio che
sempre domina l’ambito mitico del destino. In quest'ultimo ogni
provocazione lanciata dalla bellezza apparente, con la sua forza
seduttiva, verso l'ambito del diritto visto come il luogo della
(apparente) conciliazione delle forze mitiche (nel romanzo
goethiano: il matrimonio) è destinata allo scacco, al sacrificio di
sé, punita col castigo, mostrando in questo modo la sua infinita
distanza dalla salvezza. Come Odisseo, nell’Ade, deve nutrire di
sangue fresco le indistinte apparizioni delle anime di coloro cui
vuole sentire la voce, così l’esangue apparenza della mera
bellezza, installatasi a “primo ed essenziale”, deve nutrire le
passioni che provoca con le vite di coloro su cui esercita il suo
mitico e violento potere, destinandole a dissolversi nel nulla.
Nel romanzo di Goethe, dunque, Benjamin vede una sorta di
rappresentazione allegorica dell’incapacità e dell’impossibilità, per
la bellezza apparente, mitica e seducente, per la bellezza come
totalità assoluta, di spezzare il cerchio colpevole del destino e di
testimoniare della verità, assumendo su di sé, sulla propria
precarietà, il peso della salvezza. Dalla dissoluzione del
matrimonio – come istituzione giuridica, come luogo in cui il
diritto attua la sua (apparente) conciliazione e il suo ordine
(apparente), arginando entro i suoi confini, ma in realtà irrigidendo
e dunque annientando, le forze vitali di natura demonico-erotica e
come luogo da cui sorge il castigo nei confronti di ogni
provocazione – da tale dissoluzione, indotta dall’apparizione di
Ottilia, cioè della mera bellezza col suo portato di seduzione,
fuoriescono quelle forze mitiche che, punendo i personaggi per
tale dissoluzione, riconfermano il matrimonio come sorte, come
destino.

116
Nel muto imbarazzo che trattiene questi esseri nell’ambito della
costumatezza umana, anzi borghese, e spera di salvare in essi la vita
della passione, è l’oscuro fallo che esige un’oscura pena. Essi cercano,
in fondo, di sfuggire al verdetto del diritto, che ha ancora autorità su di
loro. Se, in apparenza, la loro nobiltà li esenta dalla sua legge, in
realtà possono essere salvati solo dal sacrificio. Perciò essi non
ottengono la pace che dovrebbe essere garantita loro da quell’armonia;
[…] Mentre l’amore guida i riconciliati, rimane agli altri, come
apparenza di conciliazione, solo la bellezza.224
Ben altra e salvifica bellezza, di contro a questa nefasta, è
possibile per Benjamin. Essa, s’è già accennato, trova il suo luogo
nell’Ausdruckslose. A essa deve mirare la Darstellung, se vuole
corrispondere al suo compito di testimonianza della verità.
L’Ausdruckslose costituisce l’obiezione che incanta il falso
movimento della conciliazione apparente, che impone un freno
all’apparenza e che mortifica la sua armonia nell’espressione. 225 In
questo immortalarsi il bello deve rispondere di se stesso e, in
questa assunzione di responsabilità, esso si mostra come interrotto;
proprio in grazia di questa interruzione esso acquista l’eternità del
suo contenuto, la verità, che balena così nell’attimo in esso, senza
a esso mescolarsi.
L'Ausdruckslose è la violenza critica [kritische Gewalt] che,
nell’arte, se certamente non è in grado di separare l’apparenza
dall’essenza, vieta però loro di mescolarsi. Esso acquista questa
potenza [Gewalt] in quanto parola morale. Nell’Ausdruckslose appare
la sublime potenza del vero, che decreta, secondo le leggi del mondo
morale, la lingua di quello effettivo, reale [wirklichen]. Vale a dire che
esso frantuma tutto ciò che nella bella apparenza sopravvive come

