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Davide Minghini
(1915 – 1987)
L'artigiano e il tecnico
Adesso che la preannunciata mostra curata dall'Archivio
fotografico della Biblioteca Gambalunghiana (dal 25 ottobre al 30
novembre al Palazzo del Podestà), ci offre l'occasione di
ripensare a questo impareggiabile artista che aveva la costanza
di un artigiano ottocentesco e l'arguzia di un tecnico alle prese
con gli strumenti tecnici più moderni, alla mente ritornano tanti
episodi che risalgono sino ad oltre quarant'anni fa.
Di quegli anni Sessanta del secolo scorso, Minghini (scomparso
nel 1987) ha raccontato le mille facce: un turismo confermato ai
suoi livelli internazionali, una città in crescita (sempre affannosa
e urbanisticamente confusa), un angolo di pigra provincia
invernale che poi tutt'ad un tratto ebbe i primi sussulti, mostrò i
segnali che «il mondo stava cambiando», mentre ancora molti,
forse troppi, non se ne volevano accorgere.
«Rimini da salvare»
Proprio prima che la «contestazione generale» attirasse
l'attenzione altrettanto generale della gente, cogliendo di
sorpresa più gli ambienti che si consideravano progressisti di
quelli tranquillamente reazionari (i quali aspettarono, e trovarono
facilmente, le occasioni per menare le mani ed usare i bastoni
non soltanto in città), con Minghini organizzai un servizio che
aveva per tema la «Rimini da salvare».
La prima puntata apparve il 20 novembre 1968 sul periodico
cittadino «Il Corso», diretto dall'indimenticabile amico Gianni
Bezzi. La settima ed ultima puntata fu pubblicata il 30 gennaio
successivo, con la promessa d'una continuazione che non ci fu. In
quei giorni lasciai «Il Corso», intravedendone l'imminente
chiusura, e tutto finì lì.
Da Piero Meldini e da Oriana Maroni che cura la mostra su
Minghini, ho appreso che in essa sarà presentata una sezione
chiamata appunto «Rimini da salvare». Poi Francesca Sancisi, per
conto della Gambalunghiana, mi ha chiesto notizie su
quell'iniziativa giornalistica e sul materiale che sarà ospitato al
Palazzo del Podestà.
Non conosco quante siano state le foto archiviate da Minghini sul
tema (od esposte ora), ma soltanto quelle che mi passò per la
pubblicazione. Quindi non posso che ricordare due aspetti: le
intenzioni mie nel formulare il progetto dell'inchiesta (che non ho
avuto voglia di rileggermi), ed il senso della collaborazione con
Minghini (argomento che stava in particolare a cuore a Sancisi).
A Minghini suggerivo i temi che dovevano essere illustrati, e lui li
traduceva in riprese sempre accurate e perfette, con suggestivi
scorci che, a distanza di tanti anni, non hanno perso nulla della
loro eleganza formale e del contenuto informativo.
Tra le 'cose' da salvare che elencai allora, c'era ovviamente
l'arco di Porta Montanara (destinato proprio adesso al ritorno in
via Garibaldi), che era stato inizialmente collocato in terreno
comunale (ex area museale prebellica) e che dopo la costruzione
del mercato coperto «San Francesco» venne attraversato da un
piccolo «muro di Berlino» che divideva il luogo pubblico del
mercato stesso dalla proprietà privata della Curia.
Che dalla nostra inchiesta del 1968 alla sistemazione dell'arco di
via Garibaldi siano passati tranquillamente 35 anni, significa che
le nostre intenzioni di allora non approdarono a nessun risultato?
Allora non c'era nella classe politica molta sensibilità verso questi
aspetti della cultura monumentale. Vennero successivamente,
come ho spiegato a Francesca Sancisi, momenti duri, con
problemi gravi: dalla contestazione alle questioni sindacali, al
terrorismo. Da salvare c'era la pelle, non le mura malatestiane
vicino alla Madonna della Scala (come fu fatto in anni successivi.)
Diario sentimentale
La mostra attuale è un primo assaggio di quell’archivio, che la
stessa Gambalunga ha voluto offrire ai concittadini, tralasciando
la parte della cronaca giornalistica, e soffermandosi invece «sullo
sguardo più libero e spontaneo dell’autore». Le sezioni sono due,
una intitolata «Diario sentimentale di un riminese», e l’altra «Per
il film» che per antonomasia è l’«Amarcord» felliniano, racconto
fra realtà e fantasia del mondo riminese anteguerra.
Un nomade frenetico
Oriana Maroni ben coglie i tratti distintivi della personalità di
Minghini, costretto «a un nomadismo continuo, a una frenesia
operativa che diviene la dote vincente per quella che da subito si
rivela la sua grande aspirazione: la foto di cronaca». Riservato e
discreto, aggiunge, non ha nulla del paparazzo convenzionale: «A
lui, uomo della conservazione, si rivolgono le istituzioni pubbliche
locali» di Sinistra, mentre lavora per il quotidiano d’opposizione.
L’affetto di Cardellini
Sui rapporti fra Minghini ed il giornalismo locale, gustosa è la
felice ricostruzione fatta da Silvano Cardellini che racconta con
l’affetto di una comune militanza tanti anni di lavoro per il
«Carlino». Lo definisce «un onesto e grande artigiano» che ha
sempre lavorato con amore e passione, senza mai esibirsi. Che
ha narrato quell’anima di Rimini che non sempre si riesce a
cogliere e raccontare, sotto i bagliori delle luci.