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Nuova luce del Dharma

Parte II

Lama Geshe Gedun Tharchin


La Consapevolezza della Compassione

Nel testo sono descritte le quattro consapevolezze:


1) la prima è la consapevolezza del Lama;
2) la seconda è la consapevolezza della compassione.
“Nella prigione della sofferenza dell’infinita esistenza ciclica vagano gli esseri di sei tipi, privi di
felicità.
Lì vi sono i genitori che ci hanno nutrito con grande gentilezza.
Abbandonando l’attaccamento e l’avversione,
medita con amore e compassione,
senza lasciare che la tua mente divaghi
ponila nella compassione,
senza dimenticarti
mantienila nella compassione.”
“La prigione della sofferenza dell’esistenza ciclica” è il Samsara senza fine, una
ruota di ripetute esperienze di sofferenza, una prigione in cui non siamo soli, ma che
intrappola tutti gli esseri indistintamente ed è questa la ragione per cui nella
meditazione occorre accogliere tutti gli esseri.
Non può nascere la compassione se ci si limita a rimuginare soltanto sulla propria
sofferenza, e ordinariamente è proprio ciò che avviene, si prende in considerazione
unicamente la sofferenza radicata nell’io, una riflessione che non è causa di Dharma,
ma di stress. Il Samsara comprende tutti, è la condizione di ogni essere, ecco perché il
pensare alla condizione samsarica è meditare sulla sofferenza, sul disagio di tutti e in
particolar modo sul terzo livello di sofferenza, la sofferenza pervasiva.
La sofferenza Samsarica è rappresentata con la visione di tutti gli esseri travolti da
quattro fiumi in piena:
a. dal fiume della nascita;
b. dal fiume dell’ invecchiamento;
c. dal fiume della malattia;
d. dal fiume della morte.
Le quattro condizioni dell’esistenza nel Samsara non sono una punizione, un
evento inatteso, ma la naturale condizione dell’esistenza samsarica, una serie
susseguente di eventi che costituiscono l’esistenza.
Deve essere chiaro che la materia che stiamo analizzando non può essere oggetto
di conversazioni al bar con gli amici, gli argomenti di cui si discute ordinariamente
sono cosa ben diversa dalla sofferenza trattata nelle scritture buddhiste.
L’esistenza degli esseri samsarici fluisce nella forza trascinante e inevitabile delle
quattro correnti ed è totalmente dipendente dal karma.
Oggi siamo insieme a Torino, ma io vivo a Roma e sono nato in Nepal da genitori
tibetani, perché mi trovo qui? cosa ha determinato questo incontro? Il karma.
Io non ho deciso di nascere in Nepal, di vivere molti anni della mia vita in India e
di essere ora in Italia, io sono tibetano, geneticamente, culturalmente, linguisticamente,
mentalmente, tibetano puro, ma tibetano, come? se il Tibet non c’è più, tutto è
determinato dal karma. Ho mostrato la mia esperienza ma sono sicuro che ognuno di
voi potrebbe portare esempi altrettanto curiosi, ecco cosa si intende affermando che
tutti siamo condizionati dal karma.
Gli esseri Samsarici sono prigionieri nella gabbia di ferro dell’attitudine ad
aggrapparsi al sé. Tutto quello che un essere samsarico pensa, dice e fa è governato
dall’attaccamento ad un sé illusorio che sommerge completamente nel buio
dell’ignoranza.
L’ignoranza ci avvolge interamente, nelle grandi cose come nelle percezioni più
insignificanti.
Quando ho acquistato il biglietto per Torino mi hanno informato che essendo
sabato avrei potuto viaggiare in prima classe pagando il biglietto di seconda, è mentre
me ne stavo seduto nello scompartimento di prima classe osservavo gli altri passeggeri
chiedendomi: sono tutti come me? qualcuno ha pagato il biglietto di prima e qualcun
altro quello di seconda? Ignoranza illusoria di cose futili, ma lo stesso succede per
situazioni ben più importanti.
L’ignoranza permea la sofferenza pervasiva che avvolge gli esseri samsarici
totalmente ed è il significato della descrizione della prigione di sofferenza dell’infinita
esistenza ciclica. Sulla base dei primi due livelli di sofferenza sono poi indicati sei
differenti reami di esistenza. Tutti gli esseri sono uguali rispetto al terzo livello, quello
della sofferenza pervasiva, essa permea lo stato di ognuno senza distinzioni.
Il primo livello “la sofferenza della sofferenza” e il secondo “la sofferenza del
cambiamento” possono invece assumere aspetti leggermente differenti. A esempio per
quanto riguarda la sofferenza della sofferenza vi sono persone che godono di buona
salute ed altre che ne hanno poca; rispetto alla sofferenza del cambiamento, ci può
essere chi vive in agiatezza e chi in povertà, chi possiede case belle, ricchezze, cibo
raffinato e chi è costretto a vivere in case brutte e miseramente, ma al di là delle
momentanee diversità, tutti, prima o poi, sono preda della sofferenza della sofferenza e
della sofferenza del cambiamento. Pensate alla famiglia reale nepalese che godeva degli
agi più raffinati, una lussuosa vita da re, e in un momento è stata sterminata, tutta la
ricchezza è finita e ha sperimentato una tragica sofferenza del cambiamento.
I sei reami non indicano semplicisticamente gli esseri che stanno al di sopra, al di
sotto o nel mezzo, in cielo, sotto terra e sulla terra, ma devono essere intendesi come sei
diverse manifestazioni dei primi due livelli di sofferenza, la sofferenza della sofferenza
e la sofferenza del cambiamento. Questo passaggio è facilmente verificabile nei vari
momenti della vita di ognuno: se siamo colpiti da un grave dolore è come se fossimo
negli inferi, se invece sperimentiamo una grande gioia, se siamo con le persone che
amiamo in un momento di festa, ci pare di essere in paradiso. A volte i gatti sono più
felici degli esseri umani, allora è come se avvenisse uno scambio e noi ci trovassimo nel
reame degli animali e loro in quello degli esseri umani. Se siamo tormentati dalla fame
e non c’è cibo a disposizione è come se ci trovassimo nel reame degli spiriti affamati.
Non si tratta dunque di una diversificazione logistica ma di esperienze.
Nell’esperienza samsarica gli esseri sono orfani della felicità, non esiste un solo
momento in cui non sia presente la sofferenza pervasiva e, poiché tutti gli esseri
samsarici sono stati una volta nostri genitori e ci hanno nutrito con amore e gentilezza,
osservando la loro sofferenza sentiamo compassione e possiamo generare equanimità,
abbandonare le attitudini contrapposte di attaccamento e avversione. Lo stato
equanime della mente è dunque lo stato di amore e compassione. L’attitudine
equanime, priva di attaccamento o avversione, si traduce nel desiderio amorevole
affinché tutti gli esseri possano ottenere la felicità.
L’attitudine della compassione consiste nel volere che tutti gli esseri siano liberati
dalla sofferenza. Di fatto compassione, equanimità e amore sono un’unica realtà che si
manifesta in molteplici aspetti, ciò che conta è mantenere la mente concentrata su
questa realtà ricordando la raccomandazione del canto:
“non permettete alla mente di divagare, ponetela nella compassione e, senza dimenticare,
mantenetela nella compassione”.
La Consapevolezza della Divinità

Le due restanti consapevolezze sono:


3) La consapevolezza della Divinità;
4) la consapevolezza della Vacuità.
La consapevolezza della Divinità nel canto è così descritta:
“Nel Divino Palazzo della grande beatitudine
piacevole a sentirsi,
abita il corpo della divinità:
il corpo di se stessi
con puri aggregati ed elementi.
Una divinità meditativa inseparabile
dai tre corpi vi si trova.
Senza concepirlo come ordinario,
coltiva l’orgoglio divino e la vivida apparenza.
Senza lasciare che la tua mente divaghi,
ponila nel profondo e luminoso.
Senza scordarti,
mantienila nel profondo e luminoso.”
Questo tipo di pratica è direttamente connesso alla pratica Buddhista del Vajra e
costituisce il sentiero conosciuto come Vajrayana; in esso sono contenute
tradizionalmente quattro classi di Tantra:
1) il primo. Kriyatantra, è relativo alle attività esteriori;
2) il secondo, Chariatantra è connesso al comportamento;
3) il terzo, Yogatantra, mantiene l’equilibrio tra le attività interiori e quelle
esteriori;
4) il quarto, Anuttarayogatantra, rivolto esclusivamente alle attività interiori, è
la più alta classe del Tantra.
Questi quattro livelli di meditazione fanno riferimento ad una divinità personale,
indicata in tibetano come Yidam.
Nel Vajrayana la meditazione sulla divinità personale è il metodo per sviluppare
l’unione delle qualità interiori di compassione e saggezza, è può essere applicato
utilizzando due diversi mezzi:
1) Uno è il sistema dei Sutra, che approfondisce, affrontandoli separatamente, i
due aspetti di metodo (compassione) e saggezza e soltanto alla fine li
ricongiunge.
2) Nel sistema Tantrico, invece, si parte immediatamente dall’unione di metodo
(compassione) e saggezza in quanto si medita sull’ essenza della divinità che è
appunto l’unificazione dei due aspetti. La frase del canto “Nel divino palazzo
della grande beatitudine” indica l’esperienza meditativa dell’unione di metodo e
saggezza che è appunto la grande beatitudine.
La metodologia tantrica evidenzia due livelli, nel primo è riconosciuto il legame
inscindibile tra corpo, mente ed universo; nel secondo la divinità che abita in un
palazzo divino ed è l’essenza di unione tra metodo e saggezza. La divinità è una forma,
e abita in un palazzo divino, cioè in una dimensione pura. Meditando su entrambi gli
aspetti si attua la purificazione: “Il corpo di se stessi, con puri aggregati ed elementi, una
divinità di meditazione, inseparabile è li, con i tre corpi”.
Con l’applicazione del metodo la mente ordinaria, il corpo ordinario, l’universo
ordinario, sono trasformati nella dimensione pura della forma della divinità e nella
mente pura della divinità, la struttura tantrica propone una “scorciatoia”, un sentiero
rapido per giungere all’illuminazione.
Si legge ancora:
“Senza concepirlo come ordinario
coltiva l’orgoglio divino e la vivida apparenza”
L’orgoglio divino è sempre presente nella meditazione sulla divinità.
La chiave di trasformazione di mente, corpo e universo ordinari, in mente, forma
e universo divini è la Vacuità ed è il motivo per cui ogni pratica tantrica inizia con
alcune parole che in italiano potremmo tradurre approssimativamente così:
“tutti i fenomeni non hanno un’esistenza propria o inerente, e questa loro natura
vuota è l’io”, oppure: “tutti i fenomeni sono vuoti di esistenza inerente e questa natura
vuota di esistenza inerente è la mia stessa natura.”
Infatti, qualsiasi cosa analizziamo attentamente non riusciamo a scovare nulla di
inerentemente esistente, ciò che troviamo è unicamente «Vacuità», la realtà ultima, la
natura ultima, di tutti i fenomeni.
Scrutando l’intero universo non rintracciamo nulla di inerente che si possa
afferrare e questo è il punto di partenza di tutti gli yoga tantrici. Quella natura sono io,
quindi quello che identifico come io è per sua natura vuoto, è la realtà ultima dell’io.
Finalmente, dalla natura vuota dell’io può avere inizio la creazione della forma
divina, perché soltanto partendo dalla Vacuità è possibile trasformare se stessi nella
Divinità, l’universo nel Mandala, il corpo ordinario nel Corpo divino, la mente
ordinaria nella Mente divina.
Così si medita purificando gli aspetti negativi della mente, ci si accosta ai tre corpi
alle tre forme inseparabili della divinità:
1. Dharmakaya (Kaya significa corpo, dimensione, forma) cioè la forma della
Vacuità che si articola in due aspetti: quello della Vacuità e quello della mente
consapevole che realizza la Vacuità;
2. Sambhogakaya che è la trasformazione della forma in natura vuota, in Buddha;
3. Dal Sambhogakaya sorgono innumerevoli forme o manifestazioni che portano
benefici agli esseri viventi e sono il Nirmanakaya, conosciuto come corpo di
incarnazione o di emanazione.
I tre corpi sono naturalmente spontanei, ma nella pratica è importante
concentrarsi ed esercitarsi costruendone artificialmente la visualizzazione.
La divinità dunque non è un individuo esterno a cui rivolgersi come ad “altro da
sé”, ma è l’emanazione dello stato di realizzazione della mente, in particolar modo
dell’unione di metodo e saggezza e rappresenta la forma purificata, la forma pura, di
corpo e mente.
Assimilando questo concetto siamo in grado di generare l’orgoglio divino
ottenendone enorme beneficio, ma per mantenere nella pratica la visione di sé come
inseparabile dalla divinità di meditazione è necessario osservare i fondamentali
precetti:
• mantenere il riconoscimento della mente come mente della divinità;
• mantenere il riconoscimento della parola come parola della divinità;
• mantenere il riconoscimento del corpo come forma della divinità;
Avere la consapevolezza della mente divina, della parola divina e della forma
divina, in ogni circostanza, mantiene l’unione del sé con la divinità che, ricondotta
sistematicamente alla vita quotidiana, è di grande beneficio. Non è una pratica
semplice e in genere è attuata da praticanti molto avanzati ed è anche la ragione per cui
è molto complicato spiegarla.
Il punto fondamentale da comprendere è che non si tratta di un essere divino al di
fuori di sé identificabile come individuo, bensì la divinità è la rappresentazione delle
qualità interiori già presenti in noi. Meditare sulla divinità significa purificare se stessi e
trasformare se stessi nella divinità, cioè in quelle qualità.
La Consapevolezza della Vacuità

La quarta consapevolezza, della Vacuità, è trattata in due strofe, nella prima si


descrive la Vacuità durante la seduta di meditazione, nella seconda invece, della
meditazione sulla Vacuità durante l’intervallo tra le varie sessioni di meditazione, cioè
nel periodo dedicato alle attività quotidiane.
I versi della prima strofa che spiegano la Vacuità durante la meditazione:
“Ovunque nella sfera dei fenomeni apparenti
e dei fenomeni esistenti,
Pervade lo spazio della chiara luce
di ciò che è e dell’ultimo,
Un inesprimibile, reale modo di esistenza
è lì presente.
Abbandona le elaborazioni concettuali,
Osserva la natura della Vacuità.
Senza lasciare la tua mente divagare,
Ponila in ciò che è,
Senza scordarti,
Mantienila in ciò che è.”
In tibetano si usano spesso le parole “Nhyang-shing Sid-pa” indicando ciò che
possiamo vedere e le cose che esistono, è un modo per definire tutto l’esistente, ogni
fenomeno ed è abitualmente utilizzato dagli Yogi, dai meditatori. Tutto l’esistente è
pervaso dallo spazio della chiara luce e qualunque apparenza si sperimenti, qualunque
apparenza sorga spontaneamente e simultaneamente deve essere riconosciuta nella sua
chiara luce o, in altre parole, riconosciuta nella sua natura vuota. Quindi qualsiasi
realtà appaia la si deve cogliere nel suo ultimo grado di esistenza, nella sua natura
vuota, nella chiara luce. Chiara luce significa Vacuità.
Nel Buddhismo tibetano si usano più termini per definire la stessa verità, la
Vacuità: «Mahamudra», «Chiara Luce», «Dzog-Chen», «Grande Perfezione», ecc.., sono
tanti modi diversi di definire la stessa realtà: la Vacuità.
La Vacuità è detta simile allo spazio; lo spazio non si può afferrare, lo spazio non
ostruisce, non blocca il passaggio, così la Vacuità non si può afferrare e non ostruisce.
Questa visione dei fenomeni contraddice completamente la nostra visione
ordinaria. Noi osserviamo i fenomeni ordinariamente in modo completamente diverso
e contrario all’ottica della Vacuità; prima di tutto dobbiamo correggere la percezione,
l’errato punto di vista con cui affrontiamo la realtà. Non vi è nulla di afferrabile in
nessun fenomeno, il modo ultimo di essere dei fenomeni non è traducibile in parole.
Questa visione è la Prajnaparamita, che letteralmente significa “la saggezza che è
giunta oltre”, cioè la saggezza che tutto trascende e ciò che trascende la percezione
ordinaria non può essere espresso.
Meditando sulla Vacuità si medita sul tutto simile allo spazio o meglio sulla
natura simile allo spazio di ogni fenomeno, si medita sulla mancanza di natura inerente
dei fenomeni, e si va molto oltre la percezione di tipo ordinario. Ad esempio questo
rosario, è molto bello, di buona qualità, ma se noi lo smontiamo separando le varie
componenti abbiamo i semi, la corda, i conta mala, ma il rosario dov’è? Non esiste più.
Gli elementi ci sono tutti, esattamente gli stessi, ma il rosario non c’è.
L’ultimo modo di esistenza dei fenomeni è simile al rosario, che esiste
semplicemente come nome, non vi è una parte sostanziale, intrinseca, che lo definisca.
Osserviamo la realtà ultima non a livello superficiale, andiamo oltre e
applichiamo la stessa modalità nella visione del sé, nella visione dell’io.
Possiamo vedere il rosario come simile allo spazio, la sua natura è simile allo
spazio, perché il rosario è semplicemente un nome, non esiste a livello sostanziale, non
vi è nulla di inerentemente esistente. Tutti i fenomeni sono simili allo spazio. Il livello
ultimo di Torino non ha palazzi, è uno spazio aperto, non ostruito da palazzi; il modo
ultimo di esistenza di Torino, o se preferite la Torino originale, è così, vuota.
E’ possibile immaginare Torino senza costruzioni? Si può osservare Torino, con
tutti i suoi palazzi e nel contempo vederla completamente senza? E’ possibile avere
simultaneamente la visione ordinaria, convenzionale, del fenomeno e percepire il suo
modo di esistenza ultimo?
Nella seduta di meditazione concentrativa, o focalizzata, si osserva solamente il
livello ultimo di esistenza dei fenomeni, la mente si concentra sulla natura simile allo
spazio della Vacuità. E’ chiaro questo concetto? Voi come esprimereste questa visione?
Risposta: La scienza moderna ha confermato questa visione, per esempio questo
panchetto che sembra solido in effetti non lo è, la materia è un’illusione, è
solo energia che si aggrega in un certo modo, perché andando a cercare le
particelle infinitesimali si trova il vuoto. Tutto ruota a livello energetico,
vorticosamente, dando l’illusione di una solidità che in effetti non esiste
come fenomeno a sé stante. In qualche modo la scienza continua a
confermare quello che gli antichi pensatori indiani già sapevano.
Lama: Apparentemente si, ma vi è una differenza sostanziale. La scienza studia e
riconosce il fenomeno, ma non va oltre; se vi meditasse lo realizzerebbe e ne
sarebbe trasformata. Anch’io in un primo tempo pensavo che gli scienziati
avessero realizzato la Vacuità, ma poi, riflettendo, ho capito che si erano
fermati alla sola indicazione della Vacuità e, non meditando su di essa, non
l’hanno realizzata.
Risposta: Io invece sono scettico sulla possibilità di dimostrare logicamente la Vacuità.
Relativamente all’esempio del rosario che, scomposto, sparisce, io ti
risponderei che non mi interessa affatto perché non mi pongo il problema
della realtà ultima, l’unica realtà che mi interessa è quella che sperimento. La
realtà è la mia esperienza, se prendo un mattone in testa non mi interessa
sapere che la solidità è illusione, a me ha fatto male. Credo che da molti
secoli ormai la filosofia occidentale abbia escluso ogni domanda sulla realtà
ultima; per noi occidentali la realtà è l’esperienza e quindi mi è difficilissimo
concepire la Vacuità, perché io soffro e gioisco per esperienza, non per la
realtà ultima. Io posso anche essere vuoto, ma non m’importa, ciò che mi
interessa veramente è quanto sperimento concretamente.
Lama: Osservare, comprendere la Vacuità è l’unica possibilità di tagliare le radici
della sofferenza. La causa di ogni problema è la costruzione mentale che si
basa sull’incapacità di vedere la realtà ultima delle cose perché si limita ad
un’occhiata superficiale e disattenta, invece la capacità di vedere
contemporaneamente entrambe le verità, relativa e assoluta, è di enorme
beneficio, induce allo stato di calma, di serenità, di assenza di sofferenza.

La seconda strofa affronta il modo di meditare la Vacuità nell’attività quotidiana:


“Nel congiungimento delle molteplici apparenze
delle sei coscienze,
si vede la confusione dell’apparenza dualistica di fenomeni insostanziali, senza base,
Là è inganno e magia.
Senza concepirla come vera,
Osserva la natura della Vacuità.
Senza che la tua mente divaghi,
Ponila nell’apparenza e Vacuità.
Senza scordarti,
Mantienila nell’apparenza e Vacuità.”
Possiamo avere un’idea di cosa si intende per magia prendendo spunto da un
famoso esempio della cultura classica indiana: «Un mercante vede uno splendido
cavallo, lo compera e, soddisfatto se ne va ma durante la sua strada vede che al posto
del cavallo sta trascinando un pezzo di legno. Come è potuto accadere? Solitamente
questa magia è praticata di fronte ad un pubblico numeroso: il mago prende un pezzo
di legno e recitando un mantra lo trasforma in cavallo. Evidentemente la benedizione
del mantra non trasforma il legno in cavallo, bensì trasforma la capacità di vedere degli
osservatori. Il legno resta legno, ma gli occhi degli astanti vedono uno splendido
cavallo. In questa storia agiscono tre diversi attori:
a) Il mago, o illusionista;
b) il pubblico presente dall’inizio che ha ricevuto la benedizione della vista;
c) qualcuno che, arrivato soltanto alla fine, non ha usufruito di nessuna magia.
Tutti osservano il pezzo di legno, ma come lo vedranno?
a) il mago, osservando il pezzo di legno vedrà il cavallo, perché anche i suoi
occhi sono stati benedetti, ma lui è consapevole che non esiste nessun cavallo
e che si tratta di un pezzo di legno;
b) gli spettatori della prima ora guardando il pezzo di legno vedranno un
cavallo e crederanno che quella sia l’unica verità;
c) I ritardatari vedranno invece soltanto un pezzo di legno.
Durante l’attività quotidiana, nel periodo che intercorre tra le sessioni di
meditazione non si ha una concentrazione focalizzata, non si è in grado di vedere la
natura dei fenomeni come spazio e di riconoscerli come vacui della natura dello spazio.
Si è in uno stato mentale diverso rispetto a quello della seduta di meditazione
focalizzata.
Quando non si è in seduta di meditazione, durante le attività quotidiane, la
visione della Vacuità è come quella del mago, dell’illusionista che pur vedendo un
cavallo è pienamente consapevole della sua non esistenza reale.
Invece durante la seduta di meditazione focalizzata il meditante è come il
ritardatario, non vede quello che non c’è, vede solo il pezzo di legno, non c’è illusione
alcuna.
E infine, chi non medita né in seduta focalizzata, né durante l’attività quotidiana,
è come lo spettatore ignorante che compera il cavallo, acquisisce come vera una
costruzione mentale del tutto illusoria inesistente.
La strofa appena letta ci dice sostanzialmente che percepiamo
contemporaneamente la realtà secondo due visioni: l’una è relativa al livello
convenzionale, quello dell’apparenza, l’altra vede la realtà ultima, la vera essenza di ciò
che appare.
Abbiamo esaminato le quattro consapevolezze che costituiscono una parte
essenziale del sentiero Buddhista, in particolare della pratica Vajrayana.
1) La consapevolezza del Lama;
2) La consapevolezza della Compassione;
3) La consapevolezza della Divinità;
4) La consapevolezza della Vacuità.
Il Lama definitivo, il Lama ultimo, è la realizzazione interiore di compassione e
Vacuità. Per quanto riguarda invece il Lama esteriore, il maestro spirituale, le sue
qualità essenziali sono l’ effettiva grande compassione e visione della Vacuità.
La compassione, la consapevolezza della compassione, è la radice di tutte le
qualità di un Buddha, è la radice della Buddhità. Ogni Dharma sorge necessariamente
dallo sviluppo della compassione. Dalla compassione scaturiscono tutte le altre buone
qualità, realtà fondamentale e imprescindibile di ogni pratica.
Cos’è la consapevolezza della divinità? se osserviamo alcune divinità, ad esempio
Manjusri - emanazione di saggezza, Avalokiteshvara - emanazione della compassione,
Maitreya - emanazione della gentilezza amorevole, Tara - emanazione delle azioni
illimitate del Buddha, vediamo che tutte le divinità sono l’immagine delle realizzazioni
interiori. La mente del Buddha, la forma del Buddha, lo spazio del Buddha non sono
separabili, sono identici.
La consapevolezza della Vacuità è come l’occhio del Dharma che vede il corretto
cammino verso l’illuminazione, che indica con saggezza il retto sentiero. La visione
della Vacuità è una visione aperta. Questa consapevolezza si pratica sempre, sia in
seduta di meditazione focalizzata che durante le attività quotidiane.
Nella visione della Vacuità, la visione ultima dei fenomeni, si applica
rispettivamente un diverso approccio nei Sutra e nei Tantra. Nei Sutra, i discorsi del
Buddha, la mente che medita sulla Vacuità è quella che generalmente è considerata
mente di un individuo, invece nei Tantra, la mente, il corpo e l’universo sono
inscindibili, quindi la mente che medita sulla Vacuità non è di livello ordinario,
grossolano, com’è comunemente concepita, ma è la mente di livello più profondo e
sottile. Nel Tantra si utilizzano metodologie particolari lavorando con i canali
energetici, con i venti o energie in una pratica che corrisponde all’orgoglio divino, ed è
fondamentale mantenere vigile la consapevolezza dei canali, delle energie o venti, la
consapevolezza dell’esistenza del corpo sottile.
La tecnica di visualizzare il corpo sottile, i canali energetici e i venti, chiarisce la
posizione della mente e risponde alla domanda: “dov’è la mente?”, una domanda
importante e, nel momento stesso in cui la formuliamo, il corpo sottile, i canali, i venti
energetici offrono interessanti indizi per la sua localizzazione perché, se è vero che la
mente pervade ogni parte del corpo, vi sono punti in cui è più forte e altri in cui è più
debole, le differenziazioni sono innumerevoli. La conoscenza di questo aspetto
favorisce una meditazione efficace e conduce a saper dominare la mente.
La mente in tibetano è “Rigpa” “Sel-shing Rigpa” termine traducibile in: “ciò che
è luminoso e conoscente”. La luminosità della mente è la grande capacità di riconoscere
l’esistente. Una mente chiusa è tale perché non usa le sue stesse potenzialità. Una
mente illuminata, invece, ha una capacità di conoscenza pienamente matura. Le
attitudini della mente maturano attraverso la conoscenza perché la mente stessa ha in
sé quelle capacità e qualità. Nel Tantra la natura ultima della mente è detta “Chiara
Luce” perché è la capacità di vedere la natura della mente dalla mente stessa.
Quindi, la Vacuità, la natura di Vacuità della mente, la consapevolezza della
natura di Vacuità della mente divengono un’unica realtà e sono chiara luce. Di fatto
Sutra e Tantra sono complementari l’uno all’altro; la pratica dei Sutra è l’essenza della
pratica dei Tantra.
L’esistenza umana è particolare perché in essa la coscienza può penetrare i punti
fondamentali, può unire la consapevolezza dei punti vitali e di quelli sottili. L’essere
umano può meditare su di essi e sviluppare tutte le capacità, la rinuncia, la
compassione, la saggezza. L’unione dei due aspetti: lo sviluppo delle qualità di
compassione, rinuncia e vacuità con la capacità di penetrare consapevolmente i punti
vitali costituisce la complementarietà dei Sutra e dei Tantra e si esprime nella loro
pratica univoca.
“Il Canto del Leone” di Milarepa

