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Feste popolari e feste religiose in Sicilia:

tra sacro e profano

<<In Sicilia il passato


non è morto ma ci
accompagna e si
manifesta presso la culla
e la bara, nelle feste e nei
giochi , negli spettacoli e
in chiesa , nei riti e nelle
tradizioni. Dappertutto
insomma vive e parla>>.
Introduzione

In questo elaborato vengono riportate le feste tradizionali in Sicilia,


distinguendo le manifestazioni prettamente religiose da quelle profane
e come queste si connettono tra loro in una terra dove gli usi e costumi
sono rimasti indissolubilmente radicati.
E’ opportuno prima di analizzare queste manifestazioni, comprendere
il concetto di festa.
La festa è un microcosmo variegato con un certo grado di complessità
per le varianti culturali, antropologiche e tradizionali, in essa
comprese. Risulta un momento della vita sociale di durata variabile,
che interrompe la sequenza delle normali attività quotidiane,
opponendovisi come periodo di particolare effervescenza. La festa si
caratterizza, rispetto al resto del tempo, per l’interruzione del lavoro
produttivo, manifestando l’opposizione al sistema costituito e vigente
attraverso i momenti dell’eccesso, della trasgressione e infrazione di
norme e divieti precostituiti, dell’inversione, dello spreco, della
distruzione.
La festa è allegria, spensieratezza, libertà; la festa è comunità, è
potere, è cura ed è specchio della società, della storia, del mondo che
cambia. La festa, in quanto momento collettivo e/o individuale,
racconta i cambiamenti epocali, economici, culturali.
Per secoli l'aspetto collettivo è stato elemento centrale nelle
celebrazioni festive, e lo spreco glorioso che le caratterizzava era
improntato proprio all'intera comunità: il senso stesso della ricchezza
e delle spese era da leggersi in rapporto all'altro, al popolo. Il valore
delle spese festive è mutato e con la rivoluzione industriale si è chiuso
sempre più nella dimensione privata, in nome di un lusso puramente
imitativo ed individuale1.
Durante la festa vengono infranti i limiti del quotidiano,
si invertono i ruoli, sono leciti offese e scherzi e spesso anche il sacro
diventa elemento di critica e derisione2. L'ordine viene infranto e il
disordine viene accettato in quanto momento necessario al
rinsaldamento dei valori sociali nonché dei rapporti di dipendenza e di
potere.
Ma la festa non è solo spreco o allegria: essa risponde ad una lunga
serie di bisogni; bisogni che variano da un contesto sociale ad un altro,
che variano con il censo e con il ceto, con l'istruzione e con l'età; che
variano nello spazio e nel tempo. È impossibile stabilire l'elenco di
tutti i bisogni che trovano risposta nelle celebrazioni festive, ma
benché si possa parlare di bisogni individuali, è nella collettività che si
affermano, è dalla collettività che vengono plasmati ed è a livello
collettivo (nella collettività unita nel momento di festa) che vengono
soddisfatti.
La festa assume innanzi tutto valore temporale. Collegata al volgere
delle stagioni, al movimento degli astri e del sole, le feste fungono da
strumento regolatore di ogni attività sociale. Dotate spesso di carica
propiziatoria, accompagnavano, anticipavano o concludevano le
principali attività umane. Con l'avvento del cristianesimo questa carica
non si è persa, ma ha assunto nomi diversi, e si è legata alle varie
figure religiose.

Le feste diventano inoltre il luogo privilegiato per


1
Bataille Georges, Il limite dell'utile, Adelphi, Milano 2000
2
Michail Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 2001
creare o rinsaldare i legami sociali. Fino a qualche
anno fa era proprio attraverso la partecipazione
collettiva a questi momenti eccezionali che la comunità
assumeva consistenza e identità: ci si trovava nello
stesso luogo, nello stesso tempo, con problemi e
bisogni comuni, magari coalizzati contro la stessa
forma di potere, contro gli stessi despoti.
Oggi sono cambiati i bisogni e le abitudini della gente
ma l'importanza della socializzazione e dei momenti
collettivi non si è estinta: fioriscono concerti, raduni,
meeting; sopravvivono satire e parodie politiche. In
risposta poi ad un bisogno di socialità fortissimo,
difficile da realizzare nella vita di tutti i giorni, si
assiste al recupero di vecchie tradizioni, di vecchi riti,
di feste e sagre popolari. L'andare a recuperare
antiche feste dal passato, quando il loro potere
socializzante era reale, diventa un po' un modo per
sopperire al bisogno di comunità irrealizzato: si prende
un vecchio farmaco per sanare nuove ferite, sperando
che il valore curativo sia rimasto intatto nel tempo.
In risposta a bisogni totalmente nuovi e ad una società
sempre più multietnica, negli ultimi anni si sta
assistendo a fenomeni che capovolgono il normale
svolgersi delle celebrazioni festive.
Dopo secoli di 'privatizzazione', riemerge il bisogno dell'altro; e
per far ciò si ritorna ai grandi raduni, ai capodanni in piazza, alle
grandi feste di famiglia (dove ci si ritrova con parenti lontani e talvolta
sconosciuti). Emerge il desiderio di vedersi riconfermati dalla
comunità, e accettati; ma ancora più importante, nelle grandi città
emerge il bisogno di dover accettare la società stessa, nella quale non
ci si riconosce più .
Successivamente verranno prese in esame alcune tra le manifestazioni
più importanti del contesto siciliano ed inoltre si accennera’
brevemente la nascita dello studio del folklore.

1.1. Un modulo interpretativo del fenomeno festivo.


La festa popolare risulta interpretabile come sopraccennato un
microcosmo complesso in cui è stabilita la riaffermazione dell'ordine
sociale esistente e, al contempo la sua negazione, riproducendo, al fine
di un miglioramento, il mondo della vita quotidiana. Può risultare utile
ripercorrere due livelli interpretativi della festa per iniziare a
comprendere lo stato del problema. In Totem e tabù3, Freud pone in
rilievo gli aspetti trasgressivi del momento festivo, luogo di abolizione
legittimata delle regole e delle norme del vivere quotidiano. L'idea di
trasgressione, coniugata variamente al concetto di sacro, come
proibizione, ritorna in Georges Bataille che vedeva nel fenomeno
festivo la soddisfazione di un bisogno smisurato di distruzione, di

