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Non si può sempre avere ciò che si vuole

...e comunque, potrebbe non essere ciò che si vuole

Ken McLeod
Mentre la compassione è il desiderio che gli altri non soffrano, la rinuncia è il desiderio che
noi stessi non si soffra. Che cosa causa la nostra sofferenza? Il desiderio. Rinuncia, quindi,
significa non tanto abbandonare le cose, i desideri o un modo di vivere, ma piuttosto
abbandonare il desiderare di per se stesso. Farlo non è affatto facile.

Un modo è vivere con pochi bisogni o necessità. Quando il pattern del desiderare non è
costantemente stimolato dalle circostanze della vita, la mente diventa calma e limpida, e
in questa chiarezza si trova la libertà dal desiderare. Questa è, essenzialmente, la via
monastica: la rinuncia esterna crea una condizione interna che conduce alla libertà.

La maggior parte di noi, tuttavia, vive in circostanze che stimolano il desiderio: desiderio
di sicurezza, desiderio di appagamento emotivo, e desiderio di identità. Abbiamo bisogno
di un approccio interno alla rinuncia e, per questo, abbiamo bisogno di comprendere la
natura di questi desideri.

Un modo in cui cerchiamo di soddisfare il desiderio di sicurezza è tramite l’avere : avere


un lavoro, un conto in banca, una casa, un bell’aspetto, etc. Tuttavia, una violenta
tempesta, un incidente d’auto o un crollo dei mercati finanziari può eliminare in un
momento tutto ciò che consideriamo come “nostro”. La morte stessa ci mostra che
neanche la nostra vita è veramente nostra.

Per quanto riguarda l’appagamento emotivo, chi non ha mai provato un senso di
disappunto, forse addirittura di tradimento, quando in una relazione vediamo che l’altro
non ci dà o non ci può dare ciò che agognamo così fortemente? Il tema dell’amore e della
delusione che ha ispirato l’arte, dalle tragedie greche alla musica pop, è una testimonianza
eloquente delle difficoltà di soddisfacimento dei bisogni emotivi.

Anche l’identità è un traguardo effimero. La nostra cultura ci spinge a scoprire chi siamo e
ad inorgoglirci nel sentirci un’entità unica. Il senso del sé, comunque, è una barca che fa
acqua. Più si solidifica l’identità, più sentiamo il bisogno di difenderla. Persino all’apice del
successo, molti sperimentano l’irrequietudine, l’insoddisfazione, la necessità di fare di più,
guadagnare di più, possedere di più, o ricevere più conferme. E’ come se una vocina
suggerisse loro continuamente: “Io non so chi sono”, e li spingesse senza tregua avanti
così.

Perchè alimentiamo questi desideri se non possono essere soddisfatti? Il meccanismo del
desiderio è basato su una convinzione: “Come sono ora, io sono incompleto”. Il desiderio è
un’ansia mal indirizzata che cerca di correggere lo squilibrio creato da quella convinzione.
La convinzione, a sua volta, è basata su una percezione erronea: “Io sono separato da
quello che sperimento”. Ci rivolgiamo al mondo dell’esperienza, identifichiamo gli oggetti
da cui proviene il canto delle sirene della completezza, e ci sforziamo di averli.

La rinuncia inizia con il riconoscere che questi sforzi sono destinati al fallimento: siamo
destinati a morire, i nostri bisogni emotivi non saranno mai soddisfatti, e essere
“qualcuno” ci separa dal mondo. Questa consapevolezza può essere dolorosa all’inizio,
tuttavia porta con sé tre chiavi che aprono le porte della libertà.

La prima chiave è smettere di cercare sicurezza. Ci si rilassa e ci si apre alla pienezza della
vita quando si comprende e si accetta il fatto che non esiste sicurezza alcuna se non
quella che si deve prima o poi morire. Si smette di essere ossessionati dal look e dalle
sensazioni del proprio corpo, dall’entità del conto in banca o da cosa fare per vivere. Si
abbandonano i criteri pre-stabiliti di successo e fallimento e si fa quello che veramente ci
interessa.