L’insegnamento delle quattro consapevolezze, di grande pregnanza, è ripreso da


molti maestri e Milarepa nella sua composizione “Il Canto del Leone” dice:
“Questo è lo Yogi Repa libero dai pensieri”.
«Libero dai pensieri» significa avere una visione intuitiva, essere libero dal
pensiero concettuale e dotato dalla serena fiducia senza paura che scaturisce dalla
visione della Vacuità. Con la realizzazione della visione della Vacuità ci si libera dalla
paura, la si supera, si va oltre.
“Procedo con il passo del leone,
il passo degli eroi.
Per corpo prenderò il corpo dell’Ydam,
che è come castello fortificato.
Per parola userò la parola del mantra
che è come castello fortificato.
Per mente prenderò il castello fortificato della Chiara Luce.
E quando si manifestano i sei tipi di coscienza
scompaiono nella loro natura di Vacuità.”
In queste strofe si affronta la connessione con la consapevolezza. Il passo del
Leone, l’incedere dell’eroe, intende che, essendo nella serena visione della Vacuità, non
c’è più nulla da temere, si procede senza timore con il regale passo del Leone. Prendere
per corpo il corpo dell’Yidam, per parola la parola del Mantra, per mente la mente di
Chiara Luce suggerisce la consapevole acquisizione dell’orgoglio divino.
La consapevolezza del Corpo, della Parola e della Mente di Chiara Luce, fa si che
di fronte agli aspetti e alle attitudini determinati dalla quotidianità, se ne riconosca la
natura ultima lasciandoli cadere nella Vacuità.
Milarepa enfatizza la connessione con le quattro consapevolezze anche nel
“Canto di Mahamudra”:
“Quando medito su Mahamudra
Riposo senza conflitti nel mio vero essere.
Riposo nello spazio, senza distrazioni.
Dimoro nella chiarezza dello spazio di Vacuità.
Dimoro nella consapevolezza dello spazio di beatitudine.
Riposo tranquillo nello spazio non concettuale.
Nello spazio diversificato riposo in concentrazione.
Dimorando così, questa è la mente originale.
La ricchezza di certezza si manifesta senza fine.
Senza nulla fare la luminosità della mente è attiva.
Non fermato dall’attendere risultati, sto bene.
Senza dualità, senza speranza, senza paura!
Le afflizioni trasformate in saggezza
sono essere gioioso e luminoso”
Milarepa, come Marpa, è un perfetto esempio della devozione al maestro
spirituale e i due canti sono colmi di significato; potremmo concludere l’insegnamento
meditando su ogni strofa.
Domanda: Nella meditazione del mattino sull’essenza degli esseri viventi più preziosi
delle gemme che esaudiscono i desideri, mi sono chiesto se questo è solo un
espediente per favorire il superamento dell’ego o, realmente tutti gli esseri,
anche quelli che agiscono malissimo, devono essere considerati preziosi?
Lama: L’essere umano ha un valore incalcolabile. Tutti gli esseri viventi,
indistintamente, sono causa di illuminazione. Senza esseri senzienti non c’è
possibilità di sviluppare la compassione e, senza compassione, non si può
realizzare l’illuminazione. La causa di accumulazione dei meriti sono gli
esseri senzienti. Per questo motivo Santideva si domandava perché non si
nutre verso tutti gli esseri senzienti lo stesso rispetto che si ha per i Buddha,
come invece dovrebbe essere, entrambi sono uguali, entrambi sono causa di
illuminazione. Il Buddha è prezioso perché ha indicato il sentiero di
illuminazione; gli esseri senzienti sono preziosi perché rendono possibile il
tuo cammino su questo sentiero. Come potremmo praticare la compassione,
la generosità, la moralità, la pazienza, la perseveranza, la concentrazione, la
saggezza, senza gli esseri senzienti? Impossibile! Sono realmente più
preziosi della gemma che esaudisce i desideri.
Domanda: La pratica dei Tantra richiede necessariamente molti ritiri per poterla
approfondire?
Lama: I ritiri sono importanti per acquisire l’esperienza il cui calore deve essere
mantenuto inalterato nella pratica quotidiana durante il periodo che segue
un ritiro ed è buona cosa, non appena possibile, rinnovare l’esperienza in
ulteriori ritiri. Tra i tibetani è piuttosto comune trovare praticanti che vivono
con grande naturalezza nella quotidianità l’esperienza spirituale dedicando
spazio e tempo alla pratica. In occidente la diversa struttura sociale e
familiare rende questo aspetto più difficilmente attuabile, e sarà necessario
trovare un modo per superare il problema. La continuità della pratica del
Dharma non dipende solo da se stessi, è soggetta ai condizionamenti
dell’organizzazione sociale, della famiglia, delle relazioni umane, delle
convenzioni.
Preghiera e Dedica

Concludiamo con la lettura comune della “Preghiera in Otto Versi” composta da


Geshe Langui Tanga Dorje Seghe (secolo XI°) e su cui si fonda la pratica del “Lojong”,
ovvero del Trasformare la Mente, ripetendo tre volte la dedica dei benefici a tutti gli
esseri:
Considerando tutti gli esseri senzienti
superiori persino alla gemma che esaudisce i desideri
per realizzare il fine supremo,
possa io costantemente prenderli a cuore.
Quando sarò con gli altri,
riterrò me stesso menu importante a tutti,
e fin dal profondo del cuore
li considererò cari preziosi.
Vigile, ogni volta che sorge un’ emozione negativa,
che possa nuocere a me o agli altri,
l’ affronterò e l’ eliminerò
senza indugio.
Vedendo esseri di imprenda alla malvagità
intenti a violente azioni negative e sopraffatti da sofferenze
avrò sempre cura di tali creature così rare,
come se avessi trovato un tesoro prezioso.
Quando altri, per invidia, mi maltratteranno,
mi insulteranno o faranno cose simili,
accetterò la sconfitta
ed offrirò la vittoria ad loro.
Quando qualcuno a cui ho fatto del bene
e in cui ho riposto grandi speranze
mi infligge un terribile danno,
lo considererò il mio santo amico spirituale.
( x 3) In breve, direttamente e indirettamente, io offro
ogni beneficio e felicità a tutti gli esseri senzienti, mie madri;
possa io segretamente prendere su di me
tutte le loro azioni negative e sofferenze.
Possano essi non essere mai contaminati dalle idee causate
dalle otto preoccupazioni mondane,
e consapevoli che tutte le cose sono illusorie,
possano essi, privi di attaccamento, essere liberati dalla samsara.
Quarta Parte

VINCERE LA RABBIA E L’ODIO


Una Vita Significativa in Pace e Armonia

Siamo riuniti oggi per parlare dell’approccio Buddhista ad una vita significativa
in pace e armonia che, generalmente, sottintende la necessità di trasformare
radicalmente il proprio modo di pensare.
Non è necessario diventare Buddhisti per seguire questo percorso benefico per
chiunque, pertanto questi due giorni non saranno di pratica devozionale Buddhista ma
di studio, di insegnamento, di pausa e di riflessione meditativa. Non è nemmeno
necessario esercitare uno sforzo eccessivo per comprendere le spiegazioni, non sarebbe
un metodo corretto, ma semplicemente aprirci ad un atteggiamento mentale disteso,
rilassato, sereno. Un tempo che dovrebbe essere dedicato alla “ricarica” delle energie
fisiche e mentali perdute durante una faticosa settimana di lavoro e di tensioni. La vita
moderna è strutturata in modo tale che, senza esserne consapevoli, per farvi fronte
spendiamo una quantità enorme di energia che necessariamente deve essere recuperata
in un rinnovamento fisico e spirituale atto a ristabilire il giusto equilibrio. Il riposo
indubbiamente favorisce un’immediata ripresa fisica, ma non è sufficiente, infatti l’
energia vitale deve essere riacquisita soprattutto sul piano mentale e spirituale; la vera
forza è l’energia interiore. Per questo è necessario imparare ad abbandonarsi ad uno
stato di rilassata consapevolezza sul piano fisico e psichico, in modo da poter
mantenere la chiarezza mentale e la capacità di vedere e comprendere il cammino
spirituale da percorrere. Questo è lo scopo primario del nostro incontro.
Un secondo scopo è imparare ad economizzare e ottimizzare nel quotidiano le
proprie energie, di cui si deve avere particolare cura. E’ evidente a tutti come,
soprattutto nelle società industrializzate, si viva convulsamente, bombardati da doveri
e stimoli di ogni genere, con un conseguente abnorme spreco di energie, anche soltanto
per garantire minimi parametri di vita, dunque sarebbe opportuno fermarsi
domandandosi se sia davvero necessario lo sperpero di tutto il patrimonio energetico
per ottenere un risultato in fondo scarso. Non sarebbe più oculato risparmiarne un po’?
E’ possibile imparare a rilassarsi profondamente, interiormente, dando il giusto valore
alle cose e spendendo per le stesse il minimo di energia necessario, altrimenti è un bel
guaio rischieremmo di lavorare molto, spendere tutta l’energia e, oltrettutto,
guadagnando poco! (risata, è evidente lo scherzo.)
Un terzo obiettivo è l’aspetto religioso, la propria realizzazione spirituale, lo
sviluppo delle qualità interiori di conoscenza, comprensione, compassione e saggezza.
Parallelamente all’approfondimento di queste capacità matura in noi la “felicità”.
Il termine “felicità” si presta a svariate interpretazioni, esiste una felicità di breve
durata - temporanea, una felicità più durevole nel tempo - di lunga durata e, infine,
una felicità definitiva - che non cessa mai ed è relativa alla spiritualità. Per un
Buddhista la felicità definitiva è il Nirvana, per un Cristiano è il Paradiso, ma
comunque la si voglia chiamare, è un aspetto della natura della mente.
La felicità definitiva è una qualità essenziale della mente umana e il giusto
cammino è quello che, passo dopo passo, conduce alla sua realizzazione.
Il Paradiso, come il Nirvana, non rappresenta un luogo fisico ma una realtà che
deve essere sperimentata; se fosse solo un aspetto di Dio e noi non potessimo
sperimentarlo, di fatto per noi non esisterebbe; è una qualità della nostra mente perché
la nostra mente può sperimentarlo.
La felicità definitiva è sperimentata, vissuta dalla mente umana, è insita nella
mente umana, è una qualità della mente. I Buddhisti parlano di “mente”, di
“coscienza”, i Cristiani di “anima” ma, comunque la si voglia definire, è questa essenza
o capacità della natura umana che sperimenta la felicità definitiva. Non soltanto Dio,
ma anche l’uomo ne è pienamente partecipe.
La nostra coscienza non solo ha la capacità, ma addirittura il talento, di ottenere la
felicità, può demolire completamente le barriere della confusione, delle difficoltà e dei
problemi. In sintesi gli obiettivi di questo incontro sono:
1. Imparare a rilassarsi, sia fisicamente che mentalmente;
2. Acquisire una conoscenza che porti ad una maggior saggezza nell’utilizzo
oculato della propria energia;
3. Ottenere tutti gli elementi per raggiungere e sperimentare, passo dopo passo,
la felicità definitiva, completa, piena.
Tre passaggi strettamente correlati tra loro e dipendenti uno dall’altro, infatti con
l’apprendimento della pacificazione, del rimanere tranquilli, sereni, rilassati, si
acquisisce una conoscenza profonda della vita, una maggior comprensione delle
diverse situazioni, si matura la necessaria saggezza per affrontare i vari aspetti
dell’esistenza e si utilizza in modo equilibrato la propria energia senza sprechi nocivi.
Questa saggezza consente lo sviluppo delle proprie capacità, necessarie all’ottenimento
della pace duratura.
E’ importante riconoscere con chiarezza il collegamento sequenziale dei tre
momenti che conducono alla realizzazione della felicità completa; osservare come essi
non siano tra loro contradditori ma strettamente connessi.
Ogni realtà è correlata!
A volte si pensa di dover compiere determinate azioni che avranno un beneficio
nel futuro e ci si concentra esclusivamente su questa proiezione perdendo di vista il
momento presente oppure, al contrario, si è totalmente immedesimati in una
particolare azione del presente dimenticando completamente la visione della realtà
complessiva, dei risultati che questa azione avrà nel futuro. In entrambe le situazioni
tutto diventa pesante e complesso; la stessa pratica del Dharma, se si è perduta la
visione serena dell’insieme, è gravosa e sterile mentre nella sequenzialità del cammino
e nella visione d’insieme, la pratica spirituale è leggera, è vera gioia.
Si deve procedere passo dopo passo, non si possono saltare le tappe obbligate
dell’esistenza. Non si può vivere completamente nel futuro ignorando il presente come
se non esistesse, e non si può vivere esclusivamente il momento presente ignorandone
le inevitabili ricadute nel futuro.
Se non abbiamo la capacità di realizzare pace, serenità, rilassamento e distensione
nel presente che stiamo vivendo come potremmo presumere che tutto questo possa
avvenire, quasi per magia, in un momento successivo, nel futuro? E’ impossibile,
questo non si verificherà.
Il raggiungimento del Nirvana inizia ora, parte dal momento presente e, passo
dopo passo, gradino per gradino, si realizza.
Qual’è il modo migliore per seguire il percorso graduale? Nella letteratura
Buddhista vi è una considerevole abbondanza e varietà di metodi e ognuno può essere
di immenso beneficio e aiuto, indipendentemente dalla scelta individuale di aderire o
meno ad un determinato percorso religioso e spirituale. Sono strumenti validi per tutti
e non è assolutamente necessario professare una religione, qualsiasi essa sia. Ciò
ovviamente non significa che i percorsi religiosi, le varie confessioni spirituali siano
inutili, ci sono persone che attraverso l’adesione formale a una religione si sentono
maggiormente a proprio agio, facilitati nel percorso e quindi positivamente vi
aderiscono, ma deve essere chiaro che questi metodi sono altrettanto validi anche per
persone non religiose.
Suprema Sostanza degli Alchimisti

Negli incontri Buddhisti, prima di iniziare una qualsiasi attività, sia studio,
meditazione o preghiera, si pone una giusta enfasi sulla “motivazione appropriata”, ci
si sofferma a riflettere sullo scopo che si vuole ottenere e si formula verbalmente
l’intenzione; penso che questo atto sia davvero importante, un’esperienza profonda e
commovente.
Generare la giusta motivazione è come entrare nel proprio cuore, scavare nelle
profondità, smuovere le emozioni, i sentimenti più intimi, in particolare i sentimenti
più veri verso gli altri.
Generare la motivazione è sperimentare, verificare la reazione emotiva, personale,
intima verso ciò che concerne il rapporto con gli altri, i loro sentimenti, i loro problemi,
le loro sofferenze, le loro difficoltà. Il far emergere le proprie reazioni con umiltà
sviluppa automaticamente l’impulso altruistico, il desiderio di eliminare la sofferenza
dall’esistenza altrui; si genera l’attitudine naturale al buon cuore, che è la parte migliore
di noi. La gioia che accompagna sempre il buon cuore è veramente preziosa. Con una
pratica così semplice e così breve si sperimenta una gioia profonda da cui scaturiscono
relazioni significative e armoniose con gli altri. Una pratica così semplice ha il potere di
sconfiggere in se stessi ogni tristezza, sofferenza e preoccupazione.
Leggeremo alcuni versi dal testo di Santideva “BODHICARYAVATARA”
iniziando dal primo capitolo. Data la diversità nelle traduzioni dal sanscrito, al fine di
permettere una maggior comprensione, per ogni verso confronteremo sempre due
traduzioni, a) e b). Nel primo capitolo si tratta dei benefici della mente altruistica, del
buon cuore.

Capitolo I°, verso 10°:


a) “Essere simile alla suprema sostanza degli alchimisti, poiché trasforma questo nostro
corpo impuro nel gioiello inestimabile del corpo di Buddha. Per tale motivo dobbiamo
cogliere e sviluppare fermamente la mente dell’illuminazione.”
b) “Prendendo questa vile immagine, la tramuta nell’immagine inestimabile della gemma che è
Buddha. Tieni stretto l’elisir di argento vivo, che deve essere completamente raffinato,
detto la mente del risveglio.”

Non vi è dubbio che la qualità più preziosa dell’esistenza umana, del corpo
umano, in grado di trasformare e condurre all’illuminazione, sia l’attitudine mentale
altruistica.
La nostra mente può essere positiva solo se le attitudini mentali sono positive e le
stesse hanno il potere di influenzare lo stato fisico. Esistono fortissime connessioni,
ormai confermate dalla scienza, tra lo stato mentale e quello biologico. L’attitudine
mentale al buon cuore si trasforma, sul piano fisico, in benessere, armonia, equilibrio e
dunque in buona salute. E’ ormai dimostrato scientificamente che lo stato mentale
influenza e provoca mutazioni nello stato biochimico del corpo.
Nel testo di Santideva si parla di “Bodhicitta” usando più definizioni: mente
dell’illuminazione, o mente altruistica, o semplicemente buon cuore, ed è descritta
come elisir capace di trasformare il corpo umano, la natura impura, nella natura di un
Buddha, di un essere illuminato. Malgrado sia un testo antichissimo e affronti
l’argomento essenzialmente da un punto di vista spirituale, indica una verità naturale,
biologica che oggi la scienza, attraverso numerose ricerche e verifiche, conferma.
Lo sviluppo spirituale che determina un nuovo stato di coscienza influenza lo
stato biochimico del corpo producendone mutamenti conseguenti; per questo per i
Buddhisti è normale la manifestazione del “corpo di arcobaleno”; è una trasformazione
biochimica risultante da una completa realizzazione spirituale.
Il coltivare il buon cuore, essere in un’attitudine altruistica, positiva, influenza lo
stato del corpo, eliminando ogni stress, ogni affaticamento, permettendo di riposare
rilassati, sereni, gioiosi, equilibrati.
Se invece ci troviamo in uno stato mentale opposto al buon cuore, all’altruismo,
siamo totalmente in balia delle emozioni perturbatrici che nel Buddhismo sono
riconosciute come i veleni che contaminano la mente, obnubilano la coscienza, e che
genericamente vengono definiti “egoismo”, ma il termine filosofico appropriato è
“attitudine autogratificante” che sorge dalla visione errata del sé, come se esistesse un
sé indipendente, proprio, a sé stante, egocentrico. Da questa visione, frutto
dell’ignoranza, derivano due disposizioni mentali:
1) l’attaccamento, che sorge dalla tendenza ad enfatizzare l’aspetto piacevole delle
cose, ad esagerarne l’essenza, consolidando il forte attaccamento ad esse;
2) l’avversione, che sorge dalla tendenza ad enfatizzare gli aspetti spiacevoli delle
cose, esagerandone le dimensioni, consolidando così la forte repulsione ad esse.
Una mente dominata dalle emozioni perturbatrici mostra prepotentemente, in
primissimo piano, “l’IO”, e immediatamente dopo un altrettanto pesantissimo “MIO”.
Quando “l’io” incontra cose piacevoli nasce l’attaccamento che determina il “mio” ma,
se il “mio” è intaccato o “l’io” contraddetto, nasce all'istante l’avversione. In questa
altalena di «attaccamento - avversione» si consuma una quantità enorme di energia pur
restando immobili, bloccati nell’ignoranza, in un processo distruttivo che si
autoalimenta costantemente.
Invece preservare l’energia in modo da usufruirne sempre e senza fatica, significa
predisporsi ad attitudini mentali non offuscate dall’ignoranza.
Se limitiamo l’analisi di questo aspetto ad una speculazione puramente filosofica
potremmo avere difficoltà a comprenderne le reali implicazioni, ma se lo affrontiamo
dal punto di osservazione del quotidiano ripetersi di azioni, parole, pensieri, di
reazioni alle esperienze, la prospettiva diventa chiara e possiamo verificare, momento
per momento, come l’attitudine mentale altruistica o egoistica trasformi la vita, il
nostro modo di essere e sia causa diretta di gioia o di sofferenza.
Il libro del Dharma è in noi stessi e ciò che sperimentiamo nell’esistenza di ogni
giorno diventa la vera pratica, un cammino interiore che porta all’apertura del buon
cuore, alla compassione.
Ognuno di noi ha sperimentato direttamente gli effetti della rabbia e dell’egoismo,
percepiti in un devastante malessere mentale e fisico. Quando l’io e il mio si fanno
dominanti si sprofonda in un pesante obnubilamento mentale, nella depressione
psichica e fisica. Senza la pratica spirituale e lo sviluppo della mente altruistica, le
emozioni perturbatrici prendono il sopravvento sulla coscienza, ne sono i padroni e i
dominatori indiscussi.
Questo fa la differenza tra il praticante spirituale e la persona che non pratica.
Un praticante riconosce le proprie emozioni, la presenza ugualmente ingombrante
dell’io e del mio, ma non se ne lascia sopraffare, non permette che abbiano nessun tipo
di controllo e di forza sulla sua vita.
Gli stati mentali si manifestano per le più svariate e mutevoli ragioni, non si tratta
di decisioni volontariamente assunte, ma sono conseguenza di esperienze passate, di
abitudini, di eventi, di reazioni biochimiche dell’organismo, e di molti altri fattori
ancora. Quando a causa di uno qualsiasi di questi fattori ci ritroviamo in uno stato
mentale negativo, e ce ne lasciamo dominare, alimentiamo un ciclo negativo
estremamente doloroso che distrugge la pace e il benessere nostro e altrui. L’unico
portentoso antidoto in grado di fronteggiare le emozioni distruttive è la pratica della
pazienza che allarga il buon cuore.

Capitolo I°, verso 27°:


a) “Se il semplice pensiero di voler aiutare gli altri ha più valore del venerare il Buddha, che
dire allora dell’impegnarsi effettivamente nelle azioni che recano beneficio a tutti gli
esseri?”
b) “La venerazione del Buddha è unicamente superata dal desiderio per il benessere degli altri;
quanto più lo sarà dall’impegno continuo per la completa felicità di ogni essere?

Santideva non lascia adito a dubbi, un solo istante di buon cuore è superiore a
innumerevoli momenti di venerazione del Buddha e non intende un buon cuore
generico verso un tutto astratto, ma si riferisce al buon cuore rivolto a uno specifico
essere, attitudine che si trasforma in buon cuore verso tutti gli esseri nel momento
stesso in cui si manifesta.
Il buon cuore dona pacificazione, serenità, gioia a se stessi, equilibrio biochimico e
benessere fisico, gioiose relazioni con gli altri, amicizia, aiuto e armonia. La vita pare
molto più facile e il successo naturale.
Domanda: Non mi è chiaro come si possano controllare le proprie emozioni, perché è
così difficile acchiapparle, quando le avvertiamo hanno già preso il
sopravvento su di noi, le subiamo totalmente e poi, e questa è una seconda
domanda, vorrei capire come posso io, che sono a mia volta succube delle
emozioni, aiutare mia figlia quattordicenne che è completamente soggetta a
sbalzi d’umore, tristezza e rabbia.
Lama: Questo è un problema tipico della società odierna, grazie alla tecnologia
sofisticata tutto è talmente veloce da dover imporre alle nostre reazioni
altrettanta rapidità. Dovremmo avere una mente totalmente aperta, in
grado di comprendere quasi tutto e tanto vasta da saper dare un’infinità di
informazioni subito. Una volta si scriveva una lettera, la si ponderava e chi
la riceveva, prima di rispondere, aveva tempo di riflettere cercando i
concetti più adeguati; oggi con la posta elettronica la comunicazione è
immediata e tale deve essere la risposta. Il testo di Santideva contiene
consigli diretti e pratici che ci aiutano a sopravvivere in questo sistema
convulso. Oggi chi pratica il Buddhismo deve applicarsi moltissimo
attivando tutta l’intelligenza senza perdere mai di vista il Dharma. E’
necessario comprendere, interiorizzare ogni lettura, insegnamento, in modo
da essere sempre pronti a metterlo in pratica nel momento opportuno,
senza dover aspettare.
Per quanto riguarda tua figlia non puoi fare altro che consigliarla, starle
accanto in uno stato mentale rilassato, calmo, sereno e con molto amore. E’
difficile influenzare la mente di un’altra persona, ma si può influenzare il
suo cuore, perché l’energia spirituale si trasmette da cuore a cuore e non da
cervello a cervello.
Osservare e riconoscere il valore del buon cuore, della mente altruistica, i benefici
che ne derivano, favorisce lo sviluppo del buon cuore stesso e permette di vedere con
chiarezza tutti i difetti dell’avversione, della rabbia e della mancanza di compassione.
Avversione e attaccamento sono entrambi difetti mentali anche se si manifestano
in modo diverso.
L’attaccamento è rivolto all’oggetto che si ama e a prima vista potrebbe sembrare
un’attitudine protettiva, favorevole e vantaggiosa per se stessi, ma in realtà si tratta di
una visione distorta ed eccessiva che non può che condurre sempre e inevitabilmente
alla sofferenza. L’attitudine all’attaccamento è fondata sull’ignoranza, è estremistica,
non coerente alla realtà, frammentaria e parziale e crea instabilità e debolezza mentale,
cioè sofferenza.
L’avversione è l’attitudine che scaturisce dalla visione degli aspetti spiacevoli
delle cose che di conseguenza si vogliono evitare ed eliminare ad ogni costo.
Dall’avversione può nascere la collera, come risposta estrema ad un oggetto tanto
spiacevole da dover essere cancellato.
La rabbia è aggressiva e produce odio.
Quando la rabbia insorge, per quanto potente sia, in genere ha una durata
limitata, spesso breve, l’odio invece si radica profondamente nel cuore e vi permane
dando origine al desiderio di vendetta. Se la rabbia può condurre ad azioni
sconsiderate dalle tristi conseguenze, l’odio ha effetti ben più drammatici e provoca la
più devastante autodistruzione.
L’antidoto alla rabbia è la pazienza. Se qualcosa è sgradito non è necessario
distruggerlo, è invece assai produttivo imparare ad accoglierlo con pazienza,
un’impresa forse difficile ma non impossibile. Con la pazienza si apprende il perdono,
fondamentale pilastro nella crescita spirituale, anche nel cristianesimo si ribadisce con
forza lo stesso principio. Ho provato una sincera commozione e rispetto verso il Papa
che, ferito, ha perdonato con cuore aperto l’attentatore, è andato a trovarlo in carcere,
ha intercesso per lui presso l’autorità giudiziaria chiedendo clemenza, ha compiuto un
gesto di grande valore spirituale.
Perdonare allevia le proprie tensioni e quelle degli altri, porta pace, serenità e
autentica gioia perché libera il cuore dai macigni che l’opprimono e, con gioiosa
leggerezza, induce ad accorrere in aiuto degli altri desiderando per loro lo stesso bene.
Questa è la pratica spirituale.
Il Corpo influenza la Mente e la Mente influenza il Corpo

L’avversione e l’attaccamento nelle relazioni con gli altri possono sorgere, non
solo per cause mentali, ma anche per cause fisiche dipendenti da fattori biochimici,
tempeste elettromagnetiche, ecc. quindi, avvalendosi delle conoscenze filosofiche,
spirituali e scientifiche, è più facile affrontare con pazienza ogni situazione.
Il corpo influenza la mente e la mente influenza il corpo, la visione equilibrata dei
due aspetti può già di per sé ridurre notevolmente ogni tensione e negatività e non si
deve mai commettere l’errore di sottovalutare questo duplice aspetto perché se, di
fronte al sorgere di avversione o attaccamento con sentimenti forti quali rabbia o
amore, si osserva il fenomeno solo dal punto vista filosofico, questo può sembrare
astratto, non rispondente all’effettiva esperienza, quindi lontano, ma se si unisce a
questa conoscenza l’informazione che la scienza offre, osservando il processo
fisiologico e biochimico, si comprende il fenomeno nella sua globalità ed più facile
attivare gli antidoti necessari.
Già nell’antico Tibet, la visione unilaterale della realtà è stata causa di un
fraintendimento, si pensava: “La pratica spirituale porta all’illuminazione, quindi, poiché
l’illuminazione è il compimento di tutto, si è liberi da ogni altro condizionamento.”, verissimo,
affermazione perfetta in sé, però fino a quando non si raggiunge l’illuminazione i
condizionamenti esistono, eccome! e non si possono ignorare. Noi siamo condizionati
dal nostro corpo, quindi per contrastare le attitudini mentali derivanti dall’ignoranza di
avversione e attaccamento, dobbiamo applicare i rimedi che la pratica spirituale indica,
sapendo che siamo in questo corpo e che lo stesso interagisce attivamente con i processi
mentali.
Dal secondo capitolo del Bodhicaryavatara si possono trarre alcuni importanti
consigli diretti e immediati. La tendenza onnipresente è sempre quella di procrastinare,
invece è più che mai necessario oggi poter applicare con forza e subito il rimedio
opportuno.

