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LA STRADA DI CASA

Romanzo di Lara Zavatteri

Le pagine che seguono sono una piccola anticipazione del


libro, un modo per far sì che chi frequenta il blog possa
farsi un'idea di che cosa parla il testo. Quando ho
iniziato a scrivere questo libro, avevo in mente di
narrare la storia di tre donne, diverse fra loro per
carattere e personalità, ma accomunate dalla voglia di
“tornare a casa”, cioè di essere accettate così
com'erano. Così ho raccontato la storia di Matilde
durante gli anni della seconda guerra mondiale, lei
staffetta partigiana, sola e con una figlia da crescere,
interessata alla politica e insomma femminista ante
litteram in un mondo che vedeva la donna unicamente come
moglie e madre. Sara, sua nipote, presa tra due fuochi,
l'affetto per la zia e l'amore per un soldato tedesco, e
infine Anna, che nel 2005 scopre il diario della madre
Sara e inizia a leggere consapevole di addentrarsi sempre
più in un viaggio anche dentro se stessa. La cornice è
quella del paese di Castelfondo, in val di Non, scelto
perché in certi punti si capisce che la popolazione un
po' comprende il tedesco dei soldati, e Castelfondo si
trova sul confine con la val d'Ultimo in Alto Adige. Un
viaggio tra il ventunesimo secolo e il 1943-45, tra il
Trentino, la Germania e infine la Polonia. Ai nostri
giorni, non sarà solo Anna a dover trovare la via di
casa....la risposta alla fine del libro. Buona lettura!

Lara Zavatteri
CHI SONO

Mi chiamo Lara Zavatteri, vivo a Mezzana in val di


Sole (Trentino) e sono una giornalista pubblicista
dal 2000.

Scrivo per il settimanale “Vita Trentina” e per


altri siti, inoltre ho realizzato alcuni libri: oltre
a Frammenti nel 2006, “La strada di casa” (editrice
Uni-Service) nel 2007 con il quale ho partecipato
alla Fiera del libro di Torino, la raccolta di
racconti “Le Piccole Cose” (Boopen editore) nel 2008,
“Reset” (Silele editore) nel 2009.

Nel 2010 a seguito di un esperimento in Rete sul portale


www.eventitrentino.it
con le autrici Rossella
Saltini e Rossella Giardina ho pubblicato la raccolta dei
nostri racconti intitolata “Il Blog Novel di Eventi
Trentino” (editrice Uni-Service) mentre un mio racconto è
stato pubblicato dalla casa editrice
Historica nell'antologia “Bassa marea” (volume secondo).
Curo anche il blog di un giovane ingegnere trentino e una
rubrica sui libri su Eventi Trentino.
In questo passo Sara, nel suo diario, appena dopo la
morte del fratello Renzo per mano dei tedeschi, descrive
la figura della zia Matilde.

Castelfondo, 24 agosto 1943 (sera).

Sembra che da questa mattina siano passati secoli. A casa dei


miei ho trovato la Susanna con la zia Matilde e mia cugina Maria.
Papà se n’è andato di buon’ora a tagliare legna, la mamma si
occupava delle faccende. Grazie a Dio sono almeno usciti dal
torpore dei primi momenti, ora tentano in ogni modo di impegnarsi
in qualcosa per non pensare alla fine di Renzo, anche se è
impossibile.

Approfittando di un momento in cui la mamma era scesa in


cantina, la zia ha preso a sbraitare sulle colpe del regime,
mentre la Maria cercava inutilmente di calmarla. Dà la colpa a
Mussolini della morte di mio fratello, di essersi alleato con
quella “canaglia todesca”, di aver iniziato la guerra che ha fatto
“crepare tanti giovani in Albania, in Russia e fa nascondere sui
monti quelli che non hanno nel sangue quell’ideologia da
macellai”. La Maria la supplicava ogni minuto di parlare piano e
di piantarla lì con quei discorsi di politica per pensare di più
alla buon’anima di Renzo e alla perdita subita da tutti noi, ma
non si può far tacere la zia. Si è alzata in piedi, camminando
avanti e indietro per la stanza, gesticolando nervosamente con le
mani mentre parlava.