Tutto nella vita va e viene come le apparizioni di un sogno. Proprio ora, consideriamo un
qualsiasi oggetto che “possediamo”, un fiore, un libro, una giacca, un’auto. Guardiamolo e
rendiamoci conto che avremo esperienza di questo oggetto solo per un periodo limitato,
poche ore, giorni, mesi, o anni. Sia noi che l’oggetto andremo incontro al deperimento,
alla scomparsa. Quando si dimentica ciò e si considera una cosa come propria, non la si
può godere per quello che è. Quando invece ci si ricorda che non si può veramente avere
una cosa, si è liberi di goderne mentre fa parte della nostra vita.

La seconda chiave è abbandonare le aspettative di soddisfacimento emozionale. Le


relazioni personali sono sempre una sfida. Quando si smette di volere che amici,
famigliari, colleghi, etc. siano come noi vogliamo che siano, e li accettiamo per quelli che
sono, tutto risulta più facile e la relazione si chiarisce e si arricchisce.

Per la maggior parte di noi, i bisogni emozionali si strutturano precocemente nella vita.
Sono reazioni consolidate alle delusioni incontrate nel crescere. Da adulti, impieghiamo le
nostre vite cercando di ottenere quello che non abbiamo avuto da bambini. Ma il passato è
passato. Non si può tornare indietro. Quando si accetta la risonanza di queste disillusioni
momento per momento e non si cerca di evitarle, si scopre la libertà di godere dell’amore,
degli affetti e dell’amicizia, anche se non corrispondono esattamente a ciò che
(erroneamente) sentiamo di aver bisogno.

La terza chiave è conoscere l’inconsistenza dell’esperienza stessa: nessuno da essere,


nessun posto dove andare. Invece di cercare di essere qualcuno, sia ai propri occhi che a
quelli degli altri, riconoscere di non essere una cosa, né un’entità. Ciò che si è, è un
campo di esperienza e consapevolezza vuota, aperta, come il cielo e gli arcobaleni che vi
appaiono. Senza il fardello dell’identità, si è liberi di rispondere naturalmente e
appropriatamente a qualsiasi situazione si possa incontrare.

“Bene, tutto molto bello”, si potrebbe obiettare, “ma come si può in pratica passare dal
desiderio alla rinuncia?” La rinuncia interna si pratica muovendosi nell’esperienza del
desiderio, invece che cercando di soddisfarlo o sopprimerlo.

Consideriamo un qualsiasi oggetto di desiderio, un oggetto fisico, una relazione, o qualche


forma di approvazione. Lasciamo sorgere la sensazione del desiderio. Sperimentiamo
come si manifesta nel corpo, percepiamo tutte le emozioni che scatena, e lasciamo tutte le
storie che ci racconta là dove sono. Non distraiamoci. Non cerchiamo di controllare
l’esperienza. Non elaboriamo niente. Se scopriamo un altro livello di desiderio,
muoviamoci in quello. Quando ci muoviamo completamente nel desiderio, si produce un
cambiamento e percepiamo il desiderio come si presenta nell’esperienza. Ora guardiamo
di nuovo l’oggetto del desiderio. Che cosa è cambiato?
Entrando nell’esperienza del desiderio stesso, piuttosto che agendo in base ad esso, si
abbandona la convinzione di essere incompleti. L’energia del desiderio cessa di
determinare il comportamento e, invece, alimenta la presenza: essere completamente
nell’esperienza di ciò che è, internamente ed esternamente.

La catena del desiderio ci trascina in una vita di frustrazione e sofferenza, mentre la


rinuncia taglia queste catene. La rinuncia, sebbene spesso intesa come “abbandono”,
“privazione”, è, invece, la volontà di sperimentare le cose come sono, non come
vorremmo che fossero. Qui si scopre la vera libertà, la profonda, quieta gioia che è
sempre stata presente in noi.

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