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Riflessioni critiche sul concetto di competenza 

Berta Martini 

Il concetto di competenza è, da una decina d’anni, al centro di un dibattito 1 , che se letto diacronica­ 
mente nel tempo e sincronicamente nelle interpretazioni offerte dalle scienze dell’educazione, riflet­ 
te le tensioni e, anche, i cambiamenti che hanno segnato il modo di concepire la scuola, i processi di 
insegnamento e apprendimento e, più in generale, la formazione. 
Semplificando molto, possiamo dire che si è passati da una concezione di tipo “behaviorista” della 
competenza, ad una di tipo “cognitivista”. La prima, fa coincidere l’idea di competenza con i com­ 
piti che i soggetti sono in grado di eseguire, distinguendo, su questa base, anche diversi “livelli” di 
competenza.  Questa  interpretazione,  risente  della  mutuazione  di  questo  concetto  dall’àmbito  della 
formazione  professionale  dove  assume  un’accezione  vicina  all’idea  di  “performance”.  Accezione, 
questa, che oltre ad essere insufficiente ad inglobare i molti significati che interessano una trasposi­ 
zione didattica del concetto di competenza, ha il difetto di declinare in senso “professionalizzante” 
il progetto educativo della  scuola. La seconda concezione, assimila  la competenza ad una  “strate­ 
gia”, cioè ad un sistema di conoscenze e abilità che sono mobilitate dal soggetto in relazione ad uno 
scopo (un compito o un’azione). Da ciò deriva che una competenza è definibile in base alla tipolo­ 
gia  del  compito  o  di  un  insieme  di  compiti.  Un’analisi  critica  dei  concetti  di conoscenze,  abilità , 
performance ha, quindi, contribuito a precisare progressivamente il significato di competenza, attri­ 
buendole lo status di specifico e fondamentale obiettivo formativo. La possibilità stessa della scuola 
di educare ogni soggetto ad autonomia  e responsabilità , così come le condizioni per l’esercizio di 
una cittadinanza  attiva, vengono oggi espresse in termini di “competenze” o, meglio, di repertori di 
competenze caratteristiche di diversi ambiti di attività. Dal punto di vista pedagogico e didattico, ciò 
impone  una  riflessione  critica  su  questo  concetto,  così  da  delimitarne  l’estensione  (ma  anche 
l’intensione)  semantica  e  pervenire  ad  una  definizione  della  “competenza”  abbastanza  ampia  e 
comprensiva  da  affrancarla  da  interpretazioni  riduttivamente  tecnicistiche  e  tale  da  garantirle  una 
sufficiente efficacia come categoria progettuale del curricolo. 
Oggi, il significato su cui si attesta il concetto di competenza risente, certo, dell’impostazione “co­ 
gnitivista”,  ma  con  un’attenzione  specifica  al  fatto  che,  essendo  i  compiti  caratterizzati,  per  chi  li 
deve  svolgere,  da  diversi  gradi  di  complessità,  novità,  interesse,  una  competenza  si  manifesta  in 
modo non  indipendente dalla capacità di coordinare  insieme conoscenze, abilità e, anche, disposi­ 
zioni  interne  motivazionali  e  affettive.  Va  in  questa  direzione,  per  esempio,  l’OCSE,  che 
nell’ambito del programma DeSeCo 2  si riferisce alla nozione di competenza come ad una nozione 
nella quale intervengono diverse componenti: «Fronteggiare efficacemente richieste e compiti com­ 
plessi comporta non solo il possesso di conoscenze e di abilità, ma anche l’uso di strategie e di rou­ 
tines necessarie per l’applicazione di tali conoscenze e abilità, nonché emozioni e atteggiamenti a­ 
deguati e un’efficace gestione di tali componenti». 3 
Possiamo, dunque, riferirci ad un approccio secondo il quale la messa in opera di una competenza 
mobilita  tre  componenti  soggettive:  le  conoscenze,  le  abilità   e  le  disposizioni  interne  stabili 4 .  Le 
prime corrispondono al sapere 5  e sono per lo più di natura dichiarativa. Esse comprendono i fatti e 


In Italia, il dibattito, aperto dalla pubblicazione, nel 1996, del Libro Bianco della Commissione Europea, Insegnare e apprendere. 
Verso la società conoscitiva, Lussemburgo, si è articolato in diverse tappe, tra le quali ricordiamo i lavori delle due diverse Commis­ 
sioni di “saggi”. La prima Commissione, operante fra il gennaio e il maggio 1997, elaborò il documento: “Le conoscenza fondamen­ 
tali per l’apprendimento dei giovani nella scuola italiana dei prossimi decenni”, Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istru­ 
zione, 78; la seconda Commissione elaborò nel 1998 il documento di sintesi: “Contenuti essenziali per la formazione di base, Annali 
della Pubblica Istruzione, 1/2. 

