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I.
Getta il tuo pane sulla faccia delle acque; fra molti giorni lo ritroverai.
Qo 11, 1
1
«Quanto / lontano e intimo ogni essere» (p. 57); «Comprende infatti le
parole il solo / silenzio, la carezza la lontananza» (p. 75).
2
Così Péguy chiama la speranza-virtù teologale (nella Note conjointe sur
M. Descartes et la philosophie cartésienne). Qui intendo soprattutto la chiara
scepsi della lode, che frantuma il continuum della falsa immediatezza nella di-
scontinuità della percezione discreta, in grado cioè di discernere le forme, gli
sguardi delle cose.
3
Perfetto programma di lavoro dell’anima in Incoronazione: «Occorre, in-
fatti, / essere ebbri, non avvelenati, immobili, / non prigionieri. (...) bàgnati, solo,
nel lago ardente, / bevi fino alla feccia» (p. 63).
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Nel senso della megalopsychia aristotelica e poi della magnanimitas tomi-
stica-dantesca. Trovo significativo che G. Sepheris, traducendo in greco moderno
le grandi parole di Hölderlin che hanno nutrito il miglior Novecento (Casoli
compreso), Wozu Dichter in dürftiger Zeit? [«A che i poeti in tempo di privazio-
ne?»], abbia reso il tedesco dürftiger con mikropsycho, «pusillanime», l’esatto
contrario di magnanimo.
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La natura è maestra di libertà, di vuoto (in senso weiliano), quindi del lo-
gos creatore di Dio, che ha staccato da sé l’universo come un artista la sua opera:
«i cieli... se stessi / perdono, neppure rispecchiati da pozzanghere» (p. 89). «La
storia narrata da alberi e nuvole / (...) ha una sonante grammatica di assenza / e
una chiara sintassi di vuoto / il cui stile imita Dio senza parere» (p. 108).
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«Libero dalla storia delle ore, / preso dall’altra, della luce e del vento»
(p. 60).
7
«Non c’è verità / se non in un dolcissimo spavento» (p. 79).
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«Così, di storia in storia si perde il meglio / e certo evapora in regioni de-
stinate» (p. 64).
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È famosa la geniale e riduttiva intuizione del suo estimatore J.L. Borges,
che proietta in G.K. Chesterton una parte del proprio abbacinato e dissolvente
misticismo idealistico.
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Il riferimento è ad uno dei capolavori cinematografici di A.A. Tarkov-
skij, Lo specchio (Zerkalo, 1974), sorta di autobiografia lirica concentrata dalla
folgorante comprensione per speculum del proprio destino.
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«Su, presto, qui, ora, sempre» (tr. it. di F. Donini, Quattro quartetti, Gar-
zanti, Milano 1959).
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II.
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«E tu credi d’essere il viaggiatore di ieri / che dovrà continuare domani /
un viaggio indefinito. / Ma domani non verrà mai, / non verrà. Solo Dio / viene,
tu non sai di aspettarlo» (p. 97).
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Come quella che detta, in fondo alla splendida Sui miei rapporti con un
gatto, una breve nota per sottolineare come non si tratti di una “poesia animalista”.
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«Aggirarsi nel mondo consumisticamente, / poi consumatamente? / Pro-
prio allora / è la volta del poeta» (p. 39).
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Nel modo più esplicito lo canta la poesia sulla tomba dell’apostolo Paolo
(Perendie Nudius Tertius): «Così la gloria di Paolo si immerge, al bordo / di frat-
tura del sasso, nella sua più vera / perché non pronunciata» (p. 71).
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«L’anima non esiste più. Ciò che fu desiderio / si fa azzurro, ritorna la
parola soffio» (p. 58).
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Sebbene non con la sua harshness americana, Casoli probabilmente con-
divide l’ira di Flannery O’ Connor che, in una serata di frivole conversazioni im-
prontate ad uno gnosticismo piccolo-borghese già presago di New Age, quando
l’intellettuale da salotto annunciò che, a conti fatti, il simbolo dell’Eucarestia l’af-
fascinava (e per simbolo intendeva, come oggi quasi tutti, un’idea rivestita da
un’immagine), ruppe il suo silenzio solo per dire: «Be’, se è un simbolo, che vada
all’inferno, allora».
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A proposito, non voglio che restino sottintesi o impliciti quelli che, per
me, sono i doni più preziosi di Giovanni Casoli: il suo insegnamento e la sua ami-
cizia. Sono stato suo allievo di letteratura italiana e latina al liceo, e dal primo
giorno dell’anno scolastico 1992/1993 non ho più smesso di dialogare con lui, nei
nostri incontri (anche epistolari) o a distanza: mai tornando a mani vuote – anzi,
mai tornando indietro, nella mia solitudine, nel me di pochi istanti prima. Lo rin-
grazio in nota, a margine: memore che i margini, come sa il mondo semitico, so-
no essenziali al testo e spesso lo trascendono.
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La più pura, laica, quasi plotinianamente erotica ostensione della croce:
«Si può andarsene con un bel dolore, così fitto / e attento da non perdersi mai?»
(p. 49).
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DANIELE CAPUANO
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«Noi non viviamo, non respiriamo / che consumati dal fuoco o dal fuoco».
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«Miei / contemporanei, non sono vostro / contemporaneo, nessun poeta
lo è» (p. 138): non riesco a non accostare questi versi ad una stupenda poesia di
Mandel’štam: No, mai di nessuno io fui contemporaneo...
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