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Maria Cristina Koch Candela

20131 Milano, via Grossich, 16 02 2367781;


mcristina@mckoch.fastwebnet.it

dopo tanti modelli terapeutici

Curare la vita con la vita

“Oltre”

Milano, ottobre 2009


Curare la vita con la vita

Curare la vita con la vita ......................................................................1


Introduzione ...................................................................................4
Piccolo avviso ai naviganti ................................................................6
Il setting.......................................................................................11
Lo spazio più privato ..................................................................12
Il setting relazionale...................................................................13
Chiamarsi per nome ...................................................................14
Il pagamento.............................................................................16
La durata ..................................................................................17
I fatti degli altri .............................................................................19
Questione di cornici....................................................................20
Uno, nessuno e centomila ...........................................................22
Un frattale per identità ...............................................................23
Cattedrali..................................................................................26
Uno splendido addio ...................................................................28
Una rete per pensare .....................................................................31
Le stecche del ventaglio..............................................................31
Una rete per navigare.................................................................33
Altrove nel tempo ......................................................................36
Ideologie a confronto .................................................................38
Dall’accumulo del sapere a sapienze che trasmigrano .....................39
Il moto è permanente.................................................................42
Cercando la convenienza ............................................................44
Trasmigrare fra i nodi.................................................................46
Un maghrebino al semaforo ........................................................47
Vincoli ..........................................................................................49
Bipolarismo ...............................................................................51
I piedi nel piatto ........................................................................53
Il corpo e la mente.....................................................................62
Annabella e lo stornello ..............................................................64
Il corpo come Atlantide...............................................................66
Il corpo come consulente ............................................................68
Il linguaggio degli organi.............................................................71
Assieme per dare un nome..........................................................73
Dalla diagnosi alla significazione ..................................................76
Flash............................................................................................80
Alla stazione di Trento ................................................................81
Bustine tonde per il the ..............................................................84

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Curare la vita con la vita

Come mi vesto oggi? ..................................................................86


Comprare un bambino? ..............................................................89
Elogio dell’apparenza..................................................................93
Figli e figliastri...........................................................................97
Foglie d’erba ........................................................................... 101
Forzati del cambiamento........................................................... 105
I confetti, tu li mastichi? ........................................................... 109
Il lutto del sintomo................................................................... 112
Il presente nasce dal futuro....................................................... 116
Intimità e verginità .................................................................. 119
La clinica e le donne................................................................. 122
La curva a tocchettini ............................................................... 126
Alle madri di maschi................................................................. 128
Lei o lui?................................................................................. 134
La lingua mochena ................................................................... 138
Magie ..................................................................................... 141
Prendere gli stivali ad un morto ................................................. 143
Razzista anch’io ....................................................................... 146
Regina della casa? ................................................................... 150
Storia di una sonda spaziale ...................................................... 153
Strisce pedonali e sellini di bicicletta........................................... 157
Sudafrica e Ruanda tracciano la strada ....................................... 160
Un polpo in Sardegna ............................................................... 163
Incontri ...................................................................................... 165
Nota breve.............................................................................. 166
L’ambiguità del colesterolo ........................................................ 168
Gli occhi del sarcofago.............................................................. 196
Un volpino per Sergio ............................................................... 212
Una biciclettata per Giulietta ..................................................... 235

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Curare la vita con la vita

Introduzione
Con questo nuovo libro vorrei raccontare di qualche idea e di
qualche strumento tecnico che mi son trovata a considerare utili nel
mio mestiere. E vorrei raccontare affinché se ne possa avviare una
discussione critica, affinché altri colleghi, se vogliono, ne testino
l’utilità e li correggano e li integrino in una sorta di ricerca aperta,
in cui il pensiero e la tecnica della psicoterapia moderna appartenga
a chiunque operi. È un pensare collettivo che circola, a me sembra
di averne intercettato alcuni aspetti e di questi riferisco qui. Per cui,
buon lavoro a chiunque vorrà maneggiarli assieme a me.

Nel corso di più di trent’anni, come un po’ fanno tutti, ho studiato


sui libri, sono andata a vedere colleghi più esperti e prestigiosi, ho
tentato contagi e contaminazioni fra discipline diverse; e anche, per
come ho potuto, sono andata a visitare altre culture, altri punti
d’osservazione. Non so se si possa parlare di un percorso,
sicuramente di un gran girovagare sotto il benedetto segno della
serendipità, in cui ho incontrato maestri generosi, tecnicalità
precise, slarghi di vedute e improvvisi mutamenti di senso. E un
gran divertimento nello sperimentare e in accostamenti improbabili
di logiche e linguaggi differenti che andavano a formare
costellazioni inedite capaci di movimento e di capovolgimenti
talvolta di grande efficacia. Mi piace andare a conoscere e studiare
almeno un approccio nuovo ogni anno; mi piace andare a bottega
un giorno dalla PNL, un altro da una sciamana maori, e poi la
struttura del narrare come la forma del pensare femminile, il
problema del consenso articolato con la possibilità di verificare
quanto ha compreso l’interlocutore dal mio dire, l’affascinante
attesa della risposta che dà senso alla domanda, il viaggio fra il
formarsi dei pregiudizi e la magica ironia della cultura ebraica e la
struttura sociale all’interno dell’harem. Viaggi, excursus, puntate
più o meno veloci che poi mi riportavo a casa come strumenti di
lavoro, da usare talvolta come avvertimenti talaltra come forzature
di uno schema ripetitivo ma anche per introdurre un diverso respiro
nell’andamento relazionale.

Norbert Wiener, quando doveva riflettere, si poneva davanti a una


tenda agitata dal vento o di fronte a un ruscello, diceva che così
manteneva il cervello indeterminato, non specializzato, in modo che
potessero entrarvi informazioni nuove ed evocare risposte
impensate. Mi è parsa un’immagine suggestiva e bellissima.

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Curare la vita con la vita

Ma adesso basta introdurre (giustificare?), inizio a raccontare e,


come dice il guardiano del faro, vado in mare aperto con rotta
incerta.

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Curare la vita con la vita

Piccolo avviso ai naviganti


Il libro è composto da tre parti: i primi capitoli in cui espongo le tre
operazioni fondamentali di cui mi interessa qui trattare: occuparsi
degli altri, costruire una rete per pensare, considerare i vincoli
attraverso e grazie ai quali possiamo pensare.

Poi, i flash, brevissime istantanee di pensieri suscitati dagli


accadimenti della giornata, da una scenetta intravista, da
un’emozione vissuta. Sono bozzetti che suscitano pensieri,
correggono e suggeriscono tecniche da utilizzare nell’ambito
terapeutico. E, infine, in appendice, ci son gli incontri, trascrizioni
commentate di alcune vicende significative che ho spartito con i
miei interlocutori. Brevemente, sedute di terapia.

Ho immaginato, infatti, questo lavoro come un ipertesto che sta al


lettore smontare e rimontare a suo piacere, come in un gioco di
figura/sfondo tridimensionale, in cui ciò che credo di pensare
dovrebbe trovarsi riflesso nella quotidianità degli incontri
terapeutici, innervato e suggerito da quello che il mondo esterno
mostra e offre nel dispiegarsi delle giornate. Questo, per me, è il
senso semplice dell’idea di “curare la vita con la vita”.

Il dolore dell’esistenza, il disagio mentale, psichico, la sofferenza in


ogni sua forma, ci turbano e ci coinvolgono, ondeggiamo
faticosamente fra l’orrore del rifiuto e la pietas, il desiderio di darne
sollievo. Nel tempo abbiamo tentato di imbrigliarla, questa
sofferenza psichica, con la più netta delle soluzioni: dandole un
nome, anzi, tanti nomi, affastellando dettagli sempre più minuti del
dipinto che la vuole definire per inquadrarla, appunto, rinchiuderla
in una cornice certa: la diagnosi. Una cornice spessa che non
cattura noi, i sani, la possiamo tenere a una distanza giusta,
possiamo immaginare soluzioni. La distanza che ne prendiamo,
allora, non è più una fuga ma un’azione etica, scientifica, distacco
indispensabile per inquadrarla, darle un nome, noi la studiamo per
inventare i modi di curarla, di guarirla, questa sofferenza che ci
minaccia. Per disinnescarla, capovolgerla, evitarla, eluderla,
affondarla.

In questa straordinaria coltivazione della ricerca della cura, infiniti


sono stati gli approcci utilizzati, articolate fino all’incredibile le
tecniche messe a punto. Una ricerca inesausta che ha impegnato
decenni e decenni, su cui tuttora ci affatichiamo in tanti. Un

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Curare la vita con la vita

patrimonio imponente di pensiero e di studio, con contrapposizioni


un giorno aspre che trovano pacificazione nel tempo di poi e
lacerazioni improvvise e dolorose che frantumano un’idea, la
riflettono in cento specchi, ne fanno nuove edizioni, e ancora e
ancora. Ma tutte, tutte, mi sembra, le diverse terre di questo
mondo hanno a fondamento della loro scienza un proprio pensiero
sull’esistenza, un modo di riguardare alla vita da cui discendono le
soluzioni tecniche e le teorie raffinate. Perché non si può pensare,
parlare, vivere e studiare se non partendo da un punto di vista.
Talvolta, e a me per esempio piace molto, in vista di un obiettivo,
lo sguardo ben radicato nel futuro. Così, in un gioco di rimbalzo, ciò
che si dice del disagio mentale, della malattia, della sofferenza
psichica, dei modi per curarla, per sconfiggerla, per “guarirla” (!),
la descrizione che se ne fa, la struttura dell’intervento riflettono, in
realtà, il pensiero di chi guarda e dice. E, principalmente, l’idea del
benessere cui si dovrebbe condurre il portatore del malessere. Ma
ci dimentichiamo di ricordare il punto di vista da cui si è preso
l’avvio: questo viene tralasciato in una immaginata lettura obiettiva
della sindrome, del sintomo, del quadro clinico. Accade, così, che
l’altro, il cosiddetto paziente, quello la cui sofferenza inizialmente
vorremmo alleviare, si trasforma in una protesi del suo disagio:
definito attraverso la definizione del suo male, viene ricollocato con
attenzione nella casella che lo attende. Non più Giovanni, Anna,
Maria, Edoardo, operaio, maestra, architetto, medico ma fobico,
depresso, maniacale, caratteriale. Potenza del nome che crea
l’identità e lo assegna con fermezza.

E della matrice sostanziale da cui scaturisce tutto questo accurato


inquadramento, del punto d’avvio squisitamente culturale, del
modo di pensare la vita e l’esistenza di chi guarda e definisce, non
si ha più memoria, (forse non se ne ha mai avuta), ma è
esattamente questo che cuce di senso l’intervento terapeutico,
richiudendolo in sé.

Perché in ogni incontro terapeutico, forse, semplicemente, in ogni


incontro umano, convergono i pensieri sull’esistenza dell’uno e
dell’altro per, assieme, farne un nuovo, diverso manufatto. È
importante, allora, che chi si pone in ascolto dell’altro sappia e dica
qual è il punto di vista da cui prende l’avvio, come si svolge il suo
stile di ragionamento, quali le tecniche che possiede e come il
metterle in atto obbedisce e si compone con la sua filosofia
dell’esistenza. Una trasparenza di pensiero e di intervento che non
si arroga la palma dell’eccellenza ma pianamente rende conto di ciò

7
Curare la vita con la vita

che fa, di come lo fa, dello scopo verso cui si muove, dei criteri di
verifica del suo lavoro. Perché nell’incontro terapeutico la
responsabilità è inesorabilmente personale.

Ecco il senso di questo mio scritto: rendere conto nel dettaglio di


come lavoro, cercare di raccontarlo per conoscerlo anch’io meglio e
usarlo con maggiore competenza. La mia idea è che fare terapia è
un modo di costruire le nostre differenti identità, fra vincoli e libertà
di ciascuno. Il sapere riscoperto è un’esperienza, calda e vitale,
profondamente immersa nel quotidiano, quel quotidiano che dà
contorni alla nostra esistenza, che ci caratterizza e ci definisce. È il
nostro stesso abitare il mondo che ci ingabbia e ci libera, è nel
nostro modo di costruire il pensiero e la vita che va ospitato il
disagio, accolta la sofferenza.

E, visto che ci sono, tanto vale dichiarare i miei pregiudizi più


abituali:

• non mi dedico a decifrare la patologia, non amo


l’inquadramento diagnostico; mi interessa, invece, cogliere
le risorse non utilizzate, spesso non conosciute, dell’altro,
cercarle assieme e poi ristare incantata a osservare l’uso
che ne vien fatto, spesso per prosciugare a suo modo
l’ambito patologico; mi interessa allargare l’ambito della
salute della persona, ho bisogno della sua sanità,
dell’identità con cui si aggira quotidianamente nel mondo,
per poterlo incontrare;

• sto attenta a usare sempre un linguaggio italiano, non di


gergo clinico: se una persona mi si dichiara paranoica e
vuole imporre le sue regole sul mio operare, la chiamo
prepotente, se una persona mi esibisce la sua comprovata
depressione, le dico che penso ci sia un dolore da
attraversare da cui si è tenuta lontana per timore di non
farcela;

• la persona, o le persone, con cui lavoro sono i miei migliori


consulenti, i miei esperti supervisori. Ho la massima fiducia
e stima nella loro saggezza, mi lascio guidare dai loro
movimenti, mi arresto ai loro divieti, svolto dove mi sembra
volgano lo sguardo;

• il mio interesse è riuscire a sintonizzarmi sulla teoria del


mondo e di se stesso che ha la persona con cui lavoro, non

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Curare la vita con la vita

di interpretarla secondo eventuali teorie: è più ecologico e


più funzionale; la conoscenza delle varie teorie che sono
state visitate nella formazione di un terapeuta è un utile
patrimonio di risorse, è un buon esercizio imparare a
conoscerle per apprendere come si costruisce una teoria e
come se ne testa la tenuta e l’efficienza: mi serve quando
incontro la teoria del mondo dell’altro;

• non mi occupo della verità, neanche per contestarla, non


cerco di appurare come stanno le cose effettivamente,
cerco di cogliere il suo modo di pensare il mondo, di
connettere pensieri, emozioni, progetti in uno stile
personalissimo, cerco di intercettare il ritmo e la musica di
fondo che, come una firma, lo caratterizza e, quando ci
riesco, entro a tempo nella sua danza;

• considero e rileggo il cosiddetto sintomo come una


metafora creativa costruita per uno scopo che potremo
identificare e inseguire assieme: oggi dà dolore, possiamo
cercare di ottenerlo investendo altre risorse, magari perché
no?, alzando il tiro, pretendendo di più;

• nella ricerca dell’altro, mi sento libera di intervistare gli


organi del corpo, mettere a confronto le diverse e molteplici
persone che ciascuno ospita e che nel loro gioco mutevole
ne delineano la personalità, modificare il setting, qualunque
azione o movimento che mi permetta di incontrarlo e di
scambiare fra noi per dar vita a un’esperienza;

• non mi ritrovo nella consueta definizione di percorso


terapeutico: ogni incontro è a sé, ogni seduta è una prima
seduta da aprire con emozione e concludere con
l’attenzione che dedicheremmo se fosse anche l’ultima;

• non cerco il famoso cambiamento, non mi riguarda,


appartiene all’altro il più pieno e libero diritto di far ciò che
vuole del lavoro comune;

• non voglio sapere a tutti i costi, evito di incappare nei


segreti faticosi da confidare, a meno che mi sia dichiarato il
desiderio di condividerli. Nella complessità della persona
umana c’è un richiamo, una sostanziale risonanza fra tutte
le sue diverse strutture: fisica, mentale, logica, psichica,
linguistica, relazionale. Mi attesto, dunque, sul livello che in

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Curare la vita con la vita

quel momento mi appare come il più protettivo di


un’intimità che non mi piace violare, il più agevole da
maneggiare assieme, quello che promette un lavoro di
miglior soddisfazione, confidando che l’ecologia propria
della persona saprà far circolare l’informazione importante,
il significato decisivo ai livelli che maggiormente possono
usufruirne. A suo modo, con il suo linguaggio, con i suoi
tempi. Che non devo condividere necessariamente;

• questo mestiere mi piace moltissimo, lo affronto con gioia e


curiosità, la sera sento con piacere la stanchezza che narra
l’intensità degli incontri, dove è girata tutta la ruota delle
emozioni, dove ho provato lo stupore per il coraggio e la
dignità, dove ho potuto assistere a impensabili soluzioni di
uscita da un groviglio, dove abbiamo ancora una volta
raccontato assieme l‘eterna storia di questo vivere umano
così privo di senso, insoddisfacente, un nulla nell’infinito
che, pure, in ogni attimo acquista peso e significato, che si
modella nelle nostre mani, che sprigiona sussulti
stupefacenti e incantate contemplazioni, generoso e
crudele, in cui ci è data la meravigliosa risorsa della
condivisione, del consolarsi assieme della fatica e
sperimentare, e sorridere e ridere, e soffrire e sperare.
Oggi per oggi, domani si vedrà.

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Curare la vita con la vita

Il setting
E per raccontare il mio modo di lavorare, cominciamo proprio
dall’ambiente che ho scelto. Il luogo fisico è importante, condiziona
e caratterizza gli eventi. Nel mio studio c’è uno spazio abbastanza
grande per ospitare gli incontri di gruppo, di coppia, di famiglia (e
anche gli appuntamenti con le persone dentro di noi ma di questo
parleremo più in là). Un cerchio di dieci poltroncine, tutte uguali,
una parete con un piccolo specchio unidirezionale e il microfono per
ascoltare, ambedue bene in vista affinché si dichiarino da subito
come strumenti possibili di lavoro, secondo l’ovvio principio che ciò
che non può essere detto non va neppure operato. Questo non è
tanto per me solo un principio etico quanto un confine di sicurezza:
se mi trovo ad aver qualcosa da nascondere non ho la libertà di
pensare e di lavorare che mi occorre, devo impegnare una parte di
energie per evitare di farmi scoprire, il mio passo inciampa confuso.

Le poltroncine le ho volute tutte uguali per garantire a tutti un


maggior grado di libertà, dove sedersi ogni volta, vicino a chi, più
lontano dalla porta d’ingresso o invece più accosto, pronti a sfilarsi
dall’incontro. Mi siedo, in genere, in modo da avere la possibilità di
interloquire comodamente con tutti i presenti; se occorre, le
poltroncine possono essere facilmente spostate. E dietro lo
specchio può andare chi lo desidera, magari anche soltanto per
distaccarsi un poco, per vedere che cosa succede a guardare dal di
fuori. Lì c’è una piccola segreteria con i miei armamentari, il
computer, il fax, il blocco per scrivere, la mia agenda, i miei dischi.
Se lavoro con dei colleghi, usiamo un citofono per parlarci da dietro
lo specchio ma anche dall’interno della seduta. La comunicazione
viene riferita ai presenti, è un’informazione da maneggiare
assieme, può anche richiedere ulteriori spiegazioni o essere lasciata
cadere se non cattura l’interesse.

Uso questa stanza più grande anche come sala d’attesa. Il mio
studio ha due porte, una per entrare e una per uscire affinché sia
evitato l’incontro fra le persone e sia garantita la privatezza a
ciascuno. Fra un colloquio e l’altro cerco di avere almeno dieci
minuti per concludere dentro di me l’incontro appena finito, fare
una telefonata, prepararmi tutta nuova al prossimo. Tutti quelli che
hanno studiato l’effetto campo sanno bene a cosa mi riferisco.

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Curare la vita con la vita

Lo spazio più privato

Se lavoro con una persona in individuale, invece, oltrepassiamo la


stanza più grande ed entriamo in una molto più piccola. La utilizzo
per gli incontri vis à vis, due poltroncine anch’esse uguali fra di
loro, oppure usiamo il lettino. Preferisco mettere a disposizione del
mio interlocutore un vero e proprio letto: ho provato vari tipi di
poltrone e di lettini ma sono arrivata alla conclusione che un letto
offre la massima libertà di movimento e di collocarsi come più si
desidera, il corpo riposa, si aggroviglia, si gira, si ridistende a
seconda dei momenti, sono veramente molte le posizioni possibili.
Per me, invece, uso da tempo una chaise longue, quella mitica di
Le Corbusier, che trovo bellissima e che avevo anche provato a
utilizzare per il mio interlocutore ma a mio giudizio impone una
scelta di posizioni troppo limitata. Mi piace distendermi anch’io
assieme all’altro, sono più concentrata e la mia voce arriva alla
stessa altezza del suo capo. Anche per questo dettaglio, non è
tanto una questione ideologica di annullare o negare la differenza
dei ruoli (delle gerarchie di potere preferisco non fare uso neppure
concettualmente, il grande Bateson diceva che ci sono metafore
descrittive più pericolose di altre e quella sul potere è fra le
peggiori proprio perché così apparentemente semplice ed
esaustiva) ma è che ho verificato come muta l’ascolto a seconda
della posizione fra i due, l’essere con la testa alla stessa altezza
permette un fluire molto morbido del conversare.

Del lettino, poi, non farei un tema troppo sacrale: ha dei vantaggi
perché svincola dal galateo cortese cui obbliga il guardarsi
direttamente (come si fa a restare in silenzio molto a lungo se io
sono lì in attesa, tutta pronta a raccogliere le perle del suo dire?),
permette una forte alterazione del tempo e un aggirarsi fra i propri
pensieri più agile e spregiudicato. Talvolta mi si chiede di
sospenderlo per quel giorno o, viceversa, di poterlo usare per
inseguire più liberamente una catena di pensieri: decidiamo
assieme, è uno strumento a disposizione.

Uso il registratore: ogni mio interlocutore ha la sua cassetta


personale su cui incido i colloqui che facciamo. Evidentemente ne
chiedo il permesso a ciascuno spiegando che talvolta capita di
agganciare forma e contenuto della conversazione con una bella
articolazione e che, talvolta, invece, mi capita di concludere la
seduta con l’idea di non aver capito poi molto di quel che è passato
fra di noi. Sono queste le registrazioni che sbobino per studiarle e

12
Curare la vita con la vita

migliorare la tecnica del colloquio. È accaduto, molto raramente,


che fosse il mio interlocutore stesso a prendere in consegna la
cassetta per trascriverla: si è trattato di casi in cui ritenevo
opportuno che la persona potesse ritornare ad ascoltare ciò che ci
eravamo detti, in un suo contesto più privato, senza di me. Mi
portavano, poi, la trascrizione e spesso mi restituivano la grande
emozione di quanto era importante ciò che avevano ascoltato, di
com’era diversa la loro voce, di come ci hanno continuato a
pensare su. Ma tendenzialmente non consegno le cassette: ho
provato più di una volta nel corso degli anni anche a riascoltarle
assieme ma mi sembra che non dia grandi esiti rispetto al costo di
una inevitabile violazione di pudore e di intimità.

Il setting relazionale

Il contesto fisico e ambientale l’ho voluto così per facilitare il


contesto di relazione con l’altro. E l’altro è il mio consulente, il mio
primo supervisore. A seconda delle sue reazioni, di ciò che dice, di
ciò che tace, dell’andamento del suo respiro, delle emozioni che
manifesta, dei pensieri che sussurra, a seconda di come cambia il
tono della sua voce, la postura del suo corpo, lo sbalordimento, la
curiosità, la contrapposizione, tutto questo e mille altri segnali sono
per me gli indicatori fondamentali di come muovermi. Per tacere,
per suggerire, per proporre, per accompagnare, per deviare, per
inserire un mio pensiero, per interrogare, per ascoltare
serenamente. Senza memoria e senza desiderio, sono al seguito
del suo passo per entrare nel suo mondo. Con il suo permesso.

Per poterlo seguire, occorre che mi senta a mio agio, libera di osare
e di astenermi, senza impacci fisici ma anche sciolta dalle
preoccupazioni di ciò che gli accade, di ciò che farà, di ciò che vorrà
rischiare o trattenersi dallo sperimentare. Posso lavorare bene
solamente se resto totalmente responsabile di ciò che faccio,
penso, provo, dico o taccio tanto quanto resta all’altro la piena
responsabilità di ciò che fa, pensa, prova, dice o tace. Assieme, ci
occupiamo del suo mondo, assieme ci prendiamo cura della sua
fatica e della sua pena, assieme cerchiamo risorse inesplorate e
possibilità innovative, assieme restiamo sotto scacco e sopportiamo
l’impotenza dello star dentro tollerando assieme di non vedere
uscita. Non intendo curare, probabilmente non saprei farlo,
prendermi cura sì. Con il suo permesso. Assieme all’altro.

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Curare la vita con la vita

Spesso usano l’intercalare: se devo essere sincero, se devo dire la


verità… Aggiungo seria (ma spero non troppo pedante) la mia
postilla: non è tenuto a dire nulla che non desideri dirmi, nulla che
non desideri che io venga a sapere. Per quel che mi riguarda, le
persone che mi cita e che impariamo a conoscere assieme,
potrebbero anche non esistere “in realtà”, mi basta che esistano
per l’altro nella nostra relazione.

Tengo molto, e lo dico fin da subito alle persone con cui mi trovo a
lavorare, al mio segreto professionale: avverto che non parlerò
neanche della loro esistenza con me, tanto meno dei loro fatti
privati, con chiunque: genitori, medici invianti, mogli e mariti, amici
preoccupati. Anzi, per essere più chiara, non ne parlerò se non alla
loro presenza. Chiunque lavora con me può propormi di incontrare
qualcuno del suo mondo: valuteremo assieme l’opportunità della
sua richiesta, ne sonderemo il significato e le conseguenze, quel
che ci attendiamo da questo incontro. Se dovessimo decidere, e
talvolta accade, di invitare qualcuno a incontrarci, io resto
comunque vincolata al segreto per quanto ci siamo detti prima
dell’incontro. L’altro, ovviamente, è libero di dire ciò che vuole. Ci si
ragiona assieme, testiamo le convenienze, quasi sempre preferiamo
l’ipotesi del riserbo.

Spesso risulta difficile conservare il silenzio di fronte a telefonate


preoccupate di madri lontane o di medici o colleghi che, avendo
inviato la persona, pensano di doverne conoscere gli sviluppi,
spesso mi sento sbilanciata dal rigore verso la rigidità ma a
tutt’oggi penso che risulti uno dei confini indispensabili alla mia
possibilità di lavorare.

Chiamarsi per nome

Un’altra richiesta che pongo è poterli chiamare con il nome proprio


o con quello che preferiscono. In genere quando ne chiedo il
permesso, mi rivolgono uno sguardo sorpreso ma, mi sembrerebbe,
piacevolmente. Sì, certo, mi rispondono, spesso i più giovani
accentuano: mi dia pure del tu. Ma declino l’offerta: mi trovo
meglio a usare il lei. È accaduto anche, mi ricordo un ragazzo con
un ciuffo chiaro, la faccetta che voleva sembrare impunita e che
trasudava tenerezza, è accaduto anche che l’altro mi desse del tu:
non era un problema mio, il permesso che chiedo è di rivolgermi
con il lei, come vuole rivolgersi a me l’altro, beh, riguarda lui. Ho
continuato a chiamarlo Fabio anche se spesso cadevo in trappola e

14
Curare la vita con la vita

inciampavo nel tu: era così giovane e mi faceva le confidenze! Ma


cercavo di riprendermi, con un sorriso che gli attribuiva il punto. Lui
non rilevava, andava avanti a parlare, lo sguardo un po’ lontano, la
mano impaziente che tormentava i pantaloni, poi all’uscita,
improvvisamente allungava il volto per ricevere una carezza e se ne
andava, il capo alto, le spalle ben diritte.

Chiedo di poter usare il nome proprio soprattutto per evitare le


complicazioni formali, dottore, signora, professoressa, avvocato mi
ingombrano i movimenti (in particolare con le situazioni familiari,
ciascuno viene individuato con il suo nome, non per il ruolo che
occupa in famiglia o nella società, tutte ugualmente persone con cui
conversare). Ma mi ingombra anche l’uso del tu. Preferisco il lei e
spesso, nei momenti di formazione, qualcuno si impunta, c’è stato
pure uno che una volta ha tirato in ballo la Rivoluzione Francese!
Ma, spiego la mia posizione, usare il lei non vuol dire mantenere
una distanza fissa e allontanarsi dall’intimità. Nel campo del lei si
può avanzare fin quasi a stringersi in un abbraccio d’affetto e poi
ritrarsi prima di sostare indiscreti nell’intimità dell’altro, si possono
evocare i registri del rispetto, dell’indagine appassionata, del
commento, della profonda partecipazione, della presenza silenziosa
ma non per questo meno complice. Mi ha sempre disturbato l’uso
del tu, usato senza chiedere il permesso (penso ai cosiddetti
tossicodipendenti per esempio) e che trovo irrispettoso proprio
nella disparità di trattamento. Gli allievi in formazione, mi sembra,
devono imparare a usare tutte le sfumature possibili che il lei
consente in una relazione fra persone. Dal tu, invece, non si può
tornare indietro, se ci si accorge (e quante volte accade!) di essersi
lasciati troppo affascinare dal desiderio di aderire (catturare?)
all’altro, con il lei è più agevole risistemarsi al proprio posto, il tu è
estremamente più scivoloso. O, almeno, a me sembra così.

Analogamente alla mia richiesta, chiunque delle persone con cui


lavoro può rivolgersi a me come meglio crede, usare il mio nome,
chiamarmi dottoressa, coniare un nomignolo o un soprannome
privato. È frequente che in situazioni emotive differenti scelgano
una o l’altra soluzione e anche questo è un particolare dell’arazzo
che andiamo tessendo assieme. Spesso si fa occasione di intimità,
di un'affettività sorridente, di una complicità seria che non vorrei
seriosa.

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Curare la vita con la vita

Il pagamento

Un altro aspetto, riconosciuto da tutti come importante ma che


viene spesso percepito come inamovibile dall'ambito decisionale del
terapeuta, è quello del pagamento. Anche su questo dettaglio nel
corso degli anni sono arrivata a definire una soluzione che mi
appare funzionale, agevole perché permette di accostare diversi lati
della relazione fra me e l'altro.

La prima seduta, il primo incontro non lo faccio pagare: l'altro è


venuto a incontrarmi al buio, inviato da qualche collega, dal suo
medico di fiducia, da voci raccolte in giro. Ho una segreteria
telefonica in studio dove offro la possibilità di lasciarmi un
messaggio oppure di sentirci direttamente il lunedì fra le 13 e le 14.
La segreteria è sempre inserita, la ascolto fra un incontro e l'altro,
penso che sia meglio non interrompere il colloquio in corso e
dunque il telefono non squilla neppure. Mi è molto importante che
la persona con cui lavoro sappia che quel tempo è totalmente a sua
disposizione ed è importante anche per me, mi lascia un grado
maggiore di libertà in tutti i sensi.

Dunque, mi ha chiamato per telefono, ci siamo accordati per


incontrarci, per la prima volta cerco di non far passare troppo
tempo, magari forzando un poco i reciproci vincoli ma senza troppa
fatica. Ma quando ci vediamo in faccia, quando ci guardiamo per la
prima volta, la persona è in una posizione di netto svantaggio:
viene in casa mia, spesso è stanca di far fatica, ancora più spesso
sta compiendo un passo che ha rimandato e che non ama
compiere, sa di doversi esporre portando le sue cose più preziose a
qualcuno di cui non ha nessuna informazione: che viso ho, che età,
di che scuola sono, come lavoro, se risulterò simpatica o
supponente, se allineerò le sue informazioni per trarne un giudizio
drammatico e mille altre domande che urgono sulle labbra ma che
pensa di non poter formulare. Dunque, come dico semplicemente,
mi sembra giusto che si possa venire prima a vedere senza altri
oneri, un po' come si entra in un negozio nuovo per dare
un'occhiata. E' evidente che dovremo sceglierci l'un l'altro ma
preferisco che si possa uscire dal primo incontro con ancora tutte le
carte decisionali in mano, ivi compresa, ovviamente, quella di non
tornare mai più, di disdire per telefono l'eventuale nuovo
appuntamento, di cercare, magari assieme, una persona più
adeguata di me. Posso dedicare anche un incontro, se lo riteniamo
opportuno, allo spazio di domande, curiosità, informazioni di ogni

16
Curare la vita con la vita

tipo: non è l'altro a dover essere discreto, sono io che debbo saper
come rispondere nel contesto del mio studio.

Solo dopo che ci siamo rivisti perché abbiamo deciso che ci andava
bene, possiamo valutare assieme quanto deve essere il pagamento
giusto del mio tempo e del mio lavoro. Anche in questo caso,
l'onere di aprire il tema è mio, dichiaro la cifra che abitualmente
prendo per ciascun incontro e chiedo quale gli sembri adeguata.
Adeguata non per me, questo è un mio ambito, ma adeguata nel
senso che sia sufficiente a che possa entrare a testa alta e sentire
pienamente suo il tempo, il luogo, il lavoro ma senza che questo
debba comportare uno sbilanciamento troppo forte del suo vivere
quotidiano. Il discorso che ne facciamo, (talvolta in più tempi), il
modo come trattiamo l'argomento annoda e definisce il tipo di
relazione, scandisce il peso che il nostro lavoro andrà ad assumere.
Rilascio sempre fattura, se non serve che la gettino pure via, cosa
farne è ambito loro, farla è ambito mio.

La durata

E, per finire, quante volte, per quanto tempo. Mi chiedono quanto


tempo servirà, rispondo sinceramente che non lo so, posso solo
accennare dei parametri generalissimi che in genere conoscono già.
Sul quante volte, invece, è nuovamente occasione di accordo.
Tratteggio brevemente le diverse possibilità: due, tre volte la
settimana permettono lo strutturarsi di un linguaggio fra di noi, un
conversare che riconosciamo e che usiamo facilmente, dettagli,
amici, amanti e colleghi entrano a popolare l'universo condiviso, si
sa che ci si vedrà fra poco dunque quel giorno lì si può anche
parlare in modo meno "importante", e anche tacere, riposarsi con i
propri pensieri. Gli incontri acquistano un carattere meno sacrale,
più quotidiano e maneggevole.

Vedersi più di rado caratterizza il nostro incontro come perno


dell'intera settimana (o dei quindici giorni), arrivano con già in
testa una sorta di ordine del giorno (che regolarmente
disattendiamo, ovviamente), è più facile giungervi in cerca di
risposte con qualche tratto di definitività ma ciò che ci diciamo può
essere rimasticato, riascoltato e rigirato in testa per più giorni. Sì,
come accade se si chiede alla Pizia, si fa un viaggio, si ascoltano le
risposte, si ritorna via ma in realtà il vero lavoro d'interpretazione
lo fa il pellegrino. Questa soluzione caratterizza, appunto, come
maggiormente impegnativo (e terapeutico) il tempo che intercorre

17
Curare la vita con la vita

fra un incontro e l'altro e garantisce un grado superiore di verifica


ecologica: ciò che resta, ciò che serve è la persona stessa che lo va
decidendo, dopo un vaglio privato senza la mia presenza. C'è meno
accompagnamento, una maggiore responsabilità diretta.

E' scontato che in qualunque momento possiamo ridiscuterne i


termini, decidere di raddensare gli incontri o di diluirli: lo valutiamo
fra di noi. Così, mettiamo insieme le diverse variabili, l'urgenza
della richiesta, il piacere di un rapporto più da presso, il desiderio di
una distanza protettiva, la questione del denaro, la reciproca
empatia, l'interesse del lavorare in sé e allora, ecco, cominciamo,
con un po' di emozione, un filo d'ansia ma incrociando
mentalmente le dita.

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Curare la vita con la vita

I fatti degli altri


Qualche anno fa, in Inghilterra, avviarono uno studio conoscitivo
per migliorare la qualità dell’assistenza sanitaria; un aspetto
riguardava la permanenza dei pazienti in ospedale. Beh, ci si
accorse che, con la stessa diagnosi e cure equivalenti, alcuni
pazienti richiedevano una permanenza insospettabilmente più
breve degli altri. Pragmatici e curiosi, i ricercatori andarono a
cercare le variabili: famiglia collaborante, ambiente più salubre?
Non c’erano differenze significative, e neanche per le patologie
pregresse o il vigore del sistema immunitario. I ricercatori erano
tenaci, volevano sapere, volevano capire e continuarono a sondare
variabili sempre più minute o impensate. Fino a che,
inopinatamente, ne identificarono una, questa sì costante per tutti i
pazienti che guarivano più in fretta: occupavano certi letti. E allora?
Il fatto era che questi letti erano vicini a un grande atrio da cui era
ben visibile il viavai dell’intero ospedale. Le ambulanze che
entravano veloci, l’avvicendarsi dei medici, l’affaccendarsi dei
parenti, il passo esitante di chi veniva dimesso, lo scambio dei
saluti e delle consegne, le porte girevoli che assorbivano e
restituivano persone diverse a ogni rotazione silenziosa. Come dire,
stupirono i ricercatori, che guarivano più in fretta le persone che
avevano modo di praticare l’attività preferita dagli essere umani:
l’osservare gli altri.

Io credo che anche nell’ingresso del nuovo secolo e millennio


questa rimanga la nostra attività preferita e credo proprio che resti
la sorgente per tutti noi che ne abbiamo fatto un lavoro: occuparsi
dei fatti degli altri, farsi e fare domande, poter sapere che cosa
succede, tentare delle proposte, verificare che cosa se ne fa,
saggiare somiglianze e differenze, sperimentare contagi di pensieri
e di avventure, ritrovarsi soli a pensare l’altro e custodirlo dentro di
sé, sentirsene invasi e desiderare di liberarsene, tornare
incessantemente a cercarlo. Lo penso come un prendersi cura,
molti di noi l’hanno chiamato curare, qualcuno parla perfino di
guarire. Ma, nelle sue varie accezioni e infinite sfumature di
dettagli, nei nomi che si sono accavallati a distinguere o a
segnalare condivisioni, più genericamente è quel tipo di rapporto
che socialmente identifichiamo come terapia.

Ambito assai battuto e dibattuto, conosco qualche pista che ne è


stata tracciata ma tant’è, direbbe Manzoni, sembra che, come resta

19
Curare la vita con la vita

la nostra attività preferita osservare gli esseri umani e occuparsi dei


fatti loro, così, analogamente, ci resta indispensabile interloquire
con gli altri per sapere meglio che cosa pensiamo. Narrare le nostre
storie, raccontare i nostri pensieri per poterli conoscere. E
condividere. L’obiettivo di chi narra è vedere un suo pensiero
prender forma di storia, avvolgersi in una linea conchiusa,
appoggiarsi sull’altro e da lui essere rimaneggiato, modellato con
ditate decise o timidi tocchi esitanti, stretto fra i palmi o dilatato fra
le dita stese. È per quello che ci si narra, affinché un altro umano,
magari anche più d’uno, lavorino a loro modo la storia e il pensiero,
ciascuno a suo criterio, gusto, interesse, abilità. È allora che
possiamo lasciar andare il respiro sospeso, quando esce dalle loro
mani, un soffio lento e grato d’emozione. Poi ricominciamo
daccapo.

Questione di cornici

Ovviamente, nell’occuparci dei fatti degli altri, come si fa tutti,


anche noi terapeuti cerchiamo una cornice in cui inserirli, un modo
di ragionare se non un quadro teorico, un’idea del come dovrebbero
andare le cose. Da cui le cose che avvengono si discostano;
variamente e con effetti spesso di grande sofferenza. Le nostre
teorie, i modelli cui facciamo riferimento, fungono da linee guida,
da mappe dei territori che andiamo a conoscere. Nel corso del
tempo, alcuni modelli, alcune teorie, hanno conquistato un credito
maggiore di altri, hanno improntato di sé generazioni di terapeuti
che hanno preferito muoversi nel rapporto di cura entro un recinto
logico e teorico condiviso e che hanno contribuito a definirlo,
dettagliarlo, qui aggiornando un passaggio, là rinforzando un
confine. E, ciclicamente, a ogni progressiva santificazione di un
modello teorico, ecco che gli se ne contrapponeva un altro,
agganciato a quel punto, magari, ma esteso in tutt’altra direzione,
oppure divaricato a fronteggiare un dogma sacro. Connessi
all’evolversi e al mutare del contesto sociale e culturale, i modelli
terapeutici hanno costituito un vasto arazzo e, in qualche modo,
una documentazione precisa dell’andamento del pensiero. Perché,
molto semplicemente, l’indagine sull’altro, motivato dal desiderio di
contribuire ad alleviare sofferenze, disagi, arresti emotivi, paralisi
inspiegabili, ostacoli a una gestione buona, soddisfacente,
pienamente umana dell’esistenza quotidiana, si trasformava
continuamente, incalzata dalle diverse formulazioni del malessere.
E, soprattutto, dalla definizione che, un decennio dopo l’altro, si
veniva attribuendo al malessere stesso, via via che l’idea di

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Curare la vita con la vita

benessere si complessificava, abbracciando molteplici esigenze,


innestando desideri e aspettative solo vent’anni prima impensabili.
E, dentro e fuori i recinti dei modelli di maggior successo, ogni
terapeuta cercava comunque l’incontro con l’altro, trasgrediva e
obbediva alle regole del suo stesso modello nell’urgenza di un fare
sul momento che sempre, per alcuni aspetti, sfuggiva alle ipotesi
teoriche. Come per i reati penali, la responsabilità del terapeuta
resta esclusivamente personale: nell’incontro con l’altro, si è soli,
per quanto numerose e dettagliate possano essere le icone dei
padri protettori.

Nel tempo d’oggi, penso che, proprio come accadde agli inizi del
secolo scorso, assistiamo a una dissoluzione radicale, non
drammatica ma seria sì, delle forme del pensare e del fare che ci
hanno accompagnato fedeli fino a pochi anni fa. Non solo perché,
come si dice, ogni generazione è una generazione di transizione e
la nostra con tutte, ma perché stanno verificandosi degli eventi su
scala mondiale che necessariamente pretendono attenzione: lo
spostamento di milioni di persone in cammino verso una speranza
di vita, la tecnologia del virtuale, la costituzione degli stati uniti
d’Europa, l’imponenza della comunicazione nella vita di ciascuno, la
globalizzazione politica ed economica, le prospettive di intervento
sulla fecondazione artificiale, il cibo, l’ambiente ne sono solo alcuni
esempi. Per non parlare della guerra che ha fatto nuovamente
irruzione impudente nei nostri giorni.

Inevitabilmente, come d’altronde è sempre successo, la cura della


persona umana, le sue forme, le tecniche, i modelli di riferimento,
anche oggi dipendono dal pensiero che della persona umana
socialmente si preferisce avere fra i molti disponibili. Dall’idea,
appunto, del benessere da cui deriva, per contrappunto e
differenza, la diagnostica, il progetto d’intervento, la “cura” del
malessere. Il cerchio etereo del pensiero scende attratto dalla
concretezza a riempire il quadrato della realtà e subito, in
un’impennata veloce, si svincola ancora ritrovando la sua forma di
cerchio concluso. A ogni generazione, in ogni frammento di tempo
che riusciamo a definire, noi umani pensiamo veramente di aver
quadrato il cerchio. Di aver colto l’infinito trasmutare della persona,
di aver capito, definito, agganciato per la manica il malessere, il
disagio psichico. Di poterlo sconfiggere, disinnescare.

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Curare la vita con la vita

Uno, nessuno e centomila

Ad esempio, c’è uno slogan che ha avuto e conserva ancora oggi un


grandissimo successo: “Essere se stessi”. Suona bene, sembra
molto chiaro, immagina delle verità e delle identità, si propone
come guida affidabile nei marosi dell’esistenza. Lo leggiamo sui
manifesti, sulle copertine dei libri, ci esorta con baldo vigore dal
mondo del new age, ci ammonisce pensoso dagli ambienti
meditativi. Sintetico e vibrante, ci sprona a drizzare la schiena, a
confrontarci con il conformismo dilagante senza perdere
l’orientamento, ad avviarci a passo sicuro nel sentiero o nel viale
ampio della nostra esistenza.

Ma lo scintillare di questo motto da ricamare sul petto per potersi


pensare cavalieri senza macchia, ottimati dallo sguardo puro, acuto
come quello leggendario dell’aquila, severi nel redarguire perché
adusi a una austera coerenza, beh è uno scintillio truffaldino, una
luccicante confezione di nulla, come l’aria di Napoli, imbottigliata
con diligenza da un avventuriero geniale.

Perché che cosa mai vuol dire, che cosa mai significa “essere se
stessi”? In un seminario di tanti anni fa sulla comunicazione, uno
psichiatra partecipante tentava di negare il successo palese di un
esercizio di induzione di comportamento avvenuto il giorno prima:
sì, certo, era vero, si era mosso effettivamente in quel tal modo ma
era confuso, forse era anche distratto, insomma ieri non era se
stesso. Il docente lo considera con attenzione, siamo tutti sospesi
in silenzio, poi si china verso di lui e, incuriosito, gli sillaba sul
volto: e quando tu non sei te stesso, chi sei? È una di quelle scene
che, come credo facciamo tutti, conservo come icona, nel
reliquiario dove ammasso i reperti che il mondo e l’esistenza mi
offrono e mi permettono di utilizzare. A fianco di questa, un
foglietto: Snoopy che sentenzia: nessuno è perfetto, ma chi vuol
essere nessuno?

Essere se stessi, appunto, uno slogan fortunato, mi ricorda il


bombastium di un vecchissimo racconto di Paperino, una sostanza
magica e misteriosa che, aggiunta in un contenitore qualunque, ne
trasformava il contenuto nel cibo preferito da chi lo aggiungeva.
Oppure lo sciroppo per la tosse di Mary Poppins che cambiava
sapore a seconda del bimbo che lo ingoiava ma restava prelibato
per ciascuno. Non voglio affatto negare che lo slogan abbia potuto
avere effetti brillanti, ispirare coraggio, suggerire fermezza,

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Curare la vita con la vita

rafforzare qua e là caratteri insicuri: la capacità suggestiva è


esattamente qui. Poiché non vuol dire nulla di preciso ma ha una
forte attrattiva, lo slogan viene riempito di significato da chi lo
prende in considerazione, lo traduce in una esortazione che poi
segue. Lo sforzo di padroneggiare sentimenti o timori, la
soddisfazione di esserci riusciti, rientrano in circolo a riempire ancor
più di rinnovato valore lo slogan stesso.

Ma se fa bene, se ci aiuta in alcuni passaggi perigliosi, perché


attaccarlo, perché svilire a slogan un’esortazione che sembra
parlare d’etica? Beh, come tanti farmaci e come tanti motti ritenuti
utili a educare le più giovani generazioni, anche questo ha degli
effetti collaterali pesanti, impone l’adesione a presupposti non
criticabili. Molto semplicemente, “essere se stessi” presuppone che
ciascuno di noi abbia almeno un sé più vero e più sé degli altri,
pretende che ciascuno di noi, sotto le varie maschere indossate per
fronteggiare le situazioni più disparate, abbia un suo volto unico,
riconoscibile, vero. Vero in quanto unico, il volto di sé. Ecco, a me
pare che questo presupposto risulti oggi particolarmente
inadeguato e antistorico, forse addirittura pericoloso. Inadeguato
perché non è (più?) funzionale per il modo odierno di costruire i
pensieri, pericoloso perché civetta con l’idea di un pensiero unico
più vero e più giusto degli altri. E questo mi spaventa e mi
preoccupa. Ogni pensiero che pretende di essere il migliore
pretende anche, inevitabilmente, la dedizione e la fedeltà. Totali. E
la sconfitta, magari brutale ma per il fine migliore, di ogni altro
concorrente. Il bigottismo laico è estremamente più pericoloso del
bigottismo religioso, proprio perché chi si ritiene laico si pensa
esente da bigottismi e, dunque, non fa nessuna attenzione a
preservarsene. E se glielo fai notare, ti spiega che si chiama
coerenza.

Un frattale per identità

Ma se invece di collocare l’idea di identità in un nucleo compatto e


immutabile ben custodito nel profondo del nostro interno, la
immaginassimo esterna, se invece che unica la immaginassimo
molteplice, se invece che sostanziale la pensassimo più legata alla
forma? Come dire, scivolassimo via dall’identità intesa come il
nome di Ra, il segreto unico, l’anima (magari immortale?), quel
qualcosa che perennemente ci contraddistingue nel tempo evitando
di impigliarsi nelle mutevoli apparenze e invece facessimo leva
proprio sulle apparenze, e invece prendessimo l’altro per come

23
Curare la vita con la vita

appare e (speriamo che Fromm guardi altrove!) non ci occupassimo


di sondare il suo vero essere? Se cominciassimo ad ascoltare,
semplicemente ascoltare ciò che ci vien detto evitando di
“auscultare” i discorsi? Se guardassimo con interesse ciò che l’altro
ci mostra e solo dopo, con il suo permesso e con la sua attiva
partecipazione, provassimo ad accostarne qualche significazione?

Che succederebbe se aggiungessimo un’altra idea di identità a


quella che ha attraversato i secoli formandoci in un pensiero? E
dove sarebbe l'utilità di introdurre la farragine di un modello in più?
Tanto, certe cose le sappiamo da sempre, sappiamo che ognuno di
noi contiene opposti e differenze sia pur costretto a una fatica
quotidiana di integrazione, sappiamo bene che condividiamo
pensieri e volti incompatibili, sappiamo che è il nostro destino.
Sappiamo che il nostro compito di Sisifo è risorgere costantemente
dalla comune imperfezione che ci affligge per crescere, diventare se
stessi, smussare, tralasciare, polire le nostre divaricazioni, scegliere
di diventare fedeli all’unica essenza vera, sempre inattingibile ma
sempre davanti agli occhi, stella polare cui orientare il lavoro
(l’analisi interminabile!) su di noi.

Ecco, a me questa idea non appaga, non mi sta tanto bene questa
visione di noi peccatori (o nevrotici, che differenza c’è?), sempre
tesi a redimerci dalla frammentazione, come dei cani da pastore
impegnati a far sì che le mille pecore si trasformino in un gregge
ordinato. Teniamola pure, questa idea che ha intriso
profondamente le nostre culture ma gliene possiamo affiancare
un’altra?

Se oltre al volersi considerare individui unitari con all’interno una


ridda di parti anche contraddittorie ci pensassimo come una
comunità articolata di individui molteplici di cui ciascuno, intero e
compiuto, ha pari dignità e analoga capacità di porsi come
portavoce della comunità stessa, si aprirebbero prospettive
differenti non solo filosofiche ma anche per un criterio diagnostico e
un progetto d'intervento di cura. Ci provo.

Per ciascuno di noi, le cento, mille configurazioni dell'essere umano


appaiono marcate da quella specifica caratterizzazione, da quello
stile unico, inimitabile che ci fa dire "sono io". Ogni persona che
siamo è firmata, come ogni brano di Mozart lo rappresenta, come la
scrittura di Leonardo si riflette nel suo disegnare, la pittura nel suo
pensiero sulla luce. Se provassimo a chiamare questo, identità,

24
Curare la vita con la vita

senza pretendere di travasare la Gioconda nel codice Hammer, il


Don Giovanni nell’appartenenza massonica? Potremmo pensare
ciascuno di noi come una moltitudine collegata da un dettaglio, da
una forma che rimbalza da uno all’altro e allora potremmo rubare
(o prendere in prestito) dal mondo serioso degli scienziati il
concetto di frattale.

Il frattale, (lo riassumo qui rapidamente solo per ricordarcene tutti


negli stessi termini), è entrato nella fisica da una manciata d'anni
grazie all'innovazione velocissima dei computer più moderni. Per
dare qualche conto della realtà, ci si è spostati dall'utilizzazione
della geometria euclidea a quella chiamata, appunto, frattale. Una
geometria che, riformulando in termini attuali la teoria del caos,
disegna la linea che, sempre uguale a se stessa, sempre
diversamente traccia il confine fra la continuità e la discontinuità.
Come dire, una foglia di quercia è ben riconoscibile ma non
esistono al mondo due foglie di quercia uguali. Sui libri invece sì.
Ognuno di noi sa riconoscere in una carrellata di foto la stessa
persona cogliendo, in contemporanea, le sue trasformazioni nel
tempo, nelle diverse emozioni, nell'atteggiarsi, nella luce, nei
contesti spaziali.

Concetto suggestivo, quello del frattale, non solo per la sua ormai
leggendaria bellezza ed eleganza ma anche perché evade
dall'universo dei modelli ideali (il punto, la retta, il triangolo ma
anche il benessere psico-fisico, l’armonia, l’equilibrio) per cogliere
l'andamento del movimento vivo dell'esistente. Le montagne non
sono coni, il caos non è disordine che squassa l'ordine ma flusso di
vita impetuoso che, come un fiume, ha correnti e gorghi
riconoscibili ma non prevedibili compiutamente. Un cielo a pecorelle
ha un nome per tutti noi, lo riconosciamo ma non esiste una nube a
pecorella se non nell'intero cielo, nessuna nube è uguale all'altra
eppure tutte sono grandemente simili, avvengono insieme nello
stesso cielo. E, poi, soprattutto, le pecorelle vere brucano un po'
più in giù.

Penso al frattale e lo vedo in giro attuato anche in forme d'arte, mi


ripropone diversamente problemi di diagnostica, contiene gli
interventi trasformativi, è maestro dell'accompagnamento "un
passo a lato", della metafora, del paradosso, della linguistica nella
relazione. Del portentoso “homo sum, humani nihil a me alienum
puto”.

25
Curare la vita con la vita

Cattedrali

Ho trovato splendido un brano di Raymond Carver ("Da dove sto


chiamando", Raymond Carver; Minimum fax, Roma 1999), lo
ripropongo qui perché mi sembra una perfetta descrizione del
lavoro terapeutico. Il terapeuta non sa, è un cieco che ha bisogno
che l’altro disegni per lui e dia forma a ciò che contiene dentro di
sé. Ma il terapeuta sa chiedere, porre domande, incalzare perché
vuol sapere, forte del suo non sapere che è il suo strumento
migliore. Anche l’altro vuol sapere, anche l’altro è incalzato dal
bisogno di dar forma e il lavoro si avvia.

"Cattedrali", ha detto il cieco, "so che ci sono voluti centinaia di


uomini e cinquanta o cento anni per costruirle, so che intere
generazioni di una stessa famiglia a volte hanno lavorato a una
cattedrale. Se vuoi sapere la verità, fratello, questo è su per giù
tutto quel che so ma magari me ne puoi descrivere una tu, eh?
Vorrei tanto che lo facessi. Mi piacerebbe un sacco. Se proprio vuoi
saperlo, un'idea precisa non ce l'ho mica".

Io mi sono concentrato: come si fa a descriverla, anche a grandi


linee? ma supponiamo che ne andasse della mia vita, che un pazzo
mi minacciasse. Ho cominciato a parlare, lui mi ascoltava: mi
rendevo conto che non glielo stavo spiegando tanto bene, mi sono
sforzato di pensare a cos'altro dire, poi "Scusa", gli ho detto, "ma
mi sa tanto che è il massimo che posso fare per te. E' che non ne
sono proprio capace. Non ci riesco proprio a spiegarti com'è fatta
una cattedrale. Il fatto è che le cattedrali non è che significhino
niente di speciale per me. Tutto lì".

E' stato a quel punto che il cieco si è schiarito la gola, poi ha detto:
"Ho capito, fratello. Non è un problema. Mi è venuta un'idea.
Perché non ti procuri un pezzo di carta pesante? E una penna.
Proviamo a fare una cosa. Ne disegniamo una insieme. Coraggio,
fratello, trovali e portali qua" ha detto.

E così sono salito di sopra, ho rovistato un po', ho trovato delle


penne a sfera in un cestino sulla scrivania. E poi mi sono sforzato di
pensare a dove potevo trovare il tipo di carta che mi aveva chiesto.

Sono sceso in cucina e ho trovato una busta di carta del


supermercato che aveva ancora delle bucce di cipolla in fondo. L'ho
svuotata scuotendola per bene. L'ho portata di là in soggiorno e mi

26
Curare la vita con la vita

sono seduto per terra vicino alle gambe del cieco. Ho spostato un
po' di roba, ho allisciato la busta e l'ho stesa sul tavolino.

Il cieco si è tirato giù dal divano e si è seduto accanto a me sul


tappeto. Ha passato le dita sulla busta. Ne ha sfiorato su e giù i
margini. I bordi, perfino i bordi. Ne ha tastato per bene gli angoli.
"Perfetto", ha detto. "Perfetto, facciamola".

Ha trovato la mia mano, quella con la penna. Ha chiuso la sua


mano sulla mia. "Coraggio, fratello, disegna", ha detto, "Disegna.
Vedrai. Io ti vengo dietro. Andrà tutto bene. Comincia subito a fare
come ti dico. Vedrai. Disegna", ha detto il cieco.

E così ho cominciato. Prima ho disegnato una specie di scatola che


pareva una casa. Poteva essere anche la casa in cui abitavo. Poi ci
ho messo sopra un tetto. Alle due estremità del tetto, ho disegnato
delle guglie. Roba da matti.

"Benone", ha detto lui, "Magnifico. Vai benissimo", ha detto. "Non


avevi mai pensato che una cosa del genere ti potesse succedere,
eh, fratello? Beh, la vita è strana, sai. Lo sappiamo tutti. Continua
pure. Non smettere".

Ci ho messo dentro finestre con gli archi. Ho disegnato archi


rampanti. Grandi portali. Non riuscivo a smettere. Ho posato la
penna e ho aperto e chiuso le dita. Il cieco continuava a tastare la
carta. la sfiorava con la punta delle dita, passando sopra a tutto
quello che avevo disegnato, e annuiva.

"Vai forte", ha detto infine.

Ho ripreso la penna e lui ha ritrovato la mia mano. Ho continuato


ad aggiungere particolari. Non sono certo un artista. Ma ho
continuato a disegnare lo stesso.

"Premi più forte", mi ha detto il cieco. "Sì, così. Così va bene", ha


aggiunto. "Certo. Ce l'hai fatta, fratello. Si capisce bene, adesso.
Non credevi di farcela, eh? Ma ce l'hai fatta, ti rendi conto? Adesso
sì che vai forte. Capisci cosa voglio dire? Tra un attimo qui avremo
un vero capolavoro. Come va il braccio?", ha chiesto. "Ora mettici
un po' di gente. Che cattedrale è senza la gente?"

Poi mi ha detto: "E adesso chiudi gli occhi".

L'ho fatto. Li ho chiusi proprio come m'ha detto lui.

27
Curare la vita con la vita

"Li hai chiusi?", ha chiesto. "Non imbrogliare".

"Li ho chiusi", ho risposto io.

"Tienili così", ha detto. Poi ha aggiunto: "Adesso non fermarti.


Continua a disegnare".

E così abbiamo continuato. Le sue dita guidavano le mie mentre la


mano passava su tutta la carta. Era una sensazione che non avevo
mai provato prima in vita mia.

Poi lui ha detto: "Mi sa che ci siamo. Mi sa che ce l'hai fatta", ha


detto. "Dà un po' un'occhiata. Che te ne pare?"

Ma io ho continuato a tenere gli occhi chiusi. Volevo tenerli chiusi


ancora un po'. Mi pareva una cosa che dovevo fare.

"Allora?", ha chiesto. "La stai guardando?"

Tenevo gli occhi ancora chiusi. Ero a casa mia. Lo sapevo. Ma


avevo come la sensazione di non stare dentro a niente.

"E' proprio fantastica", ho detto.

Uno splendido addio

E quando l’altro, appunto, giunge ad essere a casa sua, con la


sensazione di non stare dentro a niente, può insegnare anche il
modo migliore di lasciarsi. A me è capitato di impararne molti,
voglio raccontarne uno in particolare che mi ha coinvolto e
commosso profondamente.

Lui era un ragazzo delizioso, attento, divertente, profondo sotto


una sua beffarda modalità di narrazione; fisico nucleare, fra un
evento e l’altro della sua vita mi parlava del suo stare agilmente in
cucina (mi ha incantato un giorno raccontandomi di come faceva i
bignè, con leggerezza, mentre io non son mai riuscita a farli
lievitare come si deve), della musica, degli amici. E del suo amore,
faticoso e ripetitivo ma da cui non sapeva se voleva veramente
districarsi. Lavorava con quella pudica serietà che spesso gli uomini
mettono nella ricerca di sé, le donne son più abituate da tempo a
guardarsi dentro e talvolta proprio la disinvoltura nel maneggiare
l’incontro con se stessi fa velo a una indagine più sinceramente
interessante. Ma lui era molto serio, non grave, non malmostoso:
serio.

28
Curare la vita con la vita

Un giorno mi annuncia che lo hanno chiamato a collaborare in un


centro di ricerca negli Stati Uniti, incarico di grande prestigio e che
si prefigurava come un primo ingresso in un mondo esplicitamente
di adulti, un circolo di scienziati. Mi parla del suo professore che si
dispiaceva di non poterlo più avere come collaboratore
all’Università, mi dice che dovremo sospendere, che non pensa sia
un’interruzione ma una sospensione, mi racconta sobriamente del
dolore del distacco da questi nostri incontri, si chiede come fanno
gli altri a andarsene via, come accade, come funziona. Abbiamo
poche sedute da consumare, manteniamo ancora quel tono
sommesso e impegnativo che gli appartiene, il tempo sgocciola,
siamo all’ultimo incontro. Il mio studio ha per ingresso una porta
finestra, vado ad aprire al suono del campanello e lo vedo, al di là
del vetro, con l’impermeabile addosso, un buffo sorriso sul volto e
un violoncello al fianco, alto quanto lui ma più largo della sua figura
esile. Mentre gli apro la porta, mi dico che ha preferito portarlo con
sé perché fuori è umido, sono stupita ma non poi più di tanto, lui
entra e si ferma in piedi, mi guarda col capo un po’ inclinato e mi
dice: per l’ultima seduta le ho preparato un concerto. Resto
assolutamente senza fiato, nessuno mi aveva mai fatto un concerto
tutto per me, mi guardo intorno, sì, anche lui è d’accordo, non
andiamo nella stanza più piccola con il lettino, ci fermiamo qui,
nella stanza grande col giro di sedie per i gruppi e le famiglie.

Emozionata, scosto una sedia, faccio per sedermi, esito, lui intanto
si sta togliendo l’impermeabile, va all’attaccapanni, poi prende
amorosamente fra le braccia il violoncello, mi mostra la protezione
per il puntale: non volevo sciuparle il tappeto, mi dice, lo sistema
per bene, si siede anche lui e mi guarda, sereno: le ho scelto dei
brani, vorrei dirle perché. E poi comincia e nel mio studio si
allargano delle note, un brano segue l’altro e sono note dedicate, è
una musica scelta per essere eseguita lì, per me. Con una strana
naturalezza, parliamo a bassa voce, dopo l’esecuzione di un pezzo
riprendiamo dei pensieri su suo padre, un altro vuol significare il
tempo del suo pensiero, quello dopo narra il dolore e la difficoltà di
dirlo. Lentamente, mai come oggi ogni minuto è dotato di
significato, il tempo raggiunge i quarantacinque minuti, ma guarda,
il concerto è finito giusto ora. Lui si alza, abbraccia nuovamente il
violoncello, mentre infila l’impermeabile sorride: sa che ho preso un
posto anche per lui accanto a me sull’aereo? Non potevo metterlo
fra i bagagli, esposto a sbalzi troppo forti di temperatura. Così
mangio due pasti, quelli vegetariani sono sempre miserelli!

29
Curare la vita con la vita

E poi se ne va, mite, serio, affidabile, pudicamente gentile.

30
Curare la vita con la vita

Una rete per pensare


Mi immagino, come una delle tante raffigurazioni possibili, che tutti
noi si sia simili a una rete, sì proprio come Internet, una rete vasta,
punteggiata da nodi. Mi immagino che ad ogni nodo corrisponda
una nostra persona, autonoma, completa, con una sua storia e un
suo carattere, qualcuna con famiglia, altre single, ognuna con una
sua età e un suo modo di presentarsi e di comportarsi. E ognuna
saldamente convinta di avere ragione, di saper spiegare tutto il
mondo dal suo specifico nodo, come dire? ideologica, (grazie
Popper!) esattamente nel senso che ciò che pensa e la scala di
valori cui si conforma valgono sotto tutti i cieli e per ogni tempo.
Risorse a nostra disposizione.

