You are on page 1of 6

Giampiero Cordisco_www.primoscritture.blogspot.

com

Il bassista degli Amanda Knox dice che non ce la fa più


Signori: non è questo il punto.
Voi continuate a fraintendermi e la cosa mi dà fastidio, perché in qualche
modo devo considerare l’ipotesi che lo facciate deliberatamente. Davvero. Se
dico "non è questo che voglio" voi pensate subito che vi voglia pisciare, che me
ne voglio andare con chissà chi, imbarcandomi per altri progetti che
contemplino anche ipotesi immaginarie come suonare in posti più gratificanti,
lasciando i beati Amanda Knox privi di molta parte della sezione ritmica, a
brancolare nel buio.
Non è così, vi dico. Non ci sono side project, non mi interessa suonare
con altri perché forse non mi interessa più davvero suonare – ed è questo il
nocciolo della questione.
(Adesso non spaventatevi, il discorso è più complicato, non c’è bisogno
di prendere tutto alla lettera.)
Il fatto è che io credo che ci siamo rinchiusi in un angolo che sta
diventando man mano più stretto, e non vi posso negare che se ci penso davvero
a fondo tutta questa situazione mi sembra un gioco a perdere che ormai non ha
più nessuna via d’uscita. È un vicolo cieco, non so se mi spiego. A un certo
punto uno sente l’urgenza di un chiarimento, soprattutto verso se stesso. Con
questo non voglio dire che è necessario da parte di tutti e tre un atto di
coscienza riguardo a quello-che-abbiamo-sempre-voluto e a quello-che-è-stato-
fatto, e sulla base di questa specie di equazione stabilire poi delle direttrici per il
futuro in cui l’altra costante fondamentale è quello-che-vogliamo-adesso. No:
vi dico solo che per me funziona così, è un’esigenza alla quale non riesco
neppure lontanamente a pensare di volermi sottrarre, e in fin dei conti mi
sembra tutto riconducibile proprio a questo: al volere, alla costante della
volontà personale, a quello che si stabilisce come linea guida essenziale per la
propria condotta umana. Al desiderio. Di più: al desiderio del desiderio. Alla
Sehnsucht, se mi passate il rigurgito romantico.
Ognuno ha dei doveri verso se stesso – su questo mi sembra siamo ormai
d’accordo – verso se stesso come persona e poi verso se stesso come tra
virgolette artista, ammettendo che questa parola non ci faccia ormai schifo, e
tenendone ben presente la curva d’inflazione di questi ultimi anni, e poi ci sono
doveri ulteriori che da questi doveri basilari si diramano tipo ad albero, perché
la mia convinzione più vera, la mia necessità più inevitabile e ingombrante
adesso è quella di affrontare il discorso dell’interazione, della comunicazione
eccetera, di tutto ciò che riguarda il messaggio che si trasmette al di là
dell’egomania del mittente, e forse anche al di là delle peculiarità contingenti
del canale cui affidiamo quello che abbiamo da dire.