Definitions and Selection of Competencies: Theoretical and Conceptual Foundations. 

Scalera V. (2000), Il progetto Ocse/Pisa, in Istituto nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione (Cede). Ricerche valu­ 
tative internazionali 2000, Milano, FrancoAngeli, 2001. 

Questo approccio è sostenuto in Pellerey M., Le competenze individuali e il portfolio, Firenze, la Nuova Italia, 2003, pp. 67­73. 

Frabboni F., Manuale di didattica generale, Roma­Bari, Laterza, 1992.


le idee acquisite dal soggetto attraverso lo studio, la ricerca o l’esperienza. Le seconde corrispondo­ 
no, invece, al saper fare o, in psicologia, a conoscenze di tipo procedurale. Esse vengono usate per 
designare  la capacità di utilizzare  le proprie conoscenze  in compiti abbastanza semplici. Infine,  le 
disposizioni interne possono essere assimilate all’espressione saper essere. Si riferiscono a caratte­ 
ristiche personali di tipo motivazionale o sociale e sono relative a sistemi di credenze e valori che 
orientano e sostengono il soggetto ad operare in un certo modo. 
È interessante osservare che  in questo modo di  intendere  le competenze, è  implicito il riferimento 
ad esse come “conoscenze in uso”. Una competenza si rende cioè manifesta attraverso la mobilita­ 
zione di altre conoscenze, siano esse dichiarative (come nel caso dei saperi) o procedurali (come nel 
caso  delle  abilità ).  Di  conseguenza,  né  la  padronanza  di  conoscenze,  né  l’esercizio  di  specifiche 
abilità possono, di per sé, generare competenza, a meno che il soggetto sia motivato e si impegni a 
mobilitare le conoscenze e le abilità corrispondenti in una situazione che le solleciti. Non solo. La 
situazione  che  l’allievo  dovrebbe  riconoscere  come  debitoria  dell’uso  di  conoscenze  e  abilità  è  di 
tipo indefinito o, almeno, variabile. Ci si aspetta, cioè, che la stessa competenza, per il fatto di esse­ 
re tale, si manifesti in situazioni differenti. Il che rende la competenza un concetto che trattiene in sé 
anche  il carattere di trasversalità . Nessuna risorsa (conoscenza o abilità), cioè, appartiene esclusi­ 
vamente ad una competenza specifica, potendo essere mobilitata anche da altre. Al contrario, ciò è 
condizione necessaria perché essa possa essere utilizzata in diversi contesti e in diversi momenti, in 
risposta a diverse situazioni e intenzioni. In sintesi, il possesso di una competenza implica, da parte 
del soggetto, non solo la capacità d’uso delle risorse interne disponibili (le conoscenze e le abilità 
possedute fino a quel momento), ma anche il loro trasferimento in contesti (compiti o situazioni) di­ 
versi da quelli in cui quelle conoscenze e quelle abilità sono state originariamente apprese. 
L’idea che una competenza implichi il trasferimento di conoscenze e abilità è, d’altra parte, in linea 
con la tendenza psico­pedagogica di far corrispondere la competenza a livelli gerarchicamente ele­ 
vati di apprendimento. Lo stesso Dewey, 6  avverte che l’educazione e la formazione non si situano a 
livello dei soli contenuti, ma al livello sottostante del processo di formazione di abiti, attitudini e in­ 
teressi permanenti, cioè di abitudini durevoli (mentali ed emotive), che si formano “nascostamente” 
e  che  possono  essere  messe  in  atto  in  diverse  situazioni.  Questa  interpretazione,  collima  in  larga 
parte con la distinzione di Bateson 7  di diversi livelli logici dell’apprendimento. Nella classificazione 
ipotizzata da Bateson, infatti, il livello gerarchico più elevato, il livello due, detto deuteroapprendi­ 
mento, corrisponde all’apprendimento di abitudini mentali durature e trasferibili. Nei livelli inferiori 
(livello  zero  e  livello  uno,  o  protoapprendimento)  troviamo,  rispettivamente,  l’apprendimento  di 
contenuti e l’apprendimento di abilità . 8  Infine, possiamo rintracciare una concordanza tra l’idea di 
competenza che stiamo avanzando e quella di comprensione 9  gardneriana. La comprensione, secon­ 
do  Gardner,  rappresenta  l’obiettivo  fondamentale  dell’azione  di  insegnamento.  Essa  si  realizza 
quando il soggetto accede a conoscenze e abilità appresi in un certo contesto e le utilizza in un con­ 
testo nuovo. Dunque, la comprensione, anziché essere inglobata come processo cognitivo nel con­ 
cetto di competenza, coincide con la possibilità stessa dell’esercizio di questa. 
In base a quanto abbiamo affermato, il concetto di competenza implica il coordinamento di risorse 
interne (conoscenze, abilità e disposizioni interne) che devono essere mobilitate, cioè “trasferite” in 
relazione ad un compito che ne solleciti l’utilizzazione. Val la pena allora riflettere, dal punto di vi­ 
sta didattico, sulle condizioni che rendono possibile lo sviluppo di competenze da parte degli allievi. 
Procederemo cercando di derivare  logicamente tali condizioni dall’idea di competenza, così come 
l’abbiamo delineata fin qui. Ne segnaliamo due, tra altre possibili, in quanto più direttamente colle­ 
gate ad offrire orientamenti per la pratica didattica. 
La prima condizione riguarda il tipo di situazioni didattiche che consentono effettivamente lo svi­ 
luppo e, quindi, l’esercizio di competenza da parte dell’allievo. Per quanto ovvia, questa condizione 

