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La cittadinanza digitale: intervista con Gianluigi Cogo

E’ un piacere ospitare sul nostro blog l’autore del libro


“La Cittadinanza Digitale“, Gianluigi Cogo .

Cogo è un ottimo comunicatore e grazie a questa sua


dote è anche un ottimo “facilitatore” per le nuove
tecnologie nei processi delle PA. Già negli anni ‘90
fondava una delle prime reti civiche a Venezia e con la
Regione Veneto ha lanciato la prima intranet 2.0.

Gianluigi benvenuto ! Prima di tutto grazie di aver


accettato di fare questa mini intervista.

Cittadinanza digitale, diritti e doveri dei nuovi cittadini


nell’era della conoscenza.
Prima domanda secca, secondo te è davvero alto il numero delle persone che in Italia si
sentono cittadini digitali e che soprattutto sono consapevoli dei propri doveri in tal senso ?

No, non credo, anzi è proprio esiguo. La consapevolezza, di solito,


avviene alla fine di un percorso che, nel nostro paese, abbiamo appena
iniziato e che, comunque, è più arduo che altrove.

Non c’è un grande senso civico e lo sviluppo della democrazia partecipata


soffre la mancanza di questo fondamentale.

La Tecnologia
Nel tuo libro ricalchi spesso il concetto che la tecnologia è solo uno strumento (oggi
avanzato) ma che se non si cambia mentalità e modo di approcciare i processi mettendo al
centro l’utente, i vantaggi non si vedranno mai. Nel mio piccolo ho visto progetti
tecnologicamente perfetti partire già “morti” perchè informatizzavano la procedura senza
portare nulla di nuovo.
Ma come si riesce ad invertire questo modo di lavorare ?

Facendo l’ovvio, ovvero analizzando i fabbisogni con l’utente finale.


Sembra davvero una ovvietà ma alzi la mano chi lo fa per davvero.
Spesso la sicurezza, l’inconsapevole prepotenza, la boria associata alla
competenza fanno perdere di vista questo principio. Oggi è necessario co-
costruire, mettendo l’utente sullo stesso piano del servente. Assieme si
progetta, si costruisce, si corregge, si evolve, si cambia.
Facile a dirsi vero?

Parole come usabilità, user-experience, accessibilità, consumerization, ecc.


enfatizzano solo la banalità dell’unico metodo possibile: ANALISI DEI
FABBISOGNI!

E’ dura da accettare ma molti progetti nascono morti perché non c’è il


bisogno o, per lo meno, lo vede solo chi li scatena.

I requisiti, questi sconosciuti

Spesso parlando con le nuove leve che entrano in azienda mi soffermo sull’importanza di
formalizzare nero su bianco i requisiti funzionali di quello che si sta sviluppando (a dire il
vero io sono un grande fautore dell’insegnare a tutti i nostri giovani la potenza del scrivere e
riscrivere quello che si dice nelle varie riunioni e poi magari chiedere al proprio referente: io
ho capito questo era quello che volevi dire ? Ma questo è un tema diverso). Anche nel tuo
libro evidenzi come a volte i vari applicativi del mondo della PA siano realizzati senza aver
fatto una analisi dei requisiti esauriente e vera, sentendo e coinvolgendo i fruitori del
servizio.La mia sensazione è che ci sia una certa corrente di pensiero per cui gli applicativi
2.0 (se mai dovessero esistere) dato che sono basati sul concetto di web siano più “facili” e
quindi più semplici da analizzare e realizzare. Io penso sia esattamente l’opposto.

Avevo risposto alla domanda precedente prima ancora di leggere questa.


Come vedi alcune risposte già ci sono, basta mettere in pratica questi
dettati.
Per il resto, anch’io penso che l’applicativo (business mashup o
application API based) non sia facile da realizzare. Spesso si percepisce la
potenzialità indotta dall’interoperabilità e da alcune grammatiche minime
condivise ma, portare questo a livello enterprise è un’altra cosa.

Certo, l’esperienza utente è importante e deve essere tenuta in


considerazione anche quando si pensa che il core del progetto sia nella
parte funzionale. Spesso non lo è. A volte una interfaccia semplice e
usabile permette di superare scogli ben più ardui. Prima si conquista la
fiducia, poi la complessità la si scompone assieme.

