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SCOLASTICA
2001/02
Analisi e valutazioni
Gabriella Villa
PREMESSA ............................................................................................................................. 3
APPENDICE.......................................................................................................................... 14
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................... 22
GV 2
Pr emessa
Chi è il soggetto da integrare? Solo quello munito di un certificato o esistono emergenze che
sono iscritte, in maniera drammatica e dolorosa, al di là di quel margine di carta? E chi pone, chi
deve porre lo sguardo al di là del solito? Mai come oggi si avverte come sia povera di prospettive
la riduzione del processo di integrazione alla fetta dei disabili presenti in un sistema scolastico.
Forse l’equivalenza integrazione/handicappato non tiene conto del fatto che tutti gli alunni
hanno bisogno di essere integrati, particolarmente oggi in un contesto sociale così complesso e
disgregato.
I motivi di questo “bisogno” sono vari: le situazioni di disagio a scuola, in classe, si sono
profondamente trasformate negli ultimi 10-15 anni, ramificandosi, assumendo forme inattese e
ponendo gli insegnanti di fronte a situazioni e a domande nuove.
A tutto ciò si aggiunge un altro fattore, quello economico: i tagli al "sociale", la riduzione
dello spazio del Welfare State non può che far porre altre domande sul dove si vuole andare.
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L’INTEGRAZIONE NELLA
SCUOLA DI TUTTI
ANALISI E VALUTAZIONI
C O N Q U I S T E ( Q UA S I ) D E F I N I T I V E 1
In Italia, tutte le scuole statali e non statali (private, comunali e regionali) che
ottengono la parificazione, ai sensi della Legge 62/2000, hanno l'obbligo di accettare
l'iscrizione degli alunni con disabilità anche se in situazione di gravità. Il rifiuto di
iscrizione di tali alunni è punito penalmente.
I genitori iscrivono il figlio disabile alla scuola dell’infanzia (dopo il terzo anno di
età) o a quella elementare obbligatoria (dopo il sesto anno di età), consegnando le
diagnosi.
Sulla base della diagnosi, gli insegnanti della classe, la famiglia e gli operatori
sociosanitari che seguono l'alunno impostano il Piano Educativo Individualizzato (PEI)
(Legge 104/92, articolo 12, commi 5, 6 e 8) che comprende sinteticamente il progetto
riabilitativo, quello di socializzazione e quello didattico (Legge 104/92, articolo 13,
comma 1, lettera a). Questa équipe viene chiamata nella pratica Gruppo di Lavoro
operativo sull'alunno con Handicap (GLH) e provvede anche alle verifiche periodiche sui
risultati globali; la valutazione sui risultati del progetto didattico è invece riservata ai soli
docenti.
Il piano educativo individualizzato ed il conseguente progetto didattico debbono
essere sostenuti da personale e strumenti anche tecnologici adeguati al tipo di
minorazione e di gravità.
Così, ad esempio, un bambino cieco deve avere un insegnante specializzato che
conosce l'alfabeto "Braille" (Legge 104/92 art 14); il bambino sordo, se è munito di una
protesi acustica, oltre ad un insegnante specializzato per sordi, deve anche avere in classe
un "campo magnetico" che riduce gli effetti di disturbo sulla protesi acustica prodotti dai
rumori esterni.
Se il bambino sordo non è stato protesizzato bene e parla e/o percepisce male, ha
diritto ad una "interprete della lingua dei segni"; un bambino spastico ha bisogno di un
insegnante specializzato e, se necessario, di un assistente che lo sposta da un'aula all'altra
e lo porta ai servizi igienici, o provvedendo anche a pulirlo se non ha il controllo degli
sfinteri e si sporca; un bambino con handicap intellettivo, ad es. con sindrome di Down o
con ritardo mentale più grave, ha bisogno di un insegnante specializzato e di materiale
didattico specifico ad es. per imparare a contare o a parlare o comunque a comunicare
anche con mezzi non verbali.
La legge prevede anche che il trasporto dall'abitazione all’edificio scolastico sia
fornito gratuitamente.
Gli insegnanti per il "sostegno didattico" si specializzano con due anni di corso
specifico e sono pagati dall'amministrazione scolastica mentre gli assistenti per gli
spostamenti e l'igiene personale sono a carico delle amministrazioni locali.
Il materiale didattico specifico è fornito in buona parte dai Comuni (luogo di
residenza dell'alunno) ed in parte dall'amministrazione scolastica (computer con sintesi
vocale per i ciechi, con tastiera a tasti larghi per gli spastici...)
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Inoltre gli Enti locali forniscono, ad esempio, i libri trascritti in braille per i ciechi,
un educatore per aiutare nei compiti a casa i sordi, assistenti per assistenza domiciliare
pomeridiana per i disabili motori o intellettivi. Sempre gli Enti locali forniscono assistenti
per accompagnare i disabili a scuola, al centro di riabilitazione, di formazione
professionale, al centro diurno dove i disabili più gravi svolgono attività di gioco, in
piscina, ad uno spettacolo...
Le "intese" (oggi "accordi di programma") fra le diverse istituzioni pubbliche
regolano le modalità di offerta di questi servizi.
