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TRIXIE

Un’ancora è l’insegna, specchietto per le allodole sperdute, col neon


rosso e giallo che lampeggia e sfonda il buio che c’è intorno, scalda
l’aria della notte... e tutti quando arrivano, prima ancora di chiedermi il
prezzo, mi fanno - Ehi, che strana idea, Anchor’s Motel, pensare che il
mare da qui per vederlo lo devi sognare. O c’è chi mi ringrazia - Hai
ragione, capo, mi dice, ci vuole qualcosa per inchiodarci a terra, col
vento che tira stanotte... Allora, ogni volta dovrei ripartire di nuovo con
quella spiegazione che mi son fatto nella testa quel giorno che allo
sfasciacarrozze là sulla Highway al chilometro 325 ho chiesto di
scovarmi dei bei paraurti azzurromare o verde alga o blu-fondo-oceano e
quello, stai certo, ha girato la testa dall’altra perché, lo riconosco, tutto
quel parlare di acque marine, quassù, sapeva un po’ di presa per il culo.
E invece è così, gli dico, voglio farci una bella ancora, per quelli che
verranno al motel, sbattuti dall’aria gelata, sbilanciati e un po’
ondeggianti per chissà quale malessere atmosferico o sventura... ma più
ancora per me, un monito, un promemoria accendi-e-spegni di
lampadine colorate per tutte le volte che si apre la porta e dietro il vetro
appare un’altra faccia. Perché ci vuole un bel fegato a prendersi addosso
come fagotti che lievitano, di gambe e teste e metastasi deformi,
prendere e sopportare, quasi amare le troppe infinite agonie che si
trascinano fino a noi, ci passano vicine e ci costeggiano con i loro fiati
cattivi. E se per caso sei stato fregiato - ma è sfregio piuttosto, ferita che
sempre si apre, e insomma grandissima sfiga - di quel sentire attento ai
detriti e alle macerie, ascoltatore tuo malgrado di suburbie... allora ti
tocca ogni volta comprendere il nuovo danno, anzi finisce che te lo
ritrovi dentro, incastrato, ficcato nella carne proprio come uno schizzo di

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materia impura, estranea e tuttavia già pronta ad ambientarsi. Ma per
fortuna c’è un limite al nostro sopportare visione e suoni di tristezza che
arrivano anche da bocche chiuse, da volti sigillati e impenetrabili,
quando entrano qui dentro e ti chiedono una stanza... una barriera
all’inquieta sensazione e quasi vertigine, che sia cioè un banale caso se
non è tua quella curva delle spalle, lo spazio grigio della fronte e il
destino di vita che si porta... un imprevisto disporsi di molecole se non ti
è stato dato un altro cammino. C’è un limite, per debole e fiacca fantasia,
troppe vite simultanee non riusciamo a immaginarle, e così ci salviamo.
E’ l’ancora, insomma, che come un richiamo sospeso sul mio capo
m’invita a interrompere l’inchiesta, a ritrarmi... e quindi lascio correre,
se mai il cliente vuol sapere e gli sembra soltanto un capriccio, accenno
con gli occhi e per tutti ogni volta è abbastanza, e se ne vanno alla
camera e subito dimenticano quell’infantile curiosare. Ché tanto di
dubbi ne hanno già da vendere, da starci su l’intera esistenza.
Dunque, un gran carico di insopportabile, di scarti indigeribili. E non
sono solo i dolori, le pene infinite, no, che allora ne faremmo un
esercizio di ascesi capovolta, rivoltata sottosopra, e sprofondando in
quelle angosce raggelate ci si potrebbe lastricare un sentiero privato al
paradiso, la croce su misura da cristo che tutto comprende su sé fino a
farsi sanguinare... ben peggio sono le vite insulse che arrivano fin qui,
pericolose, inquinanti, tanto che se anche cerchi di chiudere gli occhi gli
indizi che lasciano in giro ti arrivano in testa, ti si scodellano in faccia,
quasi ti si aggrappano per l’ansia di mostrarsi. Dico le vite ordinarie,
quelle che si spengono per via come per lento esaurirsi del sangue e
aggrinzirsi del cuore, quelle in cui tutto sembra messo al suo posto,
giardini e vialetti d’accesso, messinpieghe, pieghe dei calzoni, contenuto
della borsa da viaggio.
E te ne arrivano a decine, anche quando, per abbaglio, ti aspetti un
po’ di movimento e chissà quale scarica di novità e storie interessanti.
Come quella volta che qui intorno hanno girato un film e per qualche
notte gli artisti, così li chiamano, hanno dormito al motel arrivando a