Stava proprio dicendo che almeno Renzo è morto per la libertà,


forse da solo e lontano ma libero di corpo e di spirito, non come
tanti altri di questi tempi, quando mia madre è tornata su con
delle cipolle in mano e l’ ha guardata perché sapeva che quelle
parole erano anche per lei e per mio padre. La zia prima ne ha
sostenuto lo sguardo per farle capire che aveva proprio sentito
giusto, poi, dispiaciuta per averla fatta restar male in un
momento del genere, non si è scusata, ma le ha fatto un gesto con
la mano come a dire di non farci troppo caso. La mamma ha sorriso,
per un breve attimo, per la prima volta da quando ha saputo della
morte di Renzo.

Pur essendo sorelle, la mamma e la zia hanno ben poco in comune.


L’ho capito, anni fa, per un episodio particolare e grazie alla
discussione che ne seguì.

Un giorno al catechismo il signor curato narrò a noi bambini le


vicende di Abramo e dei suoi figli, concepiti con donne diverse.
Il fatto mi sconvolse ma, per paura di chiedere a don Giuseppe,
famoso tra noi piccoli soprattutto per le punizioni corporali che
infliggeva a chi non sapeva a memoria gli insegnamenti del Vangelo
o non aveva studiato un passo della Bibbia, preferii domandare a
mio padre una volta giunta a casa. Gli chiesi se, per caso, nella
Bibbia ci fosse qualche riferimento di tali oscenità compiute da
donne che magari vivevano con due o più mariti. Avvampò, divenne
rosso come un tizzone e rispose imbarazzato che non ripetessi mai
più una cosa simile.

Quella sera, prima di addormentarmi, lo sentii discutere con mia


madre. Lei ricamava, non ho mai capito se per vera passione o per
abitudine, lui leggeva “La Domenica del Corriere” alla luce della
lanterna ad olio, sfogliando rabbiosamente le pagine. Ne sentivo
il fruscio dalla mia cameretta, ad un certo punto strappò per
sbaglio un foglio, cosa che lo fece arrabbiare ancora di più.
Allora chiuse il giornale e riferì a mia madre i quesiti
vergognosi di cui avevo parlato, poi sbottò, disse di esser certo
che la colpa era tutta della Matilde. La mamma, meravigliata,
rispose di non capire che cosa c’entrasse sua sorella con le mie
domande. Dalla mia stanza lo sentii ribattere che la Matilde era
testarda, senza ritegno, una che si comportava sempre come voleva,
una donna che praticamente viveva come un uomo e che per questo
doveva avermi riempito la testa di idee malsane su quello che le
donne potevano fare.
In seguito, stanca delle mie domande nate dopo aver ascoltato
quei discorsi, la mamma mi raccontò la storia della Matilde. Nei
primi anni Venti, quando io ero piccolissima, la zia emigrò in
Merica, a Buenos Aires, con suo marito. Pier Cesare De Bello,
detto Cesare, che nonostante il nome bello non era davvero secondo
mia madre, era un uomo di mezza statura, corporatura robusta e
quasi grasso, un naso adunco e dei favoriti lasciati crescere
senza cura, che sfigurava di fronte alla Matilde, alta, snella e
con i lineamenti decisi ma al contempo delicati, che ne facevano
una vera bellezza. Apparteneva ad una delle famiglie più ricche
della zona che possedeva terreni un po’ in tutta la vallata, ma lo
stesso Cesare aveva mandato in rovina i suoi e nessuno sapeva bene
per quali motivi; la madre, caduta in disgrazia da un giorno
all’altro, era morta di crepacuore.

