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4.rinuncia - -
5.ribellione + +
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Fino agli anni Settanta, fra i teorici della devianza, solo Matza, con il
concetto di deriva, aveva messo l'accento sulla volontarietà della
decisione di compiere un atto deviante. A partire da questo periodo la
riflessione sociologica sulla devianza affronta il tema della
responsabilità individuale. Contemporaneamente si risveglia anche fra
gli economisti l'interesse per il tema della criminalità, che viene
affrontato in base all'assunto comportamentista proprio della
disciplina, per il quale la decisione di compiere un reato va analizzata
come di natura strettamente razionale, e, quindi, in termini di
opportunità, costi e benefici. In questa ottica, il genere di
considerazioni e di valutazioni che motivano un individuo a compiere
un atto deviante non differiscono da quelle che indirizzano qualsiasi
tipo di scelta. Un soggetto intraprende la carriera deviante quando la
remunerazione del reato è maggiore di quella derivante dal lavoro
legale, tenendo conto della probabilità di cattura e di condanna e della
severità della pena (G.S. Becker 1968).
Le teorie sociologiche dell'azione razionale, sviluppatesi negli ultimi
venti anni, propongono una lettura della devianza, che prescinde dalla
distinzione fra normalità e patologia. Questa corrente recupera la
teoria classica, che guarda al reato e attribuisce al soggetto deviante il
libero arbitrio e la responsabilità delle decisioni, e si distacca dalla
teoria positivista, che concentra l'attenzione sul deviante, trascurando
l'atto, le modalità, le condizioni e le opportunità, e tende a definire il
deviante come ricettore passivo di pressioni esterne. Per spiegare la
devianza vengono accolti due presupposti: a) la devianza deve essere
considerata un'azione; b) in quanto azione deve essere compiuta in
modo tale da renderne riconoscibile il carattere deviante sia da parte
di chi la realizza che da parte di chi la subisce, la osserva o la reprime.
L'assunto di base di questo approccio è che, dal punto di vista
dell'attore, l'atto deviante risponde a criteri di razionalità. La devianza
in quanto attività pratica richiede da parte di chi la realizza una
determinata competenza. La devianza viene definita come un'azione
metodicamente organizzata che l'individuo può esplicitare dandone
una descrizione intelligibile: il deviante sa quello che fa e sa come
farlo. La razionalità si esprime sia sul piano dell'azione, attraverso la
congruenza fra fini e mezzi della devianza, sia su quello cognitivo,
attraverso la coerenza fra credenza, azione e rappresentazione
dell'azione.
Le principali teorie che hanno adottato uno dei due schemi di analisi
della devianza basato sull'assunto della razionalità dell'individuo sono
la teoria degli stili di vita, la teoria delle attività di routine e la teoria
cognitiva. La teoria delle attività di routine (Cohen e Felson 1979) si
propone di individuare i fattori che influiscono sulla decisione di
commettere un atto deviante. Questo approccio, che ha conosciuto un
notevole successo negli anni Ottanta, si riallaccia ad altre impostazioni
che hanno ricevuto nuovo impulso dagli studi di questo periodo, la
vittimologia, che studia le vittime e le condizioni di vita e la teoria
ecologica. Nella teoria delle attività di routine il livello di devianza in
una società dipende dalle modalità dell'interazione sociale nella vita
quotidiana, che si strutturano nelle attività quali il lavoro, l'uso del
tempo libero, la disponibilità e la cura dell'alloggio, l'allevare figli, gli
acquisti, ecc. Sono le attività di routine a mettere in contatto
aggressori e vittime. Perché si compia l'atto criminale sono necessari
più elementi: aggressori motivati, obiettivi o vittime designati (un bene
da prendere, una persona da assalire) e assenza di guardiani (i
poliziotti, ma anche tutti coloro, parenti, amici passanti, la cui presenza
agisce come deterrente). L'incontro fra questi elementi avviene
durante lo svolgimento e grazie alle attività di routine. Le differenze e i
cambiamenti delle routine determinano le diverse probabilità
rispettivamente di compiere e di essere vittime di atti criminali. Certi
soggetti o certi luoghi sono più esposti alla criminalità rispetto ad altri
a causa delle modalità di interazione sociale e degli schemi di routine.
Per la comprensione del comportamento deviante occorre, dunque,
considerare non solo la prospettiva del deviante - le sue caratteristiche
così come le sue motivazioni -, ma anche gli altri elementi del contesto
in cui l'atto avviene: la presenza di qualcosa o di qualcuno cui l'atto
deviante si indirizza e l'assenza di controlli o di fattori di contesto
inibenti la devianza. Se manca uno solo dei tre elementi indicati il
reato non può avvenire. Il fuoco dell'analisi in questo approccio alla
devianza è nell'atto, piuttosto che nell'attore. La semplice disponibilità
a compiere l'atto deviante da parte del soggetto non è sufficiente per
determinare l'effettivo accadimento del reato.
La teoria degli stili di vita utilizza il concetto di rischio per spiegare la
vittimizzazione. L'attenzione si appunta non sugli autori dei reati ma
sulle vittime degli atti criminali. La probabilità di rimanere vittima di un
reato è legata allo stile di vita adottato dall'individuo. Ma lo stile di vita,
che comprende sia le attività di lavoro che quelle del tempo libero,
dipende dal ruolo sociale, dalla posizione nella struttura sociale e dalla
componente razionale delle scelte di comportamento. Le esperienze di
vittimizzazione sono, dunque, prevedibili, sulla base delle variazioni
degli stili di vita indotti dalla collocazione sociale degli individui.
Vari approcci confluiscono nella categoria delle teorie cognitive.
Walters e White (1989) affermano il ruolo della cognition nel
determinare le forme di attività degli individui. I fattori ambientali e
sociali modellano solo indirettamente il comportamento individuale,
ponendo dei vincoli. La devianza non è determinata dai
condizionamenti esterni al soggetto, bensì dall'irrazionalità e
dall'inadeguatezza degli schemi mentali adottati dal deviante. Alla
base del comportamento deviante vi sarebbe il mancato sviluppo della
cognition.
Altre ricerche sulla delinquenza e sul consumo di droghe hanno
adottato lo schema della razionalità cognitiva, respingendo la tesi
dell'irresponsabilità del deviante e attribuendo al soggetto
l'intenzionalità nel compiere l'azione e la capacità di riconcettualizzare
la propria esperienza di devianza. La questione dell'abbandono della
devianza, ad esempio dell'uscita dalla tossicomania, viene riformulata
in termini di mobilitazione delle capacità razionali del soggetto, il quale
riconosce la differenza fra la propria condizione e lo stato di normalità,
in quanto dotato di riflessività e partecipe in qualche misura del
sistema normativo vigente.
Le teorie razionali recuperano la prospettiva teorica della scuola
classica, che analizza la devianza a livello micro e fa discendere il
comportamento deviante dalla decisione libera e autonoma
dell'individuo. In alcune versioni l'attenzione alla natura individuale
della scelta deviante si coniuga con la considerazione del contesto in
cui la devianza ha luogo.
Bibliografia