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Parte II
Siamo riuniti oggi per parlare dell’approccio Buddhista ad una vita significativa
in pace e armonia che, generalmente, sottintende la necessità di trasformare
radicalmente il proprio modo di pensare.
Non è necessario diventare Buddhisti per seguire questo percorso benefico per
chiunque, pertanto questi due giorni non saranno di pratica devozionale Buddhista ma
di studio, di insegnamento, di pausa e di riflessione meditativa. Non è nemmeno
necessario esercitare uno sforzo eccessivo per comprendere le spiegazioni, non sarebbe
un metodo corretto, ma semplicemente aprirci ad un atteggiamento mentale disteso,
rilassato, sereno. Un tempo che dovrebbe essere dedicato alla “ricarica” delle energie
fisiche e mentali perdute durante una faticosa settimana di lavoro e di tensioni. La vita
moderna è strutturata in modo tale che, senza esserne consapevoli, per farvi fronte
spendiamo una quantità enorme di energia che necessariamente deve essere recuperata
in un rinnovamento fisico e spirituale atto a ristabilire il giusto equilibrio. Il riposo
indubbiamente favorisce un’immediata ripresa fisica, ma non è sufficiente, infatti l’
energia vitale deve essere riacquisita soprattutto sul piano mentale e spirituale; la vera
forza è l’energia interiore. Per questo è necessario imparare ad abbandonarsi ad uno
stato di rilassata consapevolezza sul piano fisico e psichico, in modo da poter
mantenere la chiarezza mentale e la capacità di vedere e comprendere il cammino
spirituale da percorrere. Questo è lo scopo primario del nostro incontro.
Un secondo scopo è imparare ad economizzare e ottimizzare nel quotidiano le
proprie energie, di cui si deve avere particolare cura. E’ evidente a tutti come,
soprattutto nelle società industrializzate, si viva convulsamente, bombardati da doveri
e stimoli di ogni genere, con un conseguente abnorme spreco di energie, anche soltanto
per garantire minimi parametri di vita, dunque sarebbe opportuno fermarsi
domandandosi se sia davvero necessario lo sperpero di tutto il patrimonio energetico
per ottenere un risultato in fondo scarso. Non sarebbe più oculato risparmiarne un po’?
E’ possibile imparare a rilassarsi profondamente, interiormente, dando il giusto valore
alle cose e spendendo per le stesse il minimo di energia necessario, altrimenti è un bel
guaio rischieremmo di lavorare molto, spendere tutta l’energia e, oltrettutto,
guadagnando poco! (risata, è evidente lo scherzo.)
Un terzo obiettivo è l’aspetto religioso, la propria realizzazione spirituale, lo
sviluppo delle qualità interiori di conoscenza, comprensione, compassione e saggezza.
Parallelamente all’approfondimento di queste capacità matura in noi la “felicità”.
Il termine “felicità” si presta a svariate interpretazioni, esiste una felicità di breve
durata - temporanea, una felicità più durevole nel tempo - di lunga durata e, infine,
una felicità definitiva - che non cessa mai ed è relativa alla spiritualità. Per un
Buddhista la felicità definitiva è il Nirvana, per un Cristiano è il Paradiso, ma
comunque la si voglia chiamare, è un aspetto della natura della mente.
La felicità definitiva è una qualità essenziale della mente umana e il giusto
cammino è quello che, passo dopo passo, conduce alla sua realizzazione.
Il Paradiso, come il Nirvana, non rappresenta un luogo fisico ma una realtà che
deve essere sperimentata; se fosse solo un aspetto di Dio e noi non potessimo
sperimentarlo, di fatto per noi non esisterebbe; è una qualità della nostra mente perché
la nostra mente può sperimentarlo.
La felicità definitiva è sperimentata, vissuta dalla mente umana, è insita nella
mente umana, è una qualità della mente. I Buddhisti parlano di “mente”, di
“coscienza”, i Cristiani di “anima” ma, comunque la si voglia definire, è questa essenza
o capacità della natura umana che sperimenta la felicità definitiva. Non soltanto Dio,
ma anche l’uomo ne è pienamente partecipe.
La nostra coscienza non solo ha la capacità, ma addirittura il talento, di ottenere la
felicità, può demolire completamente le barriere della confusione, delle difficoltà e dei
problemi. In sintesi gli obiettivi di questo incontro sono:
1. Imparare a rilassarsi, sia fisicamente che mentalmente;
2. Acquisire una conoscenza che porti ad una maggior saggezza nell’utilizzo
oculato della propria energia;
3. Ottenere tutti gli elementi per raggiungere e sperimentare, passo dopo passo,
la felicità definitiva, completa, piena.
Tre passaggi strettamente correlati tra loro e dipendenti uno dall’altro, infatti con
l’apprendimento della pacificazione, del rimanere tranquilli, sereni, rilassati, si
acquisisce una conoscenza profonda della vita, una maggior comprensione delle
diverse situazioni, si matura la necessaria saggezza per affrontare i vari aspetti
dell’esistenza e si utilizza in modo equilibrato la propria energia senza sprechi nocivi.
Questa saggezza consente lo sviluppo delle proprie capacità, necessarie all’ottenimento
della pace duratura.
E’ importante riconoscere con chiarezza il collegamento sequenziale dei tre
momenti che conducono alla realizzazione della felicità completa; osservare come essi
non siano tra loro contradditori ma strettamente connessi.
Ogni realtà è correlata!
A volte si pensa di dover compiere determinate azioni che avranno un beneficio
nel futuro e ci si concentra esclusivamente su questa proiezione perdendo di vista il
momento presente oppure, al contrario, si è totalmente immedesimati in una
particolare azione del presente dimenticando completamente la visione della realtà
complessiva, dei risultati che questa azione avrà nel futuro. In entrambe le situazioni
tutto diventa pesante e complesso; la stessa pratica del Dharma, se si è perduta la
visione serena dell’insieme, è gravosa e sterile mentre nella sequenzialità del cammino
e nella visione d’insieme, la pratica spirituale è leggera, è vera gioia.
Si deve procedere passo dopo passo, non si possono saltare le tappe obbligate
dell’esistenza. Non si può vivere completamente nel futuro ignorando il presente come
se non esistesse, e non si può vivere esclusivamente il momento presente ignorandone
le inevitabili ricadute nel futuro.
Se non abbiamo la capacità di realizzare pace, serenità, rilassamento e distensione
nel presente che stiamo vivendo come potremmo presumere che tutto questo possa
avvenire, quasi per magia, in un momento successivo, nel futuro? E’ impossibile,
questo non si verificherà.
Il raggiungimento del Nirvana inizia ora, parte dal momento presente e, passo
dopo passo, gradino per gradino, si realizza.
Qual’è il modo migliore per seguire il percorso graduale? Nella letteratura
Buddhista vi è una considerevole abbondanza e varietà di metodi e ognuno può essere
di immenso beneficio e aiuto, indipendentemente dalla scelta individuale di aderire o
meno ad un determinato percorso religioso e spirituale. Sono strumenti validi per tutti
e non è assolutamente necessario professare una religione, qualsiasi essa sia. Ciò
ovviamente non significa che i percorsi religiosi, le varie confessioni spirituali siano
inutili, ci sono persone che attraverso l’adesione formale a una religione si sentono
maggiormente a proprio agio, facilitati nel percorso e quindi positivamente vi
aderiscono, ma deve essere chiaro che questi metodi sono altrettanto validi anche per
persone non religiose.
Suprema Sostanza degli Alchimisti
Negli incontri Buddhisti, prima di iniziare una qualsiasi attività, sia studio,
meditazione o preghiera, si pone una giusta enfasi sulla “motivazione appropriata”, ci
si sofferma a riflettere sullo scopo che si vuole ottenere e si formula verbalmente
l’intenzione; penso che questo atto sia davvero importante, un’esperienza profonda e
commovente.
Generare la giusta motivazione è come entrare nel proprio cuore, scavare nelle
profondità, smuovere le emozioni, i sentimenti più intimi, in particolare i sentimenti
più veri verso gli altri.
Generare la motivazione è sperimentare, verificare la reazione emotiva, personale,
intima verso ciò che concerne il rapporto con gli altri, i loro sentimenti, i loro problemi,
le loro sofferenze, le loro difficoltà. Il far emergere le proprie reazioni con umiltà
sviluppa automaticamente l’impulso altruistico, il desiderio di eliminare la sofferenza
dall’esistenza altrui; si genera l’attitudine naturale al buon cuore, che è la parte migliore
di noi. La gioia che accompagna sempre il buon cuore è veramente preziosa. Con una
pratica così semplice e così breve si sperimenta una gioia profonda da cui scaturiscono
relazioni significative e armoniose con gli altri. Una pratica così semplice ha il potere di
sconfiggere in se stessi ogni tristezza, sofferenza e preoccupazione.
Leggeremo alcuni versi dal testo di Santideva “BODHICARYAVATARA”
iniziando dal primo capitolo. Data la diversità nelle traduzioni dal sanscrito, al fine di
permettere una maggior comprensione, per ogni verso confronteremo sempre due
traduzioni, a) e b). Nel primo capitolo si tratta dei benefici della mente altruistica, del
buon cuore.
Non vi è dubbio che la qualità più preziosa dell’esistenza umana, del corpo
umano, in grado di trasformare e condurre all’illuminazione, sia l’attitudine mentale
altruistica.
La nostra mente può essere positiva solo se le attitudini mentali sono positive e le
stesse hanno il potere di influenzare lo stato fisico. Esistono fortissime connessioni,
ormai confermate dalla scienza, tra lo stato mentale e quello biologico. L’attitudine
mentale al buon cuore si trasforma, sul piano fisico, in benessere, armonia, equilibrio e
dunque in buona salute. E’ ormai dimostrato scientificamente che lo stato mentale
influenza e provoca mutazioni nello stato biochimico del corpo.
Nel testo di Santideva si parla di “Bodhicitta” usando più definizioni: mente
dell’illuminazione, o mente altruistica, o semplicemente buon cuore, ed è descritta
come elisir capace di trasformare il corpo umano, la natura impura, nella natura di un
Buddha, di un essere illuminato. Malgrado sia un testo antichissimo e affronti
l’argomento essenzialmente da un punto di vista spirituale, indica una verità naturale,
biologica che oggi la scienza, attraverso numerose ricerche e verifiche, conferma.
