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Alle
origini
del
mito.

(
Racconti
di
Vassallo
Roberto)






















Prefazione.


«
Il
mito
racconta
una
storia
sacra;
riferisce
un
avvenimento
che
ha
avuto
luogo
nel
tempo

primordiale,
il
tempo
favoloso
delle
origini
[...]
È
dunque
sempre
il
racconto
di
una
"creazione":

si
narra
come
qualcosa
è
stato
prodotto,
come
ha
cominciato
a
essere
».


Un
mito
(dal
greco
μύθος,
mythos,
pronuncia
miutos)
è
una
narrazione
investita
di
sacralità

concernente
le
origini
del
mondo
o
alle
norme
con
cui
il
mondo
stesso
e
le
creature
viventi

hanno
raggiunto
la
forma
presente.
Di
solito
i
suoi
protagonisti
sono
dei
ed
eroi.

Spesso
le
vicende
narrate
nel
mito
hanno
luogo
in
un'epoca
che
precede
la
storia
scritta.
Nel

dire
che
il
mito
è
una
narrazione
sacra
s'intende
che
esso
è
considerata
verità
di
fede
e
che
gli

viene
attribuito
un
significato
religioso
o
spirituale.
Ciò
naturalmente
non
implica
né
che
la

narrazione
sia
vera,
né
che
sia
falsa.

Al
tempo
stesso
il
mito
è
la
riduzione
narrativa
di
momenti
legati
alla
dimensione
del
rito,

insieme
al
quale
costituisce
un
momento
fondamentale
dell'esperienza
religiosa
volta
a

soddisfare
il
bisogno
di
fornire
una
spiegazione
a
fenomeni
naturali
o
a
interrogativi

sull'esistenza
e
sul
cosmo.

Miti
e
leggende
si
sono
susseguiti
dall’inizio
del
mondo
a
ora,
ogni
epoca
senza
esclusione

alcuna
ha
avuto
i
suoi
racconti
ed
eroi
con
cui
rapportarsi.
Spiegare
cos’è
un
mito
non
è

semplice,
ma
è
facile
dare
al
mito
le
spiegazioni
di
accadimenti
e
fatti
di
cui
è
impossibile

rendere
comprensibile
la
ragione.
Gli
dei
e
gli
eroi
cui
tutto
è
permesso
sono
il
metro
per

misurare
questi
fatti
inspiegabili,
rendendo
possibile
con
il
racconto
fantastico
anche

l’impossibile.
Ovidio,
e
Apuleio
hanno
raccontano
il
mito
con
la
forza
drammatica
e
a
volte

tragicomica
dell’azione,
come
se
realmente
l’avessero
vissuta.
Sono
stati
i
cronisti
ante

litteram
di
accadimenti
sovrannaturali
e
inesplicabili
e
gli
hanno
resi
comprensibili
a
tutti.


Avendo
miti
di
tutti
i
generi
e
da
tutte
le
latitudini
ho
pensato
d’immaginare
cosa
sarebbe

stato
divinità
di
diversa
provenienza
si
fossero
incontrate
in
un
qualche
contesto.

Quello
che
ne
è
venuto
fuori
è
un
caos,
dove
i
vari
miti
e
gli
dei
si
sfidano,
e
si
contendono
sia

la
supremazia
che
l’immortalità
perché
bisogna
ricordarlo
sempre,
che
sia
gli
dei
che
gli
eroi

non
sarebbero
tali
se
non
ci
fossero
i
mortali
a
ricordarne
le
gesta.





Vassallo
Roberto.


Le
Quattro
stagioni.










L’inizio.


A
nord
di
Ginnungagap
(il
caos
dove
ebbe
origine
l’universo)
si
estende
il
gelido
“Niflheim”
(la

casa
della
nebbia)
la
regione
dei
ghiacci
eterni.
Al
centro
del
“Niflheim”
si
trova
un
pozzo

“l’Hvergelmir”
dove
sgorgano
gli
undici
fiumi
Élivágar:
Svöl,
Gunnþrá,
Fiörm,
Fimbulþul,
Slíðr,

Hríð,
Sylgr,
Ylgr,
Víð,
Leiptr
e
Gjöll.
Gli
Élivágar
che
giunsero
così
lontano
dalla
loro
sorgente

che
la
loro
schiuma
velenosa
s'indurì
formando
strati
di
brina
e
di
ghiaccio,
che
ricoprirono

tutto
il
Ginnungagap.
Da
questi
fiumi
secondo
le
leggende
nordiche
nacquero
i
fiumi
del

mondo,
mentre
all’estremo
sud
si
trovava
il
“Muspellhein”
la
casa
dei
distruttori
del
mondo.


