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Antonio Montanari

Davide Minghini
(1915 – 1987)

Due articoli del 2003


Tatarcord? La Rimini di Davide Minghini
Le sue foto in mostra al Palazzo del Podestà

Per Rimini e buona parte del territorio che circonda la nostra


città, Davide Minghini è stato lungo molti lustri la memoria visiva
che ha registrato con accuratezza non soltanto i grandi fatti, ma
pure i segni dei mutamenti, che avvenivano in maniera
apparentemente lenta, d'una società e d'una civiltà (se la parola
non suona troppo grossa, come spero).
Dirlo fotografo significa solamente collocare un'indicazione utile
come può esserlo qualsiasi cartello stradale, dove leggiamo il
nome di un palazzo, e non ne troviamo spiegata la storia.
Cronista del suo tempo, di quel fluire delle vicende collettive e
delle singole persone, il suo progetto fu forse ambizioso
nell'accumulo dei materiali, ma non arrogante perché in Minghini
prevalevano la cortesia sincera e la fatica umile di chi, con la
certezza dell'onesto lavoro quotidiano, andava testimoniando ai
posteri le mille facce della realtà.

L'artigiano e il tecnico
Adesso che la preannunciata mostra curata dall'Archivio
fotografico della Biblioteca Gambalunghiana (dal 25 ottobre al 30
novembre al Palazzo del Podestà), ci offre l'occasione di
ripensare a questo impareggiabile artista che aveva la costanza
di un artigiano ottocentesco e l'arguzia di un tecnico alle prese
con gli strumenti tecnici più moderni, alla mente ritornano tanti
episodi che risalgono sino ad oltre quarant'anni fa.
Di quegli anni Sessanta del secolo scorso, Minghini (scomparso
nel 1987) ha raccontato le mille facce: un turismo confermato ai
suoi livelli internazionali, una città in crescita (sempre affannosa
e urbanisticamente confusa), un angolo di pigra provincia
invernale che poi tutt'ad un tratto ebbe i primi sussulti, mostrò i
segnali che «il mondo stava cambiando», mentre ancora molti,
forse troppi, non se ne volevano accorgere.

Dai vitelloni alla contestazione


Quel decennio vide passare la città dal sonnolento tran-tran (che
sotto certi aspetti doveva per forza richiamare alla mente le
immagini dei «Vitelloni» felliniani), agli scossoni della
«contestazione generale» che faceva uscire gli studenti dalle
aule scolastiche nelle strade dove si consumarono i primi
rivolgimenti delle «verità» universalmente accettate.
Un giorno arrivò una troupe televisiva (c'era soltanto la Rai,
allora) guidata da Sergio Zavoli (eravamo forse ancora nel 1967,
o pochi mesi dopo), per realizzare all'Arengo una trasmissione sul
rapporto fra padri e figli. Ad un certo punto Zavoli fu costretto a
riprendere il lavoro dall'inizio perché alla dichiarazione di una
ragazza sulle difficoltà di dialogo incontrate in famiglia, aveva
fatto sèguito l'accesa risposta della madre che, sentendosi
offesa, assicurò la sua bambina: «Con te, i conti li facciamo poi a
casa».
Non mancheranno nell'archivio di Minghini (sperando che non
siano fra quelle i cui negativi andarono distrutti per un
allagamento dello studio in via Soardi), le immagini dei cortei,
delle dimostrazioni, delle assemblee studentesche che spesso
finivano con le urla sotto le indifferenti finestre del «Carlino» in
piazza Cavour, simbolo di una borghesia da abbattere (e dalla
quale provenivano, caldamente protetti, i pupilli in agitazione).