ostentazione e di spreco1.
I1 Carnevale è stato regolarmente eletto a modello esemplare del
valore trasgressivo della festa, violando ogni regola di comportamento
abituale per mettere in discussione le norme della comune decenza e le
3
cfr. Freud S., Totem e Tabù, Torino 1975, p.144.
regole sociali. "II carnevale in opposizione alla festa ufficiale era il
trionfo di una sorta di liberazione temporanea dalla verità dominante e
dal regime esistente, I'abolizione provvisoria di tutti i rapporti
gerarchici, dei privilegi, delle regole e dei tabù. Era l'autentica festa
del tempo, del divenire, degli avvicendamenti e del rinnovamento".
Per Caillois la festa rappresenta un "intermezzo di confusione
universale4", "I'istante in cui I'ordine cosmico è soppresso...nell'epoca
mitica il corso del tempo è invertito...cosi vengono violate
sistematicamente tutte le norme che proteggono il giusto ordine
naturale e sociale". In Durkheim e Mauss risulta possibile individuare
gli elementi di una diversa interpretazione del fenomeno festivo, come
occasione di recupero periodico delle origini e radici del gruppo, dove
la comunità rifonda se stessa e recupera la propria identità. Caillois ne
evidenzia invece il valore simbolico, sottolineando come gli eccessi
festivi contribuiscano a ricreare lo stato originario di intermediatezza e
caos da cui si è generato I'ordine, recuperando le origini fondanti e
ripetendo il processo attraverso cui si è costituito I'ordine sociale. Il
recupero del momento primigenio non si esaurisce in sè, ma pare
rifluire in modi e tempi diversi nella realtà economica e sociale da cui
esso sembra astrarsi. "0gni anno, alla fine dell'inverno, quando I'anello
del tempo si chiude, c'è il rischio che il cerchio del tempo si concluda.
Come ricaricare l'energia, l'organismo spento della natura? Come
passare dalla morte alla vita? L'esperienza magico-religiosa nei vari
tempi e presso i popoli più disparati ha risposto in diversi modi a
questo interrogativo. Alcuni tratti comuni a tutti questi modi sono: la
rigenerazione periodica del tempo mediante la ripetizione simbolica
della cosmogonia, la rigenerazione della natura accompagnata dalla
purificazione dei peccati, la rigenerazione attraverso la morte...".
4
Caillois R., Théorie de la fete, in “Nouvelle Revue Francaise” 1940 p.49; Eliade M., Il
mito dell’eterno ritorno, Torino 1968
Risulta possibile ipotizzare che il rito celebrato tenda a proiettare la
vicenda quotidiana del gruppo in una prospettiva storica, in una
dimensione originaria rivissuta attraverso la narrazione mitica. Tale
funzione non deve tendere alla pura astrazione, ma essa consiste nel

reintegrare il gruppo nella propria realtà, nella propria storia. 6"Così


come ogni anno, all'approssimarsi dell'inverno, la natura muore, anche
il tempo può morire. Tutto ciò però non accade al di fuori della
volontà degli dei e degli uomini. Se essi lo vogliono la natura rinasce,
il tempo consumato si rigenera e ricostruisce... E' qui che bisogna
cercare il significato originario, pur sempre persistente, della festa in
quanto tale". La festa evidenzia il suo senso più pieno non quando
viene letta nelle sue valenze mitiche, ma quando la sua dimensione
sacrale viene intesa come complementare al profano, con cui la
comunità spartisce il quotidiano in un'intesa solidale5. La dialettica tra
le due forme del tempo, sacro e profano, assume senso e funzione solo
in relazione a concrete esperienze della comunità intorno al mondo,
alla natura e al lavoro. La dimostrazione del fenomeno festivo come
momento sociale e pedagogico, nei suoi aspetti antropologici di natura
aggregativa e comunicativa, analizza le dinamiche di gruppo che
costituiscono il presupposto di una ritualizzazione catartica e
rigenerativa della condivisione comunitaria e della ricreazione della
temporalità primigenia, nella ripetizione cosmogonica con cui la
comunità rivive e sancisce la propria identità storica, in base ad un
recupero rituale delle origini.
Secondo il Lanternari, da qualsiasi presupposto metodologico e da
qualunque prospettiva teorica si intenda partire nell'avvicinarsi al
fenomeno "festa", non si può prescindere da due componenti comuni.
La prima componente è d'ordine psicologico, riassumibile nel

5
Lanternari V., La grande festa. Vita, rituale e sistemi di produzione nelle società
tradizionali, Bari 1976
"sentimento di festa", per cui la celebrazione esprime un'atmosfera
intensamente partecipativa, si arricchisce di dense connotazioni
simboliche, mitiche e perfino millenaristiche, svolgendo una funzione
collettivamente catartica. La seconda componente è quella
istituzionale, per cui ogni festa comporta un'organizzazione
comunitaria ed una regolamentazione da parte del gruppo: dalla
famiglia al villaggio, dal gruppo di mestiere, sindacato o partito
politico, all'intero paese o nazione fuori da settorializzazioni di età,
sesso, classe sociale, a seconda dell'occasione e della natura religiosa,
sociale, civile della festa. Nella componente istituzionale rientra come
fattore costitutivo, accanto all'elemento organizzativo-comunitario, il
quadro di riferimento ideologico preposto alla festa che si richiama ad
un mito delle origini simbolicamente ritualizzato, alla leggenda di
fondazione di un culto, alla immagine di un santo cristiano, ad un
momento critico dell'esistenza o ad un evento storico, sociale o
politico, che viene commemorato e celebrativamente rievocato: in
vista di un rinnovato impulso che dall'esperienza festiva verrà
nell'affrontare con riconsolidata coesione, l'altalena di bene e di male
che contraddistingue l'esperienza della quotidianità. Della componente
istituzionale fa parte integrante anche la periodizzazione iterativa del
momento festivo, secondo una ciclicità che varia in rapporto a un
ordine calendariale o a un ordine naturalmente determinato secondo il
ciclo della vita individuale. Da un lato si pensi alle feste stagionali e
annuali legate immediatamente al ciclo di produzione ( Capodanno,
Natale, Pasqua...).E' noto che il calendario ecclesiastico delle feste in
Occidente si è metodicamente adeguato, nei secoli, ad antichi
calendari precristiani fondati sul ciclo agrario e pastorale: e ciò
secondo i principi della politica di adattamento e di sincretismo
trasformatore, perseguita dalla Chiesa fin dai primi secoli. In tutti i
casi, o per la sollecitazione di eventi occasionali pertinenti alla vita
individuale, o seguendo certe regolarità culturalmente precostituite in
base ad un calendario festivo ufficiale, il gruppo o la comunità
procede ad interrompere la sequenza del tempo ordinario per
immergersi collettivamente nella dimensione di un tempo carico
d'implicazioni culturali e di connotazioni psichiche proprie, altre dal
tempo ordinario. I1 tempo festivo si pone, rispetto al tempo ordinario,
come suo completamento dialettico, come l'essere rispetto al fare, e
nelle feste religiose, come il sacro rispetto al profano. Fare festa
consiste nel ricercare se stessi e la propria identità, ritrovare le
garanzie storico-culturali atte a riconfermarla con forza in ambito
comunicativo e comunitario che è conditio sine qua non, e strumento
precipuo del ritrovare se stessi e del recuperare un equilibrio già
sentito come precario.
La festa, sia di carattere religioso, sociale, civile, sia che assommi più
di uno di tali caratteri, contiene costitutivamente sempre richiami
indiretti o diretti, simbolici o espliciti, a quanto di negativo, nefasto,
rischioso, calamitoso l'esperienza ordinaria realmente nei vari contesti
comporta e si vorrebbe stornare. Esprime attraverso richiami, formule,
gesti, comportamenti simbolici, l'insieme delle realtà collettivamente
auspicate, ambite, invocate per annullare quel negativo e realizzare il
suo "totalmente opposto".
La festa instaura un processo di socializzazione, da cui promana la sua
efficacia catartica. Nella prospettiva seguita dai fenomenologi la
dimensione sociale comunitaria viene obliterata a favore di
un'interpretazione induttivamente psicologica, che isola l’individuo
dal mondo sociale nel quale vive la propria esperienza. Eliade
considera la festa in una prospettiva fenomenologico-religiosa
orientata in senso spiritualista. Nel sottolineare la contrapposizione del
tempo sacro (festivo) e del tempo profano (ordinario), assolutizza il
valore del tempo sacro come occasione suprema di liberazione, da
parte dell'uomo, dai limiti della condizione esistenziale, per fare un
salto di livello ontologico verso l’assoluto. Dunque anche Eliade
astrae il fenomeno festa dal contesto storico globale entro cui si
manifesta e a cui si lega funzionalmente. La sua è una visuale
dinamica, idealistica, spiritualista che pur muovendo da un'importante
scoperta, il rapporto ascendente del profano verso il sacro, finisce col
perdere di vista il momento discendente che porta dal sacro al profano
e la variabilità dinamica dei significati e delle funzioni del "festivo",
in rapporto ai processi di trasformazione della società nel suo sviluppo
storico. Quanto alla dinamica storica delle feste e delle società che le
producono, vi sono fasi in cui la festa più direttamente rispecchia lo
spirito popolare fatto di satira dissacratrice, di critica diretta 9"contro
tutto ciò che è superiore" (come dice Bachtin delle feste carnevalesche
medievali) e fasi in cui la festa si snatura perdendo l'afflato espressivo
più spontaneo, sotto la direzione di organismi, per esempio la Chiesa,
secondo Bachtin, con le sue feste ufficiali, che nella festa
"convalidano la stabilità, l’immutabilità e l’eternità dell'ordine
esistente". Secondo Lanternari dove esiste partecipazione di massa, la
festa non è mai scevra di quella componente spontanea e popolare che
Bachtin chiama carnevalesca, oltre e contro ogni finale significato
gerarchico e riconfermatore dell'ordine esistente. In realtà, fuori dai
casi più moderni di routinizzazione del "tempo festivo" e di
borghesizzazione individualista dell'esperienza festiva, non esiste festa