Mi immagino che la nostra esistenza sia un navigare costante fra


questi diversi nodi, mi immagino che nel tempo ciascuno di noi
strutturi delle abitudini e preferisca visitare alcuni siti più di altri, mi
immagino che abitudine richiami abitudine e che sempre più
facilmente la nostra scelta si orienti verso i siti più visitati. Della
serie stessa spiaggia, stesso mare ma anche io sono una persona
che, io mi conosco, non potrei mai, debbo assolutamente ed
espressioni analoghe che ci rassicurano sulla nostra identità con
quella assertività paciosa che sa essere ovvio e scontato ciò che
dice, ma lo dice per informare l’altro. Un gesto mentale che mi
sembra il carezzarsi la pancia di un signore di mezz’età o il the
pomeridiano con canasta delle signore con i ricciolini: tutto è noto,
rassicurante, abituale.

Mi immagino, anche, che il progressivo restringersi delle abitudini


provochi irrigidimenti e distorsioni, è così che mi immagino il
disagio mentale: una progressiva riduzione del movimento e della
frequentazione con il diverso. Mi immagino l’intervento terapeutico
come il ritrovare la possibilità, e il diritto, di riallargare il proprio
campo d’azione e di pensiero, di contraddire quel se stessi così
evidentemente noto, di scegliersi ogni giorno. Penso che tutte le
persone con cui mi trovo a lavorare abbiano diritto a una vita più
piena e di maggior soddisfazione ed è verso le aperture di
prospettive altre che ci incamminiamo assieme.

Le stecche del ventaglio

Dopo aver fatto uso per molto tempo del pensiero lineare (quello in
cui vige la regola della causa che provoca l’effetto), ha cominciato a

31
Curare la vita con la vita

prender piede il pensiero sistemico: quello, cioè, che preferisce


considerare gli eventi e i comportamenti come inseriti in un sistema
di cui sono parte e la cui identificazione permette loro di essere
dotati di un significato. Ovviamente, i sistemi non esistono, sono
piuttosto degli schemi in cui collochiamo le informazioni disponibili
allo scopo di ottenere delle opzioni di lettura e, dunque, delle
opzioni di intervento. Con analoga evidenza, la scelta del sistema
che decidiamo di immaginare e, dunque, all’interno del quale
ordiniamo le informazioni, vincola fortemente la raccolta stessa
delle informazioni e anche il valore che andiamo loro attribuendo
nella ricerca di una significazione soddisfacente. Cerchiamo sempre,
noi animali umani, di darci ragione di ciò che accade allo scopo di
capire che cosa ci si può fare; il modello sistemico è uno strumento
come un altro, funzionale fino a che risulta di qualche utilità. Per
ora, mi sembra che lo sia, e anche molto.

La scelta dello schema di lettura degli eventi e dei comportamenti


vincola ed è vincolata dallo strumento scelto: nulla di nuovo sotto il
sole, semplicemente mi premeva sottolineare la scansione etica, la
responsabilità delle scelte che appartiene a chi opera e che in
nessun modo può essere lasciato in carico all’idea o all’ideologia
utilizzata. Penso che la scelta non possa derivare dalla certezza di
aver ragione, di stare dalla parte giusta della barricata. Preferisco
pensare, piuttosto, che la scelta possa avvenire proprio quando ci si
è potuti avvedere della giustezza della posizione contrastante,
altrimenti si ricade nel pensiero unico, indiscutibilmente giusto. Più
di tutti gli altri. Mi spiego: se in dibattito o in uno scambio di idee,
di modi di pensare il mondo (e che cosa è di altro l’evento
terapeutico?) mi trovo a privilegiare una posizione, occorre, prima
che la faccia mia e la possa sostenere, che mi accerti seriamente
della validità della posizione dell’altro. Quando l’avrò esplorata e ne
avrò constatato il valore pari a quella che mi attraeva, allora posso
assumere la posizione che preferisco. Responsabilmente, non
perché è la migliore ma perché mi dà delle opzioni che mi
piacciono, che voglio. Per esempio, tanto per essere ancora più
esplicita: il mio collocarmi nella cosiddetta opzione di centro sinistra
non discende dall’ovvia, banale dimostrazione del torto dell’opzione
di centro destra, come se fosse impossibile aderire
consapevolmente, con etica e con intelligenza, al centro destra. La
mia collocazione politica o sociale non dipende da chi ha più
ragione ma da chi mi dà un maggior numero di quelle scelte e di
quelle possibilità, operative e culturali, che a me vanno bene. Ma

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Curare la vita con la vita

non perché siano inequivocabilmente le migliori in assoluto. È così


che mi racconto la convivenza democratica, fatta di opinioni,
giustapposizioni, controllo, sogno e speranza, dove la voce altra da
me non va difesa per bontà d’animo ma perché mi serve. Per poter
scegliere

In pratica, quando incontro una persona che chiede il mio


intervento al suo fianco, presuppongo che la sua visione,
l’impostazione che ha dato e dà dei suoi fatti sia stata certamente
valida e che sia composta in un quadro logico che dà ragione degli
elementi considerati. Perché, dunque, il mio intervento? Perché,
probabilmente, quella visione ha esaurito la sua capacità di azione,
si è consumata nel tempo o ha consumato il suo tempo. E l’altro mi
viene a chiedere un affiancamento. Proprio perché cerco di
rendermi conto di quanto è stato valido il suo modo di pensare e
proprio perché lo percorro assieme all’altro, accade che ci troviamo
a un punto in cui la spinta vitale si è esaurita, in cui le possibilità di
scelta si sono irrigidite come le stecche di un ventaglio che si è
chiuso. Da qui possiamo provare assieme a testare altri punti di
vista, riaprendo il ventaglio affinché riprenda a funzionare,
cambiando il ventaglio o magari utilizzando la rigidità delle stecche
per un’operazione differente. Ma solo perché stiamo concordando
che il moto si è incagliato, che pulsa dolorosamente senza lasciare
possibilità di sollievo. È allora che posso mettere a disposizione i
miei strumenti: sceglieremo assieme quelli che ci sembreranno più
adeguati e li maneggeremo assieme affinché si riapra la gamma
delle scelte uscendo dal diktat della proposta binaria. Perché una
scelta si può chiamare tale solo se ci sono almeno tre elementi fra
cui operare una scelta, altrimenti è una rinuncia. Fra due fidanzati,
non si può scegliere, cercatevi il terzo e saprete che state operando
una scelta.

Una rete per navigare

Scrive Aldo Zargani, (nella prefazione alla seconda edizione di “Per


violino solo”; Il Mulino, Bologna 2002): “Dentro di noi, quasi
certamente nel nostro cervello, ma il modo ancora non si sa, e
meno che meno il sito, si formerebbero, successivamente nel
tempo, e vivrebbero poi l’una accanto all’altra, più anime fra loro
distinte. È questa una vecchissima teoria che risale addirittura a
Platone. (…) io mi schiero con Platone perché, nella confusione
indescrivibile della mia identità, sento più voci dissonanti di persone
diverse e spesso neppure so se queste voce provengano dalle mie

33
Curare la vita con la vita

molteplici anime, o non piuttosto da quelle del mio papà e della mia
mamma, e talvolta nemmeno se esse siano state un tempo reali o
non escano invece dalle bocche virtuali di personaggi di romanzo”.

Preferisco pensare noi umani come dentro una struttura a rete in


cui si posizionano tutti i nostri sistemi, concettuali, linguistici,
relazionali, affettivi etc. Di questa rete che immagino, non si
conoscono pienamente i confini, volta volta decidiamo che
segmento prendere in considerazione, non tutto l’intero ma tutto
ciò che ci serve per operare. Nessuno di noi può pensare di
conoscersi completamente (il Gattopardo diceva che un palazzo di
cui si conoscano tutte le stanze non è degno di chiamarsi palazzo!),
è noto, ma ognuno di noi decide quali elementi della sua persona
utilizzare in ciascuna occasione. Come si diceva in altre occasioni,
possiamo avere acquistato i trenta migliori giocatori di calcio del
mondo ma per giocare una partita ne scegliamo necessariamente
undici; e non diciamo per questo che abbiamo rinunciato agli altri.

Dunque, già la decisione dei confini, la scelta del segmento, attiene


a un esercizio di libertà, è una scelta etica. Decidere di andare in
terapia vuol dire anche aver selezionato un segmento da prendere
in considerazione, lavorare in terapia vuol dire giustapporne degli
altri, allargare o restringere le dimensioni, scendere o salire per
scrutare da punti di vista differenti fino a che è ristabilito il
movimento. La scelta del segmento spetta a chi decide di
chiamarmi al suo fianco, il come lo maneggeremo, le operazioni
(intese nel senso che indicava Bridgman) opportune le stabiliremo
assieme.

La rete che immagino, dicevo, è composta da infiniti nodi. Questa


prospettiva comporta alcuni spostamenti: si passa da un'idea di
identità coerente a identità multiple e puntiformi, da un intero
scomponibile in diverse parti a più interi combinabili diversamente
fra loro. Spesso si sente parlare di parti di sé, spesso ci si riferisce
a parti bambine, come il fanciullino di Pascoli. Non mi ritrovo a
pensare alle persone come con delle parti al loro interno, mi trovo
più facilmente a pensarle come un sistema mobile (una rete,
appunto) composto da tante, tantissime persone. La persona
bambina non è necessariamente la più pregiata, è sicuramente una
persona che conosce e ha delle cose da dire, ma trovo pericoloso
privilegiare la dimensione infantile come predominante perché fa
scivolare la persona (e soprattutto il cosiddetto paziente) in una
sorta di minore da porre sotto tutela, guarda caso proprio del

34
Curare la vita con la vita

terapeuta che dovrebbe assumersi la responsabilità della sua


crescita armoniosa che altri non hanno saputo curare e preservare.
La moltitudine delle persone moltiplica la gamma degli interlocutori
con cui confrontarsi e con i quali prendere delle decisioni e,
soprattutto, garantisce la dignità, la capacità competente propria
della dimensione adulta. La persona porta un suo segmento di rete
in cui sono ospitate delle sue persone e non delle altre, queste
hanno già compiuto un loro lavoro e ristanno esauste, non sanno
più come e dove trovare soluzioni. L’interlocuzione con delle altre
riattiva, integra, completa un cerchio, sposta l’attenzione, identifica
prospettive e risorse. E se la persona piccolina c’entra nel gioco,
che giochi la sua parte e dica ciò che crede, gli altri la ascolteranno
pretendendo a loro volta la stessa attenzione.

Anche la gerarchia dei valori scivola da una stabilità a una serie


possibile di gerarchie, da definirsi in ogni qui ed ora determinato
dal punto di vista prescelto. A seconda di come cambiano le
circostanze prese in considerazione, può mutare (anche di molto) la
gerarchia dei valori: occuparsi di sé è molto importante, dedicarsi
del tempo pure. Questo resta vero e giusto da un angolo visuale,
da un altro angolo può risultare preferibile trascurare le proprie
esigenze, per quel momento, in quella occasione. Ma la persona
che si vive come sempre disponibile, che non sa quando riservare a
sé tempo e attenzioni, è rigida e sofferente quanto chi non sa come
districarsi dallo sguardo affascinato dal suo ombelico. Questione di
tempi, di occasioni, di momenti, di scelte. Ma si può scegliere
pienamente solo se si sa come essere del tutto chinati su di sé e si
è capaci di farlo con pieno appagamento, solo se si sa come è
dedicarsi all’altro e si è capaci di farlo con la necessaria levità. Noi
che facciamo questo mestiere troppo spesso non sappiamo come è
rivolgerci ad ascoltare l’altro, dedicargli tutta la nostra attenzione.
Troppo spesso non siamo pienamente lì con lui, distratti
dall’armeggiare con le nostre teorie o dal domandarci come
proteggerci da quella invasione di malessere. L’immagine della rete
mi permette di lasciare autonoma quella che vuol fare la terapeuta,
per quel tempo stabilito, con la libertà di chiamare a sé tutte le
altre che dovessero sembrarle utili. Ma la terapeuta che mi piace
veder lavorare non è una persona disponibile, non si china
pietosamente sulla sofferenza; piuttosto è una persona curiosa che
vuole capire, che chiede di cercare ancora, che chiede di esplorare
con una certa spregiudicatezza, che vuole tentare accostamenti

35
Curare la vita con la vita

diversi e che, alla fine dell’incontro, restituisce tutti i giocattoli al


proprietario, grata di aver potuto giocare assieme.

Altrove nel tempo

Anche l'idea di progresso continuo nel tempo (il troppo celebrato


percorso terapeutico, quella incongrua idea di crescita) si modifica
in una serie di eventi rotondi da infilare come in una collana, ogni
incontro ha la freschezza del primo, incantato di tante possibilità da
esplorare, ogni volta daccapo, ogni volta come se fosse l’unico
incontro del mondo, come se dovesse essere il primo e l’ultimo
della storia. Sappiamo bene come a tutti noi piaccia innamorarsi,
ogni incontro per me ha questa fascinazione, questo accattivante
richiamo. Eppure, e proprio per permettere questo, ogni incontro
ha un suo tempo stabilito, una scadenza. Perché è solo in un tempo
definito che può inverarsi una situazione emotiva, una relazione:
sono i limiti che danno senso, significato e valore a quello che
racchiudono. Il fermo confine della morte riecheggia dotando di
significato ogni attimo dell’esistenza.

Non ha senso riferirsi all’avventura terapeutica come a un itinerario


con tappe previste come a un tour organizzato per una crociera sul
Nilo. Perché, appunto, nell’incontro terapeutico, realmente non
sappiamo se andremo a visitare il Nilo, se e quando mai il Nilo
entrerà nel nostro stare assieme. E non certo perché al Nilo manchi
fascino o perché non sappia come ampliare la nostra esperienza di
vita. Ma, semplicemente, noi non sappiamo quali delle nostre
persone verranno invitate, quali saranno le domande, quali gli
aggiustamenti, dove si collocherà lo stupore del pensiero che
illumina all’improvviso. Non possiamo prenotare in anticipo, anche
se non possiamo assolutamente escludere che proprio sul Nilo
finiremo per trovarci, in crociera o a nuoto, a colloquio con i faraoni
o estatici di fronte al prodigio delle piramidi, magari, e perché no?
comparando le leggende sulla Via Lattea nelle diverse culture
proprio mentre constatiamo la meraviglia dello specchio fra cielo e
terra a Giza nella cintura d’Orione riprodotta nella disposizione delle
costruzioni. Diceva Giampaolo Lai tanti anni fa in un seminario: che
cosa vuol dire essere stati a Parigi? Forse che se non sono andato a
visitare la Tour Eiffel e ho passato otto giorni in un bistrot a
chiacchierare con tanti, diversi interlocutori, allora non posso dire di
essere stato a Parigi, non posso parlare di questa città? Ma, anche,
se ho consumato i miei otto giorni per musei, se li ho passati nelle
librerie, in un giro d’arte gastronomica o in allegre avventure

36
Curare la vita con la vita

d’amore? O seguendo i percorsi dal Lussemburgo alla Défense,


oppure ascoltando il dibattito parlamentare? Ma certo, si risponde,
ma sono percorsi settoriali: appunto.

Cerchiamo di seguire l’andamento della storia: si è andati a Parigi


per fare un viaggio (e si è scelto Parigi) oppure si voleva andare a
Parigi? Vuoi entrare in terapia perché ti hanno detto che sei
diventato insopportabile, perché non dormi più, perché ti affascina
sapere chi sei, perché ti serve per migliorare il tuo lavoro? Perché
non ti piace più fare l’amore o ti piacerebbe ma nessuno vuole
giocare a farlo con te?

E, magari, perché ti fa paura la terapia e vuoi dimostrare di saperla


fronteggiare o perché pensi sia un’esperienza intellettualmente
significativa che ti ammette nel club degli iniziati? Il punto è che
moltissime di queste apparentemente incompatibili motivazioni
coesistono e che non per questo diventano compatibili. Ognuna
saldamente affrancata a un punto di vista, a un nodo della rete, a
una delle nostre persone. Che hanno tutte ragione, evidentemente:
come si fa ad escludere un sincero gusto intellettuale nel conoscere
e assieme l’urgenza di un groviglio doloroso e la fatica di
riconoscersi adulti e il piacere di essere ascoltati e la necessità di
risolvere una situazione? Come si fa ad affannarsi a selezionare la
motivazione vera? Ma la questione non è sul a chi dare ragione ma
su quale punto di vista scegliere, affiancandosi alla persona che di
quel punto, di quel nodo è portavoce. E non si può scegliere
mettendo in competizione ma tracciando un progetto, un desiderio
cui possano aderire una o più persone. E con quelle lavorare, vigili
a cogliere ogni indicazione che segnali la richiesta di uscita dal
campo di una persona (per quel momento, in quella occasione) o il
richiamo di un’altra pronta ad entrarvi.

Per cercare di spiegarmi, torno a Parigi, (che oltretutto è una città


splendida che amo molto e che è per me una sorta di terra della
potenzialità governata). Certamente dopo il viaggio mi deve restare
nelle mani qualche traccia che sappia testimoniare a me e agli altri
la realtà e la buona riuscita del viaggio stesso. Il cerchio, che si
apre con il progetto del viaggio a Parigi, si deve poter chiudere con
un ritorno saturo di un viaggio effettuato: le coordinate, i criteri che
mi permettono di dare significato al progetto del viaggio
appartengono alla mia realtà quotidiana dove ritorno (un viaggio
senza ritorno non è un viaggio, una terapia che non sia a termine
non è una terapia). Dunque, la realtà e la soddisfazione del viaggio,

37
Curare la vita con la vita

al mio ritorno, devono essere riconoscibili per la logica della realtà


quotidiana, che è altra da Parigi. Se ho avviato una terapia sotto
un’urgenza o per un progetto, beh me ne deve restare in mano una
testimonianza, maneggiabile qui dove son tornato a vivere. Al mio
ritorno devo risultare un poco straniato rispetto a questo quotidiano
che ho lasciato altrimenti che viaggio è stato mai? Straniato ma
non estraneo, incapace di riprenderne il filo: una terapia non cerca
di far evadere dal quotidiano, misero e senza possibilità di
competere con gli sfavillanti dépliants delle agenzie di viaggio, una
terapia serve a rendere vivibile e significativo e prodigioso il
quotidiano. Si va per un po’ altrove per vivere meglio dopo, qui,
nella propria terra.

Ideologie a confronto

L’altro aspetto che complica, però, è che il tempo del soggiorno a


Parigi (della sosta, come mi piace pensarlo) non deve e non può
seguire le regole e i criteri e la logica del luogo che abbiamo
lasciato per spostarci. Non cercheremo la pizza a Parigi né andremo
a domandarci come mai non cominciano il pasto con un bel piatto
di trofie al vero pesto genovese. Ma, signori miei, è inimitabile la
grazia con cui preparano il piatto che vi portano, è un vero
godimento stare a guardare i negozianti che, di prima mattina,
dispongono frutta e verdura con grandissima cura per
l’accostamento dei colori e l’armonia delle forme: l’icona che
conservo è una cascata di fagiolini verdissimi che ricade da una
cornucopia di vimini, affiancata dal viola profondo delle melanzane
e dal grido brillante dei peperoni. Verdura, certo, ma che gusto
differente, in bocca e negli occhi.

Ma, camminando per Montmartre, un mattino presto, con il


sussurro dell’acqua che scorre nei canaletti a lavare i marciapiedi e
a rinfrescare l’aria, in quei momenti magici, si può restare italiani?
O si deve giocare al “facciamo che tu eri” ed ero anch’io parigina? E
così per la loro grandeur, (l’oro e il nero della Concorde fanno parte
del gioco), davanti alle fontane uguali a quelle di San Pietro, si può
ricordare l’eleganza sobria di San Miniato? Ecco, mi piace pensare
che in quel momento la nostra persona intrisa di quel certo gusto
italiano ci sfiori leggermente: sono qui, abbiamo qualcosa da fare
assieme? Posso esserti utile? Oppure, la sciovinista prepotente e
sprezzante: ma dai, come fai a restare a perdere tempo qua, che
cosa mai cerchi? Non sai che l’Italia è il paese che ha le maggiori
ricchezze d’arte? Può affacciarsi anche la storica, gli occhialini sottili

38
Curare la vita con la vita

un poco scesi sul naso, la cordicella d’obbligo: certo, è veramente


interessante come dai monumenti si possano ricavare tante
informazioni sulla cultura dei diversi popoli!

È qui che si pone la scelta etica: quale o quali di queste nostre


persone invitare a spartire questo momento, a formare assieme dei
pensieri. Il ricordo di San Miniato può imboccare percorsi e
concatenazioni assolutamente differenti, ma non vale dire: beh,
allora mi è venuta in mente San Miniato e non ho potuto fare a
meno di confrontare, paragonare, mettere in competizione etc.
Nello scontro, non è certo Napoleone che rischia di farsi male,
piuttosto chi è a rischio è la persona che ha scelto di andare a
passare qualche giorno a Parigi. Ciascuna delle nostre persone,
esponente di un nodo di pensiero e di identità, può mantenere la
sua ideologica coerenza: sta al navigatore decidere dove
soffermarsi, con chi vuole condividere quel momento, da chi e con
chi vuole ricercare informazioni e approfondimenti e risorse. Sta al
terapeuta affiancarsi al navigatore per facilitare il suo scegliere,
mettendo a disposizione la sua competenza affinché lo scegliere
divenga gradualmente più agevole, più chiaro l’iter stesso della
scelta, sta al terapeuta soffermarsi con l’altro, ricercare con l’altro,
un passo a lato (e non il moralistico un passo avanti!), partecipe
del suo procedere, pronto a fornire ciò che serve, discreto nel
proteggere un’intimità: un po’ scudiero, un po’ guida, un po’
nutrice, un po’ compagno, un po’ manuale di navigazione, un po’
verificatore contabile. Un passo a lato, assieme. Ma non è il
terapeuta che naviga.

Dall’accumulo del sapere a sapienze che trasmigrano

Ecco che, allora, non è più tanto utile l’idea di un sapere che va
accumulandosi, di una biblioteca sempre più complessa e
voluminosa da portare con sé. Anche perché, banalmente, è forse
proprio questo peso che rende faticoso il passo, è proprio questo
grande ammasso di cose che sappiamo a vincolare il movimento
successivo, a imporci l’esigenza tanto indiscutibile quanto insana di
procedere in linea retta, coerenti con quello che già è stato, che
sappiamo essere avvenuto, da cui non possiamo prescindere. È
stato detto, e mi sembra realmente molto significativo, che il fatto
che una cosa sia vera non la rende di per sé importante: sono
miliardi le cose vere, infinito il loro elenco. E se veramente
volessimo comporle in elenchi ragionati, verificheremmo l’assoluta
incompatibilità di mille elementi, veri, senz’altro, ma che non

39
Curare la vita con la vita

tollerano coesistenza obbligata. Come se pretendessimo di ridurre


l’infinita e benedetta molteplicità del mondo intero in un pensiero
unico, con una sola religione, una sola etica, una sola forma di
convivenza civile, un solo modo di vestire, di sorridere, di
corteggiare, di dire di sì o di negare. Ovviamente, dopo aver
valutato attentamente per tutte queste categorie il meglio, il più
vero, il più giusto fra tutte le opzioni possibili. Diceva il padre di
mio marito, quando voleva insegnare a lui bambino l’infinità dei
numeri: puoi riempire la parete della tua stanza di numeri fino a
saturarla ma sempre, sempre potrai aggiungere ancora una cifra.
Non penso che i valori, le idee, le emozioni, i pensieri, i sussulti che
si agitano o sospirano dentro le persone umane debbano essere
iscritti in un girone ad eliminazione per selezionarne il migliore,
penso che la gamma delle differenze debba essere casomai
allargata ancora fino a perderci la testa e l’orientamento, penso che
qui sia custodito il nostro insopprimibile desiderio di vita. E che
vada preservato. È ovvio, poi, che in ogni attimo, in ogni tempo e
luogo, in ogni occasione anche minimale, scegliamo i codici, i
valori, i comportamenti che più ci sembrano adeguati: ma per poi
immediatamente rimettere nell’urna tutte le ballotte senza privare
di nessuna la scelta dell’attimo successivo. È ovvio che ciascuno di
noi desideri una buona armonia con se stessi e con il mondo
esterno, è ovvio che ci piaccia essere in buona sintonia, a nostro
agio, in un gradevole comprendersi reciproco basato sulla reciproca
conoscenza condivisa ma è altrettanto ovvio che ogni equilibrio va
scomposto, che il quadro armonico vale per il tempo di un soffio,
che la vita è continuamente mettersi in un nuovo rischio da
comporre ancora in un quadro dai lineamenti inediti. Che ha il
valore di un tempo breve. Ormai è diventata una battuta ma mi
piace pensare che ogni amore, ogni passione, ogni idea, ogni
valore, ogni stella hanno una scadenza: come le mozzarelle,
ridiamo assieme!

Per questo possiamo scegliere, volta volta, di dormire a sazietà fino


a che il nostro corpo non ci informa che adesso basta (e gustarlo,
con pienezza) come anche decidere di alzarci nel buio,
rabbrividendo un poco per il freddo dell’aria nuova del giorno, per
vedere l’alba, come anche, e perché mai non avrebbe lo stesso
rango?, alzarci a una certa ora per un impegno di lavoro, per un
appuntamento, per scrivere, leggere o preparare le lasagne per
stasera. Ma sono insofferente di chi pretende di farne una regola
universale, valida comunque. L’esigenza dell’armonia, l’ascolto del

40
Curare la vita con la vita

proprio corpo possono irrigidirsi in imposizioni sciocche perché


limitate e limitanti esattamente quanto la mistica del lavoro, del
non perdere tempo; stare sempre a dieta è parente del mangiare
dissennato, essere equilibrati sconfina nella rigidità, è tanto
importante sapersi spendere in sogni utopici e tentare
pervicacemente di attuarli quanto percepire i segnali di un esame di
realtà. Camminare è una sorta di caduta controllata ed è
infinitamente più difficile mantenere l’equilibrio stando fermi
piuttosto che muovendosi: perché mai quello che sperimentiamo
nell’universo fisico non dovrebbe suggerirci qualcosa anche per la
nostra psiche?

Eppure gran parte del gergo cosiddetto psicologico rimanda a


un’idea basilare di fissità: trovare se stessi, raggiungere un
comportamento equilibrato, conquistare la serenità, fare ordine
nelle nostre contraddizioni, magari risolverle? E perché, invece, non
moltiplicarle, perché non spingerci oltre i confini di ciò che
sappiamo, perché non sperimentare linguaggi e comportamenti
proprio perché non ci assomigliano? Perché investire tanto tempo a
mettere ordine nelle nostre stanze affollate di oggetti, pensieri,
ricordi e preziosissime sofferenze e invece non uscirsene un po’
fuori da questi luoghi con l’aria consumata che affievolisce il
respiro? Non è questa l’esperienza dell’arte, della ricerca, di
qualunque conoscenza? Anche perché, in fondo, sarebbe bene
tenere a mente che non siamo poi del tutto immortali, non è vero?
Di questa manciata di tempo di cui possiamo disporre, vogliamo
farne un’edizione della Fulgida? Appartengo a quella categoria di
persone che fanno molta fatica a uscire di casa senza aver rifatto i
letti ma ogni tanto, volutamente, esco con i letti in disordine. Mi
piace, la mattina, entrare in cucina e trovarla in ordine, i piatti e le
stoviglie a loro posto, ma ogni tanto li lascio lì, abbandonati sulla
tovaglia come sulla scena di un’azione interrotta. Amo le mie
abitudini e proprio per questo, per potere continuare ad amarle, mi
serve poterle nuovamente scegliere: amo la cucina in ordine, la
mattina, mi fa rumore in testa vedere il disordine e la mattina il
rumore è ciò che mi disturba maggiormente ma è un micro brivido
di eccitazione trasgredire le mie stesse abitudini, c’è un micro
rischio nello spegnere la luce con un ultimo sguardo sulla tavola
ingombra. E spero di fare a tempo, la mattina dopo, a rimettere a
posto, non vorrei morire proprio quella notte e passare alla storia
come una casalinga sciattona! Fino ad ora ha funzionato, poi
vedremo.

41
Curare la vita con la vita

Il moto è permanente

Questa rete che immagino, i sistemi viventi la percorrono in una


continua esplorazione e discorrono costantemente fra i nodi,
modificandone con la frequentazione l’entità e il peso, stringendone
di nuovi, allentandone degli altri. Vuol dire, cioè, che ogni persona
e ogni gruppo, ogni complesso vivente procede da una postazione
ad un’altra nello scorrere del tempo e nel modificarsi delle
situazioni. Così, accade che la persona alle 9 del mattino si orienti
verso il tempo del lavoro: ne veste i panni e soggiorna in quel nodo
con quella specifica identità adeguata. Raccoglie i pensieri che
appartengono a quel contesto, acquista quel modo, quel
comportamento, quella mimica, quel tono di voce che fanno sì che
venga riconosciuta sul posto di lavoro e che si concordi tutti che
effettivamente è lì, presente, per lavorare. Nel quadro generale
dell’assetto da lavoro, ovviamente ci saranno dei dettagli, delle
sottolineature proprie di quel giorno, di quell’umore, di ciò che
vuole trasmettere, di ciò che vuole ottenere ma la struttura di base
dell’identità deve essere riconoscibile nelle sue modificazioni. Per la
persona e per gli altri, segnali e codici devono ben bilanciarsi fra
una continuità e un mutamento, alchimia complessa sulla quale
impegniamo le nostre giornate.

La permanenza nel nodo lavoro fa sfumare dopo breve tempo la


significatività dell’assetto da lavoro così accuratamente
predisposto: sì, ho capito, sei la mia collega, lo so, sei qui per
lavorare ma adesso che cosa facciamo assieme? Dopo i riti che
aprono la giornata e ne ufficializzano l’inizio (la professionista che
saluta il portiere, apre la porta dello studio, ascolta la segreteria,
cambia l’aria, accende le lampade, l’insegnante che passa in sala
docenti, appende il soprabito, controlla i registri, sceglie il volto con
cui entrare in classe o l’infermiera che cambia d’abito, raccoglie i
capelli, sfoglia le cartelle, spunta la lista delle medicine) c’è un
tempo nuovo da segnare di sé, nel solco della continuità ma nello
specifico di quel giorno. In questo momento non è più sufficiente
l’assetto da lavoro che sfuma a farsi cornice, magari si affaccia la
nostra persona che sa affrontare il nuovo, quella che sa arredare
anche la tenda da campeggio per farsela assomigliare, quella che
scende con un poco di trepidazione su una terra sconosciuta già
cercando di individuare dei particolari che userà come punti di
riferimento, per calmare la sua ansia. La persona ricercatrice che
sperimenta accostamenti inediti, contagi e dissonanze,
l’esploratrice un po’ guascona che lei se la sa sempre cavare. Ed

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Curare la vita con la vita

ecco che sentiamo raddrizzarsi le spalle, il nostro volto assumere


un’espressione di calma controllata e vigile, lo sguardo che spazza
intorno come uno spot da teatro, le mani morbide, la presa sicura.
Il timore è confinato in un angolino, dai che la giornata sarà una
bella giornata, il passo elastico, il sorriso pronto a bere ogni novità
da ricercare e cogliere.

Oppure, si affaccerà la ragazzina assestata che allinea sempre allo


stesso modo i suoi pastelli colorati e che ricondurrà il nuovo di
questo inizio di giornata a una rassicurante, ordinata, banale, nota
sequenza. Un po’ come quando si dice che l’inconscio è poi sempre
lo stesso, che il lavoro di un impiegato è monotono, che anche la
scrittura in fondo non è che un ripetere, che gli uomini sono tutti
uguali, che i giovani d’oggi non vogliono impegnarsi e non hanno i
valori. E che, signora mia, non ci sono più le mezze stagioni. Nodo
importante, questo, quello che ci protegge dallo sconcerto dello
sconosciuto, quello che ci assicura che resteremo vivi. È lo stesso
nodo che calma gli spaventi dei bambini: non è niente, è solo un
tuono, è solo che ho mal di testa, è una verdura come le altre. È
una persona fondamentale da avere al nostro fianco ma non
chiediamole di farci divertire! Conosce le nostre abitudini, anzi è
attraverso le nostre abitudini che ci conosce, esattamente per
quello sono state costruite, per farci riconoscere. Io sono uno che
fuma, che tutte le mattine beve una spremuta d’arancia, che non
tollera di affacciarsi nel vuoto, che non digerisce l’aglio, che di
fronte al sangue si sente mancare. Il sangue di chiunque, le arance
della Sicilia o del Medio Oriente, l’aglio della suocera o del
ristorante francese: la mia abitudine mi aspetta nel luogo nuovo
come un parente che riconoscerà i miei lineamenti, azzerando
qualunque timore. E, come nei pranzi coi parenti, garantendomi
una tranquillità un po’ annoiata ma sicura: alla domenica si mangia
così, fra fratelli si parla così, lo zio ama ripetere il suo esempio
preferito, lo sai bene.

Ci avviamo al lavoro certi che ogni novità sarà disinnescata,


ricondotta nel quadro noto, non ci succederà nulla. Il respiro è
pacato, la circolazione scorre con il suo andamento che
conosciamo, siamo come il protagonista di “turista per caso” che sa
dove trovare anche in Francia un hamburger con poca cipolla e la
salsa ketchup.

E nel volgere di un tempo breve, il gioco si riavvia, uno stimolo


esterno, un pensiero, una sensazione, un suono o un ricordo

43
Curare la vita con la vita

associativo ed ecco che nuovamente abbiamo bisogno di


riposizionarci, di far fronte al momento successivo: forse
conserveremo la persona protagonista del tempo precedente ma
dovremo renderla nuova ancora. Forse se ne affiancherà un’altra,
forse la persona di prima le cederà il passo o ne uscirà
un’inserzione fra le due, forse entreranno in gruppo più di una a
possedere la scena di quel momento. Forse. Saranno mille e più le
componenti che ci indirizzeranno, ogni volta in un risultato che ci
assomiglia ma che pure ci regala informazioni maggiori. Su di noi,
su ciò che pensiamo, che proviamo, che siamo capaci di fare, su ciò
che vogliamo. Per questo ci vuole una vita intera per vivere la vita,
per questo fino alla morte la chiesa cattolica non proclama santi né
i giornalisti pubblicano i necrologi. Si dice: ma lo conosciamo, ha
scritto, ha detto, ha fatto, si sa bene chi è. Non fino a che il gioco
non si è definitivamente arrestato, solo allora sapremo chi era. Chi
eravamo. Ogni giorno ci raccogliamo nel letto secondo consuetudini
certe e rassicuranti, ogni giorno possiamo dirci che ci riconosciamo,
ogni giorno nelle lenzuola scivola una persona un po’ diversa. Che
domattina berrà il suo succo d’arancia, anzi, no, la spremuta che ha
più vitamine.

Cercando la convenienza

Quello che sto cercando di dire è che in sé non esiste una gerarchia
stabile su cui collocare le nostre diverse persone, che in ogni
istante c’è una nostra persona che può risultare più adeguata di
altre, che sono competenze e risorse nostre. E che, dunque, più ce
ne sono, maggiormente si amplia il ventaglio delle opzioni, più ricco
e articolato si fa il formarsi dei pensieri, più largo il quadro delle
emozioni, più interessante lo scambio. Fra le stesse nostre persone,
con gli altri, con i nostri habitat, con l’incognito e nella
frequentazione del noto. L’importante è non lasciar cadere la palla,
arrestarsi stabilmente in una posizione, in un nodo, come
immaginare una rete ferma, definita, ordinata, non è pensabile, nei
termini più letterali: arrestare il movimento significa arrestare il
pensiero, lo stesso pensare viene sospeso, in una bolla fuori dal
tempo. Senza movimento, in un tempo che non scorre, l’attività del
pensare è impraticabile, l’angosciosa permanenza dell’attimo
immobile. Questa è la patologia, il tentativo disperato di fermare il
percorrere, irrigidire la rete, imprigionare la mobilità del pensiero.
Con l’intensa sofferenza di un movimento che, incarcerato, grida il
terrore di sentirsi condannato a morire, senza uscita in una morsa
che lo soffoca. Il pensiero bloccato cozza in un infinito reiterarsi,

44
Curare la vita con la vita

l’attimo che segue ferocemente simile a quello presente, fino a


rasentare una straziante, terribile identità. Non è questo poi un
modo di rappresentarci il sintomo? Non è questo che ci strazia, noi
terapeuti, quando incontriamo il cosiddetto paziente? La monotonia
della voce, la replica incessante del comportamento, l’eco del
passato sigillato in sé che ripete la volontà di costringere il presente
e financo il futuro: non è questo insieme che il famoso hic et nunc
tenta di contrastare? Spezzando la bolla che è stata costruita per
proteggere ed ha finito per mangiare l’aria, ricaricando un pendolo
sia pur nel cigolio doloroso del movimento che ha dimenticato come
si fa.

Vittorio Foa dice che la libertà è non sapere che cosa succederà
domani, Massimo Cacciari che la libertà non esiste ma per un
comportamento etico è bene fare come se esistesse, una scelta
voluta non è sempre una scelta libera, parole in libertà, libertà dai
vincoli, libertà di fare… ecco, basta una parola perché si affollino
tante persone, ognuna con il suo proprio convincimento, pensato,
testato, indiscutibile. È allora che si pone il problema: e come opero
la scelta? Quali sono i criteri? Quali persone ascolto, quali convoco,
per quanto tempo, a quali chiedo di attendere in stand by?

Ovviamente i criteri appartengono a più livelli, i valori cui facciamo


riferimento, i confini che stabiliamo per circoscrivere l’evento su cui
operare la scelta, la simpatia per certi nostri personaggi, l’abitudine
a interagire con altri, magari meno simpatici ma così tanto abituali,
l’eco dell’evento appena passato, una percezione esterna che
incatena un pensiero a un’emozione… ma anche lo sguardo verso il
risultato, il criterio della convenienza, della gamma di opzioni che
vengono assicurate. E la ricaduta ecologica: diceva il grande
Bateson, un’auto che funziona non è solamente un’auto che
cammina, è un’auto che non inquina. Ecco, allora, che diventano
segnali essenziali quelli dei personaggi che obiettano, nicchiano,
cercano di ritardare o di annacquare il processo stesso: hanno
indicazioni da dare, magari datate, magari non immediatamente
utilizzabili ma comunque indispensabili per formare una scelta
piena e potersi, poi, spudoratamente affiancare a chi guiderà il
passo. In altri capitoli potremo scorrere assieme alcuni di questi
passaggi attuati concretamente. Come cambiare spostandosi, per
avere di più e meglio. Il nostro diritto a percorrere la rete è
garantito dalla certezza che non potremo mai conoscerla tutta,
come accade per l'universo. Da questa certezza origina il nostro
diritto a porre arbitrariamente dei limiti all'universo/rete che

45
Curare la vita con la vita

intendiamo considerare. Dei limiti posti e di ogni evento (nodo) che


andiamo verificando e utilizzando in questo ambito siamo
responsabili. Perché la libertà si fonda sui vincoli, è poggiando su di
essi che possiamo scegliere, occorrono viottoli per operare una
scelta, la radura sterminata rende esitante il passo. (Anche un
intrico troppo denso, certamente, ma è per quello no?, che siamo in
due a scostare il fogliame). E, ancora, la libertà si fonda sul rischio
dell'intervento. Non so se Vittorio Foa intendesse questo, ma io l’ho
capito così e così l’ho fatto mio. Il rischio di vivere è la massima
libertà cui non possiamo permetterci di rinunciare. Neanche quando
indossiamo le vesti di terapeuti.

Trasmigrare fra i nodi

I nodi della rete, li immagino come addensamenti di maggiore


stabilità in una fluttuazione costante, capaci di attirare energie e
passioni e in questo modo consolidarsi. Sono parole, eventi,
persone, follie, emozioni. E se in ogni nodo vige un sistema di
pensiero totalmente esaustivo (ideologia), è esattamente il
pensiero assoluto di ogni nodo, il suo assoluto aver ragione che
permette al navigatore di tracciare un pensiero relativo,
democratico perché sceglie assumendosi il rischio e ansiosamente,
poi, ne scruta le conseguenze. In ogni momento, si fa il punto, un
gesto etico che connette per dare un significato, un senso
all’operare, definendo arbitrariamente i contorni, collegandoli in un
progetto.

Attraverso la trasmigrazione del navigatore, i nodi discorrono fra di


loro, allacciano somiglianze, stringono rapporti: la famosa persona
piccolina può trovare conforto e protezione più con una figura, si
avvicinano e danno vita a un rapporto che può stringersi fino a
formare un nodo nuovo. È uno dei modi in cui, ad esempio, si può
descrivere la cosiddetta fobia: un apprendimento istantaneo, un
violento coup de foudre che stringe inestricabilmente una
percezione a un comportamento. Ecco che, allora, un ascensore
diventa una trappola mortale, la vista del sangue provoca uno
svenimento. Leggendolo come un addensarsi della rete che ha fuso
due o più nodi, evitiamo qualunque indagine moralistica o
giudiziaria, possiamo laicamente interrogare i personaggi in gioco,
chiedere di raccontare la loro storia, testarne i confini che hanno
creato dolore, far intervenire altre persone che apportino idee
nuove, immagini che permettano di evadere da questa connessione
soffocante, restituire autonomia e rango a ciascuno. E liberare

46
Curare la vita con la vita

energie emotive e intelligenze che tornano nuovamente a


disposizione di tutti. Perché come si forma una fobia, può formarsi
un’amicizia eterna, un amore appassionato. Il procedimento della
fobia diventa uno strumento utilizzabile, una competenza che
amplia le scelte di un domani. Talvolta le complessifica, talaltra le
complica.

Un maghrebino al semaforo

Sulla strada verso il mio studio, a un semaforo, staziona un


maghrebino. Come tanti, come troppi, basa la sua povera
sopravvivenza scambiando una improbabile pulitura di vetri con
quattro soldi. Il problema delle elemosine che si vestono da
mestiere, è un rompicapo da cui non riesco a uscire, e che mi si
ripropone intatto a ogni offerta di accendini, di fazzoletti di carta o,
appunto, a due semafori su tre. Non mi piace farmi servire, anche
al supermercato mi imbarazza che mi si aiuti a scaricare il carrello
come se avessi dei servitori ma non è peggio rifiutarsi di tenere
quel fragile inganno che trasforma un’elemosina in una mercede
dovuta per un servizio?

Comunque, passo e ripasso ogni giorno, gli sorrido, mi sorride,


talvolta mi dà una passata al vetro, poi, gradualmente, si avvia
l’abitudine di dargli un euro anche se sono in bicicletta, così, come
buongiorno, minuscola solidarietà fra due esseri umani. Una
stagione dietro l’altra, mi chiede se posso procurargli una coperta,
ha freddo. Il giorno dopo gliela porto e tutto sommato gli sono
grata di poter fare qualcosa, lui mi sorride, la sciarpa intorno al
volto, i denti qua e là mancanti: apro la portiera, la coperta passa
di mano, accelero e vado. Un’altra volta, me ne chiede ancora,
sono in tanti in un centro disastrato di raccolta. Prendo in mano
dall’armadio una mantella pesante cui sono molto affezionata, mia
figlia mi ferma: mamma, sei sicura di volertene privare? Per lui non
ha lo stesso valore, perché questa? Già, perché? Per fare più
significativo un gesto? Ancora una volta mi sono dimenticata di
pensare con il pensiero di lui, l’ho assimilato a me in un
insopportabile paternalismo. Rimetto a posto la mantella, prendo
una coperta, mentre vado da lui incontro degli altri
extracomunitari: hanno freddo anche loro, perché a lui una di più e
non a loro? Non lo so, si fa tutto complicato, gli do la coperta e il
buon Natale ma sono incerta.

47
Curare la vita con la vita

Ancora un giorno dopo l’altro, una volta lui mi sbarra la strada


mentre sono in bicicletta, un po’ per scherzo un po’ anche leggo nel
suo gesto una violenza appena accennata: d’improvviso mi ritrovo
non signora milanese che ha il suo maghrebino da proteggere
(orribile vero?) ma donna scoperta di fronte a un maschio che mi
fronteggia. Faccio finta di nulla ma evito che succeda ancora,
accosto sull'altro lato al semaforo ma ancora l’euro passa
regolarmente di mano, lo preparo apposta prima di uscire. E poi,
un giorno, ho il vetro schizzato e il sole ci batte sopra e mi
abbaglia. Al semaforo, gli chiedo per favore di dargli una pulita ma
lui si rivolge a un’altra auto dietro di me, lava il vetro e prende il
denaro, intanto torna il verde e ci muoviamo tutti. Dopo un primo
moto di rabbia, mi dico che ha perfettamente ragione: se prende
l’euro da me senza dover pulire il vetro, perché mai dovrebbe
rinunciare a prendere del denaro anche da altri? Forse mi sono
creduta di avere acquistato uno schiavo? Forse la mia solidarietà
così ingenuamente cordiale all’inizio si è trasformata nel tempo in
uno strano contratto di asservimento? Ma se sono stata io a
redigerlo? E allora? Allora non lo so, so solo che la situazione mi è
sfuggita di mano, che devo aver fatto un pasticcio, che ho perso la
partita. Che ho cambiato strada per andare in studio ma ho
conservato ben presente tutta la storia e mille volte l’ho usata
come cartina di tornasole in terapia, in privato, ogni volta che mi
sembrava che la mia attenzione, il mio voler bene stessero per
trasformarsi in una trappola per l’altro e per me. Ma il gusto è
amaro, uso ancora la storia ma credo proprio di non averla ancora
consumata.

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Curare la vita con la vita

Vincoli
In questo trasmigrare del navigatore, in questo discorrere dei nodi
che mi piace immaginare per descrivere il nostro pensare, esistono
dei vincoli. Penso, appunto, che i vincoli fondino la libertà della
persona umana, ne rendano possibile l’esercizio. Il vincolo, il limite,
le regole del gioco rappresentano per me l’elemento di maggior
fascino, la struttura aerea su cui inerpicarsi, poggiare il piede,
scegliere la direzione. Io i vincoli li amo, fra suggerimenti,
provocazioni, possibilità e sfida, li immagino come compagni severi
ma anche un po’ ridanciani, complici attenti che seguono
l’andamento del passo, presenze competenti su cui far conto.
Anche per superarli con qualche forzatura inventando con loro un
assetto inedito che marchi un tempo ancora tutto da vivere.
Comincio a identificarne qualcuno, ovviamente sarà solo un
assaggio di questo mondo complesso che, se conosciuto e
rispettato, ne facilita la frequentazione. Così che la complessità non
divenga complicazione. Cerco di spiegarmi affinché questa
distinzione non risulti solo un gioco di parole.

Per poter prendere qualunque decisione occorre aver raccolto una


quantità di informazioni sufficiente a permettere la presa stessa
della decisione: questa è la complessità. Se voglio andare al
cinema, devo sapere quali film sono in programmazione e dove li
proiettano, ma devo anche conoscere i miei criteri di scelta: il
genere, il regista, gli attori, il battage che se ne è fatto, l’orario che
mi risulta più agevole. Devo sapere se voglio andarci da sola o con
qualcuno (e con chi), devo sapere se invitare qualcuno a vedere
con me un film che voglio vedere o se voglio scegliere un film che
permetta di andarci assieme. Conoscere i miei criteri, (i miei
desideri?), mi permette di modulare la scelta in termini
soddisfacenti. È quello che viene chiamata la “tecnica dell’uso delle
obiezioni”, percorrendole tutte posso decidere al meglio. Per me, in
quel momento, su quel tema. Ad esempio, so di un film per me
interessante, lo propongo a un’amica. Lei mi dice che l’ha già visto:
si apre la valutazione se è per me più importante uscire con l’amica
e dunque modificare la scelta iniziale o privilegiare la pellicola
desiderata, rimandare a un’altra occasione etc. etc. Del tipo: “vuoi
venire con me stasera a vedere xxy?” “mah, guarda, stasera sono
un po’ stanca, non vorrei fare tardi” “possiamo andare allo
spettacolo delle 20” “sì, ma poi non è che mi entusiasmi tanto quel
regista”. A questo punto, le obiezioni dell’amica identificano un

49
Curare la vita con la vita

reticolo di vincoli; volete testarli? “ma insomma, in realtà non hai


voglia di uscire” (lettura del pensiero, interpretazione), oppure
“tutte le volte che ti propongo qualcosa non ti va mai bene”
(versione Calimero, querimonia colpevolizzante), oppure “vuoi che
invece ci mangiamo qualcosa assieme?” (l’importante è stare con
te), oppure “sì, hai ragione sul regista ma mi dicono che la
fotografia è magnifica” (fammi capire se il no è veramente sul film).
I turni verbali si susseguono, a ogni bivio si apre la scelta del nodo
da intersecare (relazionale, di contenuto) e del livello (più
comprensivo, più in dettaglio, trasversale, orizzontale), quello che
otteniamo è quello che abbiamo costruito assieme all’altro ed è
fondamentale che ci assomigli e che ci soddisfi. Se non sappiamo
che cosa vogliamo ottenere come potremmo accorgerci di averlo
magari ottenuto? Per definire l’ambito della complessità sufficiente,
il veicolo principe è il desiderio, il progetto, la vision.

Complicato, invece, è tutto ciò che inceppa il percorso, il granello


nel meccanismo. Le considerazioni, i pensieri, le notizie che in quel
momento non sono funzionali alla presa di decisione.
Evidentemente, come si diceva, sono un’infinità le cose vere ma il
fatto che una cosa sia vera non la rende di per sé automaticamente
importante e significativa. Siamo noi a dotarla di significato, se
l’amica cui telefoniamo è abitualmente una che si nega, allora a
quale scopo le telefoniamo? Per avere la conferma che anche
stavolta andrà così? Per poter gustare l’ulteriore rifiuto e
crogiolarci? Per avere la scusa di restare a casa davanti al
televisore? L’informazione del suo abituale sottrarsi è un vincolo
importante che orienta il percorso: vogliamo veramente che
stavolta dica di sì? Dovremo impostare sequenze inedite che
sorprendano lei e noi, secondo l’aureo principio che se facciamo ciò
che abbiamo sempre fatto, otterremo ciò che abbiamo sempre
ottenuto. Complesso è chiedersi quali sono le informazioni
necessarie e sufficienti, complicato è rendere pregiudizialmente
insolubile qualunque presa di decisione, ritrovarsi scontenti a casa
o scontenti al cinema, avendo desiderato dell’altro e avendo
perseguito l’opposto. La stucchevole affermazione “il problema è
più complesso” in genere non è seguita dalla raccolta dei dati
sufficienti a onorare la dichiarata complessità ma piuttosto a
insabbiare un percorso progettuale, a dilazionare l’azione.
Sottintendendo che un problema risolubile è una banalità, non
degna della nostra preziosa attenzione quando veramente
interessante, invece, è, a mio giudizio, una formulazione così

50
Curare la vita con la vita

precisa del problema che ne permetta la soluzione. Questo aspetto


è uno degli ostacoli più drammatici della clinica, la sofferenza
sconcertata del vedere una soluzione. È quello cui mi riferisco con
“il lutto del sintomo” ma ne parleremo meglio più in là, ora
torniamo ai vincoli.

Bipolarismo

Uno dei vincoli più evidenti, più cogenti, è proprio quello del
bipolarismo, della struttura binaria. Quella che, asserendo che il
mondo non è tutto bianco o tutto nero, privilegia, nel suo stesso
negarlo, la predominanza ovvia del bianco e del nero. Superiori a
qualunque altro colore proprio per la loro assolutezza, per il loro
comprenderli o escluderli tutti, i colori. A noi piacciono i colori, ne
amiamo qualcuno, ci teniamo distanti da altri ma nessun colore ha
il rango del bianco e del nero, nessuno ha questa definitività
appagante, risolutoria. Entriamo fra i contrafforti del bianco e del
nero, dispieghiamo l’iride intera e poi, dopo un percorso che
richiede il suo tempo, scegliamo, fissiamo un colore, una nuance,
un tono su tutti gli altri. E il bipolarismo si ripropone,
contrapponendo, ora, la tinta scelta a tutte le altre. Del bianco e del
nero non ci occupiamo più.

Sono tanti i bipolarismi che scandiscono il nostro andare del


pensiero. Di tempo, il sempre/ mai che ci sussurrano un soffio
inquietante di freddo, di giudizio, quel buono/ cattivo che si impiglia
di ricordi, attenuanti, giustificazioni, il glorioso maschile/ femminile
che ha innervato volumi, culture e momenti di grande politica
quotidiana, l’alto/ basso, il dentro/ fuori, il tutto/ niente, sono tanti,
veramente. Stabilendo un polo, se ne richiama l’opposto andando
così a definire una gamma infinita di punti intermedi. Quelli, sì,
sono alla nostra portata, quelli sì che possono essere oggetto della
nostra scelta. Ci muoviamo all’interno dello spazio presieduto dalla
polarità, spazio fruibile, gestibile, diverso dalla sacrale colossalità
dei poli che, pure, si riflette in ogni nostro gesto, in un gioco di
specchi sempre più minuto che farebbe la felicità di Enscher.
Eppure, ogni giorno ci sentiamo ripetere con sufficienza da chi ci
deve insegnare a pensare (direbbe Jannacci: quelli che ti spiegano
le tue idee senza fartele capire), ogni giorno ci dicono che il mondo
non è tutto bianco o tutto nero ma poi, contemporaneamente,
veniamo bacchettati se non prendiamo delle posizioni chiare, se
avanziamo dei distinguo, se cerchiamo, come si diceva, di allargare
il ventaglio. Ed è come se queste due modalità fossero tutte e due

51
Curare la vita con la vita

indispensabili, come se ci dibattessimo nella scelta, convinti di


ciascuna e desiderosi dell’altra. Confronti improbabili ma a cui
sembra non sia possibile sottrarsi, una dimensione binaria che
dispiega un tessuto fra i due poli, una sostanziale continuità in cui
occorre stabilire un confine, come per gli Stati. Come per l’ora della
nascita e della morte. Attratti dalla apparente chiarezza bipolare
(“O di qua o di là”, s’intitolava una trasmissione televisiva, peraltro
pessima), quella in cui ci sembra venga ospitata e custodita la
coerenza e il coraggio (ma tu, da che parte stai?), non possiamo
che riscontrare la reale unità del tutto che oggi riacquista anche un
particolare valore simbolico e riferimento culturale, spaziando dalla
globalizzazione all’OM che celebra l’essere indiviso di ogni realtà
cosmica:

Da quella Totalità è venuta questa Totalità.


Togli questa Totalità da quella Totalità
Ciò che resta è la Totalità.
OM pace, pace, pace.

(inizio della prima Upanishad, da “Un altro giro di giostra”, Tiziano


Terzani, Longanesi & Co, Milano 2004)

Proviamo, ad esempio, a prendere in considerazione il binomio


analogico/ digitale, uno degli schemi con cui tentiamo di leggere il
mondo e in particolare il comportamento umano, la comunicazione.
Allora, in prima battuta, sembra semplice: analogico è il
comportamento non verbale, digitale il dire. Ma già al secondo
passaggio, il gioco si ripete: stiamo studiando un movimento, un
gesto del braccio che si leva. Il braccio rispetto al resto del corpo si
stacca, come elemento digitale. Se poi lo guardiamo più da vicino,
c’è quel movimento della mano che spicca sul braccio intero e poi,
ancora più da vicino, le due dita raccolte si stagliano nette. Come
un grido. E raccogliamo quella informazione. Ma le due dita
divengono significative perché è attraverso questo percorso che le
abbiamo elicitate.

Accade lo stesso nell’analisi del parlato: la frase significativa che ci


dà senso si stacca dal contesto analogico del discorso, ma nella
frase c’è quella parola che come un uncino aggancia e trascina la
frase intera, un gesto determinante. E poi, potremmo chiederci,
quella frase, quella parola, la commentiamo come fosse una chiosa
del discorso, come fosse una nota a margine o a piè di pagina,
come fosse un ampliamento, un’associazione, un accostamento

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Curare la vita con la vita

cognitivo di che tipo? In ogni nostro incedere stabiliamo dei poli,


definiamo lo spazio intermedio, operiamo una scelta e, subito,
ritroviamo la polarità, lo spazio, la scelta. Uno scambio veloce di
figura/ sfondo in cui ci addentriamo sempre più immersi nello
spazio, sempre più richiamando la polarità. Fino a che concludiamo,
fermiamo il tempo dell’indagine e i poli ristanno quieti scandendo
un tranquillo prima e dopo.

I piedi nel piatto

È solo dopo l’inquadramento bipolare, dopo aver cercato ed evocato


l’altro polo che possiamo avviare le cosiddette domande circolari,
come ragionavamo con Gianfranco Cecchin una sera d’estate di cui
ho una gran nostalgia. Da Connessioni numero 10:

Maria Cristina: partiamo da quell'episodio accaduto a Oslo e che mi


raccontavi?

Gianfranco: sì, un gruppo di inglesi che hanno portato come


esempio un loro intervento: erano stati inviati in una prigione dove
c'erano cinque adolescenti che avevano violentato una vecchietta e
l'avevano uccisa. Li avevano messi in galera, ovviamente, però non
sapevano poi come intervenire con loro. Avevano 16, 17 anni, 18 al
massimo (...) non si poteva parlar con loro, perché proprio non
avevano nessun senso di colpa, niente, nessun pensiero di nessun
tipo, giocavano tra di loro. Sembravano ottusi, sembravano degli
idioti totali. E se si andava là a minacciarli, non serviva a niente.
“Sono in galera? Non sono in galera? Chi se ne frega!”. E lo Stato si
domandava: cosa ne facciamo, li mettiamo in galera per 80 anni, li
mandiamo al capestro, cosa facciamo? Io l'ho chiesto a loro, per
vedere se era possibile fare qualche intervento di tipo sistemico. E’
stato interessante, perché loro li hanno incontrati e hanno detto:
"Noi siamo stati mandati qui dal giudice per parlare con voi visto
che voi non parlate con nessuno e non ve ne frega niente di
niente". Sono riusciti a parlare: insomma, un po’ obbligati, ma
parlavano. Dopo un po’ hanno chiesto: "Questa storia della
vecchietta che avete ucciso, possiamo parlarne un momento?". Ne
è uscito un bel quadro, perché hanno detto: "Qual era la parola che
più andava d’accordo con questo evento? Potete inventare una
parola?" E hanno detto: "Excitement": "Eccitamento."

Maria Cristina: accidenti!

53
Curare la vita con la vita

Gianfranco: e un'altra parola? Un'altra parola: "Solidarietà".


Interessante, no?

Maria Cristina: già, perché era di gruppo.

Gianfranco: poi un'altra parola ancora: "Capo" del gruppo; un'altra:


"Divertimento " “Fun”. Un'altra era: "Suono", "Musica", e mi veniva
in mente musica rock. E sono uscite così un sacco di parole. E dopo
si sono fermati e hanno cominciato ad esaminare le parole tutte
insieme. C'è qualcosa che le mette insieme, no? e sono andati a
cercare, usando le parole sparse, se ci fosse una specie di discorso,
qual era, quali erano le parole, i pensieri dominanti di questo
gruppo. E allora viene fuori che nel gruppo c'era un leader, e ciò
che fa il leader lo devono fare tutti, e l'unico modo per vivere è
quello di essere insieme e fare qualcosa di exciting: e quindi la
persona, l'altro, non esiste. Non esisteva nessuna parola che
facesse vedere che l'altro essere umano esiste.

Maria Cristina: l'altro non c'era proprio!

Gianfranco: non c’era. E' interessante la possibilità di ricostruire


quel pensiero partendo dalle parole, senza nessun moralismo,
senza neanche nessun gioco sistemico, niente, solo parole. E poi
alla fine, dopo un po’ hanno cominciato a dire: ”Ma sentite,
mettiamo questa vecchietta che è morta, mettiamola qua dentro...”

Maria Cristina: dentro le parole…

Gianfranco: dentro le parole, certo: “A quale parola potrebbe


associarsi questa signora?”. Oppure, potremmo trovare il contrario
di ogni parola? E allora gli operatori hanno detto: "Excitement", e i
ragazzi hanno risposto: “Excitement? Fear.” Paura. “Solidarietà”.
“Solidarietà? Solitudine, no?”

Maria Cristina: straordinario; loro stessi, i ragazzi, l'hanno fatto?

Gianfranco: sì. Ed era diventato un gioco. Poi: “Coraggio...Terrore”.


Dopo: “Musica… Silenzio. Excitement... Morte”. Affascinante,
perché hanno cominciato attraverso questo esercizio, diciamo così,
a pensare a come poteva pensare la vecchietta. Così gli operatori
(...) esaminando e confrontando hanno visto che questo stesso
meccanismo è presente nelle guerre etniche: questi gruppi
generano una totale inesistenza dell'altro, per cui l’altro lo puoi
infilzare con un coltello e proprio non lo vedi. Cioè non c'è un

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Curare la vita con la vita

sentimento di nessun tipo e l'altro non c'è. Però una volta che
questi operatori hanno detto: “Prendiamo la vecchietta e
mettiamola dentro questo quadro”, loro hanno cominciato a
vederla, no?

Maria Cristina: sono tornati intelligenti.

Gianfranco: hanno ricominciato a pensare, ma usando le parole e il


contrario delle parole; e ogni parola aveva il suo contrario ed era
esattamente quello che poteva aver sentito lei.

Maria Cristina: che quindi loro non sapevano di sapere, ma che


invece hanno scoperto...

Gianfranco: hanno scoperto di sapere perché, come dicevamo, ogni


parola esiste solo se c’è anche il suo…

Maria Cristina: contrario. E questo che stai dicendo, mi fa venire in


mente quello che pensavo sul fatto che il nostro pensiero è
comunque vincolato a un andamento polare, no?, polarizzato.
Allora, noi conosciamo una cosa se siamo in grado di conoscere
anche il contrario; probabilmente i ragazzi nel momento in cui
hanno potuto cominciare a cercare le parole opposte, e dunque il
punto di vista della vecchietta, hanno avuto... possono aver creato
una relazione fra le loro parole e le parole della vecchietta. Mi
domandavo se non è proprio una struttura del nostro pensiero
quello del muoversi per poli. Mi spiego: per esempio noi in
sistemica diciamo che esiste la dimensione analogica e quella
digitale; ma io non penso che esistano, io penso siano dei modi di
vedere, cioè che per poter cogliere l'analogico dobbiamo poter
parlare del digitale, e viceversa. Esiste il dentro e il fuori, esiste il
buono e il cattivo, esiste il bianco e il nero, esiste il maschile e il
femminile... Quello che loro, che questi ricercatori o terapeuti
hanno fatto con questo gruppo di ragazzi non è stato tanto il fare
delle domande circolari, cioè non hanno cercato di costruire un
sistema ma hanno raddoppiato, con delle domande bipolari, il
mondo dei ragazzi. Allora mi domandavo se anche in terapia la
polarizzazione è uno dei vincoli fondamentali del nostro pensiero;
questo non significa che c'è nella realtà, significa che questo è uno
degli schemi fondamentali con cui noi conosciamo. Per questo può
essere utile porre domande che polarizzino, affinché si cerchino
risposte.

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Curare la vita con la vita

Gianfranco: quindi si può dire che una domanda circolare è un po’ a


sé, cioè è uno strumento potente, ma non è sufficiente perché c'è
la domanda bipolare che...sarebbe una buona invenzione, no? La
domanda bipolare implica che non esiste nessuna realtà che non
integri anche il suo opposto. Quindi se c'è la guerra (...)

Maria Cristina: non può che esserci anche la pace.

Gianfranco: non può che esserci anche la pace, ed è quello che gli
operatori, diciamo, gli intervistatori, o i diplomatici ecc., vanno a
cercare in ogni struttura...

Maria Cristina: l'altro.

Gianfranco: l'altro, il contrario di quello che... Appena hai creato il


potere esiste il non potere.

Maria Cristina: sì, nella stessa persona e nella stessa situazione e


nello stesso sistema.