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insegnanti. Le classi debbono avere non più di 20 alunni, purché vi sia un progetto che
chiarisca gli obiettivi che si intende raggiungere con l'alunno disabile e le strategie
didattiche che si intende realizzare. Comunque non si possono avere più di 25 alunni per
classe.
Gli alunni disabili partecipano alle attività di tutta la classe. Ciò è ovviamente
più facile nella scuola dell’infanzia e nei primi anni della scuola elementare. Nella scuola
media ed in quella superiore, per gli alunni con minorazioni intellettive gravi, il piano
educativo individualizzato può prevedere momenti in cui l'alunno esce dalla sua classe e
frequenta attività di altre classi, più adatte a lui (ad es. attività musicali, pittoriche,
motorie, di visite a negozi per imparare l'uso del denaro).
Il piano educativo individualizzato può anche prevedere per certi periodi del
giorno o della settimana, attività svolte solo fra alunno disabile ed insegnante
specializzato o singoli insegnanti della classe possono pure prevedersi sempre per alunni
con grave minorazioni intellettive, la frequenza di "laboratori" con piccoli gruppi di
compagni disabili e non disabili (ad es. laboratorio di ceramica, di musica...).
Gli alunni con handicap vengono valutati dai rispettivi Consigli di classe secondo
il piano educativo personalizzato da loro svolto.
Quanti nella scuola dell’infanzia, elementare e media seguono un programma
comunque riconducibile ai programmi ministeriali, anche se semplificati e ridotti,
ottengono una valutazione legale al pari di tutti gli altri compagni.
Comunque al termine della scuola media, tranne i casi più gravi, normalmente
viene rilasciato il diploma di licenza media.
Nella scuola superiore, specie per gli alunni con disabilità intellettiva, si stanno
sperimentando dei progetti educativi misti di istruzione, formazione professionale ed
esperienze di lavoro. Ciò avviene sulla base di accordi fra tre realtà, scuola, centri di
formazione professionale e mondo del lavoro. L'iniziativa viene presa dalla scuola. Nella
scuola superiore, in forza della Sentenza n.215/87 della Corte costituzionale, gli alunni
disabili intellettivi svolgono programmi "differenziati" rispetto a quelli ufficiali dei
compagni e vengono valutati sulla base di tali programmi differenziati che hanno qualche
elemento di aggancio coi contenuti dei programmi dei compagni.
Gli alunni disabili intellettivi partecipano agli esami di stato coi loro programmi,
non conseguono un titolo legale di studio, ma un "attestato" che documenta le attività
che hanno svolto ed i risultati cui sono pervenuti. Potranno utilizzare questi documenti
per frequentare corsi di formazione professionale o inserirsi nel mondo del lavoro.
Quanti non sono in grado di lavorare per la gravità della minorazione possono
frequentare centri diurni di attività di gioco o di occupazione del tempo libero (Legge
104/92, articolo 8 comma 1 lettera l), in modo da non perdere il grado di autonomia
psicologica e gli apprendimenti maturati durante il periodo della inclusione scolastica.
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Secondo i dati del Ministero dell'Istruzione e dell'Università gli alunni con
handicap frequentanti le sedi universitarie italiane nell'a.a. 2001/02 sono stati 4.816.
Nel prossimo anno scolastico gli alunni disabili iscritti nelle scuole comuni di
ogni ordine e grado saranno 136.503, pari a circa il 2% di tutti gli alunni. (Dati ISTAT
forniti dal Ministero dell'Istruzione).
Di questi poco più di 10.000 frequentano la scuola dell’infanzia; poco meno di
40.000 frequentano la scuola elementare; circa 50.000 frequentano la scuola media (da l0
a 14 anni) e quasi 20.000 frequentano le scuole superiori (da 15 a 18 anni).
La composizione interna del gruppo degli alunni disabili è la seguente: minorati
della vista circa il 2%; minorati dell'udito circa il 7%; minorati fisici circa il 15%; minorati
intellettivi di diverse tipologie circa il 76%.
Esistono ancora in Italia scuole speciali statali per ciechi e sordi e alunni con
handicap intellettivo grave, totalmente prive di alunni le prime, con scarsissimi alunni le
seconde e le terze; esistono ancora scuole non statali per sordi e per disabili intellettivi;
nelle scuole speciali sono ancora presenti alcune migliaia di alunni, dei quali pochissimi
ormai dormono anche negli istituti speciali.
Gli insegnanti specializzati che affiancano i colleghi nell'inclusione scolastica
sono circa 50.000. Ne sono previsti per l'a.s. 2002/03, 56.954.
Per arrivare ad un rapporto accettabile, di un insegnante ogni 2 alunni con
handicap, ai fini di una sufficiente qualità di integrazione scolastica, dovrebbero essere
nominati in deroga circa altri 11.000 insegnanti per le attività di sostegno.
Ciò però non sarà fattibile in quanto il decreto sugli organici per l'a.s. 2002/03,
in particolare l'art. 9, prevede la copertura in deroga di circa 7.200 posti.
P RO B L E M I A P E RT I
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RISCHI, poiché le singole scuole autonome possono comportarsi come aziende
commerciali, che tendono a ridurre i costi ed a stimolare la competizione per il
successo scolastico e nella vita;
ALCUNE CONSIDERAZIONI2
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specifica per l’inserimento e l’integrazione del bambino disabile e sembra diventare uno
strumento alternativo alla classe.