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notte fonda coi fuoristrada infangati di finta neve per via della vicenda
ambientata in inverno. Avranno scelto questo posto, mi dico, per il cielo
di certe giornate, basso e pesante sulla strada. Scena centrale, la
poliziotta incinta arresta il criminale proprio mentre quello è occupato a
triturare il complice in una macchina per fare segatura... ci vuole un cielo
come il nostro, appunto, da toglierti l’aria per mancanza di orizzonte.
Nel film, mi raccontano, la tipa, fatta rapire dal marito per un riscatto di
ottantamila dollari che dovrebbe scucire il padre di lei, finisce nelle mani
di due tizi veramente raffinati. Per dire, stanno per fare il colpo ma sulla
strada gli cade l’occhio sul Blue Ox e cosa c’è di meglio prima del
lavoro di una pausa a base di frittelle e puttane... e solo dopo se la
portano via incappucciata che si dimena come un’anguilla. Da lì in poi è
tutto uno scorrere di osceni dettagli, tanto son stupide quelle esistenze, di
gente vuota e piatta che guarda la tv, s’ingozza, telefona e poi spara nei
parcheggi, ingurgitare hamburger non è troppo diverso dal menar colpi
con l’ascia, e se per caso arriva uno strano rumore dalla veranda la donna
allontana a fatica gli occhi dallo schermo mostrando la bocca mezza
aperta e piena di cibo. E la poliziotta eroica... è ancora più gonfia
oltreché incinta e quando non spara guarda documentari sulla vita degli
animali, e mangia, mangia fino a perdere nozione del tempo, quello
necessario per far scendere una gamba e poi l’altra dal divano e andare
per il mondo con qualche sincronia.
Allora, questi del film arrivano al motel alla fine del lavoro e il bello è
che sembrano goffi e appannati come i loro personaggi, scambi verbali
di appena qualche monosillabo, sintassi smozzicata, si trascinano alle
stanze simili ad animali un po’ appesantiti e assenti come per un attacco
cerebrale che li abbia ricondotti d’un tratto a un’infanzia primordiale, ma
con corpi ormai logori. Non uno che dica una frase sensata, neanche una
fiammella di avventura ho intravisto ad animargli le esistenze.
Ma il vero problema... è che tutta la gente qui intorno è così, non è
questione solo di un film, di una recita che per un po’ blocca la vista su
un mondo desolato. Che tu uscendo da qui vada ad ovest oppure, girando

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la testa, ti faccia abbindolare dall’opposta direzione, qualunque strada tu
prenda, non troverai respiro. Puoi scegliere, praterie polverose e per
chilometri sempre la stessa striscia di asfalto, città mezze abbandonate di
case basse, balconi sbriciolati, una strisciante diserzione che sembra
senza motivo, come se per un passaparola molta gente avesse deciso di
sloggiare, svuotare le stanze, o forse dopo un po’ non gli è piaciuto più
quel tremolio sotto il culo ogni volta che i generali qua intorno
decidevano un nuovo esperimento, un bel terremoto nucleare sotto il
culo, una gaia corrente radioattiva che andava a rinfrescargli l’acqua per
irrigare il giardino e a concimare i campi di segale e patate. Neanche gli
piace un granché l’idea di dormire su un tappeto sotterraneo di missili
balistici pronti e puntati verso il cielo e seminati a centinaia nella base
militare ch’è il gioiello della zona. Allora in giro non vedi quasi
nessuno, nelle strade cittadine, ma se vuoi trovare un po’ di people non
hai che da uscire un po’ fuori, alle periferie. Sono tutti a riscaldarsi
sgomitando l’uno nell’altro e cozzando di pance e di sederi, tutti nel
centro commerciale più vicino ad annusarsi e a rimpinzarsi, entrano al
mattino e sembrano non volere più uscire, fino a sera li vedi penetrare
così numerosi che lì dentro t’immagini situazioni preoccupanti, tragici
calpestii, ossa che s’incrinano negli urti. A tratti per fortuna le porte
girevoli ne sputano fuori piccoli mucchi, scomposti e un po’ arruffati, e
poi ad eliminarne alcuni esemplari presi a caso, e senza preconcetti, ci
pensa di tanto in tanto qualche killer che se ne sta acquattato nel piazzale
tra i bidoni e i carrelli della spesa e con buona ispirazione si dà a ripulire
un po’, sparando qua e là.
Questo è il nostro paesaggio, questa l’umanità che ci hanno dato in
sorte. Perciò un giorno ho deciso di comprarmi il motel e di fermarmi
qui dentro, diciamo per ridurre le brutte sorprese lasciando al caso se mai
gli incontri che avrei fatto, magari qualche sperduto autista che dalla
US2 scantona di un po’ di chilometri, e chissà cosa cerca, per fermarsi
una notte pensando però che qui non ci vivrebbe neanche a pagarlo e
come si può sprecare i propri giorni in questo deserto di polvere gelata e