Gianfranco: nello stesso sistema.

Maria Cristina: certo, e il fatto che esistano un polo e l'altro, non


vuol dire che siano... che l’uno appartenga a un pezzo del sistema o
a un membro del sistema, e l’altro ad un altro pezzo del sistema;
ma vuol dire che a ciascuno appartengono entrambi i poli.

Gianfranco: tutti e due i poli, sì. Ed è stata quella la scoperta degli


operatori: se gli chiedi di portare a galla, bring off, tirare fuori,
l'altro aspetto...

Maria Cristina: l'altro aspetto...sì, anche perché nel momento in cui


tu stabilisci l'altro polo apri in mezzo un'infinità di punti intermedi,
e quindi, come dire, reinventi la mobilità. Allora, anche se noi
sosteniamo che etica non vuol dire avere dei buoni sentimenti,
possiamo dire, però, che c'è dentro di noi, sicuramente, un punto
che dice: non si devono violentare le vecchiette. E questo è giusto.
Poi devono esserci, però, anche altri punti, anche il punto opposto,
quello in cui questi ragazzini di 16-17 anni hanno trovato invece il
giusto nel violentare la vecchietta. Cioè: se noi non riusciamo a
immaginare che ci deve essere un punto guardando dal quale loro
hanno avuto ragione, non possiamo nemmeno portarli a
domandarsi qual era il punto di vista della vecchietta.

Gianfranco: questo è un discorso circolare, perfetto.

56
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: allora, io credo che è nel momento in cui accetti lo


strumento della bipolarità, che poi la circolarità serve a mettere in
circolo, appunto, in asse, in connessione dei punti. Ma nessuno dei
poli iniziali può essere messo in connessione da solo.

Gianfranco: no, certo. Adesso mi viene anche il sospetto che se noi


cerchiamo di azzerare tutto il gioco, se sosteniamo che i poli
devono assomigliarsi, che tutto deve essere neutrale, in questo
modo uccidiamo l'esistenza. (...)

Maria Cristina: come mi raccontavi della baby sitter del tuo


nipotino…

Gianfranco: sì, guarda dei bambini neonati; però lei sceglie solo
bambini di meno di 8 mesi, e li tiene non più di 3 anni, fino a 3
anni: le piacciono i bambini così.

Maria Cristina: mette delle regole molto precise.

Gianfranco: e ne prende 6 o 7 al massimo, e poi paga di tasca


propria delle persone che per lei intervistano i genitori del bambino
no?, e vogliono vedere se va bene per lei.

Maria Cristina: beh è molto interessante come fa questa donna.


Stavo pensando, come sia assolutamente arbitrario decidere chi
sceglie chi. Intendo dire che la migliore baby-sitter probabilmente è
quella che ti seleziona, non che accetta chiunque.

Gianfranco: ah, sì, esatto.

Maria Cristina: allora mi domando anche se il tanto discorrere


buonista di sentimentale comprensione, di apertura verso
chiunque, da parte del così detto terapeuta (se uno ha un cuore
grande, salva tutti), non sia un modo poi di non...come dire...di
non farsi scegliere, di non sottostare a una sorta di screening, ma
anche a una sorta di contratto.

Gianfranco: praticamente torniamo all'idea di prima: c'è stata una


grande abbuffata, il tentativo di eliminare le polarizzazioni, no?.
Perché le polarizzazioni sembravano preparare solo guerre,
violenza, abuso, ecc. ecc., no?. E quindi c'è stata questa grande
illusione di poter annullare la polarizzazione: i terapeuti devono
amare tutti i pazienti che vedono.

Maria Cristina: tutti.

57
Curare la vita con la vita

Gianfranco: e, allo stesso modo, le madri devono amare tutti i


bambini che nascono, le baby-sitter devono essere tutte
innamorate di tutti i bambini che vengono loro proposti…

Maria Cristina: sì, il conflitto è peccato, il conflitto è morte.(...)

Gianfranco: la realtà è quella di continuare a creare continuamente


polarizzazioni che avvengono e si estinguono, si creano e vengono
distrutte. E’ sulla realtà della polarizzazione che va avanti il mondo.

Maria Cristina: è come per la corrente elettrica, come per lo yin e lo


yang, certo. Ma quello che a me spaventa molto, e di cui io credo in
parte la terapia sistemica è stata anche corresponsabile, coautrice
insomma, è questa idea del dover mettere l'armonia in famiglia:
ogni terapeuta familiare sogna segretamente di ricongiungere
quest'uomo e questa donna che stanno litigando furiosamente. Cioè
non ho mai incontrato un terapeuta familiare che fosse
effettivamente alleato del litigio e curioso della finezza, per esempio
di come viene alimentato del litigio. E' molto difficile litigare bene.

Gianfranco: farlo con arte e con raffinatezza.

Maria Cristina: è considerato casomai, con una brutta parola,


‘strategico’, ma è una cosa che non va bene; nel suo cuore il
terapeuta sa che si deve amare l'armonia.

Gianfranco: molto probabilmente, se seguiamo la fantasia dei


bambini che vediamo, i bambini hanno sempre questa fantasia
molto forte, no?, che vogliono la famiglia normale, dove c'è il papà,
la mamma, che stanno insieme, sono contenti di stare insieme…
per i bambini dà più sicurezza dal punto di vista di sopravvivenza e
fisiologico. (...) Non è possibile che i terapeuti siano un po’ una
massa di grandi bambini che hanno questa fantasia?

Maria Cristina: ma la sopravvivenza dei bambini deve essere


garantita fino a una certa età. Non è detto che un bambino un po’
più grande abbia la sua sopravvivenza a rischio se il padre e la
madre si separano, ma sembra che il terapeuta quando vede una
famiglia debba profondere tutte le sue forze e le sue abilità per
rimetterli insieme. (...) ma tu non pensi che in questo senso, per
esempio, ci sia una scarsissima alleanza con gli adulti delle
famiglie, cioè non pensi che abitualmente coloro che si occupano di
famiglie (i terapeuti, ma anche gli assistenti sociali, anche i giudici
minorili) sono sempre e comunque a difesa dei bambini? Ma, in

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Curare la vita con la vita

qualche modo, difendere i bambini senza difendere prima i genitori,


che sono quelli che ne devono garantire la sopravvivenza, è un
gioco folle, perché non si possono difendere i bambini senza
difendere i loro genitori.

Gianfranco: e perché allora non accettiamo che questa è un'idea


culturale diffusa in occidente, perché i bambini sono scarsi, sono
pochi, ci sono troppi vecchi, per cui i bambini sono sacri …

Maria Cristina: sono l’investimento del futuro, come dicevamo.

Gianfranco: esattamente, per cui c'è tutta una struttura sociale,


una cultura, no?, per cui il bambino viene difeso a oltranza sia dai
servizi sociali che dai terapeuti. Nei Paesi del Nord Europa, se un
genitore si comporta male con un bambino, il bambino viene subito
preso e portato via, dato in adozione o in affidamento.

Maria Cristina: perché la cultura collettiva, io credo anche, difende i


bambini, ma ciecamente: ciecamente perché, appunto, secondo me
un bambino non può essere difeso se prima non difendi i suoi
genitori, no?. In questo modo, difendendo ciecamente i bambini, gli
adulti vengono progressivamente privati di sostegno, e quindi di
difesa. E quindi io credo che noi assistiamo a un popolo che è
sempre più giovanile, nel senso che trova sempre meno utile l'idea
di essere adulto. È per questo, io credo, che anche noi stiamo
incrementando in qualche modo la pedofilia: perché da qualche
parte, con qualcuno più debole te la devi pure prendere. Cioè,
nessuno difende gli adulti, nessuno dice: adulto è bello. Non è più
una cultura abituale in cui uno cresce perché il bello è diventare
grandi, no?. Il bello è...

Gianfranco: essere giovani, belli, affascinanti...

Maria Cristina: essere giovani... Allora, se è così, necessariamente


quanto più difendi i bambini, va a finire che li difendi contro gli
adulti. E nel momento in cui li difendi contro gli adulti, li rendi
doppiamente orfani, perché li privi dei loro genitori.

Gianfranco: ecco, però noi adesso dovremmo seguire il discorso


della polarizzazione: una volta creata la polarizzazione adulto -
bambino, no?, noi senza saperlo siamo caduti nella
contrapposizione, nella guerra, tra questi due poli.

Maria Cristina: esattamente.

59
Curare la vita con la vita

Gianfranco: invece, il terapeuta deve sapere che la polarizzazione è


assolutamente inevitabile; però il lavoro dei terapeuti è quello di far
sì che la polarizzazione abbia un effetto creativo e non distruttivo.

Maria Cristina: e quindi deve reggere la polarizzazione, però non la


deve negare.

Gianfranco: perché la polarizzazione potrebbe arrivare alla guerra


totale, no?, alla distruzione. Come si può mantenere viva la
polarizzazione senza uccidere il sistema? E' questa l'idea finale,
diciamo, di questo concetto.

Maria Cristina: certamente. Io penso, per esempio, che se, in una


situazione di polarizzazione, il terapeuta appoggia il polo che è già
in sintonia con l'assetto sociale (e qui ne faccio un'altra, di
polarizzazione, cioè il privato della famiglia versus il contesto
sociale) se, dicevo, il terapeuta appoggia il polo ‘socialmente
corretto’, allora squilibra di troppo la situazione, e quindi rischia di
alimentare la capacità di guerra. Questo non vuol dire, a mio
giudizio, che, se il contesto sociale dice che non va bene violentare
i bambini, il terapeuta deve appoggiare l'idea che è bene. Non sto
dicendo questo: sto dicendo però che il terapeuta deve poter
mostrare che nella violenza sui bambini ci sono anche degli
elementi, dei comportamenti, dei valori, che in qualche modo
costituiscono il genitore come tale, e che si esprimono anche nel
suo violentare il bambino.

Gianfranco: qui c'è un'idea difficile da vendere, diciamolo.

Maria Cristina: mi spiego: normalmente tutti i bambini negano che


siano stati i genitori a picchiarli, tutti quanti i bambini negano che a
stuprarli siano stati i nonni o i fratelli, no?...Nel momento in cui
l'adulto terapeuta, si prefigge invece di svergognare quel familiare
che i bambini stanno cercando di proteggere, va contro i bambini.
Vorrei essere chiara, non sto dicendo che mi sta bene che i bambini
siano stuprati. Diamolo per buono. Io sto dicendo che nel momento
in cui il bambino subisce violenza, in qualche modo,
inevitabilmente, come accade per le donne maltrattate, partecipa a
quest'atto di violenza; sia pure astraendosene in qualche modo; ed
è lì la follia, perché ci sta, e non ci può stare. E' la persona che
dovrebbe garantirgli la sopravvivenza ed è quello che gli fa la
maggiore violenza, no? il tutto condito da un fortissimo rapporto. Ci
siamo posti per tanti anni e decenni il problema del controllo
sociale, tra terapie, controllo sociale, ecc. Ma in questo modo di

60
Curare la vita con la vita

porsi il problema, non ci siamo mai posti fortemente a fianco, sia


pure a tempo, di colui che invece veniva accusato. Allora, se un
bambino…

Gianfranco: come quei cinque stupratori della vecchietta.

Maria Cristina: bravo, esattamente questo. Allora, nel momento in


cui i ricercatori sono andati a parlare coi ragazzi, non gli hanno
detto: “Rendetevi conto di quel che avete fatto”. Sono partiti dal
presupposto che loro non sapessero cosa avevano fatto. Questo
sospendeva ogni giudizio, era una constatazione di fatto. Non sono
entrati nel merito del perché non lo sapevano; non hanno detto “I
giovani d’oggi che non hanno valori, che hanno un vuoto
spirituale…”. Loro hanno detto: “Questi ragazzi non hanno,
sull'omicidio di questa donna, la stessa percezione di realtà che ne
ha il contesto sociale circostante”, no?. Ma non sono partiti dal
contesto sociale circostante, sono andati da loro e gli hanno detto:
“Tu quando hai ammazzato la vecchietta, cos'è che hai provato di
bello?”. Perché se no i ragazzi non avrebbero mai potuto
rispondere: “Exciting, Divertente, Fare gruppo”. Sono parole
positive queste, è importante. E da questo, da questa posizione i
ragazzi hanno poi potuto andare a cercare la versione polare che
era quella della donna anziana.

Gianfranco: perché... dalla versione polare poi viene naturale...

Maria Cristina: viene assolutamente naturale. Cioè quando tu hai


consumato la tua posizione, vai dall'altra parte.

Gianfranco: quando hai trovato la tua connotazione positiva, cioè


quando la tua posizione viene accettata.

Maria Cristina: io sono assolutamente convinta, Gianfranco, che le


persone possono cambiare, nel senso di spostarsi, cambiare idea
anche, solamente quando hanno avuto ragione, da vincenti. Cioè
nessuno cambia se non da vincente. Obiezione: “Ma questo
significa che tu puoi permettere a un padre stupratore di muoversi
diversamente solamente dopo avere dato un significato al suo aver
stuprato i figli?”. Io ti rispondo: “In qualche modo sì”. Io credo che
sia una responsabilità etica del terapeuta quella di spostarsi nella
posizione polare per vedere come si vede il mondo dall'altra parte,
e credo anche che il miglior modo per difendere i bambini sia quello
di difendere e custodire i loro genitori, ricostituire i loro genitori
nella loro dignità di adulti e in questo senso restituire dei genitori

61
Curare la vita con la vita

integri ai bambini. Una volta che uno si sposta nella posizione


polare, poi ha tutte le infinite intermediazioni che vanno tra un polo
e l'altro, che in qualche modo condivide un polo con l'altro. Per
esempio il fatto che un bambino può aver pensato che, tutto
sommato, era il privilegiato del padre se il padre faceva con lui
questo. Che soffriva ma provava piacere, che dava volentieri
qualcosa al padre, che aveva paura ma poteva diventare
coraggioso. E non sto giustificando il fatto, sto cercando di
districare dalla violenza orribile di uno stupro o di un abuso su un
bambino gli elementi che ci sono già presenti e che possono
ricostituire un genitore nell'adulto che in questo momento viene
considerato l'accusato.

Il corpo e la mente

Il corpo è veramente il nostro consulente migliore. D’altronde, è


con noi da che esistiamo, come potrebbe non aver memoria di tutti
i nostri attimi? Memoria diversa da quella della mente, certo, ma
così strettamente in interazione! Il corpo è il consulente migliore,
intanto perché è sempre a nostra disposizione, attento, preciso e
disponibile. E se siamo stati abituati a dargli retta quando ci arriva
un segnale di dolore, perché mai, mi son chiesta, non andare a
cercare un rapporto con lui anche senza la necessità
dell’accompagnamento doloroso? Ritengo, infatti, che siamo fin
troppo esperti nel riconoscere il dolore, la sofferenza è un
linguaggio che scambiamo spesso fino a farle acquistare una
qualche strana sorta di sacralità. Ora, non è certo contestabile la
presenza diffusa, e quanto ripetuta!, del dolore nella nostra
esistenza. Ci piaga, ci afferra, ci torce, dentro di noi e in chiunque,
è un tormento di cui non sappiamo e non possiamo darci pace, di
cui cerchiamo brandelli di consolazione, per cui tanti levano i pugni
al cielo, che sollecita solidarietà e impotenza, disgusto e pietà. Ma il
dilagare del dolore, così tante volte originato da intollerabili
ingiustizie e violenze ma anche così spesso insopportabile proprio
perché immotivato, questa presenza dovunque che ha innervato
religioni e costruito luoghi sociali per poterlo affrontare, definizioni
per dargli un nome quasi lo si potesse così catturare e
irreggimentare, non vuol dire che il dolore sia, se non l’unico, il
migliore dei linguaggi con cui gli esseri umani possono rivolgersi gli
uni agli altri o a se stessi. Una certa santificazione del dolore
nasconde l’indecente obiettivo dell’asservimento a un’obbedienza
che sa di sottomissione. La tragedia della sofferenza umana spesso
scivola in un oscuramento delle altre emozioni, delle esperienze

62
Curare la vita con la vita

fisiche e psichiche che non dal dolore traggono origine e scopo ed


esistenza. E che vengono tacitate o, quanto meno, relegate in un
rango minore: meno vere, meno importanti, meno dicibili
socialmente. Nel mio lavoro, cerco di non farmi catturare dalla
fascinazione del dolore, cerco di non attardarmi nei territori della
cosiddetta patologia, invito l’altro a percorrere il campo della
normalità, della salute. Quel campo dove lui ed io possiamo fruire
di cittadinanza piena, dove siamo riconosciuti come persone
competenti, con un lavoro, famiglia, ruoli e abitudini sociali;
ognuno le sue ma le abbiamo ambedue. Assieme, da lì riguardiamo
quel buco di dolore, cerchiamo di maneggiarlo con qualche
distanza, se appena è possibile lo riconduciamo con affetto e
attenzione e rispetto nel mondo della salute, ne accarezziamo i
lineamenti che, distorti in quel territorio, qui possono cominciare a
ricomporsi in un’espressione che si può riconoscere, interpretare.
Quasi una nuova nascita, con lineamenti plasmati da un rapporto
d’amore: dice Giuliana, medico ematologa e donna straordinaria,
un bambino acquista il suo viso non con la nascita ma con le
carezze che glielo modellano.

Nel mondo della normalità il dolore si può interrogare e lo si può


sperimentare consumandolo e trasformandolo in energia vitale, nel
mondo della patologia lo si può solo contemplare, attoniti basilischi,
in un tempo che non scorre ma abbacina. Tante cosiddette
depressioni erano involucri di sofferenza tesi ad abbracciare e
custodire un dolore che si pensava tanto inevitabile quanto
invivibile, oggetti preziosi, diceva una donna, umiliazioni, sconfitte,
tradimenti, disperazioni da lucidare con cura e che, ogni volta che li
prendi in mano per rimirarli, restituiscono la stessa, eterna,
immutabile fitta di dolore. Quando siamo riusciti, e qualche volta è
stato possibile, a denudare il dolore temuto, ad attraversarlo,
consumarlo, assaporarlo compiutamente, le icone di un tempo
hanno potuto finalmente trovare riposo e riparo. Senza essere
cancellate né dimenticate, esperienze cui volendo si può riaccedere
in ogni momento ma che non costituiscono più il perno
dell’esistenza quotidiana. L’orizzonte si amplia, il lucore si stempera
in altre luci, si spande in atmosfere più ariose. Il quotidiano
allargato può assorbire la predominante patologia di un tempo, un
quotidiano che non usa più la sofferenza come altare sacro ma che,
laico senza dover essere necessariamente laicista, attraversa con
leggerezza consapevole tutti gli strati dell’esperienza vitale,
fermandosi qui a incoronare un dio, là a seppellire un reperto, lì,

63
Curare la vita con la vita

invece, a organizzare un museo. Con la libertà impegnativa di


essere protagonista della propria esistenza.

Annabella e lo stornello

Ci sono dei libri di cui non si può fare a meno, da una generazione
all’altra.

Penso, in questo momento, alla serie di P.L.Travers su Mary


Poppins, bambinaia con il volto da bambola olandese, scontrosa e
insostituibile, imprevedibile, rassicurante e misteriosa, giustamente
adorata dai piccoli Banks (il loro padre lavora in banca!). Nella
famiglia nasce la piccola Annabella ed ecco un passo delizioso che
racconta l’ingresso nel mondo di un cucciolo nuovo (da P.L.Travers
“Mary Poppins ritorna”; Gruppo Editoriale Fabbri Bompiani
Sonzogno Etas s.p.a., Milano 1937):

Mary Poppins si aggirava quietamente nella stanza, ponendo in


bell’ordine gli abiti nuovi di Annabella. La luce del sole, entrando
dalla finestra, attraversò lentamente la stanza e raggiunse la culla.

“Apri gli occhi!” disse piano “ e vi lascerò cadere un raggio!”

La piccola coperta si mosse. Annabella aprì gli occhi.

“Brava bambina!” disse la luce del sole “i tuoi occhietti sono celesti,
vedo il mio colore preferito. Ecco! Non si potrebbe trovare da
nessuna parte un paio d’occhi più luminosi!”

La luce del sole scivolò via dagli occhi di Annabella, carezzò le


sponde della culla e si dileguò.

“Tante grazie!” disse Annabella gentilmente.

Una tiepida brezza, rimuovendo le trine della culla, le sfiorò la


testina.

“Capelli ricciuti o lisci?” mormorò la brezza.

“Oh, ricci per favore!” implorò piano Annabella.

“I riccioli risparmiano i dispiaceri, vero?” assentì la brezza. E si


agitò sul capino biondo finché arricciò in su con cura le punte dei
suoi capelli prima di uscire, volteggiando, dalla stanza.

64
Curare la vita con la vita

“Eccomi! Eccomi!” gridò una voce rude dalla finestra. Lo Stornello


era tornato sul davanzale. (…)

“Annabella, cara” (…) e la guardò col suo tondo occhio luminoso


“Spero” disse gentilmente “che tu non sia troppo stanca del
viaggio!”

Annabella scosse la testa (...) agitò le manine fra le lenzuola.

“Io sono terra e aria e fuoco e acqua” disse dolcemente “vengo dal
Buio dove tutte le cose hanno il loro principio. (…) Vengo dal mare
e dai suoi flutti (…) vengo dal sole e dalla sua luce”.

“Ah, sei così luminosa!” disse lo Stornello, assentendo.

“E vengo dalle foreste della terra. (…) In principio mi muovevo


piano (…) mi rammentavo di tutto quello che ero stata e pensavo a
tutto quello che sarei diventata. E dopo che ebbi sognato il mio
sogno, mi svegliai e arrivai a tutta velocità. (…) Nel mio cammino
udivo le stelle cantare e mi sentivo avvolta di trepide ali. Passai
attraverso gli animali della giungla, attraversai acque scure e
profonde. Fu un lungo viaggio.”

Annabella tacque. (…)

“Un lungo viaggio, davvero!” assentì a bassa voce lo Stornello,


sollevando dal petto il capino “E così presto, ah!, così presto
dimenticato!”

Annabella si agitò sotto la piccola coperta.

“No!” disse fiduciosa “Non lo dimenticherò” (…) Me ne ricorderò! Me


ne ricorderò! Perché dovrei dimenticarlo?”

“Perché tutti dimenticano!” ribatté lo Stornello duramente “Ogni


stupido essere umano!”(…)

“Non ti credo! Non ti voglio credere!” gridava furiosamente


Annabella. (…)

“Zitta! Zitta!” la ammonì lo Stornello in tono burbero “Non ci


badare! Non ci si può fare nulla. Dopo tutto sei anche tu un
bambino come gli altri.”

(…)

65
Curare la vita con la vita

Aveva una settimana quando lo Stornello tornò. (…)

La culla si mosse lievemente. Annabella aprì gli occhi.

“Buongiorno” disse “Desideravo appunto vederti.”

“Ah!” esclamò lo Stornello volandole accanto.

“Vorrei ricordare una cosa” cominciò Annabella, aggrottando le


ciglia “E pensavo che tu potessi farmela tornare in mente.”

Lo Stornello la guardò fisso. I suoi occhi scuri ammiccarono.

“Come cominciava?” disse piano “Così?…” e cominciò in un tremulo


soffio “Io sono terra e aria e fuoco e acqua…”

“No, no!” lo interruppe Annabella con impazienza “Non cominciava


certo così!”

“Dimmi” le domandò lo Stornello ansiosamente “Era a proposito del


tuo viaggio? Sei venuta dal mare e dai suoi flutti, sei venuta dal
cielo e…”

“Oh, non essere così sciocco!” gridò Annabella “il solo viaggio che io
abbia mai fatto è stato fino al Parco, stamattina. No, no, era
qualcosa d’importante. Qualcosa che cominciava per B. (…) Ho
trovato!” ella gridò “è biscotto. C’è un mezzo biscotto all’avena sul
caminetto. (…)”

“Tutto qui?” chiese lo Stornello, deluso.

“Sì, certo” Annabella rispose irritata “Non ti sembra abbastanza?


Pensavo che ti saresti accontentato di mezzo biscotto!”

Il corpo come Atlantide

Mi immagino, quando penso al corpo e a quella sua incredibile,


prodigiosa memoria, ai modi per accedervi, alla grammatica e alla
sintassi di questo processo, mi immagino la terra di Atlantide.
Come per questi mitici (e cosa è mai il mito se non un racconto che
ci consola, che ci aiuta a sentirci meno soli nella faticosa impresa
del vivere?) abitanti del fantastico regno di Atlantide, così il nostro
corpo conserva, mi immagino, tutte le competenze, tutte le
esperienze, tutto ciò che ci fa essere chi e come siamo. Ma, come
loro, gli atlantidi, anche il corpo ha il problema di fornirci le
informazioni al momento giusto, quando, cioè, siamo in grado di

66
Curare la vita con la vita

utilizzarle al meglio. Di tante versioni di Atlantide, mi piace


privilegiare quella in cui questo popolo, sapiente e saggio, vedendo
lucidamente avvicinarsi il tempo della sua estinzione, si pone, con
grandissima umanità, gentilezza e responsabilità, la questione del
come racchiudere la sua sapienza affinché si conservi per divenire
disponibile per delle genti che verranno, non si sa quando e non si
sa neppure che genti saranno, quale la loro cultura, le loro leggi, il
loro pensiero, la loro società. Per questo, dunque, gli atlantidi
affidano le loro conoscenze a due veicoli che sicuramente sapranno
aprirsi e svelare il segreto al momento opportuno: quando le genti
future saranno in grado di farne l’uso migliore. I veicoli scelti sono
la narrazione e la matematica. La narrazione di cui gli umani non
potranno mai fare a meno, nel tempo costruirà una conoscenza
condivisa che modellerà le persone a venire e le renderà recettive
all’articolazione del passato con il futuro, del sogno giovanile con la
saggezza e il rispetto degli anziani, dell’intesa con il mondo della
natura con il permesso di modificarla, dell’individuo unico con il
rotolare della storia di mille e mille altri. La narrazione collega gli
esseri umani, permette loro di manifestarsi e di scoprire, di
comprendere assieme e di inventare il proprio destino. Mito,
leggenda, fiaba, racconti fantastici, biografie e autobiografie, sogni
e invenzioni, ogni narrazione modella la persona umana
ricamandone l’attimo nell’arazzo globale del tempo e dello spazio. E
poi, a saldo contrappunto, la matematica, esatta, sapiente, che
rende accessibili le sue informazioni solo se si sono ripercorsi i
passi obbligati, con quel suo linguaggio che non è certamente
quello più adeguato per ogni campo dell’umano ma, pure, di ogni
campo sa dare ragione, ogni campo sa descrivere e definire e
porgere alla relazione condivisa. La matematica che identifica e
riconosce nel comportamento umano configurazioni, equivalenze,
gestalt, che ci porge suggerimenti per maneggiarle. La matematica
che cinge la poesia e la musica, che propone strutture tanto
rigorose quanto flessibili all’inventiva umana, la matematica che
non cela nulla ma richiede, per essere letta, conoscenze e ricerca,
un atteggiamento in qualche termine scientifico. Come per le
magiche piramidi di Giza, mai ripetute e che ancora oggi non
sapremmo costruire, che presuppongono l’uso noto del pi greco e
l’arte di scavare lunghissimi, eleganti colli per trarre vasi da una
pietra di tale durezza che i nostri strumenti non sanno lavorare. Le
incisioni Nazca semplicemente ci sono, non ci sfidano, non si
celano, non ci provocano: ci attendono, a un appuntamento
previsto da secoli e secoli che non sappiamo quando mai verrà.

67
Curare la vita con la vita

Immagino qualcosa di simile per il corpo e la sua sapienza.

Il corpo come consulente

Così, da questi presupposti, ha preso le mosse un lavoro di ricerca,


una sperimentazione che nel tempo si è consolidata in un vero e
proprio galateo dell’interlocuzione con gli organi del corpo, che si è
fatta abitudine a ricorrere quanto meno a una intervista veloce, una
supervisione a volo d’angelo. Ma che, invece, spesso è nervatura di
un incontro con sé, alla ricerca di altre informazioni, chiarimenti,
opportunità, ma anche conforto, consolazione, sostegno. Con un
cenno di saluto a Freud e all’analisi interminabile, credo di poter
dire che il riscontro esterno del terapeuta può nel tempo
vantaggiosamente essere sostituito dal confronto interno in cui il
corpo è centrale.

L’interlocuzione con il corpo, per come la conosco, segue delle


regole semplici e abbastanza precise. E, prima di ogni altra, occorre
sapere che andare a cercare conforto e informazioni e consigli trova
comunque un riscontro, magari imprevisto, ma gli interlocutori che
si sono recati all’appuntamento, in genere hanno un bassissimo
senso dell’umorismo: non amano per nulla che i contratti stipulati
con loro vengano traditi, si innervosiscono, e talvolta reagiscono, se
ciò che è stato messo in luce, magari con gran fatica, non viene
utilizzato o viene schernito, valutato come banale, inessenziale. In
questo modo di ragionare, evidentemente, c’è l’eco della
preoccupazione degli atlantidi (qualcuno potrebbe dire
dell’inconscio?): come fare a decidere quando e che cosa far
sapere, quando e quale informazione rilasciare? Penso, e chiedo
all’altro di condividere, che tutti i componenti della persona sono
comunque, primariamente, orientati alla sua sopravvivenza. Sono,
dunque, aiutanti sinceri e validi, competenti e ben capaci di
collaborare. Ma può accadere che alcuni programmi orientati alla
sopravvivenza non siano stati aggiornati, può essere successo che
non sia circolata l’informazione che nuove e diverse competenze
sono state raggiunte dalla persona, sì che alcune difese e alcune
protezioni non sono più necessarie. Forse è inutile ripeterlo, ma non
è questione di asserire che questo è vero, che le cose stanno
realmente così: è semplicemente lo sfondo, il quadro di riferimento
in cui l’interlocuzione con il corpo e con i suoi organi acquista
senso, valore e può risultare utile. D’altronde, ogni nostra azione
acquisisce senso dal contesto in cui si colloca, dalla condivisione di
accordi presi, dal gioco di carte dove attribuiamo valore a un

68
Curare la vita con la vita

cartoncino illustrato a ogni rito o celebrazione sociale di qualunque


ordine e grado. Basta ricordare il teorema di Godel.

Scrive lucidamente Umberto Eco, ne “Il pendolo di Foucault”


(Bompiani, Milano 1988):

Dice Lia: “Pim, non ci sono gli archetipi, c’è il corpo. Dentro la
pancia è bello, perché ci cresce il bambino, si infila il tuo uccellino
tutto allegro e scende il cibo buono saporito, e per questo sono belli
e importanti la caverna, l’anfratto, il cunicolo, il sotterraneo, e
persino il labirinto che è fatto come le nostre buone e sante trippe,
e quando qualcuno deve inventare qualcosa di importante lo fa
venire di lì, perché sei venuto di lì anche tu il giorno che sei nato, e
la fertilità è sempre in un buco, dove prima qualcosa marcisce, e
poi ecco là, un cinesino, un dattero, un baobab. Ma alto è meglio
che basso perché se stai a testa in giù ti viene il sangue alla testa,
perché i piedi puzzano e i capelli meno, perché è meglio salire su
un albero a coglier frutti che finire sottoterra a ingrassare i vermi,
perché raramente ti fai male toccando in alto (devi essere proprio
in solaio) e di solito ti fai male cascando verso il basso, ed ecco
perché l’alto è angelico e il basso diabolico. Ma siccome è anche
vero quel che ho detto prima sulla mia pancina, sono vere tutte e
due le cose, è bello il basso e il dentro, in un senso, nell’altro è
bello l’alto e il fuori, e non c’entra lo spirito di Mercurio e la
contraddizione universale. Il fuoco tiene caldo e il freddo ti fa
venire la broncopolmonite, specie se sei un sapiente di quattromila
anni fa, e dunque il fuoco ha misteriose virtù, anche perché ti cuoce
il pollo. Ma il freddo conserva lo stesso pollo e il fuoco se lo tocchi ti
fa venire una vescica grossa così, quindi se pensi a una cosa che si
conserva da millenni, come la sapienza, devi pensarla su un monte,
in alto (e abbiam visto che è bene), ma in una caverna (che è
altrettanto bene) e al freddo eterno delle nevi tibetane (che è
benissimo). E se poi vuoi sapere perché la sapienza viene
dall’oriente e non dalle Alpi svizzere, è perché il corpo dei tuoi
antenati alla mattina, quando si svegliava che era ancora buio,
guardava a est sperando che sorgesse il sole e non piovesse
governo ladro.”

“Sì, mamma.”

“Certo che sì, bambino mio. Il sole è buono perché fa bene al


corpo, e perché ha il buon senso di riapparire ogni giorno, quindi è
buono tutto quello che ritorna, non quello che passa e va e chi s’è

69
Curare la vita con la vita

visto s’è visto. Il modo più comodo per ritornare da dove si è


passati senza rifare due volte la stessa strada è camminare in
circolo. E siccome l’unica bestia che si acciambella a cerchio è il
serpente, ecco perché tanti culti e miti del serpente, perché è
difficile rappresentare il ritorno del sole arrotolando un ippopotamo.
Inoltre se devi fare una cerimonia per invocare il sole, ti conviene
muovere in circolo, perché se muovi in linea retta ti allontani da
casa e la cerimonia dovrebbe essere brevissima, e d’altra parte il
circolo è la struttura più comoda per un rito, e lo sanno anche quelli
che mangiano fuoco sulle piazze, perché in circolo tutti vedono
nello stesso modo chi sta al centro, mentre se un’intera tribù si
mettesse in linea retta come una squadra di soldati, quelli più
lontani non vedrebbero, ed ecco perché il cerchio e il movimento
rotatorio e il ritorno ciclico sono fondamentali in ogni culto e in ogni
rito.”

Sì, mamma.”

“Certo che sì. E adesso passiamo ai numeri magici che piacciono


tanto ai tuoi autori. Uno sei tu che non sei due, uno è quel tuo
affarino lì, una è la mia affarina qui e uni sono ilo naso e il cuore e
quindi vedi quante cose importanti sono uno. E due sono gli occhi,
le orecchie, le narici, i miei seni e le tue palle, le gambe, le braccia
e le natiche. Tre è più magico di tutti perché il nostro corpo non lo
conosce, non abbiamo nulla che sia tre cose, e dovrebbe essere un
numero misteriosissimo che attribuiamo a Dio, in qualunque posto
viviamo. Ma se ci pensi, io ho una sola cosina e tu hai un solo
cosino – sta’ zitto e non fare dello spirito – e se mettiamo questi
due cosini insieme viene fuori un nuovo cosino e diventiamo tre. Ma
allora ci vuole un professore universitario per scoprire che tutti i
popoli hanno strutture ternarie, trinità e cose del genere? Ma le
religioni non le facevano mica col computer, era tutta gente per
bene, che scopava come si deve, e tutte le strutture trinitarie non
sono un mistero, sono il racconto di quel che fai tu, di quel che
facevano loro. Ma due braccia e due gambe fanno quattro, ed ecco
che quattro è lo stesso un bel numero, specie se pensi che gli
animali hanno quattro zampe e a quattro zampe vanno i bambini
piccoli, come sapeva la Sfinge. Cinque non parliamone, sono le dita
della mano, e con due mani hai quell’altro numero sacro che è
dieci, e per forza sono dieci persino i comandamenti, altrimenti se
fossero dodici quando il prete dice uno, due, tre e mostra le dita,
arrivato agli ultimi due deve farsi prestar la mano dal sacrestano.
Adesso prendi il corpo e conta tutte le cose che spuntano dal

70
Curare la vita con la vita

tronco, con braccia, gambe, testa e pene sono sei, ma per la donna
sette, per questo mi pare che tra i tuoi autori il sei non sia mai
stato preso sul serio se non come doppio di tre, perché funziona
solo per i maschi, i quali non hanno nessun sette, e quando
comandano loro preferiscono vederlo come numero sacro,
dimenticando che anche le mie tette spuntano in fuori, ma
pazienza….

Ma vuoi la spiegazione di altre figure ricorrenti? Vuoi l’anatomia dei


tuoi menhir, che i tuoi autori ne parlano sempre? Si sta in piedi di
giorno e sdraiati di notte (…) e quindi la stazione verticale è vita, ed
è in rapporto col sole, e gli obelischi si rizzano in su come gli alberi,
mentre la stazione orizzontale e la notte sono sonno e quindi
morte, e tutti adorano menhir, piramidi, colonne e nessuno adora
balconi e balaustrate. Hai mai sentito parlare di un culto arcaico
della ringhiera sacra? Vedi? E anche perché il corpo non te lo
permette, se adori una pietra verticale, anche se siete in tanti la
vedono tutti, se invece adori una cosa orizzontale la vedono solo
quelli in prima fila e gli altri spingono dicendo anch’io anch’io e non
è un bello spettacolo per una cerimonia magica…”

Il linguaggio degli organi

Dopo essersi, dunque, sistemati in una posizione di rispetto e di


curiosità tanto ferma quanto cortese, attivato il sistema di sicurezza
che testi l’opportunità e le modalità e la tipologia dello scambio di
informazioni, che ne controlli la ricaduta ecologica, possiamo
accingerci a interrogare, a chiedere un incontro.

Semplicemente, se siamo dentro a un inghippo, a una trappola da


cui non sappiamo uscire, possiamo chiedere se qualcuno, dentro il
nostro corpo, ne sa qualcosa e vuole venire a dircene due parole.
Talvolta, invece, può essere invitato a un incontro un organo
preciso, il cuore, lo stomaco, l’intestino, il fegato, ma anche un
arto, un dito della mano o la testa che ci pesa. Nel primo caso, è il
corpo che sceglie chi mandare all’incontro e già questo ha un
significato e un valore. Perché ogni organo del corpo, oltre ad
appartenere a quel singolo corpo, è stato visto, lavorato, nominato
e caricato di significati nel corso dei millenni dalle culture più
svariate in ogni angolo della terra. Si possono mai prendere in
considerazione i polmoni senza valutare il significato della
respirazione, dall’ipnosi alle arti marziali, senza ricordare che nel
mondo greco ospitavano e modellavano la formazione stessa del

71
Curare la vita con la vita

pensiero, senza il corteo delle manifestazioni dolorose (e basti per


tutte la fame d’aria), senza la notizia dello smog delle nostre città?
Al cuore, senza i riti aztechi che accorrono in frotta assieme alle
canzonette d’amore, al fegato senza il cannibalismo e le cento
locuzioni proverbiali? Alle ginocchia senza il riconoscimento latino
della paternità e la tenerezza dell’infanzia maternamente accudita?

Eppure, e proprio lì si colloca il giunto che permette l’articolazione,


quel cuore, quel fegato, quei polmoni appartengono a quel singolo,
specifico, unico corpo. Su questo snodo si sviluppa la
conversazione, volta volta, come dicevamo, decidendo nello
schema bipolare per affondare le mani nella miriade dei punti
intermedi, aprire la biforcazione per operare la scelta. Si avvia con
un sussulto, un pizzicore, un’immagine, un suono lontano, un
sapore: gli organi del corpo conoscono l’uso dei canali percettivi,
sanno le preferenze della persona, decidono se percorrere strade
note o muoversi in modi inattesi. Si tratta, soprattutto, di stare in
attesa per cogliere il primo segnale, autosuggestione? Sì, certo, si
può catalogarla anche così, qualunque evento acquista valore a
seconda delle attese che vi si appoggiano.

Un turno verbale dopo l’altro, avviati i reciproci riconoscimenti, si


svolge una vera e propria chiacchierata. Chiedo al mio interlocutore
se vuole fare delle domande, se vuole sentirsi dire, se vuole delle
risposte, se vuole rispondere a domande postegli. Cambia molto,
evidentemente, se si va a un incontro per avere informazioni, per
avere consigli, per parlarsi un poco e cominciare a conoscersi, per
interrogare, per protestare. Gli organi coinvolti porranno condizioni
a loro volta. Ad esempio, se l’obiettivo dichiarato è voler dimagrire,
come si fa a non trattare la questione con lo stomaco? E come può
una contrattazione non coinvolgere la bocca e l'intero apparato
digestivo, comprendendo gusto, facilità di smaltimento ma anche le
regole igieniche della persona quando non le sue norme religiose o
spirituali? Tante volte mi è accaduto di constatare che le persone
vogliono magari dimagrire ma non hanno pensato minimamente a
quale sarebbe il peso giusto da raggiungere: non il peso di cui
disfarsi ma quello da ottenere! Senza la definizione dell’obiettivo,
come si fa a sapere se lo si è raggiunto? È ben logico che, in
assenza di nuovi ordini, si torni più o meno velocemente allo stato
quo ante.

72
Curare la vita con la vita

Accade anche, ad esempio, che una crisi di panico veda interessati


diversi organi e che ci si accorga che alcuni reagiscono secondo un
programma antiquato, non aggiornato. Tutta l’esistenza è
punteggiata da regole che vanno a decadere in tempi più o meno
brevi nella scansione di fasi diverse che si susseguono. Ma un
organo potrebbe non essere stato coinvolto nell’aggiornamento,
mantenere un’ansia per un pericolo non più attuale. Esattamente
come le nutrici di Shakespeare trepidanti per i loro agnellini o le
madri e i padri di tutto il mondo che non sanno mai bene quando
dismettere la preoccupazione per il cucciolo. Ogni comportamento
che, pur incongruo, continuiamo a reiterare è orientato a difenderci
da un pericolo o a salvaguardare un bene importante e prezioso.
Da questo presupposto, è semplice (anche se non sempre
facilissimo) verificare assieme lo stato dell’arte, aggiustare
obiettivi, condividerli, concordare le modalità più economiche. Il
nostro corpo è dalla nostra parte, sempre e comunque: basta che
gli permettiamo di esserlo sul serio.

Assieme per dare un nome

Non lo dice solo Nanni Moretti, le parole sono importanti, lo sono


veramente tanto. E ogni volta sembra incredibile la potenza che
dispiegano, la capacità di agganciare assieme tanti diversi livelli
comunicazionali, di reificare un pensiero concretizzandolo, di
viaggiare per quelle tracce inconsistenti fatte di fantasia e di
emozioni, di sentimenti e di spigoli reali che l’altro giorno una
donna chiamava con affetto pudico assurdità: non so dirle che
piacere mi fa tornare di nuovo qui a dire queste che poi sono
assurdità, no? come molte altre cose, sì, Giovanna, sono assurdità,
cose senza senso che rigiriamo fra le nostre mani alla ricerca di un
significato da attribuire.

Perché poi in fondo tutto sta lì, svincolare il passo da una realtà
stabilita e costringente, così nota da non permettere nessun rifiato,
trappola triste di cui conosciamo talmente bene tutto da non
poterne trovare l’uscita. Diceva il muezzin, all’alba di una giornata
tutta nuova: fratelli, sapete di che vi parlerò oggi? No, rispondono i
fedeli, dopo un rapido sguardo l’un l’altro di interrogazione. Bene,
se non lo sapete… e il muezzin si ritira all’interno del minareto. I
fedeli, perplessi e infastiditi, attendono il momento della prossima
preghiera. Si affaccia il muezzin, chiede: fratelli, sapete di che cosa
vi parlerò oggi? Sì, rispondono con fervore tutti i fedeli. Bene, se lo
sapete… e il muezzin rientra rapidamente. Il popolo dei fedeli

73
Curare la vita con la vita

innervosito e incerto, prende le contromisure: alla prossima uscita,


alla ormai celebre domanda del muezzin, metà dei fedeli risponde:
Sì e metà risponde: No. Bene, conclude allora il muezzin, quelli che
lo sanno lo dicano a quelli che non lo sanno, e sparisce dietro la
tenda.

La magia della parola, della conversazione, della relazione umana


sta proprio nell’aver bisogno dell’altro per la più piccola frase che
non si perda nell’infinito ma venga accolta dall’altro, modellata,
restituita così tanto trasformata da farci salire il cuore in gola, così
tanto uguale da farci raggomitolare tranquilli: il rapporto c’è, io
esisto perché un altro mi ha riconosciuto, non mi ha fatto da
specchio indifferente. Esisto nella dinamica del rapporto, tessuto
dalla parola. Se so già tutto di un argomento, di una situazione, di
una persona, se non ho nulla da aggiungere, se non c’è alcun
bisogno, alcun desiderio, nessuna aspettativa che attenda, come si
può avviare una relazione? Ma, in termini assolutamente speculari,
devo pur avere un sapere in comune, una qualche condivisione che
mi permetta di entrare a “conversare”, appunto, assieme, distinti
per poter spartire uno spazio unico. Il razzismo, prima di ogni altra
considerazione etica e civile, è sostanzialmente stupido perché sono
infinitamente di più le cose in comune fra tutte le etnie e le
aggregazioni umane rispetto agli elementi che le differenziano. Ma
è razzismo pericoloso non solo quello di rifiutarsi di accedere al
palesemente diverso, il razzismo più violento è quello di chi vede e
predica l’uguaglianza e ne imbocca la strada con bella e superficiale
baldanza e poi, al primo crac della diversità, si infuria, si sente
tradito, imbrogliato. Un bambinello nero adottato in Europa deve
fare subito i conti con la sua diversità: la sua pelle è ben visibile, si
parte da lì. Ci sarà certamente la discriminazione ma dichiarata,
esplicita. Da lì si imposta il superamento. Un piccolo russo o
albanese, invece, biondo e con gli occhi chiari, potrebbe essere
“scoperto” solo in un secondo momento e allora la reazione scatta
violenta, nutrita dai buoni sentimenti che abbiamo appoggiato
sull’altro senza chiedergli il permesso. Il linguaggio comune fra
colleghi si asciuga rapidamente in gergo, diverso dal gergo
dell’altra scuola di pensiero. Ma gli altri sono diversi e lo si sa, chi
partecipa del nostro gergo e ne dà una lettura differente o non
ortodossa, è un traditore.

Chi si vanta di essere laico, non si premunisce contro il rischio di


diventare bigotto (e bigotti lo siamo un po’ tutti, magari ciascuno
venerando un dogma diverso!) e, non prevedendone la possibilità,

74
Curare la vita con la vita

è come se fosse amputato della parola, del concetto stesso. Chi è


credente, almeno in qualche angolo custodisce l’idea del
bigottismo, ne avverte il sapore ridicolo, in ogni caso sa che esiste,
lo nomina, lo pensa. Poi, laico e credente, lo riscontrano soprattutto
negli altri, sia pur con sfumature e linguaggi differenti,
contrapponendolo alla vera fede o al vero esercizio di religione o al
vero credo politico o alla vera espressione di civiltà. Che
naturalmente è quella che abitano. È bigottismo o coerenza non
comprare più il pane dal solito (bravissimo) panettiere perché
espone da bravo leghista la statuetta di Alberto da Giussano? Si
può andare a vedere uno spogliarello a Parigi o Londra? È uno
spettacolo come un altro e non vale la pena di annoiare gli amici o
invece bisogna difendere anche in quell’occasione il principio
fondamentale che il corpo della donna non deve essere in vendita?
E di miss Italia, che farne? È un antiquato e patetico reperto
paesano su cui sorridere come per il festival di Sanremo o va
condannato? E lo spogliarello maschile, è triste, penoso, miserando
oppure si può farsi una serata ridanciana con le amiche
commentando grassamente le esibizioni proposte? E se è
riprovevole, perché invece è politicamente corretto (nell’intero arco
parlamentare) il bellissimo Full Monty? E i giochi per computer
possono prevedere delle bombe giocattolo? È un insulto alla
tragedia (veramente troppo presente, in termini e qualità fino a
poco tempo fa inimmaginabili) della guerra? Ma non rischiamo, poi,
sostituendoli con i fiori, di espellere la violenza anche dai giochi?
Una mamma democratica aveva proibito i giocattoli di guerra ai
suoi bambini e loro usavano le dita al posto delle pistole, c’è chi ha
detto: lasciate le armi ai bambini in modo che memorizzino bene
che la violenza è un esercizio dei piccoli e che, da grandi, ne
sappiano fare a meno. Amplificare la giustissima campagna contro i
maltrattamenti degli animali fino a chiamare assassino chi uccide le
foche? Al festival della letteratura di Mantova del 2003, ambiente
sommamente democratico e politicamente corretto, un ragazzo
riferiva, critico, di un certo signore che non aveva voluto firmare un
appello animalista ma aveva, però, dato del denaro a degli
extracomunitari! E per entrare di forza ad ascoltare Gino Strada e
Lella Costa a un incontro per costruire la pace, molti ragazzi rimasti
esclusi dall’esaurimento dei biglietti hanno aggredito violentemente
gli organizzatori che hanno dovuto richiedere l’aiuto delle forze
dell’ordine. Ragazzi assolutamente contrari a ogni forma di violenza
ma che non potevano tollerare di restar fuori e non esserci dove si
parlava contro la guerra.

75
Curare la vita con la vita

A ogni scansione, dobbiamo guardarci le spalle: siamo tutti di


mentalità aperta e, diamine, libertari ma è pur sempre rilevante il
consenso del gruppo d’appartenenza. Consenso sufficiente a non
esserne espulsi ma non tanto da vincolarci, gioco complesso di
equilibrio ed equilibrismi spesso non dicibili. Perché l’appartenenza
sembra necessaria, occorre che gli altri ci sappiano riconoscere, dal
vestire, dal linguaggio, dai tratti del viso, dal mestiere, dalle idee. E
se siete a casa d’amici e un altro invitato le spara grosse su
argomenti per voi effettivamente molto importanti, che fate? Vale
di più il rispetto dell’amicizia per cui non si litiga con l’invitato del
padrone di casa oppure certe affermazioni non vanno lasciate
passare, mai? E se siete a casa vostra, smorzate i toni o prendete
posizione? Più esplicitamente, a quale religione date la prevalenza?
Al culto dell’amicizia? Della buona educazione? Della franchezza a
ogni costo? Dell’apostolato civile e politico? A seconda di quale
sceglierete, sceglieremo, ci diremo: beh, questo è troppo e ci
comporteremo di conseguenza. Fedeli o militanti più di questo che
di quello e fieri di essere spiriti autenticamente liberi.

Dalla diagnosi alla significazione

Questo è anche uno dei pericoli della diagnostica: un assetto di


parole che inquadrano e definiscono, tracciano i confini, un esercito
di Procruste in camici bianchi. Il pericolo della diagnostica usata
malamente è la sua evidente credibilità, la sua capacità di quietare
l’angoscia emettendo un affidabile verdetto corredato dalle
istruzioni per l’uso. Lentamente, da quadro lucido e rassicurante
nell’ambito del quale si apre la collaborazione, la diagnostica si
sposta a costringere l’attività stessa del pensiero del clinico. Come
l’expertise, che un tempo apparteneva al dominio dell’occhio
dell’esperto, era un gesto discrezionale e in quanto tale proprio
dell’esperto, e oggi è divenuta una caratteristica dell’oggetto da
esaminare. Una caratteristica riscontrabile, verificabile, che si può
trovare. Basta cercarla. Certo, qualunque disagio può essere
catalogato, riconosciuto, identificato, è ovvio che si può. Troppo
spesso, però, deprivandone la persona che diviene accessorio,
essenziale d’accordo, ma accessorio comunque, del disagio. La
persona che slitta a divenire “portatore” di disagio, cui viene
sottratta l’imprescindibile angoscia della domanda del che cosa
farne, di questo disagio. Di che significato dargli, di come situarlo
nel proprio pensiero. Non di disinnescarlo o di risolverlo come fosse
un teorema.

76
Curare la vita con la vita

Credo che il cercare di ridurre, di semplificare, di generalizzare


siano operazioni che facciamo tutti: di continuo, e saggiamente,
perché ci permettono di continuare a vivere. Chi la fa troppo lunga,
chi si interroga permanentemente sul senso di ciò che fa, chi cerca
il pelo nell’uovo o pretende la perfezione, la chiarezza esaustiva, la
completezza rifinita: li conosciamo, ci esasperano, cerchiamo di
tagliar corto, guardiamo altrove, con impazienza ci sostituiamo nel
lavoro. Tranne, evidentemente, quando siamo noi a riflettere
pensosi. Un mio amico, fisico, era stato chiamato al servizio
militare e il capitano gli aveva ordinato di stare di sentinella con la
punta degli scarponi che doveva sfiorare quella striscia lì, sul
terreno. Il mio amico si rivolge deferente al capitano attraverso gli
occhiali da studioso: sì, signor capitano, ma la striscia ha un suo
spessore. La punta degli scarponi deve toccare il bordo interno o
quello esterno della striscia? Il capitano si agita, si riunisce con altri
ufficiali per riflettere sulla risposta da dare e, dopo un po’, esce
dalla stanza e gli cambia l’ordine. È quello che fanno tutti i nostri
figli quando, al momento di sparecchiare o di portare giù la
spazzatura, vengono assaliti da dubbi esistenziali o da riflessioni
urgentissime sul big bang o sull’aldilà. È ovvio che continuamente
per poter agire occorre concludere il pensiero, semplificarlo in uno
schema, porsi un limite, un termine all’argomentazione ma occorre
ricordarsi, una volta avviata l’azione, di riattivare l’intera
complessità del nostro riflettere. Azzerando il processo di
semplificazione appena concluso per, a mente fresca, rivolgersi al
progetto della nuova azione e, se del caso, applicare ancora, ma
come fosse la prima volta, la ristrettezza della riduzione, del
riassunto. Perché, invece, se procediamo spediti di semplificazione
in semplificazione, ci troviamo a una banalizzazione del pensiero
senza neppure accorgerci, o ricordarci, che quella realtà così chiara
l’abbiamo ottenuta qui tagliando, là spostando, cancellando lo
sfondo o amputando particolari e dettagli. E adesso quella realtà è
così ben definita, chiara, convincente che è certamente vera. Anche
tutti gli altri non possono che convenirne.

Le persone che si rivolgono a noi che ci dichiariamo terapeuti


vengono già con una realtà ben precisa. Tutt’al più con diverse
versioni e pareri ma si sa che questa cosa c’è ed è immodificabile,
altrimenti lo sarebbe già stata. La diagnostica usata con goffaggine,
ricopre di un nuovo nome, molto più bello e nobile e scientifico, la
grossolana creazione che ci viene portata ad esaminare. E l’onere
dell’expertise passa velocemente dalle sue mani alle nostre. Se

77
Curare la vita con la vita

sappiamo darle un nome, riconoscerla, sapremo bene anche cosa


farne di questa cosa. Ed ecco che l’altro si adagia sulla poltroncina,
si rilassa, il compito suo l’ha già fatto portando il sintomo sì che,
quando lo chiamiamo in causa a lavorare con noi, è fra stordito e
confuso, non sa più che cosa vogliamo ancora da lui. Da una
banalizzazione all’altra, diventiamo pedagogisti pazienti e
spieghiamo con condiscendenza che abbiamo bisogno del suo aiuto,
in fondo sono cose che lo riguardano, no? e, poi, ci facciamo
moralisti edificanti: non crederà mica che si possa uscire da questa
situazione senza faticare un po’? e magari, visto che ci stiamo,
anche soffrire poiché senza lacrime e sangue non c’è cambiamento.
Che invece, e qui siamo fermissimi, è ciò che dobbiamo cercare e
ottenere.

Ma il punto che a me interessa di più è il significato da attribuire a


quella congerie dolente che costringe e immiserisce la vita del mio
interlocutore. E il significato non è mai stabilito una volta per tutte.
Come per i fedeli del muezzin, non è vero che non so nulla di ciò
che mi ha raccontato, ma è ugualmente vero che non ne so tutto.
Soprattutto, non so quale significato ora, in questo luogo, è più
opportuno attribuirle. Ne so perché ne ho studiato, ho visto altre
situazioni sorelle, conosco l’inquadramento diagnostico, altri
colleghi mi hanno riferito il loro modo di approcciarla. Ma è la prima
volta che mi trovo ad affrontarla con quella persona lì e dunque non
so che cosa è per lui. Sostanzialmente, però, so fare il capo
carovana, so come si riconoscono le piste nel deserto, quanta
acqua portare con sé, come vestire e dove troveremo l’oasi più
vicina. Posso aiutarlo nel muoversi assieme. Nella delicata e
appassionante ricerca di un significato da attribuirle, vengo a
conoscere alcune sue reazioni, mi racconta emozioni e sentimenti,
impostiamo un abbozzo di linguaggio in comune. Non so cosa
avvenga dentro l’altro ma dentro di me si affastellano pensieri,
ricordi, associazioni cliniche, letterarie, frammenti di leggende,
Edipo e Pollicino rincorrono le divinità azteche. E semplifico, riduco,
scelgo per costruire la prossima frase o per spostare il mio luogo
d’ascolto.

La costruzione di un senso, di un significato utilizzabile è forse


l’operazione più importante dell’intero nostro lavoro. L’organo
coinvolto può risultare interessato in quanto organo bersaglio e
offrire una lettura sintonica alla sua funzione (dita anchilosate di un

78
Curare la vita con la vita

musicista che servono a impedirgli di suonare e cercheremo il


perché mai non deve più suonare o quale, più precisamente, sia il
divieto) oppure, e capita spesso, l’organo coinvolto è stato
interessato esattamente come fosse un foglio bianco, su cui
vergare con precisione e pulizia un messaggio chiaro. Gli organi del
corpo si prestano a collaborare anche in quanto intatti, privi di
segnature precedenti. Un discorrere fresco da avviare con
spregiudicatezza. Come, anche, per l’organo bersaglio, si può
elicitare la personalità più disposta a un interlocuzione sensata, che
dia significato. Che debba valere e valga per oggi, solo per oggi, a
ogni volta basta la manna che c’è, ma non la si può conservare.

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Curare la vita con la vita

Flash

“La Locandiera“

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Curare la vita con la vita

Alla stazione di Trento

Sì, ero alla stazione di Trento, stavo per prendere il treno per
tornarmene a Milano. Avevo concluso un ciclo di seminari, sedevo
impigrita sulla panchina, in attesa del treno. Che tardava. C’era
gente, movimento di borse poggiate e poi spostate, di cellulari
impazienti, ragazzi che ridevano, gli sci tenuti con noncuranza
spavalda. Alzo gli occhi dal libro, mi scosto per far posto a un
giovanottone che parla tedesco con voce assertiva, mentre torno
alle pagine colgo un quadretto carino: una giovane mamma, la
coda di cavallo, lo zaino sulle spalle, un bambinello ricciuto in
braccio di qualche mese, una borsona con rotelle ai piedi. Vicino,
sua madre, gli stessi occhi, gli zigomi alti, la pelle abbronzata da
montanara, tiene in braccio un’altra bambinetta, di forse due anni.
Chiacchierano, scherzano, trattengono i bambini che si vogliono
buttare giù dalle braccia o che hanno assolutamente bisogno di
bere, ora, proprio ora, alla fontanella. Le guardo un po’, mi
distraggo ancora sul mio racconto. L’altoparlante avverte “ulteriore
ritardo” del treno, brusio sulla banchina poi ci si adatta, tanto…ma
non tutti. No, la madre della ragazza entra improvvisamente in
agitazione, restituisce vivamente la piccola alle braccia della figlia
che già tiene l’altro bambino, affrettatamente “Sai, devo
raggiungere tuo padre, è là sulla piazza della stazione che aspetta
in macchina, ciao, cara, fa’ buon viaggio” e, lesta, scende le scale,
sparisce, riemerge al di là dei binari, la vediamo spingere le porte a
vetri, uscire del tutto. La figlia resta un po’ perplessa, ma poi
neanche tanto. Avvicina con i piedi la borsona a una panchina, ci
poggia sopra in piedi la bimba mentre cerca di quietare il più
piccolo che comincia a innervosirsi. Finalmente arriva il treno,
raccolgo per lei la mano della bambina e un manico della borsona,
saliamo e poi ognuna va a sistemarsi al suo posto. Fine della
scenetta. E non è stato un gran dramma. Però, in treno il pensiero
comincia a raccogliere qui e là ricordi, mini riflessioni, immagini.

Che sempre hanno al centro una donna, come se fossero le donne


a essere costrette a scegliere. O, forse, più banalmente, da donna
colgo più facilmente queste strettoie. Perché mai quella madre,
affettuosa, in buoni rapporti con la figlia, ha dovuto abbandonarla
lì, all’ultimo minuto? La ragazza era in buona salute, i bambini
bellissimi, tutto si è risolto al meglio, nessun dramma. Eppure,
comunque l’aveva accompagnata alla stazione, comunque si era
soffermata con lei sulla banchina. Ma poi, a un certo punto, è
prevalso il timore, di che? Se il marito (e padre) aspettava sulla

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Curare la vita con la vita

piazza, bastava fare un salto ad avvertirlo del ritardo, che problema


c’era? Perché noi donne siamo così timorose dei contrattempi che
potrebbero “disturbare” il nostro uomo? Oppure, così irritate da
questo timore da contro reagire trascurandolo deliberatamente e
vistosamente? Una donna, professionista, colta, alternativa, con
figli grandi, mi dice: perché non posso avere il coraggio di chiedere
a mio marito di fermarsi a una stazione di servizio sull’autostrada
se devo fare pipì? Perché devo avere paura che sbuffi o che stringa
le labbra o che non mi parli più per tutto il viaggio? Già, perché
mai? Ma, anche, perché mai deve essere così importante per un
uomo una questione come fermarsi sull’autostrada o aspettare in
auto su una piazza?

Bisognerà ragionarci meglio, una volta o l’altra, ce lo eravamo


ripromesse tempo fa con una giornalista durante una trasmissione,
perché le donne sono così atavicamente, sembra, timorose del
malumore dell’uomo? Che, a buon bisogno, inducono proprio
sogguardandolo con questo irritante timore negli occhi: chi non ne
resterebbe infastidito? Usiamo voci querule, frasi scelte con cura,
introduciamo una tensione ansiosa che ha regolarmente la giusta
risposta dello scoppio dall’altra parte.

Ma quello su cui riflettevo della scenetta alla stazione non era tanto
questo aspetto quanto l’inevitabilità della scelta. Quella madre,
quella nonna, comunque ha dovuto scegliere. Non perché doveva
aprire il suo negozio, perché la sua classe o il suo ufficio o i suoi
clienti la aspettassero, perché chiudeva l’anagrafe o il banchetto del
mercato. Mai per sé. La scelta era fra due amori, fra due doveri
d’amore, la figlia e il marito. Mi posso immaginare facilmente la
trattativa per accompagnare figlia e nipotini alla stazione “ti aspetto
qui” dice il marito (perché non parcheggia e non aiuta anche lui?
Una donna l’avrebbe fatto) e già questa frase, ti aspetto, è una
clessidra che comincia a scorrere. Probabilmente, molto
probabilmente, senza che neanche lui l’abbia voluto ma è
un’abitudine che si è venuta strutturando, nel tempo, chissà come.
Fatto sta che la signora ha un buono per un tempo dato, con un
margine d’errore, certo, e dentro quel tempo è tranquilla, si gode la
figlia, è in regola. Ma il treno ritarda una volta di troppo (rispetto a
che?) e lei deve, deve fare come se avesse già concluso il suo
compito affettuoso. Infatti, scende le scale tranquilla, in pace, non
corre né si agita né si gira a salutare. Lei, la figlia l’ha
accompagnata e ora torna dal marito. Quante volte, in famiglia,
accade di trovarsi in questa trappola? La scelta fra marito e figli ma

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Curare la vita con la vita

su questioni di una assoluta banalità, non sulla scelta della scuola o


sull’uscire la sera o sulla sparizione di una somma di denaro, no, su
forse dieci minuti, quindici al massimo, in una mattinata di sole, né
Ferragosto né Natale, un mercoledì qualunque.

Mi sembra che, nella grossolanità di qualunque suddivisione, le


famiglie si possano riunire in due categorie, quella in cui ci sono dei
genitori che stanno in coppia e quella in cui una coppia si occupa
genitorialmente dei figli. Nella prima, gli adulti si appoggiano (o si
contrappongono) l’un l’altro nei confronti dei figli: liti, discussioni,
accordi, riti e trasgressioni riguardano la gestione dei figli. Il loro
stare in coppia è giustificato e reso significativo dalla presenza dei
figli. E, tutto sommato, è una categoria molto riconosciuta
socialmente, politicamente corretta.