Eppure, l'integrazione degli alunni con handicap dovrebbe favorire, secondo
Canevaro e altri, la possibilità di esprimere ed ottimizzare al massimo la specificità
esistenziale di ciascuno.
In particolare, si nota che nel rapporto che il bambino disabile instaura con i
compagni, l’integrazione risulta più difficile nelle menomazioni mentali, non solo nel
gioco, ma anche nelle attività che svolgono insieme in classe. Anche l'inserimento
scolastico si realizza più difficilmente quando l'handicap è mentale, disabilità che
interessa quasi la metà dei bambini a quest'età.
Una valutazione negativa della scuola arriva comunque dalle famiglie con figli
che presentano disturbi del comportamento o dell’apprendimento.
E' comprensibile comunque che, in una situazione in cui il volontariato, le
associazioni d'utenza e non da ultimi i servizi socio-sanitari sono presenti ma spesso
lontani da queste famiglie, la scuola diventi un punto di riferimento indispensabile, e in
qualche caso l'unico alleato dei genitori.
La scuola dovrà quindi sperimentare nuove strategie per coinvolgere
maggiormente il bambino disabile, e chi lo segue, nelle attività di classe e con il
raggiungimento dell’autonomia gestionale dovrà garantire un minor turnover di
insegnanti, assicurando la continuità del processo educativo, condizione di maggior
garanzia per gli interventi didattici.
La scuola però non può essere considerata esaustiva delle risposte ai bisogni
d'integrazione dato che tutte le agenzie educative concorrono al processo formativo del
bambino, ognuna per la parte che le compete, per dovere istituzionale o per scelta
programmata.
L E P R O S P E T T I V E D E L L’ I N T E G R A Z I O N E 3
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UNA FRANTUMAZIONE PERICOLOSA
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Rovesciando l'impostazione, l'integrazione è un'impostazione strutturale. In
questo senso, la presenza concreta di un handicappato, bambina o bambino, può essere
un'irruzione di realtà in una strutturazione più o meno fittizia. Il richiamo alla realtà non
vale solo per un certo individuo: può intrecciarsi con le esigenze di molti e forse di tutti.
Un'impostazione strutturale dell'integrazione raggiungerebbe una realtà ampia ed
articolata, e non solo chi è handicappato. Proprio per questo, la stessa categoria di
individuo handicappato perderebbe ragione d'essere. Di fatto, mette insieme realtà così
diverse fra loro da risultare unificate solo in negativo.
Capire tutto questo, nella scuola, vorrebbe dire arrivare a non sentire più la
necessità di avere gli handicappati in una rubrica particolare, in un settore di studio o di
riflessione contrassegnato dalla stessa categoria: la diversità degli handicappati fra loro ne
impedirebbe un raggruppamento separato in negativo, non solo in luoghi fisici ma anche
in tematiche culturali, pedagogiche e didattiche.
CONCLUSIONI IN PROGRESS4
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Fare scuola è un privilegio. Le professioni che si stringono intorno ai rapporti
umani sono un privilegio, far corona con l'infanzia e l'adolescenza ne aumenta la posta in
gioco.
Fare scuola, dunque, provoca conflitti, sommuove emozioni, anche di segno
negativo: non c’è molto di facile in questo mestiere, due più due non fa quasi mai
quattro, le buone occasioni spesso si sprecano ...
II ruolo del docente che “fa” sostegno sembrerebbe pertanto delinearsi attraverso
competenze soprattutto relazionali da un lato e metodologiche dall'altro, senza mai
dimenticare che c'è anche l’aspetto disciplinare.
Se l’insegnante di sostegno lavora principalmente in un certo ambito disciplinare,
offrendo le proprie competenze-passioni-conoscenze, si rende riconoscibile e
maggiormente decifrabile come figura educativa, definisce uno spazio relazionale meno
ambiguo per tutti gli allievi ed in primo luogo per coloro che segue più da vicino.
Sapere con chi si ha a che fare è importante in ogni relazione, a maggior ragione
in quella educativa.
Ma chi sono gli insegnanti di sostegno?
In quanti se lo chiedono? In quanti poi attribuiscono alla scuola il compito di dire
loro chi sono, sempre nel senso specifico del ruolo educativo? Quanti, invece trovano in
se stessi, nel proprio percorso formativo, nelle motivazioni personali, le risposte, seppure
non definitive, a tali domande?
Forse allora, si può fare riferimento ad alcuni atteggiamenti come: incertezza,
dubbio, esitazione, ricerca …
Incertezza: contrapporre l'incertezza alla certezza è pressoché indispensabile per
chi opera con bambini e ragazzi in situazione di disabilità fisica e psichica, ed anche per
chi incontra altre condizioni culturali e sociali connotate dalla differenza e dalla diversità,
mai assimilabili a modelli confusi e livellanti: visto che le specificità sono esemplari, le
storie cariche di unicità, l'incertezza si fa accezione positiva poiché donatrice di dubbio.
Il dubbio costringe ad osservazioni più attente, a rivisitazioni di precedenti punti
di vista, ad atteggiamenti di prudente esitazione.
