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Note su La misteriosa fiamma della Regina Loana

Marco Trainito

1. Un romanzo illustrato sulla memoria collettiva

La grande novità del quinto romanzo di Umberto Eco (La misteriosa


fiamma della Regina Loana, Milano, Bompiani, giugno 2004) è costituita
dal fatto che esso è riccamente illustrato con immagini di ogni tipo (fumetti,
manifesti, locandine, francobolli, copertine di libri, calendari illustrati,
dischi, pacchi di sigarette, ecc.), risalenti in gran parte al periodo fascista e
usate dal protagonista per ritrovare la memoria perduta attraverso le ‘icone’
della cultura di massa che hanno popolato la sua fantasia durante l’infanzia
(la stessa Regina Loana del titolo viene da un episodio delle avventure di
Cino e Franco, un fumetto degli anni Trenta: cfr. p. 249).
Come tutti i precedenti romanzi di Eco, anche questo è intessuto di
citazioni più o meno esplicite. Nella prima pagina, per esempio, in cui il
lettore è subito immerso in un’atmosfera di nebbiosa e sognante amnesia
(quella del protagonista), si può trovare subito un riferimento a Bruges la
morta (1892) di Georges Rodenbach, e poi, a fondo pagina, al Gordon Pym
di Poe (ma già il titolo del primo capitolo, “Il più crudele dei mesi”,
riprende la celebre definizione del mese di aprile contenuta nel primo verso
de La terra desolata di Eliot. E anche i titoli degli altri 17 capitoli sono
citazioni o riferimenti vari). Nella seconda entrano in scena, tra gli altri,
D’Annunzio, Pavese, Simenon, Conan Doyle, Agatha Chtistie, ancora Poe,
poi Kafka, Dumas, ecc.
Lo stratagemma usato questa volta da Eco per riempire il libro di
citazioni più o meno colte (si va, per intenderci, dal Paradiso di Dante alla
canzonetta Pippo non lo sa, attraversando così tutto lo spettro enciclopedico
della cultura) è ben preciso. Il protagonista, il libraio antiquario
Giambattista Bodoni (nato alla fine del 1931, quindi coetaneo dell’autore,
nonché omonimo del celebre tipografo - vissuto tra il 1740 e il 1813 - che
modernizzò, semplificandoli, i caratteri di stampa), detto Yambo, dallo
pseudonimo dello scrittore di libri illustrati per l’infanzia Enrico Novelli
(1876-1945), a causa di «come dire, un incidente» (p. 11) capitatogli
nell’aprile del 1991, ha perso una parte della sua memoria a lungo termine, e
in particolare la cosiddetta memoria “episodica” (che comprende i ricordi
della propria vita e quelli delle cose e delle persone conosciute), mentre la
sua cosiddetta memoria “semantica”, quella cioè relativa alla conoscenza
linguistica e ‘da enciclopedia’ del mondo, è rimasta intatta. In questo modo
egli non sa più nulla di sé, del proprio passato e dei propri familiari, ma

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ricorda perfettamente tutto ciò che ha letto o solo sentito dire (e il lettore
scoprirà quanto vaste e varie siano le sue letture). Ecco perché gli affiorano
continuamente alla mente brandelli di un sapere scolastico e popolare, per
cui, ad esempio, se il medico gli chiede di sua madre, Yambo risponde col
luogo comune «Di mamma ce n’è una sola, la mamma è sempre la
mamma», e se gli chiede se gli piace il tè, risponde dannunzianamente (ma
già D’Annunzio citava il motto che è ripetuto nel soffitto del Palazzo
Ducale di Mantova) «Forse che sì forse che no» (cfr. p. 17). Ed ecco perché
in apertura, quando il protagonista si risveglia in stato di parziale “amnesia
retrograda” (p. 11) e si sente sospeso in un sognante “grigio lattiginoso” (p.
7) che assomiglia alla nebbia, abbiamo quella delirante carrellata di citazioni
letterarie sulla nebbia: non è altro che la memoria culturale di Yambo che
vortica confusamente senza alcuna possibilità di agganciarsi ordinatamente
all’autocoscienza storica e presente dell’Io in cui tutto questo accade.
E così Yambo, dietro suggerimento della moglie, si dovrà recare
nella vecchia casa di famiglia di Solara, situata nella campagna a confine tra
Langhe e Monferrato, nella cui soffitta troverà l’immenso deposito fisico
della sua “memoria di carta”, finché un nuovo “colpo”, dovuto all’emozione
per aver trovato tra le cose del nonno (un non molto esperto collezionista e
venditore di vecchi libri e riviste) una copia del rarissimo in-folio del 1623
delle opere di Shakespeare, non gli farà riacquistare la memoria. Ma a
questo punto, per tragica ironia, egli è immobilizzato da una sorta di coma
cosciente e irreversibile, sicché non può far altro che attendere la morte e
andare alla ricerca di sé e del tempo perduto ripercorrendo convulsamente le
tappe fondamentali della sua infanzia, segnata da un tragico fatto di sangue
accaduto durante la Resistenza e da un quasi-cyraniano amore liceale per
una ragazza, Lila Saba, poi emigrata e morta a 18 anni in Brasile ma da lui
cercata invano per il resto della vita nei volti di tutte le altre donne amate,
dalla moglie Paola a Sibilla, la sua bella e giovane segretaria polacca. E lo
stesso estremo tentativo di rivolgersi a una “divinità privata”,
quell’idealizzata Regina Loana dei fumetti «custode della fiamma della
resurrezione» (p. 416), per ottenere il ritorno se non del corpo almeno
dell’immagine mnesica del volto di Lila, si rivelerà vano. Yambo vedrà il
centro del suo Aleph, dal quale traluce non la totalità delle cose, come in
Borges, ma lo “zibaldone” (p. 417) disordinatissimo dei suoi ricordi,
popolato dai fantasmi iconici ed ecoici impazziti delle sue letture e dei suoi
miti cultural-popolari; e “al fine di questa radiosa apocalisse” (p. 440), al
fondo di tale vortice pirotecnico ed estenuante (accompagnato nel testo da
bellissime elaborazioni d’autore di tavole di fumetti e illustrazioni varie)
non scorgerà il luminoso volto amato da ragazzo, come sperava, ma il sole
nero della morte.
Tra i molti ricordi d’infanzia autobiografici che Eco regala a Yambo
(letture, momenti della Resistenza, ecc.), due meritano particolare
attenzione, perché ad essi egli aveva dedicato una “Bustina di Minerva” a