Paura di sbagliare

Anni fa in una mega riunione per definire i requisiti di una applicazione di procurement
nel pubblico ho contato 8 persone dell’ente nostro cliente, discutere per ore su quale vocabolo
utilizzare come etichetta di un campo.
Alla mia domanda all’utente con cui avevo più confidenza se stessimo scherzando, mi
risponde serio “Ma come , se poi scegliamo il vocabolo sbagliato e finiamo in tribunale ?”.
Ecco un po’ era una battuta, un po’ l’evidenza di una paura che secondo me nella pubblica
amministrazione italiana esiste ed è viva: cosa succede se sbagliamo.
E quando questa paura affiora nei progetti IT che dovrebbero essere di forte innovazione …

Le ontologie non dobbiamo deciderle noi con megariunioni alla ricerca di


denominatori comuni. E’ successo anche a me, ricordo riunioni fiume su
un catalogo di formazione da erogare on line, e ogni campo era una
discussione infinita. Noi dobbiamo gestire i dati e renderli fruibili. La
semantica serve per dare una qualità, un identificabilità, una lettura
univoca, insomma è una carta d’identità dei dati, ma poi mia madre può
chiamarmi amore, gigetto, titti o figliolo, cosa cambia.
I portali di nuova generazione permettono di costruire viste basate sul
tagging e quindi su ontologie che crescono grazie alla marcatura sociale.
Si, lo so è un po’ un paradosso, ma dammi il dato e io lo chiamo, lo
aggrego, lo combino come voglio!

Open Data
Il concetto di far si che i dati siano un patrimonio disponibile a tutti e che “addirittura”
possa servire come volano a nuovi business è bellissimo.
Ma soprattutto in Italia la protezione del proprio giardinetto di conoscenza è dura da
scalfire.
Anche in ambito privato c’è molta strada da fare, mi ricordo ancora un manager
all’introduzione di un applicativo di pubblicazione dei documenti aziendali sulla intranet
esclamare : “ah .. così tutti potranno aver accesso alle procedure” … eh già .

Mah, io stesso son perplesso ma, abbiamo alternative? Secondo me no! La


PA dovrebbe gestire bene i dati e non fare ICT nel senso dell’erogatore di
applicazioni. Non è il suo lavoro.
Il dato è l’unità minima dell’informazione. Se qualcuno ne ha accesso
esclusivo significa che l’informazione è parziale.
Le procedure sono il mezzo e, come tutti i mezzi possono cambiare. I dati
sono il fine e devono essere gestiti bene ma poi resi disponibili in forma
chiara, comprensibile e certificati dall’emittente. Il resto dovrebbe farlo il
mercato.

City Smart
Leggendo la parte che hai dedicato al concetto di city smart mi veniva in mente l’Expo2015.
Siamo già alle occasioni perse ?
Ho partecipato ad un paio di convegni sull’Expo o meglio su quello che lato IT vorrà essere
l’expo e sinceramente mi sono sembrate un mucchio di chiacchiere senza sostanza.
Invece secondo me questo tipo di eventi dovrebbero / potrebbero essere i catalizzatori per
creare o diffondere nuovi manifesti e/o modi di pensare l’IT all’interno di un tessuto sociale
come Milano.
Che ne pensi ?

Sono assolutamente certo che le tecnologie possono fare solo del bene alle
città intelligenti. Certo, la politica deve capire il tema e imparare cos’è il
crowdsourcing, ovvero l’outsourcing di certe ricette, idee e decisioni. E’
finita l’epoca delle città programmate da grandi piani. Le città diventano
liquide, ibride, sempre in movimento. Intere zone diventano ecosistemi
intelligenti e, la connessione fra questi è digitale.

Giovani Nativi Digitali


Qualche settimana fa discutevo con un caro amico dell’attuale livello di conoscenze IT degli
ingegneri di oggi. Io mi stupivo del fatto che con la facilità di oggi ad accedere alle
informazioni ed al contatto più diretto con le aziende, i giovani italiani che si lanciano in
nuove iniziative imprenditoriali sul web siano davvero pochi.
Il mio amico mi ha risposto sostenendo che forse sono raggiunti da TROPPE informazioni
… tirati dalla giacchetta da una parte e dall’altra si mettono alla finestra e “subiscono”
passivamente il sovraccarico informativo.
Tu cosa ne dici ?

Può essere l’effetto overload ma non credo sia l’unico. Per avere dei
creativi bisogna dargli degli obiettivi. Oggi nessuno pone gli obiettivi
giusti a questi giovani ingegneri. Di fatto quando entrano in un reparto
IT, son costretti a fare i gestori e a contenere i tagli di budget. Se la nostra
politica migrasse dai distretti fordisti e assistiti dagli aiuti di Stato a quelli
immateriali, gli obiettivi sarebbero più chiari per questi giovanotti.
Così, invece, fanno i manutentori della macchina che eroga servizi
funzionali. Mai strategici.

Fine delle domande


Mi piacerebbe trovare le parole per una domanda super intelligente per concludere questa
mini intervista, ma non ci riesco. Allora lascio carta bianca a te, cosa vuoi dire ai giovani
aspiranti lavoratori che leggono questo blog cercando di districarsi nel variegato mondo
dell’IT italiano ?

Siate meno pragmatici e più visionari. Le risposte non sono nel codice ma
nei desideri e nei sogni dei vostri utenti. E non dite mai, mai, mai, non si
può fare. Perché sapete che non è vero!

Grazie per la disponibilità!

Massimiliano Grassi

Photo in home page by ash-s

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