Nell’altra categoria, è la coppia in primo piano e il rapporto con i


figli passa attraverso la realtà della coppia che predomina. Meno
apprezzata, non piace tanto socialmente un rapporto franco di
coppia, induce sorrisetti e qualche ironia e poi in questi nostri tempi
in cui di bambini se ne fanno pochi, devono essere loro il valore
primo da custodire e da preservare. Un compagno, lo si trova
sempre.

Evidentemente, ogni categoria racchiude dei costi e offre vantaggi


netti, non saprei farne una valutazione definitiva. Forse, si può
immaginare una articolazione fra le due, un alternarsi in sequenza
ai diversi momenti della vita della famiglia stessa. Una cosa si può
dire: anche queste categorie sono a scadenza, vale per loro la
regola delle mozzarelle! Grande saggezza quella di Valeria, madre
di due gemelli, che a un’altra madre in attesa, ansiosa di
suggerimenti diceva: guarda, strilleranno per mangiare tutti e due
allo stesso momento. Tu non ti preoccupare, da’ il seno a chi vuoi,
a una sola condizione: che non sia mai lo stesso!

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Curare la vita con la vita

Bustine tonde per il the

Quando ci sentiamo, Umberta mi chiede sempre: e come vanno le


bustine per il the? Le raccontavo, infatti, di questo progetto di
nuovo libro e che avevo in mente di cogliere spunto da alcuni
piccoli eventi quotidiani, dei flash, appunto. Per esempio, dicevo,
l’altro giorno ho fatto la spesa al supermercato e avevo preso una
confezione in offerta di bustine per il the. Non ci avevo fatto molto
caso ma, tornata a casa, mi sono accorta che le bustine non
avevano la solita forma quadrata ma erano tonde. Da qui, ho capito
dopo, l’offerta, era un lancio. Lancio di bustine tonde, e perché
mai? Ragionavamo, con Umberta, ma perfino le bustine per il the
devono essere private di spigoli, quasi dovesse essere eliminata
ogni minima rudezza, tutto farsi rotondo, inoffensivo?

Così le auto, così il toast, sfuggiamo gli spigoli un po’ dovunque. E


ancora, sfuggiamo le asprezze. Mi diceva un dentista che i bambini
di oggi hanno un palato che si restringe perché non sono più
abituati a masticare cibi duri. Penso alla crosta di parmigiano che,
resistente e sapida, davamo ai piccoli per alleviare il tormento dei
dentini che spuntavano. Mi accorgo dei mille e più accorgimenti che
nel vivere quotidiano ci sollevano dalla fatica più banale,
telecomandi per non alzarsi a cambiare canale, per non scendere
ad aprire il cancello, per non dover azionare l’interruttore del
ventilatore. Preoccupazione da moralista? No, non inneggio
certamente alla fatica, non ho nostalgie pre industriali, ricordo il
bucato steso sui campi ma ritengo la lavatrice una benedizione e la
luce delle candele un gioco romantico. Amo il computer, l’email,
trovo affascinante questa ricerca scientifica che si moltiplica in rivoli
inimmaginabili solo ieri, mi appassiona e mi incuriosisce l’avventura
che esplora spregiudicatamente. Solo, mi mette in pensiero un
messaggio complessivo che ne risulta, di una protezione da
qualunque sforzo come dovesse essere risparmiato a persone
troppo deboli e delicate che non lo sopporterebbero. E ho
l’impressione che i ragazzi di oggi siano espulsi dal loro stesso
corpo, che non vi abitino più.

Provo a spiegarmi. All’anoressia e alla tossicodipendenza, con cui


conviviamo ormai da decenni senza, mi sembra, averne saputo
cogliere pienamente il segnale, si stanno aggiungendo fenomeni
integrativi come il tatuaggio, il piercing e, più drammatica,
l’automutilazione. Come dire, che, oltre agli abituali comportamenti
che sanciscono il gruppo come referente fondamentale dei ragazzi,

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Curare la vita con la vita

il vestiario, il linguaggio, gli amori per musica e tecnologia, c’è


anche un uso del corpo che sta diventando se non preminente
molto rilevante. E il corpo viene raggiunto dall’esterno e attraverso
il dolore. Questo mi preoccupa e mi allarma. Come se i ragazzi
dovessero ritrovare il loro corpo principalmente per come appare e
come se l’ingresso a questo corpo fosse permesso solo infliggendo
sofferenza. Non la sofferenza interna che si esprime nel corpo ma
la sofferenza che informa che il corpo c’è. Scarnificando una ferita,
impedendole di cicatrizzarsi e di guarire, procurandosi attraverso il
dolore una percezione certa dell’esistenza. Una bella descrizione
dell’invadenza materna è il famoso scambio di battute fra madre e
figlio: metti un golf che prendi freddo, ma io non ho freddo, ti dico
che fa freddo! L’insegnamento originario a non fidarsi delle proprie
percezioni che sono fallaci, insicure, meglio, molto meglio fidarsi di
quelle materne, lei lo sa. Analogamente, i ragazzi che mi dicono:
chiederò a mio padre che cosa scegliere all’università, lui mi
conosce. Un giovane, un giorno, mi diceva addirittura che avrebbe
sottoposto la scelta della sua compagna al padre perché “lui sa che
cosa va bene per me”.

Certo, c’è anche la cura del corpo, diete, ginnastica, body building,
stretching eccetera ma anche qui è forse più accentuata
l’attenzione a modellare dall’esterno il proprio corpo forzandolo a
un modello desiderato piuttosto che ad abitarlo dall’interno e
sentircisi dentro, padroni e protagonisti. Soccorre, spesso, il
rivolgersi a dottrine e discipline di carattere mistico o religioso.
Yoga, massaggi shiatsu, meditazioni, arti marziali, una ricerca
dell’Oriente che non mi sembra più quell’avidità iniziale di conquista
e di conoscenza che comunque veicolava un messaggio vitale. Ora,
forse mi fa velo l’età, ma sa più di rifugio, di protezione, di riparo,
assieme ad altri, aggiungendo il proprio corpo al corpus della
disciplina. Evitando, con il prevalere del bianco, pensieri e
comportamenti rossi o altrimenti colorati, emozioni dissonanti,
crude, aspre, in qualunque modo forti che vengono come
dissociate, dimenticate al di là del lucente plexiglas dell’armonia. Sì
che non stupisce l’insorgere di quelle che i giornali chiamano
improvvisi raptus di violenza. Uno skin head era un buddista
fervente, un animalista militante venne un giorno a raccontarmi
scandalizzato di aver raccolto un piccione ferito, di averlo curato
ma se prendeva chi lo aveva ferito lo avrebbe ammazzato. Ma la
misura delle proprie emozioni, dell’articolazione e dell’interazione
fra diversi pensieri, della scelta conflittuale è profondamente

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Curare la vita con la vita

connaturata al corpo. I piedi enormi degli adolescenti, quelli che


ancora non si sono accorti di avere, che sono cresciuti
all’improvviso e che li fanno inciampare letteralmente a ogni piè
sospinto, sono anche strumenti di misura con cui valutare le
dimensioni del mondo. E così le trasgressioni devono poter essere
calibrate, governabili, proprio per permettere l’apprendimento della
misura che traghetta verso l’età adulta, premiando l’eccesso
adolescenziale e dandogli spazio senza impedire il graduale
accostarsi a una crescita compiuta. Una cosa è rubare il sellino di
una bicicletta (deplorevole ma una ragazzata su cui sorridere)
tutt’altro ritrovarsi improvvisamente con un coltello in mano nel
cortile della scuola. E constatare che quella ragazzina, compagna di
scuola, ormai è morta, ferita da quel coltellino come avesse agito
da solo. Un conto è prelevare dal portafoglio dei genitori, tutt’altro
doverli uccidere. Sì che continuiamo con angoscia a sommare vite
giovani interrotte e stravolte, faccette lisce trascinate in galera,
come stordite da eventi strani, ragazzi invecchiati prima ancora di
essere diventati adulti. Non so se sia la strage degli innocenti, non
abbiamo bisogno di trovarli innocenti per rivendicare i nostri figli.

Come mi vesto oggi?

Diceva il titolo di una commedia teatrale di qualche tempo fa: Sta


arrivando la rivoluzione e non ho niente da mettermi. Non è un
caso che fosse una donna, e spiritosa, a interpretare la pièce, un
uomo avrebbe indossato virilmente gli abiti di sempre. Forse,
chissà, il pensiero maschile che ha informato di sé un periodo così
(esasperantemente) lungo, potrebbe iniziare a lasciare il passo a un
pensiero di marca femminile. Non femminista, che ne è stata
l’edizione militante, appassionata e innovativa ma che, nonostante
l’entusiasmo travolgente della sua stagione, è risultata nei fatti
sostanzialmente sterile, incapace di radicarsi nelle generazioni
successive. No, femminile, un pensiero della donna che non nasca
da una reazione o contrapposizione a quello dell’uomo ma prenda
le mosse semplicemente da sé. Magari, e perché no?, riassumendo
come propri caratteristiche o spunti che ci sono stati usati contro
per millenni. Senza negarli ma indagandoli come propri.

Da sempre, ad esempio, ci viene rimproverata la doppiezza,


l’incoerenza, l’abilità di mentire, cui risalirebbe la nostra scorretta
capacità di attrarre e sedurre. Eterno femminino, dicono, e
dichiarano incomprensibile il nostro modo di fare in quanto non
logico, non razionale, istintivo, uterino. Ma come ragioni?, si

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Curare la vita con la vita

spazientiscono intendendo: perché ti rifiuti di ragionare? se,


nell’argomentare, ci si discosta da una linea tracciata (non vien
detto lineare un ragionamento che convince?) giustapponendo
magari un frammento di un’altra disciplina come esempio o
suggestione di pensiero. Non divagare, non confondere le acque,
resta al tema, mi fai perdere il filo. E, anche, l’insofferenza per quel
tipico stile femminile di pensare contemporaneamente a più di un
problema o di un progetto. Che, se lo fa Napoleone dettando sette
lettere allo stesso tempo o un giocatore di scacchi che governa
venti tavoli in contemporanea, allora si parla di genio, di mente
superiore. Se una donna mentre si reca al suo studio compra il
pane o allunga il percorso per portare a scuola dal figlio il certificato
di vaccinazione, se uscendo per andare al cinema si ferma in
tintoria, questo le sembra un modo pratico di rispondere a
necessità che, per essere in sé varie, non pretendono, però, di
essere incompatibili. Il suo compagno non avrà più che tanto da
dire a patto di non essere coinvolto, al massimo nella funzione,
eventuale, di autista passivo, tollerante con cristiana
rassegnazione, ma provate a chiederlo a lui di ritirare un pacco che
è di strada per il suo lavoro, di alterare sia pur di poco l’itinerario
su un’esigenza improvviso, di fare una sosta non prevista, di
modificare una sequenza in corso: si confonde, si infastidisce. Non
per la cosa in sé ma per la repentinità della richiesta, per il suo non
essere stata programmata, preannunciata.

Ora, al di là degli screzi minuti e tutto sommato talmente scontati


da ricamare sempre gli stessi ghirigori sulle riviste, potrebbe essere
che il modo femminile di pensare contemporaneamente più registri,
di guardare al mondo con occhi come di mosca sia anche un
vantaggio, un’opzione di un qualche interesse? Potrebbe essere che
il ragionare saltando di palo in frasca, come si dice, sia anche un
diverso modo di stabilire delle connessioni, di sperimentare
accostamenti inediti? Si possono, insomma, cucinare le melanzane
o i peperoni con la cioccolata, come in certi piatti straordinari
meridionali o sudamericani? Anche quando si ragiona, anche
quando si discute? L’accostamento imprevisto deve essere
apprezzato (o tollerato) solamente in ambito artistico? Siamo sicuri
che la razionalità voglia essere coniugata solo con discorsi che
filano, con percorsi che partono da un punto dirigendosi
schiettamente verso una conclusione lì davanti?

Perché mi sembra che anche noi donne condividiamo, nella


sostanza, questa idea, che il pensiero, quello vero, è solo di marca

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Curare la vita con la vita

maschile, lucido, lineare, dimostrabile. Alle signore la funzione di


renderlo vivibile, sopportabile, addolcendolo con affettività e
fantasia. Ma andiamo, non sembrano delle grosse sciocchezze?
Veramente ancora pensiamo che razionalità sia una linea di
ragionamento e non, magari, una rete che abbraccia uno spazio
tracciando connessioni e articolandole verso il vuoto, veramente
ancora pensiamo che occorre ripartire ogni volta dal dato storico
per intravedere che cosa vogliamo pensare dell’oggi e del domani,
veramente il senso di un futuro che non c’è è custodito nei pensieri
di un tempo passato? Veramente, insomma, crediamo ancora nella
distinzione fra razionalità e fantasia, pensiamo che il giudizio non
debba essere contagiato dall’emotività, valutiamo ancora
indispensabile un’obiettività di cui per tutta la nostra vita abbiamo
verificato l’inconsistenza? Ancora distinguiamo fra materie
scientifiche e umanistiche?

Penso che sì, penso che ancora siano questi i nostri riferimenti,
sento le donne con cui lavoro (donne grandi e belle, studiose,
docenti, imprenditrici) asserire con certezza che il pensiero è
maschile, qualcuna mi ha detto che sente maschile anche l’utero.
Penso che facciamo fatica a immaginarci responsabili in proprio di
ciò che pensiamo e vogliamo, penso che non sentiamo il diritto di
intrecciare liberamente riferimenti culturali prelevati da ambiti
differenti, penso che abbiamo timore di uscire da categorie che
sentiamo consunte ma che, pure, in altri tempi, hanno garantito
sicurezza e stabilità. Penso che ci protendiamo a sfiorare il bordo
dell’oggi agganciati a forme di pensiero di cinquant’anni fa, incapaci
di scioglierci, forse nel timore di perdere il senno. Abitiamo il nostro
tempo come turisti, cercandovi con ansia i riferimenti di ciò che
conosciamo già, incapaci di esplorarlo con generosa e spregiudicata
curiosità: rattrappiti fra l’ansia e la nostalgia, aspettiamo di
ritornare nel conforto di una casa che non c’è più. Ma che
continuiamo a raccontarci, coprendo il mondo reale con la
diapositiva della nostra infanzia custodita e sicura. Donne e uomini,
stretti nel ribadirci l’un l’altro la certezza che abbiamo ragione,
infelicemente raccolti in una stasi che scambiamo per fermezza nel
tentativo disperato di evitare l’infelicità.

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Curare la vita con la vita

Comprare un bambino?

Beh, per noi del ricco primo mondo queste sono frasi che
sconcertano e scandalizzano: andiamo, un bambino, un essere
umano, non ha prezzo, non deve averlo, non può averlo. E chi fa di
queste cose è persona inqualificabile, anzi, signora mia, proprio non
riesco a comprendere come una madre possa vendere suo figlio!
Posso capire il desiderio generoso di dare una famiglia, di donare
un po’ di gioia a un piccolo sfortunato ma vendere un figlio, come
mai si può farlo?

Come ci è facile definire con nettezza colpe e doveri, come


facciamo in fretta noi giusti a stabilire le norme di una convivenza
civile, di più, pienamente democratica. Come ci è tutto chiaro,
fortunati noi. Ma ora non mi interessa tanto ripercorrere il quadro
notissimo e dolente della sopraffazione violenta e spietata sui più
deboli da parte di chi, come noi, ha la forza per farlo: piuttosto
vorrei cercare di cogliere quel confine sfuggente che segnala il
limite fra diversi livelli e contesti logici sì che un’azione impossibile
da immaginare ad un livello si propone come sensata a quello
adiacente o solo un po’ più in là. Ponendo serissime questioni di
etica che, scacciata da un contesto, si ritrova pellegrina nell’altro. E
torniamo pure a una adozione, prescindendo per un attimo dalla
realtà spaventosa del commercio, della pedofilia, dei piccoli
disarticolati per fornire organi freschi a degli altri bambini. No,
pensiamo per un momento a una coppia (più politicamente corretto
non si può!) magari affiatata, magari anche benestante che
sinceramente desidera un figlio in casa e desidera dare una casa a
un figlio altrui. Organismi, associazioni internazionali, enti pubblici
e privati, ce ne son tanti, la normativa nell’intento di farsi sempre
più rigorosa va acquistando una pesantezza burocratica che,
nell’idea di prosciugare l’illegalità, rischia di suscitarla nuovamente.

Occorre tempo, molto tempo, esami, denaro, disponibilità: per un


figlio si fa, si deve fare. Secondo criteri che fatalmente rischiano di
trasformarsi in un prolungato e ripetuto giudizio moralistico sulla
tenuta dei due che vorrebbero diventare genitori: bisogna
meritarselo, è un premio grande, non lo si può vincere gratis. Forse
innestato dalla necessità di un iter controllato nei dettagli, forse
originato autonomamente dal contesto sociale, c’è il pensiero che
senza lacrime e sangue non si va da nessuna parte, che tutto va
pagato nella vita, che ciò che si conquista a fatica è la conquista più
bella, l’unica che vale. Sì che la donna che partorisce con un

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Curare la vita con la vita

sospiro in due ore non si sa bene che madre poi sarà, meglio, molto
meglio quella che si è squartata in lunghissime ore se non giorni di
travaglio. E vuoi mettere l’amore che sapranno dare a un bambino
due che sono passati attraverso una trafila estenuante, senza
cedere, senza titubare mai? Basta guardare quante ragazze un
figlio ce l’hanno avuto e lo danno via, questa gioventù d’oggi.
Talvolta accade perfino che il desiderio di chi vuole adottare un
bambino venga rinfacciato come una accusa infamante. C’era una
coppia giovane, sana, ben amalgamata, con un buon lavoro sia lui
che lei, l’assistente sociale chiede: dunque perché mai cercate
un’adozione? E alla risposta, per completare una vita già più che
soddisfacente, c’è un inalberarsi stizzoso che si riflette in una
relazione tecnica negativa, figuriamoci se un bambino deve servire
a completare la vita di questi due, un bambino è ben altro.
Qualunque desiderio può essere capovolto in un bisogno,
qualunque bisogno può indurre compassione solidale o rifiuto
moralistico. La coppia che si sottopone alla cosiddetta fecondazione
assistita ha diritto alla compassione solidale ma è bene che soffra
un po’, che non abbia successo subito, vorrà più bene e meglio al
figlio che finalmente arriverà. Pagato, in denaro, ansia, sofferenza,
delusioni, sconforto, tenacia. Pagato come equivalente di meritato.

Mi sa che noi in Italia abbiamo un rapporto con il denaro che non è


poi tanto trasparente. Non abbiamo una tradizione di benessere
consolidato che ci abbia permesso di sviluppare un’idea alta del
denaro, la persistenza di un cattolicesimo disgiunto dall’evoluzione
socio culturale rattrappisce il nostro pensiero sul denaro in una
dicotomia immota: sterco del demonio e contemporaneamente
segno di successo. Ma, nonostante le lotte operaie e l’affermarsi del
lavoro come elemento costitutivo della persona (perfino per le
donne, anche se non è ancora chiaro se hanno un’anima!) il denaro
guadagnato non riesce a cogliere lo status del denaro ricevuto dagli
avi. Il denaro guadagnato serve a essere speso per vivere ma è
contingente, non ha un valore che si rifletta sul proprietario. Siamo
ancora impregnati di una mentalità da sudditi, affascinati dal potere
del signore o signorotto che sia, il denaro, certo lo usiamo ma non
ci può garantire il riconoscimento di uno status sociale
effettivamente alto. Abbiamo ancora nell’orecchio l’adagio che ogni
grande fortuna prende origine da una sopraffazione e da una
violenza di rapina eppure i signori restano signori, lor signori ci
sono ben noti se possiamo irriderli nella satira sociale. E ai signori
guardiamo, perché sono colti, sono raffinati, sono snob, mettono

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Curare la vita con la vita

l’orologio sopra il polsino come faceva Gianni Agnelli, loro, i signori,


sì che sanno come si vive. Allora, per noi che non possiamo, al
denaro che dà status contrapponiamo gli affetti, l’affettività. In un
eterno gioco di pendolo, le classi sociali si evolvono, i figli studiano,
impariamo a stare a tavola, a non fare chiasso, le nostre mani si
affinano così come il nostro linguaggio. Ed è allora che andiamo a
cercare la spontaneità, la naturalezza, i bambini che giocano
facendo rumore, la bellezza di un parlare non artificioso, il vestire
senza ricercatezza. Ma lì, il denaro deve essere poco, la
sommatoria con gli affetti deve restare a somma zero, quantità
inversamente proporzionali. Perché anche i signori possono amare,
ma in modo composto, possono soffrire ma con il contegno
adeguato. Siamo noi al di fuori del giro stretto di quelli che contano
che possiamo abbracciare con foga o strillare o ridere, noi un
tantino dozzinali oppure quei popoli magari colorati di scuro o di
giallo che usano manifestare rumorosamente le loro emozioni, che
si strappano i capelli o le vesti sulla bara del figlio o che danzano
chiassosamente alle feste. Forse è anche per quello che si finisce
per far loro guerra, per insegnar loro a vivere portando la cultura e
a democrazia. Perché comunque, è stato detto, ciascuno ha i suoi
meridionali.

Forse, chissà, la nostra insofferenza verso una corretta e lucida


meritocrazia, la nostra abilità nel confinarci nei poli sicuri e noti
della compassione e dell’ammirazione invidiosa, la nostra incapacità
di coniugare il successo con simpatia, semplicità, spontaneità e
affettività cordiale si innesta sulla goffaggine imbarazzata del
rapporto con il denaro. Scrive Angeles Mastretta, in “Puerto libre”
(Giunti, Firenze, 2000): “Colpa salariale. È un senso di colpa
frequente fra gli scrittori. Per chissà quale motivo il mondo ha
sempre creduto che gli scrittori esistano per regalare, e credendolo
il mondo intero l’hanno creduto anche gli scrittori, che se c’è una
cosa a cui si dedicano anima e corpo è proprio nel credere al
mondo. Così gli dispiace farsi pagare. (...) Anche perché la gente ti
guarda in modo ostile e diffida degli scrittori che si fanno pagare
per fare il proprio lavoro. (...) È un senso di colpa irresolvibile,
pertanto raccomando a chi ne soffre di cercarsi un amico generoso
che assuma formalmente il ruolo di agente, capace di farsi pagare
in sua vece.” Mastretta è spiritosa ma quante volte incappiamo in
questo laccio? E noi che facciamo questo mestiere, quante volte ci
siamo sentiti dire la difficoltà di pagare una relazione di sostegno,
intrisa d’affetto e d’impegno intelligente? E veramente mai vi siete

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Curare la vita con la vita

sentiti a disagio nel farvi pagare? A sentirvi chiedere se, oltre


all’impegno professionale, per cui vi si paga, siete interessati anche
personalmente alle sue vicende? Oppure, all’opposto ma in finale è
la stessa cosa, quante volte avete pensato di essere pagati una
miseria dal vostro ente o associazione per quel prezioso contributo
che date? Nei sacri testi sappiamo bene come e che cosa dobbiamo
pensare e provare ma poi, nel rapporto diretto...Mi viene in mente
un notabile milanese che diceva di sua moglie che faceva sì la
psicoterapeuta ma la faceva gratis perché era d’animo molto
buono! Ho rabbrividito e ci siamo salutati, spero che alla signora
almeno vadano molti gioielli e serate alla Scala.

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Curare la vita con la vita

Elogio dell’apparenza

L’apparenza non ha una buona stampa. Generalmente la si cita per


contrapporla alla virtuosa “verità” dell’essere, è divenuta sinonimo
di menzogna, impostura, travestimento. Cerchiamo di capire una
persona o una situazione “al di là delle apparenze”. Come dire che
la persona o la situazione vanno spogliate, private dei modi in cui si
sono mostrate così da poter attingere la loro vera realtà, per
definizione opposta o quanto meno fortemente divaricata dalle
apparenze, appunto. È un presupposto così abituale da non venire
nemmeno più sottoposto a una qualsivoglia critica, è, invece, un
atteggiamento mentale che sembra fondare primariamente l’etica.
Come tutti i luoghi comuni, mantiene un nocciolo di senso,
ovviamente, eppure a me suona come indizio preoccupante di
fondamentalismo.

Presuppone, infatti, la necessità di un voyeurismo impudico e


violento che attraversa la persona di fronte a noi per coglierne,
senza il suo permesso anzi esplicitamente contro la sua volontà, un
interno segreto da svelare e da esibire con soddisfazione. Nel
nostro tempo, stiamo smarrendo la distinzione fra segreto,
discrezione, riservatezza, pudore. Un ragazzo mi racconta di un
sogno in cui inorridisce perché si accorge che suo padre lo sta
guardando mentre si sta masturbando. Gli chiedo se l’orrore è
perché è il masturbarsi in sé che è denuncia di colpa o di vergogna
o perché masturbarsi è un fatto privato che un occhio esterno
disturba e stravolge. È lui in colpa perché si masturba e l’occhio del
padre lo coglie in fallo o è il padre indiscreto e violento
nell’intromettersi in un momento tutto suo? Ricordate? Diceva quel
benedettino che ci sarà sempre tortura nel mondo perché ci sarà
sempre una madre che vuole sapere che cosa c’è nel cuore di suo
figlio. Anche la presenza dei bambini in una seduta di terapia
familiare può essere usata per svelare il segreto degli adulti,
segreto colpevole in quanto segreto prima ancora che per il suo
contenuto, spesso minimale e per nulla drammatico. E anche
questa è violenza. A fin di bene? Beh, fermiamoci un attimo a
discuterne, il ruolo sociale del terapeuta non coincide
automaticamente con un secondino da “1984”, non è così scritto e
scontato che l’esercizio della cosiddetta terapia debba soprattutto
essere orientato a scoprire, svelare, capire, portare alla luce. Direi,
invece, che la svolta grande dell’ottica sistemica è stata il suo
attestarsi su ciò che appare, sembra, scostandosi con forza da
quell’implacabile “è”. Il suo mostrarsi con un comportamento che la

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Curare la vita con la vita

fa sembrare una schizofrenica mi induce a pensare che, mi chiedo il


senso del suo sciopero della fame che le ha reso il corpo come
fosse di un’anoressica, questo era il modo di costruire i commenti
in una seduta di taglio sistemico. Poi, nel tempo, anche i bravi
sistemici hanno tagliato qua e là semplificando i passaggi,
ritrovando la consolante stabilità del verbo essere e dando origine a
una penosa nuova diagnostica in cui esistevano le famiglie
psicotiche, quelle resistenti, quelle difese, quelle con componente
anoressico, handicappato, tossicodipendente. E l’apparenza, chiave
di volta del modo di guardare alle persone, è rapidamente ritornata
a farsi velo della migliore, splendente verità. Da catturare un po’ a
qualunque costo per poi usarla nell’intervento finale, salvifico in
quanto capace di redenzione. Stiamo mostrando al sistema la vera
struttura che lo tiene insieme, non potranno che trarne
cambiamenti rilevanti e, se non lo faranno, si dimostreranno
resistenti, indisciplinati, ribelli. Toccherà, al caso, essere ancora più
fermi.

È interessante che anche negli incontri di formazione in PNL (la


programmazione neurolinguistica è una tecnologia della
comunicazione) dove si viene soprattutto per imparare a leggere i
segnali espliciti, dichiarati, ben visibili dell’atteggiamento corporeo,
della mimica, della gestualità, del tono della voce, delle
caratteristiche minute del comunicare, anche lì si ritrova
l’atteggiamento indagatorio cui l’altro tenta di sfuggire nel gioco più
abituale. Ad esempio, si vuole apprendere a cogliere il movimento
degli occhi quando si trascorre da un canale percettivo ad un altro,
quando, per intenderci, da tutt’occhi mi faccio tutt’orecchi per
ascoltarti? Il presupposto, noto e ripetuto, è di accorgersi dei
segnali esterni che gli esseri umani mandano verso l’interlocutore
esattamente allo scopo di migliorare la comprensione precisa di ciò
che vanno comunicando. Dunque, sono segnali esterni affinché
l’interlocutore li possa cogliere agevolmente, basta addestrarsi ad
accorgersene. Tu mandi i segnali, io li colgo, io sono ok tu sei ok?
Neanche per idea, immediatamente quello i cui segnali devono
essere osservati si irrigidisce tentando di trattenere il movimento
degli occhi mentre l’altro gli sta addosso per coglierli, questi
benedetti segnali, anche se lui cerca di frenarli e poi esplode: li ho
visti! Come fosse una vittoria non assieme all’altro per un esercizio
di formazione ma sull’altro di cui ha violato il segreto. Tristissimo.
Neanche si trattasse di uno scoop che coglie la diva seminuda (ma
non deve guardare nell’obiettivo, se no non vale perché sarebbe

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Curare la vita con la vita

voluta, la foto! Il gioco crudele di mostrare senza veli, da talebani


capovolti).

L’apparenza è il fulcro della convivenza civile, come ci si veste,


come ci si comporta, come si parla, come si gestisce. È il tratto che
caratterizza la cultura, è lo scarto che custodisce la libertà,
articolata e bilanciata fra me e gli altri. Le regole sociali sono
esattamente la struttura della convivenza ma sono regole che
normano l’apparire, il come non il che. Ciascuno di noi nel corso
della sua giornata e della sua vita intera sceglie quanto, in che
misura e come adeguarsi alle regole e quali interpretare e quali
trasgredire. Per come vogliamo essere colti. Sono segnali che
costruiamo con attenzione, dedicandovi molto tempo, perché mai
dovrebbero essere dispersi con tanta noncuranza se non disprezzo?
Perché deve essere quasi un obbligo svalutare come strumentale la
motivazione di chi ci chiede un aiuto attendendo di venire a sapere
in seguito la “vera” motivazione? Perché non accogliere senza
riserve l’abbigliamento di chi ci si presenta davanti come un suo
manufatto che le appartiene? Perché andiamo subito a cogliere il
particolare che le è sfuggito? Diciamo che ha un comportamento
“artificioso”, “voluto”, ma il nostro tono accogliente, il modo di
gestire che abbiamo educato nel corso di lunghi anni,
correggendolo con formazioni estenuanti, costose e spesso non
prive di dolore, quello non è “voluto”? il nostro modo di tenere la
relazione, di valutare se, quando e come intervenire, il nostro modo
di vestire o di arredare lo studio, non sono stati “voluti”?

Certo che sì. Quando avevo diciott’anni, prendevo l’autobus presto


la mattina per andare a lezione all’università. Era inverno, faceva
freddo, eravamo tutti un po’ insonnoliti. Un giorno, per caso, il
bigliettaio mi sorride, dandomi il biglietto. Mi era piaciuto, era come
un buongiorno che alleviava la pioggerella fitta. Sorrido anch’io,
passo oltre ma mi resta in testa. Se mi è piaciuto e ho risposto al
suo sorriso, potrei provare a provocarlo, il sorriso. Potrei. Il giorno
dopo, chiedo il biglietto sorridendo e, funziona! Il bigliettaio me lo
porge sorridendo. Aggiungo il buongiorno, anche lui distende il
viso. Da allora, ho cominciato spesso a iniziare un rapporto con un
sorriso: con la commessa, in farmacia, alla cassa del supermercato.
E in genere rende più agevole l’incontro. Dunque costruiamo e
sfruttiamo un nostro modo di apparire per ottenere gli obiettivi che
vogliamo ottenere? Certamente. Ma questa non è manipolazione?
Certo che lo è, ma perché un chirurgo che esercita l’agilità delle
dita per manipolare al meglio è un bravo professionista e chi usa la

95
Curare la vita con la vita

parola e la comunicazione in senso lato deve essere “spontaneo”?


Forse che non abbiamo imparato a camminare esercitandoci fino a
trovare il “nostro” passo? E non abbiamo fatto analogamente per la
calligrafia o per lo stile del nostro vestire? Bene, ora ci
appartengono, li abbiamo voluti esattamente così per poterli usare.
Altri dettagli del nostro apparire sono ancora preda di lavori in
corso perché una vita ci vuole una vita per viverla. E per farne ciò
che vogliamo, per come ci è possibile. È attraverso la cura
dell’apparenza che veicoliamo agli altri i nostri pensieri, le nostre
emozioni, i nostri obiettivi, le richieste e gli amori.

In un seminario, un ragazzo ha ribattuto con pazienza tollerante:


ma, vede, io sono abituato a essere più attento al contenuto che
alla forma. Penso ancora che chi è veramente attento al contenuto
e veramente se ne preoccupa, si prende molta cura della forma con
la quale trasmette il suo contenuto. Affinché arrivi con la miglior
sicurezza, con la tenera cura di chi incarta un regalo. E se avvolge
un gioiello in carta di giornale, l’ha voluto. Quanto se usa la più
nota carta scintillante.

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Curare la vita con la vita

Figli e figliastri

Dal cucciolo quando è in culla via via nel corso degli anni tutti
quanti, genitori, parenti, educatori, riviste e specialisti, siamo lì ad
ammonire: attenzione, il bambino deve poter crescere sereno,
attenzione, il mondo attorno a lui deve mostrarsi un luogo sicuro,
attenzione, non litigate davanti a lui, non tenetegli il broncio la sera
che non vada a letto turbato, l’acqua del bagno sia giustamente
tiepida, il purè non scotti troppo, la maglietta a pelle sia di fibre
naturali e la merendina ecologica. Attenzione, un bambino che ha
visto violenza sarà un adulto violento, un bambino deve sorridere,
ridere, giocare, spensierato e con le guance arrossate dalla gioia. È
evidente per ciascuno quanto effettivamente la serenità fiduciosa di
un piccolo ci rassicuri e ci dia pace, quanto sia una carezza per un
momento di pena o una tristezza, i “pensieri” degli adulti sono
alleviati da una gioia infantile, la fronte si distende, un sorriso
emerge quasi senza permesso, le spalle si allentano atteggiandosi
all’abbraccio. Così anche sappiamo profondamente come sia
struggente assistere al dolore dei più piccoli, come sia una tensione
difficile da sopportare l’impotenza a consolare, distogliere, mettere
in fuga, scacciare la pena da quel faccino, da quel corpo contratto.

Tutto ciò è un’esperienza ovvia per ognuno, tutti conoscono la


fatica e l’impegno degli sforzi educativi, le cineserie più o meno
arzigogolate sull’allevamento dei figli, i convincimenti più fervidi
smentiti peraltro inesorabilmente dalla scortese realtà quotidiana.
Poi, miracolosamente o misteriosamente, questa congerie di
intenzioni, comportamenti, eventi, scatti e affetti si risolve
prendendo forma e i figli si presentano al mondo come persone.
Imprevisti e scontatissimi, i lineamenti si assestano, i movimenti si
sciolgono in un’andatura propria, il pensiero vola autonomo
intessendo frammenti di storia patria in configurazioni inedite, i
momenti educativi decantano in un bouquet sconosciuto. Di queste
persone, vibranti, incerte, divertenti e sconcertanti, mi sembra si
possano distinguere due tipi, generici più che generali: quelli che
calcano il terreno della vita e del mondo come signori della terra e
quelli che ci si aggirano come immigrati. Figli e figliastri, amati e
non amati? Non è così semplice. Credo che oltre i doverosi tributi al
rapporto con i genitori vada considerata anche una qualche
caratteristica primaria che con il rapporto familiare si fonde e si
confonde, qua rafforzando, là smentendo l’intreccio relazionale. Ma
soprattutto, prescindendo da faticose e ingombranti teorizzazioni o
considerazioni sull’origine e la formazione del carattere, mi sembra

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Curare la vita con la vita

interessante tentare di cogliere il diverso approccio all’esistenza dei


due gruppi.

Ci sono i figli che si affacciano al mondo attendendo di essere


giustamente e ovviamente incoronati. Certi dei loro diritti ad
esistere e ad essere soddisfatti, si interrogano sul perché mai le
cose non vanno come dovrebbero, anzi come devono. La sicurezza
del loro status li fa guardare direttamente negli occhi, anelanti di
cogliere il loro tempo, di identificare il posto nel mondo che spetta
loro, si innervosiscono di fronte alle difficoltà, non perché non siano
capaci di affrontarle ma perché le considerano impacci noiosi che
impediscono il passo. Hanno un compito da svolgere e sono
impazienti di attuarlo, trasmettono un radicamento forte e
indiscusso, vogliono e sanno pretendere, saprebbero come
organizzare le cose al meglio se solamente si desse loro ascolto.
Competenti e certi del fatto loro, chiedono solo di essere utilizzati
per poter fare, sanno di aver ragione e si disperano se gli altri non
capiscono o non condividono. Non tanto perché siano presuntuosi
ma perché sembra loro così evidente e indiscutibile la realtà dei
fatti che è un peccato non coglierla e si affaticano a predicarla. Per
il bene di tutti. Credono nei valori, pressanti e costringenti nei
confronti degli altri, comunicano una assertività forte e rassicurante
con cui talvolta ci si trova a combattere ma che, pure, si allarga e si
diffonde ad abbracciare l’interlocutore. Il sogno di tanti genitori è
poter contemplare dei figli così, sicuri, fattivi, nati su di una
terraferma di latte e miele, capaci di cercarla ancora e ancora,
continuamente. Il dubbio esistenziale li sconcerta e li turba,
inserisce un tempo fastidioso di sospensione in cui non si può
operare, l’intelligenza brillante tollera poco l’esitazione, l’incertezza.
Difficilmente disposti a collaborare in progetti non firmati da loro,
sono capaci di grandi generosità e impegno, entusiasti e fiduciosi.
Le cose, basta dirle, sinceramente, i problemi li risolvono, non se li
creano, disposti a dare sempre una mano certi che a loro pure
verrà data e stupiti dolorosamente quando questo non accade.

Gli altri, immigrati senza permesso di soggiorno, studiano il mondo


per apprenderne le regole, per trovare l’iter giusto del
riconoscimento. Ben consci della farragine burocratica, conoscono
l’attesa, si dedicano a scovare i modi di bucare l’indifferenza
dell’impiegato allo sportello, hanno tutto un armamentario di
sistemi per catturare l’attenzione dell’altro da cui dipende, in ultima
analisi, la loro stessa sopravvivenza. Il tempo introspettivo assai
più lungo del momento dell’azione, abitano la solitudine come uno

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Curare la vita con la vita

stato normale, talvolta addirittura protettivo, impacciati e goffi,


temono di essere colti e scoperti in atteggiamenti o situazioni
sbagliate che poi dovranno far grande fatica a risanare. La loro
cautela nell’esporsi richiede una lunga preparazione, un
addestramento a cogliere gli interessi dell’altro che può scivolare
nella compiacenza, attenti a ogni sussurro esterno, difficilmente
permettono che vengano amplificati i loro, di sussurri, senza averne
controllato con cura l’editing minuzioso. Affettivi e capaci di
dedizione, appaiono come molto propensi a essere affiliati ma
l’appartenenza è per loro sempre temporanea, il pensiero corre per
connessioni, costantemente timoroso di una chiarezza definitiva.
Cangianti e mutevoli, scelgono con destrezza l’abito mentale più
adeguato al momento, già sfuggenti altrove nell’attimo successivo.
Tanto disponibili quanto imprendibili, sostano nel rapporto e non
frequentano il mondo delle certezze, allevano e custodiscono le
idee e i sogni degli altri facendoli loro, cercando di continuo. Sono i
figli accudenti che molti vorrebbero, di una fedeltà duratura e
infinitamente adattabile. Temono l’uso dichiarato del potere,
sfumano i termini, conoscono bene il piacere del successo ma non
se ne vestono attendendo che siano gli altri ad abbigliarli.

E allora? Allora, nonostante il disperato desiderio dei genitori, di


tutti i genitori, non c’è possibilità di esonero dalla paura e da
dolore, qualunque sia il versante della montagna la fatica è
grandissima. I figli legittimi spesso si infrangono contro la pervicace
malvagità e inutilità che constatano attorno a loro, cadono in
depressioni profondissime di cui difficilmente riescono a fare
esperienza durevole scattandone fuori al più presto possibile, la
loro certezza fa velo alla necessità di accordo e intesa che sembra
loro un umiliante accomodamento. Gli altri, con quel segnale
persistente di forse, chissà, si potrebbe, sono untori dell’incertezza,
irritano e mal dispongono chiunque cerchi di possederli, di
inscriverli in un quadro preciso. Esperti del rintorcinamento
mentale, quasi si sgomentano se temono di trovarsi alla fine con un
documento ineccepibile di identità, evitando le conclusioni, i
definitivi passaggi che scandiscono un distacco ultimo. Ma ambedue
i gruppi hanno capacità e competenze preziose, ambedue
riguardano all’altro con desiderio e nostalgia. I legittimi invidiando
la libertà svincolata che è propria di chi non ha nulla da perdere, la
ricerca e l’utilizzo di qualunque appiglio come risorse tipiche
dell’economia di guerra, quella in cui le donne si scambiavano
ricette di cucina inventate sui poverissimi ingredienti disponibili. Gli

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Curare la vita con la vita

illegittimi scrutano con occhi da piccole fiammiferaie la sicurezza


scontata di chi chiede apertamente, afferma, presume l’assenso, va
al confronto, gioca con valori riconosciuti, saldo nella sua
appartenenza; talvolta chiudono gli occhi nel timore del disastro
ma, quando li riaprono, gli altri son lì, sani e salvi, forse
inconsapevoli del pericolo sfiorato o, forse anche, il pericolo poi non
c’era.

Forse, chissà, nel corso della vita partiamo da una posizione del
pendolo per cercarne l’altra con oscillazioni che ci descrivono nel
tempo e nello spazio. I figli legittimi imparando dagli emigranti ad
espatriare per assaporare l’insicurezza e cercare i modi e le risorse
di una sopravvivenza garantita, gli illegittimi accettando che
certezza può esserci, c’è. Intera, piena, appagante anche se fino a
domani. Talvolta, accade, anche a dopodomani.

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Curare la vita con la vita

Foglie d’erba

Siedi un momento, caro figlio,


qui c’è biscotto per mangiare e c’è latte per bere,
ma non appena avrai dormito e indossato morbidi indumenti,
ti darò il bacio d’addio e ti aprirò il cancello per andartene.

Per troppo tempo hai fatto sogni spregevoli,


ora io ti detergo la cispa dagli occhi,
devi assuefarti al fulgore della luce e di ogni momento della vita.

Per troppo tempo hai sguazzato vicino alla riva,


timidamente reggendoti a una tavola,
ora voglio che tu sia un nuotatore spavaldo,
che ti tuffi nel bel mezzo del mare,
e torni a galla, e mi fai un cenno, e gridi,
e ridendo ti scrolli i capelli.

Ecco, questo brano di Walt Whitman, tratto da “Foglie d’erba”, me


lo ha scritto anni fa mio figlio, allora giovanissimo ora già padre a
sua volta. Naturalmente conservo ancora il foglio con la sua
calligrafia ma il motivo per cui lo ripropongo qui, oltre alla sua
innegabile bellezza commovente, è perché vi si aggancia tutta una
fila di pensieri sulla scarsa capacità della mia generazione di
lasciare vivere i nostri figli, di lasciarli respirare. Forse, più
brutalmente ancora, di lasciare loro uno spazio d’esistenza
autonoma, di tollerare che, come è nelle regole della vita, siano
loro al timone e che il nostro posto sia in secondo ordine, alle loro
spalle. Pronti, se del caso, ad affiancarci all’esigenza ma ben attenti
a non sostare un attimo di troppo.

Certo, questa è questione di sempre, di ogni scarto generazionale,


mi interessa solo fissare qualche tratto di questo nostro specifico
momento storico. La mia generazione ha avuto delle opportunità
incredibili, straordinariamente concentrate: ne accenno qualcuna,
pagando l’ovvio scotto della generalizzazione e dell’attenzione
esclusiva alla dimensione “borghese”. Siamo approdati all’uso della
tecnologia potendola contrappuntare con la conoscenza del latino,
abbiamo vissuto la liberazione dagli schemi di un’educazione rigida
avendo già in dote i vantaggi della disciplina che ci era stata
imposta, abbiamo scoperto il diritto all’uso libero del nostro corpo,
dai vestiti al sesso, quando questo stesso corpo aveva già
conosciuto un’infanzia protetta. Abbiamo maneggiato coppia,

101
Curare la vita con la vita

famiglia, maternità quando ancora erano dei tarocchi ben definiti


nelle nostre mani, carte spesse che ci rilanciavamo con un’allegria
entusiasta, cercando accostamenti solo perché nuovi. Abbiamo
avuto il mitico ’68, l’invenzione della politica del privato, abbiamo
visto le parole diventare reali, abbiamo attraversato violenze,
terrorismo, paura sconfinata, ci siamo sgomentati di noi stessi e
forse, talvolta, del potere che ci sembrava di avere prima di
risentire appieno la persistenza di certe regole, la pesantezza di
certi ritorni. La terribile ripetitività dell’onda che torna a riva.

Ma abbiamo vissuto. Con chilometri di errori e quintali di sbagli,


come direbbe una mia sorella, inciampando e scottandoci ma anche
ridendo e sperimentando e discutendo e pensando e imparando.
Attraversando un tempo in cui parole e contenuti si beffavano l’un
l’altro sfidandosi reciprocamente a catturarsi con sempre nuove e
diverse invenzioni, abbiamo vissuto l’affermarsi della
comunicazione, c’eravamo quando i confini si sono aperti
improvvisamente sul mondo intero, dall’India al Vietnam
all’Ungheria a Praga.

Di questa stagione ci siamo nutriti fino a diventare oggi i gestori del


nostro tempo, professionisti, colti, quel tanto snob da poterci
permettere di situarci nelle situazioni più diverse, imponiamo la
persistenza del nostro modo di pensare, di fare, di vivere. E
continuiamo a restare autoreferenziali, pecca che se si perdona ai
ragazzi diventa indecorosa nei cinquanta sessantenni. Come se
volessimo ancora succhiare, manteniamo ferma quella stagione,
traghettandola con destrezza nello scorrere del tempo che siamo
noi a governare. Non solo nel senso che è logico siano quelli della
nostra età a tenere le fila, ma nel senso più malato che vogliamo
restare noi i giovani. Possiamo permettercelo, possiamo continuare
ad imporre il nostro stile nel vestire, l’attenzione al cibo e
all’ambiente ci tonifica, perché mai ancora dover distinguere fra
generazioni? Siamo tutti giovani, purtroppo sono quelli che per età
avrebbero diritto a chiamarsi così che restano fuori dal gioco, che
sembrano divertirsi di meno, che sembrano più tristi, piegati da
una sofferenza veramente esistenziale. Li abbiamo privati di tutto,
ci siamo impossessati, allora, della stanza dei giochi, ci è piaciuto
moltissimo e siamo restati lì, a presidiarla. E non li lasciamo
entrare. Le madri che vanno in palestra con le figlie scambiandosi
gli abiti quando non i fidanzati, i padri giovanili che fanno
ginnastica e indossano i jeans, sempre sull’onda, brillanti

102
Curare la vita con la vita

conversatori mentre i figli stanno al computer, capaci di mettere al


mondo bambini più piccoli dei nipoti. Perché no, si dice?

Penso che la nostra meravigliosa (e difficile, senz’altro) stagione sia


stata sostanzialmente sterile, come le sementi ogm, da nutrircisi
ma incapaci di riprodursi. La scoperta emozionante della politica
sembra una pista che neanche noi troviamo più, confusa nella
sabbia. Il femminismo, che era sembrato un sentiero glorioso,
pieno di luce e di speranza, è restato nelle mani di chi l’ha vissuto
allora, le nostre figlie non sanno come maneggiarlo e i loro tentativi
di inventarlo per loro vengono comunque mortificati dalle nostre
parole che li definiscono svuotandoli del valore per l’oggi. La
scoperta dell’uso libero del corpo si è stravolto in una generazione
di giovani che sono del tutto alienati dal loro corpo, lo portano in
giro ma non lo possono abitare. Il piercing come il tatuaggio come
lo spaventoso fenomeno dell’autoferimento sono tutti modi di
ritrovarlo, questo corpo, di poterlo sentire, ma solo, sembrerebbe,
guardandolo o segnandolo per vederlo o percependone l’esistenza
reale attraverso il dolore.

Tossicodipendenza, anoressia, sempre in altalenante bilico e


proteici più che mai ci dicono che per la prima volta, forse, nella
storia sono i giovani a suicidarsi. Nel nostro tempo, fino al nostro
tempo, i ragazzi difendevano la loro vita, anche e soprattutto
contro i grandi, genitori e non. Perfino nelle cronache nere gli
omicidi fra generazioni hanno un computo praticamente
equivalente: madri e padri che uccidono i figli, figli che massacrano
i genitori e, con l’occasione, magari, anche la suocera e il cognato.

Quello che mi colpisce di più è questa impressione di aut aut: o loro


o noi. Mi vien da pensare che la loro tenerezza e il profondo amore
che i giovani hanno per noi li portino a risparmiarci, a togliersi di
mezzo per proteggerci nella nostra illusione drogata di una
giovinezza permanente. Una ragazza racconta di come la madre le
abbia portato via l’innamorato ma lei non è arrabbiata perché,
povera, se la mamma lo desiderava! In questi decenni di lavoro
clinico ho imparato come sia immutabile e indistruttibile
l’attenzione dei figli per i genitori, non saprei se pari a quella dei
genitori per loro ma certo è di una forza enorme. Non mi sembra
impossibile che abbiano visto lucidamente la nostra incapacità di
fare gli adulti, di rendere nuovamente onorevole e bello e
auspicabile il diventare grandi, adulti, responsabili. E che ne

103
Curare la vita con la vita

abbiano avuto pietà. Sacrificando le loro esistenze affinché non


fossero minacciate le nostre.

Non so se tutto questo sia utilizzabile, ma per favore basta con i


ragazzi che non hanno più ideali, che sono viziati, che sono
insoddisfatti perché hanno tutto, che non vogliono faticare per
ottenere.

Mentre noi, alla loro età, facevamo il ’68.

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Curare la vita con la vita

Forzati del cambiamento

Scrive Bateson, in “Una sacra unità”, (Adelphi, Milano, 1997),


commentando l’evoluzione del cavallo, anzi, meglio, della
“relazione” fra cavallo ed erba, scrive: “è curioso che tutto il
cosiddetto progresso evolutivo sia stimolato dal bisogno di lasciare
le cose come stanno. L’erba cambia e il cavallo cambia e l’erba
cambia e il cavallo cambia e cambiano in modo tale che la relazione
che li lega possa restare costante. E in sostanza l’evoluzione è un
vasto procedere di cambiamenti interconnessi, dove ogni singolo
cambiamento è uno sforzo per rendere non necessario il
cambiamento (...) Uno dei grandi errori della biologia di metà
Ottocento fu quello di pensare che la selezione naturale fosse una
forza che spinge al cambiamento. Non è così: la selezione naturale
è una forza che spinge a lasciare le cose come stanno (...) Non
spinge a star fermi, vedete, questo non è proprio possibile. Se
vogliamo star fermi veniamo sorpresi, come Giobbe, con le brache
calate, per così dire, e tutto va storto.”

E, dopo, “I cambiamenti di equilibrio superficiali sono in effetti la


salvaguardia di caratteristiche molto più profonde le quali è meglio
che non cambino.”

Beh, il cambiamento è quello che si chiama croce e delizia dei


terapeuti, lo vogliono, lo devono ottenere, sigillo chiaro della loro
efficacia professionale. È un po’ il tormentone di ogni scuola o setta
terapeutica, come indurlo, come verificarlo, quanto durerà. Ma,
pensavo, se si dice che plus ça change plus c’est la même chose,
funziona anche l’inverso? Si può immaginare che più le cose
restano come sono più cambiano?

È questione di livelli logici? Sì, anche, certo, ma appunto perché si


tratta di livelli, occorre considerare con grande attenzione il livello
cui può effettivamente accedere l’osservazione del terapeuta, come
connettere i cambiamenti superficiali, quelli che salvaguardano
l’immodificazione delle caratteristiche profonde, con la necessità del
terapeuta di verificare l’avvenuto cambiamento cui anela. Dò per
nota la sterminata letteratura sull’argomento, mi importa qui
considerare la situazione del terapeuta, in particolare se è proprio
necessario volerlo, cercarlo, verificarlo, constatarlo. Se potremmo
anche prescinderne, evidentemente se questo risultasse più
vantaggioso.

105
Curare la vita con la vita

Perché, se è vero che non si può non cambiare, (è semplicemente


impossibile, non ci riusciremmo neanche provandoci allo stremo),
se è vero che il solo fatto di vivere ci modifica, sembra discenderne
che anche nei confronti delle persone con cui lavoriamo in terapia,
singoli, coppie o sistemi che li vogliamo considerare, il
cambiamento non si tratta di indurlo ma di collaborare a
governarlo. E già questa prima banalissima osservazione potrebbe
abbassare l’ansia, quando non addirittura il furore interventistico
che troppo spesso agita i terapeuti, un filo meno di onnipotenza e
un po’ più di serenità nel relazionarsi con l’altro. Quando
incontriamo nuovamente il nostro interlocutore, lo sguardo
indagatore che cerca il cambiamento sfiora gli abiti, il modo di
gestire, il tono della voce, l’impostazione delle spalle, ricerca in ciò
che ci viene raccontato. E spesso, durante le supervisioni, sento lo
sconforto in chi mi dice come si confessasse: non è cambiato nulla,
non è successo niente. Più precisamente, mi sembra si possa
ridefinire: non ho trovato traccia di quel cambiamento che mi
aspettavo. Come dire che non stiamo guardando come l’altro ha
vissuto, e dunque si è modificato, dall’ultima volta che l’abbiamo
incontrato, non stiamo osservando l’altro ma lo stiamo
scannerizzando per confrontarlo con quello che avrebbe dovuto
diventare. A nostro giudizio, secondo quel che, grazie al nostro
intervento, avrebbe dovuto fare, porsi, capire, inventare. Sì che,
come nel sempre presente letto di Procruste, lo misuriamo non per
sapere che cosa gli è successo e seguire il suo passo ma per
confrontarlo con un’idea, nostra, di quel gli sarebbe dovuto
succedere.

Altrimenti, non siamo stati bravi, non siamo stati efficaci, abbiamo
sbagliato.

Detto così, sembra un monologo del tutto autoreferenziale, sto


semplificando, evidentemente, ma il punto è importante. Anche
perché i cosiddetti pazienti in genere sono molto cortesi con noi e si
adattano con una certa buona grazia ai nostri desideri, si stendono
sul letto se si avvedono che è là che noi guardiamo in modo da
poter essere visti, si allungano o si restringono per non perdere il
contatto con noi.

E noi ci rassicuriamo un po’, siamo stati utili, va bene così.

Forse, la questione si sposta sul livello del progettare per l’altro: se


ci occupiamo di qualcuno, è del tutto evidente che facciamo dei

106
Curare la vita con la vita

sogni per lui, che ci piacerebbe vederli tutti belli, sani, allegri e
fattivi, sicuri di sé. Questo sarebbe il cambiamento, no? Certo, ed è
questo su cui anche loro concordano che sarebbe una gran bella
cosa. E concordano perché l’accordo è sul loro star male, allora il
cambiamento auspicato sarebbe non stare più male. E qui c’è un
passaggio indigeribile: non si può avere un progetto siglato dal
non, non più. Non è proprio possibile ottenere di non stare più
male, si può solo ottenere un’altra condizione. Ma a quell’altra
condizione, appunto, appartiene una differente, inedita
configurazione, i pensieri e le emozioni formano costellazioni e
figure diverse, che non si possono conoscere né immaginare fino a
che non vi siamo dentro, abbiamo traslocato, suoni e colori e vicini
sconosciuti, con noi oggetti e movenze che ci accompagnano nel
tempo ma che, collocati in quel nuovo ambiente, risaltano in modo
inesplorato.

E non sarebbe questo il cambiamento? Certo che sì ma non lo


possiamo ottenere attraverso una progettazione, non possiamo
testarlo come se si fosse in un cammino, non possiamo trovarlo in
un percorso. Prima di averlo raggiunto. Dopo, come in ogni
esperienza umana, potremo traguardarlo, sistemarlo in una carta
geografica, ritrovare, a ritroso, una linea guida che potremmo
chiamare un percorso. Ma non possiamo pensare di muoverci passo
passo sulla strada giusta. E definirlo percorso, ricordarne tempi e
passaggi è un modo che ci permette di raccontarlo a noi e agli altri
con le forbici abilissime della memoria che fanno abiti su misura.
L’incontrarsi in terapia, dunque, è un confrontare i diversi sogni che
si possono sognare per quella persona, collocarvisi d’un balzo,
attestarsi sull’altipiano a considerare soddisfatti i propri
possedimenti, da lì guardare come ci si è arrivati. È un salto logico
fuori dai confini noti, tenendosi per mano quando manca il respiro.
Ma non funziona, credo, se ci incamminiamo con lo zaino pesante e
i muscoli irrigiditi con la garanzia di far fatica perché è con le
lacrime e con il sangue che si ottengono i risultati. Gli atleti saltano
più in alto perché hanno visto se stessi mentre superano l’asticella
e non una sequenza di fotogrammi. L’allenamento vuol dire
ripetersi centinaia, migliaia di volte in movimenti di vittoria e poi,
nell’attimo, inventarne l’unico del momento sulla salda esperienza
di chi ha già vinto.

E il sintomo? Il malessere? Sono il modo di incontrarci, un biglietto


pagato per entrare nella relazione. Ma occorre che restino fuori
perché se è sul sintomo che ci affatichiamo, sulla famigerata

107
Curare la vita con la vita

diagnosi, sulla sofferenza portata con attenzione ché non ne vada


persa neppure una goccia, questi diventano un’ancora fortissima,
con la prepotenza di significare di sé ogni avvenimento ed
esperienza. Ci vincolano a un percorso a testa china, per limitare i
danni, per rappattumare, per rabberciare una vita un poco più
vivibile. Capace di amputare le ali al sogno e di immiserire il battito
del nostro pensiero.

108
Curare la vita con la vita

I confetti, tu li mastichi?

Mentre la giornata trascorre, si aprono spesso delle finestre di


tempo in cui si può iniziare un gioco con se stessi. Mi piace farlo,
arrotondando lo spessore degli eventi minuti e inventando per loro
un significato, sì, un poco come quando saltellavamo sul
marciapiede, attenti alle giunture da non sfiorare con i piedi.
Giocare in modo innocente, per testare qualcosa di sé, darsi delle
regole e infrangerle, sdoppiarsi in chi dà i compiti e chi li deve
eseguire, farsi obbediente e assieme imprevedibilmente
trasgressiva. Perché mai? Anche per esercitare, come muscoli che
non vanno dimenticati, le mie diverse persone, verificare
l’importanza delle mie abitudini, controllare l’aggiornamento di ciò
che mi piace e di ciò che non mi piace. Con il gioco, cintato dal
regolamento altrimenti gioco non è, riconquisto una diversa libertà
di pensiero, perché come obbediente a una norma sono libera di
pensare ciò che voglio, dentro un’azione che un’altra me dirige.
Soprattutto per gli eventi piacevoli, ma anche per quelli in cui
faccio più fatica.

Ho cominciato tanti anni fa, ero ragazzina e avevo cinque confetti,


bianchi e lisci. Mi piacciono moltissimo, i confetti e, anni dopo,
vedendo quanto piacevano anche a mia madre, ho cominciato a
regalarglieli per ogni minimo spunto gioioso, senza dover aspettare
che qualcuno si sposasse. Poi, gioco nel gioco, a regalarglieli, e lei a
me, anche quando occasioni di gioia non c’erano ma ne avremmo
avuto bisogno. Una minuscola complicità fra donne come qualcosa
di giallo mimosa da regalare alle mie donne l’8 di marzo.

Bene, allora ho questi cinque confetti e ne sono felice. Li conto, ne


prendo uno, lo mastico di gola, poi mi domando come sarebbe
gustare separatamente la mandorla e lo zucchero. Il prossimo, lo
metto in bocca con attenzione, sto obbedendo all’ordine di non
tritarlo con i denti, lo rigiro in bocca mentre lo zucchero si
assottiglia, c’è ormai solo più una leggerissima camicia attorno alla
mandorla e proprio in quel momento, con il sorriso storto di chi fa
un dispetto e lo sa, stringo d’improvviso i denti, la mandorla si
spezza mescolandosi con il rimasuglio di dolce. Però, dice l’altra
me, non hai sperimentato fino in fondo com’è la mandorla senza
zucchero. Vero. Stavolta mi comporto bene, obbedisco e sciolgo lo
zucchero con disciplina, un passo più in là della volta precedente
ma sono io che decido e ancora una volta il traguardo è quasi,
quasi raggiunto. Appena un sentore di dolce ma lo zucchero c’era

109
Curare la vita con la vita

ancora. È il quarto confetto a farmi masticare la mandorla da sola,


tanto per farti vedere che ne sono capace, sai. Il quinto lo mangerò
a mio piacere, senza regole. È un dono in più.

Questa è solo una storia piccola piccola ma spesso mi capita di


organizzarmi fra le mie diverse persone che entrano in gioco per
sperimentarsi e mantenersi in allenamento. Ne convoco tante,
penso importante conservare una certa agilità di ingresso. Una
volta, al supermercato, avevo nascosto con il cappotto poggiato sul
carrello un golfino per mia figlia. Passo alla cassa, pago, esco,
svuoto il carrello e scopro il golfino di cui mi ero assolutamente
dimenticata. Lo restituisco ma mi resta in testa che non conosco
come si fa a rubare. L’ho fatto senza volere ma sarei capace di farlo
consapevolmente? Molte ragazze e ragazzi lo fanno negli anni
dell’adolescenza, per tanti è quasi un’iniziazione, per gli adulti è
una guasconata prendere la metropolitana con un biglietto usato,
ho visto signore impellicciate ridacchiare per questo, ma è
un’esperienza che conosco solo per sentito dire. Ma io non voglio
rubare sul serio, voglio solo provare come si fa, che cosa succede.
Forse, sì è così, voglio sperimentare che cosa si prova a stare
dall’altra parte, temere di essere scoperti. Così, un giorno salgo
sull’autobus ma non timbro il biglietto. Una fermata dopo l’altra,
con il cuore accelerato, guardo verso le porte attendendo che salga
il controllore. Sono pronta a pagare la multa, ho deciso che non
farò la scena di essermi dimenticata di timbrare. Mi sto comprando
un’esperienza, non voglio danneggiare le casse comunali. Ma uso
tutto il tempo del percorso, attimo per attimo, per farmi le fantasie
di essere scoperta e sbugiardata, ribattermi che non succede poi
nulla di grave, contare le fermate che mancano come ne andasse
della vita: i giochi vanno giocati seriamente. Poi, quando sono quasi
arrivata, con noncuranza timbro il biglietto, in piedi presso l’uscita,
l’atteggiamento della signora per bene che chi mai potrebbe avere
qualcosa a ridire su di lei?