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testa all'inizio degli anni Novanta: si tratta di Bruno (il compagno delle
elementari povero e ribelle che ricorda Franti, e in particolare il “Franti” di
cui lo stesso Eco aveva tessuto un celeberrimo “elogio” in un pezzo del
1962 incluso l'anno dopo nel Diario minimo) e di Angelo Orso (l’orso di
peluche che divenne per Eco e Yambo bambini il “signore delle bambole” e
che, dopo anni di onorato servizio di gioco e compagnia, ridotto ormai a un
“torso mutilato” da cui uscivano ciuffi di paglia, venne dato alle fiamme
nella caldaia della cucina di casa con tutta la famiglia che formava un “lento
e ieratico corteo”). Le due “Bustine”, Bruno (1991) e Storia di Angelo Orso
(1993), si trovano ora ora in U. Eco, La bustina di Minerva, Bompiani 2000,
pp. 288-289 e 292-293 (cfr. rispettivamente con La misteriosa fiamma della
regina Loana, pp. 318-321 e pp. 310-313): da una lettura comparata si vede
immediatamente che la loro ripresa nel romanzo è pressoché letterale, e
questo ammiccamento intertestuale è propriamente un segnale rivolto al
lettore affinché non trascuri le componenti autobiografiche che concorrono
alla ‘costruzione’ del ritratto del protagonista.

2. Il modello cognitivista di Atkinson e Shiffrin sui tipi di memoria

Occorre precisare che nel definire il ‘trauma’ di Yambo Eco segue


abbastanza pedissequamente il modello cognitivista predominante sui tipi di
memoria, in una versione peraltro abbastanza semplificata e ‘manualistica’,
sul quale sarà utile dare qualche delucidazione. Secondo il cosiddetto
modello di Atkinson e Shiffrin, abbiamo fondamentalmente 3 tipi di
memoria:
1) la memoria sensoriale (MS), a sua volta distinta in visiva o
iconica (è quella della retina, che trattiene le immagini per circa 0.25
secondi, ed è responsabile, tra l’altro, della percezione del movimento
cinematografico) e uditiva o ecoica (è quella che prolunga il suono come
un’eco, dura da 2 a 4 secondi e consente, tra l’altro, di percepire il parlato e
la musica come un continuum);
2) la memoria a breve termine (MBT), che dura al massimo 30
secondi, ci permette di memorizzare certe informazioni per il tempo
necessario al loro uso (come un numero di telefono sconosciuto che
leggiamo sull’elenco telefonico e lo dimentichiamo subito dopo averlo
composto) ed ha una capacità limitata (in un famoso articolo del 1956 G.
Miller calcolò questa capacità e la fissò nel “magico numero 7 più o meno
2”, per cui i “pezzi”, o chunks memorizzabili mella MBT vanno da 5 a 9).
3) la memoria a lungo termine (MLT), che può durare tutta la vita e
fondamentalmente si distingue in memoria procedurale o implicita (è quella
che ci permette di fare le cose quotidiane in maniera automatica, come
camminare, nuotare, suonare uno strumento ecc.) e memoria dichiarativa o
esplicita (è quella che contiene le informazioni sul mondo e su noi stessi). In

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un noto saggio del 1972, Episodic and semantic memory, E. Tulving
distinse la memoria dichiarativa o esplicita in “semantica” ed “episodica”.
La prima è quella che contiene informazioni concettuali ed enciclopediche
generali sul mondo, come il fatto che l’Italia è una penisola, che il cane è un
quadrupede, che l’America è stata scoperta nel 1492 ecc.; la seconda,
invece, riguarda o fatti autobiografici o argomenti specifici di cui abbiamo
fatto esperienza (chi ha vinto l’ultimo scudetto, che faccia ha nostro padre,
cosa abbiamo visto in gita, ecc.).
Ora, tutto questo va tenuto presente per entrare nel romanzo di Eco,
perché egli (o se non altro il medico che cura Yambo, nonché la moglie di
quest’ultimo, che non a caso di mestiere fa la psicologa) si attiene
fedelmente alla distinzione di Tulving (cfr. p. 16, dove il medico distingue
tra memoria “implicita” ed “esplicita”, quest'ultima a sua volta distinta in
“semantica” ed “episodica, o autobiografica”) e in generale al modello di
Atkinson e Shiffrin (a p. 14, ad esempio, il medico dice a Yambo: “La
memoria a breve termine funziona”, e a p. 323 Yambo ricorda che la moglie
gli ha parlato del “magico numero sette”).
Per riassumere, la situazione clinica iniziale di Yambo è la seguente:
il trauma gli ha danneggiato solo la memoria episodica, per cui egli “sa tutto
quello che sanno anche gli altri” (p. 16), ma non sa più nulla di sé e di tutto
ciò che riguarda la sua vita (“ho una memoria da umanità, non da persona”,
p. 87). In pratica, è come se avesse perduto l’anima (cfr. p. 24), ovvero la
capacità di provare e strutturare temporalmente i sentimenti, e quindi, in
ultima analisi, egli è senza cuore, come è detto in questo gustosissimo
dialogo tra lui e la moglie Paola, che lo sta aiutando a ricordare pur non
essendo da lui riconosciuta (p. 21):

“Mi stai già diventando indispensabile. Sono contento di averti per moglie. Ti ringrazio di
esistere, Paola.”
"Mio Dio, ancora un mese fa avresti detto che era un’espressione Kitsch da teleromanzo…”
“Mi devi scusare. Non riesco a dire nulla che mi venga dal cuore. Non ho sentimenti, ho
solo detti memorabili.”
“Povero caro.”
“Anche questa mi pare una frase fatta.”
“Stronzo.”
Questa Paola mi vuole bene davvero.

3. Lector in fabula

Lo sciame delle citazioni è anche una strategia testuale per depistare


il lettore colto e indurlo a fermarsi, a cercare di scoprire le fonti e a
elaborare ipotesi sul loro senso nascosto. Naturalmente questo senso c’è, ma
Eco lo fa emergere molto lentamente e lo nasconde sotto mille false piste,
fino alla sorpresa finale, quando tutto ritorna e acquista senso nel carnevale
visionario della “radiosa apocalisse”. Il depistaggio sistematico del lettore,