Capitolo II°, dal verso 33°:


a) “L’inaffidabile sovrano della morte non attende che le cose siano compiute o incompiute,
che io sia ammalato o in salute, inoltre non posso confidare nell’incerta durata della mia
vita.
Abbandonando tutto dovrò andarmene da solo, tuttavia, privo di comprensione ho
compiuto innumerevoli azioni negative a causa di amici e nemici.”

b) “Come posso sfuggirgli? Salvatemi in fretta perché la morte verrà presto, prima che il mio
male sarà stato distrutto!
Questa morte non bada a ciò che è fatto o non fatto; uccide la sicurezza; è inaffidabile per
i malati e i sani; è un fulmine inaspettato.
Il male ho compiuto in molti modi spinto da amici e nemici. Non capivo questo: Dovrò
abbandonare tutto e andarmene.”

Siamo di fronte alla morte, all’impermanenza di tutte le cose, la vita è un


momento e non sappiamo quanto durerà, non possiamo sprecarne neppure un attimo,
dobbiamo essere in grado di afferrare immediatamente i rimedi alle emozioni
distruttive.
Con la morte si abbandona tutto, i forti attaccamenti e le implacabili avversioni
che ci hanno interamente dominato, inducendoci a commettere innumerevoli errori, a
sprecare nell’inutilità la vita stessa, e tutto finisce nel nulla, tutto scampare, amici e
nemici.

a) “I miei nemici alla fine cesseranno di esistere, i miei amici e io stesso cesseremo di
esistere, allo stesso modo tutto il resto svanirà nel nulla.
Tutto ciò che possiedo e utilizzo è come la fugace visione di un sogno; qualsiasi cosa di
cui ora godo diventerà un ricordo.”

b) “Quelli che detesto moriranno, quelli che amo moriranno; anch’io morirò e tutti moriranno.
Ogni cosa percepita trascolora in ricordo. Ogni cosa è come immagine in sogno. Se ne è
andata e non si vedrà più.”

Sono versi potenti. Qual’è il motivo di una così forte avversione o di tanto avido
attaccamento se tutto finisce? Attaccamento e avversione sono inutili e causano soltanto
tensioni, fatica, problemi e uno spropositato spreco di energia.

Capitolo III°, dal verso 1°:


a) “Con gioia mi rallegro della virtù che allevia la miseria di tutti gli esseri, rinati in stati
sfortunati, e conduce alla beatitudine coloro che soffrono.
Gioisco di quella virtù che diventa la causa dell’ottenimento dell’illuminazione e gioisco
della liberazione definitiva degli esseri viventi dalla sofferenza dell’esistenza
condizionata.
Gioisco dell’illuminazione dei Buddha protettori e dell’ottenimento dei vari livelli
spirituali dei loro figli, i Bodhisattva.
Con grande felicità gioisco dell’oceano di bene che proviene dalla mente
dell’illuminazione che si propone di condurre tutti gli esseri alla beatitudine, come pure
gioisco di ogni azione compiuta per il bene di tutti.”

b) “Mi rallegro con gioia del bene fatto da tutti gli esseri, che indebolisce la sofferenza
dell’inferno. Possano, coloro che soffrono, dimorare nella felicità.
Mi rallegro della liberazione degli esseri incarnati dalla sofferenza dell’esistenza ciclica. Mi
rallegro della natura di Bodhisattva e di Buddha propria dei Salvatori.
Mi rallegro anche delle risoluzioni dei Maestri, che sono oceani recanti felicità a ogni
essere, che conferiscono benessere a tutte le creature.”

Ecco una consolazione: tutto è impermanente, c’è molta sofferenza, ma c’è anche
gioia e allegria, si tratta soltanto di coltivare l’attitudine a rallegrarsi delle positività e
delle qualità degli altri, di tutti, indiscriminatamente, perché anche le persone
all’apparenza antipatiche possiedono virtù e ricchezze interiori.
Rallegrarsi dei meriti altrui è un buon metodo per espandere i propri; è il rimedio
alla sofferenza causata da invidia e gelosia, attitudini di una mente limitata e gretta che,
invece di gioire con gli altri per le loro virtù, preferisce macerarsi nella sofferenza,
chiudersi ad ogni relazione umana e costruire pesanti e brutti muri difensivi. Questo è
veramente insensato e ridicolo. Di questo passo la piccola mente sarà gelosa e invidiosa
anche del Buddha e persino di Dio!…
Domanda: Come posso riconoscere delle buone qualità in una persona estrema come
Hitler?
Lama: Non è la persona ad esser “estrema” ma lo è la sua attitudine di avversione e
odio. La persona è come tutti gli altri, desidererebbe essere felice, vorrebbe
evitare la sofferenza ma, dominata dall’attitudine estrema di rabbia e odio,
perde completamente questa opportunità e i danni nei confronti di se stesso
e degli altri sono tremendi. Hitler se avesse voluto avrebbe potuto
trasformare la sua attitudine negativa ed essere una persona buona e anche
felice.
Domanda: Non è sempre facile gioire delle positività altrui, vorrei quindi capire se lo si
deve applicare come antidoto alla gelosia e all’invidia, oppure se c’è una
motivazione più profonda, cioè se si deve gioire perché questa virtù, che io
non posseggo ma è posseduta da altri, è comunque una qualità della
mente?
Lama: I motivi sono tanti. Gioire delle qualità degli altri, e quindi abbattere la propria
invidia e gelosia, fa si che nel contempo si costruisca la propria gioia ed è
già un’ottima ragione di per sé.
Se ci si può arrabbiare per i difetti degli altri, perché allo stesso modo non
rallegrarsi delle loro virtù? E’ semplice rispetto degli altri, riconoscimento
del loro valore, delle qualità della mente. I benefici che ne derivano sono
evidenti: volete paragonare il beneficio immediato che si ottiene
nell’apprezzare con gioia le virtù altrui rispetto allo svantaggio
dell’arrabbiarsi per i loro difetti? Non c’è paragone! La risposta corretta ai
difetti degli altri non è avversione e rabbia, bensì compassione, e la risposta
corretta alle loro virtù è allegria e sincera gioia.
Avversione e rabbia causano in noi stessi e negli altri solo conflittualità e
sofferenza, mentre compassione per i difetti e gioia per le virtù altrui
portano pacificazione, annullamento di ogni possibile tensione, relazioni
armoniose, preziose amicizie, arricchimento interiore.

Capitolo III°, Verso 14°:


a) “Per cui lascerò che essi facciano di me ciò che desiderano purché ciò non diventi causa
anche di un loro più piccolo danno. Ogni qualvolta qualcuno mi incontrerà possa ciò
essere unicamente di beneficio per tutti.”

b) “Che facciano di me qualsiasi cosa dia loro piacere. Che non si nuoccia mai ad alcuno per
causa mia.”

Domanda: Sono perplessa sul “..che essi facciano di me tutto ciò che desiderano…”, ci sono
limiti oggettivi, credo, che non possono essere superati, anche per impedire
agli altri di fare del male a me e a loro stessi. Non è meglio mettere dei
freni, delle barriere?
Lama: Dipende, nel versetto appena letto chi osserva la realtà ha la visione elevata
del Bodhisattva, tutto si radica nell’attitudine altruistica e le barriere che si
pongono dipendono dal grado di realizzazione del praticante spirituale.
Coloro che hanno un’alta realizzazione non possono essere veramente
danneggiati. Nella seconda parte del versetto si aggiunge: “Ogni qualvolta
qualcuno mi incontrerà possa ciò essere unicamente di beneficio per tutti”, con
quest’attitudine il praticante diventa come pianta medicinale, in grado di
portare beneficio anche se l’atteggiamento mentale dell’altro è negativo.

Capitolo III°, Verso 15°:


a) “Se in coloro che mi incontrano sorgerà un pensiero di devozione o di collera possa esso
diventare costantemente un mezzo per realizzare ogni loro desiderio.
Coloro che mi rivolgono insulti o che mi causano qualsiasi altro danno, anche se mi
incolpano o mi calunniano, possano tutti avere la fortuna di ottenere l’illuminazione.
Possa io essere un protettore, per coloro che ne sono privi, una guida, per coloro che sono
in cammino sulla via possa essere un ponte, un’imbarcazione e una nave per tutti coloro
che desiderano attraversare le acque, possa essere un’isola per coloro che sono alla ricerca
di terra e una luce per quelli che desiderano la luce, possa essere un giaciglio per coloro
che desiderano riposo, e un riposo e un servitore per tutti coloro che ne desiderano uno.
Possa essere un gioiello dei desideri, un vaso della fortuna, mantra potenti e medicine
prodigiose, possa diventare un albero che esaudisce i desideri e una mucca
dell’abbondanza per il mondo.
Proprio come la terra e gli altri elementi, possa io essere un sostegno per la vita delle
innumerevoli creature rimanendo sino a quando esisterà lo spazio, e sino a quando non
trascenderanno il dolore possa io essere fonte di vita e di sostentamento per tutti gli
esseri viventi che si estendono fino ai confini dello spazio.”
b) “Dovesse la loro mente divenire irata o scontenta per causa mia, che anche questo sia causa
per loro del conseguire sempre ogni meta.
Coloro che mi accuseranno falsamente, e gli altri che mi faranno del male, e gli altri ancora
che mi degraderanno, tutti coloro possano condividere il risveglio.
Sono il protettore dei non protetti e il capocarovana dei viaggiatori. Sono diventato la
barca, la strada e il ponte di coloro che desiderano raggiungere l’atra riva.
Possa io essere una luce per coloro che hanno bisogno di luce. Possa io essere un letto per
coloro che hanno bisogno di riposo. Possa io essere un servo per coloro che hanno bisogno di
servigi, per tutti gli esseri incarnati.
Possa io essere il gioiello che soddisfa i desideri, il vaso dell’abbondanza, la formula magica
che sempre funziona, la potente erba medicinale, l’albero magico che conferisce ogni
desiderio e la vacca da latte che soddisfa ogni bisogno, per tutti gli esseri incarnati.
Proprio come la terra e gli altri elementi sono utili in molti modi agli esseri innumerevoli che
dimorano in ogni parte dello spazio, così possa io essere di sostentamento in molti modi per
il regno degli esseri in ogni parte dello spazio, finché tutti non abbiano ottenuto la
liberazione.”

Questi versi contengono l’ideale e la pratica del Bodhisattva.


In Tibet visse Milarepa, in India Santideva, due grandi praticanti e asceti che
esprimono pienamente l’ideale del Bodhisattva. Santideva in un altro testo espone
l’insieme delle regole morali, il compendio delle pratiche del Bodhisattva, detto anche
“Vinaya di Bodhisattva”, offre una descrizione particolarmente dettagliata della pratica
del Bodhisattva, dello sviluppo della mente altruistica, insegna il metodo per vincere
l’attitudine all’attaccamento, alla rabbia, all’odio e a tutte le possibili disposizioni
disturbanti. La “preghiera semplice” di S .Francesco ha molte analogie.
Assisi è un luogo particolarmente mistico e io vissi un’esperienza intensa durante
un incontro interreligioso tra cristiani, induisti e Buddhisti. In quella circostanza
condividemmo canti e preghiere constatando ancora una volta che le forme e le
espressioni possono essere diverse, perché diverse sono le rispettive culture, ma il
contenuto profondo, l’obiettivo ultimo, è lo stesso. La commozione pervase tutti
fortemente nella condivisa armonia. E’ proprio una follia non rispettare allo stesso
modo tutte le tradizioni religiose.
Come sviluppare la Determinazione, la Capacità e la Forza

Nel testo di Santideva è evidente come gli altri, il loro benessere, siano il vero
obiettivo, il centro della pratica, quindi in nessun caso potrebbero diventare motivo di
avversione e di rabbia.

Capitolo IV°, dal verso 44°:


a) “Sarebbe meglio per me essere arso vivo, oppure essere decapitato, piuttosto che in alcun
caso sottomettermi a questi mortali nemici, le emozioni negative!
I nemici ordinari quando vengono cacciati dallo stato si ritirano e si stabiliscono in un
altro paese, qui radunano le loro forze per ritornare più combattivi. Ma i nostri difetti
mentali non utilizzano simili stratagemmi.
Nocivi difetti mentali, una volta dispersi dall’occhio della saggezza e scacciati dalla mia
mente, dove andate? Da dove potete tornare per danneggiarmi? Ma, ahimé, la mia mente
è debole e sono preda dell’indolenza.
Tuttavia i difetti mentali non esistono negli oggetti, né nelle facoltà sensoriali, né tra
questi due, né in qualsiasi altro luogo, in tal caso, dov’è la loro dimora? E da dove recano
danno a tutti gli esseri migratori? Essi sono vuoti come un’illusione, un miraggio, per
cui fatevi coraggio, eliminate ogni paura nel Vostro cuore e sforzatevi di percepire la loro
vera natura con l’occhio della saggezza. Perché? Soffrire così a lungo negli inferni?”

b “Non importa se mi tireranno fuori le budella! Che la mia testa cada pure! Ma mai mi
inchinerò di fronte al nemico, le contaminazioni!
Anche se esiliato, un nemico può trovare seguito e appoggio in un altro paese, e di lì
ritornare dopo aver ripreso forza. Ma non ha una risorsa simile questo nemico, le
contaminazioni.
Stabilito nella mia mente, dove potrebbe andare una volta scacciato? Dove potrebbe stare
per lavorare alla mia distruzione? Non mi sforzo solo perché la mia mente è ottusa. Le
contaminazioni sono deboli creature da sottomettere con la luce abbagliante della sapienza.
Le contaminazioni non dimorano negli oggetti, né nell’insieme dei sensi, né nello spazio
intermedio. Non possono dimorare in nessun altro luogo, e tuttavia sconvolgono l’intero
universo. Questa non è altro che illusione! Dunque , o cuore, liberati dalla paura, dedicati
alla ricerca della sapienza. Perché, senza bisogno alcuno, ti tormenti negli inferni?”

Santideva insegna come sviluppare la determinazione, la capacità e la forza di


opporsi alle emozioni negative e sottolinea la differenza esistente tra il nemico esterno e
il nemico interno; il nemico esterno può essere cacciato, mandato lontano, ma quello
interno no, è sempre inesorabilmente al suo posto. L’unica possibilità di combatterlo e
sconfiggerlo è lo sviluppo della mente di saggezza, sempre allerta, vigile.
Sono particolarmente interessanti le domande poste dal 47° verso: Dove sono i
difetti mentali, le emozioni negative e disturbanti, le contaminazioni? Sono forse negli
oggetti? no, sono nei sensi? no, sono in qualche luogo fisico? no, sono dunque
intermedi a tutte queste situazioni? no. Non è possibile trovarli da nessuna parte,
nondimeno sono devastanti. Forse le emozioni risiedono nel nostro corpo? oppure
provengono dal corpo degli altri? sorgono dalla vista? dall’udito? dove sono infine?
DOVE?…. eppure i danni che producono sono gravissimi!
Quando si è preda di un’emozione negativa la si vorrebbe afferrare, gettare via,
ma non vi è nulla da afferrare, nulla da buttare. Volendo individuare le emozioni
negative si prende finalmente coscienza della grande differenza tra la loro essenza e la
percezione che se ne ha e questa osservazione è il metodo per combatterle e liberarsene.
In tutti i Paesi Buddhisti asiatici questo aspetto fondamentale è oggetto di lunghi e
profondi studi. In Italia, relativamente allo studio del Buddhismo, potremmo essere
alla scuola materna, anche se qualcuno è convinto di sapere già tutto e di avere studiato
moltissimo!…Invece è importante comprendere che lo studio e la comprensione
profonda sono essenziali e ancor di più lo è la pratica che ci permette di trasformarci e
di costruire una buona personalità.
Una persona semplice, buona, intelligente, anche se non ha ricevuto grande
istruzione, non trasmetterà mai nulla di sbagliato.
Se l’ignoranza è pericolosa, lo è ancor di più una cattiva personalità.
Una buona personalità è la qualità essenziale di un insegnante di Dharma e di un
praticante e, poiché non è possibile conoscere il cuore degli altri e quindi giudicarli, la
virtù che deve essere sempre presente è la pazienza!
La base della pratica è la meditazione, ma non vi è un solo modo di meditare; in
genere la nostra meditazione è comoda e dunque i risultati saranno altrettanto modesti,
osserviamo invece alcuni tipi di meditazione praticati nell’antico Tibet, diversi in
apparenza, ma identici nella sostanza e riassunti nel verso del tantra: “Le pratiche
estremamente elaborate, le pratiche poco elaborate e le pratiche senza alcuna elaborazione sono
identiche”. Eccone tre esempi:
1. Pratiche molto elaborate: la meditazione di Lama con alta realizzazione
durante rituali e danze complessi, con simbolismi ed esteriorità marcate
nell’espressione gestuale, nei suoni e nei colori. Il meditante deve saper
coniugare la mente interiore con i molteplici aspetti esteriori e non è facile.
2. Pratiche poco elaborate: la meditazione di Milarepa, molto semplice.
Milarepa meditava lungamente, immobile, con una candela sulla testa, nel
silenzio di una grotta che poteva essere aperta solo dall’esterno;
3. Pratiche senza elaborazione alcuna: la meditazione di Santideva, grandissimo
meditante, ma non riconosciuto come tale dai suoi compagni che, anzi, lo
accusavano di essere il monaco più pigro del monastero.
Domanda: Non capisco, come meditava Santideva?
Lama: Dormendo!… In monastero era famoso per saper fare solo tre cose: mangiare,
dormire e adempiere alle necessità corporali. Ma lui, dormendo, meditava
in modo vigile e profondo, continuamente.
Esisteva allora una regola del monastero per cui, a turno, ogni monaco
doveva dare un insegnamento pubblico. Quando toccò a Santideva i suoi
compagni si predisposero a un grande divertimento e prepararono, tanto
per cominciare, un trono altissimo su cui era impossibile arrampicarsi;
Santideva non si scompose e giunto davanti al trono, tranquillamente con
un semplice gesto della mano lo abbassò, poi si sedette e con umiltà iniziò il
suo discorso, (il Bodhicaryavatara):
“Non c’è nulla di nuovo da dire che già non sia stato detto nel passato. Io non
ho alcuna abilità oratoria e nemmeno ho la presunzione che il mio discorso possa
aiutare gli altri, ma semplicemente parlerò per rendere familiari questi concetti alla
mia stessa mente. Tengo questo discorso come promemoria per ricordare sempre ciò
che porta virtù e buone azioni alla pratica. Questo discorso può essere di beneficio a
coloro che hanno le stesse capacità o abilità mentali o predisposizioni; e questo
discorso possa essere loro di beneficio”.

Parliamo spesso di Pratica, ma che cos’è?

Se lo studio di questo testo produce un cambiamento in noi significa che abbiamo


la predisposizione di cui parlava Santideva a comprendere il significato profondo delle
sue parole e dunque anche noi potremmo essere “praticanti dormienti”.
Ma, sia che ci si trovi in profonda meditazione, sia che si stia consapevolmente
riposando perfettamente rilassati, sia che si partecipi a un complesso cerimoniale
tantrico, ciò che resta perfettamente identico e inalterato è la qualità meditativa della
mente in ogni situazione.
Le diverse forme di pratica non sono contraddittorie tra loro e una persona può
usarle tutte con uguale capacità.

IV° capitolo, verso 48°


a) “Questo è il modo in cui dovrei riflettere ed operare mettendo in pratica i precetti qui
illustrati. Quale malato bisognoso di cure ha riacquistato la salute ignorando le
prescrizioni del dottore?.”

b) “Prendendo una ferma risoluzione, dunque, mi sforzerò di seguire l’addestramento come è


stato insegnato. Come può ristabilirsi qualcuno che potrebbe essere curato con un farmaco,
se non segue il consiglio del medico?.”
Non è sufficiente avere la prescrizione medica (leggere, studiare, imparare,
riflettere), bisogna anche assumere la medicina, cioè mettere in pratica quanto si è
appreso. Noi parliamo spesso di pratica, ma che cos’è? E’ l’attitudine all’osservazione
vigilante e attenta della mente come viene descritta nel testo a partire da:

capitolo V°, verso 1°


a) “Coloro che desiderano proteggere la loro pratica dovrebbero, con grande zelo,
salvaguardare le loro menti, poiché senza vigilare sulla mente non sarà mai possibile
mantenere una disciplina.”
b) “Chi desideri sorvegliare la sua pratica, deve sorvegliare con scrupolo la sua mente. E’
impossibile sorvegliare la pratica senza sorvegliare la mente distratta.”

Se non si protegge la mente, se ci si distrae, essa lasciata libera, abbandonata


nell’incuria, può causare enormi problemi. Vigilare sulla mente non è limitarsi ad
osservarla, ma significa seguirla costantemente, come si fa con i bambini per impedire
che si facciano male, pur non limitando la loro crescita, li si sorveglia discretamente,
sempre.
C’era in monastero un monachello che non aveva nessuna voglia di studiare, ma il
maestro, ancora speranzoso di cavarne qualcosa di buono, gli ripeteva continuamente:
“guarda il testo, non distrarti, guarda il testo…”. Lo studente, svogliato ma obbediente,
fissava lungamente il testo senza peraltro migliorare la sua conoscenza e rimanendo
nell’assoluta ignoranza, perché non aveva capito che il maestro, dicendo “guarda il
testo”, lo incitava ad osservare con attenzione il contenuto, conoscendolo e
imparandolo.
Se non si ha la stessa vigile attenzione nei confronti della mente essa, abbandonata
a se stessa, è in grado di produrre un vero inferno e Santideva osserva appunto che
l’inferno altro non è che nella nostra mente.

capitolo V°, versi 7° e 8°


a) “Chi ha creato intenzionalmente tutte le armi che tormentano coloro che si trovano negli
inferi? Chi ha creato il terreno di ferro rovente? Da dove provengono queste demoniache
figure di fuoco?
Il grande Saggio ha affermato che tutte queste manifestazioni sono unicamente prodotto
di una mente negativa, per cui all’interno dei tre reami dell’esistenza l’unica cosa che
dobbiamo temere è la mente.”

b) “Chi forgiò con tanta cura le armi dell’inferno? Chi creò il pavimento di ferro rovente? E chi
generò quelle sirene?
Tutte quante le cose sorgono dalla mente malvagia , cantò il Saggio. Così nei tre mondi non
c’è nulla di pericoloso se non la mente.”
L’inferno non è un luogo geografico individuabile fisicamente, è una proiezione
mentale disturbata. Santideva affronta in modo diretto e chiaro il problema; alla nostra
paura e ossessione dell’inferno risponde con una domanda/risposta: “Chi lo ha creato
con tutte le sue armi?” “La nostra mente, l’inferno è all’interno di essa”.

La sola protezione che abbiamo per cambiare noi stessi è la PAZIENZA

L’inferno è simile ai peggiori incubi che noi viviamo e soffriamo come se fossero
reali, eppure sono illusioni, creazioni della nostra mente.
Che fare dunque per vigilare con cura sulla nostra mente? Sviluppare la pratica
della pazienza! Santideva affronta l’argomento al:

capitolo V° dal verso 12°


a) “Gli esseri ostili privi di autocontrollo sono illimitati come lo spazio, per cui non è
assolutamente possibile sottometterli tutti, ma se solo elimino la rabbia che colma la mia
mente ciò equivarrà a sconfiggere tutti i nemici.
Dove potrei trovare abbastanza cuoio per ricoprire tutta la superficie della terrà?
Tuttavia, solo indossando del cuoio sotto le suole delle mie scarpe equivarrà a ricoprire
tutta la terra con esso.
Similmente, non sarà mai possibile influenzare totalmente gli eventi esteriori, tuttavia,
solo padroneggiando questa mia mente in modo positivo, che altro rimarrà da
controllare?.”

b) “Quante persone malvagie, senza fine come il cielo, posso io uccidere? Ma quando
l’atteggiamento mentale dell’ira è ucciso, ucciso è ogni nemico.
Dov’è tanto cuoio da coprire il mondo intero? Il vasto mondo può essere coperto con il cuoio
che basta per un paio di scarpe soltanto.
Allo stesso modo, poiché non posso controllare gli eventi esterni, controllerò la mia mente.
E’ forse affar mio se le altre cose sono controllate? .”

La pratica della pazienza è distruggere, dominare, superare la rabbia che c’è in


noi. Con il dominio della collera nessun oggetto potrà più esserci nocivo.
Coloro che chiamiamo nemici, oggetti di avversione, antipatia, altro non sono che
il riflesso della rabbia che cova libera in noi.
Se noi, in preda alla rabbia incontrollata, decidessimo, con atto volontaristico, pur
rimanendo in questo stato, di praticare la pazienza iniziando dal “dover perdonare
tutti”, pretenderemmo di affrontare un’impresa assolutamente impossibile. Solo
abbandonando la rabbia, eliminando ogni avversione, avviene la trasformazione
interiore profonda e vera che permette l’autentica e naturale pratica della pazienza.
Come dice Santideva, se voglio percorrere tutta la terra senza ferirmi i piedi non è
necessario che la ricopra interamente di cuoio, è sufficiente che ponga due piccole
strisce di cuoio sotto la pianta dei piedi e potrò andare ovunque desideri. Così,
dominando la collera, sono completamente protetto da ogni disturbo e il perdono
avviene naturalmente, senza sforzi artificiosi e inutili.
Spesso si pensa di poter superare le difficoltà cambiando gli altri, ma questa è un
illusione, un’impresa impossibile, possiamo solo cambiare noi stessi proteggendo la
nostra mente con la pazienza.
Domanda: In linea teorica concordo su quanto hai detto, però a volte si verificano
situazioni esterne pesantissime in cui si subiscono continuamente
vessazioni, un esempio potrebbe essere il mobbing nei luoghi di lavoro,
come si può contrastare tutto questo?
Lama: Con azioni non violente ma ugualmente incisive, come faceva Gandhi che
partiva da un retroterra di profonda meditazione e quindi applicava la non
violenza sulla base dell’attitudine mentale di assenza di collera; sempre
quieto, sereno, rivolgeva la mente esclusivamente al bene degli altri, mai
agiva per sé. Considerava con assoluta equanimità Indù, Cristiani,
Buddhisti, Islamici. E’ un modello di pratica non facile da emulare, ma il
più efficace. Nel caso del mobbing la pratica della pazienza diventa fonte di
calma e pace.
La pazienza è sorgente di forza interiore, di intelligenza e di presenza mentale.
Quando si perde il controllo non si è più credibili, ma se ci si mantiene stabili, forti,
dignitosi e calmi, gli altri presteranno attenzione alle nostre ragioni. Solo con la
tranquillità interiore si possono trovare i giusti mezzi per ottenere un buon risultato,
soprattutto in una società dai cambiamenti repentini e dalle infinite sollecitazioni.
Ricordo un episodio significativo accaduto ad una persona del gruppo di Roma che si
era trasferita a Milano; poco dopo la società americana per cui lavorava decideva di
ridurre il personale e probabilmente il primo ad essere licenziato sarebbe stato un
padre di famiglia con due figli ancora piccoli, era necessario dunque trovare
velocemente la soluzione meno dolorosa e questa persona, praticante Buddhista, si è
offerta spontaneamente in cambio del collega.
Oggi ci si trova continuamente a dover fronteggiare situazioni inaspettate,
problemi a cui è necessario offrire risposte immediate, ma per farlo occorre avere
equilibrio e pace interiore e i mezzi che suggerisce Santideva sono preziosi. Abbiamo
gli strumenti occorrenti, dunque la responsabilità di praticare correttamente il Dharma
oggi, secondo le esigenze del nostro tempo, è tutta ed esclusivamente nostra. Buddha,
Gesù Cristo, Santideva ci hanno indicato la strada, ma adesso tocca a noi percorrerla.
Nel VI° capitolo si descrive dettagliatamente la pratica della pazienza, lo stato
mentale che sconfigge la rabbia.
Lo scopo della rabbia è distruttivo e da essa nasce l’odio, che non è solo
l’attitudine temporanea a voler danneggiare, ma è permanente, radicata nel profondo e
produce volontà di vendetta. Se dunque la rabbia in un preciso momento può
provocare un disastro, l’odio è una malattia mortale.
Rabbia e odio cancellano in noi ogni possibile spazio positivo, non a caso si dice
che esse sono le più potenti azioni negative. Distruggono tutto, affetti, amicizie
preziose, beni e la vita stessa. Quanto di più terribile avviene nel mondo è provocato da
rabbia e odio e porta con sé un pesantissimo fardello di inutile ed evitabile dolore.