9
Bachtin M., L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1979, pp. 12-13

IX
popolare e tradizionale che non rappresenti un "mondo alla rovescia",
una uguaglianza temporanea contrapposta all'ineguaglianza ufficiale.
In questo senso la dicotomia ideologico- sociologica di festa
carnevalesca e ufficiale sostenuta da Bachtin, sembra procedere da
un'assolutizzazione idealistica del carnevalesco, oltre la dialettica che
investe tutte le feste popolari e tradizionali in quanto tali. Esse, nel
negare il presente e le forme varie del potere, rendono il presente
vivibile attribuendo nuovo valore al potere. Tutte le feste di massa
hanno un potenziale “nello stesso tempo abbassante e rigeneratore".
Esse rivelano sempre un "mondo bicorporeo che morendo da la vita".

X
PARTE I
ASPETTI ANTROPOLOGICI, PEDAGOGICI E STORICI
DELL’ISTITUTO FESTIVO

3 IL CALENDARIO RITUALE IN COORDINATE SPAZIO-


TEMPORALI

Le feste nel ciclo della vita dell’uomo: i riti di passaggio.

Il corso della vita si svolge, per il popolo, secondo una continua e fitta
trama di forme tradizionali che ispirano, determinano e interpretano
via via le azioni e situazioni di cui è intessuta l'esistenza dell'uomo1.
Alla base di tutte queste forme stanno i Cosiddetti riti di passaggio.
Con questo termine s'intende il complesso di cerimonie che si
compiono per indicare le successive fasi per cui l'individuo entra a far
parte di una comunità, secondo i diversi gruppi sociali (famiglia, tribù,
corporazione, ambiente paesano ecc.) e secondo le successive età della
sua vita.
Ogni cerimonia di passaggio si compie a tappe, secondo una
determinata sequenza, in cui è facile distinguere le azioni che ne
indicano l'inizio, quelle intermedie e quelle che ne sanciscono la fine.
Queste tappe sono molto più appariscenti nella vita sociale delle
popolazioni primitive dove i riti di iniziazione dei giovani per il loro
ingresso come uomini adulti nella tribù hanno una complessità e
un'importanza straordinarie; ma anche alcune manifestazioni della vita
tradizionale nei nostri paesi conservano tuttavia assai bene le proprie
caratteristiche. Basti ricordare le usanze relative al matrimonio, dalla
dichiarazione d'amore del giovane all'accettazione da parte della
ragazza, attraverso numerose e precise fasi e forme rituali, fino
all'ingresso della sposa nella casa dello sposo e alla "prima notte".
Le usanze e credenze relative alla vita umana si ispirano anche a
principi magici con un chiaro scopo propiziatorio o profilattico. Ci
sono delle regole da seguire, e dei tabù da rispettare, per far
convergere a proprio vantaggio le forze del bene e allontanare e
distruggere quelle del male.

1
Toschi P., Il folklore, Studium, Roma 1969.

1
Tutte queste forme rituali, connesse con la vita dell'uomo o svolgentisi
lungo il corso dell'anno, rivelano un fondo antichissimo e, se si vuole,
pagano; ma il Cristianesimo in quasi venti secoli e per gran parte del
mondo ha stampato la sua impronta su tutti gli aspetti della vita
individuale e sociale, dando alle forme più importanti una precisa
regola e un nuovo e più alto significato, e strenuamente combattendo
le manifestazioni superstiziose e contrarie alla religione e alla morale.
Il folklore contemporaneo presenta quindi nella realtà quotidiana
questo antico fondo e questa nuova forma in cui esso vive e si attua,
anche se non sempre in perfetta aderenza.
Ci spiegheremo forse meglio quel senso di accettazione serena e di
operosità lieta con cui le classi popolari, vivono la loro pur non
comoda vita, osservando come essa si svolga lungo il succedersi dei
mesi e delle stagioni, secondo uno schema tradizionale di feste e di
usanze che mirabilmente s'accordano col ritmo della natura e delle
opere agresti. (Il calendario del folklore viene così a costituirsi in una
serie di cicli che distinguono i principali momenti ed episodi di questo
eterno ritorno di stagioni e di opere, secondo il corso dell'anno. Per
comprenderlo appieno, occorre tener presenti due cose: la prima è che
il folklore, quale vive oggi, ha un substrato di credenze e usanze
antichissime in cui si rispecchiano forme di cultura e concezioni
magiche e religiose, consone a una vita trascorrente a più immediato
contatto con la natura e, quindi, regolata secondo le sue grandi leggi e
secondo la primitiva interpretazione dei suoi fenomeni; la seconda è
che questo fondo, già in sé differenziato nei secoli e secondo diversi
cicli culturali (intesi non in forma rigida), si è poi modificato
attraverso il tempo per l'influsso dell'evolversi della civiltà, e
soprattutto per l'azione regolatrice e moralizzatrice, esercitata dal
Cristianesimo. Il senso religioso della vita è stato totalmente cambiato
e, possiamo ben dire, portato sopra un piano più alto; ma le usanze,
legate al corso immutabile delle stagioni, sono rimaste, cambiando
significato, è vero, senza però perdere del tutto alcuni dei caratteri ed
aspetti che ne avevano determinato il sorgere e il tramandarsi. Il
calendario ha subito variazioni, specie per la festa di maggiore
importanza, quella d'inizio d'anno, sì che le stesse usanze si sono
trasferite da una data all'altra, ripetendosi o venendo a confluire in un
sol giorno festivo. E di ciò non sempre ci rendiamo conto. Per es., il
Carnevale, per secoli e secoli, ha rappresentato il capo d'anno, e tutte