Lo sviluppo spirituale che determina un nuovo stato di coscienza influenza lo
stato biochimico del corpo producendone mutamenti conseguenti; per questo per i
Buddhisti è normale la manifestazione del “corpo di arcobaleno”; è una trasformazione
biochimica risultante da una completa realizzazione spirituale.
Il coltivare il buon cuore, essere in un’attitudine altruistica, positiva, influenza lo
stato del corpo, eliminando ogni stress, ogni affaticamento, permettendo di riposare
rilassati, sereni, gioiosi, equilibrati.
Se invece ci troviamo in uno stato mentale opposto al buon cuore, all’altruismo,
siamo totalmente in balia delle emozioni perturbatrici che nel Buddhismo sono
riconosciute come i veleni che contaminano la mente, obnubilano la coscienza, e che
genericamente vengono definiti “egoismo”, ma il termine filosofico appropriato è
“attitudine autogratificante” che sorge dalla visione errata del sé, come se esistesse un
sé indipendente, proprio, a sé stante, egocentrico. Da questa visione, frutto
dell’ignoranza, derivano due disposizioni mentali:
1) l’attaccamento, che sorge dalla tendenza ad enfatizzare l’aspetto piacevole delle
cose, ad esagerarne l’essenza, consolidando il forte attaccamento ad esse;
2) l’avversione, che sorge dalla tendenza ad enfatizzare gli aspetti spiacevoli delle
cose, esagerandone le dimensioni, consolidando così la forte repulsione ad esse.
Una mente dominata dalle emozioni perturbatrici mostra prepotentemente, in
primissimo piano, “l’IO”, e immediatamente dopo un altrettanto pesantissimo “MIO”.
Quando “l’io” incontra cose piacevoli nasce l’attaccamento che determina il “mio” ma,
se il “mio” è intaccato o “l’io” contraddetto, nasce all'istante l’avversione. In questa
altalena di «attaccamento - avversione» si consuma una quantità enorme di energia pur
restando immobili, bloccati nell’ignoranza, in un processo distruttivo che si
autoalimenta costantemente.
Invece preservare l’energia in modo da usufruirne sempre e senza fatica, significa
predisporsi ad attitudini mentali non offuscate dall’ignoranza.
Se limitiamo l’analisi di questo aspetto ad una speculazione puramente filosofica
potremmo avere difficoltà a comprenderne le reali implicazioni, ma se lo affrontiamo
dal punto di osservazione del quotidiano ripetersi di azioni, parole, pensieri, di
reazioni alle esperienze, la prospettiva diventa chiara e possiamo verificare, momento
per momento, come l’attitudine mentale altruistica o egoistica trasformi la vita, il
nostro modo di essere e sia causa diretta di gioia o di sofferenza.
Il libro del Dharma è in noi stessi e ciò che sperimentiamo nell’esistenza di ogni
giorno diventa la vera pratica, un cammino interiore che porta all’apertura del buon
cuore, alla compassione.
Ognuno di noi ha sperimentato direttamente gli effetti della rabbia e dell’egoismo,
percepiti in un devastante malessere mentale e fisico. Quando l’io e il mio si fanno
dominanti si sprofonda in un pesante obnubilamento mentale, nella depressione
psichica e fisica. Senza la pratica spirituale e lo sviluppo della mente altruistica, le
emozioni perturbatrici prendono il sopravvento sulla coscienza, ne sono i padroni e i
dominatori indiscussi.
Questo fa la differenza tra il praticante spirituale e la persona che non pratica.
Un praticante riconosce le proprie emozioni, la presenza ugualmente ingombrante
dell’io e del mio, ma non se ne lascia sopraffare, non permette che abbiano nessun tipo
di controllo e di forza sulla sua vita.
Gli stati mentali si manifestano per le più svariate e mutevoli ragioni, non si tratta
di decisioni volontariamente assunte, ma sono conseguenza di esperienze passate, di
abitudini, di eventi, di reazioni biochimiche dell’organismo, e di molti altri fattori
ancora. Quando a causa di uno qualsiasi di questi fattori ci ritroviamo in uno stato
mentale negativo, e ce ne lasciamo dominare, alimentiamo un ciclo negativo
estremamente doloroso che distrugge la pace e il benessere nostro e altrui. L’unico
portentoso antidoto in grado di fronteggiare le emozioni distruttive è la pratica della
pazienza che allarga il buon cuore.
Santideva non lascia adito a dubbi, un solo istante di buon cuore è superiore a
innumerevoli momenti di venerazione del Buddha e non intende un buon cuore
generico verso un tutto astratto, ma si riferisce al buon cuore rivolto a uno specifico
essere, attitudine che si trasforma in buon cuore verso tutti gli esseri nel momento
stesso in cui si manifesta.
Il buon cuore dona pacificazione, serenità, gioia a se stessi, equilibrio biochimico e
benessere fisico, gioiose relazioni con gli altri, amicizia, aiuto e armonia. La vita pare
molto più facile e il successo naturale.
Domanda: Non mi è chiaro come si possano controllare le proprie emozioni, perché è
così difficile acchiapparle, quando le avvertiamo hanno già preso il
sopravvento su di noi, le subiamo totalmente e poi, e questa è una seconda
domanda, vorrei capire come posso io, che sono a mia volta succube delle
emozioni, aiutare mia figlia quattordicenne che è completamente soggetta a
sbalzi d’umore, tristezza e rabbia.
Lama: Questo è un problema tipico della società odierna, grazie alla tecnologia
sofisticata tutto è talmente veloce da dover imporre alle nostre reazioni
altrettanta rapidità. Dovremmo avere una mente totalmente aperta, in
grado di comprendere quasi tutto e tanto vasta da saper dare un’infinità di
informazioni subito. Una volta si scriveva una lettera, la si ponderava e chi
la riceveva, prima di rispondere, aveva tempo di riflettere cercando i
concetti più adeguati; oggi con la posta elettronica la comunicazione è
immediata e tale deve essere la risposta. Il testo di Santideva contiene
consigli diretti e pratici che ci aiutano a sopravvivere in questo sistema
convulso. Oggi chi pratica il Buddhismo deve applicarsi moltissimo
attivando tutta l’intelligenza senza perdere mai di vista il Dharma. E’
necessario comprendere, interiorizzare ogni lettura, insegnamento, in modo
da essere sempre pronti a metterlo in pratica nel momento opportuno,
senza dover aspettare.
Per quanto riguarda tua figlia non puoi fare altro che consigliarla, starle
accanto in uno stato mentale rilassato, calmo, sereno e con molto amore. E’
difficile influenzare la mente di un’altra persona, ma si può influenzare il
suo cuore, perché l’energia spirituale si trasmette da cuore a cuore e non da
cervello a cervello.
Osservare e riconoscere il valore del buon cuore, della mente altruistica, i benefici
che ne derivano, favorisce lo sviluppo del buon cuore stesso e permette di vedere con
chiarezza tutti i difetti dell’avversione, della rabbia e della mancanza di compassione.
Avversione e attaccamento sono entrambi difetti mentali anche se si manifestano
in modo diverso.
L’attaccamento è rivolto all’oggetto che si ama e a prima vista potrebbe sembrare
un’attitudine protettiva, favorevole e vantaggiosa per se stessi, ma in realtà si tratta di
una visione distorta ed eccessiva che non può che condurre sempre e inevitabilmente
alla sofferenza. L’attitudine all’attaccamento è fondata sull’ignoranza, è estremistica,
non coerente alla realtà, frammentaria e parziale e crea instabilità e debolezza mentale,
cioè sofferenza.
L’avversione è l’attitudine che scaturisce dalla visione degli aspetti spiacevoli
delle cose che di conseguenza si vogliono evitare ed eliminare ad ogni costo.
Dall’avversione può nascere la collera, come risposta estrema ad un oggetto tanto
spiacevole da dover essere cancellato.
La rabbia è aggressiva e produce odio.
Quando la rabbia insorge, per quanto potente sia, in genere ha una durata
limitata, spesso breve, l’odio invece si radica profondamente nel cuore e vi permane
dando origine al desiderio di vendetta. Se la rabbia può condurre ad azioni
sconsiderate dalle tristi conseguenze, l’odio ha effetti ben più drammatici e provoca la
più devastante autodistruzione.
L’antidoto alla rabbia è la pazienza. Se qualcosa è sgradito non è necessario
distruggerlo, è invece assai produttivo imparare ad accoglierlo con pazienza,
un’impresa forse difficile ma non impossibile. Con la pazienza si apprende il perdono,
fondamentale pilastro nella crescita spirituale, anche nel cristianesimo si ribadisce con
forza lo stesso principio. Ho provato una sincera commozione e rispetto verso il Papa
che, ferito, ha perdonato con cuore aperto l’attentatore, è andato a trovarlo in carcere,
ha intercesso per lui presso l’autorità giudiziaria chiedendo clemenza, ha compiuto un
gesto di grande valore spirituale.
Perdonare allevia le proprie tensioni e quelle degli altri, porta pace, serenità e
autentica gioia perché libera il cuore dai macigni che l’opprimono e, con gioiosa
leggerezza, induce ad accorrere in aiuto degli altri desiderando per loro lo stesso bene.
Questa è la pratica spirituale.
Il Corpo influenza la Mente e la Mente influenza il Corpo
L’avversione e l’attaccamento nelle relazioni con gli altri possono sorgere, non
solo per cause mentali, ma anche per cause fisiche dipendenti da fattori biochimici,
tempeste elettromagnetiche, ecc. quindi, avvalendosi delle conoscenze filosofiche,
spirituali e scientifiche, è più facile affrontare con pazienza ogni situazione.
Il corpo influenza la mente e la mente influenza il corpo, la visione equilibrata dei
due aspetti può già di per sé ridurre notevolmente ogni tensione e negatività e non si
deve mai commettere l’errore di sottovalutare questo duplice aspetto perché se, di
fronte al sorgere di avversione o attaccamento con sentimenti forti quali rabbia o
amore, si osserva il fenomeno solo dal punto vista filosofico, questo può sembrare
astratto, non rispondente all’effettiva esperienza, quindi lontano, ma se si unisce a
questa conoscenza l’informazione che la scienza offre, osservando il processo
fisiologico e biochimico, si comprende il fenomeno nella sua globalità ed più facile
attivare gli antidoti necessari.