Il capitolo VI° inizia così:


a) “Ogni azione positiva portata a compimento nel corso di mille ere cosmiche, ad esempio
fare offerte ai Tathagata e praticare la generosità, verrà distrutta da un singolo istante di
collera.
Non c’è virtù uguale alla pazienza, né negatività uguale alla collera, ragion per cui devo
praticare in ogni modo la pazienza.”

b) “Questa adorazione dei Sugata, la generosità, la buona condotta osservata nel corso di
migliaia di eoni: l’odio distrugge tutto ciò.
Non c’è male eguale all’odio, non c’è pratica spirituale uguale alla pazienza. Perciò con vari
mezzi, con grande sforzo, si sviluppi la pazienza.”

E’ evidente perché la pazienza sia considerata la pratica fondamentale, la più


importante e, viceversa, nel 3° versetto si spiega perché l’odio sia la più nociva delle
attitudini mentali. Non esiste pensiero più doloroso dell’odio; la mente pervasa da
rabbia e odio non può trovare pace in alcun luogo e in nessun modo, non prova più
gioia, non riesce più a dormire, è definitivamente instabile, impazzita. E la follia è che
tanto dolore distruttivo non proviene dall’esterno, ma è costruito, mattone dopo
mattone, da noi stessi!
Domanda. Non è possibile che quest’attitudine alla rabbia e all’odio sia causata anche
dal condizionamento pesante del karma?
Lama: E’ piuttosto un’abitudine. Le impronte karmiche non possono mai interrompere
la pratica, che è l’unica soluzione per cambiare lo stato del karma. La pratica
è più forte della più negativa forza karmica. Con la pratica si riducono
naturalmente rabbia e odio sino alla loro totale dissoluzione, è garantito!..
Domanda: Sono un po’ confusa da questa equazione in cui pare che: odio, rabbia,
impazienza, necessità di correggere azioni negative, anche in funzione di un
senso del dovere, siano accomunate in un’unica emozione, mentre a me
sembrano molto diverse, ad esempio se io vedo una persone che infrange le
regole stradali e causa un grave incidente provo un moto di avversione per
questo atto, mi indigno profondamente, ma questa forte reazione è rabbia?
Per me no.
Lama: Certamente, sono cose molto diverse. L’indignazione per un’azione nociva non
ha nulla a che vedere con la rabbia, è espressione del dispiacere nel
constatare il danno prodotto da un’azione negativa, diventerebbe rabbia se
sorgesse l’impulso a voler colpire la persona responsabile del danno.
Domanda: Pazienza e sopportazione sono la stessa cosa? Perché la pazienza mi pare
una virtù attiva e la sopportazione passiva.
Lama: In tibetano spesso questi termini si equivalgono anche perché, pur definendo
due situazioni distinte, non vi è mai una netta separazione tra loro. Quando
ci si trova in una situazione veramente pesante da sopportare, con la pratica
costante della pazienza si ottiene di pari passo una diminuzione di questa
insofferenza. La pazienza trasforma la percezione delle circostanze, ne
diminuisce la sofferenza.

Capitolo VI°, dal verso 4°:


a) “Nobili condottieri se, colmi di odio, verranno attaccati e uccisi persino dai servitori che
da tali padroni hanno ottenuto onori e beni.
Isolati da amici e parenti ed evitati anche da coloro che sono attratti dalla loro ricchezza,
gli individui colmi di rabbia sono privi di ogni gioia, felicità e pace mentale.
Per cui il nemico, la collera, è la causa di tutti questi mali, tuttavia chiunque si impegna
ad eliminare la propria rabbia troverà la felicità, in questa vita e nelle future.”

b) “Persino coloro che si onora con doni e rispetto, e anche i propri dipendenti, bramano di
distruggere il padrone che è sfigurato dall’odio.
Anche gli amici rifuggono da lui. Egli dà, ma non è onorato. In breve, non c’è verso per cui
chi è incline alla rabbia sia ricco.
Chi comprende che l’odio è un nemico poiché crea simili sofferenze, e con ostinazione lo
colpisce, è felice in questo mondo e nel successivo.”

E’ evidente che non vi può essere pace per coloro in cui albergano rabbia e odio,
ma come nasce la rabbia? Sorge verso chi si è comportato in modo disonesto o
dannoso? oppure emerge quando qualcuno agisce in modo da ostacolare la
realizzazione dei nostri desideri? Tali circostanze provocano in noi avversione da cui
nascono collera e odio che, a loro volta, causano infelicità, nel presente e nel futuro.
Collera e odio, prodotte da una forte volontà egocentrica di affermazione dell’IO
e del MIO, per ironia della sorte, determinano una totale e devastante distruzione del
sé.
La collera e l’odio che si sviluppano prontamente di fronte a una qualsiasi
minaccia all’affermazione dell’io e del mio determinano uno stato di infelicità e questa
stessa infelicità si trasforma nel cibo che alimenta rabbia e odio. Si crea un circolo
vizioso: io odio, quindi soffro, ma questo dolore alimenta e aumenta il mio odio che
produrrà maggior sofferenza!….Come uscirne? Santideva propone una soluzione
semplicissima ma efficace: “Se non riesci a uccidere il nemico, toglili il cibo”.

Capitolo VI°, versi 7° e 8°


a) “Ottenendo ciò che non voglio e ciò che ostacola i miei desideri, l’insoddisfazione della
mente si accresce sempre più; da essa sorge la rabbia che mi opprime e mi sconvolge.
Per cui distruggerò completamente ogni causa che fa sorgere questo mio nemico, la
rabbia, in quanto esso ha un’unica funzione: quella di nuocermi.”

b) “Consumando il cibo della frustrazione preparato facendo l’indesiderabile e ostacolando il


desiderabile, un odio tagliente mi abbatte.
Perciò distruggerò il cibo di questo ingannatore, perché questo odio non ha altro fine che il
mio assassinio.”

Privata di cibo, la rabbia, non più alimentata, non potrà crescere e invece di
svilupparsi deperirà naturalmente sino all’estinzione, senza che nessuna battaglia
debba essere combattuta. La domanda è: come togliere cibo alla rabbia? Con la calma
mentale e la pratica della pazienza. Se di fronte ad un problema si perde la pace
interiore non sarà certamente favorita la sua soluzione, anzi lo si aggraverà. E’ famoso
il proverbio tibetano: “Se una situazione può essere cambiata, perché dispiacersi? Ma se non
può essere cambiata, perché dispiacersi?”.
Il sorgere della rabbia può essere così riassunto:
L’“io” e il “mio” sono causa fondamentale di rabbia e odio che sono determinati
dall’incontro con le condizioni, in questo caso rappresentate dalle azioni degli altri che
ostacolano l’affermazione del nostro ego e la realizzazione dei nostri desideri.
Quando causa, (l’io e il mio che vogliono affermarsi o possedere), e condizioni
(azioni altrui contrarie ai nostri desideri di affermazione e possesso) si incontrano sorge
l’infelicità, alimento che nutre l’attitudine mentale aggressiva alla rabbia e all’odio con
conseguente devastante distruzione.
Anche Santideva, come la moderna psicologia, non dice di combattere, reprimere
la rabbia, la soluzione è più naturale: basta toglierle il cibo.
Se di fronte alle azioni degli altri proviamo disagio, perché preoccuparsene?
possiamo forse cambiarne il corso? no, e se invece possiamo, perché alterarci?
distruggendo con la rabbia tutte le azioni virtuose, che altro risultato otteniamo se non
il nostro annientamento? e allora perché alimentare un’attitudine così nociva e inutile?
Domanda: Se un’azione mi colpisce una volta sola, posso conservare la pace mentale,
praticare la pazienza ed evitare la rabbia, ma se subisco vessazioni continue
come nel caso del mobbing citato questa mattina, come posso non
soccombere a questa infelicità?
Lama: E’ soltanto questione di applicazione, la prima volta sarà veramente arduo, ma
continuando a praticare sarà sempre meno difficile e avverrà una vera
trasformazione interiore che permetterà di superare anche la vessazione
quotidiana più pesante. La situazione esterna potrà rimanere inalterata ma
tu sarai sempre più abile nell’affrontarla. Questo metodo è valido in ogni
situazione perché permette di mantenere la calma mentale
indipendentemente dalle circostanze esterne.
Santideva sottolinea che ci solo molteplici e differenti cause alla rabbia:

11° verso del VI° capitolo:


a) “Per me stesso e per tutti i miei cari non desidero dolori né umiliazioni, insulti o
rimproveri, ma, per i miei nemici, vale proprio l’opposto.”

b) “Sofferenza, umiliazione, dure parole e disonore: non desideriamo queste cose né per noi
stessi né per i nostri cari; ma è l’inverso per i nostri nemici.”

Purtroppo questa attitudine è comune, ci appare quasi naturale e quando è


contraddetta da eventi esterni proviamo dispiacere e frustrazione che alimentano in noi
la rabbia.
Domanda: In questo testo si parla sempre di odio verso gli altri, ma non si accenna mai
ad una condizione molto diffusa in occidente: “l’odio per se stessi” o se
preferisci, la poca stima di sé, la percezione, in una società fortemente
competitiva, di non essere all’altezza delle situazioni con conseguente
maturazione di atteggiamenti autodistruttivi come l’anoressia ad esempio.
Ho letto che tra i tibetani questo odio di sé è completamente sconosciuto,
tanto che lo stesso Dalai Lama, in un incontro con scienziati occidentali in
cui tra gli altri si affrontava questo argomento, aveva qualche difficoltà a
inquadrarlo correttamente.
Lama: “Odiare se stessi”mi sembra un po’ forte, non saprei cosa dire in questo
momento, forse procedendo nella lettura del testo potremo trovare la
risposta.
La Meditazione nella Solitudine è molto potente

Riprendiamo la questione della rabbia che si manifesta nei confronti di chi agisce
in modo a noi sgradito, ci manca di rispetto, colpisce il nostro “io”, oppure attenta al
nostro “mio”, come affrontarla? Esistono tre tipi di approccio:
1. Accettare la sofferenza derivante dall’azione sgradita;
2. Osservare consapevolmente il Dharma;
3. Sviluppare la sopportazione.
In ogni caso è sempre necessario praticare la virtù della Pazienza.
La pratica della pazienza si basa sull’accettazione della sofferenza che è
meditazione sulla sofferenza generale del Samsara di cui è l’essenza stessa; l’esistenza
condizionata è per sua natura sofferenza e riflettervi è salutare perché mostra come la
sofferenza non accettata passivamente, ma vissuta come realtà intrinseca all’esistenza
stessa, sia trasformata in gioia profonda.
Ogni qualvolta si presenta una situazione contraria, la meditazione nella pazienza
ci permette di familiarizzare con la sofferenza sino a farla scomparire naturalmente e a
permetterci di acquisire la consapevolezza che, sapendo superare le piccole avversità
con pace, siamo in grado di annullare anche le grandi sofferenze.
La condizione del samsara è sofferenza, senza sofferenza non esiterebbero gli
esseri samsarici, noi esistiamo grazie al Samsara! La meditazione sulla sofferenza porta
preziosi benefici, o se preferite, i benefici prodotti dall’esperienza del dolore.

Capitolo VI°, dal verso dal 12°:


a) “Le cause della felicità si ottengono molto raramente, mentre le cause della sofferenza
sono molteplici, tuttavia senza sperimentare il dolore non vi sarà desiderio di liberazione,
per cui, mente, sii forte e determinata.
Se alcuni asceti e le genti di Karnata sopportano senza alcun scopo il dolore di ferite e
bruciature, perché mai sono privo del coraggio di ottenere la liberazione?
Non vi è nulla che non diventi accessibile tramite una costante familiarità, per cui
abituandomi a tollerare lievi preoccupazioni mi eserciterò per le grandi avversità”

b) “La felicità è rara. La sofferenza persiste senza sforzo, ma solo attraverso la sofferenza si
può trovare questo scampo. Perciò, o mente, sii forte!
Nel Karnata i devoti di Durga sopportano volentieri e inutilmente il dolore di ustioni, ferite
e altro ancora. Dal momento che la mia meta è la liberazione, perché sono un codardo?
Con la pratica nulla rimane difficile. Così, facendo pratica con i disagi minori, diventano
sopportabili anche i disagi maggiori.”
Il riferimento alla sofferenza inutile di ferite e bruciature riguarda gli interventi
dolorosi a cui ci si sottopone volontariamente per raggiungere uno scopo mondano: (ad
esempio il pugile che combatte per denaro, gli interventi di chirurgia plastica per una
maggior prestanza…).
L’ultimo verso vuole infondere coraggio e indurre un atteggiamento positivo nei
praticanti in modo che, nell’abitudine ad affrontare le piccole pene con serenità,
imparino superare con gioia le grandi sofferenza, perché non esiste nulla che non possa
essere realizzato.
Nella traduzione inglese si usa unicamente il termine “sofferenza”, in tibetano
invece si utilizzano più parole per esprimere quello stato di insoddisfazione, dispiacere,
malessere, disagio, sofferenza fondamentale del Samsara, che si avverte
particolarmente nella solitudine.
La sensazione di “mancanza” che ci pervade nella solitudine non è definibile né
colmabile, possiamo pensare: “mi manca una persona” e allora cerco quella persona,
ma il malessere permane inalterato, “mi mancano oggetti preziosi”e allora li procuro,
ma il malessere non passa.
Si avverte una privazione sostanziale, ma nulla e nessuno può colmare questa
carenza, è la sofferenza pervasiva del Samsara, quello che manca è il Nirvana, ma noi
siamo nel samsara.
La meditazione nella solitudine è molto potente perché si inoltra sino alla radice
della natura della sofferenza e familiarizzando con essa comprendiamo e tocchiamo la
libertà. Il senso della libertà e il senso della solitudine esistenziale coincidono, dove c’è
solitudine c’è libertà e dove c’è libertà c’è solitudine, dunque, la solitudine vissuta come
sofferenza può essere trasformata in solitudine vissuta nella gioia della liberazione.
Questo è il grande beneficio che possono ottenere i praticanti meditatori, vivere
nella gioia, dormire e morire in pace. La paura della morte sorge a causa della
solitudine vissuta con dolore: si muore soli, si deve lasciare tutto ciò verso cui si ha
attaccamento, da cui non si è liberi.
Ieri abbiamo concluso la giornata con la preghiera di dedica dei meriti, quattro
brevissimi versi che racchiudono tutto l’insegnamento del Bodhicaryavatara:
“CYANg CIUB SEM CIO RINPOCÉ
MA KYE PA NAM KYE GYUR CI
KYE PA GNAM PA ME PA TANg
KONg NE KONg TU PEL UAR SCIO”
Versi che, pur tradotti con parole diverse, mantengono inalterato il profondo
significato:
“ Possano gli aspetti della preziosa e sublime Motivazione del Risveglio
che non sono nati nascere in noi;
Possano quelli che sono nati, senza deteriorarsi,
svilupparsi sempre più.”
E’ la preghiera della preziosa Bodhicitta, il livello più elevato di apertura del
cuore, la grande compassione che abbraccia tutto. La Bodhicitta nasce dalla pura
intenzione di responsabilità universale che scaturisce dalla compassione. La grande
compassione sorge dall’amorevole gentilezza, risultato del riconoscimento consapevole
della grande gentilezza di tutti gli esseri senzienti, nostre madri. Dalla consapevolezza
nasce il forte desiderio di ricambiare l’amorevole gentilezza.
Come insegna Santideva è dunque fondamentale e necessario accogliere con
cuore aperto gli esseri senzienti riconoscendo in loro la causa di tutte le buone qualità
interiori.
I quattro versi della preghiera di dedica sono spiegati nei dieci capitoli del
Bodhicaryavatara:
cap. 1. Elogio alla mente del Risveglio
cap. 2. Purificazione delle azioni (o Confessione delle colpe)
cap. 3. Adozione della mente del Risveglio (o della Bodhicitta)
Nei primi tre capitoli si spiegano i benefici dello sviluppo della Bodhicitta
auspicando che tale realizzazione possa essere ottenuta da coloro che ne sono ancora
privi, e corrisponde al contenuto dei primi due versi della preghiera di dedica; il terzo
e quarto verso sono rivolti invece a coloro che hanno già sviluppato la Bodhicitta, e che
la devono mantenere e potenziare; dal quarto all’ottavo capitolo del testo si indica
come raggiungere l’obiettivo applicando le sei Paramita.
cap. 4. Vigilanza in merito alla mente del risveglio (o Come preservare il
Valore delle Qualità Spirituali)
cap. 5. La Sorveglianza della Consapevolezza (o Attenta Vigilanza)
cap. 6. La Perfezione della Pazienza
cap. 7. La Perfezione del Vigore (o La Perseveranza gioiosa)
cap. 8. La Perfezione dell’Assorbimento Meditativo (o Concentrazione)
La terza e ultima parte del testo riguarda il sempre maggior sviluppo della
Bodhicitta per il bene di tutti gli esseri senzienti e la dedica vera e propria.
cap. 9. La Perfezione della Conoscenza (o Saggezza)
Cap. 10. Dedica.
La Bodhicitta, meravigliosa mente di illuminazione, dona uno stato autentico di
pace, rilassamento, apertura, felicità e gioia.
Santideva dimostra come, grazie all’esistenza degli esseri senzienti, si generi la
compassione, che deve essere dunque motivo di rispetto e devozione nei loro confronti
poiché ci permettono di sviluppare la Bodhicitta e realizzare e l’illuminazione, così
come abbiamo rispetto e devozione per il Buddha che ci indica la via dell’illuminazione
nel Dharma.
Il rispetto verso il Buddha e gli esseri senzienti non è discriminante, non si basa
sulla valutazione delle realizzazioni di ognuno, ma è determinato dall’essenza dello
stesso risultato a cui entrambi conducono: l’illuminazione. La pratica della generosità,
della pazienza e di ogni altra virtù è possibile grazie all’esistenza degli esseri senzienti,
l’unica vera fonte di ogni cosa buona. Invece, confusione, scontento, disagio, malessere,
problemi, sono, al cento per cento, esclusiva responsabilità personale.
Le persone con cui viviamo, l’ambiente che ci circonda sono preziosi, sono loro
che ci permettono di sviluppare ogni nostra buona potenzialità. Quest’anno ho avuto la
possibilità di verificare questo aspetto visitando il piccolo villaggio di tibetani in Nepal
dove vivono i miei genitori. Ci sono relazioni di buon vicinato, altre problematiche, ma
ogni giorno insieme questo gruppo di persone costruisce la vita, condivide gioie,
passioni, dolori, e non potrebbe esistere per loro situazione più autentica per poter
praticare la Bodhicitta. Immaginate se portassi i miei genitori a Roma!… Ne sarebbero
sconvolti, Mi chiederebbero dov’è lo stupa intorno al quale poter praticare la cora
recitando il mantra, dove andrebbero, al Colosseo? Sarebbero considerati matti, eppure
questa pratica per loro è essenziale. Potrebbero solo starsene rinchiusi in uno strano
appartamento che rappresenterebbe una prigione, senza i loro compagni di vita che
potrebbero fare? Nulla. La compagnia dei propri compagni di viaggio è essenziale!
Riflettere profondamente su ciò apre la mente e il cuore, fa stare bene, a proprio
agio, favorendo l’approccio amichevole ricco di calore e di condivisione. Poco per volta
si crea il buon cuore e si gode pienamente della pace e della felicità rappresentate
dall’esistenza stessa degli altri. Perché non accogliere con gioia questo dono? Perché
non ricambiarlo con amorevole gentilezza?
E’ tanto ovvio e semplice, eppure in genere preferiamo ignorarlo complicandoci la
vita, creiamo continuamente situazioni che ci fanno arrabbiare, allontanare con stizza
da tutto e da tutti fino a quando, non avendo più oggetti esterni da colpire, rivolgiamo
questo astio contro noi stessi. Ecco la risposta alla precedente domanda sull’odio di sé.
Siamo gli architetti e i costruttori della nostra infelicità, gli unici responsabili! Non
è una vera follia e sconsiderata ottusità mentale?
La rabbia non è mai intenzionale, è una perdita di controllo

Un’assurdità è anche la difficoltà che abbiamo nel gioire sinceramente, con pace,
delle buone qualità degli altri, eppure se solo sapessimo godere di questo prezioso
dono, oltre ad essere immediatamente felici nelle condivisione, potremmo usare quelle
stesse qualità a nostro vantaggio. Al contrario, a causa dei difetti mentali, delle
afflizioni distruttive, soffriamo inutilmente, è necessario sviluppare attentamente la
virtù della pazienza.

Capitolo VI°, dal verso 18°:


a) “Questo è il risultato della mente, che può essere forte o colmo di paura, per cui devo
vincere ogni dolore senza essere influenzato dalla difficoltà.
La mente dei saggi, anche quando sperimentano dolore, rimane serena e chiara in quanto
nella lotta contro i difetti mentali molteplici sono le difficoltà, come in battaglia.
I guerrieri coraggiosi sono coloro che, non curandosi di qualsiasi dolore, distruggono i
veri nemici come l’odio e così via; i guerrieri ordinari uccidono semplicemente cadaveri.
Inoltre la sofferenza ha un suo valore, a causa del dolore di eliminano l’orgoglio e
l’arroganza, si prova compassione per coloro che vagano nell’esistenza ciclica, si evita il
male e si gioisce nella pratica della virtù.”

b) “Questo deriva dall’audacia o dalla codardia della mente. Perciò bisogna divenire invincibili di
fronte alla sofferenza e superare il disagio.
Neppure nella sofferenza il saggio dovrebbe permettere che la sua serena fiducia mentale
sia turbata, poiché la battaglia è con le contaminazioni, e in guerra il dolore si vince
facilmente.
Coloro che vincono il nemico prendendo sul petto i colpi dell’avversario sono gli eroi
trionfanti, mentre gli altri uccidono chi è già morto.
La virtù della sofferenza non ha rivali, poiché, per il trauma che provoca, l’ebbrezza
svanisce e sorgono compassione per gli esseri nell’esistenza ciclica, timore del male e
desiderio del Vittorioso.”