Così, almeno una volta l’anno faccio fare un giro a qualche mia
persona che abitualmente preferisco non mi rappresenti: quella che
fa gli occhiacci ai bambini e, al loro pianto, guarda con innocenza
compassionevole la madre, quella che non risponde a chi le chiede
un’indicazione, quella che getta una cosa consumata solo a metà.
Mi serve per ricordarmi quanto non mi piacciono le persone tutte
giuste, tutte perbene ma anche per tenere sotto controllo e
conosciute le mie di persone. Penso, infatti, che chi si considera un
non violento non saprebbe come gestire la sua persona violenta e

110
Curare la vita con la vita

assassina perché non la conosce, penso che chi si dice


assolutamente sincero aggiusti gli eventi senza neppure più
accorgersene, penso che chi si vive nella più piena legalità finisca
rapidamente per comportarsi con l’arroganza di chi le leggi le fa,
non le segue. Penso, insomma, che sono centinaia le persone che ci
compongono e che ci fanno noi stessi e che nessuna di queste può
essere trascurata. È proprio perché saprei essere violenta e crudele
che il mio comportamento cortese e attento è una scelta di cui
rispondo. Ma pensarsi alieni da sadismo, asserire che io mai potrei
fare questo, condannare stupefatti le tricoteuses del nostro tempo
che loro nel sangue ci sguazzano, questo è sciocco e pericoloso.
Che pensare di fronte alle madri che preparano il the e lo portano
la mattina ai figli drogati perché sanno che devono uscire a
spacciare? C’è stata una madre che, per non mettere in pericolo il
figlio tossicodipendente, ha deciso di andare lei a prendergli la
dose. Così, si è incontrata con la spacciatrice, una, due, molte
volte. Sono diventate amiche, un giorno la spacciatrice si lamenta
che non ha nessuno che le guardi i bambini piccoli. E allora la
signora si offre di guardarli lei, i bambini, mentre la madre usciva
per spacciare. Quella stessa droga da cui la signora temeva che il
figlio si facesse male. Noi siamo tante persone, la giostra gira e
nessuno può arrogarsi il diritto di amputarne qualcuna. Pena
doverlesi fare incontro indifesi, senza preparazione, senza aver
possibilità di trattare. Meglio stringere un piccolo fra le braccia
sapendo che con pochi passaggi anch’io potrei fare la torturatrice.
Per questo ci sto molto attenta. Così godo pienamente l’abbraccio.

111
Curare la vita con la vita

Il lutto del sintomo

Un aspetto che è troppo sottovalutato, se non addirittura spesso


trascurato, è quello che mi piace chiamare il lutto del sintomo.
Possiamo riferirci al sintomo in termini esplicitamente clinici ma è
possibile anche allargare lo sguardo sulle avventure quotidiane.
Proprio per continuare questa spola fra il tempo di tutti i giorni e
quello un po’ speciale della cosiddetta patologia, per continuare a
confrontare il comportamento sintomatico con quello considerato
normale e derubricarlo a caricatura, esagerazione, irrigidimento,
sottolineatura di un normale agire. Riportare, come si diceva, il
patologico nel quotidiano, dove siamo più abituati a destreggiarci e
possiamo, soprattutto, contare sull’alleanza vigile e competente del
nostro interlocutore, così penosamente definito paziente.

L’abbandono del sintomo, il suo andarsene o il nostro distaccarci,


lascia dietro di sé un vuoto. Un grande vuoto. Consolidato nel
tempo, è stato perno essenziale di tutta una miriade di
comportamenti, pensieri, abitudini che, talvolta lentamente talvolta
bruscamente, hanno fatto corpo con il sintomo seguendo l’infinita
adattabilità della persona umana. Se mi riconosco fobico, qualcuno
mi ha fatto una diagnosi, sia pur casereccia e, per farmi riconoscere
dagli altri e da me stesso, dovrò mantenere un assetto adeguato.
Se nessuno mi ha diagnosticato, comunque sarò stato definito
come quello che torna a controllare la chiusura della porta di casa,
del rubinetto del gas, che non sopporta le farfalle, che non ama
l’aglio, che odia la musica dodecafonica, che non tiene un segreto,
che cambia i regali e così via. Tutti quanti noi tentiamo
continuamente di inscatolare gli altri per saperne almeno le linee
generali e poterci recare all’incontro con qualche certezza in tasca
mentre ci addentriamo nell’imprevedibile del momento. Ciascuno di
noi è a sua volta inscatolato e si inscatola volentieri nel previsto
letto di Procruste pur di essere ritrovato, riconosciuto, interpellato.
Protestando, certo, rivendicando la nostra diversità da quel quadro
stucchevole che ci accompagna da tanto tempo ma pronti,
prontissimi a rientrarvi di corsa se cogliamo lo sconcerto negli occhi
dell’altro, se ci sentiamo mancare il cuore al solo pensiero che ci
lasci cadere come sconosciuti. Chi di noi non ha provato lo
sgomento di telefonare a un amico e di sentirsi rispondere, magari
gentilmente: chi sei? Non parliamo neppure del sentirsi dire così da
un fratello o un genitore!

112
Curare la vita con la vita

Poi, magari, lontano da quelli che ci conoscono, sperimentiamo la


libertà di forzare questi limiti, di negare l’evidenza dei nostri tratti,
di assaggiare la zuppa di pesce con la maionese e il formaggio
parmigiano (basta farsi consigliare da un parigino!) noi
consuetudinari e attenti alla dieta dissociata o di rimettere in ordine
con cura la nostra stanza, noi, notoriamente disordinatissimi. In
genere, troviamo il gusto di capacità e competenze cui abbiamo
rinunciato nel tempo per un gioco relazionale di vedo/ non vedo.
Ma faremmo, e facciamo, fatica a ritornare con queste nuove
acquisizioni nel tempo del quotidiano. Se le raccontiamo, veniamo
conditi via con un “per una volta, ci sei riuscito, ma quanto potrà
mai durare? Sappiamo bene come sei fatto”, se le mettiamo in atto,
ci sentiamo scrutati con un certo allarme, che ti è successo? Non
sembri più tu! Un ragazzo di neanche vent’anni mi ha fronteggiato
un giorno, un poco sconcertato ma anche irritato: prima lo sapevo
chi ero, ero un tossicodipendente, ma adesso? Adesso devo
ricominciare da capo, non so chi sono, e come faccio?

Il sintomo è qualcosa di più ancora, consuetudine e limite,


lineamento essenziale della nostra persona, non solo per gli altri
ma per noi stessi. Che progressivamente entriamo sempre di più
nel personaggio rifinendo con attenzione dettagli sempre più
minuti. Ma se, spaventati dall’essere restati imprigionati, volessimo
uscirne, come sarebbe mai possibile? E per andare dove? E con che
faccia? La nostra, di faccia, aderisce completamente al
personaggio, tutti i nostri averi sono stati spesi per sostentarlo. Sì
che, quando lavorando assieme magari si riesce a moltiplicare i
personaggi e poi, magari ancora, a diversificare le persone, resta
forte il lutto di quella unità che sapeva di unicità proprio nel suo
essere catalogabile, riconducibile a una elementarità semplice,
racchiusa in una definizione, un aggettivo, la diagnosi, appunto. Un
vuoto doloroso su cui le persone si affacciano un po’ stranite,
combattute fra la consapevolezza più profonda e la fresca diversità.
E si girano a guardarti, come ogni teorema o problema, una volta
che si è usciti dal sintomo sembra tutto così banale, povero. Era
così semplice, come ho potuto mortificarmi dentro per tanto
tempo? Come ho potuto non accorgermi? Come ho fatto a
spenderci tante energie? Perché?

È a questo sgomento doloroso che mi riferisco con il lutto del


sintomo, al pianto per avere perduto una identità, un ruolo, una
congerie di micro abitudini che come una forte rete tratteneva e
guidava la giornata intera. Dentro e fuori di sé. E il lutto va

113
Curare la vita con la vita

onorato, va pianto, rispettato. Occorre il tempo (chi mai si può


permettere di stabilire il periodo giusto di una vedovanza? Quando
si può e si deve ricominciare a sorridere? Quando, se e come ci si
può comportare normalmente? Senza essere aggrediti dal
malevolo: ha già dimenticato! Sussurrato spesso da chi esortava a
rifarsi una vita.), ma occorre anche custodire il ricordo. Ogni
sintomo è anche una creazione personale, una metafora importante
cui abbiamo dedicato energie, inventiva, fatica e sofferenza. Non lo
si può cancellare amputandone la persona. Ma lo si può conservare
come un’acquisizione di grande rilevanza che, chi sa mai?, potrebbe
ancora essere utilizzata, magari non in quegli stessi termini, magari
non nelle stesse situazioni, magari spezzettandola in tanti
comportamenti, come una vera e propria eredità che ci appartiene.
Il cambiamento, la trasformazione cui ogni persona ha ben diritto,
non possono risolversi nell’abitare un territorio sconosciuto di cui
non sappiamo lingua, usanze, codici sociali. L’eredità del sintomo
può innervare di sé questo diverso modo di esistere, di modellare la
propria giornata, aggiungendo vita a vita, moltiplicando le
esperienze senza che queste debbano costringerci a crudeli
amputazioni o a lacci ugualmente crudeli.

Penso che anche per le trasformazioni del contesto sociale sarebbe


bene ricordarsi di risarcire il vuoto che ogni cambiamento
comporta. Pena l’impoverimento di un tessuto di convivenza che si
fa sempre più rado, semplificato in termini miserabili. Se è stato un
grandissimo successo civile l’abolizione del delitto d’onore, ci siamo
curati di dare una nuova e moderna edizione dell’idea, del concetto,
di onore? Possiamo farne a meno? Siamo certi che non ci
servirebbe oggi quando lamentiamo assenza di responsabilità,
quando è difficile attribuire ancora fiducia? Lealtà, un altro valore
che non credo debba essere affossato solo perché è stato amato
dalla destra. Perché se non li onoriamo con attenzione e rispetto,
questi valori ci tornano su all’improvviso, incontrollabili, proprio
come le famose ricadute di cui si parla per i tossicodipendenti.
Quando ci fu la storia del corvo di Palermo, il dubbio che un
magistrato fornisse informazioni alla mafia sulle indagini in corso,
lessi su molti giornali che catturare le impronte digitali del
magistrato sospettato offrendogli un bicchiere di whisky non era un
comportamento leale!

Ma penso anche che la tecnologia dei trapianti possa essere


assimilata al meglio se viene nuovamente e diversamente celebrato
il culto del corpo morto, primo segnale di ogni civiltà. Altrimenti,

114
Curare la vita con la vita

perché gli scoiattoli delle Dolomiti rischierebbero la vita per


recuperare i corpi congelati, perché un soldato si ferma a aiutare il
compagno ferito a morire, perché mai sarebbe così importante
riavere almeno il corpo del familiare ucciso? Per seppellirlo con
onore. Il punto, mi sembra, non è temere il cambiamento e
l’innovazione, frenare il cosiddetto progresso, ma, piuttosto, il
punto è non impoverire la nostra cultura, la convivenza civile di noi
tutti. Non voglio contrastare i trapianti d’organo ma voglio che si
accentuino e si moltiplichino tutte le occasioni e il valore
dell’assistenza a chi sta morendo, che l’uso della cremazione cerchi
un suo proprio modo di celebrare il corpo morto, che la dimensione
laica del rito vada a fiorire secondo i suoi canoni e non si limiti a
togliere i petali al rito religioso abbandonato.

Per far sì che il cambiamento, auspicabile e bello e pieno di


speranza, della persona e della società sia un aggiungere, un
articolare, un far interagire nuovi modi con antiche condivisioni.
Affinché ci sia sempre più spazio per tutti, complicati e complessi
come siamo, alieni da una semplificazione incongrua che ci
renderebbe forse tutti un po’ più uguali in quanto tutti un po’ più
miserabili.

115
Curare la vita con la vita

Il presente nasce dal futuro

Tanto vale cominciare con una confessione: a scuola non sono mai
riuscita a padroneggiare la storia, la studiavo, ci provavo
ciclicamente a farmela piacere ma è sempre stata una inimicizia a
pelle, ci fronteggiavamo con reciproco disgusto e rancore, quello
che scaturisce dall’amarezza di non sentirsi amati. Ce la
intendevamo con il latino, la matematica, la fisica, il greco, con la
storia no. Ho provato a darmi le spiegazioni più varie: era fatta
tutta sulle guerre, le date mi innervosivano, non era ben
raccontata, non mi permetteva di curiosarci dentro…tutte
chiacchiere che non risolvevano nulla. Però, proprio all’opposto del
mio malanimo verso la storia, c’era una passione grande per le
storie, per i romanzi, per i racconti, le biografie e i resoconti di
viaggi. La narrativa, insomma, che consumavo con la velocità e il
disordine allegro e casuale tipici di quella età.

Poi, più grande e dopo aver fortunosamente sfangato i vari esami


di storia, ho riflettuto tanto sulla questione, ne ho individuato
almeno un paio di elementi ostici. Il primo era la rigidità in cui
venivano allineate le varie vicende, in uno schema di riferimento
che sapeva assai di compiaciuta verità: del tipo, ci ho lavorato
tanto, ho studiato un’infinità di testi e ora ti propongo la versione
vera, non ti affaticare a cercare altrove, te lo dico io. Tu studia e
apprendi la mia sequenza che è la migliore.

L’altro grave ostacolo era il sottostante, ovvio uso del principio di


causa ed effetto come principio elettivo ma mai effettivamente
eletto, un principio che regnava con assoluta, incontrastata
serenità. E anche contro questo ostacolo mi affaticavo inutilmente,
disgustata da questa falsamente modesta esibizione di verità e
della stretta ferma del corso della causa che produce l’effetto. La
matematica, la fisica, giostravano con le regole, le aggiravano, le
superavano con balzi logici che ne proponevano di nuove, era una
inventiva spregiudicata che addentava i problemi per costruire la
soluzione più logica/ elegante/ economica. Il latino e il greco
arabescavano sulla struttura rigorosa della sintassi, incrociavano
grammatica e semantica nella tensione costante di dire il nuovo per
condividerlo attraverso l’uso della lingua.

Ho ritrovato questa analoga pesantezza nel mio mestiere, lo


splendido nitore della psicoanalisi che ancora mi emoziona mi
sembrava immiserito quando, poi, si tiravano le fila del

116
Curare la vita con la vita

ragionamento: l’oggi è così perché un tempo, il presente discende


da un passato vincolante, cerchiamo nei ricordi, nelle esperienze
inattinte la chiave, la spiegazione, la risoluzione dei problemi, del
dolore, dei sintomi. Fino a delineare corrispondenze fra
sintomatologie ed eventi da ricercare nel passato in un disegno che
dall’iniziale aerea ipoteticità troppo spesso si è nel tempo irrigidito e
sclerotizzato in polverose linee guida. Mortificando l’inventiva, la
fantasia, l’emozione che cerca il nuovo, la spregiudicatezza
necessaria per ogni avventura, la curiosità irriverente che non si
quieta fino a che non è appagata. E mi sono detta: ma se
provassimo a capovolgere il discorso? Se il perché causale si
ribaltasse in a quale scopo? Come dire, se l’indagine sull’oggi la
leggessimo in funzione di un futuro, se movimenti, trasformazioni,
pensieri da tentare li orientassimo verso il domani, che
succederebbe? Tutta la struttura logica e concatenata della
sapienza terapeutica diventa uno strumento fondamentale per la
ricerca, come il sestante che ha permesso di navigare i mari e di
spingersi oltre i confini dati. Ecco, allora, che il passato si fa fastoso
serbatoio di dati, elementi, esperienze, pensieri, emozioni, a nostra
disposizione affinché possiamo maneggiarli per costruirci un
presente che guardi al futuro. Se ci pensiamo un attimo, non
potremmo neanche alzarci la mattina, non sapremo come vestirci
se non pensassimo a quello che ci aspetta nella giornata! Il nostro
guardaroba è certamente un’informazione vincolante, ci racconta le
nostre scelte passate, ci definisce nei gusti, è il nostro patrimonio
affinché, pensando all’oggi che svolgeremo nel tempo con incarichi,
attività, immaginandone dei tratti, curiosi o timorosi di quel che
avverrà nei fatti, possiamo scegliere che cosa indossare, come
presentarci a mondo, in un abito che ci permetta di incontrarlo
mentre noi ci riconosciamo dall’interno e, sull’apparenza sociale,
anche gli altri ci potranno riconoscere. Per fare qualcosa di nuovo e
di riconoscibile, assieme in quanto differenti. L’abito forse non fa il
monaco, nel senso che non basta l’abito a fare l’intero monaco,
certamente, occorre vestirlo il nostro abito affinché possiamo
essere riconosciuti. Ma scelgo l’abito in funzione di ciò che dovrò e
vorrò fare, l’abito che mi permetterà di traghettare dai dettagli
futuri che obbediranno alle previsioni a quegli improvvisi cambi di
scenari che desideriamo e che ci spaventano.

L’interpretazione di ciò che è successo, così pericolosamente


confinante con la verità oracolare, la lettura del cosiddetto
materiale si spostano, allora, dalla constatazione più o meno

117
Curare la vita con la vita

dolorosa, da una presa d’atto più o meno trasformativa allo


sguardo impaziente e curioso dei due protagonisti che si rivolgono
al buio del futuro per strapparne i veli che si apprestano a far sì che
possa accadere. Tengo da tempo nel mio studio uno di quegli
oggetti che giovani alternativi e con le treccine colorate vendevano
su bancarelle improvvisate. È una coppia di vetri trasparenti che
racchiudono, ben sigillate, delle sabbie colorate. A seconda di come
li muovi, le sabbie contenute fra i vetri si ridispongono in un
disegno inedito, puoi appoggiarli di lato, puoi metterli ritti: dentro
ai vetri, silenziosamente, la sabbia mescola i suoi elementi colorati,
i suoi granelli sgranati e forma una nuova costellazione. Cascate,
navi, monti e case, puoi leggerli come ognuno di noi racconta i suoi
pensieri leggendo le forme delle nuvole, o delle foglie del the. O dei
comportamenti. Sempre la lettura del mondo, degli eventi, dei gesti
e delle movenze riflette il nostro pensiero e ci regala in
contemporanea l’emozione profonda della scoperta. Vedere il volto
della madre nelle nuvole, come in un antico film di Woody Allen,
riconoscere nella sagome della sabbia un promontorio cui sono
agganciati tanti ricordi, ritrarsi con spavento dalla chiromante che
ci legge la mano o che lancia le conchiglie e là, nelle sue parole, ci
vediamo ritratti fin nei dettagli, ma anche il magico insight o quello
che Giampaolo Lai ha chiamato la felicità della conversazione, ogni
nostro movimento vitale lega stretto il mondo a noi e noi al mondo.
Lo sappiamo bene tutti, talvolta lo sappiamo di più, talvolta ci
sfugge un poco. A me sembra più utile raccogliere questo gomitolo
di noi e mondo e cominciare a districarlo con lo sguardo e il cuore
confidati al futuro, guidati dal desiderio e dal sogno, verso un
terreno altro da cui e verso cui possiamo, a nostro modo, utilizzare
il nostro passato. Che è nostro non perché noi gli apparteniamo ma
affinché possiamo disporne.

Forse era più semplice imparare la storia a tempo debito? Amo di


più le storie, per ora, ma domani chissà.

118
Curare la vita con la vita

Intimità e verginità

Ascoltavo David Grossman al festival della letteratura di Mantova, è


un autore che amo molto, un pensiero giovane che porta con sé
tradizioni millenarie con una particolarissima capacità di raccontare
questo difficile presente.

E Grossman diceva: in ogni rapporto importante, con il partner, con


i figli, con gli amici più cari e più vicini, occorre fare delle censure,
occorre non guardare e non vedere delle cose dell’altro e, se le hai
viste, occorre dimenticarle. Ogni rapporto importante, diceva, si
basa su questo accordo, in cui ciascuno sceglie di ricordare degli
aspetti e trascurarne altri, un forte pudore di sé e dell’altro che
permette e salvaguarda la profonda intimità. Ma con i personaggi di
cui si è scrittori, sorrideva, no, con quelli non è così, quando scrivi
devi lasciarti violare fino in fondo e loro si impadroniscono di te e tu
li racconti, non c’è pietà né pudore che ti protegga, non puoi, non
devi proteggerti. Ascoltavamo in tanti, eravamo persi in quel suo
porsi gentile, libero, drammatico nella sua leggerezza. E sono
andata a prendere il suo libro “Col corpo capisco”, (Mondatori,
Milano 2003). Il primo racconto non mi ha coinvolto più di tanto ma
il secondo, dio mio che bello! E c’è un brano che mi piace riportare
qui, un passo in cui Rotem, la figlia, interroga la madre, Nili, una
grande insegnante di yoga. E la insegue, avida di poter raggiungere
il suo cuore più profondo, chiede di poter essere accolta, o forse
solo toccare, quel suo inviolato segreto, quel suo punto vitale che le
è sempre stato negato. E, dolorante, Rotem dice: “La verità è che
lei ha sempre saputo proteggersi dalle sofferenze altrui. Chi la
conosce non ci crederà (…) Era un rivestimento trasparente,
spirituale naturalmente, ma molto robusto, che la avvolgeva
completamente e dentro il quale si rannicchiava. (…) Lei mi ha
spiegato che grazie a questo rivestimento, a questa barriera,
poteva donare se stessa agli altri, fluire senza limiti. Proprio perché
nessuno poteva attingere dalla sua forza. (…) Con grande onestà,
con un candore criminale, Nili mi ha spiegato che se avesse
permesso a qualcuno di penetrare, di attingere liberamente alle sue
forze, lei non sarebbe stata più la stessa. (…) Ma se dovessi avere
bisogno di tutte le tue forze, anche quelle che conservi laggiù? (…)
Lei (…) invece di una risposta, ha cercato di insegnarmi ancora una
volta a proteggere me stessa, a non permettere al dolore del
mondo, a qualsiasi altra cosa, di insinuarsi dentro di me. Nemmeno
al grande amore della tua vita, ripeteva, (…) nemmeno alla persona

119
Curare la vita con la vita

che di più ami al mondo. Poi sorrideva, quel sorriso stupendo,


ingenuo: nemmeno a me.”

È un passo drammatico, brutale eppure così vero, così terribilmente


e innocentemente vero. Così inevitabile in tutti i rapporti
profondamente affettivi e talmente indispensabile in questo nostro
mestiere. Perché poi è proprio questa inviolabile verginità che
permette di avviare l’intimità profonda, è proprio così che si può
accogliere e ospitare chiunque in un territorio pulito, libero dal
desideri e dalla memoria.

L’intimità più profonda non tollera ma si esprime nel silenzio, che


non è l’assenza di parola ma è il prima, il luogo profondo della
sensazione emotiva che non si può mettere in parola. L’innamorato
parla, scrive, descrive e declama, poi nel rapporto le parole citano e
descrivono le cose interne ed esterne che vengono condivise fino a
che le vite si definiscono più pienamente in sé, scorrono appaiate,
non più fuse se non per incontri di caduta abissale di intimità,
commoventi nel loro struggimento ma non perché nostalgici,
piuttosto perché sperimentano l’infinita intesa dentro il limite
strettissimo della parola. Ed è per questo che si parla di sé agli
estranei, alle persone con cui si è veramente in intimità le parole
troppo scoperte risultano indecenti.

Sappiamo benissimo come un’intimità semplice sia vietata quando


si è veramente molto vicini. Le frasi dei fidanzati sono quasi
impudiche in un rapporto forte, contemporaneamente troppe e
troppo poche, insoddisfacenti e lievemente irritanti. A questo
servono le distanze, a potersi nuovamente scrivere perché non
siamo lì quando l’altro legge. Diceva Philippe Daverio in una
intervista a Radio 3 scienze, accendi una radiolina in giardino e
dalla cucina ti sembrerà di ascoltare un pianista in diretta, metti su
un concerto di Chopin in soggiorno, in un sofisticato hi fi e ti
accorgerai comunque dell’artificiosità del mezzo che ha registrato.
Il luogo comune delle confidenze allo sconosciuto in treno, come la
scopata senza cerniera di Erica Jong, sono esperienze di tutti noi.
Parlare intimamente con un amico nella notte davanti a un fuoco ci
rende imbarazzati, distanti, forse anche un po’ rancorosi quando ci
ritroviamo a colazione. Non perché ci siamo aperti con lui, non
perché lui ci giudichi o si comporti in modo indelicato. No, perché
lui è anche altro, è un rapporto affettivo che continua, che
permane. Con le persone più care, più vicine, le parole sono
sempre allusioni, riferimenti a, così da non esserci nell’attimo in cui

120
Curare la vita con la vita

l’altro coglie il nostro essere. Da distogliere lo sguardo sperando


disperatamente di essere colti nel nostro intendimento più profondo
ma incapaci di poterci essere, con l’altro, in quell’istante decisivo.
Quando l’altro ci coglie e ci contiene nella sua persona, allora
possiamo abitarla nelle sue mani. Ma non nello stesso momento,
prima ci deve aver raccolto e dopo possiamo entrarvi.

I rapporti affettivi profondi contengono questi attimi di sconfinata


solitudine, che siamo noi ad abbracciare il segreto dell’altro o che,
ansiosi, attendiamo di essere contenuti nelle sue mani. Come
nell’incontro sessuale in cui ti cerchi nell’altro cercandolo senza
tregua. È per questo che nel nostro mestiere possiamo imbandire
ogni volta una totale intimità, è questo il senso dell’astinenza.
Eppure, resta comunque un dolore in fondo alla gola di non poterci
perdere l’uno nell’altro, assieme al terrore che veramente avvenga.
Perché non torneremmo più indietro.

Lo sgomento e la rabbia dei figli che vogliono forzare questa


verginità fa parte del dolore inevitabile, per loro e per noi. Per loro
(per noi tutti, figli) per essere restati al di fuori, per i genitori
nell’assistere alla sofferenza del saperli restati al di fuori e nella
struggente nostalgia di non poterli raggiungere. E anche per dovere
rinunciare a spiegarsi, raccontarsi, narrarsi come acque senza
controllo. Comunque non ci si incontrerebbe più di un tanto e forse
il danno sarebbe alto. E se ci incontrassimo veramente, se
realmente toccassimo il cuore dei figli e lo congiungessimo al
nostro, chi mai riuscirebbe più a staccarci?

Brava Nili e bravo Grossman, ma sarebbe pur bello se non avessero


ragione!

121
Curare la vita con la vita

La clinica e le donne

Qualche considerazione su un accoppiamento che sembra molto


naturale ma che a me sembra presentare dei passaggi non così
ovvi né trasparenti. Sia dal punto d’osservazione delle donne
psicoterapeute, sia da quello delle donne intese come “pazienti”
(termine che non amo ma qui lo uso per intenderci rapidamente, è
diffuso definisce così le persone che, cercando una relazione
migliore con se stessi, vanno a lavorare con i professionisti
chiamati terapeuti).

Perché questa sfumatura di preoccupazione? Beh, quel che mi gira


in testa è che le donne, noi donne, ci accostiamo all’esperienza
chiamata terapia tutto sommato a passo lieve. Qualche ruga di
ansia, il timore di scoprire chissà mai quali terribili cose al nostro
interno, un pudore impacciato, certo, ma nella sostanza non è
un’esperienza che ci risulta estranea. Gli anni dei gruppi di
autocoscienza ce li ricordiamo bene ma ben prima e dopo di questi,
in tutta la storia delle donne è presente il confidarsi, lo scoprirsi, il
rovesciare pensieri vuotandoli sul tavolo come se fossero il
portamonete racchiuso nell’incavo dei seni e poi riguardarli,
rigirarli, le dita delicate e impazienti assieme che si accavallano nel
comporre disegni e figure. Le donne, noi donne, scriviamo i diari,
facciamo le telefonate, prendiamoci un caffè perché ti devo parlare,
ci raccontiamo e raccontandoci svolgiamo davanti ai nostri occhi il
film delle emozioni, delle percezioni, dei nostri pensieri.

Forse una delle nostre competenze più abituali e diffuse, non a caso
archiviata dai maschietti nella sprezzante categoria delle
chiacchiere. Eppure, è proprio da qui che vorrei prendere le mosse:
troppo abituale, troppo diffusa, troppo femminile questa
competenza, tale che non ci sembra davvero di dover fare un salto
grandissimo “entrando”, come si dice, in terapia. E, allora, accade
spesso che esattamente questa facilità di giocarci nel rapporto ci
faccia velo alla necessità di un registro altro da attuare,
praticamente sovrapponibile ma con un filo di differenza che lo
rende sostanzialmente, radicalmente differente. Mi è capitato
spesso di sperimentare questa parete divisoria trasparente e in
gran parte indefinibile ma chi ci è passato credo sappia che cosa
intendo. Accade, allora, di trovarsi di fronte a una grandissima
difficoltà perché le parole stesse tradiscono il nostro pensiero
accoppiandosi velocemente con la predisposizione abituale alla
confidenza e nascondendo così il salto logico e relazionale che

122
Curare la vita con la vita

occorre per entrare a pieno titolo nel rapporto terapeutico. Mi è


capitato di sbattere contro questa parete e di ristare sconfitta, le
dita che accarezzavano e premevano e spingevano e tentavano
invano una trasparenza infrangibile. È stato allora che una donna
mia coetanea, di grande spessore umano e intellettuale, mi ha
lasciato dicendosi delusa della mia mancanza di coraggio nel
seguirla liberamente, che un’altra, importante ed impegnata, mi ha
bollato di volgarità, che quella ragazza un po’ invecchiata si è
risentita perché non mi ero preoccupata di chiamarla per sapere
come stava dopo che aveva interrotto i nostri incontri.
Evidentemente, il mio racconto sarebbe parallelo all’altro, ma non
voglio tanto ora analizzare o confrontare i diversi resoconti di
un’esperienza vissuta in comune. In questi casi, e in altri ancora
forse meno eclatanti o risolti con uno scarto che siamo state capaci
di dare al nostro rapporto, comunque mi era sembrato di trovarmi
di fronte a questa vitrea impossibilità di riuscire a intenderci.
Esperienza piuttosto dolorosa.

Ovviamente, lo stesso ostacolo possono trovarlo le donne che


praticano questo mestiere dalla parte del terapeuta. Con la
scioltezza dell’abitudine, talvolta, spesso, non ci accorgiamo che
non ci siamo preoccupate della necessità di partire da zero e non
da tre. Come accade alle nonne che non sanno imparare
nuovamente dalle madri. Dice con intelligenza chiara Daniela: un
capomastro, abile nel suo mestiere, può arrivare a diventare più
abile, abilissimo, ma non ha l’apertura delle opzioni di chi comincia
da zero per imparare il mestiere. Ce lo ha raccontato Massimo
Troisi, ce lo mostrano le linee che si divaricano: la maggiore
apertura richiede una partenza non più grande di un piccolissimo
punto per una forbice ampia, generosa. Come dire che la
predisposizione femminile a confidarsi è una sorta di “falso amico”
come accade nelle lingue vicine, sorelle? Sì, un po’ così, tanti, mille
punti di contatto che troppo spesso costringono a un
accoppiamento che non richieda stupore, che scorra via facilmente.
Da questo punto di vista, è ben vero che gli uomini si servono con
minore frequenza delle nostre pregiate professionalità ma, quando
decidono di usarle, spesso accade che si accostino agli incontri
terapeutici con una seria, composta attenzione a capire, vedere,
adeguarsi a regole che pensano di non conoscere e, dunque, si
predispongono ad imparare. Lavorare con le donne è più facile,
sembra richiedere un grado minore di estraniamento dal nostro
modo di essere persona eppure penso che sia più scivoloso, che più

123
Curare la vita con la vita

di frequente occorra testare se ci stiamo adagiando in un agevole


rapportarsi di cui conosciamo bene dettagli minuti, sequenze,
sorrisi, complicità. Lavorare con un uomo è diversamente facile, c’è
un gusto speciale nel riuscire a costruire con un uomo una intimità
d’intesa che non travalica il rispetto pudico per trasformarsi in
complicità. Siamo più avvertite, noi donne che facciamo le psico,
quando ci rapportiamo con un uomo e, forse, l’attenzione che
dedichiamo rende più semplice procedere assieme, senza
slittamenti o sbandamenti verso registri incongrui con il nostro
lavoro.

E, ancora, tanto per non tralasciare di massacrarci aggiungendo


difficoltà a difficoltà, lo stesso ambito terapeutico trascina verso un
ruolo ben codificato da chissà quanto: basta ricordare i termini
cura, rispetto, intimità, malattia, sofferenza, dolore, rapporto,
disponibilità, conversazione..., termini che rimandano
immediatamente a una cultura che tradizionalmente viene abitata
dalle donne. Le mani fresche e leggere che consolano il sofferente,
l’esposizione delle piaghe da curare, l’esperienza antica del dolore
negli occhi di chi si prende cura, come non riconoscere i tratti delle
suore cappellone negli ospedali, delle infermiere di guerra, delle
madri, delle spose, delle nonne che proteggono e curano parlando
piano fino a che il pianto si acquieta? È proprio questo, appunto, il
pericolo troppo trascurato, una professione cui le donne dovrebbero
dedicarsi per naturale predisposizione, rischiando di non impararlo
mai realmente ex novo, cui gli uomini possono dedicarsi spostando
il loro polo naturale inclinandolo verso un universo altro dal mondo
maschile, capaci, dunque, di cominciare ad apprenderlo ma
rischiando, a loro volta, di fraintendere una necessità di adeguarsi a
un ambiente che sentono pregiudizialmente aperto alle donne. Sì
che nel tentativo di femminilizzare il loro intervento per avere il
diritto di libera circolazione, finiscono per trattenere con redini
forzate la loro mascolinità operando una sorta di devirilizzazione:
atteggiamento un poco mesto e pensoso, voce controllata, spalle
curve, un sentore di sofferenza tutto attorno.

Impersonare la funzione paterna è scivoloso per gli uomini quanto


reggere la funzione materna per le donne ma si respira per gli
uomini e per le donne una qualche tristezza di costrizione: quando
ridono gli psico? L’allegria è strumento da utilizzare? La sofferenza
va omaggiata con il rispetto di un tono sottomesso?

124
Curare la vita con la vita

Non sarà che abbiamo bisogno anche nel nostro lavoro di cogliere e
realizzare una più attuale definizione dei sessi? Maneggiando con
nuova e diversa attenzione lo scambio e lo scarto fra le nostre
competenze “date” e le necessità richieste dall’esercizio
professionale? Potremmo provare a ricominciare a ragionarci con la
spregiudicatezza che esige l’avvento di un nuovo secolo, di un
nuovo millennio? Magari giurando che lasceremo comunque (per un
po’!) intatti i posti dirigenziali agli uomini?

125
Curare la vita con la vita

La curva a tocchettini

Questo titolo ha una storia. Tanti anni fa, c’era il sole un po’
freddoloso di inizio primavera, ero in macchina, diretti da qualche
parte ma non ricordo assolutamente dove e tanto meno il perché.
Ricordo, però, il conducente dell’auto, un ragazzo alto, magro, con
gli occhi verdi stretti e le mani grandi. Allora ero troppo giovane per
avere la patente e lui faceva un po’ di scena, fiero della sua abilità.
Vedi, mi diceva con voluta noncuranza, il punto è come si prendono
le curve, se si tengono le mani sul volante seguendo l’andamento
della curva, (e lo mostrava, imboccando la curva con le mani ben
salde) va a finire che ci si ritrova con il corpo sbilanciato e le mani
impastoiate in una posa poco comoda (ed eccolo là che pende
verso il finestrino, i polsi torti a seguire la curva). Poi mi guarda,
per vedere l’effetto della mini pantomima, e continua, invece tu
non devi mai essere in curva, è pericoloso, hai visto?, devi essere
sempre in asse anche mentre stai eseguendo una curva, cioè la
prendi a tocchettini, curvi un attimo e raddrizzi il volante, poi
ancora una sterzata e ancora raddrizzi, così, e mi mostrava. Sarà
che è stato efficace nella dimostrazione, sarà che mi sembrava
bellissimo, fatto è che ho custodito l’idea della curva a tocchettini
come icona di un modo di procedere in sicurezza, nella professione
e non solo.

Da quella immagine lontana ho mantenuto il modo di frammentare


il tempo, così che ogni istante si caratterizza come unità autonoma:
se ho seguito troppo la curva e sono sbilanciata, è rapido il
movimento che riassesta la postura, se ho fatto un intervento che
non mi piace o che mi sembra non sia piaciuto al mio interlocutore,
faccio in fretta a ritirarmi, a mutare proposta, a cercare
diversamente una intesa per me indispensabile. Ovviamente, se il
disappunto dell’altro, o mio, mi coglie di sorpresa: accade che nel
mio lavoro ritenga di dover risultare faticosa, difficile da trovare,
magari oppositiva o complicata, cerco che accada il meno possibile
ma non mi ci sottraggo. Ma certo che se fraziono lo spostamento in
tocchettini mi è agevole ritornare in asse, scusandomi, spiegando
quel che avevo voluto intendere, verificando se il disappunto che mi
è parso di cogliere è arrivato così anche all’altro.

Anche per questo cerco di imparare ogni anno un giocattolo nuovo


per ampliare la gamma degli strumenti a mia disposizione, anche
per questo sono tanto fissata con la precisione della tecnica da
usare in ogni dettaglio, anche per questo racchiudo l’istante

126
Curare la vita con la vita

successivo in una serie di cerchi concentrici ognuno dei quali ha un


suo sistema di sicurezza: se anche non dovessi avere successo
potrei sopravvivere? Se anche oggi non va poi tanto bene
l’incontro, l’altro se ne andrebbe via? Potrei mantenere
un’autostima professionale anche se l’altro se ne andasse? E così
via, come quando si verificano le macchine, appunto, prima di
mettersi in viaggio. Se sappiamo che consuma molto olio ce ne
portiamo una lattina, se scalda tanto il motore ecco la bottiglia
dell’acqua da rabboccare, se la strada fosse brutta posso fermarmi
e casomai tornare indietro, se non so come procedere chiederò.

Fatti i controlli, sono finalmente libera di salire sull’auto, libera di


guidare perché libera da pensieri o preoccupazioni che mi
intralcerebbero il movimento con la loro presenza importuna.
Seguo l’andamento dei tornanti restando sempre bene in asse, per
cogliere l’intesa con l’altro ho bisogno di avere tutta la scioltezza
possibile e solo così il mio lavoro mi rende felice. Dice: e quando
fori? Quando foro ne prendo atto e scendo cambiare la ruota, so di
avere a posto quella di scorta e anche allora a consolarmi c’è un
ricordo lontano di un altro amico che quando forava, fermava con
calma, accendeva la radio, cambiava la ruota e poi si toglieva il
grasso dalle dita con dei fazzolettini detergenti di cui aveva sempre
una scatola con sé. In verità, io mi sporco molto quando debbo
cambiare una ruota che ho bucato ma, se appena mi riesce, la
radio l’accendo.

127
Curare la vita con la vita

Alle madri di maschi

Con questa dedica Ann ha inviato questa poesia di Mary Carr che
ha tradotto per noi, la riporto di seguito:

Entrando nel Regno.


Quando del figlio si allungarono le ossa
e crebbe il cuore e la mente,
un giorno sua madre mancò
di riconoscersi in lui.
Era diventato un uomo, che irradiava
l'innata solitudine degli uomini.

Da allora in poi
la sua espressione
le fu un enigma. Quando sull'orlo
del sonno i suoi lineamenti
si ammorbidivano infantilmente,
era un istante.
Poteva solo stringere
la sua ampia spalla.

Cosa avrebbe
potuto insegnargli
della Perdita,
proprio a lui che ora l'infliggeva, entrando
nel regno della sua
propria volontà?

Già, le madri di maschi si trovano a impattare una virilità difficile,


capovolta e ripetuta come in una clessidra con quella del padre del
ragazzo. Capita, così, che lo stesso moto d’insofferenza o magari di
violenza appena trattenuta, proprio quello stesso che si trovava
insopportabile nell’uomo divenga occasione di un compiacimento
segreto da contemplare nel figlio. Oppure, un comportamento da
stroncare, subito, duramente, sì che neanche prenda terreno la sola
idea della crescita, della trasformazione del ragazzo ancora quasi
bambino in uomo, dell’assottigliarsi delle rotondità in muscoli
lunghi, di capricci lagnosi che evolvono in affermazioni secche di
una volontà tutta nuova. Le donne italiane maneggiano con
incertezza la mascolinità del figlio quanto sono confuse e
contraddittorie nei confronti dell’uomo.

128
Curare la vita con la vita

C’è come uno sconcerto, talvolta diventa furia nella scoperta


improvvisa di ritrovarsi in trappola, di fronte a uomini accomodanti
e cedevoli che cercano solo di potersene stare in pace, senza
ambizioni complicate o desideri faticosi. Che vorrebbero vivere
tranquilli mentre, e quanto più, la loro compagna è tutto un fiorire
di proposte e di iniziative. Che loro non contrastano, no, si limitano
a chiedere di esserne esentati, restano senza rancore né gelosia
davanti al televisore o al computer. Uomini che sembrano
scimmiottare la comprensione e la disponibilità tradizionalmente
attribuita alle donne, ripetendo la caricatura triste di chi pretende
femminilizzato un uomo privato degli attributi maschili, certo,
l’abitudine così antica ma ancora sotto pelle di pensare le donne
come “uomini senza”. Uomini che vengono definiti “tanto sensibili”
ma che sembrano aver dimenticato certe durezze che
accompagnano la mascolinità e, quasi, direttamente la mascolinità
stessa. Mi diceva, una volta, una donna che nel suo amore per le
donne aveva spesso nostalgia delle labbra dure di un uomo. Perfino
la collera, un tempo attributo quasi sacrale, sembra oggi desueta,
perfino come parola, malamente sostituita da rabbia, scatto di
nervi, furori umorali, vogliamo dirlo? isterici, appunto, propri
dell’utero. Che drammaticamente si stravolgono in vere e proprie
violenze, verbali, fisiche, esplosioni incontrollate senza alcun senso
utilizzabile, da parte di nessuno.

E di cui, a buon bisogno, viene attribuita responsabilità e colpa alla


donna stessa che ha voluto troppo, che mette in difficoltà il
compagno perché capace e competitiva, perché di successo, perché
guadagna e si diverte e ha cento amici e mille interessi. Che
pretende, perfino, di avere un rapporto sessuale pieno,
soddisfacente, invece di adattarsi, comprensiva e riservata. Quante
volte mi è capitato di assistere a pianti umiliati e brucianti di donne
che nel mio studio si dibattevano in questa morsa, sapendo bene
come sarebbe stato semplice lasciare il rapporto eppure decise a
incaponirsi, a stanarlo, a far emergere infine l’uomo nel loro
compagno!

Tutto questo è ben presente nelle madri dei maschi che li vedono
crescere con un’ansia dibattuta fra il volerli modellati secondo le
esigenze femministe e la necessità che, all’opposto, vengano
coltivate e fatte crescere le caratteristiche “maschili”. Fra nostalgie
di un assetto ancora estremamente recente, in cui il passo si
muove sicuro su tracce ben note, con ruoli distinti e reciprocamente
specchiati e la voglia, la speranza di un assetto nuovo, dell’avvento

129
Curare la vita con la vita

di un mondo di persone, di pari, uomini e donne che si affiancano,


si scambiano, collaborano e si scontrano, nel segno della dignità,
della responsabilità vitale, lontana dal mesto senso di colpa, donne
e uomini che si scoprono uno nell’altro, che si distinguono senza
dovere prendere le distanze, che riprendono a conoscere la gioia,
l’allegria, l’impegno, il fare assieme, la progettazione e le mani sul
futuro. I maschietti di una scuola materna che inseguono una
bambina e la chiudono nell’angolo sono dei futuri violentatori, da
redarguire con fermezza inequivoca fino a che si è in tempo oppure
sono dei bambinetti che stanno liberamente dando sfogo a istinti
sacrosanti? Che si dice al faccino sollevato e interrogativo di un
piccolo di tre anni? Che non si azzardi mai più, che non è sportivo
perché non era solo, che vada a chiedere scusa alla bambina, che
penseremo noi a scusarci con i genitori, che non frequenti mai più
quei bambini cattivi che gli fanno fare quelle brutte cose, che cosa
si dice a vostro figlio che attende di sapere dalla madre che cosa
deve pensare di ciò che ha fatto? Un po’ come protestare quando
vostro figlio al parco giochi gridando: è mio! strappa il suo
giocattolo dal bambino che l’aveva raccolto da terra. Un subbuglio
di pensieri, emozioni, ideologie, praticità: no, non è tuo, è solo un
giocattolo, dai, prestaglielo per un po’, bambino glielo puoi ridare
che dobbiamo andare, facciamo uno scambio, vuoi un gelato? Che
cosa si dice, che cosa si deve dire? E che fare della richiesta
profonda di ogni figlio di avere la madre sempre e comunque al suo
fianco se non dalla sua parte? Negandoci in nome dell’equità o
dell’esame di realtà, ne facciamo dei bambocci mammoni, dei
prepotenti che la ottengono a ogni costo o degli adulti deprivati di
quella solida, basilare certezza di essere comunque amabili e
amati?

Il re del Marocco vuole incrementare la cultura delle sue donne


perché, dice, sono le madri a crescere i figli e quanto più
aumenterà la loro cultura tanto maggiore sarà la grandezza
d’animo dei loro figli, dei cittadini. Credo che le donne di oggi
debbano nuovamente scoprire una stima per l’uomo, non so bene
come funzioni in altri paesi ma a me sembra che in Italia il rapporto
fra la donna e l’uomo sia un poco strano, anzi, particolare come si
dice abitualmente intendendo, con un’occhiata significativa,
alludere a chissà poi che cosa. Strano per un’intricata rete di legami
che da una parte pendono verso una devozione timorosa e
compiacente e, dall’altro, sfociano in aperto disprezzo. La donna
italiana (almeno fino alla mia generazione ma ne colgo tracce

130
Curare la vita con la vita

significative anche sulle ventenni) sogguarda in tralice il suo uomo,


sempre pronta a percepire un suo eventuale malumore, lo
tormenta chiedendogli mille volte “che cos’hai?” oppure “a che cosa
pensi?”, cerca di sondarne l’intimo, disperatamente interessata a
ciò che gli accade dentro. Per amore, si direbbe, no?, perché lui è il
centro del suo universo, perché lei è la moderna geisha che non si
occupa di massaggiargli i piedi (almeno non tutte!) ma è dell’animo
che si prende cura amorosa. Pronta a farsi stuoino, sembrerebbe,
per le sue esigenze: vuoi parlarmi del tuo lavoro?, vuoi un po’ più
di sale?, non hai freddo senza maniche?, hai sentito oggi tua
madre? Che intollerabile condiscendenza, un servilismo umiliante in
gran parte orientato a disinnescare la violenza temuta di lui: fisica
(e quanto!), verbale, il suono alto della voce che grida, le spalle di
lei che si chiudono, la voce di lui che si arrochisce per la furia che
monta, lei che volge il viso come a stornare da sé l’aggressione,
raccoglie le stoviglie, stira con le dita la tovaglia, rifugi modesti di
un quotidiano domestico che fedelmente la riconosce.

Sono scene che sappiamo da sempre (anche se ogni volta ci


stringono d’angoscia rinnovata), le donne se le raccontano,
consolano, accolgono in abbracci e carezze tenere la donna e
l’amica, affastellano considerazioni trite rassicuranti e inoppugnabili
proprio nella loro stolida banalità e, poi, scaduto il tempo, sciolgono
il cerchio che le proteggeva e tornano sole, ciascuna a rivestire il
suo chimono stropicciato. Allora, questa versione la conosco, la
conosciamo da tanto tempo, il refrain dell’uomo prevaricatore
l’abbiamo spolpato fino all’ultimo impostandovi su rivendicazioni
femministe di ogni genere e qualità, diversamente capaci di
produrre risultati ma che tutte, nella loro gamma variegata,
riconosco e faccio mie anche oggi. Semplicemente, propongo di
aggiungere un altro punto di vista mirato a cogliere le nostre
partecipazioni al perpetuarsi di un circuito brutto e maligno, anche
perché, banalmente, mi appare improbabile affidarsi alla capacità
maschile di modificare un canovaccio da cui, in prima battuta,
risulterebbe trarre vantaggio.

E, appunto, il vantaggio è solo sul piano del cosiddetto potere


sociale ma la pesantissima contropartita è il disprezzo con cui le
donne valutano l’uomo italiano: ragazzone, semplice nei suoi
pensieri fino a rasentare una rigida stupidità, violento in quanto
incapace di vincere altrimenti sulla donna, sostanzialmente un
bambino mal cresciuto da accudire, frenare, educare,
perennemente incompetente nel vivere. Non sa scegliersi i vestiti

131
Curare la vita con la vita

(la donna governante), non sa tenere la casa (la donna domestica),


non sa maneggiare i figli (dammelo qua che piange), si imbrana nei
rapporti (la padrona di casa che entra trionfalmente con le
lasagne), viene mandato ogni giorno fuori di casa a lavorare (e non
diciamo ai nostri figli che la scuola è il loro lavoro?) e ne ritorna
“stressato” (come odio questa parola, onnicomprensiva e sterile
quanto il senso di colpa!), un bambino in più che la donna
superwoman deve allevare con infinita pazienza (io sono buona e
cara, ma se mi arrabbio è la fine). Come è stato detto che per
molto tempo la donna non ha saputo trovare un suo stile femminile
nel lavoro, così, analogamente, i giovani padri al parco giochi, quelli
al supermercato con il figlio nello zaino, i single non hanno ancora
trovato un loro stile maschile, ripetono movenze e comportamenti
femminili da sempre. Nulla di male, in verità, ma come è fatto un
padre di oggi che non sia un mammo? Come fa la spesa un vero
uomo che non sia Batman né Schwarzenegger?

Le più giovani generazioni vedono maschietti sempre


maggiormente privi dei segni del maschio adulto: avete notato che
i trentenni di oggi non hanno più capelli?, che sono efebici nella loro
dinoccolatura?, che usano frasi sempre più semplici, elementari
nella loro gergalità?, che a quarant’anni sono già disinteressati ai
rapporti sessuali? E non è perché, intimiditi da questa novella
virago, la vagina dentata di tanti studi (maschili), si ritraggono
spuntando e amputando la loro virilità cercando da eunuchi la
protezione sicura dell’harem, ma è perché divengono sempre di più
simili al bambino che, notoriamente, è privo di sesso. Non accade
così per le ragazze, non sono efebiche, magari anoressiche ma è
veramente un altro discorso.

Che voglio dire, dove voglio andare a parare? molto


semplicemente, fino a che non spezzeremo il terribile circuito per
cui l’uomo è un figlio mal cresciuto (la Badinter scriveva anni fa che
ogni maschio deve dimostrare 1) di essere cresciuto, 2) di essersi
staccato dalla mamma, 3) di non essere gay; tutte richieste che
non vengono rivolte alle donne) saremo anche noi donne a
perpetuare, molto più che solo una tragica disparità sociale, una
ugualmente tragica incompletezza nel rapporto fra i sessi: non si
può, non si deve andare a letto con il proprio figlio, ma il compagno
adulto dov’è? E se è il figlio di mamma, beh le mamme italiche,
pettone e accudenti, non sanno neanche dov’è di casa il rispetto e
la stima per i figli: loro proprietà inalienabile, ne fanno l’uso di un
oggetto: possono prestarli, mandarli in giro, affidarli a un lavoro

132
Curare la vita con la vita

che li tenga impegnati ma stima, perché mai? Una madre risponde


a una persona che critica il figlio: “beh, che devo farci se ho fatto
un figlio deficiente?” attenzione: l’ha fatto lei deficiente, non gli
vien riconosciuta nemmeno la capacità di essere deficiente in
proprio, come ribattevamo a nostra madre sulle cattive compagnie:
non ci valuti capaci neppure di perderci in proprio, ci vogliono le
cattive compagnie per traviarci? Di mancanza di stima si può
morire dentro ben di più che di mancanza d’amore, non è ora di
finirla con questi asili d’infanzia sempre pieni, in cui non c’è più
posto per accogliere i piccoli veri, con l’età giusta?

Oppure vogliamo continuare dolorosamente a vedere i nostri figli


entrare nel Regno, al seguito del guerrafondaio di turno?

133
Curare la vita con la vita

Lei o lui?

Un fatto che mi sembra sempre singolare è l’obbligo cui tutti più o


meno obbediamo di scegliere uno su due, di fare graduatorie, di
comparare prendendo le misure, di elicitare il vincente definendo
perdenti l’altro o gli altri. Sembra che non siamo capaci (o abilitati)
a considerare la coppia, (l’insieme, il gruppo) vedendone
chiaramente i membri, apprezzare le qualità dell’una o dell’altro
senza che il giudizio debba necessariamente capovolgersi in
constatazione di vuoti o demeriti dell’altro.

Mi spiego, se si parla di una donna che ha avuto successo, che ha


concluso bene una attività, che è stata brava con un pubblico
riconoscimento, che ha gestito un affare difficile in maniera
eccellente, subito dopo l’apprezzamento ecco comparire il sorrisetto
o la battuta sarcastica sul suo compagno: ma l’hai visto, a quella
premiazione, costretto a fare il principe consorte? Poveretto,
convivere con una manager, non lo invidio certo, magari deve
anche cucinare e tenere i bambini, con lei che porta i pantaloni in
casa, e poi si lamentano se i matrimoni saltano e dicono che di
maschi di un tempo non se ne trovano più. Oppure, se è lui il
vincente, ecco la compassione per doversi tenere quella moglie così
limitata, che fa rappresentanza ma per piacere non la fate parlare!
D’altronde, è ancora carina, doveva essere una bellezza da
giovane, da ragazzi si va dietro l’amore e poi lui è bravo, forse si
prende qualche svogliatura ma in fondo è discreto,...

Quello che mi colpisce è l’inclinazione su cui scivola


immediatamente il nostro pensare, perché magari non lo diciamo
apertamente ma il pensiero si forma quasi da solo ed è lì, bello
chiaro e ben leggibile. Un riflesso automatico che, sia pur
prescindendo per ora dalle sacrosante diatribe e filippiche sul
femminismo, certamente condiziona i nostri rapporti ma,
soprattutto, sarebbe apertamente smentito dalla nostra esperienza
quotidiana. I nostri amici, quelli che invitiamo a cena o con cui ci
confrontiamo, quelli che ci consolano e ci confortano nella fatica del
vivere, raramente formano coppie così squilibrate. O, meglio,
raramente formano coppie in cui il pieno dell’uno debba
obbligatoriamente corrispondere al vuoto dell’altro. Sembra un’eco
della drammatica confusione fra parità e uguaglianza, sembra che
comunque per tranquillizzarci la nostra sommatoria debba avere
risultato zero. Ma perché mai? E quanto ci costa in termini di libertà
di pensiero, di gestione delle nostre emozioni, dei nostri

134
Curare la vita con la vita

sentimenti? Quanto ci vincola e ci anchilosa un’idea del gioco


relazionale e sociale pensato solo come una gara, un giudizio, una
selezione estenuante? E quanto ci mette a rischio anche per quanto
riguarda noi stessi?

È ovvio che esistono i conflitti, le discriminazioni, le lotte di


conquista, il tentativo di sopraffare il parere dell’altro, di spuntarla
sulla collocazione dell’armadio, la scuola dei figli, la dieta, il modo
di curarsi, se va chiusa la chiavetta del gas e abbassati gli
avvolgibili la sera, se si deve dormire con la finestra aperta o
chiusa, se la mia mamma è meglio o peggio della tua, l’uso del
denaro (chi è il risparmiatore e chi scialacqua? Chi spende con
oculatezza e chi è troppo di classe per badare agli spiccioli?), la
politica, la spiritualità, le credenze, i sogni. Né certamente
propongo o auspico un’armonia ininterrotta, no, semplicemente mi
chiedo come potremmo essere nei rapporti se sapessimo concepire
il successo contemporaneo dell’una e dell’altro, quale ne sarebbe il
costo sociale e personale oltre ai vantaggi che mi appaiono più
facilmente.

Forse, si potrebbe immaginare di rendere dinamica questa


costrizione, lasciare che la luce di un partner richieda il temporaneo
oscurarsi dell’altro e poi mutare la messa a fuoco, forse ciò che mi
appare faticoso e pesante è la persistenza monotona del punto di
vista. Come nei tarocchi, la carta del mondo in cui s’inseguono e
mai si raggiungono ma ambedue corrono. Forse, allora, affrettando
ogni volta un poco di più lo scambio del gioco figura sfondo,
abbreviando i tempi, chissà mai che ci abituiamo a saper tollerare
una contemplazione in cui il valore dell’uno si appoggi su quello
dell’altro e non debba spiccare su di un vuoto. Si dice, certo, che
dietro il successo di un grand’uomo c’è una gran donna ma
sapremmo realmente pensarlo e dirlo anche per il successo di una
donna senza che questo le apporti una certa diminuzione di valore?
Difficile, se ancora oggi è così impervio che una donna possa
semplicemente offrire un caffè a un uomo senza imbarazzo
reciproco. Galateo, ruoli sociali, d’accordo, e tutti i mille timori di
una perequazione che sfili i perni centrali della convivenza eppure
come possiamo non considerarla una questione essenziale dei
nostri tempi?

Sempre la Mastretta (e non metteremmo l’articolo per un uomo!)


scriveva acida: perché al compagno di una donna ambasciatrice
non viene mai proposto di visitare un istituto di beneficenza?

135
Curare la vita con la vita

Perché non ne siamo capaci, Angeles, perché ci stride in mano e in


testa una proposta così semplice, perché anche noi donne in fondo
non credo che lo vorremmo. Perché vorremmo al nostro fianco, nel
momento del successo, non un mesto principe consorte (costretto,
magari, come Filippo d’Inghilterra a vendicarsi prendendo a calci i
cani della consorte) ma un uomo di cui essere fiere. Perché la pari
dignità non passa, non può passare attraverso lo scacco del
vincitore di ieri. Per quanto violento, sopraffattore, sfruttatore e
becero sia stato, non è più il tempo di fargliela pagare, questo
credo che noi femministe vintage l‘abbiamo dovuto e saputo
finalmente comprendere fino al nocciolo più legnoso: non funziona
così, o, meglio, se funziona così non ci appaga. Non è la sconfitta
dell’altro il nostro risarcimento, non è questo che frantuma il tetto
di cristallo. Sarebbe ancora il gioco antico che ci ha fatto tanto
soffrire. Ma un gioco altro che non si concluda con un vincitore e
uno sconfitto richiede un pensiero che sappia accogliere una vittoria
di ambedue.

E, poi, forse, la vittoria per l’una o per l’altro ha lineamenti


differenti. Forse, ma bisognerebbe ragionarci un po’ su, forse quello
che cercano le donne è la stima più che l’amore mentre gli uomini
hanno più bisogno, nello scambio, di ottenere l’amore. So bene
come è difficile districare questi due valori ma è una questione di
accentuazione. Nel sociale, il successo si chiama prevalentemente
stima, nell’ambito privato amore. E se vogliamo rendere più
facilmente comunicabili questi due mondi (il privato è politico
dicevamo nel lontano e mai dimenticato ’68) forse occorre che ne
cogliamo a fondo i linguaggi differenti per saperli tradurre da un
mondo all’altro. Sono di uomini i grandi romanzi d’amore, anche se
le protagoniste possono essere donne ma se le donne sono quelle
da cui si cerca la conferma d’amore, non è detto che anche per loro
sia questo l’obiettivo vitale. Questo sì che è un pensiero maschile:
se questo è per me il bene più importante, lo sarà sicuramente
anche per te. Ma se si può vivere, per quanto dolorosamente,
senza amore, non si può calcare la terra senza stima, senza essere
legittimati a vivere, riconosciuti. Forse, nel lungo deteriorarsi di una
inizialmente trionfante e festosa rivendicazione di diritti per le
donne, la nostra società più che femminilizzata si è devirilizzata.
Non riuscendo ad acquisire e assimilare il pensiero femminile, ha
smussato i tratti maschili ripetendo il terribile assunto che un uomo
privato della mascolinità è sostanzialmente una femmina. Equivoco
tragico e violento che ha murato il dire femminile distorcendone

136
Curare la vita con la vita

senso e significato. Sì che alla richiesta di autorevolezza, stima,


visibilità nel sociale si è creduto di rispondere in eco beffarda con
proposte di armonia, infantilizzazioni, accudimenti estetici, cosmesi
da parte del mondo maschile. Femminielli nel sociale, sempre più
apertamente violenti nel privato, in una escalation drammatica di
fraintendimenti reciproci che hanno finito per mettere in ridicolo, e
dunque tacitare, le istanze di una parità. Nata gioiosa e combattiva,
la parità delle donne e degli uomini è divenuta faticosa e dolente
come un livido che fa male solo a sfiorarlo. Un discorso inacidito
che richiede oggi pensieri e parole differenti, freschi, inusuali.
Anche da parte delle donne, se non soprattutto da parte loro. Da
parte nostra.

137
Curare la vita con la vita

La lingua mochena

Ero a Trento, svolgevamo un programma interessante che


coinvolgeva l’intero complesso delle scuole materne, uno dei
classici fiori all’occhiello della Provincia. E giustamente, è una realtà
antica che comprende praticamente tutti i bambini del territorio
trentino con una esperienza consolidata capace di non immusonirsi
nella ripetitività degli anni ma ancora curiosa di assaggiare il non
esplorato, di ripensare diversamente il già noto. Bene, il
programma triennale, appunto, prevedeva di prendere in esame il
riflesso dell’organizzazione della scuola materna sulla relazione con
il bambino, per cui giravo in tutte le scuole della Provincia per
cogliere le particolari caratteristiche di ciascuna e intersecarle con
le linee comuni, dichiarate, volute o reali che fossero. Un giorno,
studiando con le insegnanti i dati di un distretto, mi imbatto nella
questione della lingua mochena che ignoravo completamente. Si
trattava di un lembo di terra delle valli trentine dove si parlava, un
tempo, la lingua mochena e la questione, evidentemente, era cosa
farne, come conservarla (era un patrimonio culturale, non dello
stesso rango del ladino ma insomma...), come articolarla con
l’insegnamento della lingua italiana, sciogliere gli inevitabili nodi
burocratici e organizzativi. Già, perché per garantire i diritti dei
piccoli cittadini del luogo occorrevano insegnanti che parlassero la
lingua mochena, non una sola, però, per scuola, doveva essere
assicurato il ricambio o la sostituzione in caso di malattia. Sì, ma
secondo le norme condivise ci voleva anche personale di servizio
che sapesse e parlasse il mocheno, però ne basta una di persona
per scuola? Sì, ne basta una, il problema era trovarla e poi
verificarne la padronanza della lingua, che problema è?, beh, ci
vorrebbero dei membri della commissione esaminatrice che
assegna gli incarichi capaci di parlare il mocheno, anzi così esperti
da saper controllare la conoscenza degli esaminandi. Perché è così
difficile?, chiedevo, affascinata da un tema di cui non sapevo nulla,
perché, mi spiegano con gentilezza, la lingua mochena non è
scritta, è solo orale, non ci sono testi da studiare né verifiche
immaginabili, ma il problema è ancora un altro, interviene una
insegnante simpatica con begli occhi che ti guardano con
franchezza, il problema è che i genitori dei bambini non vogliono
che i loro figli parlino quello che ritengono solo un dialetto, vogliono
che i figli parlino, e bene, l’italiano. È vero, ribatte l’altra alla mia
sinistra, la coda di cavallo che danza accompagnando la sua foga,
ma infatti dalle elementari in poi insegniamo solo l’italiano. Pacata,

138
Curare la vita con la vita

la responsabile dell’organizzazione ci espone il prospetto dei costi,


altissimi, dell’operazione “lingua mochena”. Dunque, riassumo per
me silenziosamente, i genitori non vogliono che i figli la parlino, il
costo è alto tale da sottrarre risorse ad altro anche nella ricchissima
provincia autonoma, la verifica praticamente impossibile, il tempo
di esposizione per i piccoli ristretto ai tre anni della frequenza alla
scuola materna, privilegiare la conoscenza del mocheno significa
anche condizionare pesantemente le graduatorie per assumere il
personale rischiando oggettive ingiustizie, ne vale la pena? E,
silenziosamente, mi rispondo: e chi ha il diritto di cancellare una
lingua dal consesso culturale di un luogo? Oggi non facciamo follie
estatiche per il ladino dedicandogli istituti e corsi di studio
prestigiosi? Non ci emozioniamo quando possiamo accedere a
squarci di culture che pensavamo sepolte o di cui non conoscevamo
neppure l’esistenza? Chi può decretare che il mocheno non serve
più? Solo per l’esilità della sua presenza nel territorio, trentino e,
peggio ancora, nazionale? In una regione che non ama poi così
tanto la nazione di cui fa fatica a considerarsi parte integrante, non
dovremmo sostenere l’italiano senza confusioni? Ma questo
comporta annullare i contrasti, le differenze, le variegature che
danno il senso al tessuto unitario?