L’esitazione, per chi sta nel bel mezzo di relazioni così complesse, suggerisce
forse nuovi approcci alla realtà: esitare relativamente a propri comportamenti può servire
a chiedersi dove si stia andando...
E andando si cerca.
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Riemerge così la componente della gratuità del mestiere dell'insegnante e a
maggior ragione del “far sostegno”: non vi è nulla di garantito, non vi sono risultati
sicuri, non sono previste ricompense, non c'è premio, bensì ricerca di intrecci nuovi di
emozioni, la scoperta di altri modi di esistere e sentire, sconcertanti e sommersi.
Compaiono sorprese, quelle sì!
Cercando si impara. Si impara a dirsi chi si è con l'aiuto degli allievi e delle loro
richieste.
I bambini ed i ragazzi imparano a saper chiedere certe cose a certe persone: è
indispensabile giocare in prima persona e farsi riconoscere.
Integrazione è parola complessa. Se ne parla. La si vive, forse. La si costruisce un
po' per giorno, e anche la si disfa. Tutti gli educatori, gli insegnanti vi sono implicati.
Di tanto in tanto fa bene chiedersi a quale gioco si stia giocando e chissà,
divertirsi a ridefinirne i contorni e le regole.
DIVERSITÀ E AUTONOMIA
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APPENDICE
Fino alla prima metà degli anni '60, in Italia tutti i disabili venivano educati nelle
scuole speciali e negli istituti con residenza notturna come nel resto d'Europa e del
mondo. Verso il 1966 ed il 1967 cominciarono a circolare in Europa le idee della
Berkeley University con la contestazione al "sistema capitalistico" che schiaccerebbe gli
uomini sulla sola dimensione economica (Marcuse).
Queste idee che puntavano a lottare contro forme di emarginazione si diffusero
in Francia, specie durante il "Maggio della rivolta studentesca del '68" ed in Italia con
"l'autunno caldo sindacale" del '68. Allora gli operatori degli istituti speciali per disabili
convinsero i genitori a portare i loro figlioli fuori di tali strutture considerate "ghetti" ed a
inserirli nelle scuole comuni.
Il fenomeno fu massiccio e parecchie decine di migliaia di giovani disabili
lasciarono gli istituti e le scuole speciali, che però continuavano ad esistere.
La Legge n. 118/71 prende atto di questa realtà e stabilisce che anche gli alunni
disabili debbono adempiere l'obbligo scolastico nelle scuole comuni, ad eccezione di
quelli più gravi (fra i quali si consideravano i ciechi, i sordi, gli intellettivi ed i motori gravi
come i tetraplegici, cioè con impossibilità a muovere i quattro arti e spesso anche a
parlare).
Nel 1977 la Legge n. 5l7 stabilì il principio dell'inclusione per tutti gli alunni
disabili della scuola elementare e media dai 6 ai 14 anni (imponendo però l'obbligo di una
programmazione educativa da parte di tutti gli insegnanti della classe, che venivano
affiancati da un insegnante specializzato per il "sostegno didattico" ed una
programmazione amministrativa e finanziaria concordata fra Stato, Enti locali, Unità
sanitarie locali).
I rapporti amministrativi tra i diversi servizi dovevano essere regolati da "intese"
fra le diverse istituzioni pubbliche, che potevano fare dei contratti con organizzazioni
private per adempiere agli impegni che assumevano con le "intese".
Nel 1987 la Corte Costituzionale emise la Sentenza n. 215 con la quale si
riconosceva il diritto pieno ed incondizionato di tutti gli alunni disabili, anche se in
situazione di gravità, a frequentare anche le scuole superiori, imponendo a tutti gli enti
interessati (amministrazione scolastica, Enti locali, Unità sanitarie locali) di porre in essere
i servizi di propria competenza per sostenere l'integrazione scolastica generalizzata.
Nel 1992 è stata approvata la Legge n. 104/92 che agli articoli da 12 a 16 fissa i
principi per una buona qualità dell'integrazione scolastica:
• "L'integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della
persona handicappata nell'apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e
nella socializzazione" (articolo 12, comma 3).
• "L'esercizio del diritto all'educazione e all'istruzione non può essere impedito da
difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità
connesse all'handicap" (articolo 12, comma 4).
• Necessità di una diagnosi clinica, stesa da uno specialista sanitario, da cui risulti la
minorazione dell'alunno e di una diagnosi "funzionale", redatta da un'equipe di
medici specialisti, psicologi ed assistenti sociali, da cui risultino le capacità residue
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e le potenzialità da attivare (l'articolo 6 della stessa legge garantisce la
prevenzione, la diagnosi e la riabilitazione precoce gratuite ai sensi della Legge
sulla salute pubblica 23 dicembre 1978 n. 833).
• Necessità di un profilo dinamico funzionale, redatto dalla stessa équipe insieme
con gli insegnanti e la famiglia, cioè della descrizione di come le minorazioni e le
capacità reagiscono dopo un primo periodo di prova di inclusione.
• Necessità di un piano educativo individualizzato, redatto dallo stesso gruppo, che
comprende le linee generali del progetto didattico di inclusione scolastica e
sociale, cioè dei tre progetti collegati, quello di riabilitazione, quello sociale e
quello scolastico. I professionisti di ciascuno di questi tre campi elaborano,
realizzano e verificano i rispettivi progetti.