Già nell’antico Tibet, la visione unilaterale della realtà è stata causa di un
fraintendimento, si pensava: “La pratica spirituale porta all’illuminazione, quindi, poiché
l’illuminazione è il compimento di tutto, si è liberi da ogni altro condizionamento.”, verissimo,
affermazione perfetta in sé, però fino a quando non si raggiunge l’illuminazione i
condizionamenti esistono, eccome! e non si possono ignorare. Noi siamo condizionati
dal nostro corpo, quindi per contrastare le attitudini mentali derivanti dall’ignoranza di
avversione e attaccamento, dobbiamo applicare i rimedi che la pratica spirituale indica,
sapendo che siamo in questo corpo e che lo stesso interagisce attivamente con i processi
mentali.
Dal secondo capitolo del Bodhicaryavatara si possono trarre alcuni importanti
consigli diretti e immediati. La tendenza onnipresente è sempre quella di procrastinare,
invece è più che mai necessario oggi poter applicare con forza e subito il rimedio
opportuno.
b) “Come posso sfuggirgli? Salvatemi in fretta perché la morte verrà presto, prima che il mio
male sarà stato distrutto!
Questa morte non bada a ciò che è fatto o non fatto; uccide la sicurezza; è inaffidabile per
i malati e i sani; è un fulmine inaspettato.
Il male ho compiuto in molti modi spinto da amici e nemici. Non capivo questo: Dovrò
abbandonare tutto e andarmene.”
a) “I miei nemici alla fine cesseranno di esistere, i miei amici e io stesso cesseremo di
esistere, allo stesso modo tutto il resto svanirà nel nulla.
Tutto ciò che possiedo e utilizzo è come la fugace visione di un sogno; qualsiasi cosa di
cui ora godo diventerà un ricordo.”
b) “Quelli che detesto moriranno, quelli che amo moriranno; anch’io morirò e tutti moriranno.
Ogni cosa percepita trascolora in ricordo. Ogni cosa è come immagine in sogno. Se ne è
andata e non si vedrà più.”
Sono versi potenti. Qual’è il motivo di una così forte avversione o di tanto avido
attaccamento se tutto finisce? Attaccamento e avversione sono inutili e causano soltanto
tensioni, fatica, problemi e uno spropositato spreco di energia.
b) “Mi rallegro con gioia del bene fatto da tutti gli esseri, che indebolisce la sofferenza
dell’inferno. Possano, coloro che soffrono, dimorare nella felicità.
Mi rallegro della liberazione degli esseri incarnati dalla sofferenza dell’esistenza ciclica. Mi
rallegro della natura di Bodhisattva e di Buddha propria dei Salvatori.
Mi rallegro anche delle risoluzioni dei Maestri, che sono oceani recanti felicità a ogni
essere, che conferiscono benessere a tutte le creature.”
Ecco una consolazione: tutto è impermanente, c’è molta sofferenza, ma c’è anche
gioia e allegria, si tratta soltanto di coltivare l’attitudine a rallegrarsi delle positività e
delle qualità degli altri, di tutti, indiscriminatamente, perché anche le persone
all’apparenza antipatiche possiedono virtù e ricchezze interiori.
Rallegrarsi dei meriti altrui è un buon metodo per espandere i propri; è il rimedio
alla sofferenza causata da invidia e gelosia, attitudini di una mente limitata e gretta che,
invece di gioire con gli altri per le loro virtù, preferisce macerarsi nella sofferenza,
chiudersi ad ogni relazione umana e costruire pesanti e brutti muri difensivi. Questo è
veramente insensato e ridicolo. Di questo passo la piccola mente sarà gelosa e invidiosa
anche del Buddha e persino di Dio!…
Domanda: Come posso riconoscere delle buone qualità in una persona estrema come
Hitler?
Lama: Non è la persona ad esser “estrema” ma lo è la sua attitudine di avversione e
odio. La persona è come tutti gli altri, desidererebbe essere felice, vorrebbe
evitare la sofferenza ma, dominata dall’attitudine estrema di rabbia e odio,
perde completamente questa opportunità e i danni nei confronti di se stesso
e degli altri sono tremendi. Hitler se avesse voluto avrebbe potuto
trasformare la sua attitudine negativa ed essere una persona buona e anche
felice.
Domanda: Non è sempre facile gioire delle positività altrui, vorrei quindi capire se lo si
deve applicare come antidoto alla gelosia e all’invidia, oppure se c’è una
motivazione più profonda, cioè se si deve gioire perché questa virtù, che io
non posseggo ma è posseduta da altri, è comunque una qualità della
mente?
Lama: I motivi sono tanti. Gioire delle qualità degli altri, e quindi abbattere la propria
invidia e gelosia, fa si che nel contempo si costruisca la propria gioia ed è
già un’ottima ragione di per sé.
Se ci si può arrabbiare per i difetti degli altri, perché allo stesso modo non
rallegrarsi delle loro virtù? E’ semplice rispetto degli altri, riconoscimento
del loro valore, delle qualità della mente. I benefici che ne derivano sono
evidenti: volete paragonare il beneficio immediato che si ottiene
nell’apprezzare con gioia le virtù altrui rispetto allo svantaggio
dell’arrabbiarsi per i loro difetti? Non c’è paragone! La risposta corretta ai
difetti degli altri non è avversione e rabbia, bensì compassione, e la risposta
corretta alle loro virtù è allegria e sincera gioia.
Avversione e rabbia causano in noi stessi e negli altri solo conflittualità e
sofferenza, mentre compassione per i difetti e gioia per le virtù altrui
portano pacificazione, annullamento di ogni possibile tensione, relazioni
armoniose, preziose amicizie, arricchimento interiore.
b) “Che facciano di me qualsiasi cosa dia loro piacere. Che non si nuoccia mai ad alcuno per
causa mia.”
Domanda: Sono perplessa sul “..che essi facciano di me tutto ciò che desiderano…”, ci sono
limiti oggettivi, credo, che non possono essere superati, anche per impedire
agli altri di fare del male a me e a loro stessi. Non è meglio mettere dei
freni, delle barriere?
Lama: Dipende, nel versetto appena letto chi osserva la realtà ha la visione elevata
del Bodhisattva, tutto si radica nell’attitudine altruistica e le barriere che si
pongono dipendono dal grado di realizzazione del praticante spirituale.
Coloro che hanno un’alta realizzazione non possono essere veramente
danneggiati. Nella seconda parte del versetto si aggiunge: “Ogni qualvolta
qualcuno mi incontrerà possa ciò essere unicamente di beneficio per tutti”, con
quest’attitudine il praticante diventa come pianta medicinale, in grado di
portare beneficio anche se l’atteggiamento mentale dell’altro è negativo.
Nel testo di Santideva è evidente come gli altri, il loro benessere, siano il vero
obiettivo, il centro della pratica, quindi in nessun caso potrebbero diventare motivo di
avversione e di rabbia.
b “Non importa se mi tireranno fuori le budella! Che la mia testa cada pure! Ma mai mi
inchinerò di fronte al nemico, le contaminazioni!
Anche se esiliato, un nemico può trovare seguito e appoggio in un altro paese, e di lì
ritornare dopo aver ripreso forza. Ma non ha una risorsa simile questo nemico, le
contaminazioni.
Stabilito nella mia mente, dove potrebbe andare una volta scacciato? Dove potrebbe stare
per lavorare alla mia distruzione? Non mi sforzo solo perché la mia mente è ottusa. Le
contaminazioni sono deboli creature da sottomettere con la luce abbagliante della sapienza.
Le contaminazioni non dimorano negli oggetti, né nell’insieme dei sensi, né nello spazio
intermedio. Non possono dimorare in nessun altro luogo, e tuttavia sconvolgono l’intero
universo. Questa non è altro che illusione! Dunque , o cuore, liberati dalla paura, dedicati
alla ricerca della sapienza. Perché, senza bisogno alcuno, ti tormenti negli inferni?”
b) “Chi forgiò con tanta cura le armi dell’inferno? Chi creò il pavimento di ferro rovente? E chi
generò quelle sirene?
Tutte quante le cose sorgono dalla mente malvagia , cantò il Saggio. Così nei tre mondi non
c’è nulla di pericoloso se non la mente.”
L’inferno non è un luogo geografico individuabile fisicamente, è una proiezione
mentale disturbata. Santideva affronta in modo diretto e chiaro il problema; alla nostra
paura e ossessione dell’inferno risponde con una domanda/risposta: “Chi lo ha creato
con tutte le sue armi?” “La nostra mente, l’inferno è all’interno di essa”.
L’inferno è simile ai peggiori incubi che noi viviamo e soffriamo come se fossero
reali, eppure sono illusioni, creazioni della nostra mente.
Che fare dunque per vigilare con cura sulla nostra mente? Sviluppare la pratica
della pazienza! Santideva affronta l’argomento al:
b) “Quante persone malvagie, senza fine come il cielo, posso io uccidere? Ma quando
l’atteggiamento mentale dell’ira è ucciso, ucciso è ogni nemico.
Dov’è tanto cuoio da coprire il mondo intero? Il vasto mondo può essere coperto con il cuoio
che basta per un paio di scarpe soltanto.
Allo stesso modo, poiché non posso controllare gli eventi esterni, controllerò la mia mente.
E’ forse affar mio se le altre cose sono controllate? .”
b) “Questa adorazione dei Sugata, la generosità, la buona condotta osservata nel corso di
migliaia di eoni: l’odio distrugge tutto ciò.
Non c’è male eguale all’odio, non c’è pratica spirituale uguale alla pazienza. Perciò con vari
mezzi, con grande sforzo, si sviluppi la pazienza.”
b) “Persino coloro che si onora con doni e rispetto, e anche i propri dipendenti, bramano di
distruggere il padrone che è sfigurato dall’odio.
Anche gli amici rifuggono da lui. Egli dà, ma non è onorato. In breve, non c’è verso per cui
chi è incline alla rabbia sia ricco.
