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di Giovanni Sartori
L'altra sera su «La7» Ritanna Armeni ha centrato il problema così: «Se c'è una cosa che è
di sinistra è la questione dei salari e degli stipendi». Vero. Così come è vero che il
desiderio di trovarsi più soldi in tasca è un desiderio primario, e per i poveri un bisogno
primario. Il problema resta di come si fa. Deve essere chiaro, in premessa, che la
questione non è soltanto di distribuzione, di distribuzione della ricchezza; è anche, e
prima, di creazione della ricchezza. Se prima, a monte, non ci sono soldi, a valle non c'è
nulla da spartire. Mi sembra ovvio. Eppure i più non si chiedono che cosa produca
ricchezza. La danno per scontata, come se i soldi piovessero dal cielo, come se ce li
regalasse Gesù Bambino. Magari. Ma finora non è mai successo. Allora cosa si deve
intendere per ricchezza, e cosa la produce?
Fino all'avvento della società industriale la base dei patrimoni era l'agricoltura, il lavoro
«a mano » dei contadini, seguita a distanza dal commercio. Salvo piccole eccezioni, fino
alla fine del '700 abbiamo avuto società povere, molto povere, la cui ricchezza era sterile,
per dire che i ricchi la consumavano in spese sontuose: palazzi, chiese, opere d'arte.
Questa era, allora, ricchezza per uso, e non ancora ricchezza per investimento: il denaro
investito in produzione di ulteriore denaro, in «capitale ». La parola deriva da caput, la
testa (come nell' espressione pena capitale), e acquista il suo significato economico con
la rivoluzione industriale e il suo moltiplicatore: la macchina. E guai a non consentire a
questo moltiplicatore di moltiplicarsi.
Il socialismo riformista lo ha capito, e difatti accetta il sistema di mercato con tutte le sue
implicazioni. Certo non può abbandonare salari e stipendi a una competizione selvaggia
che davvero porterebbe all'impoverimento crescente del proletario (mal previsto da
Marx); e difatti questa sinistra, la socialdemocrazia, si impegna nel welfare e nella
protezione delle fasce sociali più deboli.
19 marzo 2008