IL PASSATO RECENTE6
Negli anni che sono compresi fra il 1960 e il 1970, in Italia vi è un fenomeno di
emigrazione interna imponente. Le ragioni economiche dello sviluppo industriale fanno
nascere vere e proprie città satellite, e gli spostamenti dalle campagne alle città, dal sud al
nord, trasformano la vita di intere comunità.
Inevitabilmente, la scuola entra in questo scenario di trasformazioni, dovendo
affrontare situazioni che la investono di nuove responsabilità. In un primo tempo, di
fronte alle conseguenze che si traducono in difficoltà di apprendimento è l'Italia dei
dialetti, la risposta è costituita da percorsi differenziati, ovvero classi differenziali e scuole
speciali.
L'alto numero di queste soluzioni crea una reazione: accogliere tutti i bambini e
tutte le bambine, quale che sia la loro condizione, nelle classi ordinarie. Nasce la
prospettiva dell'integrazione.
“L'ondata della contestazione nei confronti delle scuole speciali, definite
discriminanti e segreganti, all'inizio degli anni '70, ha investito più o meno tutte le
province del nostro paese con effetti diversi a seconda delle diverse condizioni socio-
culturali e delle diverse strutture scolastiche esistenti.
Le punte polemiche più acute fra i fautori dell'integrazione degli alunni "diversi"
nelle scuole comuni e i sostenitori della necessità della permanenza nella scuola almeno
per i soggetti più gravi, polemiche spesso enfatizzate dalla stampa con prese di posizione
politica di assai dubbia opportunità, sembrano un poco sopite ovunque. Permane tuttavia
uno stato di disinformazione sui reali problemi dell'educazione speciale che non facilita
certamente la loro soluzione.
Il dilemma 'integrazione’ o 'segregazione' ha portato, in modo invero assai
semplicistico, ad un altro dilemma: abolizione o mantenimento delle scuole speciali?
Questo è un falso dilemma perché tutte le ragioni, e sono molte, che oggi fanno
propendere per l'integrazione più ampia possibile dei soggetti handicappati nelle scuole
comuni non portano necessariamente allo smantellamento delle scuole speciali e nel
passato hanno sperimentato positivamente l'affinamento di quelle tecniche di trattamento
individualizzato che bisognerebbe portare anche nelle odierne scuole aperte alla
integrazione” (A. Zelioli, 1977, pp.1 05-107).
Erano gli anni di grande mobilità interna della popolazione; gli anni della
costruzione di intere nuove città periferiche, e vi era quindi una mobilità che portava ad
GV 15
avere a nord bambini del sud, nelle città bambini e bambine delle campagne, con tante
questioni aperte ad esempio - per l'apprendimento della lingua italiana, della scrittura. I
riferimenti culturali di bambini e di bambine erano in contesti diversi da quelli in cui
avevano potuto crescere i loro genitori, vivere e avere una loro contestualizzazione
culturale.
Le difficoltà di apprendimento, in questo senso, erano certamente numerose ma
avevano come conseguenza, anche per meccanismi amministrativi, la costituzione di
classi differenziali e di classi speciali. Le due situazioni, 'classi differenziali' e 'classi
speciali', facevano però parte di una costruzione "separata" che veniva posta sotto accusa.
Vi era la percezione collettiva delle classi speciali come macchia, come elemento
che non consentiva un superamento di quella che veniva definita "segregazione".
Ma Aldo Zelioli, uno dei fautori dell'integrazione, sosteneva che la
contrapposizione fra classi speciali e integrazione fosse un falso problema, perché
occorreva integrare le competenze degli insegnanti "speciali" nel quadro delle classi
ordinarie.
E' da lì che nasce un modello che ha subito diversi aggiustamenti, con
l'interpretazione di un supporto speciale, e quindi di un sostegno specialistico, all'interno
delle classi normali, e non dell'eliminazione della struttura speciale in sé: piuttosto la sua
disseminazione perché raggiunga il soggetto in un contesto di socializzazione, con la
possibilità di essere, in una classe ordinaria e di mantenere la risposta ai propri bisogni
speciali in maniera precisa e con personale tecnicamente preparato.
GV 16
importanti funzioni che un organismo vivente realizza, ciascuno a suo modo, e
ciascuno con bisogni originali di aiuto. La reciprocità dei benefici è ormai provata:
è un potenziamento reciproco delle competenze cognitive.
Il quadro concettuale cambia e non cambia in una data precisa; per certi versi si
potrebbe immaginare che ha già avuto dei grandi cambiamenti negli studiosi e diventa un
riferimento più concreto nell'organizzazione quando vi sono elementi di cambiamento
che costringono a prendere in considerazione un diverso modo di pensare la persona
handicappata, disabile.
La sintesi del cambiamento può essere espressa in questi termini: il passaggio da
una concezione della disabilità come un dato quantitativo misurabile in termini statici, e
quindi elemento che accompagnerà tutta la vita di un soggetto; a una considerazione che
guarda piuttosto ai funzionamenti adattivi, e quindi alla necessità di pensare sempre in
rapporto a un contesto, e meglio ancora ai diversi contesti. E' il momento in cui si
specifica meglio la possibilità di rendere l'educazione punto di passaggio tra il soggetto
con le sue caratteristiche e l'ambiente, con la possibilità che si creino delle mediazioni tra
il soggetto e l'ambiente e degli adattamenti reciproci per ridurre gli handicap.