Chi comprende che l’odio è un nemico poiché crea simili sofferenze, e con ostinazione lo
colpisce, è felice in questo mondo e nel successivo.”
E’ evidente che non vi può essere pace per coloro in cui albergano rabbia e odio,
ma come nasce la rabbia? Sorge verso chi si è comportato in modo disonesto o
dannoso? oppure emerge quando qualcuno agisce in modo da ostacolare la
realizzazione dei nostri desideri? Tali circostanze provocano in noi avversione da cui
nascono collera e odio che, a loro volta, causano infelicità, nel presente e nel futuro.
Collera e odio, prodotte da una forte volontà egocentrica di affermazione dell’IO
e del MIO, per ironia della sorte, determinano una totale e devastante distruzione del
sé.
La collera e l’odio che si sviluppano prontamente di fronte a una qualsiasi
minaccia all’affermazione dell’io e del mio determinano uno stato di infelicità e questa
stessa infelicità si trasforma nel cibo che alimenta rabbia e odio. Si crea un circolo
vizioso: io odio, quindi soffro, ma questo dolore alimenta e aumenta il mio odio che
produrrà maggior sofferenza!….Come uscirne? Santideva propone una soluzione
semplicissima ma efficace: “Se non riesci a uccidere il nemico, toglili il cibo”.
Privata di cibo, la rabbia, non più alimentata, non potrà crescere e invece di
svilupparsi deperirà naturalmente sino all’estinzione, senza che nessuna battaglia
debba essere combattuta. La domanda è: come togliere cibo alla rabbia? Con la calma
mentale e la pratica della pazienza. Se di fronte ad un problema si perde la pace
interiore non sarà certamente favorita la sua soluzione, anzi lo si aggraverà. E’ famoso
il proverbio tibetano: “Se una situazione può essere cambiata, perché dispiacersi? Ma se non
può essere cambiata, perché dispiacersi?”.
Il sorgere della rabbia può essere così riassunto:
L’“io” e il “mio” sono causa fondamentale di rabbia e odio che sono determinati
dall’incontro con le condizioni, in questo caso rappresentate dalle azioni degli altri che
ostacolano l’affermazione del nostro ego e la realizzazione dei nostri desideri.
Quando causa, (l’io e il mio che vogliono affermarsi o possedere), e condizioni
(azioni altrui contrarie ai nostri desideri di affermazione e possesso) si incontrano sorge
l’infelicità, alimento che nutre l’attitudine mentale aggressiva alla rabbia e all’odio con
conseguente devastante distruzione.
Anche Santideva, come la moderna psicologia, non dice di combattere, reprimere
la rabbia, la soluzione è più naturale: basta toglierle il cibo.
Se di fronte alle azioni degli altri proviamo disagio, perché preoccuparsene?
possiamo forse cambiarne il corso? no, e se invece possiamo, perché alterarci?
distruggendo con la rabbia tutte le azioni virtuose, che altro risultato otteniamo se non
il nostro annientamento? e allora perché alimentare un’attitudine così nociva e inutile?
Domanda: Se un’azione mi colpisce una volta sola, posso conservare la pace mentale,
praticare la pazienza ed evitare la rabbia, ma se subisco vessazioni continue
come nel caso del mobbing citato questa mattina, come posso non
soccombere a questa infelicità?
Lama: E’ soltanto questione di applicazione, la prima volta sarà veramente arduo, ma
continuando a praticare sarà sempre meno difficile e avverrà una vera
trasformazione interiore che permetterà di superare anche la vessazione
quotidiana più pesante. La situazione esterna potrà rimanere inalterata ma
tu sarai sempre più abile nell’affrontarla. Questo metodo è valido in ogni
situazione perché permette di mantenere la calma mentale
indipendentemente dalle circostanze esterne.
Santideva sottolinea che ci solo molteplici e differenti cause alla rabbia:
b) “Sofferenza, umiliazione, dure parole e disonore: non desideriamo queste cose né per noi
stessi né per i nostri cari; ma è l’inverso per i nostri nemici.”
Riprendiamo la questione della rabbia che si manifesta nei confronti di chi agisce
in modo a noi sgradito, ci manca di rispetto, colpisce il nostro “io”, oppure attenta al
nostro “mio”, come affrontarla? Esistono tre tipi di approccio:
1. Accettare la sofferenza derivante dall’azione sgradita;
2. Osservare consapevolmente il Dharma;
3. Sviluppare la sopportazione.
In ogni caso è sempre necessario praticare la virtù della Pazienza.
La pratica della pazienza si basa sull’accettazione della sofferenza che è
meditazione sulla sofferenza generale del Samsara di cui è l’essenza stessa; l’esistenza
condizionata è per sua natura sofferenza e riflettervi è salutare perché mostra come la
sofferenza non accettata passivamente, ma vissuta come realtà intrinseca all’esistenza
stessa, sia trasformata in gioia profonda.
Ogni qualvolta si presenta una situazione contraria, la meditazione nella pazienza
ci permette di familiarizzare con la sofferenza sino a farla scomparire naturalmente e a
permetterci di acquisire la consapevolezza che, sapendo superare le piccole avversità
con pace, siamo in grado di annullare anche le grandi sofferenze.
La condizione del samsara è sofferenza, senza sofferenza non esiterebbero gli
esseri samsarici, noi esistiamo grazie al Samsara! La meditazione sulla sofferenza porta
preziosi benefici, o se preferite, i benefici prodotti dall’esperienza del dolore.
b) “La felicità è rara. La sofferenza persiste senza sforzo, ma solo attraverso la sofferenza si
può trovare questo scampo. Perciò, o mente, sii forte!
Nel Karnata i devoti di Durga sopportano volentieri e inutilmente il dolore di ustioni, ferite
e altro ancora. Dal momento che la mia meta è la liberazione, perché sono un codardo?
Con la pratica nulla rimane difficile. Così, facendo pratica con i disagi minori, diventano
sopportabili anche i disagi maggiori.”
Il riferimento alla sofferenza inutile di ferite e bruciature riguarda gli interventi
dolorosi a cui ci si sottopone volontariamente per raggiungere uno scopo mondano: (ad
esempio il pugile che combatte per denaro, gli interventi di chirurgia plastica per una
maggior prestanza…).
L’ultimo verso vuole infondere coraggio e indurre un atteggiamento positivo nei
praticanti in modo che, nell’abitudine ad affrontare le piccole pene con serenità,
imparino superare con gioia le grandi sofferenza, perché non esiste nulla che non possa
essere realizzato.
Nella traduzione inglese si usa unicamente il termine “sofferenza”, in tibetano
invece si utilizzano più parole per esprimere quello stato di insoddisfazione, dispiacere,
malessere, disagio, sofferenza fondamentale del Samsara, che si avverte
particolarmente nella solitudine.
La sensazione di “mancanza” che ci pervade nella solitudine non è definibile né
colmabile, possiamo pensare: “mi manca una persona” e allora cerco quella persona,
ma il malessere permane inalterato, “mi mancano oggetti preziosi”e allora li procuro,
ma il malessere non passa.
Si avverte una privazione sostanziale, ma nulla e nessuno può colmare questa
carenza, è la sofferenza pervasiva del Samsara, quello che manca è il Nirvana, ma noi
siamo nel samsara.
La meditazione nella solitudine è molto potente perché si inoltra sino alla radice
della natura della sofferenza e familiarizzando con essa comprendiamo e tocchiamo la
libertà. Il senso della libertà e il senso della solitudine esistenziale coincidono, dove c’è
solitudine c’è libertà e dove c’è libertà c’è solitudine, dunque, la solitudine vissuta come
sofferenza può essere trasformata in solitudine vissuta nella gioia della liberazione.
Questo è il grande beneficio che possono ottenere i praticanti meditatori, vivere
nella gioia, dormire e morire in pace. La paura della morte sorge a causa della
solitudine vissuta con dolore: si muore soli, si deve lasciare tutto ciò verso cui si ha
attaccamento, da cui non si è liberi.
Ieri abbiamo concluso la giornata con la preghiera di dedica dei meriti, quattro
brevissimi versi che racchiudono tutto l’insegnamento del Bodhicaryavatara:
“CYANg CIUB SEM CIO RINPOCÉ
MA KYE PA NAM KYE GYUR CI
KYE PA GNAM PA ME PA TANg
KONg NE KONg TU PEL UAR SCIO”
Versi che, pur tradotti con parole diverse, mantengono inalterato il profondo
significato:
“ Possano gli aspetti della preziosa e sublime Motivazione del Risveglio
che non sono nati nascere in noi;
Possano quelli che sono nati, senza deteriorarsi,
svilupparsi sempre più.”
E’ la preghiera della preziosa Bodhicitta, il livello più elevato di apertura del
cuore, la grande compassione che abbraccia tutto. La Bodhicitta nasce dalla pura
intenzione di responsabilità universale che scaturisce dalla compassione. La grande
compassione sorge dall’amorevole gentilezza, risultato del riconoscimento consapevole
della grande gentilezza di tutti gli esseri senzienti, nostre madri. Dalla consapevolezza
nasce il forte desiderio di ricambiare l’amorevole gentilezza.
Come insegna Santideva è dunque fondamentale e necessario accogliere con
cuore aperto gli esseri senzienti riconoscendo in loro la causa di tutte le buone qualità
interiori.
I quattro versi della preghiera di dedica sono spiegati nei dieci capitoli del
Bodhicaryavatara:
cap. 1. Elogio alla mente del Risveglio
cap. 2. Purificazione delle azioni (o Confessione delle colpe)
cap. 3. Adozione della mente del Risveglio (o della Bodhicitta)
Nei primi tre capitoli si spiegano i benefici dello sviluppo della Bodhicitta
auspicando che tale realizzazione possa essere ottenuta da coloro che ne sono ancora
privi, e corrisponde al contenuto dei primi due versi della preghiera di dedica; il terzo
e quarto verso sono rivolti invece a coloro che hanno già sviluppato la Bodhicitta, e che
la devono mantenere e potenziare; dal quarto all’ottavo capitolo del testo si indica
come raggiungere l’obiettivo applicando le sei Paramita.
cap. 4. Vigilanza in merito alla mente del risveglio (o Come preservare il
Valore delle Qualità Spirituali)
cap. 5. La Sorveglianza della Consapevolezza (o Attenta Vigilanza)
cap. 6. La Perfezione della Pazienza
cap. 7. La Perfezione del Vigore (o La Perseveranza gioiosa)
cap. 8. La Perfezione dell’Assorbimento Meditativo (o Concentrazione)
La terza e ultima parte del testo riguarda il sempre maggior sviluppo della
Bodhicitta per il bene di tutti gli esseri senzienti e la dedica vera e propria.
cap. 9. La Perfezione della Conoscenza (o Saggezza)
Cap. 10. Dedica.