224
Ibid., p. 237-28. Di sfuggita: questa situazione impedisce di interpretare il romanzo
come tragico e come tragica la fine dei personaggi. Nella tragedia si assiste alla rottura del
cerchio mitico del destino, nella forma di una decisione dell’eroe di interrogare il destino,
di chiedere conto di esso. Questa decisione provoca il sorgere di un ethos, seppure nella
forma paradossale del silenzio dell’eroe. Questa rottura è talmente forte, che ad essa
Benjamin e il suo amico Rang attribuiscono addirittura la forma aperta, di emiciclo, del
teatro sede di rappresentazione delle tragedie, di contro alla forma chiusa e circolare del
circo.
225
Il testo tedesco riporta Einspruch, vale a dire obiezione, reclamo, di cui occorre qui
tenere presente anche il significato tecnico-giuridico di “ricorso”, vista la connessione che
Benjamin traccia tra il mito e il diritto.
117
eredità del caos: la falsa, errata [irrende] totalità – la totalità
assoluta.226
Questa violenza critica si mostra così come l’assolutamente
altro da quell’incantesimo [Beschwörung] che, nella mera bellezza
apparente, intende essere il pendant negativo della creazione.
Come quest’ultima, l’incanto della bellezza apparente sostiene di
suscitare il mondo dal nulla; ma, come visto nel saggio sulla
lingua, solamente al verbo creatore divino è data tale potenza,
mentre la lingua degli uomini provoca la cacciata dall’Eden,
proprio nel momento in cui pretende di appropriarsi, come
giudizio, di tale potenza. Perciò la totalità del mondo, che
l’incanto della bella apparenza afferma di suscitare dal nulla, si
rivela, infine, come il nulla di quel mondo, come la sua falsità e la
sua apparente riconciliazione, come quel fine per il cui
perseguimento ogni mezzo diviene lecito. Né incanto né creazione
appartengono all’arte e alla lingua. L’Ausdruckslose – categoria
della lingua e dell’arte, non dell’opera o dei generi, scrive
Benjamin – è la forza [Gewalt] che permette di testimoniare della
verità rispettando la sua trascendenza. Nell’Ausdruckslose ciò che
è esposto è la verità stessa, resa conoscibile, però, non in se stessa
(il che è impossibile) ma nel medio stesso del suo apparire, cioè
nell’apparenza, nella sua caducità rivelata, senza che le due si
mescolino ed evitando, dunque, che l’apparenza si tramuti in
totalità e si affermi come verità. In esso l’apparenza, dunque la
bellezza, ponendosi all’ascolto della verità, testimonia del suo
essere “solo” apparenza e, in quanto tale, riceve il suo valore.
Perciò qui nessun sangue e nessun sacrificio è necessario per
nutrire l’esangue spettralità del mondo suscitato dalla bella
apparenza.
L’Ausdruckslose si pone a tal punto, quindi, come violenza
non mitica, bensì salvifico-messianica, da costituire la sfera della
lingua (e dell’arte) come quell’ambito in cui solo è possibile
pensare un mezzo (nel senso di medium) puro, vale a dire un
mezzo che non sia preordinato a un fine. Quel mezzo puro che,

226
Ibid., p. 234. Cfr Novalis «…nell’opera d’arte il caos deve rilucere attraverso il velo
dell’ordine.».
118
nel saggio sulla violenza, Benjamin indica come l’unico correttivo
alla violenza mitica del diritto.
Ciò significa che c’è una sfera di intesa [Übereinkunft] umana a tal
punto priva di violenza [gewaltlose], da essere completamente
inaccessibile alla violenza: la vera e propria sfera dell’intendersi
[Verständigung], la lingua.227
Ma come si definisce L’Ausdruckslose?
L’Ausdruckslose non si può definire più rigorosamente che
mediante un passo delle annotazioni di Hölderlin all’Edipo, che non
pare sia stato compreso ancora nella sua fondamentale importanza –
oltre la teoria della tragedia – per quella dell’arte in generale. Il passo
suona: « Il trasporto tragico è propriamente vuoto e il più sfrenato.
Perciò nella successione ritmica delle rappresentazioni [Vorstellungen],
in cui si espone il trasporto, diventa necessaria quella che si dice nel
metro cesura, la pura parola, l’interruzione antiritmica, per venire
incontro, al suo culmine, alla incalzante cambiamento delle
rappresentazioni [Vorstellungen], onde appaia così, non più questo
avvicendarsi, delle rappresentazioni [Vorstellungen], ma la
rappresentazione [Vorstellung] stessa ».228
Cesura, dunque, interruzione, ciò che in seguito Benjamin
chiamerà “dialettica in stato di quiete” è l’Ausdruckslose. In questa
cesura, ove l’apparenza abbandona il bello, quest’ultimo cessa di
essere essenzialmente bello per divenire infinitamente
inapparente, per divenire segreto [Geheimnis]. Nel segreto la
bellezza “interrotta” testimonia della verità; nel segreto, vale a dire
nella bellezza infinitamente inapparente, la verità si espone come
conoscibile nel mezzo (medium) del suo apparire: nella pura
parola, nella lingua creaturale. La conoscenza di esso, del segreto,
come tale, è il compito della filosofia come della critica.
Se per Hölderlin la cesura costituiva quel mezzo puro,
sganciato da ogni finalità esterna, con cui la poesia avrebbe
dovuto divenire mechané, cioè qualcosa di calcolabile,
insegnabile e ripetibile in maniera affidabile, in Benjamin
l’Ausdruckslose diviene tale mechané, tale macchinazione
salvifica che unisce la filosofia e la critica all’arte, nel loro comune