Dewey J., Come pensiamo, Firenze, La Nuova Italia, 1986. 

Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1997. 

Per una trasposizione in ambito didattico della teoria dei livelli logici dell’apprendimento di Bateson si veda Baldacci M., Una 
scuola a misura d’alunno, Torino, Utet, 2002, e, dello stesso autore, Ripensare il curricolo, Roma, Carocci, 2006. 

Gardner H., Educare al comprendere, Milano Feltrinelli, 1993; Id., Educazione e sviluppo della mente, Trento, Erickson, 2005.


va ribadita, dato che spesso assistiamo alla proposta di situazioni che sebbene vengano allestite per 
lo  sviluppo  di  competenze,  consistono  in  tipologie  di  compiti  che,  di  fatto,  non  richiedono  quella 
mobilitazione  di  risorse  interne  (cognitive,  motivazionali  e  affettive)  caratteristica  del  comporta­ 
mento competente. 
La  competenza  relativa  alla  risoluzione  di  problemi  costituisce,  in  questo  senso,  un  esempio  elo­ 
quente. Sono molte le occasioni, infatti, nelle quali la proposta di situazioni problematiche (che so­ 
no tali se sono sufficientemente nuove e sfidanti), si riduce alla richiesta di esecuzione di una certa 
tipologia di esercizi (cioè di compiti noti, ai quali associare la procedura risolutiva corrispondente), 
compromettendo,  in  questo  modo,  la  possibilità  di  coltivare  quelle  abitudini  mentali  delle  quali  è 
costituita  la  competenza.  Beninteso,  da  un  punto  di  vista  curricolare,  la  proposta  di  esercizi  o  di 
compiti di tipo riproduttivo è tanto legittima quanto auspicabile, a patto, però, di finalizzarla consa­ 
pevolmente  all’apprendimento  ci  conoscenze  o  abilità  procedurali,  piuttosto  che  allo  sviluppo  di 
competenze. Di più. La competenza relativa alla risoluzione di problemi è evidentemente “invisibi­ 
le” fino a che non si sia specificato quale problema, di quale livello di difficoltà o in quale dominio 
di sapere si colloca; cioè fino a quando, in definitiva, non si sia dato il contesto all’interno del quale 
se ne richiede  l’esercizio. Quest’ultimo, quindi,  non rappresenta la competenza  in sé (che avrebbe 
avuto diversa attualizzazione in un diverso contesto) ma un indicatore di quella. 
L’attenzione all’allestimento di situazioni didattiche adeguate allo sviluppo della competenza, quin­ 
di, è anche il presupposto per la loro osservazione e valutazione. 
La  seconda  condizione  riguarda  il  carattere  di  trasversalità  delle  competenze.  Una  delle  difficoltà 
legate al loro sviluppo, infatti, riguarda il processo di decontestualizzazione e ricontestualizzazione 
delle conoscenze e delle abilità, come se ogni conoscenza e abilità restasse  in qualche  modo “pri­ 
gioniera” del contenuto nel quale è stata acquisita, il che non la renderebbe disponibile all’uso in al­ 
tri contesti. Al contrario, pur essendo più o meno generali, le competenze presuppongono il trasfe­ 