La Bodhicitta, meravigliosa mente di illuminazione, dona uno stato autentico di
pace, rilassamento, apertura, felicità e gioia.
Santideva dimostra come, grazie all’esistenza degli esseri senzienti, si generi la
compassione, che deve essere dunque motivo di rispetto e devozione nei loro confronti
poiché ci permettono di sviluppare la Bodhicitta e realizzare e l’illuminazione, così
come abbiamo rispetto e devozione per il Buddha che ci indica la via dell’illuminazione
nel Dharma.
Il rispetto verso il Buddha e gli esseri senzienti non è discriminante, non si basa
sulla valutazione delle realizzazioni di ognuno, ma è determinato dall’essenza dello
stesso risultato a cui entrambi conducono: l’illuminazione. La pratica della generosità,
della pazienza e di ogni altra virtù è possibile grazie all’esistenza degli esseri senzienti,
l’unica vera fonte di ogni cosa buona. Invece, confusione, scontento, disagio, malessere,
problemi, sono, al cento per cento, esclusiva responsabilità personale.
Le persone con cui viviamo, l’ambiente che ci circonda sono preziosi, sono loro
che ci permettono di sviluppare ogni nostra buona potenzialità. Quest’anno ho avuto la
possibilità di verificare questo aspetto visitando il piccolo villaggio di tibetani in Nepal
dove vivono i miei genitori. Ci sono relazioni di buon vicinato, altre problematiche, ma
ogni giorno insieme questo gruppo di persone costruisce la vita, condivide gioie,
passioni, dolori, e non potrebbe esistere per loro situazione più autentica per poter
praticare la Bodhicitta. Immaginate se portassi i miei genitori a Roma!… Ne sarebbero
sconvolti, Mi chiederebbero dov’è lo stupa intorno al quale poter praticare la cora
recitando il mantra, dove andrebbero, al Colosseo? Sarebbero considerati matti, eppure
questa pratica per loro è essenziale. Potrebbero solo starsene rinchiusi in uno strano
appartamento che rappresenterebbe una prigione, senza i loro compagni di vita che
potrebbero fare? Nulla. La compagnia dei propri compagni di viaggio è essenziale!
Riflettere profondamente su ciò apre la mente e il cuore, fa stare bene, a proprio
agio, favorendo l’approccio amichevole ricco di calore e di condivisione. Poco per volta
si crea il buon cuore e si gode pienamente della pace e della felicità rappresentate
dall’esistenza stessa degli altri. Perché non accogliere con gioia questo dono? Perché
non ricambiarlo con amorevole gentilezza?
E’ tanto ovvio e semplice, eppure in genere preferiamo ignorarlo complicandoci la
vita, creiamo continuamente situazioni che ci fanno arrabbiare, allontanare con stizza
da tutto e da tutti fino a quando, non avendo più oggetti esterni da colpire, rivolgiamo
questo astio contro noi stessi. Ecco la risposta alla precedente domanda sull’odio di sé.
Siamo gli architetti e i costruttori della nostra infelicità, gli unici responsabili! Non
è una vera follia e sconsiderata ottusità mentale?
La rabbia non è mai intenzionale, è una perdita di controllo
Un’assurdità è anche la difficoltà che abbiamo nel gioire sinceramente, con pace,
delle buone qualità degli altri, eppure se solo sapessimo godere di questo prezioso
dono, oltre ad essere immediatamente felici nelle condivisione, potremmo usare quelle
stesse qualità a nostro vantaggio. Al contrario, a causa dei difetti mentali, delle
afflizioni distruttive, soffriamo inutilmente, è necessario sviluppare attentamente la
virtù della pazienza.
b) “Questo deriva dall’audacia o dalla codardia della mente. Perciò bisogna divenire invincibili di
fronte alla sofferenza e superare il disagio.
Neppure nella sofferenza il saggio dovrebbe permettere che la sua serena fiducia mentale
sia turbata, poiché la battaglia è con le contaminazioni, e in guerra il dolore si vince
facilmente.
Coloro che vincono il nemico prendendo sul petto i colpi dell’avversario sono gli eroi
trionfanti, mentre gli altri uccidono chi è già morto.
La virtù della sofferenza non ha rivali, poiché, per il trauma che provoca, l’ebbrezza
svanisce e sorgono compassione per gli esseri nell’esistenza ciclica, timore del male e
desiderio del Vittorioso.”
E’ sempre piacevole trascorrere tempo felice con gli amici spirituali. Il tempo
passa, la vita passa e nessuno può arrestarne il movimento, si guarda indietro e ci si
interroga: “un anno, due anni, tanti anni sono andati e in tutto questo tempo io che cosa ho
costruito di significativo, di bello, di giusto che possa ricordare con gioia?....” Qualche
fuggevole atto significativo lo si può anche ricordare, ma la maggior parte del tempo è
scomparso, ci si accorge di averlo perduto insieme alla preziosa vita.
Nella società moderna il motto è: “il tempo è denaro” e dunque i minuti trascorsi
senza produrre sono considerati inutili, persi, invece nella visione spirituale il tempo
realmente perduto è ogni attimo vissuto al di fuori del significato dell’esistenza stessa.
I mio motto è: “Il tempo è Dharma”, ogni occasione è buona per costruire il
Dharma e dare significato alla propria vita. Ma cos’è il Dharma?
Il Dharma non è in contraddizione con la quotidianità, non è opposto al samsara,
al contrario, vi trova integrazione ed espressione. Spesso i praticanti che si fermano ad
un livello superficiale della dottrina ne fraintendono il significato profondono e
guardano al Samsara e al Nirvana come a due opposti assolutamente contradditori,
incapaci di coesistere, poiché il primo deve essere abbandonato e il secondo realizzato.
Una visione parziale e fuorviante perché è vero che pratichiamo per raggiungere il
Nirvana, ma non lo abbiamo ancora realizzato, siamo totalmente immersi nel samsara,
nell’esistenza quotidiana ed esattamente in questa quotidianità dobbiamo cercare il
significato profondo che consenta la realizzazione del Dharma. Sarebbe assurdo e
sbagliato vivere nel samsara provandone soltanto disgusto e repulsione, è invece
necessario ricercarne l’armonia e il senso, pur nella consapevolezza che è davvero fonte
di sofferenza, dolore e problemi, ma è anche una grande opportunità per mutare le
condizioni e aprire il varco verso la liberazione.
L’aspirazione ad uscire dal samsara, a rinunciarvi e opporsi è legittima ma è
necessario mantenere sempre viva la consapevolezza che noi viviamo nel samsara ogni
attimo di vita, che qui e ora è la nostra casa.
L’aspirazione al Nirvana è giusta, ma ne siamo ancora lontani, non ne abbiamo
esperienza, l’unica esperienza che conosciamo è il samsara e solo in esso possiamo
ricercare il significato dell’esistenza trasformarne l’aspetto negativo in positivo,
realizzando l’integrazione armonica nella pratica del Dharma.
La pratica del Dharma non è una procedura formale, ma piuttosto un fenomeno
naturale, nulla può disturbarne l’esistenza, esso è presente, semplicemente deve essere
trovato. Il Buddha Sakyamuni, nell’istante in cui ebbe l’illuminazione incontrò il
Dharma e disse “Ecco, ho trovato il Dharma, il nettare in grado di trasformare il Samsara”.
Immaginiamo di essere in un estate torrida, siamo assonnati, intorpiditi, stanchi
quando scorgiamo una fonte di limpida acqua fresca, vi ci immergiamo con gioia e
immediatamente ne siamo rinvigoriti, pieni di energia vitale, allo stesso modo
l’ambrosia del Dharma trasforma completamente la situazione. A volte il samsara è
pesante, confuso, oscuro ed è proprio in quel momento che il Dharma ha la capacità di
trasformare repentinamente la situazione la quale, pur rimanendo a tutti gli effetti nel
samsara, è vissuta in modo completamente diverso, è avvenuta la trasformazione in
“buon samsara” che permetterà di raggiungere il Nirvana, è il Dharma, base necessaria
alla realizzazione del Nirvana. Il Nirvana è una realtà troppo complessa per noi che
non ne abbiamo esperienza, mentre conosciamo bene l’esperienza del samsara, la
nostra casa, la nostra quotidianità, è il tutto che può essere trasformato positivamente
dal nettare del Dharma.
Per questo Buddha, nell’istante dell’illuminazione disse: “Ho trovato il Dharma che
è come nettare che tutto purifica”, non ha detto: “qualcuno mi ha dato il Dharma” ha cioè
voluto sottolineare che ha incontrato una realtà già esistente, un fenomeno naturale
sempre presente, in ogni momento e in ogni luogo.
Il Dharma ha particolari e specifiche qualità:
¾ di essere profondo, di conseguenza di difficile comprensione;
¾ di essere pace, assolutamente positivo, esente da qualsiasi fattore che provochi
danno;
¾ di essere luminosa chiarezza, non composto da forma, la sua natura è simile
allo spazio;
¾ di esistere naturalmente, non creato, non costruito, non prodotto da alcuno o
da qualcosa, assolutamente privo di fabbricazioni, di elaborazioni mentali, di
concettualità. Nessun pensiero concettuale potrà mai comprenderlo
pienamente.
Per queste sue qualità il Dharma è come nettare che rinfresca gli esseri samsarici e
purifica il samsara. Nella vita del Buddha è scritto che ogni giorno esseri individuali
scoprono il Dharma.
Per trovare il Dharma è necessario percorrere il sentiero che conduce ad esso e
che, secondo la classificazione canonica, si articola su tre passaggi :
Addestramento nella moralità o etica superiore;
Addestramento nella concentrazione o contemplazione superiore;
Addestramento nella saggezza superiore.