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strade diritte dove l’unica festa che ti aspetti è che, per favore, compaia
una luce, un’insegna, uscendo fuori dalla nebbia come in un brutto
telefilm, la pompa di benzina, il lampo rosso che t’invita, vacancy clean
quiet, e quei nomi improbabili perché certamente solo in posti come
questi, e solitudini che ti fanno inebetire, può venire in mente al
proprietario di chiamare quel suo buco Liberty o Nike o Judy o che altro,
non c’è limite... alla nostalgia. Anchor’s Motel, in fondo, è ancora il
nome meno strano... solo un’offerta, un pensiero gentile, per chi viene a
perdersi quassù.
E certo che a quei due qualche ormeggio sarebbe servito, a giudicare
da quanto mi è finito sotto gli occhi quel mattino. Arrivano qui a notte
fonda, notte freddissima di novembre, appannata, umida, quelle notti che
quasi ti convinci di essere arrivato al capolinea, per sfinitezza,
consunzione non tanto di desideri, che quelli si sono consumati e
rarefatti già da un pezzo, ma di attese piuttosto e minime, sì che disperi
perfino che torni il giorno e faccia luce ancora una volta. Rieccola
invece, la mattina, e ti tocca vedere e ascoltare e di nuovo provare la
pena che volevi per sempre abolita.
Gli ho dato la chiave della cinque e dalla porta li ho guardati andare
lungo il muro e poi svoltare, lui davanti, magro e quasi sghembo sulle
gambe, quel modo inconfondibile di buttare il passo da artista o pseudo-
intellettuale giovane e già molto arrogante, e dietro la ragazza, ma
sembrava veramente una bambina, col nastro tra i capelli e un grande
mantello che le arrivava fino ai piedi. E nel parcheggio han piazzato la
Buick sgangherata color verdemare - guarda un po’ - e una vecchia
roulotte. Ma stanotte si dorme nel motel...
Lei camminava davvero come una bambina un po’ impacciata, come
avesse ciabattine leggere, orientali, o forse era solo il pastrano che le
ingombrava le caviglie. Li vedo svoltare e sparire dietro l’angolo e me
ne torno dentro e non capisco bene, ma quel gusto di ultima fermata e
capolinea stasera riempie la gola e fa male più del solito. Me ne vado
diritto a dormire. Ma la mattina arriva prima del previsto come una

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burrasca livida, qualcosa che ti buca lo stomaco e la testa e si fa strada
sbattendo e scantonando nella luce che fatica a sollevarsi, a ripulirsi.
Era un grido sottile e continuo, che a tratti si spezzava col respiro, ma
poi risaliva, secco, sdegnato ma forse solo per un dolore ormai stanco.
Esco fuori e non c’è proprio ragione eppure le gambe mi portano alla
cinque. Non c’è nessuno ma tutto è a posto, perfino più pulito e ordinato,
mi sembra, di come gli avevo lasciato la stanza. Non si spegne però
quell’onda acuta di voce e questa volta so, come sentissi l’aria smuoversi
incrinata. Nel parcheggio, bloccata sull’asfalto e goffa, è rimasta la
roulotte, come una navicella appesantita e derubata delle acque. La porta
è spalancata, tutta piena del respiro incrinato. Ma la prima cosa che vedo
non è voce o carne... solo una strana luce, come di membrane eccitate,
una gialla vibrazione che arriva dal fondo, da quell’orrenda cella
frigorifera che nasconde la parete, dal funebre acquario che subito,
chissà perché, mi ricorda il passo sghembo dell’artista, l’insolenza di
questi giovani che credono di aver capito e uno come me lo guardano
appena. E poi ti lasciano davanti al motel un tale funereo ingombro, che
chiamano arte... c’era un giardino tropicale, dietro il vetro trasparente, un
ammasso di minuscole piante fin troppo rigogliose eppure già morte nel
loro brodo raggelante di silicone liquido a meno venti, per sempre fissate
in quell’apparenza di vita. E pesci, e uccelli, e altre anatomie in
formalina, bloccate, sospese. Solo uno stupido insolente può costruire
una tale oscenità. E divertirsi a ficcarla in una roulotte fino quasi a
riempirla e portarsela poi in giro per le strade del nord...
Ma infine con forza ho strappato gli occhi, quello strido continuava
quasi seguendo un suo disegno, lì dentro... Era seduta su una piccola
branda, l’unico altro oggetto oltre alla gelida cella, sembrava presa dal
delirio come in quei riti in cui al risveglio ti attraversa la follia se un
qualche tuo nemico, mentre dormi, ti cambia l’abito o ti ricopre il volto
di una nera tintura. E veramente pareva appena riscuotersi da un sonno
portatore di sventura, per il viso abbassato e la mano quasi a coprire gli
occhi, ma assomigliava a biacca la materia con cui le avevano nascosto

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la pelle, uno spesso strato quasi a voler cancellare ogni traccia anteriore,
ridurre ogni segno o piega ad una distesa sfocata per eccesso di bianco,
così che il rosso della bocca truccata sembrasse ancora più uno strappo,
uno sfregio di sporco sul pallore. Portava ancora quel nastrino di raso tra
i capelli ma adesso potevo vederne uno uguale alla caviglia, sovrapposto
in arabesco al serpentello tatuato. Le babbucce di velluto, nere... e
quell’incredibile abito di taffetà, che forse già nascondeva sotto il
pastrano, bianco e trasparente come il viso, e come le labbra segnato da
un rosso irreale, fanciullesco, in quei grandi fiori aperti lungo il bordo. E
nell’umido di quel mattino, le braccia nude e lisce, quasi di puttina... così
se ne stava, carica di ornamenti, dipinta e sfuggente nella sua vera
natura, come un acrobata che nasconde il sesso e l’età dietro la maschera
eccessiva, e continuava ipnotica il suo verso che neanche un respiro
aveva mutato da quando ero comparso sulla porta.
Ma forse invece mi aveva visto, perché adesso nella linea di quel
canto stridulo entravano parole appena comprensibili, come inserti
smozzicati giunti chissà da dove a modulare il grido.
Alla fine, diceva, l’ho mandato via alla fine, separato cacciato per
sempre, su altre strade infinite ai quattro punti cardinali... ma la cella, le
viscide piante, gonfie di morte succhiata aspirata, al silicone... quelle sì
che me le lascia, non certo il cuore... e io, io che non ho ali, solo tesori
fragili, e neanche isole odorose, per quanto desolate e deserte del suo
passo. Qualcuno mi tirerà su, mi toglieranno di dosso queste perle
appiccicose. Ma c’è un prezzo per spiare le mie cicatrici, c’è un prezzo
per ascoltare il mio battito leggero...
E questa frase, l’ultima, la ripeteva di tanto in tanto come per un fiato
che torna a frantumare il ritmo. Ma non capivo, mentre restavo lì a
guardarla come un incanto incomprensibile, cosa fosse scompiglio più
grande, se quello strido irritato senza possibile conforto o le terribili
parole, come arrivate da un tempo lontano e a lei anteriore per una pena,
smisurata pena. E inconciliabile. E così sconveniente a quel liscio pallore
di braccia rotondette, da fanciulla.