«Rimini da salvare»
Proprio prima che la «contestazione generale» attirasse
l'attenzione altrettanto generale della gente, cogliendo di
sorpresa più gli ambienti che si consideravano progressisti di
quelli tranquillamente reazionari (i quali aspettarono, e trovarono
facilmente, le occasioni per menare le mani ed usare i bastoni
non soltanto in città), con Minghini organizzai un servizio che
aveva per tema la «Rimini da salvare».
La prima puntata apparve il 20 novembre 1968 sul periodico
cittadino «Il Corso», diretto dall'indimenticabile amico Gianni
Bezzi. La settima ed ultima puntata fu pubblicata il 30 gennaio
successivo, con la promessa d'una continuazione che non ci fu. In
quei giorni lasciai «Il Corso», intravedendone l'imminente
chiusura, e tutto finì lì.
Da Piero Meldini e da Oriana Maroni che cura la mostra su
Minghini, ho appreso che in essa sarà presentata una sezione
chiamata appunto «Rimini da salvare». Poi Francesca Sancisi, per
conto della Gambalunghiana, mi ha chiesto notizie su
quell'iniziativa giornalistica e sul materiale che sarà ospitato al
Palazzo del Podestà.
Non conosco quante siano state le foto archiviate da Minghini sul
tema (od esposte ora), ma soltanto quelle che mi passò per la
pubblicazione. Quindi non posso che ricordare due aspetti: le
intenzioni mie nel formulare il progetto dell'inchiesta (che non ho
avuto voglia di rileggermi), ed il senso della collaborazione con
Minghini (argomento che stava in particolare a cuore a Sancisi).
A Minghini suggerivo i temi che dovevano essere illustrati, e lui li
traduceva in riprese sempre accurate e perfette, con suggestivi
scorci che, a distanza di tanti anni, non hanno perso nulla della
loro eleganza formale e del contenuto informativo.
Tra le 'cose' da salvare che elencai allora, c'era ovviamente
l'arco di Porta Montanara (destinato proprio adesso al ritorno in
via Garibaldi), che era stato inizialmente collocato in terreno
comunale (ex area museale prebellica) e che dopo la costruzione
del mercato coperto «San Francesco» venne attraversato da un
piccolo «muro di Berlino» che divideva il luogo pubblico del
mercato stesso dalla proprietà privata della Curia.
Che dalla nostra inchiesta del 1968 alla sistemazione dell'arco di
via Garibaldi siano passati tranquillamente 35 anni, significa che
le nostre intenzioni di allora non approdarono a nessun risultato?
Allora non c'era nella classe politica molta sensibilità verso questi
aspetti della cultura monumentale. Vennero successivamente,
come ho spiegato a Francesca Sancisi, momenti duri, con
problemi gravi: dalla contestazione alle questioni sindacali, al
terrorismo. Da salvare c'era la pelle, non le mura malatestiane
vicino alla Madonna della Scala (come fu fatto in anni successivi.)

Il mistero dei teschi


Rispolverando le vecchie pagine del «Corso», proprio a fianco
della prima puntata del 20 novembre 1968, ho riletto soltanto un
corsivo che d'altra parte ricordavo alla perfezione.
In breve. Durante i primi lavori di restauro a Castel Sismondo,
erano stati rivenuti teschi in gran numero, ammassati poi in un
ampio scatolone. Passando nei pressi della rocca diedi
un'occhiata, vidi aperto il misterioso e macabro contenitore, poi
andai di corsa da Minghini. In studio non c'erano né lui né il suo
operatore Guido Marchioni (anch'egli ottimo fotografo). Ritorno
quindi al Castello per prendere un appuntamento. Mi spiegano
che su quei teschi c'è l'ipoteca di un'esclusiva della Rai che deve
scendere da Bologna.
Noi abbiamo fatto in tempo ad uscire il 20 novembre 1968 con la
notizia di quell'assurda esclusiva, senza veder nulla nei tigì di
Mamma Rai. Sono poi trascorsi trentacinque anni e del
ritrovamento di Castel Sismondo non si è avuta più alcuna
notizia. Perché, lo ignoro. Spero che ci sia qualche esperto di
buona memoria, capace o desideroso di chiarire questo episodio,
in mezzo ai tanti che s'appassionano in città alla materia.