Il primo gradino è l’addestramento nell’etica superiore, il mezzo che permette di
purificare le contaminazioni grossolane della mente rendendoci capaci di non
provocare danno fisicamente, verbalmente o mentalmente, cioè tramite corpo, parola e
mente. La pratica della moralità è in se stessa Dharma.
Nel trattato filosofico dell’Abhidharmakosa il Dharma è osservato in due
particolari aspetti:
Il primo riguarda la realizzazione del modo ultimo di esistenza dei
fenomeni ed è il Dharma in senso proprio, primario.
Il secondo si riferisce invece al metodo della conoscenza ed è il supporto
necessario per giungerne alla realizzazione, è secondario ma fondamentale,
consiste nella realizzazione della conoscenza contenuta nei testi e trasmessa
dagli amici spirituali che la posseggono.
La pratica dell’addestramento nella moralità superiore è essa stessa Dharma.
Ugualmente l’addestramento nella pratica della concentrazione, o contemplazione
superiore è Dharma, anche se non ancora il Dharma ultimo della Saggezza.
Nelle tre categorie di Dharma, moralità, concentrazione e saggezza, la Saggezza è
il Dharma primario, la moralità e la concentrazione sono il Dharma di supporto che
conduce alla saggezza primaria.
Nelle trascrizioni in pali il Dharma è suddiviso in tre addestramenti superiori:
Vinayapitaka, addestramento nella moralità superiore;
Sutrapitaka, addestramento nella concentrazione superiore;
Abhidharmapitaka, addestramento e realizzazione della saggezza.
In tutte le tradizioni buddhiste, nel Mahayana come nel Vajrayana, compaiono
descrizioni molto simili relativamente a questa suddivisione e non potrebbe essere
altrimenti perché concentrazione e saggezza sono espressione stessa del Dharma.
Il Vinayapitaka, addestramento nella moralità superiore, significa addestramento
a non produrre danno e sofferenza né con il corpo, né con la parola, né con la mente e le
pratiche necessarie alla sua realizzazione sono la rinuncia, la compassione e
l’amorevole gentilezza. Tutte le difficoltà e i problemi che si presentano sono il risultato
naturale di danno e sofferenza procurato ad altri. E’ un gioco infinito: provochiamo
danno all’altro il quale reagisce prontamente con pari moneta e dunque sorge la nostra
immediata risposta e così di continuo, sofferenza su sofferenza, nella ruota senza fine
del samsara.
E’ un po’ come il gioco del calcio, si fatica tanto per combattersi, per segnare goal
nella porta avversaria, che poi dovrà ricambiare, mentre sarebbe meno faticoso,
collaborare e quindi fare i goal prima in una porta e poi nell’altra, così tutti sarebbero
contenti! Naturalmente stiamo scherzando, però ugualmente l’esempio mostra come il
Dharma possa essere applicato in ogni situazione in modo creativo e benefico.
L’addestramento alla moralità superiore è il primo passo nella pratica del Dharma
e consiste nel contrastare l’abitudine a reiterare il reciproco scambio di negatività e di
danno nell’infinita produzione di sofferenza. Il solo modo per contrastare gli
atteggiamenti distruttivi è accogliere l'unica condizione essenziale: la generosità. La
generosità è la condizione fondamentale che permette l’accesso alla pratica della
moralità, si attua prima di tutto sviluppando l’aspetto del non-afferrare che, anche se
non è totale, sottintende già una forte diminuzione dell’attaccamento a oggetti,
situazioni e persone.
L’attitudine a danneggiare gli altri si sviluppa a causa dell’attaccamento, che non
è solo quello rivolto al denaro o agli oggetti materiali, grossolani, ma quello più
profondo, sottile e pericoloso che è l’attaccamento alle proprie idee, alla propria visione
della realtà, a concetti astratti.
Sono infiniti gli esempi che documentano le reazioni più curiose. Ricordo un
amico che aveva l’abitudine di fare colazione ogni mattina nello stesso bar, ma ne era
scontento perchè i gestori erano, a suo dire, così scostanti da indurlo a pensare che gli
mancassero di rispetto. L’offesa era tale da giustificare la vendetta, espressa infine nella
decisione di abbandonare il locale privando in questo modo i colpevoli di un
guadagno. Ma cos’è la mancanza di rispetto? Rispetto a chi? a cosa? e perché?
Si è così fortemente attaccati all’io che tutto è vissuto secondo modalità di un
“presunto rispetto” dovuto a questo sé, ci si offende e si soffre, si applica un’immediata
ritorsione creando ulteriore sofferenza!… Questa è mancanza di generosità e
costruzione della propria infelicità.
La generosità non conosce attaccamento al proprio io, al rispetto che si pensa gli
sia dovuto e senza generosità non c’è modo di praticare l’addestramento superiore
nella moralità.
L’attaccamento al rispetto al sé è fortissimo e devastante, se non lo si ottiene ci si
arrabbia sino a perdere ogni controllo, si può picchiare, insultare, offendere, tutte
azioni che creano grande sofferenza a chi le attua e a chi le subisce, sono la sofferenza
samsarica, una sofferenza che non ha un retroterra di verità ma che si fonda su falsità e
irrealtà.
L’alto addestramento all’etica è amore e compassione. Nella rinuncia si attua la
compassione amorevole. L’amore e la compassione liberano dalla sofferenza
dell’irrealtà e sono strettamente connessi con l’attitudine alla generosità.
L’addestramento superiore all’etica è Dharma, ma come procedere? La pratica
nella moralità non è recitare un testo, non è abbigliarsi secondo canoni stabiliti, né di
indossare un particolare cappello, non è nemmeno star seduti sul trono, è piuttosto
l’attitudine di amore e compassione, di generosità in grado di spezzare nettamente il
gioco vizioso della reciproca creazione di danno, attuato con le cattive parole e le azioni
malevoli. Con l’interruzione del gioco se ne annulla la potenziale conseguenza, la
sofferenza che ne deriva.
Nella cultura occidentale si dà un forte valore al perdono, certamente grazie al
cristianesimo, il perdono è un’attitudine fondamentale, una pratica meravigliosa, è
generosità. Gesù Cristo insegna che perdonando gli errori altrui si trova la pace, ogni
perdono implica una vera profondissima, gioiosa pace! Per me è particolarmente
toccante nella liturgia cristiana, durante la Messa, quando le persone si scambiano un
gesto di pace. Il perdono è fondamentale, è la pratica dell’alto addestramento nella
moralità, è il modo per essere pace, per creare pace.
In sanscrito l’addestramento all’alta moralità è detto “scila”, in tibetano “sil-tob” e
significa “realizzare la freschezza”. Il perdono è il modo per realizzare la pacifica
freschezza e la condizione esenziale per poter perdonare è la generosità. Nella filosofia
buddhista il concetto di pazienza coincide con il perdono. Viceversa in occidente si
pensa che essendo troppo pazienti si finirà prima o poi per esplodere disastrosamente
ma, se così fosse, sarebbe un’ottima ragione per perdonare immediatamente, senza
applicare a lungo la pazienza. Nella psicologia occidentale si ha uno strano concetto del
“portare pazienza” che equivale a caricarsi negativamente di rabbia repressa.
Il profondo e vero significato della pazienza è il perdono, reprimere la rabbia
accresce il rancore e il peso della “pazienza” sulle spalle è insopportabile, incrementa la
negatività allontanando sempre di più dalla pace. La pazienza non è la soppressione
forzata della collera ma è perdono spontaneo che nasce dalla generosità.
Comprendere davvero il significato dell’addestramento superiore nella moralità
ha un riscontro immediato in ogni attività, nella vita di tutti i giorni, dal mattino alla
sera e dalla sera al mattino, è la pratica del Dharma che produce la conseguenza
dell’essere in pace, felici, gioiosi, in salute, di godere di un’attività proficua,
dell’assaporare la bontà del cibo, dell’accorgersi che la propria camera è più bella,
accogliente, che ogni aspetto della vita è migliore.
Può aiutare la lettura degli “Otto Versi della Trasformazione della Mente” di
Kadampa Geshe Langri Tangpa:
“Considerando tutti gli esseri senzienti
superiori alla gemma che esaudisce i desideri
per realizzare il fine supremo1
possa io costantemente prenderli a cuore.
Quando sarò con gli altri,
riterrò me stesso come il meno importante,
e mi prenderò cura di loro fin nel profondo del cuore
come se ognuno fosse il più elevato degli esseri.
Vigile, ogni volta che sorge un’emozione negativa2
che possa nuocere a me o agli altri,
l’affronterò e l’ eliminerò
senza indugio.
Vedendo gli esseri in preda alla malvagità
Il testo “Gli otto versi della Trasformazione della Mente” è un importantissimo scritto
di Kadampa Geshe Langri Tangpa. Fa parte degli insegnamenti di Lo Jong9 e fu
composto nel periodo in cui in Tibet prosperava la scuola Ka dam.
3 Azioni negative: (in tibetano dig pa) disposizione mentale causata da un’azione negativa commessa.
4 Sofferenze: (in pali dukkha) la Verità della Sofferenza, che ha tre livelli: sofferenza del dolore, sofferenza del
cambiamento, sofferenza del samsara.
5 Amico spirituale: (in tibetano ge wei she nyen, Geshe) colui che aiuta a compiere azioni virtuose.
6 Madri: > tutti gli esseri senzienti sono state nostre madri; > la persona più cara o quella più giovevole.
7 Otto preoccupazioni mondane: Le idee generate dal guardare attraverso gli occhi dell’attaccamento e
dell’avversione, sono: piacere e dispiacere, vittoria e perdita, lode e biasimo, gloria e disgrazia.
8 Samsara: (termine sanscrito, in tibetano khor wa) attaccamento bramoso alle cose mondane, che fa restare nel
circolo vizioso della sofferenza e dell’insoddisfazione.