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fibre

E’ nell’ordine delle cose, in ciò che è stabilito per vostra quiete e


tutela delle ore, è lì che l’imbarazzo s’intromette, sinistro, e scompagina,
denuda, come per gole tagliate e odore improvviso di ultimo, estremo
inseguimento. Lì, in quel punto, vi mostro la mia faccia miserabile,
felice e indifendibile. Ti piace questa morte, mi dite, annaspi, urlate, e ti
sprofondi come fosse una palude in questo regno di cose inanimate, in
questo deserto senza corpi e carni, eccolo, il tuttonaso, il millepori, mi
gridate. Perché è vero, mi entrano nel naso, le stoffe, mi avvolgono e
legano generando ogni volta pieghe inattese, queste intime e mie soltanto
divinità fruscianti, mi abbracciano le caviglie - qualcuno di voi avrà
visto, quando incollate l’occhio alla fessura per spiare - al mio cervello
sabbioso e disseccato, alla sua musica che sembra un franare di ciotoli e
residui, mandano suoni fragili, sottili, come fiori nell’ombra, e io... sono
felice.
Voi mi schernite, tirate fuori litanie beffarde, eccolo, il sartino, il
tagliatore, quello che andava in giro col suo piccolo manuale illustrato,
come un compito boy scout o una mammina che vuol cucire lei l’abito
nuovo della figlia, squadra, centimetro, pezzetti di gesso, e fogli e fogli
di carta velina... e ne ha fatta di strada, il giovanotto.
So bene, non potete guardare, sopportare, perché mi piace questo
fondo inerte, questo confine e transizione a una materia che credete
immota, e questo fascino che svia e spinge dentro al vuoto, fino al
silenzio delle cose. E per meglio ripararvi vi fate schermo del vostro io
trasparente e sovrano, separato, un milleocchi che invoca, che blatera
“io“, convinti di poter dominare e dividere, la vita dalla morte, il puro
pensiero dal niente sentire, voi, che vi costruite dèi umani che vi
promettano somiglianza e nomi comuni, porzioni di dio da condividere,

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inalare, e stabilite confini e ovvie etichette, e se entrate in una stanza
abbandonata ciò che vedete è la polvere sul bordo delle cose e mai che vi
sfiori un qualche dubbio, che stessero parlando, le cose, fino all’istante
prima e muovendo, scorrendo su vie che mai conoscerete, forse per
celebrare un rito, un’annuale ricorrenza, o perché spinte ancora da un
qualche transito umano, da una notizia.
Ma c’è un’altra misura, vi dico, ci sono sirene che sembrano mostri,
tanto son chiuse, sigillate, a indicare un’assenza incolmabile, eppure
legano e fanno sanguinare i polsi e la tortura del canto, o del silenzio,
non è niente in confronto a quel vuoto che ti chiama. E ci sono dèi
ancora più informi, dispersi in brani di cose e materia, e ben altro
incantamento in questo assoluto non somigliarci e inumano resistere a
possesso e comprensione. E se sono dovunque e nell’inerzia apparente è
tutto un brulicare di parvenze, di spiriti nani o beffardi o perfino infantili,
se anche il tavolo mi parla, vuole alzarsi, preferisce un altro angolo
vicino alla finestra, e io m’inchino e lo assecondo per non farlo irritare, e
ne ammiro l’obliqua espressione... tuttavia questo è ancora un parlare
minore, di civiltà più bassa e primitiva.
La vera brillantezza, l’ingegno, l’eccitazione viva che lega e incanta...
è nelle sete, nei velluti, lì è la parola che soggioga, la formula e il
sortilegio che ti spingono il corpo fin quasi a denudarlo, scorticarlo. Le
stoffe pensano, resistono e parlano, siete voi che non volete sentire
questo gran bisbigliare, sono fibre sottili e vibrano al tocco, sono piccole
lamine raffinate per eccesso di ascolto e perfezione, per trasmissione
infinita di segnali e messaggi. Le stoffe mi parlano e agiscono per me nel
mondo, accarezzano, sfrigolano, strangolano colli, subiscono al mio
posto assalti, richieste fastidiose e desideri, e me ne liberano... sì, la
perfezione stupefacente della materia che si anima e ti avvince, e
l’infinita sorpresa e meraviglia dei corpi e delle carni umane che
finalmente arretrano verso regioni immote, sprofondate, in un livido
silenzio minerale. Non potranno più ferire, sottrarsi, o urlarci un qualche
bisogno.