227
Id., Per la critica della violenza, op. cit., p. 18.
228
Id., Le affinità elettive di Goethe, op. cit., p.234
119
carattere salvifico. Nell’Ausdruckslose si da quella totale morte
dell’intenzione che, nella Premessa al TRAUERSPIEL, Benjamin
pone come carattere del darsi della verità. In altre parole
nell’Ausdruckslose, come categoria della lingua e dell’arte,
avviene quel salvataggio della singolarità dei fenomeni nell’idea
che è, al contempo, Darstellung delle idee.
Nell’Ausdruckslose, come mechané salvifica che opera nella
Darstellung filosofica, assistiamo a una dialettica in stato di quiete,
ovverosia non falsamente conciliata, tra l’infinitamente
inapparente – cioè la bellezza che ha deposto la sua apparenza
testimoniando della verità – come il più proprio della Darstellung,
come ciò che essa vuole salvare, e il suo configurarsi, allo stesso
tempo, come il suo più improprio, come ciò che sempre sfugge
alla sua intenzione, come ciò che mai si darà in essa come mero
oggetto di conoscenza o come intuizione di immagini, come
rappresentazione. Questa dialettica proprio-improprio è
esattamente ciò che impone alla Darstellung il suo carattere di
Umweg, di costante ripresa da capo e di circostanziato ritorno alla
cosa stessa. In quanto Umweg, si preserva dal rischio di chiudersi
in totalità mitica – rendendosi immemore della sua integrale
caducità di lingua degli uomini – per caratterizzarsi, invece, come
allegoria, come affermazione della finitezza in cui, solamente,
trovare una salvezza.
Questa interruzione, questa via indiretta, che mostra senza
timore la separazione totale e assoluta tra messianico e profano,
tra verità e apparenza, costituisce il radicale tentativo
benjaminiano di uscire dall’ambito mitico del destino, del contesto
colpevole di ciò che vive, con una sorta di rovesciamento del
negativo in positivo, simile, ci pare, a quella potenza del falso di
cui ci parla Deleuze.
Bonificare territori su cui è cresciuta finora solo la follia.
Penetrarvi con l'ascia affilata della ragione, e senza guardare né a
destra né a sinistra, per non cadere preda dell'orrore che adesca dal
fondo della foresta. Ogni terreno ha dovuto, una volta, essere

120
dissodato dalla ragione, ripulito dalla sterpaglia della follia e del mito.
[…]229
Perciò il suo nichilismo è messianico, trova speranza nella
disperazione, ricchezza nella povertà e costruzione nella
distruzione; consiste nel tentativo di dare superiore concretezza ai
singoli avvenimenti, ai singoli fenomeni, ai singoli individui, alle
singole opere, scardinandoli dalla condizione metafisica che li
vede, altrimenti, come meri momenti in vista del tutto, come mere
astrazioni di fronte al tutto; un tentativo di leggere in positivo il
frammento di Anassimandro, cioè la finitezza del mondo, al di là
di tentativi nostalgici di ricostruzione dell’unità perduta. È un
tentativo paradossale di colorare l’esperienza teologica con le
sfumature di un pensiero laico e disincantato, che assume
radicalmente la propria finitezza. Finitudine in cui, solo, possono
aprirsi infinite possibilità non irrigidite sotto il dominio
dell’identico. Finitezza cui possiamo lasciare l’onere e l’onore di
un commento all’enigmatica, ma allo stesso tempo chiarissima,
chiusa del saggio sulle affinità elettive:
Solo per amore di chi è privo di speranza, ci è data la speranza.230

229
Id., Parigi capitale del XIX secolo. I passages di Parigi, op. cit., fr. 1, 4.
230
Id., Le affinità elettive di Goethe, op. cit., p. 254.
121
122
NOTA SULLA TESI DI LAUREA DI WALTER BONAVENTURA