Si può risalire al mito fondatore dell'educazione degli handicappati: a Itard e alla
vicenda del bambino 'selvaggio'. Itard si scontra - e siamo al passaggio del secolo tra il
1700 e i primi anni del 1800 - con Pinel, il luminare della psichiatria dell'epoca,
personaggio carismatico per certi aspetti, e capace di realizzare un cambiamento epocale:
che i ricoverati per cause psichiatriche non vengano incatenati. Pinel, nonostante questa
sua visione aperta al progresso, quando esamina il sauvage, lo considera ineducabile. La
sua è una diagnosi definitoria ma non assoluta, nel senso che non è così chiuso nella sua
convinzione da non permettere al suo giovane allievo Itard di sviluppare un'altra ipotesi,
circa l'educabilità del ragazzino, e quindi la possibilità che vi siano adattamenti reciproci.
Nel tempo si è verificata la possibilità che una vicenda come questa potesse
favorire una maggiore possibilità di educazione, una maggiore ampiezza del termine
stesso di 'educazione'.
Si ritrova questo dibattito, o questo contrasto, in un percorso lungo che va
dall'epoca dell'Illuminismo fino ai giorni nostri, con momenti in cui sembrano chiare le
indicazioni diagnostiche statiche, i momenti in cui una certa medicina - non certamente la
medicina - sembra avere il sopravvento, ad altri momenti in cui sembra che il
sopravvento lo abbiano gli educatori e le educatrici.
Non possiamo non ricordare che la storia contiene le pagine tragiche degli
stermini, delle considerazioni di soggetti umani come "prodotti guasti", che devono
essere o fatti vivere poco, e senza costi, o soppressi. Sono pagine da non dimenticare, e
che rendono ancor più importante la scelta della prospettiva dell'integrazione.
Il nostro paese ha la vicenda del ventennio di governo fascista, e quindi di svolta
epocale con la fine del conflitto dal '39 al '45. Quella è l'epoca in cui si riprendono
contatti operativi, non solo di studio, con la didattica e l'educazione attiva, con
l'éducation nouvelle.
E' il momento in cui il modello per l'integrazione ha i presupposti più
interessanti, più importanti; sia dal punto di vista organizzativo sia dal punto di vista
concettuale - i due elementi non sono divisibili -.
L'educazione attiva, la scuola nuova, aveva radici profonde in tutta la prima parte
del secolo e in molte parti del mondo.
Esigeva il rispetto del soggetto nella sua originalità e nella sua diversità.
Esigeva inoltre che il ritmo dell'infanzia, di chi cresce, e le esigenze di respiro, di
ritmi, fosse accompagnata da rituali significativi, capaci di collegarsi all'immaginario, al
simbolo, e capace di scandire la giornata, l'organizzazione, tempi e spazi.
GV 17
Esigeva ed esige che il nuovo si organizzi, si raccordi su uno spazio politico -
polis - aperto al divenire; e la necessità dell'esperienza educativa porta e comporta una
duplice distanziazione: quella scientifica specifica e quella più ampiamente culturale che
permetta la possibilità di respiro rispetto ai soggetti che crescono.
Questi gli elementi importanti di una costruzione che ha in questi concetti i
presupposti per quella che sarà poi l'integrazione.
E le conseguenze sono organizzative.
E' sempre necessario tener conto che l'organizzazione è complessa e che nella
vastità delle attività scolastiche della capillare organizzazione della scuola vi sono elementi
variegati, che è impossibile e non sarà possibile neanche in futuro considerare in un unico
modo, ma è importante, è fondamentale nella prospettiva dell'integrazione, che vi sia una
scuola.
Sul piano organizzativo bisogna dare una grande rilevanza al 1962, anno della
scuola media unica.
Il raggiungimento della scuola media unica, e quindi di un percorso di base
unitario per tutti, è stato un elemento di grande importanza, alle spalle dell'avvio delle
esperienze di integrazione.
Non può essere dimenticato, e su questo convergono le tre dimensioni
scientifiche: la dimensione sociologica, quella psicologica e quella pedagogica. Vi è una
convergenza di elementi che tendono a individuare in un percorso unitario diverse
possibilità per lo sviluppo della prospettiva dell'integrazione.
Ma parlando di “modello italiano” non possiamo evitare di fare riferimento ad un
contesto di studi, di ricerche e di realizzazioni anche di altri paesi.
Vi è una linea di continuità che collega le realizzazioni nel modello italiano e gli
studi e le realizzazioni di altri paesi.
GV 18
Queste riflessioni sono tanto più interessanti in quanto si può immaginare che le
leggi compiano degli enormi passi avanti per assicurare una normativa adeguata alle
prospettive inclusive ma non possono determinare gli atteggiamenti e le micro relazioni;
queste devono essere piuttosto conquistate da altre convinzioni e da autenticità di
rapporti.