1
Giampiero Cordisco_www.primoscritture.blogspot.com

Io ho bisogno di sapere cosa succede al messaggio che comunichiamo al


destinatario una volta che questo messaggio viene recapitato nella sua mente
passandogli per le orecchie. Il destinatario. Ok: chiamatelo anche pubblico,
ascoltatore, persona depressa che ascolta musica tosta per tirarsi su dalle
brutture delle sue proiezioni mentali o per affogarci definitivamente.
Chiamatelo come vi pare. Non mi sembra davvero il caso di sottilizzare. E lungi
da me l’idea malsana di mettermi a fare morali e pedagogismi grossolani, so
benissimo che può anche essere che non ci sia assolutamente nulla da
comunicare, da insegnare, da suggerire, ma voglio solo dirvi che questa forma
di nichilismo concettuale delle arti musicali così come le conosciamo oggi –
con la benedetta coda lunga che ci livella tutti in questa specie di mare magnum
di lavori magari strepitosi e fondanti e tra virgolette seminali ma in fin dei conti
scontati e dimenticabili all’interno delle migliaia di uscite mensili, e che ad ogni
modo ha esasperato al parossismo la carica del post-punk di allora, cazzo –
questo svuotare ogni concetto e ogni pretesa verso il nonsense e l’anomia più
superficiale mi induce a credere che in realtà non si arrivi a cogliere un
significato nella Cosa, che non si arrivi nemmeno lontanamente a concepire di
avere tutte le facoltà e le carte in regola per tentare l’assalto al senso, per
provare l’ebbrezza superba e a questo punto blasfema di sezionare l’Esistente e
spremerne il succo semantico, che sono convinto di poter provare ad avvicinare,
con molta calma, col duro lavoro, con l’impegno quotidiano, un giorno dopo
l’altro, per uscire da questo piattume di idiosincrasie e rumori piazzati lì solo
come vessillo di una manifesta incapacità e impossibilità ad accedere al senso.
Costruire, vi dico, invece di distruggere ogni volta, edificare qualcosa su cui poi
edificare qualcos’altro e via dicendo. Non si può continuare a distruggere in
eterno, già adesso non è rimasto niente e noi stiamo solo continuando a giocare
con le nostre feci e con i cadaveri dei nostri padri che non siamo nemmeno stati
capaci di seppellire degnamente – la rappresentazione della realtà nella musica,
proprio quello, ci siamo intesi.
È da un po’ che sto ripensando a tutti questi discorsi, alla mimesi, al
processo creativo che imita e condensa l’Esistente in una cosiddetta opera, al
reale filtrato e setacciato per mano del cosiddetto artista, al ruolo di questo
cosiddetto artista, alla parola “impegno”, alle implicazioni negativissime
dell’isolazionismo come diniego ultimativo del rapporto basato sulla
condivisione di un messaggio, quale esso sia, di un qualcosa di detto da una
parte e recepito da un’altra. Non voglio pensare che si possano progettare
guidare e attuare le tra virgolette rivoluzioni, non è questo il fine del
ragionamento, ammesso che queste divagazioni possano assumere dentro di me
delle finalità positive e oggettuali. Non credo che si potrà fare politica e dare un
significato di costruzione politica alla musica, su questo siamo d’accordo così

2
Giampiero Cordisco_www.primoscritture.blogspot.com

come lo siamo sempre stati. Ma non voglio nemmeno pensare che il nostro fine
ultimo sia quello di assecondare le pulsioni più autoescludenti di quei pochi che
invece avrebbero bisogno magari di piantarla con queste cazzate e di ascoltarsi
un po’ di radio in FM mentre se ne vanno al mare con quei pochi amici che
hanno e che si stanno impegnando (i primi) a evitare perché a un certo punto
nella propria vita di fruitori musicali qualcosa è andato storto, o è stato premuto
troppe volte un tasto sbagliato e dal nulla si è verificato un cortocircuito
cerebrale che di colpo li ha messi a conoscenza della irrisolvibilità di una
rappresentazione non dico pacifica ma almeno impegnativa e costruttiva della
realtà. E guardate che questo percorso l’ha vissuto ognuno di noi: inizi con
qualcosa di vagamente iconoclasta magari americano magari il grunge, passi
per l’industriale andandoti a ripescare le vecchie guardie di tutti i filoni di
musica distruttiva che con sommo piacere hai scoperto nel frattempo, inizi a
coltivare la frattura, la ferita diventa pian piano insanabile dopo che già sono
saltati i primi punti di sutura (applicati inconsapevolmente quando si prova ad
ascoltare un prodotto post-punk più confortante – che so: i Talking Heads? E’
un esempio fra mille), poi arriva una lenta e inesorabile cancrena di ascolti
sempre più totalizzanti e massivi che infine ti portano ad una prima morte, che è
la morte del senso, o meglio: la morte della volontà di impegnarsi nella ricerca
e nella codifica del senso. E quindi la musica diventa solo perversione e
autodistruzione. E ne vuoi sempre di più, e tutto questo può sembrare una
distorsione perfettamente romantica del concetto di titanismo e di quello
beneamato di nichilismo, ma io mi sto chiedendo, se non l’aveste ancora capito,
se tutto ciò porta da qualche parte, se esiste un riscontro minimo, se vale ancora
qualcosa dire che niente ha più un cazzo di senso, o se piuttosto non si dia il
caso di riflettere sul fatto che tutta questa massa di negazioni e di profanazioni e
di iconoclastìe storicamente accumulate non si sia nel frattempo sedimentata e
stratificata e non ci permetta adesso di lavorare in maniera positiva, cioè
costruttiva e non autoreferenziale, a una materia sostanzialmente nuova, inedita,
inaudita, in modo da poter finalmente risanare la frattura e dedicarci alle
esplorazioni di tutte le dimensioni utopiche ed eucroniche sottintese al
cosiddetto potere della musica.