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del resto, è una delle provocazioni con cui bisogna fare i conti quando si
legge un autore come Eco, che queste cose le ha teorizzate da anni. Non
dimentichiamoci, infatti, di avere a che fare con l’autore di Lector in fabula,
uscito nel 1979, cioè l’anno prima de Il nome della rosa, il suo primo
romanzo. Nel 1979 uscì anche, quasi in contemporanea, Se una notte
d’inverno un viaggiatore del suo amico Calvino, cioè il romanzo sul
piacevole smarrimento del lettore nel bosco dei romanzi, ed Eco non manca
mai di ricordare quanto ami questo libro, che sta a Lector in fabula come
una possibile applicazione narrativa sta a una teoria narratologica (com’egli
stesso dice, il suo libro può sembrare “un commento teorico” a quello di
Calvino, anche se i due libri sono stati scritti indipendentemente l’uno
dall’altro: cfr. l’inizio della prima delle Sei passeggiate nei boschi narrativi
- cioè di quelle “Lezioni americane” ad Harvard che Eco tenne nel 1992-
1993 e che Calvino non poté tenere nel 1985-1986 a causa della morte
improvvisa - che si apre proprio con un omaggio a Calvino). Ed è difficile
sottrarsi all’impressione che il sintagma “Odore di stazione”, che affiora alla
mente di Yambo a p. 9, sia, in questo romanzo in cui il protagonista
(insieme al lettore) deve perdersi tra i libri e le icone del passato per
ritrovare se stesso, un'ennesima allusione al libro di Calvino, dato che esso
compare identico all’inizio del primo romanzo che il Lettore di Se una notte
d’inverno un viaggiatore comincia a leggere (questo primo romanzo, non a
caso, si apre in una stazione ferroviaria avvolta nella nebbia e in una
“nuvola di fumo” che copre persino le pagine e “nasconde parte del primo
capoverso”).
È allora il caso di richiamare sinteticamente gli elementi
fondamentali dell’analisi “a mondi possibili” della tessitura semiotica di una
fabula e della sua stessa lettura-modello (visto che per Eco la cooperazione
interpretativa del lettore è fondamentale per lo svolgimento del gioco
testuale della narrazione), per mostrare tra l’altro come i depistaggi da
infliggere al Lettore Modello siano delle strategie previste dalle teorie
narratologiche elaborate da Eco a partire dagli anni Settanta (cfr. U. Eco,
Lector in fabula, Bompiani 1979, 8.10 e 11.7):

1) Wn = mondo possibile asserito dall’autore nel testo e costituito da una


sequenza di Wnsi descritti da proposizioni P;
2) Wnsi = stato testuale di Wn allo stato di cose si e al tempo ti;
3) Wnc = mondo possibile in Wn concepito da un personaggio c e descritto
da proposizioni Q;
4) Wncsi = il possibile corso degli eventi di Wn così come è immaginato dal
personaggio c al tempo ti;
5) Wr = mondo possibile immaginato dal lettore (previsto dal testo) e
descritto da proposizioni R. Wrsi si definisce in accordo con quanto
precede;

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6) Wrc = il mondo possibile che il lettore immagina che un personaggio
concepisca e che è descritto da proposizioni Z (di solito incassate in R);
7) Wrcc = il mondo possibile che il lettore crede che un personaggio
immagini che un altro personaggio concepisca (anch’esso descritto da
proposizioni Z).

[Legenda: “W” viene da world, “n” da novel, “r” da reader e “c” da character]

4. Yambo, Cyrano e lo smemorato di Collegno

Nelle pagine iniziali del romanzo, durante un colloquio clinico col


dottor Gratarolo, Yambo, dopo aver ascoltato da lui una diagnosi
neurologica del suo caso, a un certo punto gli dice: «Chiarissimo, vada
avanti. Ma non fa prima a dire che sono lo smemorato di Collegno?» (p. 14).
Che Yambo, a mo’ di battuta apparentemente buttata lì per caso, tiri fuori
questo “caso classico” e celeberrimo degli anni Venti (che ha ispirato, tra
l’altro, un dramma di Pirandello, Come tu mi vuoi, e un film con Totò del
1962) non può sorprendere, perché l’analogia delle due situazioni, a livello
superficiale, è evidente (di fatto lo smemorato di Collegno era un impostore
che, preso in flagranza mentre il 10 marzo 1926 rubava un vaso di bronzo al
cimitero israelitico di Torino, mise su un teatrino fingendo la perdita della
memoria autobiografica per sfuggire a delle condanne precedenti per piccoli
reati subite in contumacia). Ma nella documentatissima e ‘pirandelliana’
ricostruzione del caso fatta da Leonardo Sciascia (Il teatro della memoria,
Einaudi 1981) si trova un dettaglio che dimostra quanto poco casuale sia
quella battuta di Yambo. In una sentenza del Tribunale di Torino, chiamato
a decidere se lo smemorato fosse il professor Giulio Canella (filosofo!) o il
pregiudicato Mario Brunelli (tipografo, come il Giambattista Bodoni di età
napoleonica!), si legge: «Il Cirano de Bergerac, nella versione italiana di
Mario Giobbe, è ritenuto integralmente a memoria dal convenuto (il
convenuto è lo smemorato), che ne riproduce continuamente dei brani in
quasi tutti i propri scritti» (cit. da Leonardo Sciascia, Il teatro della
memoria, in Opere 1971-1973, Bompiani 2003, p. 927). Ma la versione di
Mario Giobbe del Cyrano di Rostand è nientemeno che uno dei testi
fondamentali della memoria culturale e dell’‘educazione sentimentale’ di
Yambo, tant’è vero che con la citazione di ampi brani di essa si apre
l’ultimo capitolo del romanzo, che comincia così: «Anche Lila è nata da un
libro. Stavo entrando al liceo, alla soglia dei sedici anni e dal nonno mi sono
imbattuto nel Cyrano de Bergerac di Rostand, traduzione italiana di Mario
Giobbe. Perché non fosse a Solara, in solaio o nella Cappella, non so. Forse
l’ho letto e riletto tante volte che alla fine sarà andato in pezzi. Ora potrei
recitarlo a memoria» (p. 402).

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Inutile aggiungere che, parlando di smemorati o sedicenti tali che,
pur non sapendo o dicendo di non sapere chi sono, posseggono una vasta
memoria enciclopedica, Eco e Sciascia, grandi ammiratori ed emuli di
Borges, trovano il modo di citare Funes, il protagonista del bellissimo
racconto Funes, o della memoria di Finzioni (Eco lo cita a p. 155, Sciascia
due pagine prima del passo riportato sopra).