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E voi, guardate pure da quella fessura. Voi ci vedete manichini,
drappi, e ritagli di tessuti a coprire il pavimento, e alle pareti centinaia di
immagini all’apparenza tutte uguali nella loro mancanza che a voi pare
sfregio. Sono foto di corpi velati, non bocca occhi sesso, né uomini né
donne, oltre la sicurezza dell’umano... sono fibre viventi come pelli,
statue che al tocco si animano, e dentro ai mucchi scomposti esseri che
vivono da tempi immemorabili, combinazioni inattese e sempre nuove di
materia frusciante. Sono le mie divinità personali, sono cose silenziose al
mio servizio, regni in cui inoltrarsi, scomparire.
Che sollievo dimenticare infine la carne, anche la propria. In giro
vado dicendo di essere molto malato, invio lettere di commiato, descrivo
i sintomi del prossimo abbandono e intanto appresto la mia scena
luccicante e sfarzosa, esclusiva, io, la regina bardata, sontuosa come per
mille orienti accorsi ai miei piedi e carovane spossate dal viaggio verso
me.
Il mondo è fuori, tutto funziona in modo regolare, risponderò con
precisione a un nome e cognome che è scritto sulla mia porta, quando mi
chiameranno, quando suonerà la prossima cliente. Faccio buio. Anche
l’ultimo spiraglio sarà chiuso e impenetrabile. Che si ripeta la danza, la
silenziosa liturgia che torna ogni volta sempre identica e in ciò portatrice
di splendido squilibrio, attossicante come un’incarnazione proibita. Ora
posso distendermi su queste coltri che mi afferrano, posso coprirmi e
rivestirmi e scivolare a un fondo che conosco, come scendendo a stagni
assopiti in penombra. Laggiù, più in basso, è il piacere, inarrivabile,
buio. Ma posso restare in attesa, per anni e anni, in questo muto
comunicare e poi sottrarsi.
Ecco, ora sono denudato e messo a morte, in loro potere. Le stoffe mi
guardano, e io mi lascio contemplare. Ben vengano imbarazzo e quella
luce un po’ sinistra nei miei occhi, vuol dire che la recita anche oggi è
perfetta, che nel divieto ancora una volta il godimento si lascerà
intravvedere, dal fondo vivo dello stagno.

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ascolti

Ci sono quelle voci come per cento gole e bocche e feritoie e spiriti
funesti, ventosi, che ne abbiano preso possesso e lì insediati, truci di
vendetta scomposta, le torcono, le bocche, stirano gli orli e i labbri - e
che io abbia rubato un paio di forbici ordigni obici flesh di quelle carni
ancora tenere spazzate via alle pareti di stanze che sembrano scatole
grigie, saltavano per aria frantumandosi e addio mia bella - fino a farli
sfrigolare, per quel ronzante impulso a dire, a rovesciarmi addosso le
notizie, dilagando invischiando ogni parte di me, un sibilo così
materiale, corporeo, che quasi ne sento l'odore sanguigno, dei visceri ed
organi che ha percorso, polmoni stomaci tubi pulsanti, sussurranti -
addio che ci lasciano qua a marcire inumiditi alle radici, quasi ci
strappano via il midollo, qué va, conciare spalmare strisciare da tazza
di cesso al pavimento appena tiepido dai passi, e qui dove mi tengono
regina degli ospizi regina degli orfani di guerra, avrei pertanto cavato
gli occhi al mio bambino con quelle forbici di sarta raffinata, non ho
bisogno - un confuso parlare di cose che mi entrano dentro, o già sono,
annidate tra i tessuti e le vene?, e subito vogliono uscire, sfiatare - oh,
non ho bisogno di rubarle io, l'imperatrice Alessandro che con acqua e
inchiostro di voci vi posso tenere informati, e sfamati di mille e mille
scricchiolii di gusci, testuggini che mi arrancano dalla riva alla parete
di fondo sopportando rovesci frastuoni di uragani mentre avrebbero
voluto far piano e non svegliare nessuno, non tagliate nessun filo o
nastro di raso, io così pura, amabilmente bianca e regale...
E non un cane che voglia aiutarmi, aspirandole fuori come fosse un
fumo nero e attossicante che va disperso per ridare fiato ai corpi
imprigionati nella stanza che bruciava, ecco che torna, tornano chiassose
solenni teatrali pulsando nella coscia, sulla spalla, viscide e