2
le sue manifestazioni sono improntate a questo suo carattere
fondamentale; ma chi lo rileva oggi?
In realtà, Natale, Capodanno, Epifania, Carnevale, sono tutte feste che
solennizzano la chiusura di un ciclo annuale e l'apertura d'uno nuovo2;
così Calendimarzo, S. Giorgio, Pasqua, Calendimaggio, l'Ascensione,
S. Giovanni, Ferragosto, S. Martino, S. Michele, S Caterina, sono
ugualmente feste di inizio di una stagione, intendendo questo termine
in senso generico, e quindi molti riti e usi di ciascuna di esse sono
uguali o si rassomigliano: e noi li ripetiamo senza accorgercene,
mentre, a fil di logica, basterebbe ricorrervi una sola volta. S'intende
che poi ciascuna di tali feste ha anche le sue manifestazioni particolari
in rapporto alla diversità delle stagioni e al preciso significato che è
venuta assumendo, specialmente nel suo adeguarsi al clima cristiano e
alla liturgia ufficiale. Né dobbiamo dimenticarci la diversità del clima
fisico e delle condizioni generali dei vari ambienti in cui le stesse
usanze si svolgono. Molte cose ci appaiono già chiare, se
consideriamo gli aspetti essenziali delle usanze e feste di inizio d'anno
(o di stagione). Esse si riconducono tutte a due principi fondamentali,
mirano a due scopi precisi: eliminare, cancellare, distruggere tutti i
mali, i guai, i peccati dell'anno che muore; prevedere, predeterminare
e, vorremmo dire, preassicurare l'abbondanza, il benessere, la
prosperità per l'anno che nasce. Per quel principio magico per cui il
simile produce il simile, le varie tradizioni delle feste d'inizio di un
ciclo annuale esaudiscono il desiderio (che una volta era certezza
assoluta) di raggiungere i due scopi sopraccennati. Distruggere il male
passato, male fisico e male morale, infermità e peccato, tristizia e
tristezza, perché soltanto essendo sani e puri si può affrontare il nuovo
corso delle stagioni nel suo perenne ricominciamento; se si entrasse
nel nuovo anno gravati dalle malattie, dai vecchiumi, dalle malvagità
accumulatesi durante dodici mesi, le forze vitali di fecondità; di
produttività, di bene, che come riserva aurea il nuovo anno ci reca,
sarebbero infettate, ammorbate, definitivamente compromesse.

2
Cocchiara G., Storia del Folklore in Europa, Torino 1952; Popolo e letteratura in Italia,
Torino 1959.

3
1.1 Le feste religiose
Il bisogno di protezione e di sostegno per superare le difficoltà ed i
pericoli dell’esistenza è stato sempre vivo negli uomini fin dai tempi
remoti.
Prima del cristianesimo, le divinità pagane erano oggetto di culto. In
Sicilia, durante le persecuzioni di Decio, Diocleziano e massimo
Galerio, furono molti i martiri che vennero proclamati santi.
Durante la dominazione araba vi furono dei divieti e successivamente,
con i Normanni, gli Spagnoli e gli Aragonesi, vi fu libertà di culto.
Ma fu soprattutto durante il periodo normanno che il culto
cristiano crebbe notevolmente perché, oltre ad essere soldati, essi
furono costruttori di chiese e cattedrali.
Col tempo, la libertà di culto favorì l’incontrollata proclamazione di santi
e patroni ed il papa Urbano VII, nel 1630, emise un decreto per
limitare tale fenomeno.
Oggi, la devozione verso i santi patroni rappresenta la forma di culto
più diffusa. Al santo ci si rivolge per qualsiasi richiesta: per far
cessare la siccità, per evitare i pericoli di terremoti, per scongiurare
carestie, per guarire dalle malattie.
I santi vengono raffigurati in immaginette, i cosiddetti “santini”:
queste immaginette vengono distribuite ai fedeli per essere affisse
dietro la porta di casa o si portano nei portafogli o addosso, come
amuleto.
In Sicilia non esiste paese che non festeggi il proprio patrono o non
coltivi propria festa patronale con manifestazioni rituali ed atti
penitenziali, quali le processioni, le novene ed i pellegrinaggi. Inoltre
ogni festa diventa un evento in cui la riproposizione di simboli
manifesta il sentimento di religiosità popolare. Essi sono: le spighe di
grano, i rami di alloro e di ulivo, le palme, il pane, i ceri ed altri.
In Sicilia ogni festa diventa occasione di recupero del passato
attraverso una serie di rituali che, grazie alla profonda religiosità
popolare, sono stati tramandati da un secolo all’altro.
Ancora oggi le tradizioni sono rimaste intatte, legate spesso alle
ricorrenze religiose, come la festa del patrono, i riti della Settimana Santa,
la Pasqua e il Natale.
In questo lavoro mi limiterò a trattare alcune feste ritenute tra le più
importanti e significative.