In Romagna con Matteini


Quando all'inizio di queste righe ho parlato dei segni della nostra
società e civiltà registrati sulla pellicola da Minghini, non pensavo
soltanto alle immagini giornalistiche ma soprattutto a quelle che,
ad esempio, costituiscono il filone narrativo visivo della
«Romagna» con testi di Nevio Matteini, volume edito da Cappelli
di Bologna proprio quarant'anni fa. La differenza con il nostro
vivere quotidiano attuale, lo dimostrano le foto con i relativi
commenti: il gregge condotto da un bambinetto sul greto del
Marecchia («Immagine bucolica» recita la didascalia: e sembra
un olio ottocentesco), oppure quattro diversi filari testimoni della
«stessa serena quiete» della nostra terra.
Introvabili se non nella memoria, sono i momenti delle donne al
nostro lavatoio pubblico. Oppure le carrozzelle in fila alla
stazione, già avvertite allora come «memorie di un tempo che
scompare».
Una volta Davide Minghini, che era stato anche a ritrarre il set
felliniano d'«Amarcord», organizzò una mostra il cui titolo era
veramente, come suol dirsi, tutto un programma: «Tatarcord?».
Questa rassegna postuma aiuterà a rinfrescare le nostre
memorie individuali e comuni, per chi ha vissuto quegli anni, con
lo spirito di quel titolo. E per chi allora non c'era, sarà occasione
di scoprire frammenti d'una recente archeologia sociale per la
quale il sottoscritto, contrariamente a quello che accade in chi ha
superato la sessantina, non nutre intimamente alcun rimpianto. E
spiegarne il perché sarebbe ora troppo lungo. E forse non ne
sono neppure capace, a causa dell'avanzare dell'età. Confido
tuttavia nell'aiuto disinteressato (?) di qualcuno di quegli eruditi
concittadini che tutto sanno fare, compreso interpretare l'altrui
pensiero non ancora espresso.
Antonio Montanari
Quella Rimini di «Foto Minghini»
Per le «Immagini dall’archivio» anche un ricco catalogo

Per la mostra «Davide Minghini fotografo in Rimini, immagini


dall’archivio» (Palazzo del Podestà, piazza Cavour, sino al 30
novembre), Oriana Maroni con la collaborazione di Nadia
Bizzocchi ha progettato e realizzato un prezioso catalogo che non
soltanto illustra l’attività dell’indimenticabile cronista ed artista
dell’obiettivo, ma racconta una fetta di storia cittadina, anche
attraverso i numerosi scritti dovuti a ben quindici autori di
diversa specializzazione.

Minghini nasce a Rimini nel 1915, figlio d’arte. Suo padre


Gualtiero è titolare di uno studio fotografico in via Garibaldi.
Chiamato alle armi, è assegnato al Reparto foto-cinematografico
dell'Aeronautica militare di stanza a Roma. Nella capitale dopo il
congedo s’impiega come fotoreporter nell'agenzia giornalistica
fondata dal giornalista e scrittore riminese Giuseppe Massani. Nel
1940, con l’entrata in guerra dell’Italia, è richiamato al Reparto
foto-cinematografico, e lavora con le squadre che operano sul
Mediterraneo.

Rientrato a Rimini dopo l'8 settembre, si associa al fotografo


Ulisse Conti e comincia ad esercitare la professione facendo
ritratti ai soldati alleati che hanno liberato la città. Nel 1947 apre
il primo studio in proprio, in corso D'Augusto 53. Nel 1955 inizia a
collaborare con il quotidiano bolognese «il Resto del carlino» che
ha una redazione locale. Per l'Azienda di soggiorno produce nel
1963 e nel 1964 due diverse edizioni di un cortometraggio a
colori intitolato «Rimini riviera», presentato con successo in
manifestazioni turistiche internazionali. Nel 1971 si tiene la sua
prima mostra personale nel Palazzo del Podestà, a cui seguono
nel 1973 «Minghini e l'Amarcord di Fellini» e nel 1983
«Tatarcord. Percorsi felliniani nelle immagini di Minghini».