L'enfasi che a volte viene messa sugli aspetti della relazione rischia di provocare
poi una sorta di pendolarismo, alternando periodi nei quali vi è una grande attenzione alle
dinamiche di socializzazione con periodi che invece privilegiano l'apprendimento e
quindi anche l'insegnamento.
In realtà le due dimensioni hanno bisogno di essere unite in una reciprocità che
potrebbe bene essere rappresentata dalla dizione 'apprendere per socializzare' e
'socializzare per apprendere', ovvero 'apprendere socializzando' e 'socializzare
apprendendo'. E questa reciprocità è alla base della dimensione psicologica che fa venire
avanti le strategie di apprendimento e l'attenzione al 'meta': le strategie metacognitive.
Si allarga la capacità, da parte del corpo insegnante, degli educatori, delle
educatrici, di avere una buona padronanza di questi termini anche per la disponibilità di
materiale di formazione, di letture, di scambio che è non solo nelle librerie ma anche
nelle reti informatiche. E questo è un elemento che sicuramente è dovuto alla ricerca nel
campo della psicologia italiana e di altri paesi; è un altro punto in cui si possono trovare
delle linee di continuità tra quello che viene chiamato il 'modello italiano' e i contributi di
ricerca applicata, le esperienze, di molti altri paesi.
Occorre richiamare l'attenzione anche sugli aspetti importanti che
nell'apprendimento ha l'imitazione, la possibilità di avere più modelli, quindi di vivere la
presenza dei pari come un'occasione di acquisizione di una pluralità di modelli, ciascuno
dei quali può portare un contributo per la costruzione del proprio modello di
identificazione e quindi con la possibilità che accogliendo dagli altri vi sia uno sviluppo
originale.
Per questo, negli anni in cui si è sviluppata la prospettiva dell'integrazione,
l'approccio psicologico ha messo molto in rilievo il valore della dinamica di reciprocità
attraverso l'empatia. Vi sono due versanti con cui questo termine può essere collegato:
uno più strettamente relazionale, e l'altro più legato allo sviluppo di quelle prospettive
cognitive che hanno avuto in Vygotskij e in Lewin dei punti di riferimento importanti.
Scrive Sergio Neri: "E' vero che la valorizzazione del ruolo dei coetanei è un
fattore determinante dell'impresa scolastica, tanto che le attività nel piccolo gruppo e le
tante forme di collaborazione sono, in questa scuola, particolarmente coltivate, tanto da
diventarne un elemento distintivo. E' vero pure che la lentezza (ma non la pigrizia, la
sciatteria, il lasciar correre, il semplice intrattenimento) è una cifra dello scorrere del
tempo e del modo di operare, consentendo così a ciascuno di provare e riprovare, di
sbagliare senza sentirsi subito misurato e giudicato, di cercare la sua strategia per la
soluzione del problema, di trovare piano piano il senso e la misura della sua azione e della
sua crescita.
Tutto questo corrisponde ad una scelta precisa, intenzionale e perseguita con
metodo dalla scuola dell'infanzia, ma non al suo specifico legato all'età dei bambini o alla
sua collocazione in una sorta di limbo prescolastico, in cui tutto è permesso perché non
esistono vincoli programmatici o diplomi di cui rispondere.
E' una scelta che nasce dall'aver polarizzato l'attenzione sull'apprendimento
invece che sull'insegnamento, sul bambino invece che sull'insegnante, sulla strategia
costruttiva e responsabilizzante rispetto a una ripetitiva, sulla necessità di mobilitare le
risorse dei bambini, i rapporti di collaborazione e di cooperazione rispetto alle prestazioni
individuali e parallele, sull'ambiente in cui si svolge la vita quotidiana e sulla promozione
di interazioni attive, sulla dominanza della logica dell'inclusione rispetto a quella
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dell'esclusione, sulla strategia dell'intreccio rispetto a quella dei percorsi paralleli (S. Neri,
2002, pp. 19-20).
Queste parole di Sergio Neri contengono elementi interessanti e importanti per
capire il modello inclusivo italiano. La possibilità di spostare l’attenzione
sull'apprendimento anziché sull'insegnamento contiene la pluralità.
E' evidente che l'apprendimento è di ciascuno dei soggetti che apprendono, e
ciascuno ha un proprio stile di apprendimento. E' necessario quindi passare da una
strategia dell'insegnamento - una, perché uno è l'insegnante - alle strategie degli
apprendimenti o dell'apprendimento, perché ciascuno ha una propria strutturazione del
percorso di apprendimento.
Questo favorisce una possibilità di vedere nella presenza di un compagno o di
una compagna in situazione di handicap una risorsa per la costruzione delle strategie di
apprendimento. E' chiaro che impegna in una sfida che non è solo quella di una
convivenza qualsiasi ma della convivenza finalizzata agli apprendimenti; e quindi con la
necessità di trovare i mediatori, i sussidi, i materiali che permettano a quel bambino, a
quella bambina, in situazione di handicap, di apprendere. E questo viene osservato
certamente ma anche compreso con l'aiuto degli adulti da parte dei compagni e delle
compagne che realizzano la concretezza degli obiettivi di apprendimento.