Lui, forse per cercare di alleviare il suo tormento e


allontanarsi dal rancore del padre e dei fratelli, aveva deciso di
salpare oltreoceano in cerca di fortuna. Ma appena qualche mese
dopo il loro arrivo, scoppiò un’epidemia di tifo che uccise
Cesare, lasciando la Matilde sola con mia cugina Maria di un anno
ed una montagna di debiti. Il marito infatti doveva dei soldi al
proprietario di una terra, un piccolo appezzamento che aveva
acquistato promettendo di pagare un po’ per volta. Sperava forse
di ricavarne qualcosa lavorando la terra e coltivandola, però la
zia scoprì che non valeva nulla e l’aridità del terreno era tale
da non permettere a nessun tipo di coltura di attecchire. Lei
aveva estinto i debiti con il truffatore lavorando come serva in
un’osteria locale. Gli abitanti del villaggio la chiamavano
scherzosamente la “Piedra”, la Pietra, un modo per definire il suo
carattere ostinato, ed osservavano con curiosità il suo tragitto
verso la locanda, ogni giorno per mano ad una bambina sempre più
magra; se la trascinava dietro non sapendo a chi affidarla.
Prometteva alla figlia, ma in realtà più a se stessa, di ritornare
in Italia, cercando di farsi coraggio e tirare avanti. Non era
semplice. Avevano le scarpe bucate e vestiti stracciati, ma la zia
aveva rifiutato qualsiasi forma d’aiuto, specialmente quello di
suo padre.

Dopo la morte di Cesare aveva scritto al paese e la famiglia


immaginava in quali condizioni sopravvivessero madre e figlia. I
genitori spedivano lettere offrendole aiuto, anche a costo di
grandi sacrifici, ma lei rifiutava sempre. Quei rifiuti le
costarono parecchi mesi di lavoro, in un paese che non amava, ben
lontano dalle speranze che erano state sue e di Cesare.

Solo dopo un anno e mezzo che lavorava all’osteria riuscì a


mettere da parte il danaro per pagare la traversata via mare. Al
paese la gente era sorpresa per il suo mancato ritorno dopo la
scomparsa del consorte e pensavano che la Matilde si fosse già
trovata un altro uomo mentre a Buenos Aires, dove la zia aveva
conosciuto diversi amici, la vedevano partire con un groppo in
gola e la salutavano sventolando fazzoletti sul molo, ammirando la
dignità di quella donna che era stata capace di farsi forza.

Tornava al paese che aveva lasciato e tutto ciò che aveva (a


parte la vedovanza) stava in una valigia sbrindellata. Decisa a
non gravare su nessuno ed a conservare la propria indipendenza, la
Matilde si mise alla ricerca di un lavoro e di un posto dove
vivere con la Maria.

“Quando la rividi rimasi di sasso. Si era tagliata i capelli e


portava le braghe. Mi disse che con il tessuto delle gonne aveva
fatto pezze da cucina. Pareva un uomo” mi raccontava la mamma.

Oggi so che mia madre si sbagliava. La zia somiglia ad un uomo


non per l’aspetto (i capelli corti, che porta ancora adesso, le
donano molto) o l’abbigliamento, quanto per gli atteggiamenti
sicuri, il piglio, l’andatura veloce, lo spirito, tutte
caratteristiche più dei maschi che delle femmine. Trovò un impiego
come postina, lavoro che svolge ancora oggi a turno con un
collega, Remo: per fortuna il telegramma che annunciava la morte
di Renzo non l’ ha dovuto portare lei alla mamma.
Era un lavoraccio, che la costringeva a pedalare per chilometri
in bicicletta per consegnare lettere e pacchi, con qualsiasi
tempo. Gli anni trascorsi in Argentina però l’avevano resa più
forte e non la spaventava la fatica; con i risparmi comprò una
piccola casetta, lasciando l’abitazione di un’amica che l’aveva
ospitata nei primi tempi. Spaccava la legna, arava i campi e
falciava i prati, era capace di riparare qualsiasi congegno
meccanico, leggeva, s’interessava di sport e politica, quello che
non sapeva fare lo imparava presto.