Muore a Rimini il 7 novembre 1987. La moglie, signora Tina


Brigliadori, nel 1995 ha consegnato alla Città tramite la
Biblioteca Gambalunga l'immenso patrimonio di immagini
prodotto dal consorte dal dopoguerra sino agli anni Ottanta. Si
tratta di mezzo milione di immagini, ora in corso di
catalogazione.

Diario sentimentale
La mostra attuale è un primo assaggio di quell’archivio, che la
stessa Gambalunga ha voluto offrire ai concittadini, tralasciando
la parte della cronaca giornalistica, e soffermandosi invece «sullo
sguardo più libero e spontaneo dell’autore». Le sezioni sono due,
una intitolata «Diario sentimentale di un riminese», e l’altra «Per
il film» che per antonomasia è l’«Amarcord» felliniano, racconto
fra realtà e fantasia del mondo riminese anteguerra.

In questa seconda sezione ci sono anche numerosi scatti che


ritraggono i volti di alcuni riminesi, tra cui (a pag. 160, terza
immagine dall’alto) la signorina Matteini che nel film doppia la
voce dell’attrice che impersona «la Dora» nella scena del
passaggio sul corso d’Augusto della carrozza con le «sue»
ragazze. La Matteini era conosciuta a Rimini per essere stata la
cassiera del Supercinema (ex Cinema Savoia). Abitava nel Borgo
San Giovanni, lato monte, e trascorreva negli ultimi anni interi
pomeriggi dietro la finestra del suo salottino che s’affacciava sul
marciapiede, a vedere passare la gente.

Per chi coltiva la passione delle memorie cittadini suggeriamo,


oltre ovviamente a visitare la mostra, anche di leggere il
catalogo apparso per le edizioni dell’Istituto dei Beni Culturali
regionali di Bologna, con il contributo della Fondazione Carim di
Rimini. Vi si troverà una serie di pagine interessanti: ora
commosse ora ironiche, altre volte saggistiche. Ognuno potrà
secondo le proprie preferenze personali soffermarsi di più su
questo o quell’autore. Al cronista tocca il compito non di dare
voti o di esprimere gusti soggettivi, ma di segnalare il risultato
globale di un’impresa che, alla accuratezza scientifica delle
descrizioni e delle catalogazioni, accompagna i tratti
elegantemente letterari di prose costruite con una chiarezza non
sempre espressa in simili imprese.

Un nomade frenetico
Oriana Maroni ben coglie i tratti distintivi della personalità di
Minghini, costretto «a un nomadismo continuo, a una frenesia
operativa che diviene la dote vincente per quella che da subito si
rivela la sua grande aspirazione: la foto di cronaca». Riservato e
discreto, aggiunge, non ha nulla del paparazzo convenzionale: «A
lui, uomo della conservazione, si rivolgono le istituzioni pubbliche
locali» di Sinistra, mentre lavora per il quotidiano d’opposizione.

Negli anni Sessanta piazza Cavour è il simbolo del potere politico.


Da una parte ci sono l’Arengo e palazzo Garampi sedi di quelle
istituzioni, il Consiglio comunale e la residenza del sindaco.
Dall’altra si trova la redazione del «Resto del Carlino» dove
scrivono gli oppositori del governo municipale, e dove bazzicano
anche gli oppositori interni a qualche partito di quel medesimo
governo. Costoro vanno a riferire le lotte interne ai gruppi
consiliari, puntualmente riferite poi in una specie di editoriale
senza firma dal responsabile dell’ufficio che era Amedeo
Montemaggi, ottimo giornalista e soprattutto grande
organizzatore in redazione, affiancato dal suo indimenticabile
«vice», Gianni Bezzi che poi avrebbe diretto «Il Corso» prima di
andare a Roma, e diventare inviato del «Corriere dello Sport».
Per la verità Gianni Bezzi avrebbe dovuto essere assunto a
Bologna dallo stesso «Carlino», ma poi le cose non andarono
come previsto, e gli fu così troncata la carriera sotto le Due torri.