La sofferenza ha la preziosa qualità di produrre l’umiltà, di generare la


compassione verso coloro che soffrono e di far riflettere sull’essenza della sofferenza
stessa, una meditazione che induce a sviluppare le azioni virtuose e ad abbandonare
quelle nocive.
La reazione della rabbia perde consistenza, che cos’è la rabbia? con chi ci
arrabbiamo? perché? non è così automatica la risposta. Ad esempio, un automobilista ci
viene addosso perché i freni dell’auto si sono improvvisamente rotti, ci arrabbiamo con
lui? ma non aveva intenzione di farci del male e allora perché arrabbiarsi con lui? ci
arrabbiamo con l’auto che si è rotta? La nostra rabbia non ha un vero oggetto e non è
mai intenzionale, sarebbe più corretto dire che è una perdita di controllo.
Domanda: Non sempre, qualche volta mi arrabbio intenzionalmente: ho davanti a me
una persona che ha un comportamento che reputo scorretto e quindi mi
pongo lucidamente il quesito se arrabbiarmi o no e poi decido che voglio
arrabbiarmi e dico cose anche molto dure. Lucidamente si possono decidere
le nefandezze peggiori, posso anche decidere di uccidere qualcuno e
programmo nei dettagli come commettere l’omicidio.
Lama: Ma la rabbia è altra cosa, avviene a causa di fattori circostanziali e
incontrollabili. Se tu decidi a mente fredda di fare del male a qualcuno è già
subentrato l’odio, non è più rabbia, oppure il tuo può essere un
atteggiamento di benevolenza nei confronti dell’altro per correggere un
comportamento dannoso; un genitore può decidere, per amore, di essere
particolarmente duro e di punire severamente il figlio che sbaglia, ma non è
rabbia.
Domanda: Prima hai tessuto l’elogio della solitudine, poi quello della compagnia, poi
hai detto che tutto quel che c’è di male è colpa nostra, e tutto quel che c’è di
bene è merito degli altri. A questo punto sono davvero confuso.
Lama: Il male non è “colpa nostra” ma “responsabilità nostra”, è una cosa ben
diversa. Ognuno ha piena capacità di risolvere i problemi e di non crearsi
sofferenza, il risultato è esclusiva responsabilità propria. Il fatto poi che tutta
la felicità derivi dagli altri, dalla loro semplice esistenza non significa che
non possa venire anche da noi stessi, l’una cosa non esclude l’altra, rientra
sempre nella responsabilità, io ho tutti gli strumenti per essere felice, ma
posso decidere di non esserlo. Ma senza la collaborazione e l’aiuto degli altri,
senza la condivisione compassionevole e la compagnia degli altri non vi è il
più piccolo spazio per la felicità. E abbiamo bisogno della solitudine, che non
è rifuggire gli altri, ma è meditare ed evitare i pensieri disturbanti, le
afflizioni mentali.
“pensare, pensare e ancora pensare,
riflettere,
guardare, ancora e ancora,
sentire, ancora e ancora,
questa è la meditazione”
Quinta Parte

SUPREMA CONOSCENZA E REALTA’


Primo giorno

La pratica del Dharma

E’ sempre piacevole trascorrere tempo felice con gli amici spirituali. Il tempo
passa, la vita passa e nessuno può arrestarne il movimento, si guarda indietro e ci si
interroga: “un anno, due anni, tanti anni sono andati e in tutto questo tempo io che cosa ho
costruito di significativo, di bello, di giusto che possa ricordare con gioia?....” Qualche
fuggevole atto significativo lo si può anche ricordare, ma la maggior parte del tempo è
scomparso, ci si accorge di averlo perduto insieme alla preziosa vita.
Nella società moderna il motto è: “il tempo è denaro” e dunque i minuti trascorsi
senza produrre sono considerati inutili, persi, invece nella visione spirituale il tempo
realmente perduto è ogni attimo vissuto al di fuori del significato dell’esistenza stessa.
I mio motto è: “Il tempo è Dharma”, ogni occasione è buona per costruire il
Dharma e dare significato alla propria vita. Ma cos’è il Dharma?
Il Dharma non è in contraddizione con la quotidianità, non è opposto al samsara,
al contrario, vi trova integrazione ed espressione. Spesso i praticanti che si fermano ad
un livello superficiale della dottrina ne fraintendono il significato profondono e
guardano al Samsara e al Nirvana come a due opposti assolutamente contradditori,
incapaci di coesistere, poiché il primo deve essere abbandonato e il secondo realizzato.
Una visione parziale e fuorviante perché è vero che pratichiamo per raggiungere il
Nirvana, ma non lo abbiamo ancora realizzato, siamo totalmente immersi nel samsara,
nell’esistenza quotidiana ed esattamente in questa quotidianità dobbiamo cercare il
significato profondo che consenta la realizzazione del Dharma. Sarebbe assurdo e
sbagliato vivere nel samsara provandone soltanto disgusto e repulsione, è invece
necessario ricercarne l’armonia e il senso, pur nella consapevolezza che è davvero fonte
di sofferenza, dolore e problemi, ma è anche una grande opportunità per mutare le
condizioni e aprire il varco verso la liberazione.
L’aspirazione ad uscire dal samsara, a rinunciarvi e opporsi è legittima ma è
necessario mantenere sempre viva la consapevolezza che noi viviamo nel samsara ogni
attimo di vita, che qui e ora è la nostra casa.
L’aspirazione al Nirvana è giusta, ma ne siamo ancora lontani, non ne abbiamo
esperienza, l’unica esperienza che conosciamo è il samsara e solo in esso possiamo
ricercare il significato dell’esistenza trasformarne l’aspetto negativo in positivo,
realizzando l’integrazione armonica nella pratica del Dharma.
La pratica del Dharma non è una procedura formale, ma piuttosto un fenomeno
naturale, nulla può disturbarne l’esistenza, esso è presente, semplicemente deve essere
trovato. Il Buddha Sakyamuni, nell’istante in cui ebbe l’illuminazione incontrò il
Dharma e disse “Ecco, ho trovato il Dharma, il nettare in grado di trasformare il Samsara”.
Immaginiamo di essere in un estate torrida, siamo assonnati, intorpiditi, stanchi
quando scorgiamo una fonte di limpida acqua fresca, vi ci immergiamo con gioia e
immediatamente ne siamo rinvigoriti, pieni di energia vitale, allo stesso modo
l’ambrosia del Dharma trasforma completamente la situazione. A volte il samsara è
pesante, confuso, oscuro ed è proprio in quel momento che il Dharma ha la capacità di
trasformare repentinamente la situazione la quale, pur rimanendo a tutti gli effetti nel
samsara, è vissuta in modo completamente diverso, è avvenuta la trasformazione in
“buon samsara” che permetterà di raggiungere il Nirvana, è il Dharma, base necessaria
alla realizzazione del Nirvana. Il Nirvana è una realtà troppo complessa per noi che
non ne abbiamo esperienza, mentre conosciamo bene l’esperienza del samsara, la
nostra casa, la nostra quotidianità, è il tutto che può essere trasformato positivamente
dal nettare del Dharma.
Per questo Buddha, nell’istante dell’illuminazione disse: “Ho trovato il Dharma che
è come nettare che tutto purifica”, non ha detto: “qualcuno mi ha dato il Dharma” ha cioè
voluto sottolineare che ha incontrato una realtà già esistente, un fenomeno naturale
sempre presente, in ogni momento e in ogni luogo.
Il Dharma ha particolari e specifiche qualità:
¾ di essere profondo, di conseguenza di difficile comprensione;
¾ di essere pace, assolutamente positivo, esente da qualsiasi fattore che provochi
danno;
¾ di essere luminosa chiarezza, non composto da forma, la sua natura è simile
allo spazio;
¾ di esistere naturalmente, non creato, non costruito, non prodotto da alcuno o
da qualcosa, assolutamente privo di fabbricazioni, di elaborazioni mentali, di
concettualità. Nessun pensiero concettuale potrà mai comprenderlo
pienamente.
Per queste sue qualità il Dharma è come nettare che rinfresca gli esseri samsarici e
purifica il samsara. Nella vita del Buddha è scritto che ogni giorno esseri individuali
scoprono il Dharma.
Per trovare il Dharma è necessario percorrere il sentiero che conduce ad esso e
che, secondo la classificazione canonica, si articola su tre passaggi :
ƒ Addestramento nella moralità o etica superiore;
ƒ Addestramento nella concentrazione o contemplazione superiore;
ƒ Addestramento nella saggezza superiore.
Il primo gradino è l’addestramento nell’etica superiore, il mezzo che permette di
purificare le contaminazioni grossolane della mente rendendoci capaci di non
provocare danno fisicamente, verbalmente o mentalmente, cioè tramite corpo, parola e
mente. La pratica della moralità è in se stessa Dharma.
Nel trattato filosofico dell’Abhidharmakosa il Dharma è osservato in due
particolari aspetti:
ƒ Il primo riguarda la realizzazione del modo ultimo di esistenza dei
fenomeni ed è il Dharma in senso proprio, primario.
ƒ Il secondo si riferisce invece al metodo della conoscenza ed è il supporto
necessario per giungerne alla realizzazione, è secondario ma fondamentale,
consiste nella realizzazione della conoscenza contenuta nei testi e trasmessa
dagli amici spirituali che la posseggono.
La pratica dell’addestramento nella moralità superiore è essa stessa Dharma.
Ugualmente l’addestramento nella pratica della concentrazione, o contemplazione
superiore è Dharma, anche se non ancora il Dharma ultimo della Saggezza.
Nelle tre categorie di Dharma, moralità, concentrazione e saggezza, la Saggezza è
il Dharma primario, la moralità e la concentrazione sono il Dharma di supporto che
conduce alla saggezza primaria.
Nelle trascrizioni in pali il Dharma è suddiviso in tre addestramenti superiori:
ƒ Vinayapitaka, addestramento nella moralità superiore;
ƒ Sutrapitaka, addestramento nella concentrazione superiore;
ƒ Abhidharmapitaka, addestramento e realizzazione della saggezza.
In tutte le tradizioni buddhiste, nel Mahayana come nel Vajrayana, compaiono
descrizioni molto simili relativamente a questa suddivisione e non potrebbe essere
altrimenti perché concentrazione e saggezza sono espressione stessa del Dharma.
Il Vinayapitaka, addestramento nella moralità superiore, significa addestramento
a non produrre danno e sofferenza né con il corpo, né con la parola, né con la mente e le
pratiche necessarie alla sua realizzazione sono la rinuncia, la compassione e
l’amorevole gentilezza. Tutte le difficoltà e i problemi che si presentano sono il risultato
naturale di danno e sofferenza procurato ad altri. E’ un gioco infinito: provochiamo
danno all’altro il quale reagisce prontamente con pari moneta e dunque sorge la nostra
immediata risposta e così di continuo, sofferenza su sofferenza, nella ruota senza fine
del samsara.
E’ un po’ come il gioco del calcio, si fatica tanto per combattersi, per segnare goal
nella porta avversaria, che poi dovrà ricambiare, mentre sarebbe meno faticoso,
collaborare e quindi fare i goal prima in una porta e poi nell’altra, così tutti sarebbero
contenti! Naturalmente stiamo scherzando, però ugualmente l’esempio mostra come il
Dharma possa essere applicato in ogni situazione in modo creativo e benefico.
L’addestramento alla moralità superiore è il primo passo nella pratica del Dharma
e consiste nel contrastare l’abitudine a reiterare il reciproco scambio di negatività e di
danno nell’infinita produzione di sofferenza. Il solo modo per contrastare gli
atteggiamenti distruttivi è accogliere l'unica condizione essenziale: la generosità. La
generosità è la condizione fondamentale che permette l’accesso alla pratica della
moralità, si attua prima di tutto sviluppando l’aspetto del non-afferrare che, anche se
non è totale, sottintende già una forte diminuzione dell’attaccamento a oggetti,
situazioni e persone.
L’attitudine a danneggiare gli altri si sviluppa a causa dell’attaccamento, che non
è solo quello rivolto al denaro o agli oggetti materiali, grossolani, ma quello più
profondo, sottile e pericoloso che è l’attaccamento alle proprie idee, alla propria visione
della realtà, a concetti astratti.
Sono infiniti gli esempi che documentano le reazioni più curiose. Ricordo un
amico che aveva l’abitudine di fare colazione ogni mattina nello stesso bar, ma ne era
scontento perchè i gestori erano, a suo dire, così scostanti da indurlo a pensare che gli
mancassero di rispetto. L’offesa era tale da giustificare la vendetta, espressa infine nella
decisione di abbandonare il locale privando in questo modo i colpevoli di un
guadagno. Ma cos’è la mancanza di rispetto? Rispetto a chi? a cosa? e perché?
Si è così fortemente attaccati all’io che tutto è vissuto secondo modalità di un
“presunto rispetto” dovuto a questo sé, ci si offende e si soffre, si applica un’immediata
ritorsione creando ulteriore sofferenza!… Questa è mancanza di generosità e
costruzione della propria infelicità.
La generosità non conosce attaccamento al proprio io, al rispetto che si pensa gli
sia dovuto e senza generosità non c’è modo di praticare l’addestramento superiore
nella moralità.
L’attaccamento al rispetto al sé è fortissimo e devastante, se non lo si ottiene ci si
arrabbia sino a perdere ogni controllo, si può picchiare, insultare, offendere, tutte
azioni che creano grande sofferenza a chi le attua e a chi le subisce, sono la sofferenza
samsarica, una sofferenza che non ha un retroterra di verità ma che si fonda su falsità e
irrealtà.
L’alto addestramento all’etica è amore e compassione. Nella rinuncia si attua la
compassione amorevole. L’amore e la compassione liberano dalla sofferenza
dell’irrealtà e sono strettamente connessi con l’attitudine alla generosità.
L’addestramento superiore all’etica è Dharma, ma come procedere? La pratica
nella moralità non è recitare un testo, non è abbigliarsi secondo canoni stabiliti, né di
indossare un particolare cappello, non è nemmeno star seduti sul trono, è piuttosto
l’attitudine di amore e compassione, di generosità in grado di spezzare nettamente il
gioco vizioso della reciproca creazione di danno, attuato con le cattive parole e le azioni
malevoli. Con l’interruzione del gioco se ne annulla la potenziale conseguenza, la
sofferenza che ne deriva.
Nella cultura occidentale si dà un forte valore al perdono, certamente grazie al
cristianesimo, il perdono è un’attitudine fondamentale, una pratica meravigliosa, è
generosità. Gesù Cristo insegna che perdonando gli errori altrui si trova la pace, ogni
perdono implica una vera profondissima, gioiosa pace! Per me è particolarmente
toccante nella liturgia cristiana, durante la Messa, quando le persone si scambiano un
gesto di pace. Il perdono è fondamentale, è la pratica dell’alto addestramento nella
moralità, è il modo per essere pace, per creare pace.
In sanscrito l’addestramento all’alta moralità è detto “scila”, in tibetano “sil-tob” e
significa “realizzare la freschezza”. Il perdono è il modo per realizzare la pacifica
freschezza e la condizione esenziale per poter perdonare è la generosità. Nella filosofia
buddhista il concetto di pazienza coincide con il perdono. Viceversa in occidente si
pensa che essendo troppo pazienti si finirà prima o poi per esplodere disastrosamente
ma, se così fosse, sarebbe un’ottima ragione per perdonare immediatamente, senza
applicare a lungo la pazienza. Nella psicologia occidentale si ha uno strano concetto del
“portare pazienza” che equivale a caricarsi negativamente di rabbia repressa.
Il profondo e vero significato della pazienza è il perdono, reprimere la rabbia
accresce il rancore e il peso della “pazienza” sulle spalle è insopportabile, incrementa la
negatività allontanando sempre di più dalla pace. La pazienza non è la soppressione
forzata della collera ma è perdono spontaneo che nasce dalla generosità.
Comprendere davvero il significato dell’addestramento superiore nella moralità
ha un riscontro immediato in ogni attività, nella vita di tutti i giorni, dal mattino alla
sera e dalla sera al mattino, è la pratica del Dharma che produce la conseguenza
dell’essere in pace, felici, gioiosi, in salute, di godere di un’attività proficua,
dell’assaporare la bontà del cibo, dell’accorgersi che la propria camera è più bella,
accogliente, che ogni aspetto della vita è migliore.
Può aiutare la lettura degli “Otto Versi della Trasformazione della Mente” di
Kadampa Geshe Langri Tangpa:
“Considerando tutti gli esseri senzienti
superiori alla gemma che esaudisce i desideri
per realizzare il fine supremo1
possa io costantemente prenderli a cuore.
Quando sarò con gli altri,
riterrò me stesso come il meno importante,
e mi prenderò cura di loro fin nel profondo del cuore
come se ognuno fosse il più elevato degli esseri.
Vigile, ogni volta che sorge un’emozione negativa2
che possa nuocere a me o agli altri,
l’affronterò e l’ eliminerò
senza indugio.
Vedendo gli esseri in preda alla malvagità

1 Fine supremo: Lo stato di completa illuminazione, lo stato di Buddha.


2 Emozione negativa: (in tibetano nyon mong) contaminazioni mentali quali rabbia, attaccamento, ignoranza, ecc.
intenti a violente azioni negative3, sopraffatti da sofferenze4,
avrò sempre cura di tali creature così rare,
come se avessi trovato un tesoro prezioso.
Quando altri, per invidia, mi maltratteranno,
mi insulteranno o faranno cose simili,
accetterò la sconfitta
e offrirò loro la vittoria
Quando qualcuno a cui ho fatto del bene
e in cui ho riposto grandi speranze
mi infligge un danno terribile,
lo considererò il mio santo amico spirituale5
(x 3 volte): In breve, direttamente e indirettamente, offro
ogni beneficio e felicità a tutti gli esseri senzienti, mie madri6
possa io segretamente prendere su di me
tutte le loro azioni negative e sofferenze.
Possa la pratica non essere mai contaminata dalle idee causate
dalle otto preoccupazioni mondane7
e, consapevole che tutte le cose sono illusorie,
possa io, privo di attaccamento, essere libero dal samsara8.

Il testo “Gli otto versi della Trasformazione della Mente” è un importantissimo scritto
di Kadampa Geshe Langri Tangpa. Fa parte degli insegnamenti di Lo Jong9 e fu
composto nel periodo in cui in Tibet prosperava la scuola Ka dam.

3 Azioni negative: (in tibetano dig pa) disposizione mentale causata da un’azione negativa commessa.
4 Sofferenze: (in pali dukkha) la Verità della Sofferenza, che ha tre livelli: sofferenza del dolore, sofferenza del
cambiamento, sofferenza del samsara.
5 Amico spirituale: (in tibetano ge wei she nyen, Geshe) colui che aiuta a compiere azioni virtuose.
6 Madri: > tutti gli esseri senzienti sono state nostre madri; > la persona più cara o quella più giovevole.
7 Otto preoccupazioni mondane: Le idee generate dal guardare attraverso gli occhi dell’attaccamento e
dell’avversione, sono: piacere e dispiacere, vittoria e perdita, lode e biasimo, gloria e disgrazia.
8 Samsara: (termine sanscrito, in tibetano khor wa) attaccamento bramoso alle cose mondane, che fa restare nel
circolo vizioso della sofferenza e dell’insoddisfazione.
9 Lo jong: (termine tibetano)
“Lo” significa “mente”, “pensiero”, “coscienza”, ma in questo contesto si riferisce piuttosto all’intenzione
“Jong” significa “trasformare”, esercitare, “praticare”. Insieme vengono tradotti come “trasformazione della
mente”, come nel titolo del testo;
“Lo jong” forma breve di “jang chub kyi sem la lo jong wa”, significa trasformare la mente ordinaria in
Bodhicitta, ossia tecnica per la pratica del Bodhicitta. (Il termine sanscrito “Bodhicitta” designa qui una pura
aspirazione a raggiungere lo stato di Buddha con l,o scopo di condurre tutti gli esseri senzienti all’illuminazione
completa).
Il Sutra del Cuore della Perfezione di Saggezza

La traduzione italiana con le relative note, è stata redatta dall’Istituto Lamrim di Roma su testo
originale tibetano e con l’ausilio delle traduzioni inglesi.
“Il Cuore della Perfezione di Saggezza”
Il titolo sanscrito è : Bhagavati10 Prajna Paramita Hridaya11

“Così una volta udii:


Il Bhagavan12 dimorava a Rajagrha13, presso il Picco dell’Avvoltoio14, con un gran
numero di Arhat15 e un gran numero di Bodhisattva16 e a quel tempo il Bhagavan era
entrato nell’assorbimento meditativo17 sulla varietà dei fenomeni18 chiamato “percezione
profonda”19. In quello stesso tempo, l’arya20 Avalokitesvara21, il Bodhisattva
mahasattva22, era assorto nella stessa pratica della profonda perfezione della
saggezza23 e vide che anche i cinque aggregati24 sono vuoti di natura intrinseca25.

10 Bhagavati: (termine sanscrito, in tibetano: gyal wai yum) Madre Buddha, si riferisce alla “Saggezza della
Perfezione”, che è la madre in quanto causa fondamentale dell’illuminazione.
11 Bhagavati Prajna Paramita Hridaya: (sanscrito) il cuore della Bhagavathi, la perfezione della saggezza.
12 Bhagavan: (termine sanscrito, in tibetano: chom dhen de) titolo generalmente attribuito a un essere illuminato;
letteralmente significa “colui che ha completamente illuminato gli ostacoli e possiede tutte le qualità”; sinonimo
di “Tathagata” (sanscrito) e di “de war sheg pa” (tibetano) nel senso di “colui che ha raggiunto lo stato di piena
calma e piena illuminazione”. In questo brano ci si riferisce al Buddha Shakyamuni.
13 Rajagrha: (termine sanscrito, in tibetano: gyal poe khab) luogo nel quale si erge un palazzo reale.
14 Picco dell’Avvoltoio: montagna con la cima a forma di avvoltoio; luogo in cui venne impartito il sutra secondo
la tradizione. Viene identificato popolarmente in una collina vicino a Rajagrha, nello stato indiano del Bihar.
15 Arhat: (termine sanscrito, in tibetano: dra chom pa) colui che ha raggiunto il Nirvana. Detto anche Sravaka o
Pratyekabuddha. Nel testo originale tibetano il termine è Bikshu, ma si intende Arhat.
16 Bodhisattva: (termine sanscrito, in tibetano: Jang chub sem pa). Essere che possiede il Bodhicitta.
17 Assorbimento meditativo: (in sanscrito: samadhi, in tibetano: ting nge zin) una forma di meditazione.
18 Varietà dei fenomeni: (in tibetano: choe kyi nam drang) i 5 aggregati (forme, percezioni, formazioni mentali e
della coscienza); le 12 fonti dei sensi (le sei sorgenti dei sensi e le sei facoltà); i 18 elementi ( le sei sorgenti dei
sensi, le sei facoltà e le sei coscienze); i 12 anelli della catena dell’origine interdipendente (Ignoranza, Azione
volontaria, Coscienza, Nome e Forma, Sorgenti dei sensi, Contatto, Sensazioni, Attaccamento, Brama,
Concepimento, Nascita, Invecchiamento e Morte); le 4 Nobili Verità (la Verità della sofferenza, la Verità delle
cause della sofferenza, la Verità della cessazione e la Verità del sentiero); i 5 sentieri (Accumulazione,
Preparazione, Visione, Meditazione e Non-più-apprendere); le 4 fiducie; i 10 poteri di Buddha; ecc…
19 Percezione Profonda: (in tibetano: zab mo nhang wa) vedere la vera e profonda realtà ultima dei fenomeni.
20 Arya: (termine sanscrito, in tibetano: Phag pei Gang zag) un Essere superiore che ha raggiunto la saggezza della
diretta realizzazione della vacuità o che ha seguito il sentiero in uno dei veicoli.
21 Avalokitesvara: (termine sanscrito, in tibetano: Chen re zig) conosciuto come il “Buddha della compassione”.
22 Bodhisattva mahasattva: (termine sanscrito, in tibetano: jang chub sem pa sem pa chen po) Bodhisattva di
ordine superiore o che ha conseguito il sentiero dei Bodhisattva o il sentiero mahayana della visione.
23 La pratica della profonda perfezione della saggezza: (in tibetano: she rab kyi pha rol du chin pai zab moi chod
pa).
24 I cinque aggregati: (in sanscrito: skandha, in tibetano: phung po ngha) Forme, Sensazioni, Percezioni,
Formazioni mentali, e della Coscienza.
25 Vuoti di esistenza intrinseca: (in tibetano: ran shin gyi tong pa).
Quindi, tramite l’ispirazione del Buddha, il venerabile bikshu26 Shariputra27 si
rivolse all’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva28 e gli disse: “come deve
addestrarsi un figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella
pratica della profonda perfezione della saggezza?”
Quando fu detto questo, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, rispose al
venerabile bikshu Shariputra e disse: “Shariputra, ogni figlio o figlia del lignaggio dei
Bodhisattva29, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della
saggezza, dovrebbe vedere chiaramente nel seguente modo: dovrebbe vedere
distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca”.
“La forma è vuota, la Vacuità è forma; la Vacuità non è altro che forma, la forma non
è altro che Vacuità. Allo stesso modo sono vuote le sensazioni, le percezioni, le formazioni
mentali e la coscienza. Quindi, Shariputra, tutti i fenomeni sono Vacuità; essi sono privi di
caratteristiche peculiari; non sono nati, non cessano; non sono contaminati, non sono
incontaminati; non sono incompleti e non sono completi.”
“Quindi, Shariputra, nella Vacuità non c’è forma, né sensazioni, né percezioni, né
formazioni mentali, né coscienza. Non c’è occhio, né orecchio, né naso, né lingua, né corpo,
né mente. Non c’è forma, né suono, né odore, né gusto, né oggetti concreti, né oggetti
mentali. Non c’è nessun elemento visivo, così fino a nessun elemento mentale fino a
includere nessun elemento della coscienza mentale. Non c’è ignoranza, non c’è estinzione
dell’ignoranza, e così fino a nessun invecchiamento e morte, e nessuna estinzione
dell’invecchiamento e della morte. Allo stesso modo, non c’è sofferenza, origine, cessazione
o sentiero; non c’è saggezza, né ottenimento e neppure mancanza di ottenimento.”
“Quindi, Shariputra, poiché i Bodhisattva non hanno ottenimenti, si basano e
dimorano nella perfezione della saggezza. Non avendo oscuramenti nelle loro menti, essi
non hanno paura, ed essendo andati totalmente oltre l’errore, essi raggiungono la meta
finale: il nirvana30. Tutti i Buddha che dimorano nei tre tempi hanno ottenuto il pieno
risveglio dell’insuperabile, perfetta illuminazione, basandosi su questa profonda perfezione
della saggezza”.
“Quindi, si dovrebbe sapere che il mantra31 della perfezione della saggezza – il
mantra della grande conoscenza, il mantra supremo, il mantra uguale a ciò che non ha
uguale, il mantra che fa tacere tutte le sofferenze – è vero perché non è ingannevole. Si
proclama il mantra della perfezione della saggezza:

26 Venerabile Bikshu: (in tibetano: thse dan dhen pa) titolo attribuito a un bikshu con mente sveglia e intelligente
27 Shariputra: figlio di Sharit, conosciuto come bikshu dalla mente acuta fra i discepoli di Buddha Shakyamuni.
28 Arya Avalokitesvara Bodhisattva mahasattva: (temine sanscrito, in tibetano: jang chub sem pa sem pa chen po
phags pa chen re zig) si riferisce a un singolo individuo conosciuto come Bodhisattva mahasattva
Avalokitesvara, diverso dal “Buddha della compassione” Avalokitesvara. Qui infatti viene identificato come un
Bodhisattva sotto le sembianze di un bikshu, Bodhisattva, mahasattva e arya.
29 Figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva: (in tibetano: rigs kyi bu vam rigs kyi bumo).
30 Nirvana: (termine sanscrito, in tibetano: Nyang De) essere andato oltre la sofferenza.
31 Mantra: (termine sanscrito, in tibetano: yid kyob) che protegge la mente.
TADYATHA GATE’ GATE’ PARAGATE’ PARASAMGATE’ BODHI SVAHA
Shariputra, così i Bodhisattva mahasattva dovrebbero addestrarsi alla profonda
perfezione della saggezza”.
Quindi, il Bhagavan si svegliò dal suo assorbimento meditativo e lodò l’arya
Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, dicendo che era eccellente.
“Eccellente! Eccellente! Figlio del lignaggio dei Bodhisattva, è proprio così; dovrebbe
essere così. Bisogna praticare la profonda perfezione della saggezza proprio così come hai
rivelato. Perciò anche i Tathagata32 se ne rallegreranno”.
“Come il Bhagavan pronunciò queste parole, il venerabile bikshu Shariputra, l’arya
Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, insieme all’intera assemblea, inclusi i mondi
degli dei, degli umani, degli asura33 e dei gandharva34, tutti gioirono e lodarono ciò che il
Bhagavan aveva detto.”

In sintesi, durante la prima sessione dell’insegnamento abbiamo affrontato il


Dharma, la sua applicazione nell’addestramento alla moralità superiore, ricordato che
la pratica del Dharma non è una lotta contro il samsara ma un metodo di integrazione
capace di trasformazione gli aspetti negativi in positivi, pienamente parte del
quotidiano, in grado di diminuire la sofferenza nell’armonia di una vita generosa e
ricca di pace gioiosa.
La pratica nell’addestramento alla moralità superiore attraverso la generosità e la
pazienza consiste nell’affrontare con il perdono i problemi derivanti dai comportamenti
altrui, insegna ad essere tolleranti e comprensivi in modo che qualsiasi azione negativa
non sia mai motivo di collera ma piuttosto di amore e di compassione, ci fa vivere
pacificamente e armoniosamente con tutto e tutti.
Inoltre, Generosità, Pazienza, Etica sono mezzi che permettono di accumulare
meriti, fattore importante per giungere alla maturazione e realizzazione dei propri
bisogni e desideri.
L’addestramento all’etica superiore comprende più aspetti: rinuncia, pazienza,
amore e compassione.
Il secondo gradino, Sutrapitaka, l’addestramento superiore alla concentrazione, è
essenziale per entrare nel terzo livello, Abhidharmapitaka, l’addestramento alla
realizzazione della saggezza.
Al fine di ottenere un buon livello di concentrazione è necessario prima aver
raggiunto un buon livello nella pratica dell’etica. Il percorso deve essere compiuto
senza saltare nessun gradino, con calma e determinazione, passo dopo passo.