Cosa più importante, non aveva più cercato un uomo, benché i


corteggiatori non le mancassero. Quando la mattina passava in
bicicletta per le vie del paese i giovanotti le urlavano: “C’è
posta Matilde?” e fischiavano in segno d’approvazione. Lei rideva,
a volte si fermava a parlare. Era giovane e bella, quando fui più
grandicella le chiesi perché non desiderasse risposarsi. Un giorno
che lei e la Maria erano passate a casa nostra, avrò avuto otto o
nove anni, le dissi che sposandosi di nuovo non avrebbe più dovuto
lavorare tanto. Lei non si scompose, mi venne vicino e, parlandomi
piano come fosse una confessione, mi confidò che lavorare le
piaceva molto. Non riuscivo a capire come potesse esser contenta
di pedalare per ore sotto la pioggia o di spaccarsi la schiena in
lavori che un uomo poteva svolgere al suo posto. Rimasi senza
parole, la zia rise del mio silenzio e aggiunse che un lavoro
fatto con tutti i crismi dava grande soddisfazione.

Fino ad allora l’unico modello di donna che credevo possibile


era quello della ragazza che diventa moglie e madre e si affida in
tutto e per tutto alle decisioni del marito: una come mia madre,
insomma. Le sue parole mi avevano confuso; era l’unica donna della
borgata a vivere sola, in una casa senza un uomo, e sola aveva
allevato la figlia. Molte delle altre, anche quelle rimaste
vedove, si erano maritate con i primi uomini disponibili per paura
di doversi arrangiare o apparire indecorose. Sapevo che quella
condizione era la causa di molti litigi familiari, perché
soprattutto suo padre (e mio nonno) la voleva sistemata e
“normale” come le altre.
Io vedevo la vita della zia come un qualcosa di strano ed allo
stesso tempo affascinante e proibito e non sapevo mai bene se
imitarla o, in certi momenti, specie quando ne sentivo parlare dai
miei, compatirla. Avevo sempre questi pensieri, a volte
m’immaginavo trasformata in un ragazzo per quelle folli idee di
libertà, di una vita mia, con le mie sole forze su cui contare e
non comprendevo perché indossare delle braghe di fustagno fosse
peccato.

Una volta il signor curato, vedendola abbigliata da maschio, le


ricordò che il Signore aveva stabilito che le donne dovevano
indossare vesti e che, se non aveva più gonne in casa, la perpetua
sarebbe stata lieta di cucirne una per lei. La Matilde scoppiò a
ridere come al suo solito, domandando al signor parroco se per
caso i preti, che indossano la tonaca, fossero in realtà delle
donne.

Quando era da noi, mentre mia madre cucinava lei leggeva,


commentava le notizie del giorno cercando invano di coinvolgere
mio padre. Lui non condivideva i modi della Matilde, quel rifiuto
di “stare al suo posto” e non di rado cercava di umiliarla, senza
tuttavia riuscirci, ricordandole che quelle erano robe da uomini.

Fin dall’inizio, alla zia non è mai piaciuto il Duce e non ha


più cambiato opinione. Una volta acciuffò me e Renzo mentre,
vestiti con la divisa dell’Opera nazionale Balilla, raggiungevamo
il sagrato della chiesa per gli esercizi ginnici del sabato. Ci
spogliò e, dopo averci rivestiti con altri abiti, ci disse di
andare a giocare, che sicuramente il nostro fisico ne avrebbe
tratto maggiore giovamento.

“Sono due porci, quelli lì. Sono stati capaci solo di urlare in
piazza alla gente sciocca che li applaudiva” l’ho sentita dire una
volta, riferendosi al Duce e Hitler, dopo un comizio di Mussolini
trasmesso per radio, seguito da Galeazzo “testa di cazzo” Ciano,
come dice lei riprendendo uno sfottò popolare.

Detesta il Duce per molte ragioni, soprattutto per quello che


pensa delle donne, e ripete spesso che lei si sente tale anche se
non ha ricevuto alcuna medaglia al merito o un premio in danaro
durante una cerimonia pubblica per aver partorito dodici figli per
la Patria, perché non potrà mai riconoscersi nel “Credere,
obbedire, combattere e..partorire!”.
Altre anticipazioni potete trovarle nel blog
www.lastradadicasa.blogspot.com e sul gruppo
Facebook omonimo. Grazie per l'attenzione e spero
diventerete miei lettori!

Lara Zavatteri

www.larazavatteri.blogspot.com

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