rimento di conoscenze e, dunque, si configurano come “trasversali”, seppure a volte si tratti solo di 
una trasversalità di tipo “locale”, ossia interna ad un ambito di attività specifico. Ciò ci suggerisce 
di ricondurre lo sviluppo delle competenze a quello della capacità di transfer  di conoscenze e abilità 
da parte del soggetto. L’educazione alla trasferibilità delle conoscenze costituisce, allora, la secon­ 
da  condizione.  L’assunto  implicito  consiste,  evidentemente,  nel  riconoscere  che  la  trasferibilità  è 
educabile,  o,  detto  diversamente,  che  essa  non  è  direttamente  e  spontaneamente  determinata  dal 
possesso  di  conoscenze  e  abilità.  Un  esempio  per  chiarire.  Spesso,  l’intenzione  di  promuovere 
nell’allievo l’esercizio di competenza si risolve nella proposta di situazioni di apprendimento analo­ 
ghe tra loro. Ossia di situazioni che, seppur differenti, presentano un’identità di struttura logica che 
secondo  le  attese  dell’insegnante,  dovrebbe  indurre  l’allievo  a trasferire  alla  situazione  analoga  le 
conoscenze e le abilità acquisite nella situazione di origine. Tuttavia, questa identità di struttura o di 
procedura è individuata sempre a posteriori da parte dell’allievo il quale, normalmente, non perce­ 
pisce  in  anticipo  l’analogia.  In  altri  termini,  il  problema  è  che  nello  sviluppo  di  competenze, 
l’analogia non funziona, per così dire, come uno “stimolo”, cioè non provoca come risposta un vero 
e proprio transfer. Al più, essa induce ad un comportamento analogico che potrà risultare tanto più 
efficace  quanto  più  estesa  è  l’esperienza  compiuta  su  casi  analoghi,  ma  tale  che,  situandosi –  per 
dirla con Bateson – ad un livello logico inferiore, non incide sulla effettiva capacità di trasferimento 
di conoscenze e, dunque, sullo sviluppo di competenza. Negli studi sul ruolo dell’analogia nella ri­ 
soluzione di problemi, 10  per esempio,  il tratto più  evidente è  che  l’analogia gioca  sì un ruolo,  ma 
che  raramente  essa  interessa  in  modo  pertinente  i  tratti  comuni  ai  problemi,  concentrandosi  su  a­ 
spetti esteriori piuttosto che su quelli strutturali. Al contrario, l’analogia di struttura logica sembra 
funzionare solo quando se ne informa il soggetto, o se questo deve risolvere una successione di pro­ 
blemi isomorfi. Dunque, ad essere decisivo è il fatto che il soggetto prenda coscienza  dell’identità 
di struttura, piuttosto che l’analogia in sé. Generalizzando un po’ le cose, potremmo ritenere che se 
non esiste una capacità di trasferimento in quanto realtà psicologica, la possibilità di trasferimento 
dipende dal fatto che il soggetto prenda coscienza  delle sue pratiche e delle similitudini fra le situa­ 
10 
Su questo si può vedere Rey B., Ripensare le competenze trasversali, Milano, Franco Angeli, 2003.