5. Yambo e Polifilo

Per una interpretazione generale del romanzo, è di importanza


decisiva tenere presente che Yambo si è laureato in lettere con una tesi sulla
Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (Venezia, 1433 ca.-1527),
pubblicata da Manuzio nel 1499 e corredata da 172 xilografie anonime
(dunque un’opera illustrata, come il romanzo di Eco: ma le corrispondenze
tra le due opere, come vedremo, non finiscono certamente qui). Questa
chicca per bibliofili (riedita da Adelphi nel 1998 in 2 tomi, di cui il primo
riproduce l'edizione aldina del 1499 e il secondo contiene, oltre a vari
apparati introduttivi e a due indici dei nomi, una traduzione italiana e un
amplissimo e dottissimo commento ad opera di Marco Ariani e Mino
Gabriele) è una raffinata allegoria in prosa che, tra incursioni in ogni branca
del sapere (botanica, mineralogia, architettura, archeologia, filologia,
filosofia, scienze occulte, ecc., per non dire dell’autentica perla
rappresentata, nel cap. X, dalla prima descrizione di una partita di scacchi
con ‘pezzi’ viventi, da cui deriveranno i capp. 23 e 24 del quinto libro del
Gargantua e Pantagruele), allegorie varie, epitaffi, geroglifici e icone, il
tutto rifuso in un caleidoscopio combinatorio (anche sul piano linguistico,
perché la lingua è un volgare toscano inbevuto di latinismi e grecismi),
racconta la storia della ricerca onirica di un amore perduto (Polia) da parte
del protagonista (Polifilo), come dice anche il titolo, che può esplicitarsi
così: “Battaglia d’amore in sogno di Polifilo” (la ricerca è dantescamente
coronata dal successo, perché Polifilo, contrariamente a Yambo,
raggiungerà l’unione mistica con la sua “Beatrice”). E in un’atmosfera di
sogno comatoso ma ormai memore (quasi come un “cervello in una vasca”
alla Putnam: cfr. p. 414) si trova Yambo quando osserva, verso la fine:

Lila bruscamente scomparsa, ho vissuto sino alle soglie dell’università in un limbo


incerto e poi – una volta che i simboli stessi di quell’infanzia, nonno e genitori, erano
scomparsi definitivamente – ho rinunciato a ogni tentativo di rilettura benevola. Ho
rimosso, e ho ricominciato da zero. Da un lato la fuga in un sapere confortevole e
promettente (mi sono pure laureato sulla Hypnerotomachia Poliphili, non sulla storia della
Resistenza), dall’altro l’incontro con Paola. (…) Avevo rimosso tutto, salvo il volto di Lila,
e lo cercavo ancora tra la folla (…) in una ricerca che ora so vana (pp. 411-412).

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È fin troppo facile, allora, dare una lettura psicoanalitica del fatto che
il giovane Yambo abbia studiato la Hypnerotomachia: lavorare sul sogno di
Polifilo (rivivendolo) era per lui una sorta di compensazione, perché
attraverso la felice e mistica storia d’amore di Polifilo egli realizzava il suo
desiderio di rivedere Lila, seppure indirettamente. Ma la vita,
contrariamente a quanto sosteneva Calderón de la Barca (anch’egli citato
nel romanzo), non è un sogno, ed Eco lo sa: ecco perché Yambo non rivedrà
Lila né nella realtà né nell’estrema visione onirica voluta dalla sua coscienza
e dal suo amore.
Ma precisiamo meglio alcuni dettagli di questo parallelismo tra le
due opere, a cominciare dalla loro veste esterna di opere insieme ‘dotte’ e
‘illustrate’. In apertura della Hypnerotomachia Poliphili (da ora in avanti
HP), ad esempio, si trova una lettera dedicatoria in cui un certo Leonardo
Crasso Veronese, il quale dice di essersi accollato le spese per la
pubblicazione di questo libro parente orbatus, cioè apparentemente
anonimo (ma gli studiosi hanno ormai appurato che anche il Colonna
partecipò alle spese editoriali), si rivolge a Guidobaldo da Montefeltro,
Duca di Urbino, pregandolo di farsi eleggere “protettore” del libro, in modo
che esso possa circolare in suo nome, e fungere così presso i lettori da vero
e proprio marchio di garanzia. Ma è interessante (e rivelatore) il modo in cui
Leonardo Crasso delinea la natura del libro, ovvero la “strategia testuale”
messa in atto dall'autore, perché le stesse parole potrebbero essere applicate
al romanzo di Eco:

Quest'uomo sapientissimo (...) si regolò in modo che non solo chi fosse dottissimo
potesse penetrare nel sacrario della sua sapienza, ma anche l’ignorante, pur non potendovi
entrare, comunque non cadesse in disperazione. Ne consegue che se anche alcune cose, per
loro natura, fossero difficili, sono comunque esposte e svelate in una prosa piacevole e con
una certa grazia e, come un giardino disseminato di ogni genere di fiori, sono dischiuse e
messe dinanzi agli occhi con immagini e simboli (tr. Adelphi 1998, tomo II, p. 6).

Anche il romanzo di Eco, infatti, è un’opera chiaramente aperta a


molteplici livelli di lettura, da quello popolare del normale fruitore di
fumetti e di letteratura ‘di massa’ a quello erudito e ‘sapienziale’ del lettore
attento agli infiniti rimandi alla cultura letteraria e filosofica ‘alta’
disseminati nel testo.
Lo stesso nome “Sibilla”, così presente nel romanzo (è sia il ‘vero’
nome di Lila, l’irrimediabilmente perduto amore giovanile di Yambo, sia il
nome della segretaria polacca, la sacerdotessa del suo sacrario di libri rari),
rimanda in maniera criptica ad HP attraverso la Sibilla di Livio e di Virgilio.
Vediamo come.
Innanzi tutto, il collegamento con la Sibilla Cumana è suggerito
dallo stesso Eco, allorché in limine visionis fa recitare a Yambo i versi 64-
66 dell’ultimo canto del Paradiso: «Così la neve al sol si dissigilla,/ e così al
vento ne le foglie levi/ riaffiora la sentenza di Sibilla» (p. 417). Ma già qui

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occorre stare attenti, perché Yambo commette un classico lapsus freudiano:
dominato dal suo desiderio di veder apparire tra i fantasmi culturali del
passato il volto della sua Lila-Sibilla, dice “riaffiora la sentenza di Sibilla”,
e non “si perdea la sentenza di Sibilla”, come invece aveva detto Dante,
seguendo Virgilio (cfr. Eneide, III, 441-451). In questo lapsus è racchiuso,
con ironia tragica, tutto il dramma di Yambo, perché dallo sciame turbinoso
di foglie-icone-volti del passato che vorticano nella sua mente visionaria
affiora non il volto di Lila (ormai perduto per sempre, com’è sibillinamente
annunciato nel verso di Dante storpiato, in quanto non accettato, dal suo
inconscio), ma quello della Morte, sotto l’aspetto di un sole nero.
Per arrivare da qui alla Hypnerotomachia occore imboccare un passo del De
Divinatione di Cicerone sui Libri sibillini (la cui origine mitica è raccontata
da Livio nel primo libro di Ab Urbe condita), certamente presente al
Colonna (cfr. la nota 4 alla pag. 11 di HP del Commento di Ariani e
Gabriele, ed. cit., tomo II, p. 503):