Questo
era
lo
scenario
primitivo
prima
che
fosse
creato
il
mondo,
su
questa
instabile
materia

il
dio
Odino
vagava
per
cercare
di
mettere
un
po’
d’ordine
a
questo
marasma.
La
terra
ancora

malferma
non
offriva
al
piede
appoggio
sicuro
e
i
mari
ancora
ribollivano
del
caos

primordiale.
Il
dio
tentava
di
dare
una
forma
a
quella
materia
in
continuo
mutamento,

innalzando
montagne,
separando
i
cieli
dai
mari,
formando
le
pianure,
riempiendo
i
laghi
e

delimitando
le
valli
ma
aimè
per
quanto
facesse,
il
tempo
non
passava
mai
perché
non
era

stato
ancora
inventato.
Il
gelo
del
“Niflheim”
era
quindi
eterno,
i
ghiacci
stringevano
nella
loro

morsa
tutto
d’intorno
tingendolo
di
un
unico
candido
colore.


Un
bel
giorno
Odino
stanco
di
tutto
quell’inutile
lavoro,
decise
che
fosse
giunto
il
momento
di

cercare
un
altro
luogo
sulla
terra
dove
la
sua
arte
potesse
avere
miglior
fortuna.
Cominciò
così

a
girare
in
lungo
e
in
largo
abbandonando
il
gelo
e
le
nebbie
del
Ginnungagap.
Allontanandosi

dai
suoi
possedimenti
a
mano
a
mano
scoprì
com’era
diverso
ora
l’universo
così
lontano
dalle

sue
inospitali
terre,
altre
giovani
divinità
stavano
costruendo
il
loro
olimpo
in
altri
mondi
con

nuovi
colori
e
sapori.
Un’aria
più
tiepida
scuoteva
la
capigliatura
arruffata
del
dio,
i
suoi

enormi
piedi
non
lasciavano
più
profonde
impronte
nelle
gelide
nevi,
anzi
un
tappeto
di
verde

natura
era
fiorito
sotto
di
lui
e
nuovi
profumi
avevano
cominciato
a
farsi
strada
selle
sue

narici
assuefatte
da
un
unico
odore
mentre
una
luce
accecante
nel
cielo
attraversata
le
volte

celesti,
il
cocchio
del
sole
disegnava
ardite
traiettorie
proprio
sopra
la
testa
del
dio.
Tutta

questa
meraviglia
giungeva
nuova
alla
divinità
venuta
dal
freddo
cha
a
grandi
falcate
giunse

presso
un’isola
a
forma
di
falce,
dove
un
clima
dolce,
il
quieto
rumore
del
mare
e
una
natura

lussureggiante
fecero
decidere
a
Odino
che
quello
era
il
posto
giusto
per
riposarsi
e
così
fece.

Presto
fu
svegliato
da
un
amabile
aroma,
un
profumo
così
dolce
che
destò
in
lui
una

sensazione
mai
provata,
sentiva
tutto
il
suo
enorme
essere
come
invaso
da
un
delizioso
tepore

e
così
non
sapendo
da
dove
provenisse
quel
delicato
effluvio
causa
di
tanto
turbamento,
la

divinità
si
mosse
per
cercarne
la
provenienza.
Addentrandosi
all’interno
dell’isola
lasciò
la

frescura
della
brezza
marina
e
subito
fu
inghiottito
da
una
natura
tanto
esuberante
che
lo

avvolse
abbracciandolo
con
una
calura
soffocante.
Il
dio
non
essendo
abituato
a
quel
caldo

opprimente
crollò
dopo
pochi
passi,
ma
subito
si
riprese
quando
intravide
una
giovane
donna

avvicinarsi
a
lui.
Che
mirabile
visione
si
parò
dinanzi
ai
suoi
occhi,
la
donna
era
di

un’avvenenza
sconvolgente,
lunghi
capelli
neri
le
incorniciavano
un
volto
dai
lineamenti

perfetti,
grandi
occhi
verdi
la
illuminavano
di
un
caldo
colore,
la
sua
pelle
bruna
madida
di

sudore
scintillava
come
neve
al
sole.
Due
seni
turgidi
facevano
mostra
di
se
imprigionati
in

una
stretta
tunica
trasparente
e
due
gambe
ben
tornite
si
mostravano
orgogliose
agli
occhi

increduli
del
dio,
il
quale
balbettando
chiese
chi
fosse
la
proprietaria
di
tanta
bellezza.
La

giovane
donna
rispose
che
il
suo
nome
era
Gea,
quindi
si
piegò
sulla
divinità
per
prestargli

soccorso,
chinandosi
la
giovane
inconsapevolmente
espose
ancora
di
più
le
sue
formose

grazie
agli
occhi
di
Odino,
due
seni
perfetti
e
rigogliosi
scapparono
dalla
stretta
veste
ed

esplosero
la
loro
bellezza
dinanzi
al
viso
visibilmente
compiaciuto
del
dio
nordico,
la
giovane

sorrise
e
senza
aggiungere
altro,
togliendosi
quel
poco
che
l’era
rimasto
si
allungò
sopra
la

divinità
consumando
il
resto
del
giorno
tra
baci
e
lascive
carezze.