zioni. Il rinvio ad una presa di coscienza sembra trasparire anche dalle posizioni di Bernard Rey e di 
Michele Pellerey. Il primo traduce il ruolo della presa di coscienza  in termini del significato attri­ 
buito  alla  situazione,  il  quale  rivelerebbe  un’intenzione  del  soggetto  sulle  cose  che  fa  emergere 
quella situazione come luogo d’uso di una certa competenza. 11  In altre parole, ogni situazione porta 
con sé una molteplicità di fattori oggettivi, la cui esistenza, di per sé, non è sufficiente a mobilitare 
nel soggetto le capacità corrispondenti perché è il soggetto che seleziona questi elementi decidendo 
della loro pertinenza. Da un certo punto di vista, questi oggetti non preesistono all’intenzione di ac­ 
quisirli da parte del soggetto, bensì è la elaborazione di un’“intenzione” che permette al soggetto di 
percepire la situazione come debitoria della mobilitazione di conoscenze e abilità possedute. Anche 
Pellerey 12  pone al centro del processo di trasferimento non tanto i contesti, né le condizioni oggetti­ 
ve esterne al soggetto, quanto, piuttosto, il soggetto stesso e la sua “intenzione” di impegnarsi a de­ 
contestualizzare e ricontestualzzare le sue conoscenze e le sue abilità. Rinviare ad una presa di co­ 
scienza  significa,  dunque,  concettualmente,  allargare  il  problema  dello  sviluppo  di  competenze  a 
processi di riflessione e decisionali sostenuti dalla elaborazione di un’intenzione soggettiva, ossia di 
un  impegno consapevole ed esplicito a riadattare le proprie risorse e a coordinarle  fra  loro. A che 
cosa corrisponde ciò, ci chiediamo, dal punto di vista della pratica didattica? 
Se queste analisi sono corrette, si comprende l’importanza che viene data nel discorso didattico con­ 
temporaneo alla metacognizione. Ci riferiamo a questo termine intendendolo nel duplice senso, oggi 
largamente  condiviso,  di meta ­conoscenza   (ciò  che  l’individuo  sa  del  funzionamento  della  mente 
propria ed altrui) e di controllo (la regolazione, attraverso l’uso di strategie, che il soggetto esercita 
sui propri processi cognitivi). 13  Metaconoscenza  e capacità di controllo sono legati da un ordine lo­ 
gico che vede la seconda dipendere dalla prima, attraverso una presa di coscienza : è la consapevo­ 
lezza delle conoscenze su sé stessi, sul compito e sulle strategie, infatti, che permette di intervenire 
nella  regolazione  dei  processi  messi  in  atto  dal  soggetto.  La  coordinazione  consapevole  delle  due 
componenti  converge,  inoltre,  nell’acquisizione  di  un  atteggiamento  metacognitivo  inteso  come 
«generale propensione del soggetto a riflettere sulla natura della propria attività cognitiva e a rico­ 
noscere la possibilità di utilizzarla ed estenderla» 14 . 
La metacognizione o, più propriamente, l’educazione ad un atteggiamento metacognitivo, divengo­ 
no quindi il mezzo attraverso il quale educare al trasferimento e, dunque, sostenere lo sviluppo delle 
competenze. In particolare, ci si può riferire alla capacità del soggetto di autodirigere o autoregolare 
il proprio apprendimento, cioè alla capacità del soggetto di far fronte all’adattamento alle nuove si­ 
tuazioni, utilizzando risorse interne e competenze acquisite precedentemente ma anche entrando in 
possesso di nuove risorse e nuove competenze. È interessante osservare, a questo proposito, che se­ 
condo un approccio di tipo socio­cognitivo l’attività di autoregolazione si articola in quattro livelli 
di  sviluppo. 15  Nei  primi  due,  chiamati  rispettivamente  di osservazione  e  di imitazione,  la  fonte  di 
apprendimento è “esterna” al soggetto ed è costituita da un modello competente (nel primo caso) o 
da  un  ruolo  docente  che  offre  guida  e  sostegno  durante  l’attività  (nel  secondo  caso). Si  situano  a 
questo  livello,  per  esempio,  esperienze  di  apprendistato  cognitivo,  ma,  anche,  la  proposta  di  uno 
schema procedurale per la risoluzione di un compito, da parte dell’insegnate. Il terzo livello, detto 
di auto­controllo, si raggiunge quando il soggetto è in grado di sviluppare forme indipendenti di a­ 
bilità esercitate in contesti e condizioni strutturate. Il modello non è più presente e il riferimento an­ 
ziché esterno è interno al soggetto. Il caso della risoluzione autonoma di compiti “simili” per analo­ 
gia  di  struttura,  per  esempio,  rientra  in  questa  fase  di  sviluppo.  Nell’ultimo  livello,  infine,  quello 
della auto­regolazione, il soggetto riesce ad adattare autonomamente le proprie prestazioni e a mo­ 
dificare le proprie strategie sulla base di condizioni soggettive o ambientali. Sebbene non sia sem­ 
pre necessario passare attraverso questi quattro livelli, essi offrono un orientamento alla scansione 
del lavoro didattico almeno nel senso di indicare che la padronanza raggiunta a ciascun livello faci­ 
11 
Idem, pp. 187­191. 
12 
Pellerey M., Dirigere il proprio apprendimento, Brescia, La Scuola, 2006. 
13 
Cornoldi C. (1995), Metacognizione e apprendimento, Bologna, Il Mulino. 
14 
Cornoldi C. e Caponi B. (1991), “Metamemoria, strategicità e ricordo in bambini della scuola elementare”, Età evolutiva, 34, p. 12. 
15 
Pellerey M., Dirigere il proprio apprendimento, Brescia, La Scuola, 2006, p. 124 e seg.