9 Lo jong: (termine tibetano)
“Lo” significa “mente”, “pensiero”, “coscienza”, ma in questo contesto si riferisce piuttosto all’intenzione
“Jong” significa “trasformare”, esercitare, “praticare”. Insieme vengono tradotti come “trasformazione della
mente”, come nel titolo del testo;
“Lo jong” forma breve di “jang chub kyi sem la lo jong wa”, significa trasformare la mente ordinaria in
Bodhicitta, ossia tecnica per la pratica del Bodhicitta. (Il termine sanscrito “Bodhicitta” designa qui una pura
aspirazione a raggiungere lo stato di Buddha con l,o scopo di condurre tutti gli esseri senzienti all’illuminazione
completa).
Il Sutra del Cuore della Perfezione di Saggezza
La traduzione italiana con le relative note, è stata redatta dall’Istituto Lamrim di Roma su testo
originale tibetano e con l’ausilio delle traduzioni inglesi.
“Il Cuore della Perfezione di Saggezza”
Il titolo sanscrito è : Bhagavati10 Prajna Paramita Hridaya11
10 Bhagavati: (termine sanscrito, in tibetano: gyal wai yum) Madre Buddha, si riferisce alla “Saggezza della
Perfezione”, che è la madre in quanto causa fondamentale dell’illuminazione.
11 Bhagavati Prajna Paramita Hridaya: (sanscrito) il cuore della Bhagavathi, la perfezione della saggezza.
12 Bhagavan: (termine sanscrito, in tibetano: chom dhen de) titolo generalmente attribuito a un essere illuminato;
letteralmente significa “colui che ha completamente illuminato gli ostacoli e possiede tutte le qualità”; sinonimo
di “Tathagata” (sanscrito) e di “de war sheg pa” (tibetano) nel senso di “colui che ha raggiunto lo stato di piena
calma e piena illuminazione”. In questo brano ci si riferisce al Buddha Shakyamuni.
13 Rajagrha: (termine sanscrito, in tibetano: gyal poe khab) luogo nel quale si erge un palazzo reale.
14 Picco dell’Avvoltoio: montagna con la cima a forma di avvoltoio; luogo in cui venne impartito il sutra secondo
la tradizione. Viene identificato popolarmente in una collina vicino a Rajagrha, nello stato indiano del Bihar.
15 Arhat: (termine sanscrito, in tibetano: dra chom pa) colui che ha raggiunto il Nirvana. Detto anche Sravaka o
Pratyekabuddha. Nel testo originale tibetano il termine è Bikshu, ma si intende Arhat.
16 Bodhisattva: (termine sanscrito, in tibetano: Jang chub sem pa). Essere che possiede il Bodhicitta.
17 Assorbimento meditativo: (in sanscrito: samadhi, in tibetano: ting nge zin) una forma di meditazione.
18 Varietà dei fenomeni: (in tibetano: choe kyi nam drang) i 5 aggregati (forme, percezioni, formazioni mentali e
della coscienza); le 12 fonti dei sensi (le sei sorgenti dei sensi e le sei facoltà); i 18 elementi ( le sei sorgenti dei
sensi, le sei facoltà e le sei coscienze); i 12 anelli della catena dell’origine interdipendente (Ignoranza, Azione
volontaria, Coscienza, Nome e Forma, Sorgenti dei sensi, Contatto, Sensazioni, Attaccamento, Brama,
Concepimento, Nascita, Invecchiamento e Morte); le 4 Nobili Verità (la Verità della sofferenza, la Verità delle
cause della sofferenza, la Verità della cessazione e la Verità del sentiero); i 5 sentieri (Accumulazione,
Preparazione, Visione, Meditazione e Non-più-apprendere); le 4 fiducie; i 10 poteri di Buddha; ecc…
19 Percezione Profonda: (in tibetano: zab mo nhang wa) vedere la vera e profonda realtà ultima dei fenomeni.
20 Arya: (termine sanscrito, in tibetano: Phag pei Gang zag) un Essere superiore che ha raggiunto la saggezza della
diretta realizzazione della vacuità o che ha seguito il sentiero in uno dei veicoli.
21 Avalokitesvara: (termine sanscrito, in tibetano: Chen re zig) conosciuto come il “Buddha della compassione”.
22 Bodhisattva mahasattva: (termine sanscrito, in tibetano: jang chub sem pa sem pa chen po) Bodhisattva di
ordine superiore o che ha conseguito il sentiero dei Bodhisattva o il sentiero mahayana della visione.
23 La pratica della profonda perfezione della saggezza: (in tibetano: she rab kyi pha rol du chin pai zab moi chod
pa).
24 I cinque aggregati: (in sanscrito: skandha, in tibetano: phung po ngha) Forme, Sensazioni, Percezioni,
Formazioni mentali, e della Coscienza.
25 Vuoti di esistenza intrinseca: (in tibetano: ran shin gyi tong pa).
Quindi, tramite l’ispirazione del Buddha, il venerabile bikshu26 Shariputra27 si
rivolse all’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva28 e gli disse: “come deve
addestrarsi un figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella
pratica della profonda perfezione della saggezza?”
Quando fu detto questo, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, rispose al
venerabile bikshu Shariputra e disse: “Shariputra, ogni figlio o figlia del lignaggio dei
Bodhisattva29, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della
saggezza, dovrebbe vedere chiaramente nel seguente modo: dovrebbe vedere
distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca”.
“La forma è vuota, la Vacuità è forma; la Vacuità non è altro che forma, la forma non
è altro che Vacuità. Allo stesso modo sono vuote le sensazioni, le percezioni, le formazioni
mentali e la coscienza. Quindi, Shariputra, tutti i fenomeni sono Vacuità; essi sono privi di
caratteristiche peculiari; non sono nati, non cessano; non sono contaminati, non sono
incontaminati; non sono incompleti e non sono completi.”
“Quindi, Shariputra, nella Vacuità non c’è forma, né sensazioni, né percezioni, né
formazioni mentali, né coscienza. Non c’è occhio, né orecchio, né naso, né lingua, né corpo,
né mente. Non c’è forma, né suono, né odore, né gusto, né oggetti concreti, né oggetti
mentali. Non c’è nessun elemento visivo, così fino a nessun elemento mentale fino a
includere nessun elemento della coscienza mentale. Non c’è ignoranza, non c’è estinzione
dell’ignoranza, e così fino a nessun invecchiamento e morte, e nessuna estinzione
dell’invecchiamento e della morte. Allo stesso modo, non c’è sofferenza, origine, cessazione
o sentiero; non c’è saggezza, né ottenimento e neppure mancanza di ottenimento.”
“Quindi, Shariputra, poiché i Bodhisattva non hanno ottenimenti, si basano e
dimorano nella perfezione della saggezza. Non avendo oscuramenti nelle loro menti, essi
non hanno paura, ed essendo andati totalmente oltre l’errore, essi raggiungono la meta
finale: il nirvana30. Tutti i Buddha che dimorano nei tre tempi hanno ottenuto il pieno
risveglio dell’insuperabile, perfetta illuminazione, basandosi su questa profonda perfezione
della saggezza”.
“Quindi, si dovrebbe sapere che il mantra31 della perfezione della saggezza – il
mantra della grande conoscenza, il mantra supremo, il mantra uguale a ciò che non ha
uguale, il mantra che fa tacere tutte le sofferenze – è vero perché non è ingannevole. Si
proclama il mantra della perfezione della saggezza:
26 Venerabile Bikshu: (in tibetano: thse dan dhen pa) titolo attribuito a un bikshu con mente sveglia e intelligente
27 Shariputra: figlio di Sharit, conosciuto come bikshu dalla mente acuta fra i discepoli di Buddha Shakyamuni.
28 Arya Avalokitesvara Bodhisattva mahasattva: (temine sanscrito, in tibetano: jang chub sem pa sem pa chen po
phags pa chen re zig) si riferisce a un singolo individuo conosciuto come Bodhisattva mahasattva
Avalokitesvara, diverso dal “Buddha della compassione” Avalokitesvara. Qui infatti viene identificato come un
Bodhisattva sotto le sembianze di un bikshu, Bodhisattva, mahasattva e arya.
29 Figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva: (in tibetano: rigs kyi bu vam rigs kyi bumo).
30 Nirvana: (termine sanscrito, in tibetano: Nyang De) essere andato oltre la sofferenza.
31 Mantra: (termine sanscrito, in tibetano: yid kyob) che protegge la mente.
TADYATHA GATE’ GATE’ PARAGATE’ PARASAMGATE’ BODHI SVAHA
Shariputra, così i Bodhisattva mahasattva dovrebbero addestrarsi alla profonda
perfezione della saggezza”.
Quindi, il Bhagavan si svegliò dal suo assorbimento meditativo e lodò l’arya
Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, dicendo che era eccellente.
“Eccellente! Eccellente! Figlio del lignaggio dei Bodhisattva, è proprio così; dovrebbe
essere così. Bisogna praticare la profonda perfezione della saggezza proprio così come hai
rivelato. Perciò anche i Tathagata32 se ne rallegreranno”.
“Come il Bhagavan pronunciò queste parole, il venerabile bikshu Shariputra, l’arya
Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, insieme all’intera assemblea, inclusi i mondi
degli dei, degli umani, degli asura33 e dei gandharva34, tutti gioirono e lodarono ciò che il
Bhagavan aveva detto.”
35 Antica abbazia costruita sulla cima del un monte Pirchiriano all’imbocco della Val di Susa a circa 20 Km da
Torino, secondo la leggenda per volontà dall’arcangelo San Michele.
Analizziamo, passo dopo passo, il testo del Sutra del Cuore:
“Il Bhagavan dimorava a Rajagrha presso il Picco dell’Avvoltoio, con un gran numero di
Arhat…” il termine Arhat è stato sostituito in alcune traduzioni con la parola “Bikshu”
che letteralmente significa monaco, cioè persona che ha ricevuto la completa
ordinazione nell’ordine monastico. I livelli di ordinazione sono tre: 1) laico - 2) novizio -
3) monaco completamente ordinato. Il termine bikshu però potrebbe essere fuorviante
in questo contesto perché non è riferito al monaco che ha ricevuto la completa
ordinazione, bensì ad un essere più elevato, all’Arhat.
“…e un gran numero di Bodhisattva….” C’è dunque un gran numero di Arhat e un
gran numero di Bodhisattva, se fosse stato detto un gran numero di Bikshu si sarebbe
creato un ulteriore fraintendimento perché avremmo interpretato che Bikshu e
Bodhisattva appartenessero a due gruppi separati e distinti, mentre in realtà un Bikshu
può essere un Bodhisattva e viceversa, senza alcuna contraddizione.