1.2 Sant’Agata, patrona di Catania


Secondo la “Passio sanctae Agathae”, risalente alla seconda metà del V
sec., Agata, vissuta nella prima metà del III sec.d.C., apparteneva ad una
nobile famiglia catanese. La vergine subì il martirio durante le
persecuzioni di Decio.
Secondo gli “Atti degli Apostoli”, il proconsole Quinziano si invaghì di
Agata e la chiese in sposa.Ma la fanciulla rifiutò. Arrestata così con
una scusa, per ordine del proconsole, subì il supplizio dei carboni
ardenti, le furono amputati i seni ed infine morì. Gli agiografi
fissano questa data il 5 febbraio del 253 e le sue spoglie furono
conservate a Catania, fino al 1040.
Si narra che nel momento in cui la Santa moriva, Catania subiva un
terremoto e che l’anno seguente, nel giorno dell’anniversario della sua
morte, l’Etna aveva ripreso la sua attività.
Il culto per Sant’Agata si diffuse soprattutto durante la dominazione
normanna, quando due monaci, Goselmo e Gisliberto, riuscirono ad
individuare a Costantinopoli il luogo in cui era stata sepolta, dopo
che il suo corpo vi era stato portato dal generale bizantino Maniace, nel
1040.
Si dice che quando le reliquie della Santa giunsero a Catania, tutte le
campane delle chiese si siano messe a suonare da sole.
Catania festeggia S.Agata il 3, il 4 e il 5 febbraio e in questi giorni la città
si veste di magnifici colori e addobbi. Attualmente le celebrazioni
religiose hanno inizio la prima domenica di gennaio, con
l’esposizione del velo appartenuto alla Santa; il velo è una striscia di
seta rossa lunga quattro metri e larga cinquanta centimetri.
Secondo una delle tante leggende, era bianco e sarebbe diventato rosso
dopo essere stato dispiegato per la prima volta per fermare la lava che
incombeva sulla città.
Il 3 febbraio hanno inizio i solenni festeggiamenti con la processione
della luminaria, alla quale partecipano le autorità,a bordo di una carrozza.
Giorno 4 la processione delle reliquie inizia la mattina con il giro
esterno: il pesante carro della patrona viene trascinato dai fedeli i
quali, vestiti con il tradizionale sacco bianco e il berretto di velluto
nero, disposti in due file,tirano le grosse funi al grido di “Viva
Sant’Aita”.La processione si ripete giorno 5 : questa volta si compie il
giro interno che si protrae fino a tarda serata. Sino ad alcuni anni fa,
la caratteristica della festa di Sant’Agata era costituita dalla
processione delle “candelore”, enormi ceri alti parecchi metri: nel 1514
si contavano 22 candelore, attualmente se ne contano 11. Durante la
processione, gli uomini che sfilano con le candelore eseguono dei
movimenti con il corpo: è la cosiddetta “annacata”, che al buio della
sera diventa uno spettacolo suggestivo per le scie luminose lasciate dai
ceri accesi.
Il busto d’argento della Santa, in cui sono riposte le reliquie, durante
l’anno sono custodite nel Duomo di Catania, nella cappella di
sant’Agata, chiusa da una cancellata di ferro. Questo busto fu
realizzato, nelle officine papali di Avignone, dal senese
Giovanni Di Bartolo e giunse a Catania l’11 dicembre 1376. È alto
circa sessanta centimetri ed è impreziosito da una medaglia
d’argento coperta di gioielli e tempestata di pietre preziose;
sulla testa della Santa poggia una pesante corona regalatele,
secondo la tradizione, dal re Riccardo Cuor di Leone. La
ricchezza delle gioie e dei monili è inestimabile perché, oltre
alla famosa corona, dobbiamo ricordare l’anello di Gregorio
Magno, la croce pettorale di Leone XIII e un anello della
Regina d’Italia.
Una tradizione oggi scomparsa, di cui parla il Pitrè, consisteva nella
partecipazione delle donne alla processione; esse venivano chiamate
“’ntuppate ddi”.
Il termine indicava le donne avvolte da uno scialle che lasciava
scoperti solo gli occhi: le devote godevano della libertà di uscire
da sole e di mascherarsi, rendendosi irriconoscibili e giocando tiri
birboni ai loro amici e persino ai loro mariti .
Per la festa di Sant’Agata è tradizione preparare dei dolcetti di pasta
di mandorle, fatti a forma di olive.
Secondo una leggenda, mentre Agata veniva condotta da Quinziano
per essere processata,si chinò per allacciarsi un calzare: appena
pose il piede su una roccia, essa divenne, per sommo prodigio
divino, morbidissima fino a segnare la sua orma. La giovane,
presa dalla paura, si rivolse a Dio perché le desse un segno
tangibile della sua presenza. Le sue suppliche furono ascoltate e
sul quel luogo nacque un ulivo selvatico i cui frutti furono raccolti
e conservati dai devoti come reliquie .
La festa di Sant’Agata è importante oltre che dal punto di vista
religioso anche quello storico, perché vi si notano i segni del
culto della dea egiziana Iside: l’abito bianco dei fedeli, il velo
miracoloso, il culto della mammella ( a Catania si vendono dei
dolci chiamati “la mammella di Sant’Agata”, costituiti da una
semisfera di marzapane ricoperta da una gla ssa di zucchero
sormontata da una grossa ciliegia);
da notare che il fercolo , fino al secolo scorso, aveva la forma di una
barca, esattamente come quello di Iside, personificazione della
regione del Nilo.