…quel tipo di composizione che si suol chiamare "acrostico", nella quale,


leggendo di séguito le prime lettere di ciascun verso, si mette insieme un'espressione di
senso compiuto, come in alcune poesie di Ennio: "QUINTO ENNIO FECE" (…). E nei
Libri sibillini, l'intero carme risulta dal primo verso di ciascuna frase, mettendo di séguito le
prime lettere di quella frase (II, 111-112)

Rifacendosi alla tecnica dell’acrostico dei Libri sibillini, e


ispirandosi all’acrostico contenuto in Boccaccio, Amorosa visione, 13, 61-
16, 37 («Cara Fiamma, per cui ’l core ò caldo, / que’ che vi manda questa
Visione / Giovanni è di Boccaccio da Certaldo»), il Colonna fa iniziare i 38
capitoli di HP con lettere che, messe in sequenza, formano la celebre frase
che contiene il nome dell’autore del misterioso libro: Poliam frater
Franciscus Columna peramavit. E non basta. Mentre questo acrostico fu
decrittato già nei primi del Cinquecento, e quindi costituisce un punto fermo
nell’esegesi di HP, soprattutto in relazione al problema dell’attribuzione
della paternità dell’opera, ci sono voluti Cinquecento anni perché venisse
scoperto un incredibile anagramma celato nell’ultimo ‘paratesto’ che
precede l’incipit di HP. Questa scoperta è dovuta proprio ad Ariani e
Gabriele, i quali la annunciano con comprensibile orgoglio nella nota 3 alla
pag. 8 di HP del loro Commento (ed. cit., tomo II, pp. 495-496).
Nell’epigramma di un certo Andrea Marone Bresciano, in cui il poeta si
rivolge alla Musa per sapere il nome dell’autore di HP, a un certo punto si
legge (vv. 4-5): «Sed rogo quis vero est nomine Poliphilus?», e la Musa
risponde: «Nolumus agnosci». Ora, questa risposta è un capolavoro di
spirito sibillino, perché essa rivela oscuramente il nome dell’autore nel
momento stesso in cui afferma di non volerlo rivelare: un anagramma di
«Nolumus agnosci», infatti, è proprio “Columna Gnosius”, ovvero “Colonna
di Cnosso”! Ma che c’entra Cnosso? Ecco la risposta di Ariani (la nota in
questione è firmata da lui): «l’unica possibile spiegazione è quella di una

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chiave ermeneutica della religio Veneris che (…) è il cardine stesso del
funzionamento allegorico del romanzo (…). La connessione tra Venere e
Cnosso è rarissima nei testi classici e tanto più acquista, appunto per la sua
eccezionalità, valore di emblema allusivo: sono infatti solo Diodoro 5, 77 ed
Esichio (…) a tramandare che il più antico luogo di culto di Afrodite era
nella città cretese». E come se non bastasse, in una lettera di un certo Matteo
Visconti, prima stampata e poi espunta dal paratesto “ufficiale” di HP (ma
sopravvissuta in un solo esemplare, quello ora conservato nella
Staatsbibliothek di Berlino), si affermava che il Colonna era stato «in sinu
Veneris educatum».
Tutto questo modo sibillino di introdurre il lettore all’iniziazione di
Polifilo e Polia al culto di Venere, che poi è la fabula misteriosofica di HP, è
indubbiamente evocato, seppure in maniera ironica e quasi parodistica, nel
romanzo di Eco, che fondamentalmente è la storia quasi-onirica della ricerca
(fallita), tra indizi evocativi e sibillini, di un amore perduto: Sibilla,
appunto.1

Seguendo ancora il commento di Ariani e Gabriele alla HP (in


particolare la nota 13 alla p. 12, la nota 14 alla p. 19 e la nota 9 alla p. 396),
è possibile ravvisare inoltre una notevole simmetria strutturale tra le due
opere.
HP ha una partizione esterna in due libri: il primo copre i capp. 1-XXIV
(pp. 11-379) e il secondo i capp. XXV-XXXVIII (pp. 381-465). Ma sul
piano interno, ovvero strettamente simbolico-narrativo, la vera suddivisione
è in tre parti, nelle quali il Colonna segue fedelmente l’onirologia classica, e
in particolare i Commentarii in Somnium Scipionis di Macrobio e varie altre
suggestioni mistico-oniromantiche di matrice neoplatonica (ma in una
scansione onirica ascensiva senza precedenti, in cui un lungo sogno è
incastonato in un altro sogno):

1) Parte prima, pp. 11-19: Polifilo racconta in prima persona che,


giacendo “sopra el lectulo” della sua “conscia camera familiare” (p.
12), dopo una notte insonne a causa di tormenti amorosi, alle prime
luci del giorno si addormenta di un sonno leggero e agitato e sogna
di trovarsi prima in un’ampia pianura («Ad me parve de essere in
una spatiosa planitie», pp. 12-13) e poi in una dantesca e paurosa
1
Nel tentativo di scoprire una relazione triangolare più sotterranea tra Polia (la donna amata da
Polifilo), Paola e Lila (rispettivamente la moglie e la “Beatrice” di Yambo: cfr. p. 285), evocando il
demone combinatorio che possiede senza dubbio sia il Colonna che Eco, ho anagrammato “Lila +
Paola” e ho trovato che una delle permutazioni è “Alla Polia”, che sembra proprio un omaggio
occulto alla “Beatrice” di HP. Ed è forse meno superfluo sottolineare che, così come la Loana del
fumetto è in grado di risuscitare i morti con la sua “misteriosa fiamma”, ragion per cui alla fine del
romanzo Yambo la invoca per ottenere di poter almeno trarre dall’oblio ed evocare nel ricordo il volto
di Lila, allo stesso modo Polia, nel capitolo XXIX, è in grado di ridare la vita al morto Polifilo
coprendolo di lacrime e abbracciandolo: «piangendo, et illachrymando, et amplexabunda, ello
suscita» (p. 417 dell’edizione aldina del 1499).