lita  l’apprendimento successivo. D’altra parte, le  attività  finalizzate allo sviluppo della capacità di 
autoregolazione  nell’apprendimento  sono  centrali  in  un  sistema  scolastico  e  formativo  che,  dalla 
scuola  dell’infanzia  all’educazione  degli  adulti,  intenda  perseguire  un  innalzamento  della  qualità 
delle competenze culturali e sociali. 
In sintesi, l’ipotesi che abbiamo inteso sostenere è che una definizione ampia e articolata di compe­ 
tenza ingloba in sé, oltre il possesso di conoscenze e abilità e disposizioni interne, anche la loro tra­ 
sferibilità a diversi contesti. Ciò, sul piano didattico, ha due implicazioni. Da una parte, la necessità 
del ricorso a situazioni capaci di promuovere effettivamente l’esercizio di competenze, cioè di sol­ 
lecitare i livelli di apprendimento corrispondenti; dall’altra, la ricerca delle condizioni per lo svilup­ 
po,  da  parte  del  soggetto,  della  capacità  di  trasferimento  delle  proprie  conoscenze  e  competenze. 
Questa  capacità,  anziché  dipendere  direttamente  da  apprendimenti  altri,  sembra  connessa  princi­ 
palmente a fattori soggettivi; all’elaborazione di un “intenzione” motivazionale, affettiva e volitiva 
capace di strutturare le situazioni rivelandone i caratteri utili alla messa in atto di competenze parti­ 
colari già possedute. Una via efficace per l’elaborazione di tale intenzione consapevole, ci sembra 
quella offerta dalla metacognizione e, in particolare, dalle capacità di autoregolazione. La consape­ 
volezza delle proprie risorse, la  valutazione delle proprie disposizioni  motivazionali  e affettive,  le 
capacità di decisione, organizzazione, controllo e valutazione ci suggeriscono, oltre che orientamen­ 
ti concettuali per pensare le competenze, i caratteri peculiari che deve assumere il progetto formati­ 
vo della scuola. Un progetto che torna, con forza, a riabilitare il ruolo dell’allievo nel gestire il pro­ 
prio apprendimento. 

Riferimenti bibliogr afici 

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Baldacci M., Ripensare il curricolo, Roma, Carocci, 2006. 
Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1997. 
Cornoldi C., Metacognizione e apprendimento, Bologna, Il Mulino, 1995. 
Cornoldi C. e Caponi B., “Metamemoria, strategicità e ricordo in bambini della scuola elementare”, Età evolutiva , 34, 
1991. 
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Frabboni F., Società della conoscenza e scuola , Trento, Erickson, 2005. 
Gardner H., Educare al comprendere, Milano Feltrinelli, 1993. 
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Pellerey M., Le competenze individuali e il portfolio, Firenze, la Nuova Italia, 2003. 
Pellerey M., Dirigere il proprio apprendimento, Brescia, La Scuola, 2006. 
Rey B., Ripensare le competenze trasversali, Milano, Franco Angeli, 2003.

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