1.3 Santa Rosalia, patrona di Palermo e ‘u fistinu


In base ad informazioni di agiografi locali, Rosalia, di origine
normanna per parte di madre, era figlia di Sinibaldo, duca di
Quisquina e delle Rose, ed era vissuta alla corte palermitana. La
tradizione vuole che la ragazza fosse damigella d’onore della
regina Margherita, figlia del re di Navarra e sposa di Guglielmo I.
La permanenza della giovinetta alla regia dei Normanni coincide
con il regno di Guglielmo I “il Malo”: Rosalia ebbe notizie
delle crudeltà usate dal re per sopprimere le rivolte scoppiate e
anche degli intrighi e dei delitti della reggia.
Perciò considerò la vita di corte frivola ed offensiva, avendo ricevuto
una solida educazione cristian a . Alla morte del re, Rosalia chiese e
ottenne il permesso di vivere da eremita in una grotta sul monte
Quisquina, dove trascorse dodici anni della sua vita. Poi si trasferì
sul monte Pellegrino, a Palermo, dove visse fino alla morte
avvenuta, secondo la tradizione, il 4 settembre del 1160.
L’iconografia popolare illustra la Santa molto giovane, con una corona
di rose sul capo, in estasi ai piedi del Crocifisso, nel quale essa
vide rispecchiata la figura del Cristo.
La Santa divenne padrona di Palermo dopo un evento che si sarebbe
verificato durante la pestilenza del 1624.
La leggenda narra che un giorno, sul monte Pellegrino, Rosalia apparve ad
un cacciatore,Vincenzo Bonello, smarritosi a causa di un forte
temporale. La Santa gli avrebbe detto di avvertire il Vescovo di
Palermo che nella caverna dove era vissuta da eremita, giacevano
le sue ossa. Ecco le sue parole: «Non spaventarti, figlio, ché io
ti proteggo e con te proteggo e difendo questa città che muore e
più non alza la cresta». Il cacciatore, terrorizzato, parlò al
Vescovo. Questi allora si recò subito nel luogo indicato della
Santa e ritrovò le ossa, che furono trasportate in città con
processione solenne tra fiori, candele accese e canti.
Miracolosamente la peste che aveva colpito Palermo cessò. Il
Pitré descrive così la processione delle reliquie della Santa
ritrovate il 15 luglio del 1624: «…al loro passaggio il male si
alleggeriva, diventava meno intenso, perdeva la sua gravità.
Palermo in breve fu libera ed in attestato di riconoscenza a tanto
beneficio, si votò a Lei e prese a celebrare in suo onore feste
annuali che ricordassero i giorni della liberazione e fossero come
il trionfo della Santa protettrice. La grotta del Pellegrino divenne
santuario, ove la pietà d’ogni buon devoto si ridusse a venerare
la squisita immagine della Patrona». Allora questa malattia non
aveva nome e la realtà del morbo era intesa dalla gente come
una punizione del cielo, la sua fine una grazia divina.
Dal 1624, ogni anno, dal 9 al 15 luglio, in maniera ogni volta diversa
e rinnovata, Palermo racconta la storia della “Santuzza”, come
viene chiamata affettuosamente Rosalia, festeggiando la patrona
con un festino che dura sette giorni, mentre il 4 settembre ha
luogo il pellegrinaggio alla grotta del monte, ove è edificato il
santuario, e alla cappella della Cattedrale di Palermo, in cui sono
cust odite le reliquiedella Santa.
Un tempo i festeggiamenti erano molto più ricchi di manifestazioni
rispetto aquelli che si svolgono oggi. Comprendevano, oltre alla
sfilata del carro tirato daquaranta muli e sostituiti dopo da buoi,
spettacoli pirotecnici che si tenevano allamarina della città e la
processione finale dell’urna con le reliquie. In oltre si svolgevano “la
beneficiata”(una lotteria), la tradizionale novena cantata dai cantastorie e
la corsa dei cavalli berberi per le vie della città. I premi consistevano
in drappi e pitture sul legno, su cui venivano incollate delle monete
d’argento da 5 e 10 lire e in tavole su cui venivano raffigurate la città
di Palermo e Santa Rosalia, arricchite anch’esse con molti pezzi
d’argento. La vincita suscitava una gioia incontenibile tra i devoti e i
premi vinti venivano portati in trionfo da due uomini per le vie della città,
al suono dei tamburi o alla luce delle fiaccole.
Nei vicoli popolari i cantastorie narravano, accompagnandosi col
violino, la storia della Santa, in versi siciliani, oppure la novena per
la “Santuzza”, eseguita su richiesta dei devoti, sempre alla stessa ora e
davanti alle stesse case (per nove giorni di seguito).
Dal secondo al quarto giorno dei festeggiamenti aveva luogo “la corsa dei
cavalli” berberi; anticamente i cavalli erano cavalcati da fantini scelti
tra i trovatelli; solo più tardi si decise di eliminare questa crudele
usanza e di far correre gli animali senza cavalieri. Si stabilì anche di
collocare sulla criniera e sulla coda dei cavalli delle palline e dei
pungoli che li eccitassero a correre più velocemente. Allo stalliere, al
quale era stato affidato il cavallo vincitore della corsa, veniva data in
premio un’aquila in legno dorato, su cui erano incollate delle grosse
monete d’argento.
Ma l’attrattiva principale del festino era “il carro trionfale”, costruito
con enormi travi molte settimane prima dell’inizio dei festeggiamenti.
La forma del carro era quella di una nave, decorata con pitture che
rappresentavano gli episodi più significativi della vita della Santa. In
cima al carro troneggiava la sacra immagine della patrona.

