L'uomo antropologicamente un ente naturale generico (Gattungswesen), ed pertanto del tutto naturale che anche il pensiero umano sia "generico", e possa essere riempito di sensazioni, impressioni ed idee nel modo pi diverso, una diversit che certamente legata al caso individuale ( infatti inevitabile che anche la casualit sia necessaria - come disse Hegel), ma che passa pur sempre per il filtro della storia e della geografia, del tempo e dello spazio determinati in cui si vive. Se Jaspers ha ragione nel dire (ed io lo credo) che l'uomo l'unico animale in grado di anticipare la propria morte individuale, ne consegue che anche l'unico animale costretto a dare un significato al breve segmento temporale che intercorre fra la sua nascita e la sua morte. Se questo vero - come mi sembra plausibile - allora l'uomo il solo animale costretto a dare senso (Sinngebung) alla propria vita, e ad inserirla e collocarla in un ambito pi generale. Chiamare "essere" questo ambito generale mi sembra molto razionale, e non certamente frutto di un cattivo pensiero "metafisico", come dicono i positivisti di tutti i tipi. Il significato da dare alla propria vita individuale e collettiva (pi precisamente, individuale perch collettiva, o pi esattamente comunitaria) quindi un prodotto simbolico dell'anticipazione mentale della propria morte individuale, che Heidegger ha in fondo avuto ragione a definire la sola possibilit autentica dell'uomo, autentica proprio perch si tratta del solo caso in cui la possibilit coincide con la necessit, in quanto possiamo fare in teoria tutto, salvo ovviamente una sola cosa, quella di non morire. E dal momento che la sola cosa che non nella nostra possibilit quella di non morire, in quanto il morire prima o poi una necessit inderogabile, ne consegue che il dar un significato alla nostra vita diventa una necessit altrettanto inderogabile, che comprende ovviamente anche la possibilit di decidere che essa non ha avuto e non avr nessun significato, al di l del passare del tempo o - come si espresse Schopenhauer - del veleggiare verso la morte. Il significato che diamo alla nostra vita non ha ovviamente alcun significato "scientifico", perch la scienza caratterizzata concettualmente da un inevitabile processo di disantropomorfizzazione. Noi oggettiviamo il mondo fuori di noi, lo matematizziamo e lo sottoponiamo a procedure sperimentali di verificazione e/o di falsificazione di ipotesi, ma possiamo fare tutto ci soltanto nella misura in cui lo abbiamo preventivamente disantropomorfizzato integralmente. Nel nono capitolo chiariremo (mi scuso per l'anticipazione) che la matematizzazione pitagorica del mondo non in alcun modo un'anticipazione della scienza moderna di Galilei, perch Pitagora non interessato ad una matematizzazione sperimentale del mondo, ma ad una estensione al mondo sociale in cui vive del calcolo delle buone proporzioni geometriche. Se del tutto privo di ogni significato scientifico nel senso moderno e seicentesco del termine, il significato che diamo alla limitata porzione di vita che ci concessa assume per necessariamente un doppio significato filosofico ed ideologico. Il significato filosofico deriva dalla prima definizione di filosofia anticipata nell'introduzione, per cui la filosofia si occupa di ci che , ed eternamente, e con questo ha gi fin troppo da fare. Il significato ideologico, che sempre una inevitabile "ricaduta" (fall out) di quello filosofico, deriva invece dalla seconda definizione hegeliana, segnalata insieme alla prima, per cui la filosofia il proprio tempo appreso nel pensiero. Si di fronte allora al primo problema teorico serio di questa ontologia dell'essere sociale, quello del corretto rapporto fra filosofia ed ideologia, o pi esattamente fra l'eterna veritativit della riflessione filosofica (l'occuparsi appunto di ci che , ed eternamente) e la sua inevitabile ricaduta ideologica contingente (il proprio tempo appreso nel pensiero, o meglio l'aspetto sociale del proprio tempo appreso nel pensiero). Partire con il piede sbagliato su questo delicatissimo problema significa rovinare tutto. Ed esistono due modi apparentemente opposti ma complementari di rovinare tutto, che consistono da un lato nel ridurre lo spazio della filosofia a spazio integrale dell'ideologia, e dall'altro nell'affermare con sciocca sicumera che l'ideologia soltanto quella degli altri, mentre noi ne saremmo magicamente privi. Iniziamo dalla seconda versione, che anche la pi sciocca e grottesca, per poi passare alla prima, che indubbiamente pi seria, ma anche pi mortifera. Colui che afferma che ideologici sono sempre e solo gli altri, mentre lui ne sarebbe miracolosamente immune in quanto praticante esclusivo della filosofia e/o della scienza, ricorda lo sciocco che in pieno sole afferma che tutti gli altri fanno ombra, al di fuori di lui che un puro spirito che i raggi solari attraversano senza oscurarlo sul terreno. Come ha scritto argutamente il grande esperto di ideologia Terry Eagleton, l'ideologia come l'alitosi, ed appartiene sempre agli altri e mai a noi. Ed infatti proprio cos. Vedremo pi avanti che la cosiddetta deideologizzazione non che la forma ideologica dominante del tempo presente, la cui funzione quella di consacrare religiosamente l'eterno presente capitalistico, privato di ogni "storia", e di trasformarlo in destino ineluttabile che nessuna volont umana potr mai modificare. Scrivere una storia ontologico-sociale del pensiero umano in base al presupposto dell'identit fra filosofia ed ideologia, o pi esattamente fra spazio filosofico veritativo e spazio ideologico di legittimazione e/o di contestazione sociale, significa rovinare metodologicamente tutto prima ancora di incominciare. L'uomo infatti non pu fare a meno di rappresentarsi ideologicamente i propri interessi individuali e collettivi, perch solo su questo terreno pu definirli, determinarli e prenderne coscienza e consapevolezza. Nello stesso tempo, nel corso di questo inevitabile processo, si forma un'eccedenza concettuale che va al di l di questa rappresentazione ideologica, e questa eccedenza concettuale allora la matrice sociale, o pi esattamente ontologico- sociale, di ci che fa parte della componente veritativa, e cio di ci che , ed eternamente. E' questa allora la genesi storica ed ontologico-sociale del concetto di verit. Per poterlo per definire correttamente necessario risalire ai cosiddetti "albori" della storia.