32 Thatagata: (termine sanscrito) sinonimo di Bhagavan.


33 Asura: (termine sanscrito, in tibetano: lha ma yin) semi-dei che appartengono posto tra quello degli umani e
degli dei.
34 Gandharva: (termine sanscrito, in tibetano: di zha) esseri senza forma, che vivono nutrendosi di odori.
L’addestramento all’etica è il fondamento dell’addestramento alla concentrazione.
Nell’etica si eliminano tutti gli ostacoli allo sviluppo della concentrazione, la quale
scaturirà naturalmente, ecco perché il percorso è anche detto di “entusiastica
perseveranza” o “sforzo gioioso”.
Avendo realizzato un buon grado di concentrazione grazie alla pratica della
moralità ci si avvicina naturalmente alla pratica dell’addestramento alla saggezza
superiore. Gli “Otto versi della Trasformazione della Mente” richiamano la pratica
dell’addestramento all’etica superiore con particolare riguardo all’amore e alla
compassione.
La seconda lettura “Il Cuore della Perfezione della Saggezza” comunemente detto
“Sutra del Cuore” o “Sutra dell’essenza della Saggezza”, riguarda direttamente il terzo
addestramento, alla saggezza superiore, l’Abhidharmapitaka, la cui pratica implica
l’aver già realizzato i primi due, dell’Etica e della Concentrazione.
Le tre raccolte, Vinayapitaka, Sutrapitaka e Abhidharmapitaka sono suddivise a
seconda dell’argomento trattato.
Il “Sutra del Cuore”, che analizza quasi esclusivamente la Vacuità o il modo
ultimo di esistenza dei fenomeni, appartiene alla raccolta degli insegnamenti
dell’Abhidharmapitaka, è attribuito alla tradizione Mahayana perché focalizzato sulla
pratica dei Bodhisattva e non incluso nel canone pali della tradizione Theravada.
Comunque è bene non perdersi in distinzioni troppo nette perché, non avendo
una conoscenza approfondita della materia, si corre il rischio di cadere in
fraintendimenti. Nel Buddhismo vi è una raccolta di insegnamenti che proviene dal
canone pali, cioè trascritti nel linguaggio originale del Buddha e che costituisce la base
dell’insegnamento della scuola Theravada che si è estesa in Sri Lanka, Thailandia
Birmania, Laos, e, una seconda raccolta di insegnamenti scritta in canone sanscrito che
si è esteso in Tibet, Cina e Giappone. Entrambe le tradizioni, Theravada e Mahayana,
trattano gli stessi soggetti dell’insegnamento del Buddha.
Per quanto riguarda la tradizione Vajrayana, tibetana è contenuta nel canone
sanscrito, non ricordo se sia presente anche del canone pali.
Un’ulteriore complicazione è data dalla trasposizione del testo sanscrito nelle
differenti lingue e culture di Tibet e Cina. Le numerose traduzioni hanno fatto perdere
quasi completamente la conoscenza del testo originale sanscrito. Si può affermare che i
riferimenti al Vajrayana sono completi nella traduzione tibetana, ma solo in parte
compresi in quella cinese, la quale a sua volta è servita come base per quella
giapponese.
IL “Sutra del Cuore” è presente in entrambe le versioni, tibetana e cinese, ma non
lo si ritrova nel canone pali, il che non ha un particolare significato, perché il canone
pali contiene completamente l’insegnamento del Buddha e, oggi più che mai, assume
grande importanza poiché è l’unico scritto nella lingua originale ancora viva, letta e
parlata da studiosi indiani e dei paesi del sudest asiatico, mentre così non è più per il
sanscrito. Auspicherei che nei monasteri tibetani si studiasse sia il sanscrito che il pali;
noi tibetani siamo orgogliosi di poter approfondire tutti i testi della filosofia buddhista
nella nostra lingua, ma è un orgoglio ingiustificato perché il tibetano non è la lingua
originale, ha i limiti delle traduzioni con il conseguente incremento delle probabilità di
errore. Solo attraverso la conoscenza diretta delle scritture originali si può diventare ed
essere considerati a livello internazionale veri studiosi, eruditi nella filosofia buddhista.
Noi tibetani, troppo sicuri di noi stessi e delle nostre conoscenze, ci siamo arroccati in
un ingiustificato orgoglio e abbiamo perso la nostra terra!
Il soffermarsi così a lungo sul valore del linguaggio e sulla necessità di riferirsi
sempre alle fonti originali è dovuto alla serietà del problema. A volte, esaminando i
testi originali del canone pali, si constata che la traduzione letterale non coincide
affatto, anche se il senso è lo stesso, ciò significa che se non si procedesse ad un
ulteriore lavoro interpretativo e fedele si potrebbero prendere cantonate gigantesche e
incorrere in gravi errori dottrinali.
La salvezza dei tibetani è la loro buona pratica del Dharma, forse non sono eruditi
nella dottrina, ma ottimi nella pratica. Ho sempre nella mia mente l’esempio di mia
madre che forse non saprà esprimere a parole il Dharma ma lo pratica con assoluta
sincerità e naturalezza, sin dall’infanzia, ogni giorno della sua vita.
La pratica del Dharma dipende più dalla continuità e maturazione, di vita in vita,
che non dalla conoscenza intellettuale o dalla capacità oratoria. Probabilmente per
questo motivo si trovano ottimi praticanti tra le persone nate e vissute in Tibet, perché
hanno potuto rinascere più volte in un luogo adatto alla spiritualità e
all’approfondimento della pratica, con questo non intendo dire che i tibetani siano un
gruppo ristretto di individui in grado di rinascere sempre nello stesso posto, ma che
chiunque nato in Tibet è favorito e può aver vissuto molte altre volte in luoghi
altrettanto idonei allo sviluppo della pratica con conseguente maturazione delle buone
qualità spirituali.
Il testo del “Il Sutra della Perfezione della Saggezza” che stiamo affrontando
appartiene alla versione della tradizione mahayana, il Buddha ne ha dato
l’insegnamento in India su un monte chiamato, per la sua particolare forma, “Picco
dell’Avvoltoio”, nei dintorni di Rajagrha, non lontano da Bodhgaya. Oggi esistono due
luoghi denominati “Picco dell’Avvoltoio”, uno riconosciuto dai giapponesi che vi
hanno anche costruito il tempio della Pace, e un altro dai tibetani che hanno solo posto
le bandiere di preghiera, entrambi sono validi perché tutti i luoghi di pellegrinaggio
hanno un effetto potente sulla mente di coloro che vi si recano con vera devozione.
Io ho molta devozione nel Buddha e nei suoi insegnamenti e nel 1985 andai in
pellegrinaggio nei luoghi sacri in cui il Buddha visse e insegnò e ne ebbi un impatto
fortissimo, una vera purificazione. In quel periodo ero studente e ho constatato come la
capacità di comprensione e approfondimento di ogni materia fosse notevolmente
potenziata e migliorata. Ho anche potuto verificare come la purificazione scaturita dal
compimento del pellegrinaggio abbia evitato ostacoli nei quali altrimenti mi sarei
imbattuto, in particolare per quanto riguarda la salute fisica.
Perché il pellegrinaggio è purificazione?
Le interpretazioni che se ne danno sono molteplici, un approccio scientifico offre
una determinata spiegazione, mentre quello di un credente tibetano, che ha fede nel
Buddha e nella sua dottrina, presenta una visione completamente differente.
Personalmente ho potuto più volte accertare che le consapevoli difficoltà purificano
profondamente. Nessuno mi ha obbligato a scegliere la vita monastica, è stata una mia
decisione, quando sono andato in monastero ho dovuto affrontare un’esistenza dura
con molto lavoro e studio, ma queste stesse difficoltà sono state un aiuto alla mia
crescita, quasi si dovesse passare attraverso l’oscurità per raggiungere la luce. Questa
oscurità, sempre pervasa dallo spirito del Dharma, è il momento della difficoltà da
superare per raggiungere l’obiettivo, come in un allenamento sportivo in cui si pone il
massimo sforzo per raggiungere la meta. A casa dei miei genitori non mi mancava
nulla, la vita era spensierata e facile, altri risolvevano ogni problema anche per me e a
lungo andare questo benessere avrebbe potuto impoverirmi. In monastero mi sono
trovato improvvisamente a dover fare tutto in una situazione di povertà reale, è stato
un cambiamento inaspettato e radicale scaturito, non da imposizione esterna, ma da
mia libera scelta. Una purificazione veramente necessaria.
Così è il pellegrinaggio, che comporta fatica e disagi ma che, vissuto con amore e
devozione nella luce Dharma, è purificazione.
In mattinata, prima dell’incontro, abbiamo visitato la “Sacra di San Michele”35 e
ne ho ricevuto un forte impatto spirituale, mi pareva di essere in pellegrinaggio negli
angoli inaccessibili del Tibet, una sensazione non determinata dal luogo, ma dallo stato
mentale, da quanto il Dharma è radicato nel cuore. Il luogo, indubbiamente molto
bello, particolare, mistico, favorisce simile predisposizione della mente e allora, mi
sono chiesto: perché perdersi nello scetticismo, perché non assaporare ogni istante con
devozione, accendere una candela, godere con gioia dello splendore che esso offre? Mi
pare anche che San Michele arcangelo assomigli particolarmente ai protettori tibetani e
mi è tornato alla mente un fatto curioso: appena arrivato in Italia fui ospitato da un
amico sacerdote e nella mia stanza c’era una statua di San Michele, allora non sapevo
assolutamente che fosse e averlo “incontrato” oggi, in una cornice così spirituale è stato
davvero bello, lo sento quasi un mio protettore!….
E’ meraviglioso che in Italia perdurino con profondo rispetto queste forme di
devozione verso raffigurazioni spirituali poste su piani diversi, in Tibet succede più o
meno lo stesso con le rappresentazioni che chiamiamo “divinità”.
La conclusione, il punto fondamentale, è il riconoscimento della necessità di
mettere lo spirito del Dharma in ogni situazione della vita.

35 Antica abbazia costruita sulla cima del un monte Pirchiriano all’imbocco della Val di Susa a circa 20 Km da
Torino, secondo la leggenda per volontà dall’arcangelo San Michele.
Analizziamo, passo dopo passo, il testo del Sutra del Cuore:
“Il Bhagavan dimorava a Rajagrha presso il Picco dell’Avvoltoio, con un gran numero di
Arhat…” il termine Arhat è stato sostituito in alcune traduzioni con la parola “Bikshu”
che letteralmente significa monaco, cioè persona che ha ricevuto la completa
ordinazione nell’ordine monastico. I livelli di ordinazione sono tre: 1) laico - 2) novizio -
3) monaco completamente ordinato. Il termine bikshu però potrebbe essere fuorviante
in questo contesto perché non è riferito al monaco che ha ricevuto la completa
ordinazione, bensì ad un essere più elevato, all’Arhat.
“…e un gran numero di Bodhisattva….” C’è dunque un gran numero di Arhat e un
gran numero di Bodhisattva, se fosse stato detto un gran numero di Bikshu si sarebbe
creato un ulteriore fraintendimento perché avremmo interpretato che Bikshu e
Bodhisattva appartenessero a due gruppi separati e distinti, mentre in realtà un Bikshu
può essere un Bodhisattva e viceversa, senza alcuna contraddizione.
Per evitare possibili equivoci non è stato scritto Bikshu ma Arhat, colui che ha
realizzato il Nirvana, lo stato di Buddha anche se non completo ma piuttosto di
Pratyeka e di Sravaka, praticanti che aspirano alla realizzazione individuale. Il
Bodhisattva invece persegue il veicolo dell’illuminazione universale.
I discepoli del Buddha si suddividono in tre tipi di praticanti:
ƒ Sravaka, comunemente conosciuti come gli Uditori;
ƒ Pratyeka, comunemente conosciuti come i Solitari;
ƒ Samyaksambuddha comunemente conosciuti come i Buddha completi.
I primi due percorrono la via della ricerca dell’illuminazione individuale e
fondano la loro pratica sulla rinuncia.
Gli Sravaka, solitamente definiti “gli uditori”, preferiscono praticare in gruppo,
non si sentono in grado di affrontare la pratica dei Bodhisattva, però desiderano
ardentemente trasmettere la dottrina del Buddha affinché essa possa avere una
continuità completa e ininterrotta, si impegnano ad udire con attenzione e tramandare
fedelmente ogni insegnamento. Personalmente perseguono l’illuminazione individuale.
I Pratyeka, termine che significa “solitario”, invece prediligono praticare in
solitudine, in luoghi remoti, purificando se stessi e perseguendo l’illuminazione
individuale.
Entrambi condividono il comune obiettivo di raggiungere la liberazione
individuale o “mokya” e attuano una pratica simile, i primi con un’intelligenza meno
brillante, per praticare e comprendere hanno bisogno del supporto del Sangha, mentre i
secondi, più autonomi e sicuri di sé, preferiscono purificarsi nella solitudine.
Le tre categorie di praticanti hanno diversità sia nella pratica che negli obiettivi,
ma tutti devono seguire cinque livelli, o sentieri che, sommati, diventano quindici. Il
nome di ogni livello è lo stesso per ognuna delle tre tipologie di praticanti:
1. Accumulazione;
2. Preparazione;
3. Visione;
4. Meditazione o familiarità;
5. Non più apprendimento o Non più ritorno.
Il quinto è il risultato, l’obiettivo raggiunto, mentre i primi quattro sono le cause
che lo determineranno. Il Sutra del Cuore descrive come realizzare la comprensione del
modo ultimo di esistenza dei fenomeni, detto anche Vacuità, secondo la visone
superiore dei cinque sentieri.
L’Arhat può essere uno Sravaka o un Pratyeka che ha raggiunto lo scopo,
realizzato il quinto sentiero e, a questo punto, se lo desidera può scegliere di entrare nel
sentiero dei Bodhisattva e, nel momento in cui diverrà Bodhisattva, non sarà più Arhat.
L’Arhat appartiene al “piccolo veicolo” o della liberazione individuale.
Il Bodhisattva che ha realizzato il suo scopo, il quinto sentiero, diviene un
Buddha, un Bhagavan, in tibetano: “Chom dhen de”, colui che ha eliminato ogni ostacolo
e ha acquisito tutte le qualità.
E’ necessario conoscere esattamente il significato di Bhagavan, di Bodhisattva e di
Arhat per avere una corretta visione del contesto in cui è stato dato il “Sutra del
Cuore”.
“…..e a quel tempo il Bhagavan era entrato nell’assorbimento meditativo sulla varietà dei
fenomeni chiamato «percezione profonda».” Immedesimiamoci nella situazione: il luogo è il
picco dell’Avvoltoio in India, vi è un gran numero di Arhat e di Bodhisattva e al centro
il Bhagavan, il Buddha, assorto in profonda meditazione, nella percezione profonda
della Vacuità, la visione ultima di tutti i fenomeni esistenti, una meditazione
sistematica su ogni varietà di fenomeni, con una modalità in seguito spiegata nel testo.
“….In quello stesso tempo, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, era assorto
nella stessa pratica della profonda perfezione della saggezza…” Chi è l’arya Avalokitesvara?
Risposta: Avalokitesvara è il Buddha della Compassione, Chenrezig.
Lama: Però dice “l’Arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva”, quindi non può
essere Chenrezig il Buddha della compassione, non è più un Arhat ma non è
ancora un Buddha, è un Bodhisattva che ha realizzato i quattro sentieri ma
non ha ancora raggiunto il quinto, e soltanto in tal caso potrebbe già essere
un Buddha. Con la realizzazione del terzo e quarto sentiero diventa un Arya,
ha la visione dei fenomeni, è un Bodhisattva superiore detto anche
Mahasattva, termine che ha lo stesso significato di Mahatma, “grande
anima” o “grande cuore”. In questo contesto Avalokitesvara è altro da
Chenrezig, è un monaco, un essere umano con grandi qualità ed è discepolo
del Buddha.
“……e vide che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca.” L’Arya
Avalokitesvara sta meditando in totale concentrazione univoca sulla natura ultima dei
fenomeni, comprende, utilizzando il modo più semplice per meditare sulla Vacuità, che
anche i cinque aggregati mancano di realtà intrinseca.
Tutti i fenomeni esistenti sono raccolti in cinque categorie e concentrati su cinque
oggetti detti aggregati:
1. aggregato delle forme (gzugs phung-po);
2. aggregato delle sensazioni (tshorba phung-po);
3. aggregato delle percezioni (du-shes phung-po);
4. aggregato delle mente discriminante o della facoltà mentale;
5. aggregato del gruppo di tutti i fenomeni e i fattori mentali non specificati
nei primi quattro, inclusa la coscienza.
Questa meditazione non si rivolge ad oggetti esterni, ma all’interno, in particolare
all’io, un oggetto che dovrebbe appartenere a uno dei cinque aggregati, a quale ?
Risposta: al quinto
Lama: perché?
Risposta: forse perché l’io può stare solo nella categoria dei non classificati…..
Lama: C’è logica in questa affermazione, l’io non è identificabile nei primi quattro,
allora si presume debba per forza essere nel quinto, però è necessaria
un’ulteriore analisi perché l’io ha comunque a che fare con i primi quattro,
infatti si osservano i cinque aggregati nella loro relazione con il sé, con l’io.
Non si medita genericamente sulla forma, sulla sensazione o sulla percezione,
ma specificamente, sulla propria forma, sulla propria sensazione, sulla
propria percezione, ed è esattamente questa la correlazione tra i cinque
aggregati e l’io. Così, dall’analisi di ognuno dei cinque aggregati si vede che
hanno una realtà intrinseca e se ne deduce che, allo stesso modo, il sé o io è
intrinsecamente inesistente, manca di realtà intrinseca.
Questa spiegazione, pur estremamente sintetica, permette di avere un’idea
abbastanza chiara sull’argomento, ma non illudiamoci di stare osservando la realtà
ultima, la Vacuità, ne siamo LONTANISSIMI!….Al momento abbiamo la visione di
quale addestramento intraprendere per avvicinarci piano piano all’obiettivo finale.
Il “Sutra del Cuore della perfezione della Saggezza” insegna come osservare la
Vacuità nell’ottica dei cinque sentieri. Finora ci siamo limitati a considerare
genericamente il primo sentiero, dell’accumulazione, che si percorre avendo realizzato
la rinuncia ma, se ci addentriamo negli aspetti particolari della via dell’accumulazione
del Bodhisattva, vediamo che è possibile entrare in esso soltanto all’atto della
realizzazione della Bodhicitta.
Domanda: (fa riferimento alla conferenza della sera precedente in cui si è parlato del martirio
vissuto con assoluta serenità da un monaco Buddhista) Ieri sera ho avuto
l’intuizione di come può essere un Bodhisattva, noi viviamo sempre nel
terrore di poter subire una qualsiasi perdita e, parlando del massacro vissuto
da quel monaco per amore degli altri, tu hai detto “è samsara” rimarcando
l’accettazione naturale di questo fatto. Praticamente la rinuncia implica
davvero una perdita totale di sé per gli altri, come ad esempio il martirio di
Cristo. Ma noi possiamo, nella migliore delle ipotesi, averne soltanto
un’intuizione, perché per la sola idea ci è totalmente inaccettabile.
Lama: E’ vero, parlando della successione delle vite che producono la maturazione
di un individuo ci riferivamo proprio a questo aspetto. Nel momento in cui
un insegnamento è dato, tra i molti che ascoltano c’è chi, avendo maturato in
tante vite un karma favorevole, può ricevere impressioni così forti che ne
permettono l’immediata comprensione; altri invece stanno accumulando
impressioni che saranno di beneficio in futuro; altri ancora possono trovarsi
in una via di mezzo, essere quasi pronti e molto vicini ad una prossima
realizzazione. Ognuno è nel suo percorso ed è impossibile giudicare,
conoscere lo stadio di maturazione di un altro essere senziente. Così,
ritornando all’esempio del monaco trucidato, egli poteva essere in un punto
del percorso in cui gli era naturale l’accettazione completa di quanto gli
stava succedendo. Non possiamo conoscere quale fosse la sua situazione
spirituale. Come insegna il Buddha, nessuno può sapere se chi gli sta di
fronte è un Bodhisattva oppure no, solo un altro Bodhisattva è in grado di
riconoscerlo. Anche Gesù Cristo ha espresso esattamente lo stesso pensiero
nella raccomandazione più volte ribadita di non giudicare i propri simili. Il
Buddha ha detto che non c’è modo di sapere sotto quale aspetto un
illuminato appaia, può assumere qualsiasi sembianza e ciò che noi siamo in
grado di percepire è la pura apparenza mentre la sostanza ci sfugge
completamente.
Ci sono altre domande? Quanti Arhat, Bodhisattva e Buddha ci sono in
quest’assemblea?…(risata generale.)
Bellissimo il tempo trascorso insieme, molte grazie, cerchiamo di mantenere viva
nella nostra mente la sensazione così ricca di questi momenti stupendi, è samsara,
null’altro che samsara, ma è positivo, è una ricchezza, e non deve essere dimenticata, è
samsara permeato dallo spirito del Dharma.
Secondo Giorno

La Perfezione della Saggezza

(Si inizia le preghiere al Lama radice e di rifugio)


Rileggiamo insieme il “Sutra del Cuore”, titolo che cambia abbastanza nelle
diverse lingue:
™ in sanscrito: “Arya Bhagavati Prajna Paramita Hridaya”;
™ in tibetano: “Phag pa ciom den dema sherab gyi pharol tu chin pay nying po”;
™ in inglese: “The perfection of widsom of Sutra”
™ in italiano: “il cuore della perfezione della saggezza” oppure “Il cuore della
Bhagavati, la perfezione della saggezza”.
In sanscrito Arya Bhagavati è di genere femminile, è detta anche “la Nobile
Signora”, “la Madre”, “la Perfezione della Saggezza”, “la Saggezza ultima”. E’ madre
di tutti i Buddha perché gli illuminati nascono dalla perfezione della saggezza. E’ la
perfezione della saggezza, la saggezza perfetta che realizza la Vacuità che da origine ai
Buddha, il suo nome è Bhagavati. Esistono tanti tipi di saggezza, ma solo la saggezza
perfetta, l’essenza stessa della saggezza che comprende la Vacuità, genera i Buddha.
Il testo non a caso dice “l’essenza della perfezione della saggezza”, perché non si
riferisce alla comprensione della Vacuità in generale, ma alla comprensione della
Vacuità della mente. Il soggetto che realizza l’illuminazione è la mente e la Vacuità
della mente stessa, l’essenza della perfezione della saggezza.
Al discepolo Cheumpa che chiedeva chiarimenti, risposero con una metafora: “La
madre è la saggezza, il padre la compassione - il metodo, le altre virtù della mente sono
i servitori, e i trentasette fattori dell’illuminazione sono i parenti. Tutti insieme questi
soggetti sono indispensabili alla generazione e buona crescita di un bambino, il bimbo
della natura di Buddha, dell’illuminazione. Il piccolo Buddha che è in ognuno di noi.”
E’ interessante ricordare che Bernardo Bertolucci, girando in Nepal il film il “Il
piccolo Buddha”, ebbe problemi con la popolazione, scandalizzata dall’attributo di
“piccolo” al Buddha. Al contrario il Dalai Lama ne fu entusiasta, valutando questa
definizione perfettamente consona. Un altro problema sorse nella necessaria scelta di
un unico reincarnato, Bertolucci era spiaciuto nel doverne eliminare due, così trovò una
soluzione geniale, forse un po’ profetica perché pare si siano verificati casi analoghi in
Tibet, con la reincarnazione del Lama in tutti i tre bambini.
In ognuno di noi vi è un piccolo Buddha, lo si può riconoscere come natura di
Buddha, seme dell’illuminazione, natura della mente, ogni definizione è equivalente,
un sinonimo.
La natura di Buddha, la natura della mente portate a maturazione saranno lo stato
dell’illuminazione, ma per ottenere questo obiettivo occorre essere prima generati da
genitori amorevoli, ricevere l’educazione e le cure sollecite di parenti e amici. E’
indispensabile essere accuditi dalla madre, la saggezza, la perfezione della saggezza
che comprende la Vacuità; è altrettanto necessario un padre, il metodo, la bodhicitta;
non possono nemmeno mancare buoni servitori, le virtù minori, ad esempio le dieci
azioni virtuose; si ha poi bisogno del sostegno dei parenti, i trentasette fattori di
illuminazione che sono le trentasette pratiche. Tutti insieme questi soggetti concorrono
a far nascere, crescere, maturare il bambino accompagnandolo verso l’illuminazione.
La natura di Buddha ha essenzialmente due aspetti, uno è la Vacuità della mente
e il secondo sono le qualità della mente che possono essere sviluppate e portate a
maturazione dalla mente stessa.
L’aspetto della Vacuità della mente non richiede sforzo per esistere, è innato, è
spontaneamente presente. La natura della mente è luminosa grazie alla sua essenza di
Vacuità. Le oscurazioni della mente sono temporanee come le nuvole che solo
apparentemente e momentaneamente oscurano il cielo mentre, al di là di esse, la natura
della mente è luminosità innata.
Il secondo aspetto, le qualità della mente, sono il mezzo attraverso il quale
purificare la mente ed è interessante notare come questo fenomeno presenti un
paradosso apparente, da un lato c’è la luminosità innata della mente e dall’altro ci sono
le qualità che devono essere sviluppate, che devono ancora crescere per essere portate a
compimento. I due elementi coesistono contemporaneamente e procedono
parallelamente, con il potenziamento delle qualità della mente la luminosità aumenta,
con il loro decrescere la luminosità diminuisce.
L’elemento della luminosità della mente è come un cristallo pulito, brillante nei
suoi splendidi riflessi che però, se ricoperto di polvere, appare opaco, pesante, privato
della luce, eppure il cristallo è sempre lo stesso, la sua natura non cambia. L’esempio ci
aiuta a comprendere come sia importante riconoscere la natura della mente per
riconoscere chi siamo, comprendere i nostri atteggiamenti mentali, osservare lo strato
spesso di polvere che oscura pesantemente la luminosità comunque in noi presente
perché innata.
La natura di Buddha è classificata in cinque differenti tipologie:
1. del “lignaggio interrotto” o letteralmente “natura di Buddha rotta”;
2. del “lignaggio incerto”;
3. del “lignaggio degli uditori, gli Sravaka”;
4. del “lignaggio dei Buddha solitari, i Pratyekabuddha”;
5. del “lignaggio dei Bodhisattva”.
Ognuno di essi è uguale agli altri essendo natura, lignaggio di Buddha, tuttavia
esistono alcune particolarità.
Il primo, il “lignaggio interrotto”, è a tutti gli effetti natura di Buddha ma al
momento rimane bloccato, è impossibile progredire, svilupparlo, attivare alcuna
pratica per migliorare la condizione presente.
Il “lignaggio incerto” è natura di Buddha, ma sono tuttora aperte due vie
possibili: l’interruzione oppure la progressione nei successivi livelli.
I lignaggi degli Uditori, dei Praticanti solitari e dei Bodhisattva, sono lignaggio
attivo, natura di Buddha che si sta sviluppando ma che ancora deve completare il suo
cammino per poter realizzare lo stato finale, l’illuminazione.
I diversi modi di essere “Sravaka” il praticante uditore e “Pratyekabuddha” il
praticante solitario, rispecchiano differenti attitudini della mente quindi, in base alla
propria inclinazione o somiglianza con l’uno o l’altro tipo, possiamo capire quale
lignaggio è a noi più affine.
Il lignaggio dei Bodhisattva appartiene al praticante che detiene ed esprime una
immensa compassione.
Ogni essere vivente ha la natura di Buddha e prima o poi realizzerà lo stato
dell’illuminazione quindi, indipendentemente dal lignaggio attuale, per tutti verrà il
tempo del risveglio.
Se un individuo ha la natura del Bodhisattva, ma non ancora risvegliata, essa
rimane inattiva. Purificare la mente, risvegliare la mente e maturare il seme
dell’illuminazione, sono espressioni che hanno l’identico significato del risvegliare
quella stessa natura.
Insisto su questo aspetto perché è fondamentale assimilare il concetto del seme
dell’illuminazione presente nel cuore di ogni essere vivente, esso è come il cristallo,
chiaro, limpido, puro, esiste immutato nella sua essenza anche se nascosto dalle
oscurazioni che, come la polvere, lo opacizzano cancellandone la naturale brillantezza.
Basta pulirlo per ritrovare immutato il suo splendore.
Il piccolo Buddha è la mente cristallina che cresce bene grazie alla madre, la
saggezza, al padre, la compassione, ai parenti, i trentasette fattori dell’illuminazione e
agli amici o servitori, tutte le altre virtù minori.
E’ una similitudine è stupenda, prendersi cura della natura di Buddha è come
prendersi cura con infinito amore di un bambino per farlo crescere nel modo migliore,
è il modo ultimo di provvedere ad un bambino. Questo bambino è, in ogni essere, la
natura di Buddha.
Conosciamo l’origine del Sutra del Cuore e in quale occasione il Buddha ne ha
offerto il prezioso insegnamento.
“Così una volta udii:
Il Bhagavan dimorava a Rajagrha, presso il Picco dell’Avvoltoio, con un gran numero di
Arhat e un gran numero di Bodhisattva e a quel tempo il Bhagavan era entrato
nell’assorbimento meditativo sulla varietà dei fenomeni chiamato percezione profonda. In
quello stesso tempo, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, era assorto nella
stessa pratica della profonda perfezione della saggezza e vide che anche i cinque aggregati
sono vuoti di natura intrinseca.
Quindi, tramite l’ispirazione del Buddha, il venerabile bikshu Shariputra si rivolse
all’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva e gli disse: - come deve addestrarsi un
figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella pratica della
profonda perfezione della saggezza? - ”
Prima di tutto bisogna comprendere chiaramente cosa si intende in questo
contesto indicando l’assemblea dei presenti, perché ancora una volta le traduzioni
possono essere fuorvianti, con un gran numero di Arhat e un gran numero di
Bodhisattva, nel testo originale “gedun chengpo”, “il grande sangha”, non ci si riferisce
alla quantità, ma all’elevata qualità dei presenti.
Altro passaggio importante è la comprensione dei cinque lignaggi della natura di
Buddha perché, con la frase “figlio o figlia del lignaggio”, ci si rivolge specificatamente al
lignaggio dei Bodhisattva, di donne e uomini che in quel momento abbiano risvegliato
il lignaggio dei Bodhisattva, e non in generale il lignaggio di Buddha.
Comunemente si definisce il Sutra del Cuore come discorso del Buddha, ma egli
non ha pronunciato alcuna parola, un altro, il Bodhisattva Avalokitesvara, in
conversazione con il suo interlocutore, il bikshu Shariputra, ha ricevuto dal Buddha
l’ispirazione ad esprimere l’insegnamento profondo. Il dialogo tra Avalokitesvara e
Shariputra è anche conosciuto come “il Sutra benedetto dal Buddha”.
Alla domanda spesso posta a questo punto: “colui che è nel lignaggio dei
Bodhisattva e desideri applicarsi alla comprensione della perfezione della saggezza
cosa deve fare?” si è già risposto prima: la saggezza simile alla madre - la saggezza
della Vacuità, il metodo simile al padre - la compassione, la Bodhicitta, il supporto dei
parenti - i trentasette fattori dell’illuminazione, e degli amici - le virtù minori, tutto
concorre, ma la causa principale, determinante, è la saggezza della Vacuità.
“Quando fu detto questo, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, rispose al
venerabile bikshu Shariputra e disse: “Shariputra, ogni figlio o figlia del lignaggio dei
Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della
saggezza, dovrebbe vedere chiaramente nel seguente modo”
La frase “vedere chiaramente nel seguente modo” riconduce ai cinque sentieri, perché
coloro che desiderano comprendere e raggiungere la perfezione della saggezza, devono
percorrerli interamente:
1. sentiero dell’accumulazione;
2. sentiero della preparazione;
3. sentiero della visione;
4. sentiero della familiarizzazione o meditazione;
5. sentiero del non più apprendimento, cioè il raggiungimento del risultato,
l’illuminazione.
Il testo prosegue:
“dovrebbe vedere distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura
intrinseca”.
Mostra così l’ingresso nel primo sentiero, dell’accumulazione, nel quale si
apprende a praticare la Vacuità dei cinque aggregati, la Vacuità della mente.
Domanda: Perché dice “anche”?
Lama: “anche” perché specificando che tutti i fenomeni sono vacui se ne dà una
formulazione generica ma, entrando in dettaglio, si osserva la loro
classificazione in cinque gruppi, ricordiamo che i sentieri sono quindici:
• cinque degli Sravaka, gli uditori,
• cinque dei Pratyekabuddha, i Buddha solitari,
• cinque dei Bodhisattva.
La frase si riferisce precisamente al primo sentiero della pratica dei Bodhisattva, la
pratica mahayana, al sentiero dell’accumulazione, incluso nei tre addestramenti
superiori: moralità, concentrazione e saggezza. L’ingresso nel sentiero mahayana è la
bodhicitta, la grande compassione.
Il praticante mahayana che intraprende il sentiero dell’accumulazione ha attivato
la bodhicitta, la grande compassione che ha fondamento nella rinuncia e, su questa
base, è interessato allo sviluppo della perfezione della saggezza.
Il Sutra del Cuore è un dialogo di altissimo livello tra due esseri elevati,
Shariputra e Avalokitesvara, ma è ben difficile pensare che realmente sia stato
pronunciato mentre il Buddha era assorto in meditazione; è probabile invece che,
trattandosi di un assemblea così qualificata di Arhat e di Arya in grado di comprendere
in profondità, tutti fossero immersi nella meditazione e il dialogo sia avvenuto
esclusivamente sul piano spirituale, ispirato dalla situazione. E’ l’aspetto misterioso e
segreto con cui venivano dati gli insegnamenti più elevati secondo la modalità
mahayana e per questa ragione i resoconti storici di tali incontri sono così rari.
La leggenda narra che, nello stesso momento in cui avveniva questo dialogo
interiore sul picco dell’Avvoltoio nel nord dell’India, alla presenza del Buddha nella
sua forma umana, contemporaneamente egli stava dando gli insegnamenti di
Kalachakra nel sud dell’India, nel luogo natale di Nagarjuna.
Il praticante che realizza il primo livello dell’accumulazione realizza la
concentrazione, conosciuta come “la corrente continua dell’insegnamento del Dharma”,
ed è in grado di ricevere, senza bisogno di intermediari, gli insegnamenti dagli Esseri
spirituali più elevati. Si narra di praticanti che hanno ricevuto insegnamenti
direttamente da Manjusri, il Buddha della Saggezza. Nel sentiero dell’accumulazione si
è molto affaccendati, non si ha tempo per rilassarsi, quando la meta era ancora lontana
ci si poteva crogiolare nella beata ignoranza, ma cominciando seriamente a crescere
nella saggezza, il tempo libero scompare del tutto.
Il Sentiero dell’Accumulazione