Per evitare possibili equivoci non è stato scritto Bikshu ma Arhat, colui che ha
realizzato il Nirvana, lo stato di Buddha anche se non completo ma piuttosto di
Pratyeka e di Sravaka, praticanti che aspirano alla realizzazione individuale. Il
Bodhisattva invece persegue il veicolo dell’illuminazione universale.
I discepoli del Buddha si suddividono in tre tipi di praticanti:
Sravaka, comunemente conosciuti come gli Uditori;
Pratyeka, comunemente conosciuti come i Solitari;
Samyaksambuddha comunemente conosciuti come i Buddha completi.
I primi due percorrono la via della ricerca dell’illuminazione individuale e
fondano la loro pratica sulla rinuncia.
Gli Sravaka, solitamente definiti “gli uditori”, preferiscono praticare in gruppo,
non si sentono in grado di affrontare la pratica dei Bodhisattva, però desiderano
ardentemente trasmettere la dottrina del Buddha affinché essa possa avere una
continuità completa e ininterrotta, si impegnano ad udire con attenzione e tramandare
fedelmente ogni insegnamento. Personalmente perseguono l’illuminazione individuale.
I Pratyeka, termine che significa “solitario”, invece prediligono praticare in
solitudine, in luoghi remoti, purificando se stessi e perseguendo l’illuminazione
individuale.
Entrambi condividono il comune obiettivo di raggiungere la liberazione
individuale o “mokya” e attuano una pratica simile, i primi con un’intelligenza meno
brillante, per praticare e comprendere hanno bisogno del supporto del Sangha, mentre i
secondi, più autonomi e sicuri di sé, preferiscono purificarsi nella solitudine.
Le tre categorie di praticanti hanno diversità sia nella pratica che negli obiettivi,
ma tutti devono seguire cinque livelli, o sentieri che, sommati, diventano quindici. Il
nome di ogni livello è lo stesso per ognuna delle tre tipologie di praticanti:
1. Accumulazione;
2. Preparazione;
3. Visione;
4. Meditazione o familiarità;
5. Non più apprendimento o Non più ritorno.
Il quinto è il risultato, l’obiettivo raggiunto, mentre i primi quattro sono le cause
che lo determineranno. Il Sutra del Cuore descrive come realizzare la comprensione del
modo ultimo di esistenza dei fenomeni, detto anche Vacuità, secondo la visone
superiore dei cinque sentieri.
L’Arhat può essere uno Sravaka o un Pratyeka che ha raggiunto lo scopo,
realizzato il quinto sentiero e, a questo punto, se lo desidera può scegliere di entrare nel
sentiero dei Bodhisattva e, nel momento in cui diverrà Bodhisattva, non sarà più Arhat.
L’Arhat appartiene al “piccolo veicolo” o della liberazione individuale.
Il Bodhisattva che ha realizzato il suo scopo, il quinto sentiero, diviene un
Buddha, un Bhagavan, in tibetano: “Chom dhen de”, colui che ha eliminato ogni ostacolo
e ha acquisito tutte le qualità.
E’ necessario conoscere esattamente il significato di Bhagavan, di Bodhisattva e di
Arhat per avere una corretta visione del contesto in cui è stato dato il “Sutra del
Cuore”.
“…..e a quel tempo il Bhagavan era entrato nell’assorbimento meditativo sulla varietà dei
fenomeni chiamato «percezione profonda».” Immedesimiamoci nella situazione: il luogo è il
picco dell’Avvoltoio in India, vi è un gran numero di Arhat e di Bodhisattva e al centro
il Bhagavan, il Buddha, assorto in profonda meditazione, nella percezione profonda
della Vacuità, la visione ultima di tutti i fenomeni esistenti, una meditazione
sistematica su ogni varietà di fenomeni, con una modalità in seguito spiegata nel testo.
“….In quello stesso tempo, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, era assorto
nella stessa pratica della profonda perfezione della saggezza…” Chi è l’arya Avalokitesvara?
Risposta: Avalokitesvara è il Buddha della Compassione, Chenrezig.
Lama: Però dice “l’Arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva”, quindi non può
essere Chenrezig il Buddha della compassione, non è più un Arhat ma non è
ancora un Buddha, è un Bodhisattva che ha realizzato i quattro sentieri ma
non ha ancora raggiunto il quinto, e soltanto in tal caso potrebbe già essere
un Buddha. Con la realizzazione del terzo e quarto sentiero diventa un Arya,
ha la visione dei fenomeni, è un Bodhisattva superiore detto anche
Mahasattva, termine che ha lo stesso significato di Mahatma, “grande
anima” o “grande cuore”. In questo contesto Avalokitesvara è altro da
Chenrezig, è un monaco, un essere umano con grandi qualità ed è discepolo
del Buddha.
“……e vide che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca.” L’Arya
Avalokitesvara sta meditando in totale concentrazione univoca sulla natura ultima dei
fenomeni, comprende, utilizzando il modo più semplice per meditare sulla Vacuità, che
anche i cinque aggregati mancano di realtà intrinseca.
Tutti i fenomeni esistenti sono raccolti in cinque categorie e concentrati su cinque
oggetti detti aggregati:
1. aggregato delle forme (gzugs phung-po);
2. aggregato delle sensazioni (tshorba phung-po);
3. aggregato delle percezioni (du-shes phung-po);
4. aggregato delle mente discriminante o della facoltà mentale;
5. aggregato del gruppo di tutti i fenomeni e i fattori mentali non specificati
nei primi quattro, inclusa la coscienza.
Questa meditazione non si rivolge ad oggetti esterni, ma all’interno, in particolare
all’io, un oggetto che dovrebbe appartenere a uno dei cinque aggregati, a quale ?
Risposta: al quinto
Lama: perché?
Risposta: forse perché l’io può stare solo nella categoria dei non classificati…..
Lama: C’è logica in questa affermazione, l’io non è identificabile nei primi quattro,
allora si presume debba per forza essere nel quinto, però è necessaria
un’ulteriore analisi perché l’io ha comunque a che fare con i primi quattro,
infatti si osservano i cinque aggregati nella loro relazione con il sé, con l’io.
Non si medita genericamente sulla forma, sulla sensazione o sulla percezione,
ma specificamente, sulla propria forma, sulla propria sensazione, sulla
propria percezione, ed è esattamente questa la correlazione tra i cinque
aggregati e l’io. Così, dall’analisi di ognuno dei cinque aggregati si vede che
hanno una realtà intrinseca e se ne deduce che, allo stesso modo, il sé o io è
intrinsecamente inesistente, manca di realtà intrinseca.
Questa spiegazione, pur estremamente sintetica, permette di avere un’idea
abbastanza chiara sull’argomento, ma non illudiamoci di stare osservando la realtà
ultima, la Vacuità, ne siamo LONTANISSIMI!….Al momento abbiamo la visione di
quale addestramento intraprendere per avvicinarci piano piano all’obiettivo finale.
Il “Sutra del Cuore della perfezione della Saggezza” insegna come osservare la
Vacuità nell’ottica dei cinque sentieri. Finora ci siamo limitati a considerare
genericamente il primo sentiero, dell’accumulazione, che si percorre avendo realizzato
la rinuncia ma, se ci addentriamo negli aspetti particolari della via dell’accumulazione
del Bodhisattva, vediamo che è possibile entrare in esso soltanto all’atto della
realizzazione della Bodhicitta.
Domanda: (fa riferimento alla conferenza della sera precedente in cui si è parlato del martirio
vissuto con assoluta serenità da un monaco Buddhista) Ieri sera ho avuto
l’intuizione di come può essere un Bodhisattva, noi viviamo sempre nel
terrore di poter subire una qualsiasi perdita e, parlando del massacro vissuto
da quel monaco per amore degli altri, tu hai detto “è samsara” rimarcando
l’accettazione naturale di questo fatto. Praticamente la rinuncia implica
davvero una perdita totale di sé per gli altri, come ad esempio il martirio di
Cristo. Ma noi possiamo, nella migliore delle ipotesi, averne soltanto
un’intuizione, perché per la sola idea ci è totalmente inaccettabile.
Lama: E’ vero, parlando della successione delle vite che producono la maturazione
di un individuo ci riferivamo proprio a questo aspetto. Nel momento in cui
un insegnamento è dato, tra i molti che ascoltano c’è chi, avendo maturato in
tante vite un karma favorevole, può ricevere impressioni così forti che ne
permettono l’immediata comprensione; altri invece stanno accumulando
impressioni che saranno di beneficio in futuro; altri ancora possono trovarsi
in una via di mezzo, essere quasi pronti e molto vicini ad una prossima
realizzazione. Ognuno è nel suo percorso ed è impossibile giudicare,
conoscere lo stadio di maturazione di un altro essere senziente. Così,
ritornando all’esempio del monaco trucidato, egli poteva essere in un punto
del percorso in cui gli era naturale l’accettazione completa di quanto gli
stava succedendo. Non possiamo conoscere quale fosse la sua situazione
spirituale. Come insegna il Buddha, nessuno può sapere se chi gli sta di
fronte è un Bodhisattva oppure no, solo un altro Bodhisattva è in grado di
riconoscerlo. Anche Gesù Cristo ha espresso esattamente lo stesso pensiero
nella raccomandazione più volte ribadita di non giudicare i propri simili. Il
Buddha ha detto che non c’è modo di sapere sotto quale aspetto un
illuminato appaia, può assumere qualsiasi sembianza e ciò che noi siamo in
grado di percepire è la pura apparenza mentre la sostanza ci sfugge
completamente.
Ci sono altre domande? Quanti Arhat, Bodhisattva e Buddha ci sono in
quest’assemblea?…(risata generale.)
Bellissimo il tempo trascorso insieme, molte grazie, cerchiamo di mantenere viva
nella nostra mente la sensazione così ricca di questi momenti stupendi, è samsara,
null’altro che samsara, ma è positivo, è una ricchezza, e non deve essere dimenticata, è
samsara permeato dallo spirito del Dharma.
Secondo Giorno