10
‘selva oscura’ («Et cusì dirrimpecto da una folta silva ridrizai el mio
ignorato viagio», p. 13).
2) Parte seconda, pp. 20-379: uscito dalla “spaventevole silva” (p. 20),
Polifilo trova riparo e ristoro «sotto de una ruvida & veterrima
quercia» (p. 19), e, giacendo sul fianco sinistro, si addormenta
profondamente e nel sogno sogna di trovarsi in una valle amena,
nella quale, attraverso visioni mirabolanti (una piramide sovrastata
da un obelisco, un cavallo, un colosso disteso, un elefante, una
magnifica porta, un drago, il regno di Euterillide, ninfe, fontane,
danze che animano partite a scacchi, templi, ecc.), dà il via al suo
vero e proprio itinerarium mentis, fino all’unio mystica con Polia.
3) Parte terza, da pag. 381 alla fine (= secondo libro): Polia e Polifilo,
alternandosi, narrano, in maniera genealogico-visionaria, la storia
del loro innamoramento tra morti e resurrezioni. Come nota M.
Gabriele, «il secondo libro (…) se da un punto di vista compositivo è
letteralmente ancora compreso nel somnium, contiene di fatto l’acme
psicomistico da cui emerge il terzo livello onirico-visionario del
romanzo, il più alto e misterico, cioè la catalessi o visio in stato di
morte apparente, di formulazione neoplatonica» (Commento, nota 13
alla p. 12, ed cit., tomo II, p. 519).

Parallelamente, ma a rovescio, il romanzo di Eco ha una scansione


esterna costituita da tre parti (capp. 1-4: “L’incidente”; capp. 5-14: “Una
memoria di carta”; capp. 15-18: “Ο ι ν óσ τ ο ι ”), e una scansione
interna costituita da due: la parte in cui Yambo è smemorato ma in salute
fisica (che copre le prime due parti ‘esterne’) e quella in cui è memore ma in
coma (che coincide con la terza parte). Da notare, inoltre, che alla sequenza
sogno-sogno nel sogno di HP corrisponde nel romanzo la sequenza primo
‘colpo’ (che provoca l’amnesia, con il conseguente tentativo di uscirne) –
secondo colpo (che provoca il coma, il recupero della memoria e la visio
finale). Inutile dire che tanto per Polifilo quanto per Yambo lo schema
triadico dell’itinerarium mentis è giocato chiaramente sulla falsariga
dantesca, e questo fatto ci permette di approfondire le analogie.

1) L’iniziale risveglio di Yambo dal primo ‘colpo’, con tutti quei


richiami alla nebbia, non fa che alludere anche alla “selva oscura”
dantesca, oltre che alla “folta silva” sognata da Polifilo: e se nel
Colonna l’allusione dantesca è onirica, in Eco è ironica (ed è qui il
caso di ricordare che “onirica” e “ironica” sono uno anagramma
dell’altro…). Senza contare che Yambo crea ironicamente
l’aggancio con la dimensione onirica di HP sin dall’inizio: “Mi ero
come risvegliato da un lungo sonno, e però ero ancora sospeso in un
grigio lattiginoso. Oppure, non ero sveglio, ma stavo sognando” (p.
7).

11
2) Alle meravigliose visioni che si presentano a Polifilo non appena
entra nel sogno del sogno corrisponde nel romanzo lo sciame iconico
ed ecoico delle scoperte di Yambo nella ‘magica’ soffitta e negli altri
ambienti della casa di Solara: così come per Polifilo la piramide,
l’elefante, la porta, le iscrizioni lapidarie, le fontane, i templi ecc.
sono una summa della sapienza classica, per Yambo i libri, le
illustrazioni, i dischi ecc. della casa di Solara sono una summa della
cultura di massa di un’epoca (la prima metà del Novecento).
3) La carnascialesca visio finale di Yambo sulla scala di Wanda Osiris
e dell’Aleph di Borges, in cui, rovesciando Dante, è «legato con
amore in un volume» non «ciò che per l’universo si squaderna» (cfr.
Paradiso, XXXIII, 86-87), ma ciò che popola la sua memoria
culturale e ha nutrito la sua educazione sentimentale, corrisponde,
benché con esito opposto (la mente in delirio di Yambo non riesce a
trovare l’immagine del volto di Lila), alla visio oniromantica
dell’amorosa unio mystica di Polifilo con Polia. E, ulteriore ripresa
rovesciata, al finale passaggio di Polifilo dal sogno al risveglio,
corrisponde il finale passaggio di Yambo dal coma sognante alla
morte (emblematica la contrapposizione tra il sole invidioso di
Polifilo che coi suoi “illuminosi splendori” [p. 465] viene a scacciare
la notte e il bel sogno, e l'avido sole nero che appare a Yambo al
termine della visio).

Va ricordato, da ultimo, che quando riacquista la memoria e cerca di


capire lo stato in cui si trova (coma? sogno? cervello in una vasca? ecc.),
Yambo riprende il tema del sogno nel sogno (proprio di HP, appunto), ma
solo per usarlo filosoficamente come argomento contro la possibilità di
essere in un sogno, in un passo che ironicamente, dall’interno di un’opera
letteraria, rivendica uno statuto di realtà in opposizione alle controfattuali
fantasie letterarie (quasi a dire: Non sono mica Polifilo!):

Forse sono, sì, in coma, ma nel coma non ricordo, sogno. So di certi sogni in cui si ha
l’impressione di ricordare, e si crede che quel che si ricorda sia vero, poi ci si sveglia e si
deve concludere, a malincuore, che quei ricordi non erano nostri. Sogniamo falsi ricordi.
(…) Però mi è mai accaduto, in un sogno, di sognare un altro sogno, come starei facendo
ora? Ecco la prova che non sogno. E poi, nei sogni i ricordi sono sfocati, imprecisi, mentre
io ricordo ora pagina per pagina, immagine per immagine, tutto quello che ho sfogliato a
Solara negli ultimi due mesi. Ricordo cose realmente accadute (p. 413).

Finché, giunto ormai in limine visionis, Yambo si chiede se sia possibile


sognare di dormire, riagganciandosi così ancora una volta, seppure in
maniera scettica, alla situazione di Polifilo (cfr. HP, pp. 19-20):

... ho certamente veduto, ma la prima parte della mia visione è stata così accecante che
è come se dopo fossi ripiombato in un sonno nebbioso. Non so se in un sogno si possa

12
sognare di dormire, ma è certo che, se sogno, sogno anche di essermi ora risvegliato e di
ricordare quello che ho veduto (p. 417).