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sdrucciolevoli, fottutissime parvenze che si sporgono, le vedo, da quel
pulpito sospeso e nebbioso, con piccoli squittii te lo annunciano, che loro
sanno, hanno da dire, conoscono i segreti tuoi più sconci e te li
spalancano imperiosi e... che lassù potessero esserci delle persone
abbandonate, io per tre volte proprietario del mondo da quest'isola
d'argento mento mondare, ah certo la pena non è lontana, per tutti
quegli anni chiusi dentro che nemmeno il respiro poteva uscire sciocco
sciancato incespicante, per dolori alla schiena, come ci fossero quintali
di lastre di ferro sulla schiena - ingiurie, solo uno scherno lacerante,
l'urlo animale delle ombre morte se ritrovano in un attimo un parlare
imperfetto - e corsi là su quell'ultima scheggia di terra in alto sulla
collina, dormono mordono terra radici e come vanno d'accordo con
ogni fibra della vita neanche l'intera navata di saint peter fosse zeppa di
pezzi da cinque fino al soffitto, insomma lasciate lassù a marcire per
quanto davanti a una splendida tavola apparecchiata con succulenti
venti e più bicchieri, grandi e piccoli
Ma un tempo non era così, ah no, ero il signore delle voci io, di
dominio incontrastato, fin da quei giorni al liceo di Versailles che al
vecchio preside di pronuncia perfetta rispondevo nel bretone aspro del
padre, mio padre, di quando insoddisfatto mi batteva, giù nel buio della
stalla, giurando che mi avrebbe cacciato. O quando l'elegante rollio della
Sévigné, quelle sue monache grigie e bianche e panni di bucato buttati
qua e là e uomini sepolti rigidi contro gli alberi, mi si rivoltavano in testa
in russo o in polacco, sedimentando, per via di ricomposizioni e
sospensioni...
Ed era solo l'inizio, poi presi su me l'ungherese, l'arabo, il cinese, e il
croato, il georgiano... scorticato, denudato per meglio filtrare. Tacevo,
finalmente, non facevo che ascoltare. Entro mezzogiorno il bollettino era
là, sul tavolo dell'ufficio E, al Ministero... quei giorni, le mattine in cui
sfociavano interminabili ore sibilanti. Lei non capiva, anche gli amici
dopo un po' se ne andarono, troppo piccola la cucina piena di voci, un
garbuglio di fili elettrici e la radio che sgolava, le cuffie mi chiudevano

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al mondo, Paul Armand la mia Jacqueline mi guardavano con occhi
grandi, spalancati, non potevano credere, sapere che tutta la mia vita, la
vita, era in quell'ascolto prolungato, dodici quindici ore, anche malato,
anche nel pericolo. Ma io attraversavo mondi brucianti, pulsazioni,
materia e carni e indicibile vibrare ricomposti nelle lingue degli umani, e
quelle mi curavano, mi salvavano dal vuoto ma ancor più
miracolosamente massaggiavano i miei piedi doloranti e gonfi o
riscaldavano i bronchi infreddati. Mosca Pechino, l'incapacità di
Alexandrov, lottare contro la ratificazione degli accordi di Parigi -
Jacqueline se ne andò - il compagno Malenkov si riconosce inadeguato
al compito che, comunica pertanto la sua volontà di dimissione - un tale
miserabile ai suoi occhi ormai, in fondo non altro che un folle illetterato
dagli abiti bucati, ancora sai di sterco, e tasche scucite, su sandali
stridenti a calpestare i fili notte dopo notte, tra magnetofono radio
gracidare di tasti e arrotare manopole, un anarchico pezzente che decifra
l'accadico e il sumero e dietro lenti annebbiate di polvere e fumo scruta
segni guizzanti sui muri di Scozia... vivevo di voci e di soffi, di ritmi, ma
nessuno da Gallimard voleva i miei versi... per loro ero il barbone
poliglotta, si accostavano ai muri vedendomi arrivare e io gli gridavo
contento saltellando su una gamba Sono un fellagha, sono un fellagha, e
i miei poemi indésirables li lasciavo ai tavolini dei caffè.
False parole? Menzogne spudorate... ah, che piacere quando una
virgola soffiata nel microfono bastava a rivelarmi l'inganno. Io lo vedevo
scorrere, quel fiume sotterraneo gorgogliante, la vera storia mi si svelava
come all'emergere accecato dell'acqua dalla grotta cava... fu così che
quel giorno d'ottobre scrissi la lettera, Avenue Foch, ai piccoli boia,
Gestapo, Paris, ehi voi, sono l'ascoltatore pagato dal ministero, sono
l'orecchio clandestino e veggente, cos'è quell'orrore, quel tumefatto
ribollire che in lampi di secondi gonfia le voci dei vostri notiziari, le
distorce, le vostre voci sempre così lucide e lisce come membra educate
a una contratta rigida postura, scarnificate per troppa pulizia... è vero
questo che sento?, questo borbogliare di vesciche infette che vi sfugge