Ora questo è il punto su cui anche si corre il rischio di riprodurre una situazione
di sostegno che non ha una forma evolutiva. L'evoluzione in un contesto di socialità
dovrebbe essere, e così la vogliamo interpretare, coevoluzione. Questo è un altro punto
importante ossia la possibilità che vi sia coevoluzione nella comprensione, e quindi anche
nello sviluppo cognitivo, della presenza di un deficit nella vita di un soggetto e di
handicap per un contesto di contesti. E vi sia quindi la necessità e la possibilità di
integrare nei percorsi disciplinari la conoscenza del deficit per accettarlo, e la conoscenza
degli handicap per ridurli.
La conoscenza, però, lo rende più capace di essere padroneggiato, e non rimane
un elemento misterioso. Ora, dovrebbe essere evidente - ma non sempre lo è - che una
tale linea coevolutiva presenta delle differenze a seconda dei deficit: un deficit visibile,
perché è tale da ridurre ad esempio la mobilità di un soggetto, è affrontato in un certo
modo, mentre un deficit invisibile o di carattere psichico o di carattere sensoriale ha
bisogno di approcci differenziati.
E' la pluralità; sono i percorsi plurali, all'interno di una scuola unica. Questo è uno
degli elementi fondamentali che trasforma la riflessione pedagogica e didattica e permette
di tentare di porre nel passato un'impostazione che chiamiamo didattismo.
Nel modello del didattismo, diffuso senza che questo nome si sia fissato nella
mente di chi lo pratica, l'iniziativa è assoluta da parte dell'adulto, per quanto riguarda
l'organizzazione del programma, la progressione, le tecniche di studio, e ha la possibilità
di essere ripetuto nello stesso modo, quali che siano i soggetti presenti nel gruppo classe.
Vi è una separazione netta delle materie che non si collegano se non per caso
nell'intreccio dei nuclei tematici, l'autorità è quella di chi insegna, e vi è un uso quasi
unico, come tecnica di studio, della memoria che è riproduttiva. Così le tecniche di
controllo e di valutazione risultano essenzialmente fondate sulla riproduzione
mnemonica della trasmissione dell' insegnamento.
Queste caratteristiche possono essere attenuate, possono essere rese più difficili
nella loro applicazione dalla riottosità dei soggetti e in genere, se questo è il modello che
gli insegnanti seguono, la riottosità non mette in causa tanto il modello quanto gli alunni.
Questo modello ha anche una caratteristica importante che è il naturalismo: viene
ritenuto il modo - non un modo - di insegnare e il modo di apprendere.
Le polemiche che vi sono state, e non solo nel nostro paese ma in altri paesi circa
la pedagogizzazione dell'insegnamento, del clima scolastico, a volte hanno creato degli
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equivoci, ad esempio il grossolano equivoco di ritenere che in tale pedagogizzazione vi
fosse la cancellazione delle discipline, delle materie.
Non è così: è una grossolana lettura della problematica che rompe lo schema del
didattismo e crea l'attenzione agli apprendimenti, e una delle ragioni per cui questo è
accaduto è anche l'integrazione di soggetti in situazione di handicap.
Vi possono essere due letture di questa rottura. Una che è decisamente negativa:
nel naturalismo non si inseriscono i soggetti in situazione di handicap, creano delle
difficoltà e - grossolanamente diciamo - la colpa è loro, non dovrebbero essere dove
sono.
Ma l'altra lettura, che ci sembra la più frequente, e quella di adottare - grazie alla
presenza del soggetto o di soggetti in situazione di handicap - delle prospettive
costruttive nel campo delle conoscenze, e quindi di capire che i problemi posti da un
soggetto in situazione di handicap altro non sono che i problemi latenti o in qualche
modo mascherati che pongono anche gli altri; e il vero nocciolo è quello di passare dalla
illusoria omogeneità di chi apprende alla pluralità dei soggetti che apprendono, e quindi a
una costruzione di didattiche disciplinari capaci di affrontare la pluralità e di viverla come
risorsa.
Questa è la ragione importante della coevoluzione; non possiamo immaginare
l'utilità di una scuola ‘forte’ se non in rapporto a una coevoluzione che è anche degli
strumenti didattici e che pone agli insegnanti tutti, e non con delega ad insegnanti
particolari (specializzati per il sostegno, incaricati di un sostegno o altro ancora) la
necessità di affrontare la propria personalità.
Questo ci fa capire come il modello italiano, per quanto abbia dei punti di
riferimento molto diffusi, e quindi ha qualche elemento di solidità, abbia bisogno ancora
di molte attenzioni per il suo consolidamento e per il suo pieno sviluppo.
E' necessario tener conto che i termini 'organizzazione' e 'competenze' sono
preziosi nel modello italiano dell'integrazione. Abbiamo sottolineato come tale modello
italiano non ha una struttura chiusa ma è collegato come una rete alle ricerche che sono
nel mondo.
Questa curiosità nei confronti di quello che accade al di fuori delle nostre mura, ci
darà la possibilità di integrarlo agli altri e di costruire una prospettiva integrativa o
inclusiva più vasta, più forte, e certamente più problematica, capendo che la
problematicità è la stessa ricchezza di ciò che abbiamo vissuto e che vorremmo
continuare a vivere.
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BIBLIOGRAFIA
Normativa www.handylex.org
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