Il carro veniva trainato da 40 buoi tenuti da fedeli vestiti di bianco,


colore che rappresenta la fede. Per la pesante mole, il carro avanzava
lentamente e ai lati del carro venivano disposti degli uomini che
provvedevano a bagnarne le ruote durante il percorso, per evitare che
le scintille provocate dall’attrito della ruote con il selciato provocassero
un incendio.
Dopo il 1858 a Palermo, sia per i lavori di livellamento che
interessarono la strada del Cassaro, sia per la politica del governo di
allora, volta a cancellare forme e usi che potessero in qualche mo-
do ricordare l’antico regime, si interruppe la tradizione del carro,
ripresa poi nel 1896.
I festeggiamenti erano stati interrotti in due altre occasioni: nel 1837,
a causa di un’epidemia di colera, e successivamente nel 1848 e nel
1849, gli anni della rivoluzione antiborbonica.
La processione del carro riprese nel 1924 in occasione del terzo
centenario del ritrovamento delle reliquie, ma, dopo tale data, la tradizione
di far girare il carro per le vie delle città fu sospesa per molti anni.
Oggi il carro si mantiene invariato salvo alcune modifiche e aggiunte
secondarie e viene fatto nuovamente girare per la città dal 1974.
Attualmente esso è lungo circa nove metri e largo sei, con una altezza di
circi dieci metri. Su di esso trovano posto circa sessanta persone, tra
orchestranti e coro, e in cima al carro è collocata la statua della
“Santuzza” attorniata da nuvole, angeli e putti.
Nelle processioni che si svolgevano il secolo scorso,il carro era
preceduto da carri minori, detti “macchinette”, che rappresentavano
scene e opere della vita della Santa. Questi carri, per la loro piccola
mole, potevano sfilare inoltrandosi nelle vie interne della città.
Con il trascorrere del tempo la profonda devozione della cittadinanza nei
confronti della patrona è notevolmente aumentata.
2.2 La nascita del folklore
La parola folklore deriva da due termini che designano “le credenze (lore)
del popolo (folk), cioè di quei gruppi sociali che, esclusi dal potere e dalla
cultura cosiddetta “alta” imperniata sulla trasmissione scritta, occupano
nella gerarchia della società i più bassi “gradini”. Il termine è stato usato
per la prima volta dall’archeologo inglese William Thoms nei suoi studi
chiamati popular antiquities ("antichità popolari") in Inghilterra o,
diffusamente in Europa, antiquitates vulgares, che a partire dal XVIII
secolo si erano sviluppati intorno alla cultura degli strati sociali più bassi.
Per molti secoli la scrittura e la lettura restarono un privilegio dei pochi che
ebbero la possibilità di farsi una cultura, la stragrande maggioranza delle
persone continuava a trasmettere esperienze e conoscenze attraverso la
tradizione verbale. L’unica occasione per diffonder storia, saggezza,
educazione e insegnamenti presso i coetanei, figli e nipoti, rimaneva quindi
il racconto. Esso poteva diversificarsi in favole dove veniva affidata al
comportamento degli animali una morale che è lezione di vita per gli
uomini, in fiabe aventi come protagonisti gli essere umani, in storie nelle
quali la narrazione si attiene a fatti realmente accaduti nel passato ed infine
in leggende. Le leggende partono da circostanze e opere concrete,
attribuendo i motivi della loro esistenza a realtà storiche che quasi sempre
si fondono con una fantasia popolare e infaticabilmente alla ricerca di un
segno mandato dalla buona sorte, di un maleficio, di un giudizio sul
contegno tenuto dal singolo o dalla comunità
Gli studiosi di tale credenze e perciò dei prodotti “spirituali” derivati dalla
tradizione orale, nel romanticismo e in larga parte del positivismo, si
concentrano sui materiali formalizzati di tipo letterario espressi dalle classi
popolari, come canti, fiabe, proverbi, oppure sui riti e sui comportamenti
legati alla religiosità. Il folclore non è, come si potrebbe credere, limitato
alle comunità rurali: la tradizione popolare si è infatti diffusa e sviluppata,
con funzioni e modalità diverse, anche nei centri urbani. Grazie alla ricerca
degli storici delle tradizioni popolari, antropologi, etnologi, sociologi,
psicologi, linguisti ecc. oggi la letteratura e le tradizioni popolari non sono
più considerate elementi pittoreschi o romantici di una società, oppure una
forma "inferiore" di cultura: il folclore è invece visto come parte
dell'evoluzione della cultura e importante fonte d'informazioni sulla storia
del genere umano. La materia folcloristica può essere classificata in cinque
grandi categorie: idee e credenze, tradizioni, narrazioni, detti popolari e arte
popolare. Le credenze rispecchiano l'intento umano di dare una risposta a
fenomeni che suscitano l'inquietudine e le speranze dell'umanità: dalle
malattie e ai modi di curarle, alle speculazioni sulla vita ultraterrena; questa
categoria comprende inoltre superstizioni, magia, divinazione, stregoneria.
Il secondo gruppo, quello delle tradizioni, riguarda feste, giochi, balli; per
estensione vi si potrebbero includere anche la gastronomia e
l'abbigliamento. Nella terza categoria, le narrazioni, si trovano le ballate e i
vari generi di racconti, il teatro, le musiche popolari, che possono essere in
parte ispirati a personaggi o fatti realmente accaduti. I detti popolari
comprendono indovinelli, formule magiche, proverbi, filastrocche (come
ad esempio le nursery rhymes, molto diffuse nei paesi di lingua inglese).
Infine l'arte popolare, la sola categoria non verbale, riguarda qualsiasi
forma d'arte che esprima il carattere della vita della comunità. Gli studi
scientifici sul folclore cominciarono circa tre secoli fa. Uno dei libri più
antichi sull'argomento fu il Traité des superstitions (1679, Trattato sulle
superstizioni) dello scrittore satirico francese Jean-Baptiste Thiers. Un'altra
opera dello stesso periodo, le Miscellanies (1696, Miscellanee)
dell'archeologo inglese John Aubrey, si occupa di credenze e usanze
popolari come presagi, sogni, chiaroveggenza e fantasmi. L'opera più
importante sul folclore in generale è Antiquitates Vulgares (1725, Antichità
popolari) dell'ecclesiastico e archeologo britannico Henry Bourne,
resoconto dei costumi popolari connessi a feste religiose. Reliques of
Ancient English Poetry (1765, Reperti di antica poesia inglese), a cura del
poeta e vescovo inglese Thomas Percy, è una raccolta di ballate inglesi e
scozzesi. Nel 1777 l'ecclesiastico e archeologo britannico John Brand
catalogò e descrisse le origini di diverse usanze in Observations on the
Popular Antiquities of Great Britain (Osservazioni sulle antichità popolari
della Gran Bretagna), divenuto il modello per le successive opere inglesi
sull'argomento. In Germania, le prime opere sul folclore sono dovute al
filosofo Johann Herder e ai filologi Jacob e Wilhelm Grimm: Herder
pubblicò nel 1778 una raccolta di canzoni popolari tedesche, mentre i
fratelli Grimm riunirono una serie di racconti popolari in Fiabe per bambini
e famiglie (1812-22). Nell'Ottocento e nel primo Novecento, in Europa
aumentò l'interesse per la raccolta e l'analisi del materiale folclorico.
Nacquero numerosi giornali e società che si occupavano della registrazione
e della conservazione delle espressioni della tradizione popolare. La ricerca
del tedesco Theodor Benfey, filologo e studioso di sanscrito, gettò le basi
per tutti i successivi studi comparati in questo campo. Le sue teorie furono
seguite da studiosi come il classicista e folclorista scozzese Andrew Lang,
che scrisse Custom and Myth (1884, Costume e mito) e Myth, Literature
and Religion (1887, Mito, letteratura e religione), e l'antropologo britannico
James George Frazer, autore del celebre Ramo d'oro (1890; ampliato poi
nel 1915 in 12 volumi). Le loro opere furono pietre miliari della cosiddetta
scuola antropologica negli studi sul folclore. In Italia, il primo studioso di
rilievo fu Giuseppe Pitré. La sua opera principale, ancora oggi
fondamentale, è la Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane (1871-1913,
in 25 volumi), che illustra i più vari fenomeni folclorici dell'isola; del 1894
è la sua vasta Bibliografia delle tradizioni popolari italiane. Notevoli
contributi hanno dato Giuseppe Cocchiara, autore, tra altre opere, di Popolo
e letteratura in Italia (1959), ed Ernesto De Martino, acuto interprete delle
manifestazioni religiose popolari, autore, tra l'altro, degli importanti saggi
Morte e pianto rituale (1958), Sud e magia (1959) e La terra del rimorso
(1961). Già nel 1905, l'Archivio folclorico danese utilizzò il fonografo di
Thomas Alva Edison per registrare canzoni danesi, groenlandesi e delle
isole Fær Øer. Fra i tanti studiosi scandinavi, il più importante fu il
finlandese Antti Aarne, che diede impulso alla ricerca per accertare gli
elementi, il luogo d'origine e la data approssimativa delle narrazioni
popolari: nel 1910 creò un importante sistema di catalogazione di racconti
popolari, in seguito tradotto e ampliato dall'americano Stith Thompson in
The Types of the Folk Tale (1928, I tipi del racconto popolare). Le società
folcloriche in Europa e negli Stati Uniti hanno favorito la raccolta (con
incisioni su nastro e fotografie) e la classificazione di estesi archivi di
materiale folclorico. Queste società di studiosi, che hanno contribuito a fare
dello studio del folclore uno strumento prezioso nella ricerca antropologica,
etnologica e psicologica, comprendono l'inglese Folklore Society, fondata
nel 1878; la francese Société des traditions populaires, che nel 1886
cominciò la pubblicazione della "Revue des traditions populaires";
l'americana Folklore Society, fondata nel 1888. Importante è anche la
Folklore Fellows (organizzazione internazionale fondata nel 1907, con sede
centrale a Helsinki, in Finlandia): attraverso la rivista "Folklore Fellows
Communications", l'organizzazione ha prodotto più di duecento
pubblicazioni, tra cui quasi quaranta cataloghi. Anche la Società
internazionale per la ricerca sulla narrativa popolare, fondata nel 1959, con
sede centrale a Turku (Finlandia), ha dato impulso allo studio del folclore
comparato. In Italia si deve a Pitré, che fu presidente della Società siciliana
di storia patria, la fondazione del Museo etnografico di Palermo. A Roma
ha invece sede il Museo nazionale preistorico ed etnografico Luigi Pigorini.
L’elaborazione del concetto di cultura, più complesso ed organico,
verificatosi con l’opera dell’antropologo E.B. Tylor, determinò con il
tempo un arricchimento anche dell’oggetto degli studi folkloristici. Nella
sua opera “Primitive culture”, alle prime pagine, Tylor affermava infatti
che “la cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è
quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la
morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita
dall’uomo come membro di una società”. Si capisce, perciò, che sono
espressioni culturali anche i modi di fabbricare un muro di recinzione o la
tecnica per costruire una gerla, in quanto abilità che si apprendono
mediante un insegnamento orale derivato dalla tradizione e grazie
all’imitazione, così come lo sono i comportamenti legati a certe credenze
magiche o, per fare un altro esempio, la concezione che del carnevale ha un
certo gruppo. Il concetto di cultura viene elaborato da Tylor nel corso dei
suoi studi applicati ai popoli “selvaggi”, delle società “primitive” e senza
scrittura, mentre i popoli folkloristici si occupavano e si occupano, delle
società complesse come la nostra. Ci sono però almeno due livelli a cui si
può collocare la ricerca sulla cultura, tylorianamente intesa: il livello
etnografico e quello etnologico. Tylor in Primitive Culture stabilisce
l’esistenza di una cultura popolare, l’autore mette in luce le due
caratteristiche predominanti nel movimento della cultura popolare: la
sopravvivenza, aspetto passivo del processo e la ripresa di componenti
ereditate, lato attivo o creativo degli strati della società. Visti nel contesto
dell’ambiente economico e asociale i due aspetti insieme mostrano il
meccanismo psichico operante nella tradizione; lo sviluppo prende
generalmente forma di ascesa sebbene Tylor vede anche la possibilità
opposta di degenerazione.
Come scrive Lévi-Strauss, l’etnografia consiste in “osservazione e
descrizione, lavoro sul terreno” su un oggetto o un gruppo umano
relativamente ristretto. L’etnologia, invece, pur senza escludere
l’osservazione diretta, richiede un’estensione del campo di osservazione, o
in senso geografico o in senso storico o in senso sistematico (cioè su un
particolare aspetto della cultura), che consenta l’elaborazione di una
interpretazione “sintetica”. Lévi-Strauss, nelle stesse pagine, ci parla poi di
un terzo livello di indagine: quello dell’antropologia sociale o culturale
come ulteriore e più alta tappa di sintesi, che “mira a una conoscenza
globale dell’uomo […]; a conclusioni, positive o negative, ma valide per
tutte le società umane, dalla grande città moderna fino alla più piccola
melanesiana”. Tornando agli studi sul folklore possiamo concludere che
essi possono compiersi almeno ai due primi livelli, corrispondenti a quelli
dell’etnografia e dell’etnologia. In entrambi i casi, comunque, il ricercatore
deve disporre di un metodo rigoroso, se intende conseguire risultati utili da
un punto di vista scientifico e degni di qualche interesse (anche sociale).
Nel chiarire il concetto di “antropologia sociale” Frazer afferma che è
compito di questa disciplina studiare le credenze e i costumi dei selvaggi
insieme alle reliquie che quelle credenze e quei costumi conservano nel
folklore. Così scrive in “The Devil’s advocate”:
[…]Per esempio gli Dei dell’Egitto e di Babilonia, della Grecia e di Roma
sono stati dimenticati da secoli (dalla gente colta) e sopravvivono solo nei
libri degli studiosi, eppure i contadini che non hanno mai sentito parlare di
Apollo e di Artemide, di Giove e di Giunone, credono fermamente fino ad
oggi in streghe e fate, fantasmi e folletti, creature minori della fantasia
mitologica. […]
(J.G. Frazer “Devil’s advocate”, 1927)