L’affetto di Cardellini
Sui rapporti fra Minghini ed il giornalismo locale, gustosa è la
felice ricostruzione fatta da Silvano Cardellini che racconta con
l’affetto di una comune militanza tanti anni di lavoro per il
«Carlino». Lo definisce «un onesto e grande artigiano» che ha
sempre lavorato con amore e passione, senza mai esibirsi. Che
ha narrato quell’anima di Rimini che non sempre si riesce a
cogliere e raccontare, sotto i bagliori delle luci.

Piero Meldini, nel saggio «Un fotografo tra passato e futuro»,


spiega: «Da uomo politicamente moderato, Minghini non era
propenso a fornire una rappresentazione celebrativa della classe
dirigente socialcomunista. Più in generale, non mostrava la
minima soggezione per i Palazzi. Non si preoccupò mai di
attenuare le rotondità curiali di un Ceccaroni. Dubito che avrebbe
mitigato, oggi, la chierica di un Berlusconi».

Liliano Faenza, affidandosi ai ricordi personali, illustra l’ambiente


colto del giornalismo riminese che aveva una specie di nume
tutelare in Luigi Pasquini. Elzevirista principe per forza polemica
e gusto di scrittura modellata su autori ormai già allora non più di
moda, Pasquini era anche pittore di una certa fama negli
ambienti della borghesia che amava le vedute dei suoi acquarelli.
Faenza, attraverso il lavoro di Minghini sul turismo, ricostruisce
pure i mutamenti sociali di Rimini, «una città gravata fino a poco
tempo prima da una tradizione contadina».

Gli altri contributi sono di Sergio Zavoli, Nadia Bizzocchi, Riccardo


Vlahov, Giorgio Conti, Ferruccio Farina, Sandro Bernardi, Antonio
Costa, Gianfranco Miro Gori, Paolo Zanfini, Ennio Cavalli. Mentre
Ezio Raimondi, Luciano Chicchi, Marcello Di Bella hanno curato le
premesse istituzionali.

Come un dipinto la foto di Pompei


Zavoli propone di ricordare anche un altro studio che è stato
grande protagonista a Rimini, «Foto Moretti». Nadia Bizzocchi
illustra l’archivio Minghini in Gambalunga. Vlahov esamina la
tecnica di lavoro del Nostro, citando una foto a colori stupenda,
scattata a Pompei, «straordinariamente simile ad un dipinto».
Conti illustra un tema fondamentale nella storia della nostra
città, la salvaguardia del patrimonio artistico dalle devastazioni
che si stavano progettando negli anni Sessanta. Sul quale
patrimonio di allora restano le foto di Minghini come documenti
fondamentali per uno studio storico.

Farina e Giardini ricostruiscono le vicende dei fotografi cittadini


dal 1845 al 1987, anno della scomparsa di Minghini. Gori analizza
i rapporti fra Fellini e la città sotto la specie della fotografia, con
Minghini quale cicerone per il ritorno del regista a Rimini e la
preparazione di «Amarcord». Bernardi, di questo film, esamina «il
paesaggio riminese», geografico ed umano, sottolineando quale
contributo abbia dato Minghini a Fellini. Costa parla dei «luoghi
dell’immaginario felliniano» e del ruolo che vi hanno avuto le
immagini preparate da Minghini («nuove stratigrafie» di
quell’immaginario medesimo). Infine Zanfini conta e racconta la
presenza del regista nell’archivio del fotografo.

Come l’elenco dei contributi dimostra, il catalogo della mostra si


offre quale studio fondamentale su cui dovranno poi tornare
quanti vorranno raccontare la cultura riminese del secondo
Novecento. Per questo la città deve ringraziare chi vi ha messo
mano (e cuore), per l’intelligenza e l’attenzione che sono state
dimostrate allo scopo di offrire una particolare testimonianza di
gratitudine verso Davide Minghini e il suo lungo lavoro a Rimini
ed in Romagna. Del quale si dà un ampio panorama pure
nell’ultimo numero di «IBC», rivista dello stesso Istituto
bolognese dei Beni Culturali che presentava in anteprima la
mostra riminese.
Antonio Montanari

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