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involontario e che mi parla di braccia e gambe spezzate, grandi fosse
spalancate nei campi polacchi bagnati di nebbia, camion saturi di gas per
le strade delle città russe... è tutto vero?
Mi presero, per settimane in qualche sotterraneo della capitale
occupata. Mi lasciarono andare. Tornai nella stanza dei fili aggrovigliati,
ricominciai gli ascolti, clandestino.
I bollettini? Non ce n'è traccia negli archivi, anzi gli archivi son
scomparsi, come pure il Ministero, e gli amici di Canard, del Libertaire.
Le febbrili trascrizioni, le parole tradotte e interpretate nel loro vero dire,
l'ininterrotto racconto di anni di ascolti, non resta nulla... ma se anche me
lo avessero annunciato, allora, non avrei potuto fermarmi. Era la potenza
delle voci a tenermi, inchiodato, contratto nell'ascolto, un oscuro profeta
dalle giacche bucate eppure visitato da parole-regine, inflessibili padrone
delle mie veglie. Nel silenzio delle notti, da cento punti del pianeta, da
terre raggelate, da deserti polverosi, i testi mi trovavano entrando nella
stanza e nelle orecchie e io li decifravo, a volte ne scioglievo la
doppiezza, ma sempre la voce debordava spaccando triturando le linee
intessute del messaggio, sempre oltre lo schermo la voce scorreva come
acque o terre in movimento. Voci senza corpo, voci insieme di parola e
canto, enigmi sonanti per cui mi convincevo di aver attraversato le ere
fino all'antico spazio bisbigliante in cui le cose ancora hanno da esser
nominate... non da Polonia Cina Uzbekistan giungevano quei soffi, ma
da profondità nascoste nei corpi di uomini e donne e da lì risalenti a
ritroso per lunghi cammini fino all'origine del mondo, quando le cose si
svegliano e pulsano chiedendo di esistere nel suono materno che le dice.
Conoscevo ormai più di venti lingue e in quel parlare ininterrotto mi
annegavo, libero da me stesso, affollato nell'apparente solitudine, errante
in un perenne sogno di anarchia e affrancato dal nome e dalla carne, e
come avessi venti vite o mille, tanti erano i corpi e le esistenze abitati e
rivelati dalle voci in cui mi mescolavo, riconoscente... mentre andavo
scoprendo risonanze inattese, un accordo tenuto segreto a noi uomini
iracondi.

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Tutte le esistenze si rispondevano, come frammenti di una melodia in
cui l'intera vita compatta si rivela, canto remoto inascoltato, se non a
volte nel riso che visita il bambino nel sonno, se non in quel mio
bracconaggio appassionato... su quella spiaggia bianca dove camminavo
raccogliendo relitti legni levigati avanzi, ogni reliquia una parola del
poema originario, ed era così semplice afferrarlo, bastava andare sotto il
cielo e umilmente chinarsi nella sabbia bagnata. Ed anche se la lingua mi
era ignota era quel non paese di soffi e lampi di sonorità che cercavo, la
spiaggia che non sembrava finire all'orizzonte ma... no, ecco che
sembrano tornare da sfinteri irritati, maligni, feritoie, e mi si apre la
bocca come fosse uno spacco screpolato una ruga un taglio dai bordi
indistinti, ecco - ma pure essendo io questa meraviglia del mare
rossolilla - qui urla, rossolilla urlato e non saprei dire il perché della foga
o rabbia, le parole ne sfiatano come getti di gas da corrose tubazioni -
nuovo blu inghiottito scampato a così grande pericolo, ecco che mi
spunta dalla bocca una tal bambinella col suo vestitino marrone
grinzoso - questa bocca che non può riposare, quest'orecchio che non
vuole zittirsi...
Ma dire certe cose è un'indecenza, un brodo spesso che mi s'incolla
vergognoso al corpo ribollendo qua e là, sibili e squarci su una coscia,
alla nuca, nel mezzo della schiena...
E io che avevo scelto di tacere, quasi cieco e inconoscente e con
mente ammutolita come per disporsi a una preghiera, nel silenzio
ascoltare e sparire nella terra, nelle voci e nei ritmi ricomposti. Si poteva
vivere, giacere, in quel non paese dove si scorda la ferita - il tradimento?
- corpo senza passato, zeppo dei suoni dell'universo, del tumulto e del
bisbiglio, dell'umile sostare dell'albero che guarda al golfo immenso
sotto sé, della zolla fangosa che impercettibile scivola e si sfalda, di
strepiti sordi esplosioni... di voci umide, ventose, voci d'acqua, di
animali nascosti e braccati, di mille cose e avventure disciolte
nell'incessante melodia.