Frazer in The golden Bough presenta le successive manifestazioni di un


culto o di una credenza tra i primitivi, poi tra gli antichi popoli mediterranei
e infine nelle tradizioni popolari delle civiltà europee. Ne segue lo sviluppo
e vede le drammatiche esperienze vissute dalla razza umana nel tentativo di
conoscere io proprio destino. Secondo Frazer la prima molla di questo
processo evolutivo, iniziato nella preistoria fu la magia con le sue due
componenti – imitazione e contatto- spesso mescolato, mentre il loro lato
negativo si esprimeva nei tabù.
Le credenze del popolo in creature sovrannaturali lo porta a celebrare dei
riti in loro onore. Questi momenti hanno un’importanza fondamentale nella
vita sociale dei gruppi umani, in quanto rispondono all’esigenza di
esprimere e di ricreare manifestazioni culturali tradizionali che andrebbero,
altrimenti, perse.
In The Interpretation of Survivals di Marett si sottolinea la profonda
attrazione che hanno oggi le usanze sopravvissute: le credenze non
sopravvivono per un processo puramente meccanico di trasmissione, ma
perché sono adatte alla mentalità di trasmissione, e, quindi, necessarie al
mondo contemporaneo,idea già presente allo stato embrionale in Tylor.
Oggi chi si occupa di folclore rivolge la sua attenzione a tutte quelle
manifestazioni di carattere tradizionale e popolare come le danze in
costume, le feste, le sagre di paesi, i festeggiamenti, le occasioni di
ricorrenze speciali, gli spettacoli e le degustazioni di specialità
gastronomiche.
Il folclore di ogni paese racchiude in sé pezzi di storie tradizionali,
testimonianze dell’intimo e profondo legame della popolazione con
l’ambiente, il clima ed il paesaggio. Ed è dall’analisi di queste
manifestazioni, nelle quali sopravvivono ancora aspetti del patrimonio
culturale di un popolo, che si possono ricavare informazioni e rendere
più approfondite le conoscenze di una popolazione o di una nazione.
Anche se la moderna civiltà tende a cancellare le antiche tradizioni, i paesi
siciliani conservano ancora un ricco patrimonio folcloristico,
caratterizzato da manifestazioni popolari legati a riti profani e feste
religiose.
Nonostante l’integrazione del modo di vivere, e quindi del costume,
con il resto dell’Italia, il folclore siciliano è molto tipico e rimane
determinante per la conoscenza dell’isola e dei suoi abitanti.
Credenze popolari, riti, modi di essere, canti spontanei tramandati
oralmente sono un patrimonio che testimonia la genuina espressione
popolare .
I simboli folcloristici siciliani universalmente conosciuti sono: il
“carretto siciliano” e i “pupi”. Ad essi è dedicata dedichiamo la
prima parte di questo elaborato, a cui farà seguito la trattazione di
alcune tra le feste più rappresentative delle tradizioni popolari
siciliane, distinte in feste religiose e feste popolari solamente per
comodità e non per una sostanziale differenza tra loro, poiché, per
quasi tutte, riti e simboli hanno comuni radici che affondano nel passato
più lontano della Sicilia.
E’ importante analizzare quale è il valore di queste feste che si propongono
di mantenere vive

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