Sapete una cosa? Il giorno che ho compiuto trent’anni ho sentito come squillare
un campanello, appena sveglio, e guardandomi allo specchio ho notato la stessa
identica persona che avevo sempre visto riflessa. Nessun cambiamento
sostanziale, i capelli sempre quelli, la faccia impenetrabile, lo sguardo quasi
cattivo, una giusta angolazione delle orecchie, le proporzioni generali più che a
posto come lo erano sempre state. Però non mi quadrava tutto. Era come se
dentro fosse, in qualche maniera inspiegabile, cambiata la fisionomia. C’erano

3
Giampiero Cordisco_www.primoscritture.blogspot.com

degli allarmi che suonavano a una distanza imprecisata, e a me, alle mie
orecchie, al cervello, questi allarmi giungevano così attutiti ma allo stesso
tempo inevitabili, e non riuscivo a farli smettere. Lo stesso accadeva sotto la
doccia, anche se avevo aperto l’acqua a una pressione mai sperimentata, e poi
durante il caffè. Sentivo tutti questi segnali. Avevo trent’anni. Ho trent’anni. E
non posso più permettermi di perdere pezzi di vita, né di continuare così,
nell’indecisione più sfrenata, a fare il vuoto delle esperienze accumulate nei
ventinove anni precedenti. Come se ogni cosa esperita venisse a chiedermi
conto, capite? Era questo il senso di quello che avvertivo come un ultimatum.
Era come se qualcuno o qualcosa mi dicesse che quello era il momento di tra
virgolette tirare le somme, fare i conti, chiudere delle porte, aprirne altre.
Quello che ho fatto finora viene a chiedermi di dare una sistemata alle cose,
individuare un senso che sia coerente e positivo, capire chi cazzo sono io. E che
voi possiate crederci o meno tutta la storia con Federica non c’entra nulla,
anche se è normale che da qualche parte possa far male, una ragazza che dopo
cinque anni ti lascia senza uno straccio di spiegazione, con un foglietto sul
tavolo in cucina su cui scrive: “Perdonami, ho bisogno di una nuova intimità.
Non farti del male”. Ma vaffanculo, tu e la tua nuova intimità. E io che scelgo
di non farmi del male.
Perché dopo aver finito il caffè, la mattina dei miei trent’anni, ho capito
che sarebbe stato tutto infinitamente più complicato del semplice atto di oblio
del mettere da parte una storia d’amore finita così, e ho preso quel bigliettino
che tenevo da cinque mesi dentro l’agenda e l’ho strappato in mille pezzi
piccolissimi che ho fatto volare dalla finestra, indovinando in quel volteggiare
tutto il significato di ciò che mi aspettava e che ancora mi aspetta.

(Avreste dovuto vederli, quei minuscoli pezzi di carta che se ne stavano lì,
nell’aria grigia del primissimo mattino in cui tutto il mondo sembrava avere il
colore dell’asfalto vecchio, librandosi vinti dall’inerzia della corrente
ascensionale che saliva dalla strada e arrivava al terzo piano del mio
appartamento, galleggiando nella leggerezza della carta al vento tanto più che la
carta era ridotta alle dimensioni di un’unghia e il vento era ancora freddo della
notte che se ne andava pigramente, scoprendo il cielo ridotto a una placenta di
cenere, quei pezzi che ondeggiavano senza andare da nessuna parte, nè in alto,
nè tantomeno in basso, rischiando così di rendere inutile e sovrastimata la mia
azione di distruzione dei residui. L’avrei capito dopo qualche minuto, ancora lì
coi gomiti sul davanzale, mentre tre piani più in basso iniziavano a passare le
prime macchine e la signora Gualdrini si avviava per andare a messa e Black
attaccava con quella stupida abitudine di abbaiare a tempo, abitudine che ormai
rientra costantemente nelle varie ed eventuali delle riunioni di condominio –