Il sentiero dell’accumulazione è suddiviso in tre livelli, uno iniziale, uno


intermedio e uno finale. Nel livello iniziale il praticante che conosce molto bene la
pratica delle quattro consapevolezze perché vi si è esercitato lungamente, ne è un vero
esperto e, unendo la saggezza e la bodhicitta alle quattro consapevolezze, acquisisce
una grande perizia, assolutamente determinante per poter accedere al livello
intermedio.
Così, il praticante che è entrato nel sentiero del Dharma poiché ha maturato la
rinuncia, è entrato nel sentiero mahayana in quanto ha sviluppato la bodhicitta e ora
perfeziona le quattro consapevolezze unendole alla saggezza della Vacuità, è dunque
molto affaccendato!
Il “Satipatthana sutra”. mostra dettagliatamente come addestrarsi nelle quattro
consapevolezze, descrive la consapevolezza del corpo, la consapevolezza delle
sensazioni, la consapevolezza della mente, la consapevolezza del Dharma inteso come
tutto il resto dei fenomeni, insegna ad essere sempre presenti, pienamente consapevoli
in ogni istante di ciò che accade nel corpo, nelle sensazioni, nella mente e nei cinque
aggregati.
La consapevolezza è caratterizzata da due aspetti, quello generale del fenomeno e
quello peculiare del fenomeno osservato.
L’aspetto generale è l’impermanenza, l’impermanenza del corpo, delle sensazioni,
della mente, del dharma come raccolta di tutti gli altri fenomeni, è l’impermanenza
sottile, momentanea, del cambiamento istantaneo, momento per momento,
caratteristica generale che riguarda tutti i fenomeni.
L’aspetto individuale di ogni fenomeno è ciò che caratterizza il corpo, le
sensazioni, la mente e i fenomeni. Il praticante addestrato ne ha perfetta chiarezza,
momento per momento.
Il livello intermedio consiste nell’ottenere perizia nei quattro abbandoni, o quattro
cessazioni, è lo stadio in cui si acquisisce la capacità di sviluppare le virtù che ancora
non sono state svolte e di incrementare all’infinito le qualità già maturate. Le non-virtù
ancora non sorte e le non-virtù già presenti possono ugualmente essere eliminate.
Si ha la cessazione completa delle non-virtù e la cessazione completa degli ostacoli
alla realizzazione delle virtù.
Si realizza il sogno a lungo coltivato di poter ottenere l’obiettivo desiderato, sulla
base della pratica della bodhicitta e dell’incremento della perfezione della saggezza.
Così procedendo si giunge al livello finale dell’accumulazione diventando esperti
nelle “quattro gambe miracolose”, cioè nella concentrazione o meditazione di samatha
in cui si realizza il massimo livello della concentrazione, perizia che si ottiene con
l’aiuto della Bodhicitta e della comprensione della Vacuità.
Questi tre stadi, suddivisi a loro volta in quattro pratiche ciascuno, costituiscono
complessivamente dodici dei trentasette fattori dell’illuminazione. Sono i metodi o le
condizioni attraverso cui si crea o si favorisce la maturazione della mente
dell’illuminazione e rappresentano gli elementi da cui siamo partiti, la saggezza, la
bodhicitta, le trentasette facoltà dell’illuminazione e tutte le altre virtù.
La riga del testo su cui ci siamo soffermati a lungo: “dovrebbe vedere
distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca” indica
chiaramente come praticare la saggezza nel sentiero dell’accumulazione.
Corpo, sensazioni, percezioni, fattori composti, coscienza, in breve tutti i cinque
aggregati, esistono per cause e condizioni, non vi è alcuna possibilità di esistenza
intrinseca, propria, perciò i cinque aggregati sono vuoti di esistenza propria. E’
importante studiare e meditare profondamente questo aspetto unendo la meditazione
analitica con quella concentrativa, fino a realizzare la Vacuità.
Durante il percorso del sentiero dell’accumulazione esiste effettivamente una
reale possibilità di apprendere e riflettere sulla Vacuità dei cinque aggregati.
E’ possibile entrare nel sentiero mahayana possedendo la comprensione della
bodhicitta che è la base fondamentale per un’ulteriore progressione, anche se non si è
ancora compresa pienamente la Vacuità dei cinque aggregati.
Lo studio sul significato della Vacuità dei cinque aggregati e la riflessione sul
proprio livello di comprensione della Vacuità costituiscono una meditazione in cui,
alternando la concentrazione univoca con la meditazione analitica, si comprendono e
integrano i cinque livelli di meditazione sulla Vacuità.
Si inizia con la riflessione sul corpo, sulle sensazioni, sui fattori compositi, sulla
mente, sulla coscienza, sulla loro realtà, su come si manifestano e vengono in esistenza,
comprendendo semplicemente che esistono sulla base di cause e di condizioni e che,
mancando cause e condizioni, non possono esistere.
Con lo stesso schema si procede ad esaminare il sé, l’io, osservando come esso sia
solo sulla base dei cinque aggregati e, se i cinque aggregati non esistono in modo
intrinseco, anche il sé basato su di essi, non può esistere in modo intrinseco.
Perché dobbiamo sforzarci di osservare la non-esistenza intrinseca dei cinque
aggregati? Perché solo grazie alla comprensione di questa realtà riusciamo a vedere
distintamente come il sé sia assolutamente privo di esistenza intrinseca. Non c’è alcun
io indipendente.
Affermando che le cose non hanno esistenza indipendente si sottintende che
hanno esistenza dipendente. Ogni cosa esiste in dipendenza da altro e quindi non può
esistere indipendentemente. La natura della realtà è l’interdipendenza.
Poiché tutto esiste interdipendentemente tutto è vuoto di esistenza propria, è
vacuo; tutti i fenomeni sono vacui e possono essere solo in modo interdipendente.
Il vero fenomeno è la Vacuità, il vero Dharma è la Vacuità, grazie ad essa tutto
può esistere e trasformarsi. Se non vi fosse Vacuità non vi sarebbe spazio per nessuna
esistenza, per nessuna trasformazione. La Vacuità è il Dharma ultimo, il Dharma
fondamentale da realizzare. Realizzando la Vacuità si realizza l’illuminazione.
Esistenza e Vacuità sono due facce della stessa medaglia, il significato della
Vacuità è l’esistenza interdipendente, il significato dell’esistenza è mera imputazione.
I cinque aggregati sono vuoti, esistenti interdipendentemente, sono mera
imputazione, per cui il sé è vuoto, esiste interdipendentemente ed è mera imputazione,
cosa significa?
Risposta: Che esiste in modo convenzionale, è una convenzione.

(Si conclude la sessione con la preghiera di dedica dei meriti)


Il Sentiero della Preparazione

La sessione pomeridiana inizia con la lettura degli otto versi di trasformazione


della mente.
Nella mattinata si è accennato agli argomenti base della pratica mahayana, il
sentiero di accumulazione, il primo sentiero della pratica mahayana e dei primi dodici
fattori d’illuminazione che sono le quattro consapevolezze, i quattro abbandoni e le
quattro concentrazioni; la saggezza, la bodhicitta e di come i cinque aggregati siano
vuoti di esistenza indipendente.
Nel sentiero dei Bodhisattva la perfezione della saggezza si costruisce nell’analisi
della non esistenza inerente dei cinque aggregati che, in progressione sistematica, porta
alla comprensione della non esistenza inerente dell’io, del sé.
Nel sentiero mahayana dell’accumulazione la meditazione sulla Vacuità o
meditazione sul non-io è sviluppata tramite lo strumento della non-esistenza inerente
dei cinque aggregati. Questo è in sintesi il metodo di osservazione del non-io o
mancanza dell’io, una meditazione che deve essere sempre supportata dallo studio e
dalla riflessione intellettuale.
Sono stati elencati brevemente, tra i trentasette fattori dell’illuminazione, i primi
dodici suddivisi in gruppi di quattro; sono importanti e poiché meritano un ulteriore
approfondimento vi consiglio di studiare i vari commentari al Sutra del Cuore.
Si è focalizzata l’attenzione sulla saggezza in quanto obiettivo ultimo, ma è
importante non trascurare il significato della rinuncia e della Bodhicitta che
rappresentano il metodo e sono assolutamente fondamentali in ogni pratica.
Oggi affronteremo il secondo sentiero mahayana, della preparazione.
“La forma è vuota, la Vacuità è forma; la Vacuità non è altro che forma, la forma non
è altro che Vacuità. Allo stesso modo sono vuote le sensazioni, le percezioni, le formazioni
mentali e la coscienza”
Nel sutra del cuore si insegna come meditare la Vacuità nel sentiero della
preparazione sulla base delle quattro caratteristiche. Nel sentiero dell’accumulazione i
cinque aggregati erano compresi come vuoti di natura intrinseca e nel sentiero della
preparazione si analizza dettagliatamente la Vacuità, la mancanza di esistenza
intrinseca di ognuno di questi. Ad esempio dice: “la forma, quindi l’aggregato della
forma, è vuota”, poi rovescia “la Vacuità è forma” e poi ancora “la Vacuità non è altro che
forma” e “la forma non è altro che Vacuità”.
L’aggregato della forma altro non è che imputazione, un nome per definire una
base, un concetto imputato su una base di imputazione, perché non vi è nessuna forma
che possa esistere in modo indipendente. Pertanto la forma è intrinsecamente vuota,
ma poiché è imputata da un concetto, cioè ha un nome imputato su una base
imputabile, ha una funzione. L’imputare un concetto definisce la sua funzione, è
intrinsecamente vuota, ma è forma.
Tutti i fenomeni hanno due realtà, la realtà convenzionale che gli è imputata e la
realtà ultima. Sebbene entrambe non siano la stessa cosa posseggono la stessa natura,
per cui la Vacuità della forma altro non è che forma, non ha una diversa natura. La
Vacuità non è differente dalla forma e la forma non è differente dalla Vacuità.
Se i fenomeni esistessero intrinsecamente non dipenderebbero da cause e
condizioni ma, se così fosse, dovrebbero anche esistere frutti e risultati non dipendenti
da cause e condizioni. Affermare che un fenomeno è di natura intrinsecamente vuota e
dire che non esiste realmente ha lo stesso significato.
Questo è il modo di meditare la Vacuità nel sentiero della preparazione,
osservando i cinque aggregati, uno per uno, analizzandoli in ogni particolare secondo
le quattro caratteristiche.
La forma è vacua poiché non esiste intrinsecamente, ma dipende da nome e
imputazione. La forma stessa non è differente dalla Vacuità della forma in quanto
entrambe sono due aspetti della stessa medaglia, sono due cose diverse ma, pur
essendo differenti, hanno la stessa natura.
Anche il sentiero della preparazione è suddiviso in quattro stadi o gradini:
• il primo è “il sentiero del calore, o, simile al calore”;
• il secondo è “il picco, o la vetta”;
• il terzo è “la pazienza”;
• il quarto è “il Dharma supremo”.
Durante il sentiero della preparazione si acquisisce perizia in due gruppi di fattori
dell’illuminazione. Nei primi due stati del sentiero della preparazione, “il sentiero del
calore” e “il picco”, ci si allena acquisendo grande competenza e divenendo veri esperti
nelle cinque facoltà:
• la facoltà della fede;
• la facoltà della perseveranza entusiastica;
• la facoltà della consapevolezza;
• la facoltà dell’assorbimento meditativo;
• la facoltà della saggezza o della visione profonda.
Nei successivi due stadi “la pazienza” e “ il Dharma supremo”, si approfondisce
la conoscenza delle cinque facoltà trasformandole nei cinque poteri, che mantengono lo
stesso nome:
• il potere della fede;
• il potere della perseveranza entusiastica;
• il potere della consapevolezza;
• il potere dell’assorbimento meditativo;
• il potere della saggezza o della visione profonda.
La differenza tra “facoltà” e “potere” è definita dal grado di approfondimento
raggiunto, allenandosi nella facoltà si raggiunge la piena capacità, abilità, potenzialità
della stessa che, ulteriormente sviluppata, si trasforma in potere, il che significa che in
quel campo non si può più essere sconfitti.
L’approfondimento delle facoltà che si trasformano in poteri è dovuto alla forza
dell’incremento della bodhicitta che crescere e si sviluppa tramite la forza della
saggezza. Grazie alla saggezza della compassione si entra direttamente nell’essenza
della saggezza che è forza trainante.
Riferendoci nuovamente all’analogia del bambino che nasce e cresce grazie
all’azione congiunta di padre, madre, parenti e amici, osserviamo che si otterrà il
risultato procedendo analogamente nell’interazione tra saggezza, metodo, trentasette
fattori, virtù minori.
La bodhicitta che è sostegno del sentiero mahayana e che vi ha introdotto il
praticante è sempre la stessa bodhicitta, non è cambiata, ma nel contempo la bodhicitta
che ha avviato il praticante nel sentiero mahayana e, sostenendo la sua pratica, lo ha
trasformato in Bodhisattva, è illuminata e incrementata dalla saggezza. Si determina
un’inscindibile interazione e aiuto reciproco nel potenziamento della bodhicitta quale
supporto della saggezza e della saggezza in quanto stessa bodhicitta che si illumina
sempre più divenendo luce limpida.
L’incremento simultaneo di metodo e saggezza porta al compimento dei
trentasette fattori dell’illuminazione che, seppur praticati anche prima, ora possono
essere portati a compimento. E’ interessante osservare come l’interazione costante e
inscindibile conduca inevitabilmente alla realizzazione.
Vediamo come avviene il passaggio dal sentiero dell’accumulazione a quello della
preparazione.
Il primo stadio del sentiero della preparazione è chiamato “del calore”, ma quale
calore? - Il calore dell’illuminazione.
Il meditatore medita in modo continuativo, studia e riflette sull’assenza di
esistenza intrinseca dei cinque aggregati giungendo, per deduzione logica, alla
consapevolezza dell’assenza di esistenza intrinseca del sé, della Vacuità dell’io.
Meditando costantemente in questo modo ottiene la visione veritiera della Vacuità, ne
assapora il gusto, sperimenta direttamente il calore dell’illuminazione e, nel momento
in cui ciò avviene, passa dal sentiero dell’accumulazione al sentiero della preparazione.
Questo assaggio della Vacuità del sé non significa ancora l’aver avuto la visione
diretta della Vacuità, ma è simile all’osservazione dell’immagine riflessa in uno
specchio, è un’intuizione detta “immagine mentale della Vacuità”. Il meditatore adesso
ha una visione chiara e veritiera dell’immagine della Vacuità del sé, ne sente il sapore,
la riconosce e, se anche non la vede direttamente, sa cos’è con chiarezza, senza errore
ed è dunque in grado di entrare nel sentiero della preparazione.
Il meditatore è così sempre più affaccendato, prima osservava la Vacuità dal
punto di vista indiretto dell’assenza di esistenza intrinseca dei cinque aggregati, ora
deve analizzarli uno per uno secondo le quattro caratteristiche ed è un impegno
notevole che occupa tutto il suo tempo, ma illumina, irradia, distilla e purifica la
bodhicitta la quale diviene sempre più radiosa e chiara. Così, la bodhicitta che cresce
grazie alla meditazione sulla Vacuità e che contemporaneamente la supporta, fa si che
il meditatore potenzi e consolidi le proprie facoltà sino ad averne piena padronanza
tanto da svilupparle ulteriormente trasformandole in poteri.
Domanda: Mi sembra di capire che nei vari passaggi sia indispensabile comprendere
logicamente il percorso, ma non è così semplice, anche perché nel caso della
Vacuità si passa dal concetto generale a quello particolare, mentre in genere
avviene il contrario.
Lama: E’ necessario accostarsi alla Vacuità con un primo approccio breve, sintetico e
soltanto in un secondo tempo sarà possibile procedere all’esame analitico dei
dettagli. E’ indispensabile avere prima di tutto un’idea chiara, generale, del
concetto che si vuole comprendere e, partendo da questo punto, scendere nel
particolare e approfondirlo.
Il Sentiero della Corretta Visione

Ora la vita si complica, ci avviciniamo al sentiero della visione corretta e la


spiegazione su come meditarla è contenuta nella frase:
“Quindi, Shariputra, tutti i fenomeni sono Vacuità; essi sono privi di caratteristiche
peculiari; non sono nati, non cessano; non sono contaminati, non sono incontaminati; non
sono incompleti e non sono completi.”
I fattori da esaminare sono otto, non più quattro. Tutti i fenomeni sono
intrinsecamente vuoti, non esistono cause intrinsecamente esistenti e, di conseguenza,
non si possono avere risultati intrinsecamente esistenti. Anche le contaminazioni, le
oscurazioni mentali sono intrinsecamente vuote. I tipi di mente non contaminati sono
intrinsecamente vuoti. La diminuzione delle afflizioni mentali è essa stessa non
intrinsecamente esistente. Le qualità mentali che incrementano lo sviluppo non sono
intrinsecamente esistenti.
L’avvicinamento alla Vacuità è sempre più complesso. Durante il sentiero
dell’accumulazione non si ha alcuna conoscenza della Vacuità, si è in una fase di
studio, di realizzazione e di tentativi di avvicinamento in un approccio generale.
Entrando nel secondo sentiero, della preparazione, si ha un’idea chiara della Vacuità e
si è in grado di avviare l’analisi di qualche dettaglio, perché ancora non si è di fronte
alla Vacuità, ma se ne intravede il vero riflesso nell’immagine mentale.
Ora invece, potendo incontrare viso a viso, direttamente la Vacuità, non la sua
l’immagine mentale, in un’osservazione non filtrata dallo sguardo fisico, ma quale
risultato della vera comprensione, è il momento in cui si debbono affrontare i
particolari.
Il meditatore passa dalla chiara immagine alla chiara visione della Vacuità e,
avendo eliminato l’intermediario che è l’immagine mentale, in quel preciso istante
diventa un Arya Bodhisattva, una Mahasattva. Colui che era un meditatore Bodhisattva
ora acquisisce lo stato di Arya Bodhisattva.
Ecco il significato delle parole del testo: “Arya Avalokitesvara Bodhisattva
Mahasattva” cioè un Bodhisattva che, approdando dal sentiero della preparazione a
quello della visione, ha la limpida visione diretta propria di un Bodhisattva
Mahasattva, un Arya. Questa è la caratteristica del Bodhisattva che entra nel terzo
sentiero, della visione e nel quarto, della meditazione o familiarizzazione. A questo
punto la Vacuità è una vera sfida e il meditatore, il Bodhisattva Mahasattva, vede ogni
fenomeno come vuoto e come vuota ogni causa del passato e ogni risultato del futuro,
una peculiarità espressa nella visione del Bodhisattva in grado di osservare che “tutti i
fenomeni sono Vacuità” “essi sono privi di caratteristiche peculiari” con preciso
riferimento al fatto che tutte le cause sono vuote, il passato è vuoto, non c’è nulla che
possa essere identificato come intrinsecamente esistente. “non sono nati” e quindi i loro
risultati, il futuro, sono vuoti poiché da essi non nascerà nulla di intrinsecamente
esistente.
Anche tutto ciò che solitamente è considerato afflizione mentale, difetto mentale,
oscurazione mentale o sofferenza non è intrinsecamente esistente dunque “non sono
contaminati”.
Altrettanto, le virtù, le menti positive, le qualità mentali, non sono
intrinsecamente esistenti.
Alla domanda: «Si può purificare la mente intrinsecamente da tutti i difetti?» la
risposta è No!
Inoltre, se “non sono incompleti” e “non sono completi” alla domanda: «possono
rendere intrinsecamente perfette le qualità della mente?» la risposta è sempre No.
L’analisi diventa ancora più sottile nella visione profonda del Sutra del Cuore che
osserva “la varietà dei fenomeni chiamata percezione profonda”.
Ad esempio, praticando il Dharma ci si pone l’obiettivo di realizzare lo stato di
illuminazione, eppure spesso si parte dall’idea, completamente errata, che un io
indipendente realizzi un indipendente stato di illuminazione, che un io intrinsecamente
esistente possa accumulare cause indipendenti, intrinsecamente esistenti e ottenga
futuri risultati intrinsecamente esistenti.
Per eliminare i difetti mentali si agisce nell’illusione di poter annullare difetti
intrinsecamente esistenti con un metodo intrinsecamente esistente. Anche le qualità che
si vorranno realizzare saranno quindi intrinsecamente esistenti e la loro maturazione
completa produrrà uno stato ovviamente intrinsecamente esistente.
Così, alla fine, ci si ritrova ad essere praticanti intrinsecamente esistenti di un
dharma intrinsecamente esistente e l’unico risultato ottenuto sarà la definitiva fuga
dell’illuminazione. Ecco una pratica intensa e sbagliata in cui sono state investite
ingenti energie con il solo risultato della perdita di ogni possibilità di illuminazione.
Nel terzo sentiero, della visione, gli stadi di pratica che corrispondono ai
trentasette fattori di illuminazione sono contenuti nel “Nobile Ottuplice Sentiero”.
Il primo stadio è “La visione corretta”, fondamentale perché soltanto in esso si è in
grado di superare realmente la visione errata, prima di questo passaggio non è
possibile avere una visione completa e corretta della realtà. La visione errata è quella,
appena descritta, del meditatore che parte dal concetto di essere intrinsecamente
esistente e che di conseguenza osserva tutti i fenomeni come intrinsecamente esistenti
cadendo in un errore molto grave che distrugge e corrompe tutto. La visione errata più
devastante è data dall’idea del Guru, o del Buddha, o di Dio, o di una religione,
intrinsecamente esistenti, basta osservare la storia dell’umanità per comprendere
quante tragedie siano scaturite da essa. Tutti gli errori nascono dall’ignoranza e, in
questo caso, si tratta di ignoranza che produce la visione sbagliata, che ignora la
Vacuità.
Nel sentiero della visione la pratica della meditazione sulla saggezza consiste
nell’eliminare le informazioni sbagliate che determinano l’afferrarsi a un sé costruito
artificialmente, temporaneo, fondato su condizione temporanee, cioè l’aggrapparsi ad
un sé non innato, ad un sé falso.
Il primo passo del nobile ottuplice sentiero è il sentiero della corretta visione, da
cui scaturiscono naturalmente, uno conseguente all’altro, un corretto modo di pensare,
un corretto modo di parlare, un corretto modo di agire, un corretto modo di vivere, un
corretto sforzo, una corretta consapevolezza, una corretta concentrazione.
Gli otto rami dell’ottuplice sentiero diventeranno perfetti nel sentiero della
visione che elimina il concetto errato, artificiale, temporaneo dell’aggrapparsi al sé.
Il Sentiero della Familiarizzazione