La settimana dopo, le domande si ripetono sotto altra forma: oggi il


punto è garantire l’apertura di due scuole materne sui bricchi,
popolazione prevista meno di dieci bambini, settanta chilometri di
salita per raggiungerle. Ovviamente con la dotazione prevista di
maestre, e loro sostitute, personale di servizio e cuoca. Con meno
di tre presenze si può non aprire, però bisogna considerare gli
eventuali ritardi per neve o panne della corriera, il problema ora è
organizzare il coordinamento delle informazioni per prendere
tempestivamente la decisione se aprire o meno. Per quattro
piccolini, se va bene dieci? E perché mai questi bambini non
dovrebbero avere il diritto di usufruire di un servizio che è garantito
a tutta la popolazione dai tre ai cinque anni? Solo perché sono una
minoranza esigua? Ma, pure, di nuovo, si ripresentano gli
interrogativi sulle risorse e, quasi, alla fin fine sul significato stesso
del servizio che sembra sfumarsi in un nonsense suscitando echi
antichi di soluzioni che abbiamo rifiutato con energia: pagare le
mamme affinché si occupino dei bambini loro e degli altri, ridurre
l’impianto previsto di personale a due, tre dipendenti. Com’è facile
semplificare quando si è un poco fuori dal problema, ma per noi e
per i nostri figli abbiamo voluto servizi completi, e per tutti,

139
Curare la vita con la vita

abbiamo irriso e sbugiardato gli amministratori che ci proponevano


di restare a casa con un contributo di denaro che equivalesse al
costo degli asili nido. Abbiamo fatto bene, e lo penso ancora, ma il
pensiero mi corre a tutti i bambinetti degli immigrati nel nostro
paese, con lingue ben più significative e coinvolgenti della
mochena, si ripete la stessa sequela di dubbi difficili: i genitori
vogliono che parlino l’italiano per un loro migliore integrazione ma
la pratica della lingua locale li allontana dalla cultura d’origine,
ovvio e in parte inevitabile. E, in altri termini, ma sostanzialmente
identico il problema si ripropone nei paesi in via di sviluppo:
corrente elettrica, scambi culturali, farmaci occidentali e
vaccinazioni, sicuramente fattori di sviluppo ma necessariamente
squassanti il tessuto della convivenza che ha tenuto assieme nel
tempo con ritualità codificate e valori precisi e condivisi.

Ma come possiamo fare affinché non si affermi tanto il progetto


dell’integrazione mortificante ma dell’interazione a pari merito? Lo
penso uno dei quesiti più seri e determinanti dei nostri tempi, per
tutti noi, perché se, appunto come si dice, ogni popolo ha i suoi
meridionali e, aggiungo io, la sua lingua mochena, anzi, non solo
ogni popolo, ognuno di noi, dentro e fuori di sé, nello spazio e nel
tempo, combattuto fra il desiderio di conservare le sue antichità
preziose e insostituibili e l’ansia di conoscere il nuovo, delle
modifiche, di cambiamenti, di aria fresca. Ma che non sciupi le
dorature antiche, che non ingiallisca i merletti.

140
Curare la vita con la vita

Magie

Ogni tanto, la magia entra nella vita quotidiana: se la sai


accogliere, ti rallegra. A me è capitato, e mi piace raccontarlo
anche perché me ne rinnova l’incanto.

Per prima, voglio raccontare di Praga. Sapevo che era una città
magica ma non sapevo che mi avrebbe regalato una sua magia. La
storia comincia quando un caro amico appassionato di Mozart ci
propone di organizzare una gita a Praga per il duecentesimo
anniversario del Don Giovanni: grande divertimento, preparativi
accurati, obbligo per tutti (eravamo poi undici) di studiare a
memoria musica e libretto. Partiamo e Praga si apre in una
magnificenza stupefacente, velata dalla tristezza dell’occupazione
sovietica. Ci siamo organizzati per stare qualche giorno,
l’esecuzione del Don Giovanni è struggente, restano negli occhi i
giovani padri che con i bambini a cavalluccio sulle spalle fanno la
fila per i biglietti e la povertà dell’allestimento, amorosamente
curato con i mezzi disponibili.

Ci sentiamo in vacanza, è la fine d’ottobre e noi siamo evasi dalle


nostre diverse professioni, l’aria è dolce e il fiume incantato. Uno di
noi ha letto sulla guida che bisogna assolutamente andare a
mangiare dai Tre Struzzi, noi facciamo un po’ gli snob, ma dai, sarà
un posto turistico, fa molto più gita intelligente andare nelle loro
birrerie, lui insiste e finiamo per accontentarlo, dai, andiamo. Il
locale è estremamente suggestivo, affacciato sul ponte Carlo,
facciamo per entrare ma ci fermano subito: non c’è posto, bisogna
prenotare. Pazienza, non ci rimanere male, torniamo domani.

La mattina dopo, chiediamo a un cameriere dell’albergo di


telefonare per prenotare, occorre qualcuno che parli bene la lingua,
ma il ristorante è ancora chiuso, non importa, per favore può
telefonare fra un po’? Grazie, e ce ne andiamo in giro. Ecco la villa
(splendida, fra gli alberi) dove Mozart ha terminato la composizione
del Don Giovanni la notte prima della rappresentazione, gli
strumenti musicali, le stanze sommesse, le dimensioni raccolte. Ma
vogliamo andare anche al Castello, c’è una meravigliosa collezione
di quadri, strano, i mezzi oggi sono radi, fino a ieri erano
frequentissimi, beh finalmente è arrivato, saliamo. Il Castello è
affascinante, la salita dove arrancava Giordano Bruno densa di
memorie, i quadri vorremmo vederli con più calma ma l’amico ci fa
fretta: è ora di andare altrimenti perdiamo la prenotazione.

141
Curare la vita con la vita

Facciamo un po’ i preziosi ma non ci sentiamo di sabotare un


desiderio così innocente, giù a passo veloce verso il ponte Carlo
mentre il cielo s’imbruttisce, Praga sembra diventata di malumore?
Ci rimandiamo ridendo l’idea ma il vento si è alzato, stringiamo i
colletti delle giacche e affrettiamo ancora il passo, ecco il ristorante
all’ingresso del ponte, andate avanti voi signori che noi ragazze ci si
va a rifare il trucco…in bagno. Collegiali un po’ tardone, finalmente
ci avviamo verso la sala da pranzo, illuminata e con un buon
tepore, cerchiamo con lo sguardo il nostro tavolo, girandolo
incontriamo gli occhi dei maschietti: che fanno lì all’ingresso,
perché non entrano? Non entrano perché non c’è posto, ma non
avevamo fatto telefonare? Certo, ma quando l’albergo ha telefonato
gli era stato detto che era già tutto prenotato.

Siamo frastornati, infreddoliti, è sgradevole sentirsi buttati fuori ma


non facciamone un dramma, troveremo mille posti dove andare a
mangiare. Beh, mica poi tanto visto che si sono fatte nel frattempo
le due, ci aggiriamo per le strade ma è tutto chiuso, perfino le
costose vinerie mostrano i camerieri che rassettano al di là dei
vetri. Comincia a far proprio freddo, l’umore da vacanza perde
smalto, poi uno di noi avverte: là c’è aperto, come ma sembra un
seminterrato, no, è un ristorante, beh proviamo magari un panino
lo rimediamo. Entriamo e un cameriere ci viene incontro: prego, è
tutto pronto. Che cosa sta dicendo? Ci fa strada, e noi lo seguiamo
storditi, ci conduce in una sala dove c’è una tavola apparecchiata
per undici: prenotata per voi, sorride il cameriere. È vietata la
scappatoia che l’albergo avesse chiamato un ristorante per l’altro
(lo verificheremo d’altronde la sera), no, è una magia di Praga che
ci ha presi in giro con garbo. Ci accomodiamo soddisfatti, stiamo
per ordinare, entra uno studente che ci mostra dei suoi disegni, il
Castello, i Tre Struzzi, il ponte Carlo. Forse glieli avremmo
acquistati lo stesso ma l’allegria è stata tanta. A casa li abbiamo
incorniciati, forse le magie non avvengono solo a Praga. Vuoi dire
che il problema è riconoscerle?

142
Curare la vita con la vita

Prendere gli stivali ad un morto

Una scena di film, la neve, i soldati con i cappottoni lunghi delle


guerre passate, molti caduti e altri che arrancano con tanta fatica.
Il soldato giovane ha freddo, i suoi stivali sono inutilizzabili, sta
gelando ma i caduti, guarda, hanno stivali ancora buoni. A loro non
servono più ed ecco che il ragazzo si china, s’inginocchia vicino a
un morto, glieli sfila, ne lascia ricadere i piedi indifesi, li indossa, si
rialza e va.

E a me si solleva un nuvoletta di pensieri, pietà per chi è morto e


non può protestare, non ha più diritti, tenerezza per quel viso
giovane e per quel freddo di adolescente, il fatto che la vita di
ciascuno si svolge in contemporanea con quella degli altri, e che
questo comporta dei diritti incrociati di proprietà e di supremazia.
In quel caso, certo, sembra tutto più facile, ma resta una decisione
non banale appropriarsi degli stivali di un morto. Ma il ragazzo è in
guerra, sta difendendo la patria, il suo proteggersi dal freddo non si
limita alla sua persona ma è ordinato a un obiettivo più alto. E, se
invece, in guerra non fosse? Se si trattasse di due barboni? Sempre
giovane resterebbe, sempre sentirebbe il freddo, sempre avrebbe
paura di morirne, allora potrebbe lo stesso? Mi sa di no, penso
proprio che la comunità intera si rivolterebbe disgustata
riscoprendo all’improvviso una tardiva pietà per quel povero morto,
cui si è fatto l’estremo insulto di derubarlo mentre non poteva più
difendersi, cosa può esserci di più spregevole? Mi immagino il
ragazzo circondato minacciosamente, mi immagino gli vengano tolti
rudemente gli stivali, lo vedo scacciato da una indignazione che
gonfia il petto e rassicura le menti. E, adesso, mani intenerite
calzano nuovamente gli stivali a quel barbone che, pure, di stenti è
appena morto e per cui non c’era stata pietà né tenerezza né
generosità.

Allora va bene derubare un morto? No, certo che non va bene ma


nella nostra vita quotidiana spesso lasciamo fra le righe, per non
esserne infastiditi o turbati, la realtà evidente che il danno o la
morte dell’uno può portare vantaggio ad un altro senza che per
questo chi se ne avvantaggia debba esserne colpevole o subire la
riprovazione. Ogni tanto, nelle storie della cronaca, si affaccia per
un attimo l’eterna possibilità del cannibalismo: in situazioni
estreme, ci si può cibare di un altro essere umano? Si può farlo ma
non poterlo dire? Non vogliamo saperlo troppo, ci diciamo che sono
domande morbose, una curiosità malsana. Eppure, anche nel caso

143
Curare la vita con la vita

apparentemente tranquillo dell’eredità, situazione ultranormata e


sminuzzata nei dettagli più piccoli, è così difficile accettare e
riconoscere il diritto del passaggio di mano. C’è il dolore per la
morte di un familiare, forse la frequentissima lite nella spartizione
dell’eredità assolve anche alla funzione di spostamento della
sofferenza e della terribile contesa su a chi di più apparteneva il
morto stesso, sono messi in moto meccanismi psichici e sentimenti
profondissimi ma forse c’è anche proprio la difficoltà di poter fruire
a testa alta, senza infingimenti, di un vantaggio derivato dalla
morte di un altro. Più brutalmente ancora, i trapianti d’organo sono
possibili se a qualcuno invece che gli stivali accade che non possa
più utilizzare il suo cuore. Lo vestiamo con il termine mellifluo di
donazione ma è come se non sopportassimo di vederlo con
chiarezza, forse non sapremmo perdonare chi ne usufruisce, forse è
un forma di pietà per chi vive, per chi può sopravvivere perché un
altro è morto. Non al posto suo, non per colpa sua ma, tant’è,
occorre giustificare, riformulare, dirci che il morto torna a vivere
perché il suo cuore batte in un altro corpo sottratto alla morte. Ma
ascoltando un medico che, al telefono, gioisce perché sta morendo
quel ricoverato giovanissimo e fa poco si potrà operare il trapianto,
comunque scoppia un sussulto interno per quanto silenzioso, il
medico si volta, coglie lo sconcerto non espresso, si affretta a
giustificare, si costringe a restare ancora un poco invece di correre
in ospedale dove è già con il pensiero che si deterge le mani.

E ha ragione, è il suo lavoro, ma ha ragione anche chi vuole


ricordare l’insopprimibile civiltà del culto dei morti, ma ha ragione
chi aspetta con ansia drammatica un cuore nuovo, ha ragione la
madre che smuore dal dolore nel vedere il corpo morto della figlia
avviarsi sulla barella verso la sala operatoria. Sono limiti, confini
tremendi cui non possiamo sottrarci incalzati dalle tecnologie
sempre migliorate. Qualche anno fa gli ospedali britannici
segnavano una piccola bara vicino ai pazienti che avevano superato
una certa età, come dire che per loro non ci sarebbero stati
trapianti, gli organi sarebbero andati sprecati per tenere in vita
delle persone anziane. Come non capire una scelta così
elementare? Certo, se gli organi a disposizione non sono sufficienti
per tutti, se un trapianto, inoltre, è sommamente costoso, un piano
di sanità nazionale non può sottrarsi a scelte di questo impegno. È
brutale, coraggioso, trasparente o inumano applicare la piccola
bara vicino a quei nomi in modo visibile?

144
Curare la vita con la vita

Forse si potrebbe pensare di completare il gesto della scelta con


una sorta di risarcimento sociale a favore del valore che nella scelta
è stato inevitabilmente penalizzato, andando a impoverire il nostro
tessuto sociale. Evitando che la terribile piccola bara vada a
significare una volta per tutte che degli anziani non sappiamo che
farcene, come se la scelta di un piano sanitario andasse a
cancellare il valore sociale e civile degli anziani nella collettività.
Perché il pericolo mi sembra stia non tanto nella scelta che,
discutibile o meno, è compito e diritto di chi governa e, casomai, va
valutata in quei termini. Il pericolo è nell’estrapolare direttamente e
senza filtri da una scelta tecnica una ricaduta obbligata sulla
società. Che diventa, dunque, uno slittamento dei valori cui si
informa la convivenza. Perché queste scelte sono quotidiane e
dovunque: chi va assistito per primo, il più giovane, il più grave, chi
può farcela, chi è allo stremo e avrebbe diritto a morire assistito? A
chi riservare le medicine scarse, ai più piccoli che forse non
riusciranno a diventare grandi, a chi è adulto e sarebbe utile? Agli
anziani? Quante volte, nel nostro mestiere, incontriamo diritti che
stridono e facciamo fatica a districarci nello scegliere chi privilegiare
nell’ascolto? L’adulto che sta costruendosi una professione e ha
chiuso la porta per studiare e il piccolo che scuote la maniglia
chiedendo di vedere assieme i cartoni animati. La donna
quarantenne che vuole brillare nella sua bellezza piena e
l’adolescente bruttina che soffre nel contrasto. Il padre
cinquantenne che mette al mondo un bambino con la nuova moglie
e la figlia che non riesce a concepire.

E, ancora, drammaticamente, a chi va dato il lavoro, la casa? Ai più


bisognosi? A chi ha meritato, a chi è più malato, a chi è più
inserito, a chi è più emarginato? Come riaffermare il valore della
salute, del rispetto delle regole civili, come risarcire nella nostra
cultura chi sembrerebbe penalizzato non avendo malattie da esibire
e non è né un ex detenuto né un ex tossicodipendente? In modo da
evitare che la fondamentale civilissima attenzione per il disagio si
stravolga in un suo perverso essere premiato? Sì che si appanna il
valore dell’adulto responsabile fino a non costituirsi più come un
orizzonte e una meta ma viene insistentemente suggerito il fascino
del piccolo, dell’immaturo, del debole, sensibile, delicato, incapace
di fronteggiare conflitti e difficoltà. Figli spaventati dalla fatica del
vivere per cui si sentono non sufficientemente attrezzati e adulti
bambineggianti occupati a conservare il diritto a essere giovani.

145
Curare la vita con la vita

Razzista anch’io

Li chiamiamo princìpi, come se da lì, da loro prendessimo le mosse,


come se da loro derivassero, a caduta, i nostri comportamenti,
quelli giusti, s’intende, quelli di cui andiamo fieri. Ma a me
sembrerebbe più adeguato chiamarli obiettivi, mete finali, orizzonti
cui guardare. Riferimenti progettuali, questi sì cui orientare i
comportamenti che vorremmo ci caratterizzassero. Come si dice, le
utopie sono come l’orizzonte, non le raggiungi mai ma è a loro che
guardi per indirizzare il tuo cammino.

Ancora una volta solo un gioco di parole? Beh, ancora una volta le
parole sono importanti, è diverso discendere da qualcosa o
orientarsi verso qualcosa. Intanto, nella nostra abitudine mentale,
ciò da cui si discende è immutabile, eternamene scritto nella roccia,
mio padre emigrante, la mamma primogenita di una schiera di
fratelli, il nonno studioso o contadino, la nonna altera, scostante o
un po’ pettona, tutta morbida e profumata di mele. Geni e
cromosomi, abitudini, educazione, rituali, ecco di che cosa siamo
composti, e già facciamo fatica a modulare l’impasto a modo
nostro, figurarsi a modificare gli antecedenti! Tutt’al più, possiamo
dirazzare, deviare in alto o in basso la linea tracciata ma non
tornare sui passi antichi. Come pensiamo, più per cultura
dominante che per vera ingenuità, che il passato non si può
modificare, che la memoria è un archivio magari un poco
affastellato ma completo nel suo disordine, (ma di questo
parleremo meglio) così i sacri principi vengono posti all’origine del
nostro comportamento. Sì che, nell’ovvio divario fra il nostro
comportamento e loro, vediamo riaffacciarsi trionfante la metafora
del peccatore. Flagellatevi perché avete mancato, nascondete il
vostro operato se appena potete o, quanto meno, provatene
vergogna. E proprio come sui testi sacri non è ammessa vera critica
o discussione (tutt’al più interpretazioni differenti!), così sui
princìpi, signori miei, non si discute. Nemmeno per ischerzo,
aggiungerebbe mio suocero.

Ora, mi sembra opportuno svincolarsi finalmente dalla condizione di


penitenti, militanti, seguaci più o meno obbedienti, pecorelle
distratte e un po’ svagate che si perdono per un ciuffo d’erba più in
là. Mi sembra che potremmo finalmente considerarci soggetti a
pieno titolo, come si diceva negli anni della politica che sperava,
titolari di una cittadinanza compiuta. Che si muovono
appassionatamente verso degli obiettivi civili, che custodiscono

146
Curare la vita con la vita

diritti e responsabilità nelle loro mani, che li vogliono sempre più


attuali perché è a loro, i cittadini compiuti, che ne occorre la
diffusione e la realizzazione. Obiettivi che danno senso e valore al
nostro muoverci da persone, non più crocette da apporre al
quotidiano esame di coscienza. Verso la chiesa, verso il partito,
verso la famiglia, verso la scuola di pensiero, verso le tradizioni,
verso qualunque appartenenza, che comunque controllerà il nostro
operato e, inevitabilmente, lo sanzionerà o perdonerà o proporrà
degli esercizi per rafforzare la nostra fede debole. Qualche
penitenza per redimerci, ben sapendo che redenzione completa non
ci sarà mai per noi, tanto più nelle appartenenze che vogliono
chiamarsi laiche e, come tali, si pensano esenti da bigottismi per
cui non se ne proteggono fino a configurare vere e proprie
inquisizioni più o meno velate. In nome dei princìpi, s’intende, che
non si discutono sì che noi dobbiamo chiederti di confessare
apertamente il tuo errore per preservare il corpo sano di tutti noi, a
meno che tu, ma noi non lo vorremmo mai, finisca per meritare di
essere espulso. Fuori, privo di appartenenze che trattengono anche
la nostra identità, perché ben cucita a quei princìpi: certo,
possiamo sempre formare un’altra appartenenza rivale che difende,
ah sì, molto meglio e con molta più correttezza quei princìpi così
sacri, ma, capiamoci bene, dobbiamo tornare alle origini, riprendere
il passo dalle antiche radici, riscoprire i veri princìpi, quel nocciolo
essenziale che non tradiremo mai più. Anzi, che non permetteremo
mai più che vengano traditi, sai, forse tu non ti sei accorto ma
debbo correggerti fin da subito, con la fermezza necessaria. Il
padre del presidente Schreber aveva ideato dei piccoli tensori
collegati alle radici dei capelli dei bambini così che, se accadeva
loro inconsapevolmente di curvare la schiena, potevano correggersi
immediatamente evitando (ed era qui la terrificante e insieme
sollecita amorevolezza) di essere puniti.

Nulla di nuovo, certo, e certo non basta spostare i princìpi dal


mondo del passato mitico verso il tempo del futuro, certo non basta
un nominalismo d’accatto ma chissà mai che, dovendo formulare
dei pensieri e delle parole, ci troviamo il passo inciampato da
questa diversa collocazione e, chissà mai, appunto, ci accada di
provare la fatica appagante di un pensiero, di una parola tutta
fresca, contingente, valida oggi, anzi ora, per il tempo di una bolla
di sapone. Iridescente, bella, se mi piace ci proverò ancora, domani
o fra un minuto, ecco, sì, se mi piace la soffio e resto a guardare
come le mani dell’altro si tendono a raccoglierla e, contemplando le

147
Curare la vita con la vita

goccioline che la formavano, ancora ne soffi una fresca, iridescente,


caduca verso di me. Un pensare, un conversare, un scambio fra
persone che non discende dai princìpi ma li cerca, li vuole,
fors’anche li pretende. Mani protese che si stringono per fare
assieme.

Ma, soprattutto, ci si porrà finalmente il problema, la questione,


l’interrogativo vitale di che cosa farsene dei pensieri, delle
emozioni, dei sentimenti degli impulsi che non solo non fanno
avverare i sacri princìpi in questa valle di lacrime ma, addirittura, li
contrastano, li negano. Che ne facciamo di quell’impulso a
difenderci? A difendere la nostra persona, i nostri beni (ahi! ahi!), a
trovare pericoloso il diverso, a voler stroncare le obiezioni, a
trovare estenuante e noioso l’obbligo del rispetto dell’altro, a
pensare, colpevolmente ma con buona approssimazione reale, che
se decidessimo tutto da soli le cose andrebbero meglio. Che ne
facciamo della voglia che ci fa prudere le mani di intervenire
bruscamente, togliendo dalle mani esitanti dell’inesperto lo
strumento che noi sappiamo usare così agevolmente,
sovrapponendoci al genitore imbelle che sta facendo impazzire il
figlio, scrollando l’adolescente apatico che gioca irresponsabilmente
con la morte, suggerendo di coprire il capo di un bambinello perché
il sole è forte o inserendoci in un litigio così evidentemente insulso
e che li fa soffrire così tanto?

È da qui che, a mio parere, che prende valore l‘etica di ciascuno di


noi, è perché sono capace di essere profondamente razzista,
intollerante, violenta che posso scegliere un comportamento, un
atteggiamento che, sia pur minimamente, renda un poco più
prossimo l’orizzonte dei princìpi. È perché sono ben capace di un
pensiero banale e normativo (a quell’anoressica lì quattro schiaffi al
momento opportuno e vedi come smetteva di far la malata e di far
ballare tutti quanti intorno a lei) che posso distaccarmene e cercare
altrove, un punto di vista da cui restituire ai protagonisti il diritto e
l’autorevolezza e la dignità di gestire la loro esistenza. Ma se mi
pensassi aliena da banalità, come potrei accorgermi di scivolarci
dentro? E, più precisamente, se non percorressi a sazietà la
saggezza del pensiero banale, come potrei uscirne fuori?
Veramente si può fare a meno del buon senso, anche di quello più
becero? Non è una insopportabile supponenza decidere che la
verità, la saggezza, la giustizia si collocano da un gradino in su? È
in questo quadro che mi sembra più funzionale immaginare tante,
tantissime persone al nostro interno, capaci di presidiare ciascuna

148
Curare la vita con la vita

uno dei nodi della rete, capaci di porgere il punto di vista del
razzista, del banale, dell’interventista, dell’ideologizzato, del cinico,
del laico e del laicista, affinché si possano raccogliere le diverse
informazioni, analizzare i suggerimenti, ascoltare e poi giudicare,
decidere, assumendosi la responsabilità di far proprio
quell’orizzonte che un tempo chiamavamo princìpi.

149
Curare la vita con la vita

Regina della casa?

Continuano a dircelo, sembra una banale ovvietà che la casa sia il


regno della donna, il suo luogo d’elezione, non tanto e non solo
perché la donna se ne deve occupare ma perché ci gabellano che è
il luogo suo, su cui, appunto, dovrebbe regnare.

Eppure basta una osservazione superficiale per accorgersi che ne è


responsabile, che generalmente la governa, che tiene le redini
dell’andamento complessivo. Ma non è lei ad abitarla sul serio. La
rende abitabile, per il compagno, per i figli, non per lei. Compagno
e figli hanno angoli privilegiati, luoghi privati cui eventualmente le è
concesso di curare, di tenere in ordine ma lei, lei dove abita? Dove
sono i luoghi privati delle donne in casa loro? Con la scusa che la
casa è tutta della donna, regina appunto, le viene scippata la
scelta, l’esclusività di uno spazio tutto suo. Che sia testimonianza
della sua esistenza lì, in quella casa su cui regna. E se ha un suo
angolo, praticamente sempre le è riservato in quanto dedicato al
lavoro fuori casa: la scrivania, su cui appoggiare documenti, testi,
computer. Le spetta in quanto, lavorando, si avvicina al rango
dell’uomo, ma forse ha la sua poltrona preferita?

Professioniste qualificate, donne di bella intelligenza ed


autorevolezza, magari perfino carismatiche, se state leggendo una
rivista, il giornale, se state giocando al computer, siete capaci di
continuare tranquillamente anche se entra in casa il vostro
compagno? Se un figlio entra in camera dove siete? Oppure,
sbrigativamente, vi ricomponete dissimulando le tracce di una
permanenza che sa di abitante illegittimo? Anche se avete già
preparato la cena, anche se state aspettando ed è l’altro ad essere
in ritardo, quanto vi costa stroncare il moto istintivo di rassettarvi e
continuare la partita a spider sul computer oppure seguitare a
leggere? E perché mai trovate, invece, naturalissimo che il vostro
compagno alzi gli occhi dal giornale per salutarvi, ma non mostri
neanche l’ombra di una scusa per il suo stare in quiete dentro la
sua casa?

Che i ragazzi, anzi, vi chiedano di non interromperli che stanno per


vincere?

Quante volte, donne, siete state comodamente sul divano a leggere


(ma non a studiare!) in bella vista mentre gli altri girano per casa?
E perché avete sempre a portata di mano ferri da calza, cucito o
chissà che altro? Quanto siete, quanto siamo capaci di mostrarci

150
Curare la vita con la vita

apertamente senza far nulla? All’epoca del femminismo militante,


quando ce ne andavamo in giro con le gonne lunghe e gli zoccoli,
sembrò di grande innovazione mettersi a lavorare a maglia durante
le riunioni (noiose e ripetitive ieri come oggi). Caspita, marcavamo
con attività femminili luoghi tradizionalmente maschili. Ma non
eravamo, e non siamo, capaci di stare serenamente in quiete. O,
meglio, lo sappiamo fare solo se siamo fra donne, ecco allora il
cazzeggio, il lunghissimo parlare, il conforto, il confronto, lo
psicodramma e le risate. Lì non dobbiamo lavorare, possiamo
starcene con le mani in mano, tutt’al più rifare il caffè o svuotare i
portacenere.

Le donne non hanno ancora imparato a pensarsi come detentrici di


diritti semplici ma fondamentali, il tempo, lo spazio per sé. E la
nostra furia per gli uomini incapaci e disordinati, ingombranti e
fannulloni, che non si accorgono di ciò che serve, che in casa sanno
solo fare guai, che quando cucinano lasciano tutta la cucina in
disordine, che, quando fanno la spesa bisogna dirgli tutto e
ricordarglielo, la nostra furia in gran parte nasce proprio dalla loro
paese capacità, invece, di abitare liberamente a casa, di fruirne
pienamente, di piegarla ai loro comodi. Ma, diciamolo sia pur
sottovoce, hanno ragione loro, la casa a questo deve servire, ad
accogliere, abbracciare, a dare permessi e possibilità. È per questo
che ne siamo le governanti, abili, competenti, efficaci, siamo brave
a rendere abitabile, piacevole la casa ma poi ci dimentichiamo di
usarla, restiamo rancorose ed emarginate a guardare con rabbia la
facilità con cui lui si accomoda, con cui nostra figlia apre il
frigorifero, beve, poggia il bicchiere dove capita, con cui il piccolo
fruga nello zaino aperto all’ingresso. Ma la nostra furia sa di invidia,
come non ci avessero invitato a giocare anche noi: il punto è che a
loro non viene neanche in mente che ci sia bisogno di un invito,
siamo noi che non sappiamo come entrare nel gioco. E allora, per
rappresaglia, diventiamo acide, nervose, accampiamo scuse per
guastare il gioco da cui ci sentiamo respinte, parliamo di tempi da
rispettare, affibbiamo incombenze fastidiose, ci rinchiudiamo in
cucina con la corona delle martiri. Noiosissime!

La parità della donna comincia ad affermarsi nel mondo del lavoro,


sia pur fra estreme difficoltà e contini scivoloni, ma all’interno della
casa abbiamo capovolto lo schema: incapaci di custodire i nostri
diritti, il tentativo è di abbassare il livello di quelli degli altri. Invece
di apprendere dagli orrendi maschi la facile leggerezza con cui si
appropriano della casa, con cui la abitano a uso loro, vogliamo

151
Curare la vita con la vita

accollare loro la noia delle incombenze domestiche: perché mai


dovrebbe essere una prospettiva accattivante lavare i piatti, fare la
polvere, stirare? Passi pure il cucinare che ha un qualche risvolto di
creatività e di divertimento ma portare fuori la pattumiere vi
sembra poetico? So bene che qualcuno deve pur farlo ma non è
questo il punto: gli uomini non ci hanno costretto a lavorare perché
qualcun doveva pur farlo e loro non lo volevano fare più, no, era
una loro esclusiva, a noi sembrava un diritto essenziale che
consolidasse la dignità di una cittadinanza piena e abbiamo voluto
fortemente conquistare il diritto al lavoro. Perché in casa, invece,
tutto quel che sappiamo richiedere è la condivisione della noia,
della fatica? Perché non cominciamo a usare della casa e dalla
piena capacità di abitarla impostare alla pari la questione delle
faccende? Qualcuna ha delle idee? Come cominciare, da dove
partire? Dal tempo per sé, da uno spazio protetto (per la donna in
casa, non per la lavoratrice che ci ritorna), da un’alternanza di
qualche genere? So bene che è artificioso come qualunque
partenza, come ogni avvio, ma prima cominciamo, più presto ci
risulterà naturale, si accettano proposte ma mettiamoci in moto!

152
Curare la vita con la vita

Storia di una sonda spaziale

Racconto questa storia che ho tratto da un articolo, (La difficoltosa


missione della NASA fino a Giove, e il suo trionfo) di Michael
Benson, pubblicato sul New Yorker Magazine, 8 settembre 2003 e
che Valérie mi ha tradotto con grande gentilezza.

Allora, Benson narra che a 1995 al 2003 “la storica navicella


spaziale conosciuta sotto il nome di Galileo Orbiter ha tracciato un
sentiero complesso tra le quattro grandi lune di Giove. Durante
questi anni, ha fatto osservazioni scientifiche dettagliate, ha preso
migliaia di fotografie ad alta risoluzione, trasmettendole a Terra, a
mezzo miliardo di miglia di distanza.(...) La navicella ha anche
condotto quaranta sorvoli di pianete e di lune, molto di più di
qualsiasi altra nave spaziale. E’ stata la prima ad avvicinarsi ad un
asteroide; la prima ad orbitare uno dei pianeti esterni; la prima a
documentare fontane di fuoco che eruttavano dalla superficie della
luna vulcanica di Giove che si chiama Io; e la prima a volare
attraverso una piuma atmosferica di Io, un pianeta di un colore
giallo arancione sporco, e che ha circa trecento vulcani in eruzione
in qualsiasi momento. Nel luglio 1994 Galileo ha fornito
osservazioni dirette dei frammenti della cometa Shoemaker-Levy
che si scontravano con Giove; queste collisioni hanno prodotto
esplosioni più potenti di quella della più grande bomba ad
idrogeno”.

Una navicella meravigliosa, insomma, capace di attuare operazioni


straordinarie, per questo diventa ancora più interessante la sua
storia.

“Concepita dalla NASA nei primi anni ’70, Galileo ha avuto degli
inizi difficili; la sua storia all’inizio è stata segnata da una serie di
ritardi. L’intero piano di volo è stato ridisegnato cinque volte, sia
per motivi di cambiamento delle specifiche tecniche che per il
cambiamento delle posizioni dei pianeti tra le date di lancio riviste.
E’ stata portata tra la Florida e la California numerose volte, ed è
stata smontata, pulita, messa in deposito e poi rimontata. Anche se
la navicella era un pezzo di tecnologia molto avanzato negli anni
settanta, quando finalmente è andata nello spazio nel 1989 molti
dei suoi sistemi erano già obsoleti.”

La cosa comincia a complicarsi, ma non è finita: “Durante tutta la


prima parte del viaggio di Galileo nello spazio, la sua antenna ad
alta capacità a forma d’ombrello, che doveva essere il principale

153
Curare la vita con la vita

collegamento con la Terra da Giove, è rimasta ripiegata su un lato


della sonda. Era l’antenna più grande mai mandata fuori dall’orbita
della Terra. Si prevedeva di dispiegarla solo dopo che la sonda si
fosse allontanata sufficientemente dal sole: come Galileo, l’antenna
era stata disegnata per operare nelle temperature gelide della parte
esterna del sistema solare. Nel frattempo, la navicella spaziale si
sarebbe affidata ad un’antenna più piccola e molto più lenta che
avrebbe dovuta servire solo vicino a Terra”.

Siamo in aprile del 1991, Galileo si è ormai addentrata nelle zone


più fresche della cintura degli asteroidi che si colloca tra Marte e
Giove: è venuto il momento di aprire l’antenna ad alta capacità e
iniziare a mandare gli impulsi di dati verso Terra. La velocità
prevista è di 134 kilobyte per secondo e Galileo era stata disegnata
per avere una larghezza di banda sufficiente a trasmettere
un’immagine per minuto, trasmettendo contemporaneamente
informazioni dagli altri suoi strumenti. E qui avviene il vero colpo di
scena: l’antenna, questo strumento chiave per la missione, è
bloccato. Gli scienziati che dirigono la missione sono disperati:
senza un mezzo per trasmettere degli alti volumi di dati, la
funzione di Galileo sarebbe stata duramente limitata. Entro una
settimana, vengono formate due teams di ingegneri, una per
disincastrare l’antenna, l’altra per capire come salvare la missione
senza l’utilizzo dell’antenna fornendo, cioè “i cacciaviti a un milione
di miglia”, un modo di riparare una navicella spaziale trasmettendo
dei segnali radio da Terra.

In un brainstorming, si valuta: “supponiamo che non cambiamo


niente. Quale sarà la velocità di trasmissione dei dati quando
arriviamo a Giove, se dobbiamo utilizzare quest’antenna a bassa
capacità?” La risposta è desolante: circa un’immagine al mese e
solo se gli altri dieci strumenti scientifici di Galileo non fossero stati
utilizzati contemporaneamente. Ma nello spazio fenomeni complessi
devono spesso essere fotografati molte centinaia di volte prima di
poter essere compresi!

Invece di provare a cambiare l’hardware della navicella spaziale,


l’équipe di soccorso inizia a pensare a come migliorare le capacità
di Galileo di processare le informazioni: riscrivere in pratica il
software di base di Galileo. Il computer di bordo avrebbe dovuto
essere sufficientemente potente per elaborare gli algoritmi più
avanzati del codice riscritto. Ma “il sistema di computer di Galileo
era antico.” Allora, “guardammo che tipo di microprocessore avesse

154
Curare la vita con la vita

a bordo, e quanta memoria ci fosse. E ci furono delle buone notizie


e delle cattive notizie”.

Le cattive notizie erano che i processori di Galileo erano talmente


vecchi che i loro disegnatori originali avrebbero dovuto essere
richiamati dalla pensione per un consulto. Le buone notizie erano
che poco prima di essere lanciata nello spazio, Galileo era stata
dotata di due volte tanto il numero originale di chips di memoria di
quanto avessero inteso i disegnatori originali. Ma i chips forse
erano restati danneggiati da radiazioni assorbite durante il lungo
viaggio nello spazio. No, dopo diciannove mesi di volo tutti i chips
della navicella erano ancora funzionanti. Si rischia ciò che non era
mai stato tentato prima: cambiare l’intero software della navicella a
metà volo. Aggiornare il software avrebbe permesso al team di
introdurre tecniche avanzate di compressione di dati, il che avrebbe
permesso a Galileo di mandare immagini utili e altre preziose
informazioni da Giove attraverso l’antenna a bassa capacità. Galileo
sarebbe stato in grado di trasmettere più di duecento immagini al
mese, insieme con altri dati, velocità molto più lenta di quella
originalmente prevista, qualcuno degli obiettivi di Galileo avrebbe
dovuto essere modificato o abbandonato, ma la missione avrebbe
comunque potuto raggiungere il settanta per cento dei suoi
obiettivi.

Ci sono voluti anni, ma quando la navicella è arrivata a completare


il suo primo giro di Giove, il suo software era stato interamente
sostituito. Era una mossa con dei rischi senza precedenti – “un
trapianto completo di cervello con un link radio di 400 milioni di
miglia”, come dice un documento del team ed ogni errore avrebbe
potuto significare la perdita della navicella. Ma l’aggiornamento era
necessario, ed il trasferimento di codice è stato senza errori.

Rimaneva ancora un problema: Galileo poteva raccogliere le


informazioni molto più velocemente di quanto riusciva a
trasmetterle. I suoi disegnatori avevano bisogno di trovare un
modo di memorizzare le immagini, per permettere che potessero
essere lentamente ritrasmesse a Terra. E assistiamo a un nuovo
colpo di scena: la navicella aveva un registratore di nastri a bordo,
uno di quei registratori con due avvolgitori di nastro che venivano
utilizzati con gli apparecchi stereo negli anni ’60 e ’70. E un
registratore quasi obsoleto diventa uno dei componenti più
importanti di Galileo. (Il registratore era stato incluso nel disegno
della navicella per una sola ragione: doveva fare da backup per i

155
Curare la vita con la vita

dati dalla sonda atmosferica che doveva penetrare nelle nuvole di


Giove nel 1995, quando Galileo arrivava vicino al pianeta. La sonda
doveva dispiegare il suo scudo contro il calore, aprire un
paracadute, e trasmettere le informazioni relative all’atmosfera di
Giove mentre cadeva verso il pianeta. Tutta la procedura doveva
durare un’ora. Durante questo tempo, i dati della sonda sarebbero
stati trasmessi da Galileo verso Terra).

Il registratore diviene uno strumento critico per la missione. I


gestori di Galileo si accorgono che sarebbe stato necessario
memorizzare tutte le immagini in entrata insieme con gli altri dati
scientifici raccolti dai suoi strumenti durante il sorvolo delle lune di
Giove. Queste informazioni avrebbero poi potuto essere inserite nel
computer di Galileo utilizzando il nuovo software di compressione
dati e lentamente ritrasmesse a Terra durante i lunghi mesi di
inattività che trascorrevano quando la navicella viaggiava da una
luna all’altra.

Il nastro magnetico arrotolato nel registratore di Galileo diventa il


sottile filo al quale è appeso tutto il destino della missione, il
sistema era stato interamente improvvisato e raffazzonato, ma ha
funzionato. Galileo inizia lentamente a trasmettere immagini
spettacolari di Giove e delle sue lune fino a Terra, dove un’antenna
potenziata raccoglie i segnali lenti e deboli della navicella.

Leggendo la storia di Galileo sono restata affascinata dallo snodarsi


della vicenda, dalla spregiudicatezza delle intelligenze, dall’uso
straordinario delle risorse. Sì, è ovvio, mi è sembrata una storia
assai simile a una terapia.

156
Curare la vita con la vita

Strisce pedonali e sellini di bicicletta

Ditemi pure borghesuccia, perbenista, ma trovo estremamente


irritante l’abitudine molto diffusa di lasciare l’auto ferma un po’
dovunque, in seconda o terza fila, se non sulle strisce pedonali,
chiusa e con le quattro frecce lampeggianti. Un uso che sta
diventando quasi una norma sfrontata, come dichiarasse: non hai
visto le frecce? Sono impegnato e non ho tempo per trovare un
parcheggio, ho da fare, no? Ugualmente mi irrita, forse addirittura
talvolta mi spaventa il modo di guidare spostandosi di corsia o
frenando all’improvviso, magari, ed ecco ancora le quattro frecce,
per un’improvvisa retromarcia. Mi può irritare perché mi costringe a
reagire con immediatezza in un soffuso senso di pericolo ma mi
spaventa perché non ho l’impressione che si tratti di banale
maleducazione, strafottenza, trascuratezza nei confronti degli altri
sulla stessa strada. Scortese ma in qualche termine compreso
nell’ambito della normalità. Ma invece gli automobilisti che incontro,
sempre più spesso mi danno l’impressione di non sapere che gli
altri ci sono: non è che lo sanno e se ne disinteressano alla grande,
a me sembra che realmente non lo sappiano, sì che non guardano
infastiditi chi eventualmente si permette di protestare ma, ma lo
guardano stupiti, come sorpresi di trovarlo lì, a un centimetro dai
loro paraurti o reduce da un’inchiodata secca per evitare lo scontro.
Sorpresi, e solo dopo un po’ infastiditi da una presenza di cui non
vedono l’utilità. Mi preoccupa perché mi sembra che siamo andati
oltre, al di là di un recinto di consapevolezza che in qualche modo
dovrebbe tenerci assieme in un contesto vitale e dotato di una sua
logica interna. Mi spaventa perché se non si sa che gli altri esistono
non si è in grado neppure di proteggere se stessi, magari violando
le regole ma sapendo o percependo un quadro connesso in cui
muoversi. E la preoccupazione, lo spavento, si trasforma
rapidamente in pena, come fosse stato tolto un po’ a tutti noi un
confine protettivo, e tanto più in pericolo è proprio chi non è venuto
mai a saperlo, né che il confine esisteva, né che oggi sembra
sbreccato, assottigliato, evanescente.

Devo, però, confessare che quando a sciamare, disordinati,


colorati, svagati, invadendo con la stessa noncuranza marciapiedi,
strada e strisce, coppie o gruppi di ragazzi, allora la mia
insofferenza cambia colore, quasi si accordasse con le loro sciarpe,
con gli zaini su quelle spalle giovani. L’insofferenza si fa come un
sussulto di tenerezza, mi si sveglia quell’illogica allegria che citava
Gaber, li guardo con quelle faccette fresche, le mani che

157
Curare la vita con la vita

raccontano, i sorrisi d’intesa dentro il giubbino, il passo strascicato


non di chi è stanco ma di chi non è costretto a tenersi bello dritto
perché sta facendo altro. A loro (quando sono pedoni, però, non
automobilisti!) perdono pregiudizialmente un po’ tutto, uso il tempo
in cui sono costretta ad attendere che lo stormo passi oltre per
guardarli, lanciare pensieri d’immagini verso il loro futuro, con un
affetto che non è certo privo di una certa pena dolente, da brava
mamma italica, pettona e ansiosa. Ma il pensiero non è che a loro è
permesso tutto, evidentemente no, anche perché loro, i ragazzi,
sono quelli maggiormente esposti al pericolo se si sfalda il
connettivo sociale, se non è ben tracciato il reticolo delle norme
della convivenza. No, il pensiero è attorno alla perdita di una
misura della trasgressione delle regole, quella misura che permette
di forzare gradualmente i limiti spingendoli in là con le spalle che
crescono, con un passo che si fa adulto. Mi spiego: l’altro giorno,
scendendo in strada, ho trovato la mia bicicletta senza più il sellino.
Da una parte mi è parsa una seccatura, neanche poi grandissima,
la spesa per la sostituzione non era certamente impegnativa, ma da
un’altra parte ho avuto un moto di gioia: questo potevo
riconoscerlo come una ragazzata, equivalente a suonare i
campanelli alle tre di mattina, a fare il verso ai professori, a
falsificare le firme sulle giustificazioni. Ovviamente è come me lo
sono raccontata, mi sono immaginati dei ragazzi che, passando per
strada, hanno pensato bene di togliere un sellino da una bicicletta e
magari di gettarlo un po’ più in là, alla prossima strada, a buon
bisogno dentro un cestino per i rifiuti! Un gesto che mi ha fatto
pensare un poco, mi sono accorta di desiderare veramente di
incontrare ancora ragazzate, di saperne, di sentirmene raccontare
in giro. Troppo seriosi e cupi, questi nostri ragazzi, troppo svelti al
gesto grave, alla violenza irrimediabile, dimentichi della leggerezza
fantasiosa del dispetto, della bugia sfacciata, degli intrighi
complicati per ottenere ciò che è stato vietato. Portati in volo sulla
sommità della scalinata senza aver dovuto (o potuto) contare i
gradini, li troviamo storditi e goffi a maneggiare soldi veri, armi
vere, potenzialità reali, tecnologie da governare senza nessuno al
fianco. Adolescenti che non sanno dove sistemare i piedi cresciuti
nella notte, che non hanno ancora fatto a tempo a imparare, cui
temiamo di contrapporci, che intortiamo con fumosi e ambigui
discorsi cosiddetti democratici, trattandoli bugiardamente da pari
solamente perché abbiamo orrore di non piacere loro. Come
possono fronteggiarci se ci sentono così esitanti, timorosi, asserviti
alla necessità di compiacerli affinché ci vogliano bene?

158
Curare la vita con la vita

Non voglio dire che la soluzione sia organizzare gite di gruppo per
rubare sellini di bicicletta ma alle prossime strisce pedonali da cui
trasborderanno impedendovi di muovervi, guardateli anche voi e
poi ci raccontiamo che ne pensiamo!

159
Curare la vita con la vita

Sudafrica e Ruanda tracciano la strada

Stavolta il cosiddetto mondo sviluppato deve inchinarsi di fronte


alla grandissima civiltà dei neri e spero tanto che anche noi
possiamo cominciare a costruire pensieri diversi sulla tragica
questione delle vittime. Dapprima il Sudafrica e recentemente
anche il Ruanda hanno avuto il coraggio di prendere risolutamente
in mano il problema che sembrava impossibile da sciogliere di come
ricostruire un tessuto di convivenza lacerato da massacri
spaventosi. Con animo lucido e forte, capace di guardare
veramente al futuro della loro cultura civile, connettendo assieme i
riferimenti politici e religiosi della popolazione, hanno insediato
commissioni che hanno chiamato “per la verità e la riconciliazione”.
Con audace semplicità, queste commissioni vanno a indagare i
singoli casi di violenza sanguinosa invitando gli assassini a
dichiararsi responsabili, riconoscendo esplicitamente la paternità
dei crimini commessi davanti ai familiari delle vittime. Smuovendo
emozioni terribili e prevedendone uno sfogo pubblico capace di
ripercuotersi su tutti gli abitanti, i membri della commissione
facilitano, poi, la reintegrazione degli assassini e dei torturatori nel
corpo della collettività. A pieno titolo.

Pensiero e prassi scandalosi per la nostra mentalità piccina, che


sbattuta fra l’idea religiosa del perdono, l’esigenza di una giustizia
che spesso vorremmo innamorata della vendetta, la fatica di
guardare a occhi aperti il dolore insopportabile, il rifiuto di
rallentare il tempo e sostare entro un’emozione grave, un impulso
di chiudere la faccenda definendo rapidamente i colpevoli pur di
non esserne tirati dentro personalmente, una insofferenza
miserabile per queste vittime che continuano a soffrire e non ne
escono così che non ci riesce di archiviare la pratica. E tutto questo
dentro la patina di dichiarazioni di principio compassionevoli verso
la sofferenza, simbolo cult purché riservato agli altri e, per piacere,
che non schiamazzino troppo, la sofferenza è una cosa seria, non
va esibita e occorre tollerare che noi, sani, ci dedichiamo ad altro.
Oppure che ce ne occupiamo come mestiere, indossata una facies
pietosa e ferma, la denudiamo, la districhiamo, la restituiamo al
mittente dopo una breve, quando accade, condivisione.

Poco tempo fa ragionavamo con gli studenti universitari della


Bicocca sulla percezione che abbiamo delle vittime dell’abuso, se
veramente i sentimenti che pensavamo di provare per loro
corrispondevano a ciò che ci accadeva nei fatti. Intanto, ci siamo

160
Curare la vita con la vita

faticosamente confessati, le vittime non sono simpatiche, non ci


attraggono per nulla mentre è agli stupratori che va il nostro
malcelato interesse, anche degradato in curiosità, magari un po’
guardona e vigliacca.

Diceva una ragazza, la testa di ricci, gli occhi chiari, la persona


bella di chi vuol capire, diceva che stava dal parrucchiere e aveva
sentito una signora di mezz’età commentare velenosamente un
episodio di violenza su una ragazza, c’è da dire che portava il
tanga! La studentessa allora ha ribattuto alla signora rancorosa con
i bigodini che prima il violentatore non poteva sapere che la vittima
sotto gli abiti portava il tanga, e mi ha guardato soddisfatta per
aver rimesso a posto le cose. Ma a me è venuta una gran tristezza,
ma perché, se si fosse potuto sapere che portava il tanga, questo
avrebbe motivato o addirittura giustificato la violenza? Nel 68 sui
muri di Milano c’era una scritta: maschio, maschietto, se tu mi hai
violentato, la colpa è mia che ti ho provocato. E c’è da sottolineare
che l’ambiente di questo scambio era il negozio di un parrucchiere,
a parlarne due donne: dove avremmo potuto trovare un ascolto più
favorevole, più capace di accogliere la vittima di un abuso?

Ma, appunto, le vittime non ci piacciono, non sappiamo che farne,


come racconta crudelmente Alice Sebold in “Lucky”, quando
descrive lo sguardo su di lei, massacrata e sanguinante dopo una
violenza selvaggia, della sua migliore amica: vi ha letto una
esplicita ripulsa, lei, la vittima, era insostenibile, aveva perso la sua
migliore amica che definiva con il suo distogliere lo sguardo
l’emarginazione sociale di chi aveva subito violenza.
Definitivamente, chi aveva subito violenza si collocava al di fuori
del normale, consueto, tessuto sociale espulsa affinché non lo
contagiasse con la sua disperazione. Violento il suo dolore,
insopportabili le sue ferite, colpevole il suo aspetto discinto e non
composto da una doccia e da abiti puliti. È la stessa esperienza che
raccontano, quelle poche che sono riuscite a raccontare, le donne
bruciate vive dai loro familiari di tanti paesi del mondo, è quello che
sussurrava una ragazza nel mio studio, quando gridavo perché mio
fratello mi molestava, mia madre mi sgridava forte che figura,
diceva, stai zitta, non fare rumore, non ti vergogni?

Non ci piacciono le vittime, siamo affascinati dagli assassini, da chi


ha usato violenza. Mi tornano in mente le lettere emozionate e
ammirate per Erika; meno per Omar, valutato come esecutore, non
mente guida del massacro. E, contemporaneamente, mi struggevo

161
Curare la vita con la vita

per quella piccola dal visetto ancora arrotondato da un’eco di


infanzia e mi dicevo che lei ancora ce l’avevamo, ancora potevamo
fare qualcosa per lei, potevamo recuperare il suo diritto a una
giovinezza e poi una vita adulta da vivere.

Ecco, a me sembra che in questo stia la grandezza del Sudafrica e


del Ruanda, nell’aver compreso fino in fondo che lo strappo della
violenza può essere risarcito, così da reintegrare l’unitarietà del
corpo sociale, solamente da chi ha subito violenza, affiancato e
sostenuto da chi rifiuta di scegliere quali parti amputare ed
emarginare dei sopravvissuti. Questi paesi hanno accettato con
fermezza di assumersi la responsabilità pesantissima di un
risarcimento, di un risanamento di una società sconvolta e spezzata
da violenze inimmaginabili. E non percorrendo la strada bigotta e
un poco ambigua del perdono o, peggio ancora, con la
dichiarazione di essere tutti colpevoli sì che la colpa ne risulta
attenuata e come annegata: tutti colpevoli, nessun colpevole.
(bello, da questo punto di vista, il film “In my country”, sempre su
questo tema, che contrappone l’esperienza dolente della bianca
afrikaaner alla rozzezza un poco ideologica del giornalista nero che
vive a New York).

Mi sembra importante e da assimilare profondamente il respiro


grande di chi non ha voluto aderire o al perdono o alla giustizia o
alla pietà ma che ha preteso di tenere tutto assieme andando oltre,
tracciando un nuovo dominio di pensiero e di prassi.

Verità e riconciliazione, per un futuro da volere e vivere senza


lasciar fuori nessuno: grandi, chissà se ne sapremo fare un’edizione
innestata sulla nostra cultura, squassando la nostra civiltà
immiserita per darle una speranza. La mia generazione ha perso,
canta Gaber e son d’accordo con lui ma ce n’è un’altra in campo,
abbiamo bisogno di poter sperare.

162
Curare la vita con la vita

Un polpo in Sardegna

Questa è un’altra storia di magia, una di quelle che, come si dice,


se non l’avessi vissuta non ci crederei.

Dunque, siamo in estate in Sardegna, con nostra figlia quindicenne


e una coppia d’amici carissimi, sposati da qualche mese. Ogni
giorno ci scegliamo una spiaggia diversa fra le tante libere, una
volta più di scoglio, un’altra più ampia e dorata, un’altra ancora con
un po’ di verde. È diventata una gradevole abitudine, ogni mattina
ci presenta un nuovo patto e anche quel giorno lì, quando comincia
la storia, ci siamo sistemati su una spiaggetta silenziosa e aperta.
L’acqua è meravigliosa, sobbolle di luce nella brezza, siamo tutti a
mollo e si alza un’esclamazione: Alberto non ha più la fede al dito,
è scivolata in mare. Tutti a far cerchio attorno a lui, tutti a tuffarsi e
rituffarsi ma non ci tiriamo fuori proprio nulla. Un po’ mogi,
usciamo dall’acqua e cominciamo a districare i commenti: in effetti
Alberto è dimagrito, anche le dita si saranno assottigliate oltre alla
pancia, strappiamo un sorriso ma la moglie Rosaria non ride tanto,
a riva con i panini in mano, si accatastano le proposte: Alberto
potrebbe prendere per sé la fede di Rosaria e comprare a lei una
fedina sarda, no, è meglio fedi sarde per tutti e due, anzi cerchiamo
se c’è un orefice qui in paese, ma è agosto e fra quattro giorni
partiamo, beh vediamo. E il giorno dopo Alberto trova
effettivamente un orefice, pensa!, sulla salita verso la casa, ordina
la fede nuova per sé, l’incidente sembra rientrato senza scosse. Il
giovedì sera Alberto e Rosaria si fanno una passeggiata da
innamorati e tornano con la fede nuova, lucente, al dito di Alberto.
Festeggiamo con le seadas e il mosto cotto, la ricotta è
freschissima, la pelle brucia piano di sole.

Ma la mattina di venerdì, l’ultima in Sardegna, si apre malmostosa:


nulla di grave ma una serie di piccoli inciampi, cesti che si
rovesciano, borse sparite e poi ritrovate. Non ci facciamo smontare
e ci sistemiamo in spiaggia: oggi ne abbiamo trovata una piccola e
raccolta, lontano sfilano le barche, il sole è splendido. Ancora una
volta entriamo in mare alzando spruzzi tiepidi, Federica, nostra
figlia, si aggira con la maschera incantata dai fondali, noi nell’acqua
già pensiamo un po’ alla partenza, ma no, dai, godiamoci
quest’ultima giornata di vacanza, Rosaria ha comprato delle buste
di bottarga, le mette in acqua per non farle scaldare troppo al sole
e, poi, di nuovo, incredibilmente, Alberto perde la fede in mare.
Rosaria si abbuia e tutti noi ci sentiamo passare un brivido di

163
Curare la vita con la vita

malessere. Facciamo cerchio attorno ad Alberto attenti a non


smuovere il fondo, cerchiamo e cerchiamo ma dopo una mezz’ora
Alberto interrompe bruscamente le ricerche. C’è un silenzio
pesante, ci distribuiamo in mare, Rosaria prova, sulla riva, a
poggiare la sua fede sulla sabbia: due, tre passate d’onda ed è già
nascosta. Se la rimette al dito, pensosa, addolorata. Federica,
qualche metro più in là, fa finta di niente, la maschera sul viso, le
braccia allargate sulla superficie dell’acqua, poi si solleva di colpo,
fa un cenno ad Alberto, vieni a vedere, c’è un polpo che si arrotola
in mare. Alberto, sulla spiaggia, il volto scuro e teso, si nega
all’invito ma Federica, che lo conosce bene, torna a riva, insiste, gli
dà la maschera. Alberto allora si alza controvoglia, prende la
maschera dalle mani di Federica, entra in acqua, si avvia scontento
verso il punto dove c’era il polpo, si china rivolto al fondale. E sul
fondale il polpo allunga i tentacoli, li stira, li inarca, lento, sicuro,
ma no, guarda!, indica, sì certo, la vedi? Al limite di un tentacolo
allungato, sorretta in piedi da due sassolini lucenti, la fede nuova
riluce piano tremando nell’acqua. E mentre tutti si fa cerchio
intorno al braccio trionfante di Alberto, il polpo, messaggero del
regno dell’aldilà e protettore dei Capricorni, (Alberto è del 4
gennaio!) scivola via, un po’ più in là, nell’acqua alta, verso il buio.

164
Curare la vita con la vita

Incontri

“Inchino“

165
Curare la vita con la vita

Nota breve

Nella scelta delle sedute, ho privilegiato gli incontri che, oltre a


garantire una buona protezione dell’intimità delle persone
coinvolte, potessero evidenziare alcuni aspetti della tecnica per
l’interlocuzione con quelle che chiamo le persone interne o gli
organi del corpo. Mi sembra evidente che il punto se queste
persone interne esistano effettivamente non è di così grande
rilevanza, può risultare un approccio di qualche utilità per
affrontare tematiche, emozioni, sentimenti o nodi difficili da
maneggiare in diretta. Le persone interne, la voce di un organo
interno, il suggerimento di un ginocchio o la protesta di un piede
hanno la stessa valenza, se vogliamo, di una qualunque finzione
letteraria. Un poco meno che allucinazioni, un po’ di più che solo
pensieri, permettono alle persone, e a me con loro, di addentrarci
in modo protetto fuori dal terreno conosciuto su cui calchiamo ogni
giorno. Un tempo sospeso, un ragionare altro, un’avventura da
sperimentare. Poiché penso che la persona umana sia di una
complessità pressoché infinita, nell’articolata varietà di tutti i suoi
livelli esistenziali, e poiché penso, appunto, l’identità come quella
firma, quello stile che in tutti riecheggia e che tutti, in qualche
modo misterioso, li collega, ritengo utile avventurarsi sul livello
che, in quel momento, per quella persona, può mostrarsi più
agevole. Starà, poi, all’interezza complessa assicurarsi che il
messaggio, la conoscenza, la scoperta attinti ad un livello vengano
veicolati fino al livello che può trarne la maggiore utilità. Mi sembra
proprio che accada, spesso, rendendo estremamente significativo il
tempo fra un nostro incontro e l’altro, quando è la persona che
maneggia e modella a suo piacimento il senso e il dettaglio di ciò
che abbiamo vissuto insieme. Questo modo di lavorare si poggia
anche sulla convinzione che non provoca rigetto, non è un trapianto
da un pensiero all’altro ma, ecologicamente, si compone di
elementi già fin da subito appartenenti alla persona stessa. In
questa modalità di lavoro, mi affianco e anch’io partecipo
dell’esperienza: non potrei seguire un andamento senza, a mio
modo, farmene anch’io un film, un racconto, una visione. Sì che i
miei sentimenti, le mie intolleranze, le mie curiosità vanno a
integrare, nel rapporto fortissimo che si crea, l’esperienza stessa.

Ho annotato, qua e là, dei commenti di tecnica minuta o di


controtransfert. Invitare al colloquio le proprie persone interne o gli
organi del nostro corpo, per quel che ne ho capito in questi lunghi
anni, richiede un certo galateo. Vanno invitate con una certa

166
Curare la vita con la vita

apertura di opzioni, va considerato ciò che portano o dicono: non


voglio dire che occorra obbedire loro, è comunque la persona
stessa che mantiene l’assoluto governo, ma è tenuta, una volta
invitatele, ad ascoltare e tener conto del loro intervento. Magari per
contrastarlo o negarlo, per fare tutt’altro ma non per fare come non
avessero detto nulla. Analogamente, a mio giudizio, vanno
ringraziate per il loro contributo e occorre andar dietro al tempo
che ritengono maggiormente adeguato. La cortesia nei rapporti
resta comunque una buona sponda e permette alle persone di
accostarsi alle proprie cose con rispetto ed attenzione. Come
tentiamo di fare in ogni incontro.

167
Curare la vita con la vita

L’ambiguità del colesterolo

Qualche giorno fa, ci siamo incontrate, con Frances e ci siamo


imbarcate in un gioco d’immagini animate che aveva tutto il sapore
della lanterna magica d’un tempo e ne siamo riemerse, come
dicono i libri di lettura, stanche ma felici. Racconto di lei e poi
sgraniamo la seduta, un passaggio dopo l’altro.

Di Frances, che dire? E’ una donna piena, con un grandissimo


fascino umano: una donna che riveste di un abito femminile, e lo
dichiara apertamente, il suo conoscere dell’uno e dell’altro sesso.

Qualche volta siamo finite a contarcela su, intrigate in un gioco


sottile, quasi di competizione nel bel dire. Ricordo di altri giorni, di
quando abbiamo avuto passi pesanti da palombaro, che perfino la
voce era diventata tutta infreddolita, ricordo dei contrasti da comari
e delle intese da sorelle. Come in un film della von Trotta,? Beh,
forse, e allora Frances la facciamo impersonare da Hannah
Schygulla o da Dominique Sanda; anzi, magari da Vanessa
Redgrave.

Comunque, torniamo al giorno di cui voglio raccontare: Frances si


sistema sul lettino, raccoglie con cura la gonna intorno a sé, si
scherma, come fa spesso, gli occhi con il braccio ripiegato e resta in
silenzio, quieta per un po’. Anch’io me ne sto lì tranquilla, in attesa.
Lei comincia a parlare.

Frances: mi guidi Lei. Qui, accetto al buio: non so


perché oggi mi chieda di
Maria Cristina: cosa vuole guidarla né tanto meno dove,
osservare, cosa le piacerebbe? ma lei lo saprà. Così, chiedo
indicazioni per andare avanti,
Frances: bene, mi piacerebbe
seguendo le tracce di ciò che
toccare il punto più debole se
le piace.
sapessi che riesco…
Frances si sintonizza subito
Maria Cristina: a ricomporlo?
sulla mia richiesta e, mentre
Frances: sì. lascia in sospeso la frase, fa
un gesto di rappattumare con
le due mani che mi suggerisce
la battuta; di nuovo lei
conferma

168
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: possiamo Evidentemente a Frances è


chiedere a chi controlla dentro arrivata l’informazione che
di Lei che ci dia l’alt, mentre potrebbe porsi il problema
stiamo andando avanti, per della ricomposizione. Non ne
garantire il tempo della so ancora nulla, così propongo
ricomposizione? di far conto sul sistema di
sicurezza: chi ne ha dato
Frances: (pausa in cui sembra avviso, può avvisarci ancora
ascoltare) sì. sul suo sistema di sicurezza:
chi ne ha dato avviso, può
Maria Cristina: è d’accordo?
avvisarci ancora che è il
Frances: (brevemente) sì tempo di fermarsi?

Frances mi appare a suo agio.