4
Giampiero Cordisco_www.primoscritture.blogspot.com

mentre insomma il mondo si svegliava, e ritornava alla vita di ogni giorno con
tutti i meccanismi che la quotidianità aveva impiegato secoli a consolidare, io
stavo alla finestra a fissare l’impasse, e a sputare addosso a questa pretesa
immobilità tremolante il fumo della prima sigaretta della giornata, in un gesto
che mi sembrava sacrilego nel momento stesso in cui lo esaminavo,
storicizzando estemporaneamente le coordinate principali di quello che era a
tutti gli effetti il Primo Momento Epifanico del Primo Giorno Del Resto Della
Mia Vita. Avrei capito, avrei ricevuto un input.
Dunque: c’era la litania in tempo pari di Black e una macchina ferma allo
stop che permetteva alla signora Gualdrini di attraversare sulle strisce pedonali.
C’era questa luce opaca che filtrava dal cielo che aveva lo stesso colore di una
prova di stampa cianografica, un riverbero ottico indeciso, così pieno di
penombra. Poi il suono delle campane che sembrava arrivare da una chiesa oltre
le montagne, in lontananza.
E c’era questo sciame di pezzettini di carta che fino a qualche minuto
prima – prima del risveglio molesto di Black e prima delle campane che
richiamavano la signora Gualdrini alla funzione del mattino e prima che venisse
tirata su la saracinesca del tabaccaio – erano la lettera d’addio che Federica mi
aveva lasciato sul tavolo, e la finestra sul cui davanzale appoggiavo i gomiti, e
la corrente inavvertibile che saliva da dieci metri più in basso. C’ero io fisso su
questi pezzi di carta che volteggiavano in tutta quiete mentre il giorno si andava
facendo, con una sigaretta che già mi dava la nausea, e non avrei di certo
passato la giornata dei miei trent’anni in ufficio, dal momento che da qualche
parte nel mio cervello andava formandosi l’idea di telefonare e darmi malato,
per il semplice motivo che per un lasso di tempo indefinibile mi ero visto
davanti alla possibilità di capire, di intuire nel movimento sospeso della lettera
d’addio fatta a pezzi una luce per il futuro che rimaneva – e rimane – in attesa,
come un segnale che finalmente potesse essere in grado di indicarmi una tra
virgolette strada, una linea di discrimine fra le cazzate e ciò-che-conta-davvero,
un messaggio ineffabile, un po’ come il famoso messaggio dell’imperatore,
solo con un finale diverso, col messo che dopo aver percorso tutti i mondi
conosciuti riesce finalmente a recapitarti la missiva [e poco importa adesso che
la lettera dell’imperatore ti arrivi in concomitanza con la distruzione materiale
delle ultime parole scritte della ragazza che hai amato e che chissà se ami
ancora - anzi: è un simbolismo elevato a potenza, una lettera di chiusura di un
qualcosa che diventa, nella sua scissione materiale, la lettera d’inizio di un
qualcosa d’altro], e al cospetto di questo compito ìmpari e in fin dei conti
ingrato tu non puoi che sentirti illuminato, come i frammenti della lettera che
ancora volteggiano, sospesi nel grigio-asfalto di tutto quello che vedi, in orbita
gravitazionale sul giorno che inizia timidamente, ancora intorpidito, e sono di

5
Giampiero Cordisco_www.primoscritture.blogspot.com

una bellezza luccicante, sono tutto ciò che cattura e rifrange la poca luce,
ottimizzandola solo per i tuoi occhi abbacinati da una luminosità potentissima
benché all’apparenza così fioca e semplice e in definitiva irrilevante. Ok:
scusate se mi lascio andare, ma se a voi sembra poco, per me è stata la chiamata
a un cosiddetto Nuovo Ordine Delle Cose. Non fate quella faccia.)

E quello che mi aspetta è ancora un gesto che rapisce, totale e direi ultimativo,
vedere la vita come impegno e costruzione, ricerca del senso, comunicazione,
condivisione. Non ce l’ho con voi, è con me che sono in debito, è da me che
adesso devo pretendere. Niente più anomia, niente più nichilismo, basta rumori
messi a cazzo. Basta, zero. Sono stufo di fare questa roba di merda. D’ora in poi
voglio ascoltare solo Vic Chesnut. Voialtri fate come vi pare. Io me ne vado.

novembre 2009 – gennaio 2010

You might also like