I “prolegomeni” di cui è questione nella tesi di Walter


Bonaventura vanno intesi nel senso forte che il termine ha
nell’uso kantiano: non si tratta tanto di un’esposizione
propedeutica o comunque generica del concetto di apparenza in
Benjamin, quanto piuttosto di un tentativo di identificare il luogo
logico e i fondamenti speculativi che definiscono e rendono
possibile una teoria dell’apparenza nel pensiero di Benjamin.
Le tre parti che compongono la tesi rispondono
esemplarmente a questa esigenza. Nella prima, l'analisi del
concetto di Urphänomen in Goethe definisce subito la posta in
gioco nell'apparenza benjaminiana: come, in Goethe, non si deve
cercare nulla dietro i fenomeni, perché essi stessi sono la teoria,
così, in Benjamin, la teoria dell'apparenza non rimanda a
un’origine atemporale o a un’essenza nascosta, ma è, nelle parole
di Benjamin, “una trasposizione del concetto goethiano dal
campo della natura a quello della storia”.
Nella seconda parte, i prolegomeni sono indagati attraverso
una acuta lettura del saggio benjaminiano Sulla lingua in generale
e sulla lingua degli uomini, che definisce i rapporti fra il concetto
di apparenza e quelli di mito, diritto e giudizio.
Nella terza, infine, che è la più ricca e articolata, una
puntuale lettura del Trauerspielbuch, la concezione barocca
dellìallegoria e l’idea benjaminiana di una Darstellung filosofica
s’intrecciano per definire il compito che Benjamin assegna alla
filosofia: non la conoscenza, ma la salvazione delle apparenze.
Ed e qui che si situa il nucleo più interessante della tesi, che
costituisce senz’altro un contributo originale alla ormai
sterminata bibliografia benjaminiana: secondo Bonaventura,
Benjamin concepisce l’esposizione filosofica come un compito
non cognitivo, ma, per cosi dire, “artistico”, in cui viene
rappresentato lo stesso scarto che separa verità e conoscenza. E,
forse, le pagine più belle della tesi sono quelle conclusive,
dedicate all’analisi del concetto di Ausdruckslose, del privo di
espressione, che è, per Benjamin, la categoria suprema del

123
linguaggio e dell’arte, e nella quale, come Bonaventura riesce a
mostrare con chiarezza e perizia esegetica, apparenza e bellezza
si separano e l’esposizione filosofica rivela il suo necessario
carattere di Umweg, deviazione. In questo senso, uno dei meriti
non trascurabili della tesi di Bonaventura è che, attraverso la sua
ricostruzione della teoria benjaminiana della Darstellung, essa
finisce col dare in qualche modo una vera e propria definizione
dello stile di Benjamin.

Giorgio Agamben

124
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Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet, Mito e tragedia
due. Da Edipo a Dioniso, Einaudi, Torino 1991.
Aby Warburg, La rinascita del paganesimo antico, trad. it. di
Emma Cantimori, introduzione di Gertrud Bing , La nuova Italia,
Firenze 1966.
Simone Weil, Sulla Germania totalitaria, a cura di Giancarlo
Gaeta, Adelphi, Milano 1990.
Richard Wilson, La bibbia. Versione 5.11, software per la
lettura e l’interrogazione del testo biblico, scaricabile
gratuitamente dal sito http://www.lombardia.com/bibbia. Le
versioni ivi consultate sono: Nuova riveduta sui testi originali, a
cura della Società biblica di Ginevra 1995 2; Nuova Diodati,
edizione La Buona Novella, Brindisi Revisione 1991; C.E.I.
(Gerusalemme), a cura della Conferenza Episcopale Italiana,
19742; Versione riveduta, in testo originale dal Dott. Giovanni
Luzzi, già Prof. alla Facoltà Teologica Valdese di Roma, Stampata
dalla Società Biblica Britannica & Forestiera; Diodati; Nuovo
Testamento in greco, testo dell'United Bible Societies (terza e

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quarta edizione); Antico Testamento in ebraico, testo
consonantale secondo il manoscritto di Leningrado MS.B19A.
Conforme al testo pubblicato in Biblia Hebraica, terza edizione,
redatto da Rudolf Kittel e Paul Kahle, 1937, Württembergische
Bibelanstalt, Stuttgart; versione Luther del 1994 in lingua tedesca.
Materiali inediti dagli appunti dei corsi dei Professori:
Giorgio Agamben, Giulio Antonello, Paolo Gambazzi.

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modo 2.5 Italia License

INFO:
Walter Boanventura – agesilaus@tiscalinet.it

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