6. Yambo e Roberto de la Grive

Ma non va dimenticato, comunque, che “Lila” è un nome femminile


che Eco va declinando in vari modi nei suoi romanzi. Per esempio, la
moglie dell'io narrante del Pendolo si chiama Lia, e la donna cui Roberto de
la Grive manda lettere dalla nave deserta su cui ha fatto naufragio (è questo
il gustoso ossimoro secentesco con cui si apre L'isola del giorno prima e su
cui si regge tutto il romanzo) si chiama Lilia. Ecco alcuni dei versi
mariniani che Roberto le dedicava (L'isola del giorno prima, Bompiani
1994, p. 150):

Oh dolcissima Lilia,
a pena colsi un fior, che ti perdei!
Sdegni ch'io ti riveggi?
Io ti seguo e tu fuggi,
io ti parlo e tu taci...

E ancora:

Lilia, Lilia, ove sei? ove t'ascondi?


Lilia, fulgor del cielo
venisti in un baleno
a ferire, a sparire

E infine:

per le più cupe selve,


per le più cupe calli,
godrò pur di seguire, ancorché invano
del leggiadretto pié l'orme fugaci.

Questi versi assomigliano indubbiamente, almeno nello spirito, a


quelli di Yambo adolescente rivolti a Lila (cfr. pp. 278-283). Una siffatta
spiegazione interna all’opera di Eco non vanifica, credo, le precedenti
congetture combinatorie sul mistero del nome “Lila”, ma le approfondisce
dando un’idea più precisa dell’abissale trama di riferimenti che costituisce il
tessuto profondo del romanzo.

7. Lila

Lila è il vero mistero del romanzo, perché la ricerca della sua


identità, o se non altro di qualche traccia letteraria di essa, è un compito che

13
il testo lascia al lettore, dopo che Yambo è morto senza riuscire a
visualizzare il suo volto nella memoria. «Lila è nata da un libro» dice
Yambo a pag. 402, e il libro che cita è il Cyrano di Rostand. Ma per Eco,
qual è il libro, o quali sono i libri, da cui è nata Lila? Almeno sin da Il nome
della rosa Eco va ripetendo che i libri parlano tra di loro, a volte anche
indipendentemente dalla consapevolezza dei loro autori, e già quel suo
primo romanzo era un libro fatto di altri libri. Abbiamo visto quanta
importanza rivesta la Hypnerotomachia Poliphili per una comprensione
adeguata de La misteriosa fiamma della regina Loana; abbiamo intravisto
Lila non solo in Polia, ma anche in Rossana, e poi nella Lilia e nella Lia di
due precedenti romanzi di Eco (rispettivamente L'isola del giorno prima e Il
Pendolo di Foucault); e chissà quanti altri testi fanno parte nascostamente
delle sue molteplici stratificazioni.
Uno, però, non può non saltare subito agli occhi. Si tratta del
romanzo Lila di Robert M. Pirsig (1991, tr. it. Adelphi 1992), l’autore
americano del celebre Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta
(1974). Partiamo dalla quarta di copertina dell’edizione italiana:

Il romanzo di una navigazione a vela alla ricerca del significato della qualità, fra
una bionda Lila che porta guai e la līlā di Śiva, che è “gioco del mondo”.

«C’è Lila, questa persona concreta, unica, addormentata accanto a lui, che un giorno era
nata e adesso era viva e si agitava nel sonno e tra non molto, come tutti, sarebbe morta; e
c’è quest’altra, chiamamola lila, che è immortale, che temporaneamente abita Lila e poi
passerà oltre. La Lila che dorme l’aveva incontrata solo da poche ore. Ma la Lila sempre
desta, che non dorme mai, era da tanto che lo seguiva. E lui lei».

Già il titolo e questo passo (che si trova nel primo capitolo, p. 17) da soli
basterebbero a suggerire un legame tra le due opere. Una Lila reale,
presente, e una lila ideale, irrangiungibile: esattamente come nel romanzo di
Eco (cfr. ad es. p. 248)! Nella prima pagina, poi, si legge che questa Lila è
bionda e ha un carattere ambiguo: mentre dorme la si scambierebbe per una
bambina innocente, un angioletto, ma in realtà sta dormendo ubriaca nella
cabina della barca del protagonista, conosciuto la sera prima e con il quale
ha passato una notte di sesso (questa Lila, si vedrà dopo, è una mezza
prostituta malata di mente). Ma anche la Lila di Eco è bionda e ambigua:
«aveva i capelli biondi che le scendevano quasi alla vita, un visino tra
l’angelo e il diavoletto, e quando rideva si vedevano i due incisivi superiori»
(p. 290). C’è un’altra coincidenza che salta agli occhi prima ancora di
leggere l’opera: Lila di Pirsig è stato pubblicato nel 1991, che è esattamente
l’anno in cui si svolge il romanzo di Eco!
Leggendo le 508 pagine di questo romanzo molto bello ma non
facile (poca azione narrativa contro pagine e pagine di meditazioni
filosofiche del protagonista Fedro, alle prese con la raccolta di appunti e
pensieri per la stesura di un trattato di Metafisica della Qualità, che poi è

14
Lila stesso, dato che Fedro è l’alter ego di Pirsig), si scopre però che i
particolari comuni sono numerosi, oltre a quelli già citati. Ne riporto solo
tre: 1) la discussione sull’ornitorinco (cfr. cap. 8, p. 134 e sgg.: a Fedro
serve per mettere in luce le difficoltà concettuali in cui incorre la
tradizionale metafisica sostanzialistica e classificatoria di derivazione
aristotelica nel tentativo di spiegare lo “scherzo di natura” di un animale che
depone le uova e allatta i piccoli, ciò che invece la sua prospettiva filosofica
incentrata sulla “qualità” come categoria ontologica fondamentale
riuscirebbe a spiegare benissimo), che non può non far pensare all’autore di
Kant e l’ornitorinco (Bompiani 1997), per non dire del fatto che a un certo
punto nel romanzo di Eco si dice che in passato Yambo aveva chiesto alla
sorella, che vive in Australia, di portargli un ornitorinco; 2) gli accenni alla
“fiamma” e alla “fiaccola”, che per Fedro è la sua stessa Metafisica della
Qualità, con la quale intende illuminare la strada all’umanità immersa nelle
tenebre di una metafisica a soggetto-oggetto sbagliata (cfr. cap. 21, p. 328),
e che si ricollega alla “luce del dharmakāya” del pensiero buddhista e alla
metafisica della luce di alcuni settori del misticismo occidentale (cfr. cap.
26, pp. 420-424): come non pensare alla “misteriosa fiamma” che domina il
romanzo di Eco e che, mutuata da un fumetto, si riallaccia attraverso Dante
a tutta la mistica dell’“illuminazione”? 3) il rito funebre della sepoltura della
bambola di Lila ad opera di Fedro (cfr. cap. 32, pp. 498-504), che trova un
preciso parallelo nella cremazione del peluche Angelo Orso ad opera di
Yambo bambino, seguito dai familiari in religiosa processione (cfr. cap. 15,
pp. 310-313).
A un certo punto del romanzo, poi, ci si imbatte in un passo in cui Lila dice
a Fedro (il quale attraverso lei e il suo “caso” cerca l’illuminazione e la
chiarificazione delle proprie idee filosofiche) alcune cose che la Lila di Eco,
se fosse apparsa, avrebbe benissimo potuto dire a Yambo:

Non sono nessuna persona. Perciò sprechi il tuo tempo a farmi le tue domande. So
bene che vuoi cercare di capire che tipo sono, ma non scoprirai niente, perché non c'è niente
da scoprire. (...) Un tempo facevo finta di essere un tipo così, o un tipo cosà; ma poi mi
sono stufata di quei giochetti. Tanta fatica e non ci ricavi niente. Adesso io ho tutte queste
immagini di Lila, ma non ne viene fuori una persona. Sono tante persone diverse, che si
chiamano Lila, ma nessuna è Lila. Io non sono nessuna persona. Io non ci sono. Tu, per
esempio; lo vedo che hai la testa piena di brutte impressioni su di me. E credi che quella
che hai nella testa sia la stessa che è qui e ti parla; invece qui non c'è nessuno. Hai capito?
Non c'è nessuno in casa. Ecco chi è Lila. Una casa vuota. (...) Vai a farti fottere, te e le tue
domande! Non capisci che io sono come mi fanno essere le tue domande? Sono loro a farmi
esistere. Se pensi che io sia un angelo, allora sono un angelo. Se pensi che sono una
puttana, benissimo: sono una puttana. Sono quello che pensi che sia. E se cambi idea, ecco
che anch'io cambio (cap. 14, pp. 243-244).

È difficile non collegare questo passo, e quello riportato nella quarta


di copertina (citato sopra), con le pp. 248 («dovevo essermi certamente
formato, attraverso le tante immagini che mi avevano rapito, una mia figura

15
ideale e, se avessi potuto avere davanti tutti i volti delle donne che avevo
amato, avrei potuto trarne un profilo archetipo, una Idea mai raggiunta ma
perseguita per tutta la vita»), 322 (il montaggio fotografico di volti
femminili) e 440-444 (la delirante carrellata di anticipazioni su come
sarebbe apparsa Lila nella visione finale, che alla fine fa pensare a Yambo
di essere preda della seduzione della «cattiva letteratura») del romanzo di
Eco. Va aggiunto poi che nel pensiero buddhista, abbondantemente usato da
Pirsig, la līlā è, come visto, “il gioco del mondo”, cioè la fantasmagoria
apollinea delle rappresentazioni che procedono dall’eterna fiamma
generatrice della vibrante coscienza cosmica impersonata dal dio Śiva: in
maniera del tutto analoga, Yambo trasforma la Loana del fumetto in una
divinità privata «custode della fiamma della resurrezione» (p. 416) e alla
fine la invoca per ottenere il carnevale fantasmagorico della sua visione, al
termine della quale si attende l’apparizione del volto di Lila (e invece
scopriremo che Lila non c’è, perché era lo stesso ‘gioco’ di apparizioni sulla
scala dell’Aleph). E questa ennesima corrispondenza, sia detto di passaggio,
fa pensare ancora una volta all’incredibile sfida di Eco, il quale, rovistando
nella spazzatura semiotica della cultura di massa, è riuscito a ricostruire
combinatoriamente e a parodiare gran parte del sapere enciclopedico.
Il minimo che si possa dire è che saremmo di fronte a una
coincidenza singolare se Eco avesse costruito la sua Lila ignorando Lila di
Pirsig. Nelle opere di Eco successive al 1991 non si trova (mi pare) alcun
accenno a questo romanzo. Ma in un articolo apparso su “L’Espresso” del
22 maggio 1983, “La moltiplicazione dei media”, poi incluso in Sette anni
di desiderio (Bompiani 1983), si trova un cenno esplicito a Lo Zen e l’arte
della manutenzione della motocicletta: non è molto, certo (il primo romanzo
di Pirsig è stato un cult negli anni Settanta e oltre, e non poteva sfuggire
all’attenzione di uno studioso della cultura di massa come lui), ma basta per
dire che Eco conosce abbastanza bene almeno il primo Pirsig. Io sono
portato a congetturare che egli conosca bene anche Lila e in qualche modo
abbia voluto dare una risposta - pessimistica, scettica, amara, ironica e quasi
solipsistica - da ‘pensiero debole’ occidentale alla presuntuosa, ottimistica e
totalizzante Metafisica della Qualità di Pirsig, basata sulla sapienza degli
Indiani d'America e degli indiani dell'India e ancorata, occorre ricordarlo,
alla dolorosa e illuminante esperienza personale della follia e del
manicomio.

8. Yambo, Sherlock Holmes, il lettore e internet

Infine, vale la pena notare che a un certo punto Yambo profetizza


l’avvento di internet (non dimentichiamo che il protagonista vive la sua
amnesia e la sua anamnesi nell’arco di poche settimane a partire dal 25

16
aprile 1991), insinuando addirittura che a quel punto tutta l'umanità sarà
smemorata come lui:

Mi sono detto: Yambo, hai una memoria di carta. Non di neuroni, di pagine. Forse
un giorno inventeranno una diavoleria elettronica che permetterà al computer di viaggiare
attraverso tutte le pagine scritte dall'inizio del mondo ad oggi, e di passare dall'una all'altra
con un colpo di polpastrello, senza più capire dove ti trovi e chi sei tu, e allora tutti saranno
come te.
Nell’attesa di avere tanti compagni di sventura, sono andato a dormire (p. 90).

Di fronte a un passo del genere, il lettore del 2004 di questo


romanzo, magari intento a cercare febbrilmente su internet – il più grande
deposito di memoria “semantica” spersonalizzata che l’umanità sia riuscita a
costruire – le infinite citazioni disseminate nel testo (aspetto, questo, della
sua più generale attività di cooperazione interpretativa che l’autore ha
sicuramente previsto e che sottilmente incoraggia), non può non pensare la
stessa cosa che pensa uno Yambo alla febbrile ricerca del proprio passato di
fronte alle numerose immagini di Sherlock Holmes (nelle classiche
illustrazioni di Sidney Paget) seduto e intento a leggere lettere, decifrare
messaggi criptati o interpretare segni apparentemente sconnessi, per una
sorta di vertiginoso gioco di specchi: «de te fabula narratur» (p. 153: ancora
una volta un comune modo di dire, derivato da Orazio, Satire, I, 1, 69-70).

Gela, giugno–agosto 2004

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