Maria Cristina: Lei sa come le Ah, qui è bellissimo: io credo


darà il segnale? di informarmi sul come
accadrà per essere sicura che
Frances: (ascolta) dice che a il sistema funzioni e Frances
questo ci pensa lei. risponde tranquilla. Ma la sua
risposta, io la fraintendo e mi
Maria Cristina: (stupita) ci
confondo: l’equivoco sul lei (la
penso io?
parte di Frances) inteso come
Frances: no, ci pensa lei, la Lei (pronome di cortesia) mi
mia parte Frances che sconcerta come uno spruzzo
controlla. d’acqua in faccia. Gocciolante,
penso a quante volte mi è
capitato che il Lei formale si
rigirasse a indicare mogli
invece che parti del corpo o
personaggi del mio
interlocutore che, maschio o
femmina che sia, sempre con
il Lei mi ci rivolgo. Certo,
però, è presente qui anche un
pensiero, una qualche ansia

169
Curare la vita con la vita

su chi controllerà nei fatti il


lavoro. Mi sembro Dante, del:
s’io vo, chi resta? E s’io resto,
chi va?

Maria Cristina: Possiamo Ecco che la richiesta di


andare, allora? sicurezza ora la fa Frances,
chiede a me di garantirla da
Frances: (sospira) proviamo e una svista possibile. La
comunque con la garanzia che rassicuro ma preferisco che si
se Lei se ne accorge che non allarghi la sfera del controllo
mi avvisa in tempo, di, di appoggiandosi anche su di lei.
tenerla a bada, di non Sempre per smorzare, parlo di
assalirmi. dubbio: non voglio in alcun
modo che ne risulti svalutato
Maria Cristina: senz’altro,
il lavoro assicurato dalla sua
diciamo che se nel frattempo a
parte e ribadisco che ci conto;
Lei o a me venisse un dubbio,
anzi che ci contiamo.
possiamo chiedere; altrimenti
abbiamo il segnale.

Frances: va bene.

Maria Cristina: qual è il primo Le chiedo da dove


capo del discorso? incominciamo, perché penso
che i capi del discorso
Frances: va beh, io martedì possano essere tanti, la invito
scorso ho detto tante cose e a sceglierne uno: in ordine di
abbiamo detto che non le tempo o di importanza, come
ricaccio indietro visto che ho lei crede meglio. Frances
fatto tanta fatica a tirarle fuori traccia un rapido schema dello
e credo che sia da cominciare stato dell’arte centrando come
da quelle … il discorso della punto focale la sua ricerca
mia ricerca dell’amore, Lei l’ha dell’amore e le varie forme di
detto giustamente, ma io tradimento da parte degli
l’avevo interpretato in qualche uomini. Mi sembra che il suo
senso più codificato, invece “non lo so” finale sia come

170
Curare la vita con la vita

effettivamente verso … allo interrogativo, rivolto a me. Ma


stesso tempo … la ricerca Frances, come se ci
dell’amore libero mi vien da ripensasse, cambia tono e
dire, mentre … in qualche velocità di voce e comincia a
modo ne è venuto fuori un narrare.
ventaglio di uomini che in un
modo o nell’altro mi
tradiscono, okay?, ognuno per
il suo verso dandomi fiducia,
l’altro togliendomela, uno non
lasciandomi sposare, l’altro
volendomi sposare, senza
guardarci dentro … ecco, credo
che sia questo, non lo so.

Frances: ieri, poi, è stata una


giornata molto difficile.
(Discorsiva per alcuni minuti,
racconta tempestosi equivoci
in cui “quanto più uno si
affatica per andare incontro
all’altro tanto più l’altro vede
la cosa opposta”, di fastidi e Ascoltandola, sento che la sua
delusioni sul lavoro). voce va ad avvitarsi
gradualmente, sempre più
stretta, come un microsolco
spinto ad accelerare; e
intervengo.

Maria Cristina: Frances, può


controllare un attimo con
quella parte lì se stiamo
muovendoci bene?
Frances va, ascolta, ha la
conferma.

Frances: sì, stiamo andando Con voce ora sicura riprende il

171
Curare la vita con la vita

bene. racconto, tutto d’un fiato ma


non di fretta.

Frances: allora, a pranzo è


venuto anche un ragazzo che
fa yoga e ha fatto in modo tale
che io parlassi un po’, dicendo
che mi vede, sa come fanno gli
yoghisti, i grandi indovini, e
dice vedo che il tuo subconscio
è ancora molto ferito e tutte
queste cose qua e che ti sta
danneggiando molto. Può
anche darsi che in qualche
modo si sia sintonizzato con il
mio colesterolo, non voglio
neanche minimizzare perché è
una persona che lavora da
anni, e tutte queste cose qua.
E sta di fatto che ha fatto in
modo tale che io parlassi un
po’ del mio dolore e io ho
incominciato a piangere. E poi
sono andata in ufficio. E sono
rimasta a battere una lettera e
sono andata a parlare con altri
colleghi raccontando un po’
qual era la mia impostazione
di lavoro dicendo che d’altro
canto non stavo molto bene. E
ho detto che il mio dolore è
causato dal mio grosso senso
di solitudine che ho vissuto e
ho visto che sono stati toccati
profondamente. Al che una di
loro che capisce un po’ di più
ha detto: non credere che
perché uno non ha detto
niente non ha sofferto. Allora

172
Curare la vita con la vita

io ho risposto: se non avessi


una speranza, anche una
piccola speranza con questo,
non starei parlando adesso. Da
un lato sono contenta e mi
sono piaciuta. Dopodiché sono
andata a lavorare e sono
venuta qui e ho avuto questa
spossatezza enorme per cui
vorrei … io credo che dovevo
dire tutto quello che ho detto
perché credo che sia la
spossatezza che si riconduce
un po’ a tutto. Io credo che
devo piano piano cominciare a
guardare in questa … non
aprire la diga ma guardarci
almeno dentro in quella cosa
che la diga ha fermato perché
io guardassi tutto il resto
perché da questo dipende,
dipende tutta la mia
evoluzione e il mio modo, il
mio modo giusto di avere
rapporti.

Maria Cristina: diciamo che Propongo una prima


può essere un serbatoio di ambiguità nel modo di
linfa, se ben condotto? considerare le cose: lei ha
parlato di diga del colesterolo,
io riprendo l’immagine
avanzando serbatoio di linfa in
Frances: sì, assolutamente.
contrappunto e concludo con
(attende ancora, come in un condotto: che prende le
ascolto, scuote lievemente la mosse da un sistema
testa) niente, io ho finito. circolatorio ma può alludere
anche a un rapporto, un
processo.

Come dire, se conduciamo

173
Curare la vita con la vita

bene il nostro lavoro, Frances,


ritiene che il colesterolo possa
assumere funzione di linfa?
Lei acconsente.

Maria Cristina: qual è, Per guardarci dentro si può


Frances, il punto che brilla di cercare ciò che brilla di più:
più, che chiede di essere mi piace usare lo strumento
richiamato per primo? tecnico del “di più”, che
affianca e raddoppia.
Avviando una nuova
sequenza, dopo il suo ho
Frances: io credo che tutto,
finito, riecheggia il tema
perché siccome ho imparato a
iniziale della guida, come la
congratularmi con me stessa,
stella cometa che brilla a
ho incominciato a guardare un
indicare. Assieme al visivo
po’ in quella diga di
brillare, aggiungo (ancora un
colesterolo, parlandogli come
raddoppio) la componente
ho parlato perché proprio per
auditiva del chiedere di essere
non continuare sulla stessa
chiamato: vorrei fosse
scia dell’ambiguità. Io stavo
esplorata, infatti, la terza
guardando dentro la mia diga
percezione, quella delle
e la cosa che brilla diciamo in
sensazioni, per cogliere la
modo negativo, di più in
spossatezza di cui parlava
questo momento è Sandro. La
Frances.
cosa che brilla di più in senso
positivo, e no non è tanto che Lei riconosce che due punti
brilla sembra che la parte di che brillano di più, in positivo
pensiero caldo, dove io mi e negativo, due uomini, ma
rivolgo e ho del calore e ho del osservando il secondo, Luis, il
pensiero è Luis. guardare trasforma in
pensiero caldo, una
sensazione.

Maria Cristina: che è in Uso il termine collegato senza

174
Curare la vita con la vita

qualche modo collegato a specificarne altri modi oltre al


Sandro, se non altro come suo essere polo,
polo? eventualmente sarà Frances a
dare indicazioni. Lei dà
l’assenso di Luis, mentre
Sandro nega, e da questo
Frances: Luis dice di sì, sono
prendo le mosse per proporre
spuntati all’improvviso e
a Luis di collaborare; in modo
stanno qui, Sandro dice di no.
aperto, quel che ne pensa.
Applico ancora la
contrapposizione per precisare
Maria Cristina: può darci il senso della risposta di Luis.
qualche indicazione, Luis, su
quel che ne pensa?

Frances: è come se mi
biasimasse perché ho ripreso il
rapporto con Sandro.

Maria Cristina: la biasima


perché è pericoloso o perché
non deve?

Frances: perché non ne vale la


pena!

Maria Cristina: questo è un po’ Commento fra brusca e


poco. Non mi sembra che Luis scherzosa la risposta laconica
si interessi poi molto dei suoi di Luis, rifacendomi a come
tempi morti. Frances me ne ha parlato, per
saperne di più e con maggior
precisione ma anche per
confermare la confidenza fra
Frances: (sovrapponendosi
noi.
ride divertita) è vero!

175
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: non vale la Sembra che Frances abbia


pena in che senso? nel senso una risposta emotivamente
che non è un uomo per cui importante; provoco un ancor
vale la pena di, e dovremmo maggiore coinvolgimento
sapere di che si tratta, o non riproponendo, anch’io seria, il
ne vale la pena di andare ad divario: se non è Sandro, chi?
indagare quello che lei , nel
rapporto con Sandro, può
scoprire?

Frances: (la voce si fa molto


seria, bassa) no, no. Perché è
uno che non vale la pena di.

Maria Cristina: quale sarebbe


invece l’uomo che vale la pena
di?

Frances: lui. E Luis si espone.

Maria Cristina: ma Luis è Quello che cerco di chiarire è


disponibile a farle esplorare un se il veto di Luis al rapporto
sentimento, lo stesso con Sandro si allarghi anche a
sentimento che lei intendeva ciò che in questo rapporto può
sperimentare con Sandro? essere sperimentato, l’altro
senso del non vale la pena;
Frances riferisce ciò che Luis
va dicendo e commenta, poi,
Frances: no, ma Luis dice che
a margine, che è un discorso
non devo più sperimentare
differente la realtà del danno
questo tipo di sentimento; che
dall’uso potenzialmente
ho già sperimentato.
interessante che lei può farne.
Dicendo così, differenzia il suo

176
Curare la vita con la vita

pensiero, e quindi anche la


sua posizione, da quella di
Maria Cristina: quindi non è Luis.
questione che è inutile ma che
è dannoso ripetere la prova?

Frances: sì. E perché Sandro è


comunque dannoso. Sandro è
danno. E che poi mi possa
servire perché a me il danno
mi aiuta, è un discorso
differente. Il danno vuol dire la
sofferenza, l’impatto; mi aiuta
in che senso? mi aiuta ad
andare avanti perché io mi ci
guardo dentro e non mi
distrugge, in qualche modo
riesco a ricostruire. Però, non
è più necessario, tanto di
danni ne sono stati fatti per
cui non ci deve più stare. Interessante lo scarto tra
inutile, dannoso, non più
necessario.

Maria Cristina: cos’è che non ci Ora è come se fossimo su di


deve più stare? Sembra che a un palcoscenico, tre persone,
Luis piaccia essere un po’ Frances, Luis e io, a formar
sornione, le dà un foglietto per triangolo e le luci che ogni
volta. volta illuminano una coppia:
dapprima chiedo a Frances
che cosa Luis ha inteso dire e
la attiro in una complicità tra
Frances: beh, sì (assorta e
noi due che di Luis
forse compiaciuta), è sempre
commentiamo. Frances mi
stato così. (Poi, come
risponde sintonica nel testo
tornando ad una vigilanza
ma si sposta ad affondare il
differente) Beh, il suo consiglio
rapporto con Luis facendo di
è che intanto ho fatto bene
me il terzo. Torna a me
quello che ho fatto, per quel

177
Curare la vita con la vita

lavoro. Poi mi dice di lasciar riferendo il consiglio di Luis e


cuocere Sandro nel suo brodo stavolta sono io a distaccarmi
per vedere che minestra ne da lei controllando l’esattezza
viene fuori. del pensiero di Luis. Lei
aderisce e si assume la
paternità della minestra che la
differenzia dal brodo
Maria Cristina: sì, Frances, (la
idiomatico cui accenna Luis.
mia voce è perplessa) ma non
è un po’ in contraddizione con
quello che le diceva prima, nel
senso che se Lei deve
distaccarsi dal suo rapporto
con Sandro, non dovrebbe
neanche interessare che
minestra ne viene fuori. O
invece non ho capito?

Frances: beh, devo dire che


questo viene, viene da parte
mia, ossia la mia tendenza
…ossia io avrei voglia già, già
o domani, o quando sia,
quando avrò l’occasione, di
cominciare a fare con Sandro
quello che stavo facendo, che
ho fatto con i miei colleghi. Ma
poi volevo sapere il suo
parere, come le suona, come
le è arrivato all’orecchio.
Infine chiede il mio parere,
con quel ma avversativo
iniziale.

Maria Cristina: cosa ne dice Proprio con questo movimento


Luis? a triangolo, sono molto cauta
nell’espormi quando Frances
mi chiede e, proprio come un

178
Curare la vita con la vita

Frances: sta ascoltando. terzo in una coppia, mi


assicuro che l’altro, Luis, non
se ne avrà a male. Formulo la
frase con la stessa vaghezza
Maria Cristina: mi sembra che
di quella di Frances perché
Lei abbia riportato in gran
non so bene su che cosa lei
parte il telex di Luis ma abbia
volesse il mio parere: sul
aggiunto i suoi saluti finali,
contenuto complessivo del
non c’è più solo il pensiero di
discorso, sul rapporto di
Luis.
coppia, sul suo differenziarsi
da Luis, sul suo progetto di
attuare con Sandro ciò che ha
Frances: no, no, no. Non è più già fatto con i colleghi. Luis
Luis che parla, sono io. sta ascoltando: commento
con Frances che non c’è più
solo il pensiero di Luis (un
Maria Cristina: Luis si è tema, questo dell’autonomia
ritirato? del pensiero femminile nella
coppia che abbiamo ripreso
tante volte). Lei, con grande
vivacità, quasi ridente
Frances: sì, sì, sì. Per cui io riafferma che non è più Luis
dico che la mia tendenza che parla, sono io. E si
sarebbe questa e quando dico: mangia le parole nella fretta
vediamo che minestra ne di espormi ciò che farà.
viene fuori, è perché prima o
poi lo farò, lo devo fare. Chiaro
che con metodi diversi, non
fare le stesse cose che con i
miei colleghi, fare una cosa
con Sandro che gli entri
dentro, ma proprio dentro al
midollo, come è arrivata ieri a
quelle persone.

Maria Cristina: dica un attimo Chiedo a Frances di


a Luis di stare attento, volevo ricongiungere la coppia per un
chiedervi questo, a Lei e a lui riassunto del punto che mi è
insieme. Se ho capito bene il sembrato centrale del

179
Curare la vita con la vita

pensiero di Luis, Frances può pensiero di Luis, il brodo di


sperimentare con Sandro Sandro, e affido loro la
qualcosa perché Sandro ne è verifica della correttezza della
un ottimo esemplare. mia comprensione. Frances si
immerge in un discorso a
spirale, punteggiato di allora
che ogni volta precisano
Frances: (attenta) sì.
meglio dove andare a cercare
la risposta. Che Frances ha
già ma che nel dialogo con
Maria Cristina: ma Sandro è Luis arriva a possedere
una persona pericolosa per compiutamente, mi piace
sperimentarla. Allora Frances prenderla a metafora di una
dovrebbe trovare un felice relazione terapeutica.
esemplare che sia ugualmente
significativo per il brodo di Il mio commento sotto voce
Sandro ma non è Sandro la tende sicuramente a verificare
persona giusta con cui l’esattezza di quel che ho
indagare, esplorare, capito ma mi sembra voglia
sperimentare. anche richiamare Frances al
rapporto con me: le offro una
metafora, come fosse una
caramella. Forse c’è un
Frances: allora: Luis ha sentimento di gelosia (ancora
abbassato giù la testa perché il terzo?) che la sua intimità
considera che io ho già la con Luis ha suscitato.
risposta. Non è tanto che
Sandro è la persona, non è la
persona giusta, da un lato …
allora: Luis dice che sui lati,
nei lati nei quali io ho
sperimentato con Sandro, ci
sono esemplari a un livello
diverso con cui io posso
sperimentare certi tipi di
rapporto con un uomo e che
c’è già, l’ho già trovato; che io
lo so e che lui approva. Io
dico, e lui anche, che è questo
tipo di sperimentazione con
Sandro in cui alla fine penetra
dentro la mia, la mia parte di
colesterolo perché faccio

180
Curare la vita con la vita

perché finché … allora: è


diverso. Adesso invece di
sperimentare con un Sandro,
io sto sperimentando
guardando dentro la mia diga,
la mia, diciamo, parte vitale
che è tutta qui dentro. Allora,
siccome Sandro è una punta
abbastanza di … significativa
della ambiguità … quella che
arriva a me, dentro, male.
Quella che a me crea il
colesterolo. Allora in questo
momento … per cui, una volta
individuato che questo è
danno, ma danno profondo, e
siccome anche se lo so,
comunque Sandro riesce a
entrare in quella parte… e
riesce a entrare. Perché è per
quello che deve essere lasciato
Sandro: perché Sandro riesce
a trovare un linguaggio tale da
farsi credere, da far credere
che veramente mi vuol bene. E
io ci credo. Come di fatto
credo un po’ a tutti, però
questo è, diciamo, è così. E
allora, Luis dice due cose:
prima di tutto non vale la pena
per il tipo che è, e secondo
non bisogna farlo perché
nonostante sapere tutto
questo ti danneggia.

Maria Cristina: non vale la


pena per il tipo che è un po’ la
stessa differenza che passa fra
l’ape e la vespa, tutte e due
hanno il pungiglione la vespa è
sterile e muore perso il

181
Curare la vita con la vita

pungiglione.

Frances: esatto, è proprio così.

Frances: (tace per qualche E’ un momento di quiete. Alle


minuto, assorta, il respiro parole di Frances mi affianco
calmo, la figura abbandonata interrogativa, come fossi
sul lettino. Poi con una voce sospesa sul da farsi.
come umida) è molto bello,
Luis così, però.

Maria Cristina: (ascolto nel


nastro una nota complice e
forse un’eco d’invidia nel mio
intervento) è amicale o è
tenera?

Frances: (in registro


lavorativo) è attento, Lei mi rimanda subito un
estremamente attento … la “riprendiamo a lavorare” con
testa abbassata, le gambe quell’accenno al tavolo
incrociate, appoggiato ad un rotondo che appartiene ad un
tavolo, non a caso è rotondo, nostro codice. Testo la qualità
le mani appoggiate sulle di un rapporto che Frances in
ginocchia e la testa appoggiata questo momento ha con Luis:
sul tavolo che ascolta con la tenuta, la confidenza, la
attenzione. differenziazione. Ci
scherziamo anche un po’ su,
con l’irrisione leggera che
ridimensiona senza diventare
Maria Cristina: si fida, in
un deridere. Una sfumatura
questo momento, di Luis?
particolare di linguaggio fra
donne che parlano di uomini.

Frances: sì.

182
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: totalmente?

Frances: no.

Maria Cristina: quanto le


serve?

Frances: sì … è molto sorpreso


Luis di queste cose qua.

Maria Cristina: che Lei dica:


fino ad un certo punto?

Frances: che io dica: fino ad


un certo punto.

Maria Cristina: l’ha


metabolizzato, adesso, o è
ancora lì che pensa?

Frances: gli è piaciuto, molto.


Okay, è pronto.

Maria Cristina: (sorridendo) Sembra che si possa


mhm. Volevo chiederle, se è cominciare a raccogliere
possibile, se è opportuno, che qualche filo di quelli che sono

183
Curare la vita con la vita

Lei chiedesse a Luis questo, di stati via via disseminati nel


mostrarle per un attimo, a discorrere. La ricerca di
fianco a lui, una immagine di Frances è intorno
Luis in cui sia distinguibile all’ambiguità nei rapporti ma
dell’ambiguità, affinché Lei Sandro non è un soggetto
possa distinguerne i contorni. utilizzabile: Luis sarebbe
disposto a esporsi lui,
mostrando di sé una
immagine in cui Frances possa
Frances: distinguerne i
discernere della ambiguità?
contorni.
Nei contorni, dapprima, data
la pericolosità di cui Frances e
Luis si sono detti convinti, poi,
Maria Cristina: sì, e dopo, il consenso di Frances,
conoscerla, diciamo. per una conoscenza vera e
Chiedendo a Luis, proprio per propria. Accampo come
la sua doppia nascita, per la risorsa il sangue doppio di
sua doppia appartenenza, di Luis, una sua caratteristica
sdoppiarsi mantenendo che guiderà Frances nel
davanti ai suoi occhi, Frances, discriminare fra doppio ed
ben saldo Luis che Lei conosce ambiguo. Propongo, insomma,
e di cui può fidarsi e fare una che venga evocata
sorta di proiezione a lato di un’immagine di Luis ben
Luis ambiguo, che abbia distinta da quella che Frances
dell’ambiguità. In modo che conosce e di cui può fidarsi.
Lei possa vederla come Siamo in piena esperienza
brillare, nel confronto. Sono visiva: riprendo il brillare di
stata chiara? prima, sono stata chiara?.

Frances. Sì.

Maria Cristina: però, non so se Frances è d’accordo,


è opportuno farlo. ragioniamo sull’opportunità
della proposta e sui rischi che
può comportare; una verifica
che mi torna piuttosto
Frances: (sovrapponendosi)
abituale.
diciamo che quello che Luis mi

184
Curare la vita con la vita

dice è che se può sdoppiarsi, Interessantissimo come


può sdoppiarsi nella sua parte Frances dichiari per Luis
nera e bianca e se deve dare i difficile sdoppiarsi perché è
suoi connotati all’ambiguità, difficile restare nero: mi
può temere che mi dispiaccia. sembra che difficile non sia
qui l’aggettivo contrario di
facile ma piuttosto alluda a un
rischio, questo sì fin troppo
Maria Cristina: questo è un
facile, di restare poi
ostacolo, per Lei, Frances?
dimezzato come il visconte di
Calvino.

Frances: no, però non riesce,


quando lui si sdoppia, non
riesce a diventare, a rimanere
Luis di sempre, diventa nero e
bianco. Certe volte, dice, è
difficile sdoppiarsi perché è
pericoloso restare nero.

Maria Cristina: pericoloso per


lui o pericoloso perché Frances
potrebbe temere di averlo
perso?

Frances: no, pericoloso per lui.

Maria Cristina: pericoloso per


lui?

Frances: sì.

Maria Cristina: (come


pensando a voce alta)
potrebbe mettersi al fianco,
allora, un Luis bianco da una
parte e un Luis nero dall’altra, Oltre alla difficoltà di

185
Curare la vita con la vita

mantenendo lui, intero, al mostrarsi in un rapporto


centro, fra tutti e due. importante nella propria parte
nera. Da qui, il suggerimento
di chiedere a Luis non più di
sdoppiarsi ma, meglio, di
Frances: sì, okay. E la parte
raddoppiarsi, restando intero
bianca si vede pochissimo.
al centro e affiancandosi un
bianco e un nero. Questo si
può fare e resta subito
Maria Cristina: la parte nera? evidente come sia la parte
nera quella più interessata.

Frances: sì, si vede, ha un


braccio sulle spalle e Luis la
stringe.

Maria Cristina: cos’è che le


interessa verificare e scoprire?

Frances: beh, intanto ho visto


che, che è la sua parte nera
che gli dà la vecchiezza,
l’antichità. Luis ogni tanto
sembra quasi un vecchio come
parla e come pensa, un
vecchio, un vecchio saggio,
no?, che ha dentro di lui la
parte bianca e la parte nera, e
proprio la parte nera di Luis
negro è un Luis vecchio,
diciamo come se fosse il suo
bisnonno. La parte bianca è
quasi senza contorni, però è la
parte che gli serve per
proteggere la potenzialità della
sua negrezza. Lui ha assentito
e a questo punto si è potuto
permettere di abbracciare
tutte e due le parti e la parte

186
Curare la vita con la vita

bianca, mentre la parte nera è


un vecchio, la parte bianca è
quasi un ragazzo. E’ come per
dire l’ambiguità dei bianchi è
nel carattere dei piccoli, fin da
piccoli.

Maria Cristina: (sottovoce)


Frances, gliel’hanno insegnata
i bianchi?

Frances: gli ha insegnato la


sua parte nera al confronto
con i bianchi, dipende dalla
struttura in cui si vive e c’è la
parte di Luis ambiguo, è la
parte di Luis che forzatamente
è stata la struttura per
difenderlo. E questa è la parte
ambigua. Allora, quello che mi
vuol dire Luis, di non soffrire
se magari anzi sembra che io
faccia delle cose sbagliate nei
suoi confronti e anche nei miei
confronti e nello stesso tempo
mi dice: adesso posso essere
meno sbagliato di prima …
perché l’ambiguità è usata non
cambiando persona, non
cercando di aiutarti perché
questo non si poteva fare. Ed
è proprio così, perché è la
legge dei bianchi che l’ha
detto. Eppure l’ambiguità era
vestita di nero … ha usato la
sua parte bianca,
indubbiamente …

(Frances lascia morire la frase,


lascia assaporare il discorso,

187
Curare la vita con la vita

forse per ospitare una


riflessione. Poi si riscuote e:)

Frances: (bruscamente) e C’è un soprassalto di Frances,


adesso il nero mi dice: adesso come si sentisse aggredita. E
che mi sono mostrato io, mi giunge violento il teso
quando andrai a fare la tua messaggio. Così, mi informo
parte, tu? con un po’ d’ansia e, quando
Frances riporta una risposta
banalizzante non mi
accontento e incalzo Luis che
Maria Cristina: e Lei ha
si era promesso protettore,
accettato, Frances?
distinguendolo dal nero.

Frances: dice di no, stava


Sembro un po’ mamma lupa,
scherzando.
no?, sospettosa e con i denti
ben in mostra. Frances mi
risponde tranquilla
Maria Cristina: non so se stava ridistribuendo con cura i ruoli
scherzando. in gioco: la parte di controllo
deve fronteggiare la richiesta
rendendone conto a Luis in
Frances: l’ha detto che è un termini reali, il tempo rotondo
sornione, io penso che lo sa della seduta. Lei, Frances, che
già. ha un rapporto con Luis, può
fargli una promessa. Senza
condizioni.

Maria Cristina: il nero, ma Luis


cosa ne dice?

Frances: sta aspettando e


ascolta e sorride.

188
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: sta anche


aspettando la sua risposta?

Frances: sì. Io credo che la


parte di me che sta
conservandomi nel tempo
rotondo della seduta, deve
rispondere a Luis che non ce la
faremmo. Io comunque
prometto a Luis, che la
prossima volta che, che lo
chiede, lo farò.

Maria Cristina: c’è altro che Lei Frances sta rassettando:


vuole sapere, Frances? questo è a posto, questo lo
sapevo già quindi neanche
chiederlo.
Frances: mah, è come se lui S’interroga e ha le risposte
mi avesse già risposto una che le servono, sa cosa non è
cosa che io avevo già da il caso di fare perché non
tempo, questo lo sai già quindi sarebbe il modo giusto di
neanche chiederlo. Sì, mi parlare. E allora, e questa
interessa più sapere su di lui, sincronia mi incanta, con
nei confronti di lui piuttosto ovvia naturalezza le due parti
che di lui nei miei confronti. si ricompongono dapprima fra
Questo è vero. Dice che basta. di loro e poi rientrando in
Perché io adesso parlerei con Luis. Permettendogli di
lui ma non sarebbe il modo sedersi. Mi informo, molto
giusto di parlare. E allora le interessata, sul come è
due parti adesso si sono andata precisamente la
sedute e lui è rimasto in piedi, ricomposizione e Frances,
si guarda in giro e non ha dove docile, descrive. C’è un clima
sedersi, e le due parti sono di tranquillità corposa, di
riunite e lui si è seduto. conversazioni senza tensioni.

189
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: riunite, come?

Frances: prima si sono riunite


e poi sono entrate in lui.

Maria Cristina: prima fra di Intreccio, ora, il tema della


loro si sono riunite? spossatezza, faccio anch’io la
donnina di casa che rimette in
ordine: di questa spossatezza
che ci è rimasta in giro, cosa
Frances: sì, adesso è seduto
ne facciamo, Luis la conosce?
un po’ affaticato.
Lo chiamo in causa e un po’ lo
punzecchio: sono cose da
donna o anche un uomo può
Maria Cristina: se fosse stato sfinirsi?
più a lungo o più faticoso il
lavoro, invece che affaticato Frances dapprima lo copre
sarebbe stato spossato come escludendolo
lo era ieri sera? automaticamente per
rivendicare la paternità della
sua spossatezza del tutto
autonoma, svincolata da lui e
Frances: non credo, a parte da me: la mia spossatezza era
che le parti non si sono proprio mia, non c’entra il lavoro che
riunite del tutto perché le avevamo fatto. Poi si
vedo, io credo che la mia reinserisce la risposta piccata
spossatezza era mia, non di Luis che apre una nuova
c’entra molto con il lavoro che parentesi di grande complicità
avevamo fatto. Ah, Luis, prima fra Frances e me.
di tutto lui dice che lui non
arriva mai ad essere spossato.

Maria Cristina: oh, ecco mi


pareva, (ridiamo assieme) mi
pareva un po’ troppo

190
Curare la vita con la vita

tranquillo!

Frances: quando ha capito,


quando ha realizzato quello
che ha detto, ha detto: non
scherziamo. (a me) Vogliamo
scherzare? (ride a gola piena)
Bellissimo questo! (ride
ancora).

Frances: (dopo un po’ e con Frances passa, ora, a


una voce meditativa) eppure commentare, s’interroga sul
quando sento quello che dice, che cosa è avvenuto e sul
mi dico cosa mi sto inventando come è potuto accadere.
io, no?, eppure quando è lui Sbrigativa, e saggia,
che risponde, io non c’entro, conclude: non importa. Entra
son convinta. E poi non in campo la parte deputata al
importa. C’è la parte che controllo che la rimprovera di
controlla il tempo che mi sta invadere il tempo che è
redarguendo: come ti permetti contrapposto al tempo
di invadere il tempo che è, il rotondo della seduta.
tempo reale. Basta.

Frances: probabilmente, in C’è qui l’ultimo passaggio, il


questo rapido fluire di battute, rapporto diretto di Frances
come lui ha risposto così, io con la sua parte di controllo;
immediatamente stavo che l’ha avvertita che stava
sganciandomi da questo tempo sganciandosi da questo tempo
qua. qua, in relazione alla risposta
di Luis. È stupefacente l’agilità
di Frances nel passare da un
livello logico ad un altro, da
Maria Cristina: cos’è che
un rapporto a un commento a
rischiava?
un’emozione. Senza
incertezze, senza confusioni,

191
Curare la vita con la vita

con una brava cordialità.


Anche con la capacità di
Frances: rischiavo molto, non fidarsi delle indicazioni che le
so cosa ma rischiavo. giungono senza saperne poi
Rischiavo di, di dimenticare, di troppo: rischiavo molto, non
non capire. Secondo me, è la so cosa ma rischiavo. Mi
parte che abbiamo chiamato in allineo a lei per valutare come
causa da subito che mi ha va usato il tempo, ora, nella
fatto questa cosa qui perché zona crepuscolare in cui il
rischiavo di non capire, perché tempo rotondo della seduta va
questa parte crede che io stingendo sul tempo reale. E
debba parlare della mia Frances tira le ultime fila.
spossatezza.

Maria Cristina: deve parlarne


adesso, in questi quattro
minuti che mancano?

Frances: sì, perché è molto


breve. Io credo che questo
affaticamento, enorme, che io
avevo, era proprio causato dal
fatto che ci avevo ficcato il
naso nella mia parte
colesterolica, l’ambiguità. E ho
collegato i due poli, ho
collegato i due punti. Nel
senso che, guardando dentro
nella mia parte dolente, ho
parlato agli altri di cosa mi
procurava dolore, okay?, e
questo è stata una grossa
fatica perché mentre la mia
tendenza è stata quella di
mettere un argine, racchiudere
questa mia parte
profondamente dolente, e
ammalata, per poter

192
Curare la vita con la vita

continuare a vivere nel suo


complesso, ieri ho fatto una
cosa diversa, ho vissuto
parlando un pezzo di parte
malata. E questo mi ha
provocato un’enorme
spossatezza. C’è stato, il fisico
ha fatto sì che io non toccassi
null’altro perché mi avrebbe
distrutto. Mi ha spossato
anche perché c’è sempre una
donna nel ventaglio
dell’ambiguità e questo mi
ricorda che c’è un conto in
sospeso che va saldato e che
da lì non si scappa, l’ambiguità
della donna che vive il distacco
mentre vive il rapporto.

Maria Cristina: ci torniamo su?

Ho consegnato a Frances la trascrizione di questa seduta e gli


appunti a lato, proponendole, se lo desiderava, di farne un
commento suo. E lei mi ha consegnato una lettera che
accompagnava un suo lavoro. La lettera l’ho conservata per me, il
suo testo eccolo:

Parla Frances

Ho letto e riletto questa seduta per ben tre volte. Ho sentito la


necessità di rileggerla perché alla prima lettura quello che mi è
balzato di più all’attenzione che ha offuscato tutto il resto è stata
l’enorme imprecisione che ho nell’esprimermi. Constatare questo mi
ha turbato e preoccupato, tant’è che non riuscivo a focalizzare
nient’altro.

Ritornando successivamente al nostro lavoro questa imprecisione


mi ha toccata sempre con forza. Adesso dopo esserne ritornata per
la terza volta mi viene da dire che questa mia attuale difficoltà di

193
Curare la vita con la vita

parlare adeguatamente può essere di nuovo collegata al


colesterolo. Direi che il colesterolo, questa mia parte vitale inferma,
si manifesta sintomaticamente attraverso il mio parlare. E penso
che sia molto importante a questo punto guardarci dentro, con
amore e cautela però anche con decisione e costanza. Ho risentito
come molto mio il fatto di considerare che questa mia parte
dolente, ammalata, può essere un serbatoio di linfa, di nuove
energie e di nuove più grosse capacità. Per la prima volta sto
considerando l’idea di essere malata, penso sia dovuto al fatto che
credo di poter guarire.

Sto già guarendo?

E’ stato molto utile rileggermi più volte ed avere possibilità di


prendere coscienza della malattia. Solo adesso capisco perché mi
ha tanto sconvolto il mio esprimermi sconnesso; perché ho
realizzato che stavo toccando la malattia.

Ho avuto ed ho un po’ di paura, paura che il torrente colesterolico,


tenuto fino ad ora a bada, sia più forte di tutto il resto … più forte
di me. Ho realizzato che ci aspetta ancora un arduo lavoro, sono
fiduciosa ma anche timorosa. Penso che si dovrà lavorare sopra con
molta cautela e amore.

(Credo che questo sia un avvertimento principalmente per me).


Sento amore per questa parte, un amore protettivo come si sente
per il figlio più fragile.

Rileggendo la parte riguardante Sandro ho sentito che una parte di


me non è più disposta a subire le ambiguità altrui ed a proteggermi
contro di esse. Lo sente come una grande offesa e vuole e ha
bisogno di chiederne conto.

-LUIS-

Mi ha sorpreso (favorevolmente) la Sua ammissione di complicità e


del pizzico di invidia che riscontrò ascoltandosi. E’ stata la conferma
del nostro percorso comune, del percorso di questi anni e della sua
partecipazione al mio/nostro lavoro. Ho ammirato la Sua capacità di
seguirmi, nonostante il mio esprimermi difficoltoso. (Per seguirmi
voglio dire intendermi). Sembrerebbe che Luis sia già membro della
mia parte guarita e un segnale che proviene da me guarita.

194
Curare la vita con la vita

Mi sono vista, però, molto acritica nei suoi confronti, non succube.
Mi incuriosisce e affascina molto questa dimensione surreale; è una
chiave che mi permette di avere accesso a tante stanze chiuse che
altrimenti sarebbero rimaste sempre chiuse. Per esempio
attraverso la parte nera Luis mi chiede perdono di quello che non fa
nei miei confronti e che secondo lui dovrebbe fare. Sarà così,
oppure sono io che necessito di giustificarlo a tutti i costi? …

La parte finale della seduta ci invita a tornare sulla mia parte


malata.

Torniamoci

195
Curare la vita con la vita

Gli occhi del sarcofago

Monica, donna simpatica e fattiva, fa l’insegnante, ha una famiglia


ma le sembra di divertirsi poco. O, meglio, è questo il punto cui
siamo giunte e su cui stiamo lavorando quando ci incontriamo, in
una giornata estiva, calda ma non soffocante.

Monica: oh mamma. (ansima È una richiesta che faccio


per un po’, ha fatto le scale; abbastanza spesso, questa di
poi ricorda la mia richiesta di un sogno o due, di qualche
un sogno o due che ci chiarisse informazione sotto qualche
le idee, sa di averlo fatto ma forma, in merito o inerenti a
non lo ricorda) poi è suonata la quello che è passato fra di noi
sveglia e io nel dormiveglia ho la scorsa volta. Questo
cercato di manipolare il sogno, restituisce autonomia e
farlo andare come volevo io, controllo all’altro che torna ad
però di che cosa fosse proprio essere il gestore principale
non ricordo. delle sue cose. Chiedo, in
genere, di rivolgersi al
“facitore di sogni” affinché
venga messo a disposizione un
sogno, un cenno,
un’impressione, un qualcosa,
insomma che possa essere
inteso come inerente alla
domanda. Suggestione, realtà,
immaginario non mi interessa
poi molto, il fatto è che
generalmente le persone
ritornano con una conquista.

Maria Cristina: vediamo cosa E, coerentemente,


riusciamo a recuperare. presuppongo, già nel mio
domandare, che qualcosa
recuperabile poi sia. Sono al
suo fianco. E Monica collabora
Monica: guardi, ho cercato,
ampliando il suo racconto, con
non riesco a recuperare niente,
una ironia pungente, che sfiora
so che c’è qualcosa ma non,
il sarcasmo, nei suoi stessi
poi dopo mi domandavo: sto
confronti, che cerca di far

196
Curare la vita con la vita

sognando o sto pensando? andare le cose come piacciono


Zero assoluto. Non è la prima a lei. Questo mi conforta
volta che mi capita, cosa nell’aver avanzato la richiesta,
faccio?, cerco di fare andare le è evidente che a Monica piace
cose come piacciono a me; tenere le redini e, come di
non sempre ci riesco, perché consueto cerco di andare al
guarda caso se devo sparare suo passo anzi accentuandolo.
non riesco a sparare, oltretutto
ho sempre gli occhi semichiusi Ma ecco che Monica introduce
(…) sono in pericolo, devo di botto un ostacolo grave,
agire in un certo modo, ma per parla di pericolo, di sparare, e
agire devo avere gli occhi annota, angosciata, come
aperti. Invece io ho gli occhi avere gli occhi aperti renda
chiusi. E non riesco a vedere. impossibile agire, proprio
mentre agire dovrebbe.

Maria Cristina: e li deve tenere Intervengo con voce molto


chiusi? bassa e interessata al dato
tecnico: li deve tenere chiusi?
Perché, chi la obbliga, come
succede, che cosa esattamente
Monica: no, io cerco di tenerli
succede? Spostando l‘interesse
aperti ma non riesco. Proprio il
sull’indagine cerco di sottrarla
contrario, non è che io debba
alla morsa dell’incubo in cui mi
tenerli chiusi, io devo tenerli
sembra confinata e di tenerla
aperti, ma faccio una fatica
con me: cerchiamo insieme di
immensa, per cui tipo, tipo
capire che cosa succede,
saracinesca, ogni tanto riesco
Monica. La sua voce sale di
ad aprirli ma al momento
tono, torna nella relazione con
giusto mi si chiudono, per cui
me. E descrive,
devo andare al buio. Per cui,
dettagliatamente, quel che lei
così io so che posso sparare e
cerca, quel che le riesce.
colpire, però non riesco a farlo
Ancora le vado dietro e
perché ho gli occhi chiusi.
introduco il tema della
possibilità: sa che potrebbe.
Lei ne conviene.
Maria Cristina: sa che
potrebbe.

197
Curare la vita con la vita

Monica: sì, so che potrei.

Maria Cristina: questo farebbe Dunque, se potrebbe e non lo


pensare che gli occhi devono fa, (gli occhi lei non li deve
rimaner chiusi altrimenti lei tenere chiusi ma devono
sparerebbe, si può dir così? rimanere chiusi) è importante
che non lo possa fare, e che
cosa in particolare? Ma, lei ha
parlato di sparare, è questo il
Monica: si può anche dire così.
punto su cui dobbiamo
soffermarci a capire? Monica
ne conviene.

Maria Cristina: a chi è che Allora, se non deve sparare,


sparerebbe? c’è qualcuno che non deve
essere colpito?

Sparerebbe al pericolo del


Monica: al pericolo del momento, ma, qui riassume
momento. Dipende dal brevemente, sono dei flash, il
contesto del sogno. Ieri io ho dramma è un altro: io sono,
sentito parlare al telegiornale non so, sono io e non sono io
che c’è la droga in Colombia, e poi la cerniera: so di essere
che cosa faccio, mi sogno di io ma non mi vedo. Lo
essere un poliziotto che va in sguardo, meglio, la vista è il
Colombia contro la droga, roba controllo della realtà, per
del genere, devo sparare a un Monica.
certo punto però è difficile
sparare, ho gli occhi chiusi. E
questi sono dei flash che mi
vengono in mente dei sogni
che ho fatto. Però la cosa che
mi rimane impressa è che io
sono … non so ... sono io e non
sono io … so di essere io ma
non mi vedo (c’è un’angoscia

198
Curare la vita con la vita

forte nella voce).

Maria Cristina: non vede Nel mio intervento aggiungo il


neanche se stessa. neanche che lei riprenderà
nella risposta, è a tutto campo
il test di ciò che esiste. Non
riesce a vedere ciò che fa e
Monica: non vedo neanche me
allora subentra la sensazione
stessa. Però so che sono io,
di impotenza e dice ma allora
non è una terza persona e non
non è vero che so fare, è come
so, devo fare una certa cosa,
se ho qualcosa che mi sfugge
adesso in effetti non saprei
di mano. Perso il contatto
dirle esattamente i sogni, so
visivo, irrompono l’auditivo e il
che devo farlo però non riesco
cenestesico che sembrano
a farlo perché, perché arrivo a
sigillarla nell’impotenza. Agire
un certo punto che ho gli occhi
richiede l’uso del corpo ma se
chiusi, non riesco a vedere
non può uscirne con la vista
quello che faccio. E mi viene
non può agire.
una sensazione di impotenza e
dico ma allora non è vero che Ma ogni tanto ci riesce.
so fare, è come se ho qualcosa
che sfugge di mano (…) Tutto
quello che implica un’azione
mia, che sia sparare, che sia ,
non so, un colpo di karaté, che
sia danzare, non posso farlo
perché io non ci vedo… Ogni
tanto riesco a aprire gli occhi.

Maria Cristina: che succede E che succede? Apre gli occhi e


quando li apre? si arrabbia. Resta comunque
bloccata, non abbiamo ancora
trovato il capo, alla mia
richiesta lei risponde non
Monica: mi arrabbio perché
saprei, quella consapevolezza
non riesco a fare. Sono
che sembrava legata al vedere
comunque bloccata. Anche se
sprofonda in una certezza
apro gli occhi sono bloccata.
interiore, sa che li richiude

199
Curare la vita con la vita

subito dopo.

Maria Cristina: come mai? Riprendo il filo e glielo


ripropongo. Lei segue una sua
pista interna, come se le si
dipanasse davanti, intenta,
Monica: non lo so, non saprei
racconta a frasi interrotte e
proprio. No, forse sono
sospese quel che le si mostra.
bloccata dal fatto che so che
Poiché evidentemente è in
ho aperto gli occhi un
visivo accoppiato al
momento e se poi so che li
cenestesico, come se stesse
richiudo subito dopo non riesco
toccando il velo, la nebbiolina,
a agire.
fa addirittura lievi gesti con le
mani come sfilasse,
modellasse, cogliesse.
Maria Cristina: allora, apre gli
occhi ma per troppo breve
tempo per agire, è questo il
punto?

Monica: il punto è questo.


Cioè, è come se tenessi
costantemente gli occhi chiusi
e poi ogni tanto riesco a aprirli.
E come se poi ci fosse un velo
davanti agli occhi, una
nebbiolina…cioè all’interno
degli occhi non all’esterno. E’
proprio una cosa fisica, non
esterna. Fisica interna, non
fisica esterna. Degli occhi in se
stessi, non che ci sia un velo.

Maria Cristina: appartiene Intervengo a voce bassa,


proprio alla vista. puntualizzando quel che mi ha
detto, mentre lei è in una
specie di sogno. E ancora,
riprende a raccontare ciò che
Monica: è la vista proprio. A
va conoscendo. Poi, il salto

200
Curare la vita con la vita

me è capitato tempo fa di forte: ecco, il discorso. E qui


avere un po’ di congiuntivite e torna l’emozione, la rabbia, la
avevo una specie di velo sugli voce aumenta di volume,
occhi e faceva fatica al mattino decisa, ritorna il verbo sapere,
a andar via questo velo. Ecco, è furiosa perché è in trappola
la stessa cosa mi capita di ma non più angosciata.
notte, cioè, io ho questo velo
sugli occhi e non riesco a Intervengo con voce morbida
vedere se vedo, vedo tutto suggerendo una sua capacità
sfocato, tutto annebbiato. che lei accoglie prontamente,
Oppure ho gli occhi chiusi. ora asserisce.
Ecco, il discorso … Cioè, e a
me prende una rabbia, un
senso di frustrazione perché so
di poterlo fare, so che posso
agire, so di essere in grado,
però non posso farlo perché
non ci vedo. E’ una cosa
costante il fatto che io non
riesco a tenere gli occhi aperti
e quando sono aperti ho
questa membrana. E ogni
tanto vedo con lucidità, vedo
nitidamente però in linea di
massima no.

Maria Cristina: e quando vede


nitidamente cosa succede?

Monica: succede che mi rendo


conto se sono in pericolo o se
devo agire oppure se devo fare
una cosa anziché un’altra. Ma
è talmente breve questo
momento di nitidezza che
comunque non posso far
niente.

201
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: è quasi peggio. Fra domanda e definizione, ciò


che dico. Lei ne fa una
constatazione. La voce è
tornata brillante, riappare
Monica: è quasi peggio. Forse
l’autoironia quando si
è meglio non vedere (…) Un
paragona a uno struzzo con un
po’ come uno struzzo. Però il
popò grosso così, ma non è un
discorso cos’è, lo struzzo si
sarcasmo acido, si prende in
dice metta la testa sotto la
giro per quel suo corpo
sabbia per non vedere, però a
ingombrante che la fa
un certo punto si dimentica
ansimare quando sale le scale.
che fuori ha un popò grosso
così. Quindi lui non vede, però Le propongo che il grosso popò
gli altri lo vedono. Il discorso è dello struzzo possa essere una
quello. risorsa, un modo di ottenere
una comunicazione doppi e
contrappuntata.
Maria Cristina: d’altra parte,
questo può anche giustificare
perché lo struzzo ha un popò
così grosso. Per bilanciare, per
cui quello che da una parte
afferma dall’altra nega, le
sembra?

Monica: sì, però la negazione è


molto più forte
dell’affermazione, è Da brava insegnante, lei
sproporzionato. corregge verso la
banalizzazione, riprendo la mia
tesi introducendo il divario fra
il dentro e il fuori e le dico se
Maria Cristina: per l’interno lei viene da dietro invitandola
dello struzzo, ma per chi lo a spostarsi, dunque, al di fuori
guarda la negazione non si del suo corpo e sciogliendo per
vede proprio, le sembra? Cioè, ora la contrapposizione perché
faccia conto che lei viene da la testa sepolta non si vede.
dietro, non se ne accorge

202
Curare la vita con la vita

neanche in un primo momento


che non si vede la testa dello
struzzo.

Monica: infatti, si deve proprio Monica ne conviene, nel suo


vederlo bene, avvicinarsi e dire sembra proprio che stia
controllare. Sì, però non riesco attuando la mia proposta di
a capire, a cosa porta tutto vivere in diretta
questo (pausa lunga) Non l’avvicinamento, ed è per
riesco a capire cosa porta, questo che stride di più il suo
capisce? (le mani sul viso) ma, non riesco a capire, capisce?
è come se si volesse far uscire Come se si volesse far uscire
qualcosa, però non c’è qualcosa, dice, e poi quel
nient’altro. Ho avuto una mancamento che mirabilmente
sensazione di mancamento, un incapsula in sé ciò che manca
attimino, di respiro e basta. e un venir meno dei sensi. E,
C’è un silenzio totale. Non c’è dopo il silenzio, che sembra
risposta. (pausa lunga) No, averle fermato il cuore, ecco la
una mezza risposta c’è, non mezza risposta: non
devo cercare di manipolare le manipolare le cose, lasciarsi
cose, di farle andare per il guidare dall’istinto, ragionare
verso che voglio io, devo di meno.
lasciare le cose che vadano per
il loro verso e lasciarmi guidare E se deve ragionare di meno,
un attimino dall’istinto. Come per contrappunto, che cosa
se dicesse che devo ragionare deve fare di più? Ancora una
meno. volta il gioco dei poli che
racchiudono tutte le
possibilità. E lei, tranquilla,
risponde subito: pensare di più
Maria Cristina: cos’è che deve al mio fisico. E avanza una
fare di più? idea, che il non vedere sia un
dormire della testa, un suo
voler essere lasciata in pace,
Monica: pensare un po’ meno come se mente e corpo si
alla testa e un po’ di più al mio disturbassero reciprocamente
fisico. (lenta, da vaticinio) E’ il e reciprocamente si
mio fisico che ha bisogno di chiedessero una sosta.
essere seguito. E il lavoro della
testa è anche di vagare ogni

203
Curare la vita con la vita

tanto.

E il lavoro del corpo è quello di


star sempre con i piedi per
terra (…) Non può essere che il
fatto dei sogni che io non vedo
nei sogni sia anche un voler
dormire della testa, della
mente, un rifiutare l’azione
perché vuole essere lasciata in
pace?

Maria Cristina: beh, è carina Approvo sorridendo la sua


come domanda, no?, E’ molto ipotesi, è una buona pista, no?
elegante come soluzione. Rapida e dottorale lei ne
propone un test ma io svio
ammettendo facilmente la mia
ignoranza e la interrogo
Monica: (didattica) ma è la
sull’aria che tira al suo interno,
soluzione?
aria in tanti sensi, atmosfera
emotiva, movimento di vento,
suoni. Lei prende il filo del
Maria Cristina: non lo so suono, del detto proverbiale,
(ridiamo insieme) che aria tira un capo agganciandosi al
dentro di lei? quale srotola tutto un discorso
importante in cui coinvolge
bravamente tutti i temi: la
Monica: sa quel che si dice? Se vista, il pericolo, il sogno come
sei al cinema e lascia che se la un film, la memoria e
sbrighino quelli che sono sullo l’identità, ciò che vede come
schermo tanto in effetti tu in suo corpo e ciò che sa essere il
pericolo non sei. Come se mi suo corpo. E quel bellissimo,
dicesse di non agitarmi troppo incisivo: l’unico modo per
e di valutare le cose per quello riconoscermi sarebbe
che veramente sono. (pausa modificarmi.
lunga, mani sul viso) . Mi è Di diverso colore emotivo,
venuto in mente che per distanziante, il commento su
assurdo se io perdessi la un corpo che non riesce a
memoria e mi guardassi allo essere dinamico ma resta tutta
specchio non mi riconoscerei, presa dentro il suo saper

204
Curare la vita con la vita

perché quello che vedo non è essere il contrario di ciò che


l’immagine che ho dentro di vede di sé, preferirei, dice.
me (…) L’unico modo per
riconoscermi, sarebbe
modificarmi. Fare in modo che
in quello che vedo riflesso allo
specchio fosse quello che vedo
riflesso dentro di me. (pausa)
Il mio corpo sta diventando un
impedimento, oltre tutto è un
corpo estraneo, un corpo
straniero, non è, non è quello
che io so di essere. … Un corpo
simile non riesce a essere
dinamico, dopo tre scalini ha il
fiatone, mentre io mi sento di
fare una rampa di scale di
corsa. Preferirei immaginarmi
grassa e essere magra, cioè il
contrario.

Maria Cristina: avere lo Avallo il suo desiderio


stupore di essere meglio di aggiungendo lo stupore di
come uno si pensa. essere meglio di come uno si
pensa. È anche una chiara
semina di suggestione
ipnotica, del tipo: vedrai come
Monica: esatto!
sarà bello quando ti scoprirai
meglio di come ti pensavi. E lei
aderisce, prontissima, io
Maria Cristina: eh, certo è una rincalzo, lei riprende la
bella sensazione. contrapposizione introdotta
con lo struzzo, ma non si
potrebbe far coincidere ciò che
Monica: così è positiva mentre si è e ciò che si vede?
nell’altro modo è negativa.
Meglio ancora sarebbe essere
come ci si vede.

205
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: beh, Certo, Monica, ma se non è


perderebbe lo stupore, però. possibile, ora, qualche motivo
In ogni soluzione c’è un ci sarà, ne cerco il versante
vantaggio. positivo, l’incanto dello
stupore. Lei coglie i vantaggi
dell’una e dell’altra soluzione
poi con un gesto delle mani si
Monica: si perderebbe lo
dichiara divisa. Sia
stupore. Diciamo che essere
convenendo che non è il
come ci si vede, ci si riconosce.
momento di vedere ciò che si
Anche questo è un vantaggio
è sia nel marcare la differenza
(…) Però io sono così, non
fra ciò che vede e ciò che
sono così.
sente, dissidio doloroso fra
diverse percezioni di senso.

Maria Cristina: cosa ne dicono E gli occhi, Monica, cosa ne


gli occhi? dicono? Connetto con
naturalezza i due canali
percettivi e gli occhi di Monica
ribaltano la doppiezza in
Monica: gli occhi sono fissi allo
dentro e fuori, con quel sono
specchio e all’immagine che c’è
in bilico che dice di loro e di
sullo specchio. Però sono in
lei, dice anche di una
bilico: cioè guardano dentro e
prossimità di una decisione
guardano fuori. Strano, perché
quanto di un equilibrio forse
se tengo gli occhi chiusi non
rischioso quanto di un
fisicamente, io vedo quello che
movimento che scatta come
c’è fuori, se apro gli occhi,
un interruttore o il bilico degli
l’immagine che c’è fuori è
occhi delle bambole, apri,
uguale a quella che c’è dentro.
chiudi, apri.
E’ tutto al contrario. In effetti,
gli occhi non è che siano Ecco lo stupore, è tutto al
chiusi, è come se ci fossero contrario, si affaccia la
delle ante vuote, per cui c’è il maschera con le sue dense
nero, quando riescono a implicazioni teatrali, sociali,
inserirsi gli occhi. E’ come se etiche.
fosse dietro a una maschera,
con gli occhi della maschera, E quando lei chiede: mi sono

206
Curare la vita con la vita

con delle tendine che si spiegata? non so bene


possono sollevare e abbassare. decidere a quale livello e
Però gli occhi sono sempre rispetto a quale contenuto
aperti dietro, è la maschera vuole che ci collochiamo.
che dà l’impossibilità di
vedere. Mi sono spiegata?

Maria Cristina: sto cercando di Dunque, rispondo


capire, come è arrivata questa tangenzialmente, aprendo un
maschera: da quanto tempo ventaglio di possibilità, che
c’è, che forma ha, com’è fatta, spaziano nel tempo e nei
i colori. livelli, (come è arrivata, ora e
allora, la maschera, che tempo
ha, che forma, che colori) lei
passa oltre, attenta ai termini,
Monica: più che maschera, ha
no non è una maschera,
presente i sarcofaghi? Quelli
piuttosto un sarcofago. E
tipo egizio, son fatti così,
dentro c’è una persona. Il tono
hanno i loro begli occhi
emotivo si è alzato
eccetera. Al posto degli occhi,
fortemente, la sua voce narra
cioè gli occhi si possono aprire
incantata.
e chiudere, dentro c’è una
persona che ha gli occhi aperti,
però vede buio, vede nero.
Quando invece ha la possibilità
di aprire gli occhi del
sarcofago, allora riesce a
vedere esternamente, però è
tutto un miscuglio.

Maria Cristina: chi è che può Mi sintonizzo con la voce bassa


comandare gli occhi della e chiedo introducendo il verbo
maschera, del sarcofago? comandare che riprende il filo
dell’avvio che voleva far andar
Monica: non riesco a capire se le cose a suo modo ma che è
è una persona o se è il anche contiguo all’azione di chi
sarcofago stesso. opera in un macchinario. Lei
non sa decidere se è la

207
Curare la vita con la vita

persona che è intrappolata o


se, invece, usa il sarcofago
Maria Cristina: vero? E’ un po’ stesso come nascondiglio, ne
là che si bilancia la convengo reintroducendo il
contrattazione. bilanciamento e aggiungendovi
la contrattazione: se ci son
due poli, c’è anche modo di
Monica: ma vede, nel sogno negoziare. L’accordo che nasce
però, proprio io ho la dal divario riconosciuto.
sensazione di avere gli occhi
Lei parla di occhi che
che appiccicano.
appiccicano, colgo una nota di
spavento, son proprio i suoi.

Maria Cristina: quelli suoi o


quelli del sarcofago?

Monica: quelli miei.

Maria Cristina: e non può Come per lo struzzo, le


essere che lei nel sogno sia il propongo un distanziamento
sarcofago? Sia già a livello più dall’interno che le fa paura
esterno? immedesimandosi nel
sarcofago e, implicitamente,
assumendo il comando. Esita,
vuol sapere, tranquilla come
Monica: può essere, ma questo
svagata descrivo il sogno
cosa comporta?
come momento privilegiato di
apprendimento, poi depotenzio
l’idea, so come sia importante
Maria Cristina: beh, nel sogno che sia lei a governare: non
per esempio può apprendere so, non serve? Non è così?
delle capacità che durante il
giorno non ha tempo o No, dice Monica, è così, e
occasione di apprendere. Per continua l’indagine, il
esempio, come si fa a tenere sarcofago le parla, le fa delle
gli occhi aperti per un po’ poi proposte.
sentirli richiudere, le palpebre
così pesanti, stanno bene con

208
Curare la vita con la vita

un sarcofago. Non so, non


serve? Non è così?

Monica: no, no è così. Però


non riesco a spiegare com’è. E’
come se il sarcofago dicesse:
io ti faccio entrare in me e
diventi una parte di me, però
non puoi agire, devi
comportarti da sarcofago.

Maria Cristina: cos’è che dice? Ti do la possibilità di


avvicinarti all’esterno, dice il
sarcofago, ma come se fossi
un sarcofago, dunque non devi
Monica: cioè, io ti do la
agire (eco del sogno iniziale) e
possibilità di avvicinarti
ora Monica sposta l’emozione
all’esterno, quindi per farlo
di paura sul sarcofago.
devi tramutarti in me, però
devi comportarti da sarcofago,
fermo, senza possibilità di
agire, di interagire o, o così.
Devi solo assistere. Per cui la
domanda, non è che abbia
paura il sarcofago?

Maria Cristina: questo sarebbe Indago con lei, cercando di


interessante, perché il cogliere il punto, paura di che?
sarcofago abbia paura di Come d’abitudine, chiedo
prendere movimento? proponendo, lei chiarisce: di
perdere le sue prerogative, di
non essere più il padrone.
Monica: no, di perdere le sue
prerogative. Di non essere più
il padrone.

209
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: avrebbe da Ora sono io a testare: sarebbe


perdere? un guaio? E lei, drastica,
sarebbe l’annullamento, la mia
voce è un poco scettica, come
dire, ma veramente verrebbe
Monica: penso che non
annullato? Mi sembra
esisterebbe più, sarebbe
un’ipotesi tragica e Monica
l’annullamento.
cerca ancora sollievo nel
capire, verbo anch’esso di
dense significazioni fisiche e
Maria Cristina: verrebbe mentali. Riappare il dilemma
annullato? iniziale, agire e non vedere,
l’ansia è palpabile.

Monica: (pausa lunga) non


riesco a capire. (voce agitata)
Non riesco a capire. E’ come se
io dovessi agire, però devo
agire al buio, se ho la
possibilità di vedere, non posso
agire.

Maria Cristina: tornando al Intervengo con voce assertiva


discorso dello struzzo, di ma non bassa per invitarla a
vedere o di essere vista? Viene distanziarsi un pochino da
in mente quello che fanno i quell’ansia che sembra
bambini, quando si sommergerla, riprendo lo
nascondono, chiudono gli struzzo, parlo di bambini che
occhi, perché se loro non se non vedono è come se
vedono è come se nessun altro nessun altro li vedesse, Monica
li vedesse. è un caleidoscopio di dentro e
fuori, di loro e di lei, di vista e
di sensazioni, non vede, non
direttamente.
Monica: ma io sono sempre
dentro al sarcofago, quindi non
mi vedono. No, però mi
vedono, sono io che non vedo.

210
Curare la vita con la vita

Ho la sensazione che mi
vedono, ho la sensazione. Ma
non vedo, non direttamente.

La seduta si chiude qui, il tempo è proprio scaduto, lei si alza, mi


sembra più leggera, si accomoda la veste con un gesto femminile,
un’occhiata allo specchio mentre vi passa accanto per uscire, un bel
sorriso e ci lasciamo. A me rimangono in testa gli avvertimenti di
Leonardo: havvi uno specchio e dipingi ciò che vi si riflette. Non si
accede direttamente alla realtà, mi ripeto, la terapia e lo specchio
son due elementi accostati da sempre, ci lavoreremo ancora su, mi
dico mentre rassetto la stanza, fra dieci minuti si aprirà tutta
un’altra storia.

211
Curare la vita con la vita

Un volpino per Sergio

Ci eravamo detti, con Sergio, che un giorno o l’altro avremmo


ripreso il nostro incontrarci. Quando? Non lo sapevamo né lui né io
ma eravamo certi che ad un certo punto sarebbe accaduto. Lui mi
aveva chiamato e mi aveva detto che era arrivato il momento, due
parole per stabilire data e ora ed eccoci oggi qua assieme. Un
sorriso cordiale nel salutarci e ci accomodiamo ai posti consueti di
lavoro.

Maria Cristina: come ha deciso Mi sembra importante


che era il momento di allinearci dall’informazione
rincontrarsi? che ha dato il via al nostro
incontro. Così gli cedo il
passo e gli chiedo dove
debbo situarmi.

Sergio: mi è uscita la rabbia, Ecco, è stata una


quando mi esce la rabbia esce manifestazione di rabbia e
anche la paura, settimana scorsa si accompagna con la
c’era, lunedì mi è venuta una paura. Altre volte con
paura pazzesca, per andare a Sergio avevamo trovato il
lavorare ho dovuto fare un modo di interloquire con la
giochino con cui ho chiesto alla paura affinché si potesse
paura di lasciarmi un po’ di avviare una collaborazione
tempo per andare a lavorare. con lei invece di trovarsi
paralizzato appiattito in un
angolo.

Maria Cristina: e lo ha fatto? Controllo che, come


d’abitudine, la paura abbia
siglato l’accordo.