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E nessuno a spiarmi, non avrebbero più chiamato la polizia per
portarmi ancora una volta in Rue de Bourgogne, al commissariato, e poi
subito all'infermeria speciale, perché quel commissario ormai non mi
voleva più vedere, ancora lì, con le tasche piene di carta e nella bocca
parole straniere che lui non capiva. Fuggitivo, introvabile, avrei potuto
sottrarmi, così da zittire chi andasse dicendo che avevo vissuto, che
quello era stato il mio nome, quella la donna che mi aveva abbandonato,
quelli gli occhiali le giacche sfondate i poemi presuntuosi... ecco,
ritornano, approfittando della più piccola crepa, chi l'avrebbe detto
quelle mattine, due ore prima dell'alba, quando tutto d'improvviso taceva
e nel silenzio del cielo sopra i tetti la mia testa continuava a risuonare,
ma di bisbigli ritmati, accenti, scomposizioni infinitesime di sillabe, e
tutto era perfettamente chiaro, comprensibile, e assoluto come la luce
che ogni volta risaliva e niente sembrava preparare la catastrofe
imminente, del ritorno alla vita rumorosa con i suoi falsi drammi recitati
a piena gola... tutto aspettavo, ma non perdìo queste voci di dissesto,
furenti, che un dio maligno, illividito forse per l'assenza, continua ad
inviarmi, e sanno tutto, loro, si presentano per nome - col vestitino
grinzoso non più stiratello e un fiocchetto azzurro appuntato salvato -
faresti meglio, oh! se ogni tanto ti uscisse qualcosa di vero, il fiocco era
grigio e poi la bambinella non è tua, a malapena te l'hanno imprestata
quegli altri, i santi del piano di sopra - come vecchie conoscenze
sibilanti per la rabbia, voci di avvoltoio affollate nella fronte e dentro gli
occhi, dovrei forse scavarmi un buco e sperare che escano fuori per
sempre come getti di vapore da una fogna straripante - e la rivogliono
indietro tra un'ora - mi faccio allora un cappello di piume rosse e verdi
un pince-nez e una dentiera di piccole strisce d'avorio, aguzze, e non mi
venga incontro neanche uno di quei salvatori usciti dal branco di cani e
di scimmie, salvagione di zotici, infelice samaridio, disamaro
...non uno che mi tocchi la nuca con le dita e mi soffi nelle orecchie, a
liberarmi nel silenzio
Mont a ra mad atao? Me zo skuiz. State sempre bene? Sono stanco

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SOTTRAZIONE

Queste montagne inestricabili sono il regno e il suo confine.


Si vive in remoti pertugi, a valle, negandoci ad ogni ascensione, quelli di noi, esigua minoranza, che
l'esilio ha eletto a suoi scalcinati ministri.
Esilio dentro il regno, nel cuore stesso del territorio, negli interstizi lasciati vuoti per distrazione.
Tutto attorno è questo brulichio, questo bisogno vuoto e neutro di sopravvivere aggrappandosi
all'esistenza congelata delle cose.
Dalle stanze isolate, da questa sottrazione, si distoglie lo sguardo, si ha ritegno a parlarne.
Ma ci sono visioni nella notte, quegli spazi che si aprono nel cielo a grandi altezze. Non così in alto
che non ci si possa immergere e scrutarne i bordi frastagliati, là dove i limiti aprono il vuoto
sgombrandolo all'ascolto.
Accadono nell'arco di molti anni e si danno a vedere dall'alto di queste montagne, centro e confine
dell'esistente, entità e margine della geografia che è stata concessa.
Ma lo scrutare da tali vertici lungo i margini e dentro la materia che risuona non è dato alle
maggioranze dei camminatori che qui dominano i luoghi e conoscono valli e crepe, gli sfondamenti
con le croci dei precipitati, e i sentieri i boschi e tutti i tipi di fogliami digradanti e impallidenti verso il
cielo.
Questi evanescenti diorama come da bocche di vulcano aperte a tali altezze nella notte ghiacciata si
mostrano ai più oziosi imbiancati che per i lunghi anni inveiscono al monte, alle creste, stando
immobili chiusi su sé alle pendici.
L'origine e il confine furono sempre per loro incompresa dannazione.
Ma li ripagano quelle notti – una due al passare di una vita – quando a loro spetta il cammino, veloce
agilissimo, impensato, per quanto senza moto, il monte è una bestia domata, il confine s'infrange al
solo fissarsi dell'occhio.
Lassù sollevati, nel vuoto gialloarancio che si apre, hanno sagome forti eppure sfasate come di chi
danza controvoglia, con gambe pesanti.
- Ci sbilanciamo. Verso un'acuta striatura verdedorata, come in progressive frane, scivolamenti.
Come ascoltando il resto di lingue primitive cancellate, articolazoni, balbettii che si affacciano tra i
filamenti di questo cielo gelato, noi e loro sospesi in un notturno esilio, su soglie sonore, al limitare di
abrasioni, prossime afasie.
Ci facciamo sottili come lamine per risuonare a questo acceso diniego, a queste lacune e smarrimenti,
mentre là al fondo la totalità delle voci si scheggia in frammenti inudibili, in scie disperse,
ripercorrendo il cammino a ritroso.
Si aprono ferite nella pelle per questi suoni-scheggia, suoni-materia, e intorno è tutto un crepitare un
raspare uno sgranarsi attraverso carni sconfinate di cui ci giunge il lontano interno vibrare.
Ecco l'Espressione: che s'incolla alla cornea e al cuore irrichiesta, pura, cieca passione. Il vuoto al
fondo dove germogliano le voci senza suono. L'occhio si fa trasparente.
Ma come un lampo si richiude il battito silenzioso, essiccato.
A un volgere del vento, al blu striato che ci fende il capo, in quella distrazione, nel volerci custodire
un equilibrio terrigno e cieco, in quella fessura. Nel sostenerci troppo umano scivola su noi rapida la
cancellazione, così come precipitosa la nostra discesa ci riconsegna al silenzio oscuro giù al fondo, al
nostro ritegno.

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Ricondotti al parlare dei più, alla perdita, all'assenza irreparabile, siamo nuovamente clandestini. Tra
quelli che parlano avendo da sempre dimenticato.
Nell'universo tornato ad essere taciturno.

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