Soltanto nel momento n cui il meditatore annulla la visione sbagliata eliminando


il concetto dell’aggrapparsi al sé non innato entra nel sentiero della familiarizzazione o
della meditazione e il suo compito diviene più arduo.
Nel corso del quarto sentiero, della familiarizzazione o meditazione si combatte il
concetto dell’ignoranza innata, dell’aggrapparsi ad un sé innato ed entrano in gioco i
dieci “bhumi” 36, conosciuti anche come i dieci livelli dei Bodhisattva.
Il commentario dice che durante il sentiero della familiarizzazione non vi è
presenza alcuna di fenomeni convenzionali quindi, se osserviamo Michele seduto in
questa sala, non vediamo Michele ma la Vacuità di Michele.
Il testo del Sutra del Cuore prosegue riferendosi al sentiero della
familiarizzazione: “Quindi, Shariputra, nella Vacuità non c’è forma”, dunque qui non c’è
Michele, ma la Vacuità di Michele.
”non c’è forma, né sensazioni, né percezioni, né formazioni mentali, né coscienza.”
Cioè non c’è nessuno dei cinque aggregati.
“Non c’è occhio, né orecchio, né naso, né lingua, né corpo, né mente. Non c’è forma”
In questo caso “forma” indica il colore, la forma geometrica.
“né suono, né odore, né gusto, né oggetti concreti, né oggetti mentali. Non c’è nessun
elemento visivo, così fino a nessun elemento mentale fino a includere nessun elemento della
coscienza mentale.”
Gli oggetti concreti si possono toccare e riguardano i diciotto elementi di tutti i
fenomeni: sei organi dei sensi, sei oggetti dei sensi, sei facoltà dei sensi.
“Non c’è ignoranza, non c’è estinzione dell’ignoranza, e così fino a nessun
invecchiamento e morte, e nessuna estinzione dell’invecchiamento e della morte.”
Ecco un ulteriore approfondimento e, se ricordate l’insegnamento del testo di
Nagarjuna sui dodici anelli dell’origine interdipendente, potete riconoscere il primo e
l’ultimo anello: “ignoranza” e “invecchiamento e morte”, che, osservati nel movimento
della creazione e in quello della cessazione, dimostrano di non poter esistere
intrinsecamente in nessuna delle due direzioni. Nessun anello della catena può avere
un’esistenza intrinseca, questa è l’essenza del “Paticcasamuppada”, l’importante sutra
dell’origine interdipendente.
“Allo stesso modo, non c’è sofferenza, origine, cessazione o sentiero; non c’è
saggezza, né ottenimento e neppure mancanza di ottenimento.”

36Bhumi: Terre dei Bodhisattva, tappe o livelli raggiunti in successione


Anche le quattro nobili verità, contenute nel “Dharmachakra Pravartanasutra” il
sutra dell’avvio della prima ruota del Dharma, non esistono intrinsecamente. Questi
sutra sono fondamentali e sarebbe bene studiarli direttamente non limitandosi ai
commentari soggetti alle diverse interpretazioni.
Non c’è una saggezza intrinseca. Diciamo: “voglio ottenere l’illuminazione!…” ma
non c’è nessun ottenimento e, ancora meglio, non c’è nemmeno il non-ottenimento. La
comprensione scaturisce dalla realtà dell’origine interdipendente, dalla realtà della
Vacuità dei fenomeni.
Il Sentiero della Meditazione simile al Diamante

La concentrazione simile al vajra, il diamante indistruttibile è un altro concetto


essenziale. Dopo aver meditato lungamente nel sentiero della familiarizzazione si
giunge all’ultimo momento del samsara, all’ultimo istante dello stato non illuminato
della mente detto “il sentiero della meditazione simile al Vajra”.
“Quindi, Shariputra, poiché i Bodhisattva non hanno ottenimenti, si basano e
dimorano nella perfezione della saggezza. Non avendo oscuramenti nelle loro menti, essi
non hanno paura, ed essendo andati totalmente oltre l’errore, essi raggiungono la meta
finale: il nirvana. Tutti i Buddha che dimorano nei tre tempi hanno ottenuto il pieno
risveglio dell’insuperabile, perfetta illuminazione, basandosi su questa profonda perfezione
della saggezza”.
Il sentiero della meditazione simile al diamante è l’ultimo momento di una mente
non illuminata, in questa fase un Bodhisattva è in completo assorbimento meditativo
sulla Vacuità, sulla mancanza di esistenza intrinseca, la sua mente è libera da ogni tipo
di oscurazioni e di paure, ogni timore è scomparso ed è totalmente al di là dell’errore, si
trova in una situazione simile allo stato dell’illuminazione.
Nel sentiero della familiarizzazione si elimina l’ignoranza innata, sottile,
attraverso il duro percorso dei dieci bhumi, i dieci livelli di eliminazione. E’ il momento
in cui il Bodhisattva attua la pratica più lunga, la prova più intensa.
Il primo bhumi è “il terreno della gioia”, perché si ha la gioia della visione del
volto dell’illuminazione, la Vacuità che, anche se non ancora totalmente chiara, è
comunque presente. In questo momento la meditazione si articola in due fasi: la fase
meditativa o dell’assorbimento meditativo e la fase post-meditativa relativa
all’intervallo tra un assorbimento meditativo e l’altro. La fase dell’assorbimento
meditativo si suddivide a sua volta in due momenti: Il primo è il momento in cui il
meditatore, profondamente assorto nell’osservazione dei dettagli della Vacuità, avverte
la presenza vigile del suo opponente, dell’ostacolo non ancora eliminato.
Il secondo momento si presenta quando il meditatore, entrando nella seconda fase
dell’assorbimento meditativo, riesce a sconfiggere l’ostacolo eliminandolo e solo allora
avviene il passaggio da un bhumi a quello successivo.
Nell’alternanza di questi momenti si ha la fase post-meditativa in cui si applica la
pratica della generosità, dell’etica, dell’accumulazione dei meriti.
L’attraversare i dieci terreni di pratica costituisce il mezzo necessario per
purificare l’ignoranza sottile dell’innato aggrapparsi al sé.
Il sentiero della purificazione nelle due fasi dell’assorbimento meditativo, quella
del confrontarsi con l’ostacolo, l’opponente, e quella della sua eliminazione, realizza i
sette rami o fattori dell’illuminazione:
• il fattore della corretta consapevolezza;
• il fattore della corretta aspirazione;
• il fattore del corretto sforzo gioioso;
• il fattore della corretta gioia;
• il fattore della corretta tranquillità;
• il fattore della corretta concentrazione;
• il fattore della corretta equanimità, che è l’ultimo e per questo
particolarmente importante.
A volte si pensa, sbagliando, che l’equanimità sia semplice e poco rilevante,
invece è fondamentale, in essa si elimina ogni visione settaria, non bianco o nero, non
giusto o sbagliato, ma solo equanimità che è Vacuità. La natura della Vacuità rende
ogni cosa uguale. Tale visione non dipende dall’oggetto ma dal livello personale di
comprensione.
La fase post-meditativa è un periodo di riposo e di rigenerazione che permetterà
di affrontare nuovi ostacoli con rinnovata energia, arricchiti dall’accumulazione dei
meriti dovuti all’applicazione del metodo, della rinuncia e della bodhicitta. Così
rafforzati, si rientra nella meditazione che, a questo punto, è un vero campo di battaglia
in cui ci si confronta con l’opponente sino a che non lo si vince con la completa
eliminazione dell’ostacolo.
Il ciclo riprende, sconfitto l’ostacolo di quel bhumi si passa al bhumi successivo,
alternando le fasi meditative e post- meditative, di bhumi in bhumi, dal primo al
secondo, al terzo, al quarto, al sesto, al settimo, sino all’ottavo nel quale si eliminano le
impronte più sottili lasciate dai difetti mentali, le predisposizioni delle afflizioni
mentali, e si è così nel livello dell’Arhat, che non ha ancora raggiunto la bodhicitta ma
ha eliminato con uguale metodo l’ignoranza e possiede la stessa chiara saggezza.
I dieci bhumi corrispondono alla pratica delle dieci perfezioni.
I primi sei bhumi si riferiscono alle sei perfezioni: il primo alla generosità, il
secondo all’etica, il terzo alla pazienza, il quarto alla perseveranza entusiastica, il
quinto alla concentrazione, il sesto alla saggezza.
I restanti quattro bhumi sono perfezionamenti del sesto e, precisamente: il settimo
corrisponde al potere, l’ottavo al potere della preghiera o dell’aspirazione, il nono alla
perfezione del metodo o dei mezzi abili, il decimo alla perfezione della chiara visione.
Con il decimo bhumi si giunge alla meditazione simile al vajra, il diamante.
“Quindi, Shariputra, poiché i Bodhisattva non hanno ottenimenti, si basano e
dimorano nella perfezione della saggezza”.
Il Quinto Sentiero, dell’Illuminazione

La meditazione simile al diamante prosegue fino alla realizzazione


dell’illuminazione, ecco dunque il quinto sentiero, quello dell’illuminazione, descritto
nelle frasi: “Non avendo oscuramenti nelle loro menti, essi non hanno paura, ed essendo
andati totalmente oltre l’errore, essi raggiungono la meta finale: il nirvana. Tutti i Buddha
che dimorano nei tre tempi hanno ottenuto il pieno risveglio dell’insuperabile, perfetta
illuminazione, basandosi su questa profonda perfezione della saggezza.”
Il praticante che ha realizzato i sentieri dell’accumulazione, della preparazione,
della visione e della meditazione attraverso i dieci bhumi ha eliminato gli ostacoli della
mente e raggiunto uno stato in cui non vi è più paura né sofferenza, lo stato
dell’illuminazione.
Il cammino, descritto nel Sutra del Cuore è quello percorso da tutti i Buddha dei
tre tempi, del passato, del presente e del futuro.
Non ci si sofferma particolarmente sulla descrizione delle qualità
dell’illuminazione perché è evidente che esse sono tutte quelle realizzate attraverso
l’acquisizione dei diversi sentieri e che, portate alla perfezione, sono le qualità di un
Buddha, già trattate in altri testi quali “I dieci tipi di potere” e “Le quattro assenze di
paura”. E’ ancora necessario ricordare che esistono principalmente due ostacoli da
superare: uno è l’ostacolo alla liberazione dai difetti mentali, dalle afflizioni mentali e
l’altro è l’ostacolo che si oppone alla mente onnisciente. Il Bodhisattva che raggiunge
l’ottavo bhumi elimina completamente l’ostacolo alla liberazione dalle afflizioni
mentali e quando raggiunge lo stato dell’illuminazione elimina completamente
l’ostacolo alla mente onnisciente.
Questi sono gli stadi del percorso mahayana del Bodhisattva, i cinque sentieri che
un praticante mahayana del lignaggio dei Bodhisattva intraprende per realizzare lo
stato dell’illuminazione. In questo contesto si descrive la via del meditatore che entra,
sin dall’inizio, nel sentiero mahayana dei Bodhisattva e, attraversando tutti i suoi
livelli, realizza l’illuminazione completa, ma non si parla affatto del meditatore che,
seguendo un altro percorso, procede dalla meditazione degli uditori, Sravaka, alla
meditazione dei Pratyeka, e dunque diventa un Bodhisattva. E’ necessario conoscere
chiaramente questa distinzione, altrimenti ci si confonde e sorgono i problemi.
Nella lingua tibetana, quando, alla lettera tibetana “ka” si aggiunge, sopra, il
segno “ra” e, sotto, il segno “u” si pronuncia “ku” che significa rubare; se invece, alla
lettera “sa” si affiancano i segni “ka” e “u”, si pronuncia ugualmente “ku” ma ha un
significato onorifico per indicare la sacralità di un elemento. E, ancora, la lettera “la” e
“ka”con la “u” sotto, si pronuncia ugualmente “ku” ed è la prima delle due sillabe “Ku
pha” che significa persona stolta, fuori di senno. Ciò dimostra che cose apparentemente
uguali possono avere significati completamente diversi, per questo i tibetani
raccomandano, con un proverbio: “Non confondere “ra” “la” e “sa” perché farai confusione,
finirai col dire che Buddha è un ladro, che Buddha è privo di senno, o, viceversa, che il ladro è
Buddha.”
Dobbiamo essere attenti e distinguere chiaramente le situazioni dei differenti tipi
di Bodhisattva, comprendere che derivano dalle molte possibilità offerte per il
raggiungimento dell’obiettivo. Ognuno deve seguire la propria propensione, sapere
qual’è il cammino a lui più consono. C’è chi entra immediatamente nel sentiero
mahayana, chi invece sceglie il percorso dei Pratyekabuddha, e altri ancora possono,
giunti a metà del cammino del sentiero dei Pratyekabuddha o degli Sravaka, decidere
di cambiare entrando nel sentiero mahayana. Esistono diversi modi per diventare
Bodhisattva che possono essere applicati a tutti i sentieri, hanno lo stesso nome ma si
rivolgono a realtà differenti e a individui differenti e non devono essere confusi gli uni
con gli altri.
Mantra della Perfezione della Saggezza

Il testo ora presenta il Mantra:


“Quindi, si dovrebbe sapere che è il mantra della perfezione della saggezza”
Il termine “Mantra”significa protezione della mente, quindi nel momento in cui si
riceve, si ascolta, si recita o si riflette su un mantra si sta utilizzando un metodo per
proteggere la mente.
Questo mantra è stato ispirato dal Buddha, rivolto da Avalokitesvara a
Shariputra. Attenzione però a non confondersi riferendosi ad Avalokitesvara che può
essere il Bikshu Avalokitesvara, oppure il Bodhisattva Avalokitesvara, o il Buddha
Avalokitesvara.
Stessa accortezza la si deve avere con Maitreya, non necessariamente ci si rivolge
al Buddha Maitreya, ci si può riferire anche al re Maitreya, al Bodhisattva Maitreya, al
bikshu Maitreya, sono realtà diverse.
Domanda: Sono individui diversi o sono fasi diverse nel cammino dell’illuminazione?
Lama: Sono manifestazioni differenti, una è un Buddha e ha lo stato di Buddha, una
è un Bodhisattva e ha lo stato di Bodhisattva e un’altra è un Bikshu e ha lo
stato di un monaco completamente ordinato.
Il mantra della perfezione della saggezza è una protezione della mente, è:
• “il Mantra della Grande Conoscenza”, che può superare l’ignoranza;
• “il Mantra Supremo”, che può eliminare ogni sofferenza;
• “il Mantra Uguale a ciò che non ha Uguale”, grazie al quale si realizza lo stato
dell’illuminazione, quindi non paragonabile a nulla;
• “il Mantra che fa Tacere tutte le Sofferenze – è Vero perché non è ingannevole”,
attraverso la sua pratica si possono pacificare tutte le sofferenze.
Recita il mantra della perfezione della saggezza:
TADYATHA GATE’ GATE’ PARAGATE’ PARASAMGATE’ BODHI SVAHA
In italiano:
ƒ TADYATHA potrebbe essere tradotto con “Eccolo!”;
ƒ GATE’ significa “andare”, è un’esortazione a se stessi, “vai!”. Il primo GATE’
indica il sentiero dell’accumulazione, il secondo GATE’ il sentiero della
preparazione;
ƒ PARAGATE’ indica il sentiero della visione;
ƒ PARASAMGATE’ indica il sentiero della meditazione;
ƒ BODHI indica il sentiero del non più apprendimento che è lo stato
dell’illuminazione;
ƒ SVAHA significa dimorare nella mente, è un’esortazione a stabilizzare nella
mente tutte le realizzazioni raggiunte.
Segue il consiglio di Avalokitesvara a Shariputra:
“Shariputra, così i Bodhisattva mahasattva dovrebbero addestrarsi alla profonda
perfezione della saggezza”.
Il Buddha, che era in profondo stato meditativo, ne esce e approva quanto era
successo: il Bhagavan si svegliò dal suo assorbimento meditativo e lodò l’arya
Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, dicendo che era eccellente.
“Eccellente! Eccellente! Figlio del lignaggio dei Bodhisattva, è proprio così; dovrebbe
essere così. Bisogna praticare la profonda perfezione della saggezza proprio così come hai
rivelato. Perciò anche i Tathagata se ne rallegreranno”.
Il Buddha ha voluto precisare che, non solo lui si rallegrava per questo dialogo,
ma che tutti i Buddha dei tre tempi ne erano felici. Nel commentario infatti si sottolinea
che l’aggettivo “eccellente” ripetuto due volte è rivolto, il primo alla domanda di
Shariputra e il secondo alla risposta di Avalokitesvara.
Conclude:
“Come il Bhagavan pronunciò queste parole, il venerabile bikshu Shariputra, l’arya
Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, insieme all’intera assemblea, inclusi i mondi
degli dei, degli umani, degli asura e dei gandharva, tutti gioirono e lodarono ciò che il
Bhagavan aveva detto”.
In uno dei commentari si specifica che l’intera assemblea, inclusi il mondo degli
dei, degli umani, degli asura e dei gandharva gioirono con ammirazione per quello che
il Bhagavan aveva detto e in quella occasione promisero di praticare.
Così si conclude il Sutra Mahayana conosciuto come “la Signora delle Conquiste,
il Cuore della Perfezione della Saggezza”; fu tradotto per la prima volta dal sanscrito
dall’abate indiano Vimalamitra con il maestro traduttore tibetano, venerabile Rinchen-
de. In un secondo momento la traduzione venne esaminata e resa ufficiale dai maestri
traduttori, dagli editori Gelo e Namka e da altri ancora. In tutto il Tibet se ne utilizzava
un’unica versione e, sebbene i traduttori tibetani fossero esperti nella lingua sanscrita,
avevano l’obbligo deontologico di confrontare sempre il loro lavoro con i maestri
indiani, in questo modo si voleva garantire la maggior fedeltà possibile al testo
originale.
Ho cercato di fare del mio meglio per commentare il Sutra del Cuore, pur
dovendo semplificare e sintetizzare il più possibile, è stata un’esposizione brevissima,
utile però per poter comprendere la propria attitudine mentale e valutare qual’è il
sentiero più consono. Esistono vari commentari a questo testo e sarebbe opportuno
leggerli. Nel Sutra del Cuore è contenuto l’intero insegnamento del Buddhadharma. E’
breve, conciso, ma estremamente chiaro e profondo.
Domanda: il Buddha ci ha offerto una possibilità per giungere alla cessazione della
sofferenza, però pare che non ci sia una spiegazione su come sia sorta la
sofferenza, quali cause e condizioni sono intervenute, visto che nel Sutra del
Cuore si dice che i fenomeni non sono nati, vorrei avere maggior chiarezza
su questo punto. Perché mi trovo in questa situazione di sofferenza se cause
e condizioni non sono nate?
Lama: “Intrinsecamente non-nato” significa che è nato in dipendenza da cause e
condizioni che determineranno inevitabilmente degli effetti, dei risultati,
dando così inizio ad un ciclo che si ripete all’infinito. Queste stesse cause e
condizioni, che pur esistono e funzionano, non sono intrinseche, non sono
indipendenti. Il loro contesto è la Vacuità e quindi tutto ciò che chiamiamo
sofferenza, difficoltà, problema è avvertito e vissuto come tale ma
intrinsecamente non lo è. Sebbene sofferenza, difficoltà e problemi appaiano
reali, nello spirito della Vacuità non lo sono.
Si presentano come veri problemi perché li osserviamo con la falsa visione di un
sé intrinsecamente esistente, di una sofferenza intrinsecamente esistente, di una
liberazione intrinsecamente esistente, e, poiché abbiamo radicata l’idea
dell’intrinsecamente esistente, basata sul sé, il fenomeno appare come problema. Se lo
stesso fosse osservato nella Vacuità sarebbe vissuto così com’è nella realtà, vacuo,
vuoto di natura intrinseca.
Domanda: Questo sutra sintetizza il percorso del lignaggio dei Bodhisattva, esiste
qualcosa di analogo per gli altri lignaggi?
Lama: Il sentiero è esattamente lo stesso, fino all’ottavo bhumi corrispondente alla
liberazione di un Arhat; la differenza consiste nell’obiettivo primario da
sviluppare, nel sentiero del Bodhisattva troveremo la compassione, la
Bodhicitta, in quello degli Sravaka e dei Pratyekabuddha la rinuncia. Il
sentiero è unico, infatti le trentasette pratiche sono uguali.
Il Bodhisattva studia, attua e tramanda tutti i sentieri. Il Bodhisattva pratica
tutti i sentieri dello Sravaka e del Pratyekabuddha. Tutti i sentieri sono
inclusi nel Sutra del Cuore che enfatizza l’aspetto della saggezza. La
saggezza è la stessa, la natura di Buddha è la stessa, ciò che cambia è il
metodo.
Domanda: I siddhi, cioè i poteri della mente, si manifestano in connessione con la
realizzazione dei bhumi o ne sono indipendenti, e quando si manifestano?
Lama: Ci sono siddhi intesi come realizzazioni spirituali, quindi materializzazione
delle stesse, sono di due tipi: uno si riferisce ai siddhi comuni ed è relativo
alla realizzazione, tramite la pratica spirituale, delle necessità materiali, il
secondo invece riguarda i siddhi non comuni, straordinari, considerati in
genere i veri siddhi, essi perseguono unicamente la realizzazione del
sentiero spirituale.
Domanda: I fenomeni come la trasmissione del pensiero a distanza, l’ubiquità,
rientrano nei siddhi straordinari o no?
Lama: Sono illusioni in ogni caso, qualsiasi tipo di fenomeno non varca il limite della
legge naturale dell’interdipendenza. Nemmeno Buddha può superare
questo limite. Il maestro Chandrakirti, che ha scritto il testo del
“Madhyamakavatara”, “La via di mezzo”, descrive con grande precisione e
dettagliatamente i dieci bhumi e le dieci perfezioni e afferma che un
individuo accumula il proprio karma e questo può essere ovviamente
vissuto solo da lui, come potrebbe essere goduto da altri? Bisogna essere
molto cauti e non cadere in facili illusioni fuorvianti. Se fosse così facile
trasmettere il pensiero allora il Buddha avrebbe trasmesso l’illuminazione a
tutti e subito, invece ognuno può procedere secondo il proprio bagaglio
personale, non ci sono scorciatoie, lo deve affrontare e risolvere, nessun altro
può farlo al posto suo.
Domanda: Però il Sutra del Cuore è stato trasmesso all’assemblea mentalmente, non
verbalmente.
Lama: Più che trasmesso è stato ispirato ad un’assemblea di grandi meditatori, vi era
una forte intenzionalità, fattore che ha il potere di muovere, sollecitare,
spingere ad agire.
Domanda: Non ricordo dove, ma mi pare di aver sentito spiegare la Vacuità con la
metafora del sogno, paragonando la vita ad un sogno in cui non vi è nulla di
concreto. Noi possiamo riconoscere il sogno e definirlo quando ritorniamo
ad uno stato di veglia. Quindi, usando questa metafora, è tutto veramente
Vacuità, o c’è un punto in cui la Vacuità non è più tale, come il sogno non lo
è nella veglia? La natura di Buddha è Vacuità?
Lama: La natura di Buddha è la Vacuità più importante. La Vacuità è Vacuità.
Domanda: Ma allora che senso ha tutto? Se io sono completamente all’interno di
fenomeni vuoti, della Vacuità, quando mi cade un mattone in testa, il
mattone, la mia testa, la mia sofferenza saranno vacui, tuttavia io soffro e che
sia tutto vacuo o no non me ne importa nulla. Sarebbe diverso e cambierebbe
qualcosa nel momento in cui vi fosse altro al di fuori della Vacuità a cui
poter far riferimento, ma se sono sempre in essa cosa cambia per me?
Lama: Chandrakirti, nel “Madhyamakavatara” dice che vi sono due realtà, la
convenzionale e l’ultima. La realtà convenzionale, che è il senso comune, è il
mezzo attraverso il quale è possibile realizzare la realtà ultima, la Vacuità.
Chandrakirti conferma la visione di Nagarjuna che, portando rispetto e
lodando il senso comune, raccomanda al meditatore di non perderlo mai di
vista. Nagarjuna sottolinea inoltre che il praticante che perde il senso
comune perde anche la possibilità di raggiungere il Nirvana. Le due realtà,
le due verità, hanno un unico significato. Più convincimento c’è nella
Vacuità, più rispetto ci sarà per il senso comune. Il senso comune, la realtà
convenzionale, rispecchia la realtà dell’interdipendenza. In Italia si guida a
destra, in Inghilterra a sinistra, questo risponde al senso comune, non vi è
bene o male, giusto o sbagliato nell’una o nell’altra modalità di circolazione,
entrambe sono corrette nell’ambito della cultura e delle convenzioni locali,
entrambe sono intrinsecamente vuote, perciò nessuna è intrinsecamente
giusta o sbagliata. In Italia è sbagliato guidare a sinistra, ma non è
intrinsecamente sbagliato in sé, perché lo stesso atto è giusto in Inghilterra. Il
senso comune, la realtà convenzionale, ha un’esistenza relativa, basata sulle
convenzioni di cause e condizioni, dimostra che non ha esistenza inerente
confermando la sua natura di Vacuità. La realtà convenzionale è il metodo
per raggiungere la realtà ultima.
Domanda: Vedere il senso comune come relativo può essere di grande aiuto perché a
volte basta spostare il punto di vista, non solidificando situazioni di
sofferenza, per intuire che vi sono altre possibilità per risolvere al meglio i
problemi.
Lama: E’ vero, avendo presente la visione della Vacuità si è più flessibili
nell’osservazione della realtà convenzionale. L’accoglienza ampia delle
convenzioni porta alla comprensione maggiore della realtà ultima, entrambe
interagiscono aiutandosi vicendevolmente. Il percorso consiste nel realizzare
la realtà ultima senza contraddire la realtà convenzionale.

Grazie, abbiamo trascorso un tempo eccellente insieme.

L’ insegnamento si conclude con la recita della preghiera di dedica dei meriti.

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