212
Curare la vita con la vita

Sergio: sì, le ho chiesto di Certo, ha accettato di


lasciarmi fino a giovedì, anche astenersi fin a un giorno
perché dovevo andare a Parma, stabilito. Se Sergio ne ha
mi serviva essere un po’ bisogno, la sua paura
tranquillo. collabora. Ma poi dovrà
essere ascoltata.

Maria Cristina: c’è stata ai patti E l’ha ovviamente


la sua paura! mantenuto.

Sergio: sì.

Maria Cristina: sono molto seri Sottolineo l’affidabilità dei


questi nostri personaggi. personaggi interni, voglio
rafforzare la tenuta del
rapporto fra tutti noi e,
indirettamente, rassicurare
Sergio che dovrà
confrontarsi con la paura e
la rabbia, emozioni che lo
spaventano grandemente.

Sergio: porco cane!

Maria Cristina: se noi li trattiamo Sta a noi utilizzarli al


con serietà loro, sono seri, siamo meglio, sta a lei, Sergio,
guidare il gioco, i suoi

213
Curare la vita con la vita

noi che siamo più discontinui…. personaggi son a sua


disposizione.

Sergio: ma le ho dato una E, finalmente, Sergio tira


immagine di una volpe, un un gran sospiro e comincia
volpino, e niente, io dicevo a mia a raccontare.
moglie che non riuscivo ad
andare a lavorare e allora le
faccio: “senti quasi quasi dico
alla paura se mi da un pochino di
tregua e magari la mando un po’
in vacanza”. La paura, mi ha
chiesto Lucia che forma aveva e La paura prende forma su
le faccio un volpino ma ci ho richiesta di Lucia, la moglie
pensato dopo mi è venuto ed è un volpino.
istintivo: il volpino scappa è
bellissima come concezione.
La mandiamo in vacanza dove?
In montagna! Io avevo una
immagine che avevo visto una
volta in un quadro, montagna
ruscelli, così, ma a trovare chi? A Se deve allontanarsi, la
trovare una famiglia di castori! I paura, meglio mandarla in
castori erano, ma ci ho pensato vacanza e Sergio studia
dopo, quando sono stato male, attentamente cosa
due anni fa, continuavo a dire proporle, frugando fra i suoi
che avevo nello stomaco una ricordi che si dispiegano
famiglia di castori perché mi affinché lui possa scegliere.
sentivo rosicchiare, picchiare e
allora dicevo, per scherzare, per
sdrammatizzare, che nello
stomaco avevo una famiglia di
castori, e io ho detto che andavo
a trovare i castori e dopo un po’
mi sono reso conto che i castori
sono quelli che avevo nello
Compaiono i castori,
stomaco.
rosicchiano ma sono
E lei ci è andata sul serio a
costruttori e simpatici. Il
trovare i castori. Tutta la
volpino ha l’intelligenza. La

214
Curare la vita con la vita

famiglia, mamma papà, figlio e paura ci è andata, Sergio


figlia, nella diga che giocavano poteva controllare che
eccetera eccetera. Ogni tanto mi avvenisse, hanno stabilito i
guardava. Abbiamo fatto un contatti.
patto che nel caso avessi avuto
bisogno di lei, lei sarebbe corsa
immediatamente da me, ci
volevano circa quattro ore per
arrivare, tutti i giorni ci
sentivamo per vedere se era
tutto ok. Quindi lei in qualsiasi Poteva accadere che Sergio
momento sarebbe stata pronta avesse bisogno della paura:
ad arrivare in mio soccorso. Se ci bene, sarebbe tornata in un
fosse stato un problema grosso. tempo ragionevole.
Poi nel week end è arrivata,
tranquilla

Maria Cristina: ma lei era più La paura era tranquilla,


tranquillo Sergio? anche lei, Sergio? Uso il
termine per trasferire
emozioni e aumentare il
collegamento che hanno
strutturato e che è stato
così funzionale.

Sergio: si, però credo che a Dunque, finora la paura ha


questo punto sia il caso di parlare fatto schermo alla rabbia, è
della rabbia e di affrontarla e di di questa che Sergio sente
far uscire la rabbia. Io, seguendo maggiormente il timore.
il suo consiglio, non le ho dato
ancora una connotazione, con la
paura ci scherzo, le chiedo
gentilmente di andare in
vacanza, sulla rabbia la lascio
così.

215
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: le serve avere a Sergio ha già le sue risorse.


fianco il volpino oppure no?

Sergio: in questo momento sì, Infatti, sì, con il permesso


direi che se alla rabbia non dà della rabbia.
fastidio che io mi tengo il mio
volpino al fianco non mi
dispiacerebbe.

Maria Cristina: se fosse il volpino Dal tenersi il volpino al


ad accompagnare la rabbia da fianco, cane da guardia e
lei? da difesa, al volpino come
Mercurio, psicopompo e
guida.

Sergio: potrebbe essere una Sergio acconsente,


bella idea, anche perché il recupera la descrizione
volpino e la rabbia vanno sempre iniziale: vanno insieme. Più
insieme, quando arriva la rabbia che una parentesi, il
arriva anche il volpino, arrivano rapporto con il volpino da
sempre insieme, non arriva mai solo, in vacanza e suo
una cosa da sola alleato, appartiene a un
altro contesto. Non in
contraddizione con questo
ma semplicemente altro.

Maria Cristina: cosa le sembra Cerco l’intersezione: chi

216
Curare la vita con la vita

meglio, di chiedere al volpino di deve andare da chi?


accompagnare a lei la rabbia o di Questioni di rango e il
accompagnare Sergio dalla volpino è il tramite fra i
rabbia? due.

Sergio: forse potrebbe essere Va bene, Sergio si inchina


che il volpino accompagna Sergio alla rabbia. Nessuna perdita
dalla rabbia. La rabbia mi sembra di dignità, è importante che
molto importante, sarebbe anche la rabbia abbia il suo
un gesto di rispetto, sì, mi omaggio.
sembra un’ottima idea, sono
convinto che la rabbia sarebbe
molto contenta.

Maria Cristina: cosa dice il Controllo veloce.


volpino?

Sergio: il volpino dice che è ok, Ci siamo. La voce di Sergio


mi accompagna dalla rabbia. è lontana, il suo corpo in
riposo, disteso
morbidamente.

Maria Cristina: quale Sergio Ma quale Sergio deve


accompagna dalla rabbia? andare dalla rabbia?

Vuole la luce o il buio? Poi, anche la mia voce è


bassa, chiedo se desidera
che abbassi la luce nello
studio.

217
Curare la vita con la vita

Sergio: va bene così, al limite Estremamente conciliante.


chiudo gli occhi. Mi alzo abbasso la luce. E
comincia l’avventura.

Maria Cristina: quanto è alto il Come sempre, le domande


volpino? che dettagliano hanno la
funzione di aumentare la
concentrazione ma anche di
conoscere meglio i
particolari (non sappiamo
quali saranno quelli
determinanti) e anche di
poter condividere. Per poter
accompagnare Sergio
anch’io vedo il volpino, i
castori e la montagna.
Come diversi verbali di uno
stesso evento, spesso le
versioni sua e mia hanno
incredibili coincidenze e
suggestive divaricazioni.

Sergio: è alto un metro, il Sergio Risposta interessante,


è grande, è alto quasi il doppio. com’è differente stare
Sembra mentre camminano il dentro e guardare da fuori.
Sergio che accompagna il volpino
invece che il contrario.

Maria Cristina: da che parte si

218
Curare la vita con la vita

mette il volpino?

Sergio: sulla sinistra, io lo tengo La parte del cuore, delle


con la mano sinistra. emozioni, del cervello
destro.

Maria Cristina: e il volpino?

Sergio: con la sua destra.

Maria Cristina: chi è che tiene la Chi accompagna chi? Chi


mano dell’altro? tiene a mano dell’altro?

Sergio: così (me lo mostra) sono


io che tengo la sua.

Maria Cristina: tiene per mano la Asserisco dando un


sua paura. La direzione come significato pieno: tenere
fate a darvela? per mano la propria paura,
come si fa ad averne
paura?

219
Curare la vita con la vita

Sergio: c’è un sentiero, con tante


foglie.

Maria Cristina: che ora è? L’ora è importante per la


luce e per la fase della
giornata/ vita.

Sergio: verso sera, le 17.30 di


sera.

Maria Cristina: è autunno? Parlava di foglie, l’autunno


va bene con le 17.30.

Sergio: si

Maria Cristina: quindi sono foglie


rosse.

Sergio: sì, sono le foglie che Entra il canale cenestesico


cadono dagli alberi, per terra interno.
sembra quasi un po’ bagnato.

220
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: e adesso?

Sergio: adesso stiamo andando, Sergio ancora una volta


è una sorta di bosco, non molto sovrappone paura e rabbia.
fitto, abbastanza rado, stiamo
andando la paura dovrebbe
essere in una grotta, non so
come faccio a saperlo.

Maria Cristina: la paura? Dobbiamo riunificarle?

Sergio: la rabbia! La sua voce è tesa

Maria Cristina: fermiamoci un C’è tempo, prenda fiato,


attimo. Sergio.

Sergio: è una grotta scura, buia, E, dopo un paio di minuti,


vedo l’entrata, non è tanto alta ecco la grotta, scura,
l’entrata. ancora l’altezza, una
annotazione sempre
rilevante per Sergio.

Maria Cristina: rispetto alla porta Il cancelletto verde fa parte


di un nostro lessico, è stato

221
Curare la vita con la vita

del cancelletto verde? l’avvio di un suo profondo


viaggio all’interno di sé.

Sergio: in altezza uguale, doppio Precisissimo!


in orizzontale.

Maria Cristina: e adesso?

Sergio: e adesso sento odore di L’odore è fortissimo,


muschio, di umido, di bagnato, caratteristico, tutti i sensi di
l’odore che la pioggia fa sull’erba, Sergio sono coinvolti in
sulla roccia, sul terreno, odore di pieno.
questo tipo, si sente anche una
sensazione toccando la parete
della roccia, si sente bagnato.

Maria Cristina: la terra è umida o È successo qualcosa di cui


ha piovuto recentemente? ora tocchiamo le
conseguenze?

Sergio: ha piovuto recentemente.

Maria Cristina: quindi è fresca Il termine fresco induce


l’aria. piacere. Voglio che Sergio
si senta a suo agio, forse

222
Curare la vita con la vita

farà fatica dopo.

Sergio: sì, mi piace. Sta bene.

Maria Cristina: il primo suono che Dopo le sensazioni,


sente entrando? facciamo entrare il suono
per completare
l’esperienza.

Sergio: una specie, come se Sergio echeggia nello


fosse caduto qualcosa e che studio il suono della grotta,
rimbomba nella grotta. Che fa un colpo sordo.
bum.

Maria Cristina: forse questo è il Fra domanda e asserzione,


suo cuore? per far rientrare in scena il
corpo di Sergio.

Sergio: potrebbe essere, ...sì. Ascolta, concorda.

Maria Cristina: e adesso? Il Ricordiamoci che il volpino


volpino le tiene sempre la sua c’è e protegge.
mano?

223
Curare la vita con la vita

Sergio: si, ha preso una candela. Un gesto autonomo.

Maria Cristina: la candela dov’è? Qual è l’ambiente?

Sergio: ho visto la rabbia, sulla Quasi un grido soffocato.


mano sinistra del volpino, la Risponde per la candela,
rabbia è mia nonna. poi la rivelazione
drammatica.

Maria Cristina: sua nonna. Ripeto a bassa voce, ci


sono.

Sergio: è strana, però, mia Stupito, attonito ma non


nonna è tutta bianca, anche la spaventato, la voce
faccia è bianca. sussurra.

Maria Cristina: ha il viso pallido? Bianca come?

Sergio: è tutta bianca quasi Sformata, informe,


sformata, come se avesse un’immagine che però non
addosso una sorta di fa paura.

224
Curare la vita con la vita

accappatoio, un telo molto La voce è tornata normale,


grande, forse, non si capisce stupita ma presente.
cosa abbia addosso, è una
immagine bianca, però non mi fa
paura come quando me lo faceva
l’altra volta.

Maria Cristina: cosa fa la nonna, È importante che la nonna


la guarda? si rivolga a Sergio, è lì per
lui.

Sergio: sì, ha aperto gli occhi, si Racconta incantato.


muove la bocca, non riesco a
capire che viso ha, continua a
cambiare viso, continua a
cambiare, anche gli occhi mi
sembra che cambino, mi sembra
che abbiano, che siano grigi e
azzurri, mi sembra quasi che gli
occhi siano l’unica parte ferma
del viso che cambia. Adesso vedo
proprio in primo piano il viso,
come se fosse di gomma, una
cosa strana che continua a Inquietante questo
cambiare, come un’immagine che continuo trasformarsi.
si sfuoca. Che storia!, ma non mi
fa paura, ecco adesso parla ma
parla…parla con un tono
particolare come al rallentatore,
tono basso, come se fosse… Ecco il suono.

225
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: come un disco? Da una tonalità monocorde


di Sergio.

Sergio: esatto come fosse, ecco, Concorda.


così “ciao” (tono basso).

Maria Cristina: e se lei la Intervengo per evitare uno


mettesse alla velocità giusta? scivolamento eccessivo
Che voce sentirebbe? paralizzante.

Sergio: quella di mia mamma. Quasi un grido di dolore.

Maria Cristina: anche gli occhi? Siamo certi?

Sergio: sì.

Maria Cristina: cosa le sta


dicendo?

Sergio: continua a sformarsi, Un caleidoscopio ma


adesso per un attimo mi è segnato da quel terribile

226
Curare la vita con la vita

apparsa mia mamma. Però si è sformarsi.


sformata, mamma mia, mi
continua a cambiare faccia è
come un giochino di immagini
che guardi alla televisione, che
non so che...ferma lì. Adesso è
diventata mia mamma. Non
capisco cosa mi vuole dire.

Non capisce che cosa vuole


da lui.

Maria Cristina: è rimasto anche il E la sicurezza?


volpino?

Sergio: non lo so, sta aprendo un Sergio è oltre, la mamma


foglio di giornale, tutto cerca qualcosa che deve
appallottolato, credo che stia dargli, un rosario.
cercando qualcosa da darmi, mi
ha dato un rosario.

Maria Cristina: con cinque o con Mi riferisco alle poste del


quindici? rosario.

Sergio: credo con cinque, Un rosario molto


piccolini, ci sono 5 stazioni più composito.
grandi e tra queste ci saranno
otto, dieci piccoline, quindi sono
55 o 45.

227
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: glielo dà con la Un concetto o


destra? un’emozione?

Sergio: no, con la sinistra. Un’emozione.

Maria Cristina: cosa le dice? Accompagnata da un


pensiero?

Sergio: mi dice di pregare.

Maria Cristina: con che voce


glielo dice?

Sergio: la sua voce è molto...è la È proprio la sua mamma, la


sua, molto pacata. voce è la sua.

Maria Cristina: dove guarda? Rivolta a chi?

228
Curare la vita con la vita

Sergio: ha gli occhi bassi. Non a lui, è concentrata in


sé?

Maria Cristina: lei sa perché, Ma lui ha la risposta.


Sergio?

Sergio: ha abbassato gli occhi, Occhi abbassati per indicar


non capisco. Vedo l’immagine del il rosario che viene in primo
rosario in particolare dei primi 5, piano, con quella prima
la prima filata di sassolini, posta.
stazioni, le prime dieci palline più
la stazione grande. Vedo questo
pezzettino qui come se fosse
importante arrivare fino alla
prima stazione, arrivare lì, dire
queste dieci preghiere, sono dieci
ave Maria e un padre nostro.

Maria Cristina: e la mamma le La mamma vuole aiutare


può dire meglio perché? Sergio?

Sergio: sì, …adesso ha È esausto, sta per cedere.


ricominciato a parlare con la voce
bassa…

Maria Cristina: racconta dei suoi Sergio è il primo di tre figli


ma ci son stati due aborti,

229
Curare la vita con la vita

cinque figli. più o meno celati.

Sergio: può essere, cazzo, sì! Sergio sembra travolto.


(piange)

Maria Cristina: sospendiamo? Più importante di tutto è


che Sergio non sia in
pericolo.

Sergio: no, è ok, (la voce è molto Riprende fiato, e


tenue) forse posso dare un nome lentamente torna a parlare,
alle prime sue stazioni: Marco e attribuisce un nome ai
Giovanni, (riprende un volume fratellini abortiti ma la
più alto della voce) ha il rosario mamma si sta alterando.
nella mano sinistra nel palmo
aperto, e con il dito fa scorrere
dal crocifisso e fa passare tutte le
La voce di Sergio è
stazioni piccoline fino alla prima
allarmata e dolente.
stazione e poi va avanti con le
stazioni piccole, fino alla
seconda, ha passato la seconda,
sta andando verso la terza ma si
sta arrabbiando…

Maria Cristina: dove guarda? A chi si rivolge?

Sergio: sulla sua mano, ha gli Sta con sé, e il suo furore
occhi fissi sulla sua mano, e un aumenta sulla terza

230
Curare la vita con la vita

po’ con la testa così, non guarda stazione. Torna bianca,


più me, sta guardando la sua respira affrettata.
mano, è andata sull’altra
stazione e si è fermata, ma è
arrabbiata! Ha aumentato il ritmo
del respiro ed è tornata bianca
sulla terza stazione.

Maria Cristina: glielo chiede il È ora di avere la conferma.


nome?

Sergio: Sergio! Lo ha detto in un Un’aggressione violenta,


modo cattivo, in un modo brutto Sergio è sconvolto.
(pianto). Anche il viso è
diventato brutto!

Maria Cristina: provi a tornare Possiamo attenuare?


sulla seconda…

Sergio: non ci riesco. Non si può.

Maria Cristina: è così importante Un lei che abbraccia


per lei! ambedue, un senso
bifronte.

231
Curare la vita con la vita

Sergio: non mi ama, è arrabbiata L’aggressione Sergio la


con la terza stazione, con Sergio, prende tutta, il rancore,
è arrabbiata, ogni volta che ci come se la sua nascita
mette su il dito il viso diventa fosse stata in qualche modo
duro, da arrabbiata. pagata con due aborti.

Maria Cristina: le può chiedere Cerco uno spiraglio


che cos’è che può dirle? d’incontro.

Sergio: è un po’ difficile. È troppo scorato.

Maria Cristina: chieda alla Uso una voce molto dolce,


mamma che cosa può dirle. è la sua mamma.

Sergio: che aspetta domani.

Maria Cristina: che aspetta di Cerco di stabilire il senso.


dirglielo, che ora non può
rispondere?

Sergio: no, può rispondere!

Non mi vuole bene, me lo ha Una violenza secca, senza

232
Curare la vita con la vita

detto con la voce sua, non mi cedimenti.


vuole.

Maria Cristina: non le vuole Affrontiamola, allora.


bene?

Sergio: lei dice così (pausa) Mi C’è un’ombra di dubbio ora


guarda con aria cattiva, ce l’ha nelle parole di Sergio. Ci
un po’ su con me, mi guarda con pensa su, sembra che la
un occhio, l’altro è quasi chiuso bufera sia passata, la
ma uno è aperto. Ha ripreso il mamma chiude l’incontro.
rosario e si è voltata, mi fa segno
di andare, adesso si è messa di
laterale e ha la testa china.

Maria Cristina: può chiedergli se Forse non è una chiusura


può tornare? definitiva.

Sergio: si, ha detto di si. Io non Forse no.


vedo più il suo viso, però ha
mosso la testa.

Maria Cristina: può tornare tra Forse fra un tempo breve.


una settimana?

233
Curare la vita con la vita

Sergio: sì, anche il volpino dice di Torna fedele il volpino,


sì, tutt’e due con la testa, sto come all’inizio si
andando, mi sto incamminando sovrappongono paura e
sul sentiero … rabbia, Sergio si vede
andar via.

Sergio è esausto, comprensibilmente, il viso stanco, qualche traccia


di pianto ma è come se avesse occhi nuovi, un passo più deciso. Ci
lasciamo senza smancerie ma in una commozione profonda
partecipata. Lo guardo allontanarsi, è come un ragazzo dentro un
quadro, e quasi mi sembra di vedere il sentiero sotto i suoi piedi.

234
Curare la vita con la vita

Una biciclettata per Giulietta

Giulietta è molto simpatica, brillante, di polso con quei suoi capelli


ricci e delle improvvise, esitanti ingenuità quando va ad
avventurarsi nel terreno delle emozioni, dei sentimenti che, come
fili vagabondi, s’intrecciano e si confondono in un gioco sottile.

Maria Cristina: allora cosa mi Giulietta si è sistemata, sta


racconta? Come è andata la bella comoda, rilassata, mi
settimana? accomodo anch’o e la sollecito
con voce leggera.

Giulietta: allora la settimana è


andata bene! Bene, sì vabbè
direi di sì! Però ho una gran
voglia di rinnovare, di
cambiare che implica… tutto,
siamo sempre lì! E quindi
ritornando dalla vacanza è
ancora più concreta questa
cosa.

Maria Cristina: cosa intende Sembra che insegua dei suoi


per rinnovare? pensieri, sottintendendo che le
sto al passo ma non so ancora
come collocarmi, chiedo per
potermi sintonizzare.
Giulietta: per esempio
stamattina, una delle ultime Lei racconta, generosa e
cose della mattina, ho aperto decisa, abbondante.
lo stipettino dove ci sono le
solite tazze, ecc., così mi
viene voglia, l’idea di
cambiarle tutte anche loro.
Proprio di cambiamento
radicale, un po’ più di vita,
togliermi da questa situazione
di coppia. Non so tutta una
serie di cose che però non

235
Curare la vita con la vita

riesco a …

Maria Cristina: non le Cerco di capire, non vuole


interessa travasare questa stare più in coppia o ha voglia
situazione di coppia in un altro di un altro compagno?
contesto.

Giulietta: no! Nel senso: la


parte primaria che mi viene E lei è combattuta fra il
subito in mente è di rimanere desiderio di restare fidanzata
da sola. Comunque ho questo e la fatica (forse anche il
desiderio da una parte di dolore?) di recidere le mille
rimanere comunque sfidanzata piccole abitudini di una vita di
diciamo così. E quindi da lì coppia.
tutto quello che sono i
cambiamenti che comportano
il fatto di non vivere più con
una persona con la quale si
vive, quelle abitudini che si
prendono insieme.

Maria Cristina: e questo le è


stato più chiaro quando è
tornata, più che durante la
vacanza?
L’ha capito meglio standosene
in vacanza?
Giulietta: no, beh e’ già un
periodo che ho proprio questa
sensazione di voler cambiare,
rinnovare tutto…
Lei corregge più che negare, è
Maria Cristina: come dicono i da tempo che dura questa
bambini: fare “arimo” sensazione. Concludo con la
insomma? definizione dei giochi infantili:
arimortis, tutto daccapo, e lei
si entusiasma, si infervora,

236
Curare la vita con la vita

conferma e ribadisce
convenendo che è più forte
Giulietta: sì, sì! E quindi tornando dalla vacanza.
ritornando da un momento di
parentesi fuori dal consueto,
dal solito proprio
dall’abitudinario ovviamente
ne ritorno più rafforzata,
comprendendo anche quello
che è il lavoro, la città, il
discorso che tante volte fai…e
tutto…e quindi stare via una
settimana, come mi succede
sempre quando mi allontano
dal consueto, ovviamente
torno con questa cosa più
forte. Questo desiderio di
ricambiare tutto, di dare una
mossa, non lo so come dire,
però un cambiamento, proprio
rinnovo.

Maria Cristina: quanto se ne Ma se la coppia va ribaltata,


rende conto, di questo, Marco? vogliamo informarne anche il
partner? Marco lo sa?

Giulietta: ah, penso per


niente…penso per niente Per nulla, anzi è contrario a
perché lui come carattere ogni sorta di cambiamento.
dice: sono sempre stato così,
ho sempre fatto le cose così,
ho sempre pensato queste
cose in questo modo e “mi
vanto di non aver cambiato
nulla”. Quindi non comprende
neanche quando si parla così a
livello generale di qualcuno
che ammetta un
cambiamento. Per lui è una
cosa non buona un

237
Curare la vita con la vita

cambiamento di qualsiasi
genere.

Maria Cristina: che vuol dire, è


“incoerenza” un cambiamento?
Cosa vuol dire?
È un problema di etica,
Giulietta, di coerenza?

Giulietta: per lui incoerenza, sì


per lui sì! Si vanta di essere
coerente perché quello in cui
credeva, in cui pensava e Il punto sembra proprio
desiderava, non so, a quindici questo.
anni sono le stesse cose di
adesso. E si fa molto forte di
questa cosa, nonostante io gli
dica sì però se la società, il
mondo intorno a te cambia, è
normale e non è per questo un
essere incoerente il fatto di
evolversi assieme a quello che
c’è intorno, è una cosa
normale che sia da Internet
che lui a tutt’oggi non accetta
minimamente a qualsiasi altro
tipo di tecnologia di modernità
vedi: carte di credito o
quant’altro.

Maria Cristina: lui non le usa?

Giulietta: assolutamente,
assolutamente non solo non le
usa, ma non le vuole
nemmeno!

Per cui ecco è proprio fermo a


questa cosa che le dicevo

238
Curare la vita con la vita

l’altra volta di voler


assomigliare a suo papà, che
se suo papà si è sempre
messo i soldi sotto il
C’è molta sofferenza in questo
materasso…e lui, per grazia
rifiuto di Marco ad usare le
ricevuta, ha aperto un conto
carte di credito, è rifiutare
corrente ma se appena,
quello che lei potrebbe dargli,
appena, secondo me, si
negare la rilevanza della sua
potesse fare li metterebbe
professionalità, non voler
anche lui sotto il materasso!
accettare da lei.

Giulietta ha la voce che trema,


sconfitta.

Maria Cristina: quanto conta, E allora entro apertamente sul


in questo, Giulietta, il fatto che problema e lei conferma, è per
lei invece lavora in banca e questo che litighiamo.
faccia esattamente questo
mestiere?

Giulietta: conta, che infatti


litighiamo sempre su questo
argomento perché non si
riesce a fargli capire che il
mondo cambia, la tecnologia
comunque sarà sempre in via Poi sembra distaccarlo dalla
di sviluppo. E che quindi con sua persona, è la tecnologia la
questa, adesso mi sfugge, con bestia nera di Marco, tanto
questa tecnologia io ci lavoro e che Giulietta sembra quasi
lui ovviamente insulta a livello scusarsi con lui: Guarda che
generale quelli che adoperano comunque io li uso per
per esempio, fermo restando lavorare.
quello che è il discorso
informatico, quindi internet e
tutto quanto…lui ce l’ha
proprio contro in una maniera
incredibile e quindi
indirettamente anche con me.

239
Curare la vita con la vita

Gli dico: “Guarda che


comunque io li uso per
lavorare, oramai si lavora
così”- “no ma sono tutte storie
non è così che va il mondo” ho
detto: “Come non è così che
va il mondo? E’ così che va il
mondo”.

Maria Cristina: cos’è che dice Da qui la mia domanda, è un


Marco, che lei va dietro a delle fatto anche di valori? Sembra
cose contingenti, che non all’inizio di no ma poi è così
segue i valori veri? che finisce, lei si sente
aggredita da Marco e tanto più
teme di dovergli comunicare
una sua ulteriore voglia di
Giulietta: no, questo no
cambiamento: lasciarlo.
perché appunto lui dice che io
comunque sono una persona Mi domando se da qualche
che tra le tante riconosce parte Giulietta dia un poco
invece molto valida con delle ragione a Marco, mi sembra
basi molto belle, molto chiare troppo tranchant e ripetuto il
che sono in questi termini quadretto che fa di un giovane
come valori. E però uomo orientato solo a seguire
ovviamente io non sono una le orme tradizionali del padre
che sta ferma, sono una che e mettere il denaro nel
son sempre stata abituata al materasso. Marco è di un’altra
rinnovare, a seguire quello che cultura ma i genitori vivono in
è la tecnologia tutto quanto e Lombardia da molti decenni,
poi per giunta lavoro anche in Giulietta tante volte mi ha
questo contesto, per cui parlato di loro con affetto e
comunque fa parte di me e tenerezza. Lasciare Marco
allora lì lui ne parla vorrà anche dire perderli?
genericamente in malo modo
però ovviamente ci son di Scarto di culture o scarto di
mezzo anch’io ecco. Poi mi personalità? Giulietta si sente
dice: “Sì, ma tu non c’entri giudicata?
perché non sei come le altre,
perché tu comunque hai dei
valori” sì, ho capito ma non
puoi allora generalizzando

240
Curare la vita con la vita

avercela in questo modo con


chi segue e chi ha un
telefonino piuttosto che una
carta di credito e comunque
non colpire me, non devi
pensare tu che non stai
colpendo me, perché alla fine
lui colpisce me.

Ci sono discussioni di questo


genere: “Perché tu stai
parlando in generale ma è me
che stai colpendo comunque”.

E finalmente sbotta: tu stai


parlando in generale ma è me
che stai colpendo.

Maria Cristina: lui ci crede? Di nuovo: ma Marco lo sa? Dal


suo punto di vista, come lo
vedrebbe?
Giulietta: che mi sta colpendo? Lei è come sorpresa, si
arresta, esita.

Maria Cristina: sì.

Giulietta: ma lui dice, beh sì a


volte dice di sì, che sono Sfuma in inutili.
anch’io dentro questo girone
di cose che lui reputa inutili.

Maria Cristina: inutili o


perverse o cattive o immorali?
Riprendo, accentuando, solo
inutili o sbagliate?

Giulietta: (alzando il tono della

241
Curare la vita con la vita

voce) Inutili perché lui


sostiene che quello che non
c’era cinquant’anni fa per Ma lei ripete, sempre più
esempio e comunque si stava irritata. Ho come la
bene, si viveva lo stesso, non sensazione che si senta in
dovrebbe esserci neanche oggi trappola, costretta a ribattere
perché tanto si riusciva a fare lo stesso chiodo. Decido di
lo stesso determinate cose provare a uscire dal circuito
anche senza questa velocità sempre uguale. Con voce
che dà per esempio la incuriosita, introduco le sue
tecnologia. donne, figure femminili che
abbiamo già incontrato altre
volte e Gianni, un signore
anziano distinto che Giulietta
un giorno ha trovato in una
casa antica. Che è un poco un
guru per lei.

Maria Cristina: di tutta questa Sono volutamente molto


cosa, cosa dicono le sue generica, quasi trascurata, di
ragazze? O quel signore, tutta questa cosa, come vorrà
Gianni? E’ ritornato Gianni? continuare Giulietta?

Giulietta: no però, io ho Lei entra subito nel gioco, le


provato a riguardare un attimo ha pure cercate, soprattutto la
intorno se c’era qualcuno in donnina gnoma.
questi giorni e …no! Si sono
tutte staccate. Cercavo di
rivedere il volto dell’ultima
donnina gnoma non so come
chiamarla, ed era sempre lì
sorridente. Però ecco non ho
più avuto modo di andarle a
cercare o così beh adesso non
so bene devo andare a vedere
dove siano finite … Il (pausa)
mah chi viene subito con il

242
Curare la vita con la vita

sorriso è sempre quella


signora gnometta.
Non le ragazze, dunque, né
Gianni, ma la piccola gnoma.
Entrata quasi di sbieco l’ultima
Maria Cristina: prima di tutte!! volta.

Giulietta: sì, sì è la più vicina, Sottolineo con voce allegra,


le altre è come se fossero approvante.
sparpagliate in altri boh in
altri… no, beh c’è Gianni che
ha…no, appare anche lui in
camicia bianca. Lei è in piena visione, si sta
appoggiando a persone più
anziane di lei, la gnometta e
Gianni, anche. In camicia
Maria Cristina: è sulla sedia a bianca.
rotelle o in piedi?
È pure guarito, stava sulla
sedia a rotelle ma ora, no,
eccolo in piedi, Giulietta
Giulietta: no, in piedi!
sembra felice di vederlo, che
le dia retta.

Maria Cristina: ah in piedi


ormai è!

Giulietta: in piedi con la


camicia bianca e i pantaloni
chiari e sorridente anche lui, di Sì che, come strappandosi
solito non mi saluta. E quindi dall’incantamento, a un certo
cosa dovevamo domandare punto, mi chiede ma che cosa
se? mai dovevamo domandare?
Ma il rapporto con le sue
persone appartiene a lei, la
libero da eventuali scorie di
fedeltà a me e al tempo di
prima.

243
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: cosa vuol dire


loro?
Lei, che cosa vuol dire loro?

C’è un punto, questa storia


Giulietta: (pausa) mah! Beh che loro vogliono che lei
quel fatto che loro mi mettano aspetti…
in attesa nel senso che mi
dicevano del discorso che: non
sono ancora pronta.

Maria Cristina: questa era Chiedo di Maria, una sua


Maria però, o anche la gnoma? affidabile e serena
controfigura ma Giulietta è
persa dietro la gnoma.
Giulietta: anche la gnoma.

Maria Cristina: anche la Le vengo dietro dandomi


gnoma diceva così, forse down e le reintroduce Maria e
ricordo male. anche Gianni.

Giulietta: lo diceva sì Maria


quando è stato confermato da
Gianni e poi l’ha detto in altri
termini anche questa signora
Ma è della gnoma che ha
gnoma qui. E quindi siccome
soggezione: ci si può
non so se ci si può azzardare a
azzardare?
domandare: “che cosa devo
aspettare o se possono farmi
capire questa cosa”.

Maria Cristina: che Vediamo, quale sarebbe il


succederebbe se lei lo pericolo?

244
Curare la vita con la vita

domandasse, Giulietta?

Giulietta: non so! Non so se è Giulietta esita, combattuta fra


anche una forma di timore da un fare da ganassa, un po’
parte mia nel sentire che cosa spaccona, e la tenera
hanno da dire. Solo che resto vulnerabilità di un suo
in attesa, non sapere...non so, sentimento di fanciulla.
l’idea che mi sono fatta io è
quella che potrebbe essere
qualche evento che non sia
dentro di me, quindi che non
sia un’evoluzione dei miei
pensieri, delle mie
constatazioni, di quello di cui
io mi possa accorgere da parte
mia. Ma come se fosse un
evento esterno. E quindi loro
dicono: “non sei pronta ma
perché c’è questo evento che E se si trattasse di un evento
deve concretizzarsi”. esterno?

Se non fosse lei a non essere


pronta?

Maria Cristina: sono d’accordo, Un rapido controllo se loro


loro, con questa sua sono al suo fianco, poi lei
posizione? dichiara lo spavento di dover
affrontare Marco. Se occorre
aspettare un evento esterno,
allora lei per ora ne è
Giulietta: quindi non riesco a
esonerata?
dire: va bene, se devo
aspettare ma: in che modo?
quanto? Cos’è questa cosa? E’
una cosa che posso provocare
io? Non so!

Mi son fatta l’idea riuscendo a


trovare il coraggio a due, a

245
Curare la vita con la vita

quattro mani di azzardare in


qualche modo un discorso con
Marco (pausa breve). E però
siccome d’altro canto mi
hanno detto che non è ancora
maturo qualcosa che era avere
delle informazioni, delle cose
che mi potevano aiutare a
capire questa cosa. Mi blocco,
perché dico: “Cavoli, se però
io faccio una cosa di questo
genere magari è un metterci
troppo del mio” non so come…

Maria Cristina: secondo lei, Azzardo io, stavolta, quanto


Giulietta, i rapporti con Gianni può arrischiarsi?
e con la signora sono troppo
formali per permettere una
richiesta di consiglio, una
richiesta d’aiuto?

Giulietta: no è che io da sola


non riesco! Io ho provato a Sembra scherzosamente
chiedere ma, non so “datemi disperata ma c’è un’eco di
appunto non lo so un segnale, vuoto che rimbomba nella sua
un aiuto, un qualcosa” voce.

Maria Cristina: un sacco di


indicazioni?
Rinforzo la qualità della sua
richiesta.
Giulietta: indicazioni, ecc. Ma
non ho questa capacità di
vedere le risposte o comunque Ma lei resta costretta in
secondo me è sempre quella: attesa, e per di più le
mi sorridono, mi dicono: sorridono e le raccomandano
“Aspetta, aspetta”. Come se

246
Curare la vita con la vita

dovesse appunto, comunque di aspettare.


passare del tempo, come se la
cosa non fosse in sé, come mi
hanno detto finora, matura.

Maria Cristina: anche adesso Loro ci sono, le stanno


glielo stanno dicendo? accanto e Giulietta sosta
incerta, fra desiderio e timore
di quel che può esserle detto.
Se chiedesse.
Giulietta: loro lo sanno, loro
sanno qualcosa però è come
se non fossi io comunque. È
che non riesco a capire se è:
da una parte ho una gran
voglia di saperlo, dall’altra
effettivamente ho timore, e
quindi …

Maria Cristina: potrebbe anche Avanzo l’idea che loro si


sembrare che se sono loro a astengano dal dire per non
risponderle, potrebbero rischiare di sopraffare il suo
risultare alla fine loro che pensiero.
hanno risposto al posto suo?
Cioè, essendo dei signori
molto attenti, molto rispettosi,
può essere che si astengano
da rispondere nel timore che
lei possa essere sopraffatta da
una loro risposta e rinunciare
alla sua.

Giulietta: non lo so?

Può essere? Lo chiedo


Maria Cristina: son d’accordo rispettosamente a Giulietta

247
Curare la vita con la vita

su questa mia ipotesi, Gianni e che ne testa la consistenza.


la signora?

Giulietta: mah, dicono


qualcosa del genere (pausa)
non so, mi veniva più la
sensazione del fatto che non
fosse proprio ancora tempo. E
appunto come dicevo prima,
come se fosse un evento
esterno e quindi che loro non
possono, pur magari vedendo
la percezione di quello che è il
poi, non hanno comunque
(parla molto più lentamente)
questa sorta di scintilla che
deve esserci per far partire…

Maria Cristina: però mi scusi, Siamo nuovamente in panne,


Giulietta, mi pareva che la provo a riprendere l’idea
domanda di oggi non fosse iniziale della domanda.
tanto: quando? O che deve
succedere? Ma qual è il modo
migliore di attendere, no?

Giulietta: sì (lunga pausa).


Beh Gianni mi dice di cercare
di rimanere serena. Giulietta concorda, Gianni le
parla.

Maria Cristina: lo dice con


affetto o con serietà?

Con che tono, Giulietta?


Giulietta: (con tono
affettuoso) siiii, con affetto, no

248
Curare la vita con la vita

con affetto (pausa). Dice Con Gianni c’è affetto, con la


sempre invece la signora, dice signora, invece, la
qualcosa che però (con un filo comunicazione sembra restare
di voce) io non riesco a un poco difficile.
sentire. E sento che ha delle
cose importanti da dire ma
non riesco a (pausa) sentirle.

Maria Cristina: cos’è che glielo Qual è il punto, difficile


impedisce? La distanza? La perché?
posizione? Cioè se lei
accostasse il suo orecchio? Questione di distanza, di
posizione? Intesa in senso
fisico quanto relazionale.

Giulietta: (pausa molto lunga,


è in ascolto).

Maria Cristina: sembra che lei


sia molto interessata a quello
che la signora dice.
Evidentemente sono un po’ in
ansia a lasciarla, forse non mi
sento tranquilla? Certo è che
Giulietta: ma perché è quella intervengo ancora,
che è rimasta più vicina. A commentando sulla signora.
mano, a mano che, non so,
Maria era stata molto forte per Giulietta, serena ma assorta,
… per quel periodo finché non si racconta.
è arrivato Gianni. Adesso è
molto presente Gianni ma
ancora di più lo è questa
signora.
E narra del peso che
attribuisce alle sue diverse
persone, delle loro vicende.
Maria Cristina: mhm (assente
e asseconda)

249
Curare la vita con la vita

Giulietta: poi è come se


avessero fatto una sorta di
staffetta. Così, comunque, tra
loro tre che sono quelli che,
più o meno chiaramente, nel
senso che Maria appare meno La signora campeggia e la
chiara e sembra che voglia intriga; avverte che ha delle
parlare meno, che lasci il cose da dire ma non le sente.
campo agli altri, di questi
quello che ha più parola,
diciamo, è la signora. E questa
signora avverto che ha delle
cose grosse da dire, ma che
non sento. Come non sentivo
l’altra volta quando mi diceva
che comunque non sono
ancora pronta.

Maria Cristina: se lei chiedesse E farsi schermare da Gianni?


aiuto e consiglio a Gianni, cosa Mi dispiace vederla lì come un
ne direbbe Gianni? Perché uccellino con le piume
basta sapere per esempio che bagnate.
lei deve poter vedere che la
signora gnoma parla, ma che
lei non può intenderla. Basta
saperlo forse. Oppure invece
che c’è un modo per
intenderla o per tradurla.

Giulietta: (pausa) mi dice:


“lasciati guidare”, (pausa)
Gianni mi dice.
Magico Gianni! Affidabile e
cortese.

Maria Cristina: e la signora è


d’accordo?

250
Curare la vita con la vita

Giulietta: (pausa) sì, sì sono


tutti molto legati, è come se
fosse una mente unica ecco.
Sono sempre d’accordo,
Qui è splendido il quadro di
dicono questi ultimi tre: Maria,
diverse teste e personalità
Gianni e la…la gnoma.
sintonizzate in un unico
Come se avessero un impulso impulso per conoscere!
unico di mente e che quindi
siano molto coalizzati nel
conoscere e quindi ognuno di
loro crede nella risposta
dell’altro come se fosse
proprio la sua. Finora almeno
è così.

Maria Cristina: c’è una E allora avviciniamoci ancora,


motivazione specifica, perché qualcuno ha il suo
Giulietta, per cui Gianni ha un nome ma non tutti?
suo nome, Maria pure e la
signora deve rimanere senza
un suo nome proprio? Cioè, è
importante che rimanga solo
come funzione, come stirpe L’accenno alla stirpe
diciamo in quanto gnoma? riecheggia il divario culturale
di Marco, forse era funzionale
anche quello, chissà mai.
Giulietta: mhm sì, dice che
comunque il nome non ha
importanza…fermo restando
che è l’unica cosa che mi dice
nel momento già anche
quando si sentiva il profumo
l’altra volta lei mi dice
sempre: “Viola”. Penso che Entra sicuro il nome Viola,
potrebbe, che le vada bene profumo, suono e nome
che la si chiami Viola. amati.
Continua a dirmi ‘sta: “Viola”.
È nell’aria e si diffonde.

251
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: continua a dirlo


la signora?

Giulietta: è nell’aria, è molto


presente questa “Viola”.
(pausa)

Non le dispiace se la
chiamiamo Viola.

Maria Cristina: sembra un po’


esitante però?
Tutto bene, Giulietta? È al
sicuro in questo rapporto
anelato con la signora?
Giulietta: no, no! Ero esitante
io, ma lei no.

Maria Cristina: la signora non


era esitante.

Giulietta: no, no! Ero io che…

Maria Cristina: lei era esitante,


perché? stava pensando a Lei sembra ben disposta a
come chiederle il permesso? farsi accompagnare: l’aveva
accennato prima, vorrei far
tutto da sola ma non ci riesco,
qualche volta, Giulietta, si può
Giulietta: no, perché non è non dover essere soli. E lei
una cosa che dice e più racconta, spigliata e compresa
…dovrebbe essere… quando assieme. Un suo lungo e
l’altra volta le abbiamo chiesto complesso ragionare e la
se sentiva questo profumo e

252
Curare la vita con la vita

così…saltava fuori “Viola”, le conclusione, ancora la stessa:


viole tra l’altro nel frattempo Viola.
stavo guardando giù dalla
finestra.

Maria Cristina: sì

Giulietta: che c’era lì accanto


quindi non capivo se
intendesse le viole che
potevano essere nell’aiuola
che intravedevo o che cosa:
un profumo o forse
probabilmente intendeva a
questo punto il suo nome,
comunque come voleva essere
chiamata, che non è il suo
nome. Però si vede che ama le
viole e quindi le sta bene:
Viola.

Maria Cristina: sembrerebbe Sottolineo con ammirazione la


che una delle caratteristiche di complessità della
questa signora è di essere comunicazione di Viola, da
leggibile a più livelli. difficile la valutiamo
complessa, Giulietta ne è
contenta.
Giulietta: (tono deciso) sì! È
molto più, boh, telepatica
direi.

Maria Cristina: mhm, meno di


parole.

253
Curare la vita con la vita

Giulietta azzarda una franca


superiorità della signora ma
Giulietta: sì, sì anche perché poi arretra, riavanza. Penso
queste grosse cose che mi che incontreremo ancora
dice, non le sta effettivamente questo suo bilanciarsi, non
dicendo, non vedo che muove poter dire di uno che le piace
il viso che lo dice a parole, ma più di tutti, dover compensare
è tutta questa cosa qui che mi gli altri. Tenerli buoni? Perché,
arriva ma non riesco a capire non si ha il diritto di eleggere
che cosa, a scandire bene le uno su tutti?
parole, le frasi. Però si sente
tutto sto bagaglio, mi dà la
sensazione che è quella che sa
maggiormente più degli altri.

Maria Cristina: sa di più.

Giulietta: sì! Anche se no, beh


c’è sempre questa sensazione
che abbiano loro tre un’unica
mente però è come se lei
fosse una portatrice o
comunque la … la custode di
queste cose e che quindi sia
lei quella che debba
dire…come se avesse un ruolo
più importante diciamo e
quindi sia lei che debba dire
delle cose.

Maria Cristina: anche se in


realtà, è l’unica che non dice.
Comunica ma non dice.

Giulietta: sì. (pausa)

254
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: cosa ne dicono Come vedono, loro, questo


questi due di queste nostre nostro conversare?
considerazioni, Giulietta?

Giulietta: (pausa) mah, dice


che siamo sulla buona strada.

Maria Cristina: anche Gianni? Fedele al suo avvertimento,


sto attenta a non tralasciare
nessuno.

Giulietta: sì, sì (pausa)

Maria Cristina: quindi si Il senso di tutto ciò, Giulietta,


potrebbe dire, una cosa di così ben rappresentato dalla
questo genere: è proprio una signora, è che l’evento
domanda: l’informazione che determinante sarà comunicato
darà la possibilità a Giulietta di sotto qualche forma ma
decidere, di valutare, di dare nessuno glielo dirà?
uno scarto, una svolta no? le
sarà comunicata, le apparirà
ma nessuno glielo dirà in
qualche modo? Non ci sarà un
evento specifico.

Giulietta: mi stanno dicendo Ci sarà una donna a


queste parole: “una donna” permetterle di comprenderlo.
nel senso, ho seguito la
domanda e come se questa
cosa venisse comunque
portata, suggerita comunque,
che dia uno spunto per

255
Curare la vita con la vita

comprendere questa cosa


attraverso una donna.

Maria Cristina: questo lo dice Con il permesso e l’assenso di


Gianni, o lo dice anche la Maria e di Gianni.
signora?

Giulietta: lo dicevano Maria


e…e Gianni prevalentemente.

Maria Cristina: per cui non E la signora? Potrebbe essere


sappiamo se per esempio la lei? Lei come c’entra?
donna è la signora?

Giulietta: sì perché comunque


lei tace, in effetti.

Maria Cristina: la mia Un controllo veloce fra di noi


impressione era appunto che per confrontare le valutazioni,
fossero più loro, che non ci verificare le impressioni.
fosse la comunicazione della
signora, però volevo verificarlo
con lei.

Giulietta: no, no, infatti tace.


Sono stati gli altri due a dirlo
ma lei non …non dice.

Nessun’altra, vero? Nessuna


delle ragazze?
Maria Cristina: e nello stesso

256
Curare la vita con la vita

tempo non sarà nessuna delle


altre ragazze?
Giulietta è affascinata da Viola
che sempre più
misteriosamente comunica e
Giulietta: no (pausa lunga) e non dice, tace ma sorride.
la Viola tace (con un filo di
voce) però sorride sempre.
Non so se sia lei ma
comunque non dice nulla ecco
(pausa lunga).
Che sensazione, vuol dire
accettare il silenzio di parole
di Viola.
Maria Cristina: che sensazione
c’è adesso?
E si avvia una sequenza
meravigliosa, sul sedersi e
Giulietta: mah, c’è la Viola che leggere un libro, orchestrato e
mi sta dicendo di (perché le ho interpretato diversamente da
chiesto io se mi poteva dare ciascuna delle persone di
un suggerimento…per cosa Giulietta. Al servizio di
fare, come fare) e lei mi dice: Giulietta.
“di sedermi e di leggere un
libro” ma come se fosse più di
sedermi e leggere un libro”,
“di fermarmi e leggere un
libro” che sarà uno specifico
perché comunque leggo
sempre ma…

Maria Cristina: ha in mente un


libro speciale la Viola?

Giulietta: (pausa) mah dice sì


e no. Non ce n’è uno Che può comporre pezzi e
ma…perché infatti diceva: “di pezzi.
fermarmi e leggere” un libro
ma non uno solo (non so come
dire è una cosa strana) è

257
Curare la vita con la vita

come se fosse nel senso da


tanti potrei trovarne mettendo
insieme pezzi e pezzi … un po’
come diceva l’altra volta però
con un altro discorso potrei
vedere una cosa, dare corpo a
una cosa prendendo spunti,
non so…suggerimenti qua e là
e poi…magari lì…

Maria Cristina: seguendo una Seguendo una traccia che si


traccia che si verrebbe a forma in itinere.
comporre via, via…

Giulietta: (sovrapponendosi)
sì, qualcosa del genere.

Maria Cristina: a lei Le farebbe piacere, Giulietta?


piacerebbe un progetto del
genere? Dopo tanto lavoro, come sta,
Giulietta? Il percorso tracciato
ricalca il suo desiderio, ciò che
le piace?
Giulietta: mah il mio pensiero
è sempre stato quello che …a
me piace molto leggere così e
la mia idea è sempre stata
comunque quella che
effettivamente da ogni libro
bello o brutto che sia, nel
senso che più o meno
importante o, non so, più o
meno piacevole. Piacevole lo
sono tutti perché altrimenti Sembra che Giulietta sia molto
non…Però comunque più o a suo agio.
meno importante, serio
diciamo dal romanzo a quelli lì

258
Curare la vita con la vita

scientifici così, tutti hanno


qualcosina di interessante a
cui fare appiglio…ecco sì. Solo
non è che, io non ho mai
smesso di leggere, per cui non
riesco a capire anche se mi dà
la sensazione che mi dava
l’altra volta quando mi diceva
di mettermi nel mezzo, no, di
lasciare l’oggetto del pensiero
nel mezzo e provare ad essere
ognuno dei paletti che può
stare intorno per vedere la
cosa da una prospettiva
diversa, ecco. Mi da un po’ lo
stesso richiamo di questa cosa
qui, di questa frase che mi ha
detto.

Maria Cristina. ma, secondo lei Ora possiamo affrontare un


Giulietta, quando Viola dice: ultimo chiarimento sul
libro intende proprio un libro o suggerimento che Giulietta ha
l’azione dello stare là e ottenuto.
pensare, leggere, riflettere,
ascoltare…

Giulietta: no, è vero dava più


questa seconda immagine. Sì,
come comunque dello stare
fermi a …

Maria Cristina: stavo pensando Dicevano che doveva entrarci


ad un’espressione che usano una donna, no? E allora
le donne: “fermarmi da una cerchiamo il loro linguaggio
parte e leggere un libro” per per capir meglio.
cui non è tanto importante il

259
Curare la vita con la vita

libro da leggere è proprio


l’azione del disporsi ad
ascoltare delle parole non
dette, una cosa di questo
genere.

Giulietta: sì. Direi che è valida


questa. perché è proprio
quella cosa che non riuscivo a
capire io perché diceva di
fermarmi a leggere un libro.
Non diceva uno, o comunque
uno in particolare ma libri
singolare plurale per cui
questa qui direi che è quella
più simile a quella che
intendeva lei. E quindi si Ecco: fermarsi a guardare con
ritorna comunque a quello che occhi diversi. Un’eco anche
mi aveva detto l’altra volta dell’avvio, l’agitazione verso il
che era quello di fermarmi a cambiamento, gli occhi diversi
guardare con occhi diversi. di Marco, un suggerimento da
ripensare all’interno di
Giulietta.

Maria Cristina: Gianni ne sa Dopo aver lasciato il passo


qualcosa di più? alle signore, ascoltiamo
Gianni.

Giulietta: (pausa) Gianni dice


che … che non è così Questione di tempi e di
complicato come può tempo.
sembrare nel fare attuare
questa cosa e che c’è sempre
il solito discorso del tempo che
comunque c’è qualcosa che
deve … che deve maturare …

260
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: sa, Giulietta, Ricompongo il dire di Gianni e


che io ho l’impressione che la il comunicare di Viola in un
forma del pensiero e del unico pensiero espresso con
comunicare di Gianni sia più, linguaggi diversi (ancora la
diciamo, su un andamento duplicità della differenza) e
lineare rispetto a quello della allargo a Maria (fra due sole
signora Viola. Cioè che Gianni opzioni, non c’è scelta!), un
dica a modo suo la stessa cosa movimento che vuol essere
che sta dicendo la signora ma anche proposta di leggere e
sono due modi diversi. Cioè ascoltare le altre letture di
Gianni dice: occorre che uno stesso evento. Fisico,
qualcosa venga a pensiero, relazione o
maturazione, no? Sarebbe emozione che sia.
forse interessante sapere la
versione che ne darebbe
Maria, a questo punto.

Giulietta: Maria, (lentamente)


Maria integra con l’assistenza
Maria dice che è lì che mi
fedele, affettiva. Non sta a lei
aspetta e quindi non dice
dire.
niente di preciso.

Maria Cristina: ecco c’è un Allargo e dispiego il ventaglio


modo di dirlo che è quello delle opzioni. Ognuno ha un
della signora Viola che dice suo modo, una sua funzione
appunto fermarsi e mettersi a complementare alle altre nel
leggere un libro, c’è un modo gioco, ognuno rinforza con il
di dirlo che è quello di Gianni suo modo il messaggio degli
che è questione di aspettare altri.
che qualcosa maturi, c’è un
modo di Maria che dice che è
con lei, no?

Giulietta: sì

261
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: ma il modo di


Giulietta di dire la stessa cosa?
E lei, Giulietta, come vuole
entrarci? Quale modo
sceglierà come suo?
Giulietta: (pausa) ma è
sempre quello di schierarmi in
attesa e mi è ritornata
l’immagine di quando siamo Lei è incerta, sembra un poco
caduti praticamente nella confusa, ritrosa, arretra in ciò
pupilla per guardare così che già sa, che già ha
dall’alto l’altra volta. Nello sperimentato.
stesso tempo è come un po’ il
desiderio di sciogliere queste
… questa imbracatura, queste
briglie che comunque tengono
fermo tante cose … comunque
vabbè si fida e si schiera
comunque con Maria, Gianni
con Viola ecco…si affida a loro
ecco.

Passa la palla a loro, si


sottrae?

Maria Cristina: si fida di loro o A loro andrà bene? È evidente


si affida loro? da tempo, in filigrana, il
commento sul nostro, di
rapporto. Di fiducia, sì, ma di
affidamento? Lo ribalto su
Giulietta: entrambe!
loro, con l’antica tecnica del
parlare a nuora perché
suocera intenda. Sono le sue
Maria Cristina: ah entrambe. E persone, le faranno da
loro accettano l’affidamento? specchio riflettendo il suo
Beh capisco bene che

262
Curare la vita con la vita

accettino la fiducia, la pensiero e riflettendo su.


riconoscono, ma
l’affidamento? Cioè che lei si
metta nelle loro mani in
qualche modo. E’ una cosa che
loro approvano?

Giulietta: beh insomma non Non si tradiscono, Giulietta ne


proprio è come se, è come se prende atto con buona grazia.
mi dicessero siamo qui nel
caso in cui avessi necessità,
bisogno però ecco che non
facciano tanto da affidatari
(sorride) non hanno questo
ruolo ecco, non lo accettano
ecco (pausa)

comunque dimostrano sempre


di essere lì e che ci sono in
caso di necessità ecco. Però
non si sentono assolutamente
e non mi devo comunque
affidare a loro, ecco.

Maria Cristina: chi ha risposto Chi ha dato il la?


di più, qua?

Giulietta: Maria.
Maria, ora molto differenziata
da Viola, donne ambedue ma
che distanza di posizione,
Maria Cristina: Maria, vero? E stile, funzione! Orma superato
la signora Viola è stata a il passaggi difficile
sentire oppure stava dell’affidamento impossibile,
ascoltando altro? (si ride siamo complici e alleate.
insieme)

263
Curare la vita con la vita

Giulietta: beh sì, un po’ e un


po’ non era molto partecipe.
Gianni e Maria affiancati,
quanto simili alla coppia dei
genitori di Giulietta, attenti,
Maria Cristina: vero? Non è il presenti, ma che non
suo gioco. accettano deleghe.

Giulietta: no, no, non è il suo


settore, diciamo il suo
argomento.

Maria Cristina: e Gianni?

Giulietta: Gianni ecco sì, era


più vicino a Maria in questa
cosa, condividendo quello che
stava dicendo lei sempre così
abbastanza…

Maria Cristina: sì, ma non è il


loro gioco, no?

Giulietta: no, no. Poi mi


appare anche la …come si E, dopo i genitori, ecco che si
chiamava? presenta anche la sorella di
Giulietta, alternativa,
eccentrica e spregiudicata, di
cui Giulietta vorrebbe
Maria Cristina: Gloria? possedere lo stile sprezzante
delle consuetudini. Qui viene
allusa da Franca, una delle
Giulietta: No, forse Franca, persone di Giulietta, tutta

264
Curare la vita con la vita

quella vestita di giallo, sì! molto particolare come


soggetto, che alza di colpo il
tono introducendo la splendida
immagine del vento, Franca
Maria Cristina: sì
che è nel vento, sulla sua
bicicletta.

Giulietta: eh sì, appare anche


lei che dice di (beh lei è tutta
molto particolare come
soggetto) dice di affidarmi,
come non so, farmi una bella
pedalata, di affidarmi al vento
come fosse una corrente da
…comunque ecco la vedo
molto così, come consiglio mi
sembra di vedere l’immagine
di lei in bicicletta, quindi
nell’aria, nel vento.

Maria Cristina: inebriata di


vento? Cioè che va dentro al
vento?

Giulietta: no, no no, il vento Ma l’idea è anche più bella e


tipico di quando si va in forte di come era sembrata in
bicicletta e così una visione un primo momento: il vento è
molto normale di pedalata che quello provocato proprio dalla
però comunque dà questa pedalata. Ecco, Giulietta, se
rinfrescata, questo…questa vuoi cambiare, resta stabile
pulizia. Poi non è una pulizia, sulla tua bicicletta, pedala,
qualcosa nell’aria in bicicletta forte, che l’aria intorno
si stacca, non so la polvere, smossa da te e trasformata in
queste cose qua abbastanza vento farà pulizia. A questo
leggere. puoi affidarti.

Eccola mi fa vedere lei in

265
Curare la vita con la vita

bicicletta e mi dice che dovrei


affidarmi all’aria, al vento.

Maria Cristina: e anche le Questo è specifico di Franca.


altre, una dopo l’altra,
potrebbero darle la loro
versione?

Giulietta: no …no, direi di no…

Maria Cristina: quando Franca


le ha parlato e le ha fatto
vedere la bicicletta, Maria cosa
ha fatto?

Maria approva, con grande


Giulietta: Maria sorride, è serietà, questa magica
sempre molto … Ha accettato biciclettata nell’aria. Non è il
questa cosa molto seriamente, suo gioco ma approva.
nonostante sorrida perché
approva nel senso di
approvazione nei confronti di
Franca, però è molto seria
dopo che c’è stata questa
biciclettata nell’aria.

Maria Cristina: Gianni?

Giulietta: Gianni sì, anche lui, Anche Gianni, le ragazze, le


è serio e dice: sì, sì come figlie son grandi, si
conferma che la cosa sia … sia appoggeranno l’una all’altra.
appropriata.

266
Curare la vita con la vita

Maria Cristina: e la signora E la signora?


l’ha ascoltato?

Non era il suo pensiero ma è


Giulietta: la signora sì, è più valida.
sorridente anche lei, perché la
trova, comunque sì, valida
anche se non è parte del suo
modo, ecco.

Maria Cristina: mi pare che L’ingresso del vento va


Franca nell’apparente festeggiato e onorato, si può
semplicità del suggerimento immaginare, Giulietta, che la
della proposta che le fa, mi proposta fascinosa di Franca
pare che ha preso qualcosa di rappresenti quell’indicibile che
molto sacrale, di molto andava trasmesso?
importante: il vento è anche
l’elemento biblico, è lo spirito
santo è la voce, come dire,
dentro la quale si trovano le
indicazioni ma che non
indicano. Mi sembra che, come
dire, Franca abbia dato una
rappresentazione fisica di una
cosa molto impegnata, molto
segreta, molto difficile da dire.
Può essere, Giulietta?

Il mio tono è molto serio,


Giulietta: mah, vedendo la rispettoso, Giulietta si
serietà di come hanno accolto sintonizza, Viola dice che è poi
gli altri direi di sì che può …sì, un po’ la stessa cosa che
perché sono molto seri e fermarsi a leggere, chiudendo
molto concordi in questa cosa il cerchio in una festa di
(pausa). Viola dice che linguaggi incrociati che
comunque, no, che mi fa circondano un contenuto di
sempre ricordare che il

267
Curare la vita con la vita

discorso del fermarsi e leggere grandissima rilevanza.


sia altrettanto valido. Però
hanno accolto seriamente
tutti, tutti e tre questa cosa
qui della pedalata.

Maria Cristina: e forse è Tiro le fila, concludiamo un


questo che dicono di portarsi lungo giro.
con sé.

Giulietta: cioè?

Maria Cristina: questa


immagine di andare dentro il
vento. E’ il vento che la stessa
pedalata provoca. Che non è
la stessa cosa di andare
dentro il vento.

Giulietta: eh no! E non è,non


può essere una cosa del tipo
lasciarsi trasportare.

Maria Cristina: no, è fidarsi di Vada, Giulietta, vada, sono,


sé stessi. siamo tutti lì che facciamo il
tifo per lei, si affidi al vento
che lei stessa produrrà!
Giulietta: ah…

Maria Cristina: è affidarsi a se


stessi….

268
Curare la vita con la vita

Lei si muove leggera, veramente, (ma sarà solo suggestione?),


sembra sostenuta da un gentile refolo di vento, scuote i ricci
mentre raccoglie la borsa ricamata, va verso la porta, felicemente
dimentica di me, tutta presa da un suo incanto privato. Poi si
ferma, sorride, mi porge la mano, morbida e piccolina: ci salutiamo
rapidamente e la guardo allontanarsi. E mentre scivola fuori dal mio
sguardo, mi riecheggia in testa l’antico saluto:

Possa il sentiero sorgere per salutarti.


Possa il vento essere sempre alle tue spalle.
Possa il sole splendere caldo sopra il tuo volto.
Possa la pioggia cadere gentilmente ai tuoi piedi.

269
Curare la vita con la vita

Maria Cristina Koch vive e lavora a Milano nel suo studio di via Grossich,
16

Dirige la scuola triennale di counseling accreditata S.I.Co. Sistema


Counseling www.sistemanet.com
Nella stessa sede di via Luisa Sanfelice, 3 a Milano, ha promosso un centro
multiculturale dedicato alle donne e alle professioni, La Casa di Vetro
www.lacasadivetro.com

dove opera anche EFF&CI-Facciamo Cose:


info@effecifacciamocose.com che organizza e cura eventi.

Oltre a contributi a volumi collettivi e interventi a convegni, ha pubblicato:

Norma e patologia allo specchio,


IPSA, Palermo 1985

Nel tempio nel bosco. Mito e fiaba nella conversazione terapeutica,


Librerie Cortina, Milano 1988

Dentro una locanda. La terapia come sosta Moretti e Vitali,


Bergamo 1999

Misurare l’immateriale. Riflessioni per una società trasparente


a cura di G. Lai e M.C. Koch, Franco Angeli, Milano 2008

La grafica è di Leonardo Gandini


www.noicon.biz

Le statue riprodotte sono di Giovanna Basile


www.giovannabasile.it

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