Ma
i
due
amanti
non
avevano
fatto
i
conti
con
Crono.
Costui,
infatti,
era
un
giovane
dio
cui
era

stato
affidato
il
comando
del
tempo
e
che
aveva
anche
la
potestà
di
decidere
la
lunghezza
del

giorno
e
della
notte,
Gea
era
non
solo
la
sua
genitrice,
era
soprattutto
la
terra
madre
da
cui

tutto
ebbe
inizio.
Da
quella
sfuggente
relazione
con
la
divinità
nordica
nacquero
quattro

bambine,
non
una
poteva
dirsi
di
assomigliarsi
all’altra,
pareva
non
fossero
figlie
dello
stesso

padre.
Due
mondi
diversi
e
distanti
si
erano
incontrati
per
un
qualche
volere
supremo
e
da

quell’incontro
erano
venute
al
mondo
quattro
ragazze
che
avrebbero
cambiato
per
sempre
il

corso
del
mito.
Gumeide
dai
capelli
bianchi
come
la
neve
e
gli
occhi
grigi
come
i
lupi
della

tundra,
con
la
pelle
candida
come
i
petali
di
una
rosa
che
non
ha
mai
conosciuto
i
raggi
de
sole,

Antea
dai
capelli
bruni
e
la
pelle
lucente,
Alcinea
bionda
come
il
grano
che
esultante
si
mostra

orgoglioso
al
sole
d’estate
e
Morgana
dai
fulvi
capelli
e
la
pelle
ramata.

Quattro
giovani
così
diverse
avevano
anche
caratteri
differenti.
La
prima
morgana
era
una

bambina
fredda
e
di
poche
parole,
amava
starsene
da
sola
appartata,
schiva
e
che
raramente

parlava
con
le
sorelle,
preferendo
invece
i
luoghi
freddi
e
umidi.
Antea
amava
al
contrario

crogiolarsi
al
sole,
amante
della
caccia
e
della
corsa,
succintamente
vestita
inseguiva
a

perdifiato
le
sue
prede
e
forte
del
suo
temperamento
le
insidiava
sino
a
quando
sfinite,
non
le

soccombevano.
La
bionda
Alcinea
si
poteva
scorgerla
quando
si
crogiolava
nuda
sotto
i
raggi

del
sole
o
prendeva
il
bagno
con
malcelata
pudicizia
nei
dolci
e
freschi
fiumi
che
scorrevano

selvaggi
lungo
le
verdi
valli
e
che
dire
della
rossa
Morgana
che
amava
l’imbrunire,
parlava
agli

animali
costruiva
con
loro
misteriosi
talismani
e
si
cuciva
i
suoi
abiti
con
le
foglie
e
ciò
che
la

prospera
natura
donava.
Erano
già
passati
sedici
anni
e
il
mondo
sembrava
essersi
assestato,

delle
creature
terrestri
alcune
avevano
appreso
l’arte
del
volo
e
avevano
cominciato
ad

abitare
le
volte
celesti,
altre
più
schive
avevano
trovato
rifugio
nei
fiumi,
nei
laghi
e
nei
grandi

mari
che
con
il
loro
moto
avevano
separato
le
terre.
Il
mondo
era
abitato
da
specie
diverse,
chi

su
due
o
quattro
zampe,
chi,
con
ali
o
con
pinne,
chi
invece
con
radici
e
fronde
avevano

cominciato
a
proliferare.
Ancora
le
giovani
divinità
cacciavano
le
figlie
dell’uomo
e
le
nuove

dee
si
lasciavano
sedurre
dalle
creature
terrene,
la
terra
non
aveva
ancora
conosciuto
l’onta

dell’aratro
e
gli
alberi
come
la
natura
elargiva
con
generosità
i
suoi
frutti,
ancora
il
sangue
non

aveva
macchiato
il
vergine
suolo
e
in
cielo
si
sentiva
solo
il
cantico
delle
creature
alate.



Crono
aveva
invece
meditato
tutto
questo
tempo
la
sua
vendetta,
assorto
così
nelle
sue

meditazioni
si
era
dimenticato
persino
il
compito
che
il
padre
di
tutti
gli
dei
gli
aveva
affidato,

quello
di
creare
il
tempo.
Bisogna
premettere
che
prima
che
il
dio
straniero
Odino
fecondasse

con
il
suo
seme
la
madre
terra
Gea,
Crono
aveva
appena
cominciato
il
suo
compito
creando
il

giorno
e
la
notte
e
dando
a
ognuno
di
esse
la
stessa
durata,
ma
dopo
il
misfatto,
la
divinità
del

tempo
si
era
rinchiusa
in
se
stessa
pensando
più
alla
vendetta
che
ai
suoi
compiti.
Così
un
bel

giorno
fu
richiamato
ai
suoi
doveri
dal
padre
di
tutti
gli
dei
in
persona,
perché
con
il
suo

comportamento
aveva
abbandonato
il
mondo
a
un
giorno
e
una
notte
perpetua
e
senza
dare

alla
natura
il
ciclo
per
riprodursi
e
agli
umani
il
periodo
della
vita
e
quello
della
morte.
Il

rimprovero
del
vecchio
dio
invece
di
riportare
Crono
sulla
strada
dei
suoi
doveri,
aveva
invece

acceso
l’ira
della
giovane
divinità
che
ora
più
che
mai
si
tormentava
alla
ricerca
di
una

tremenda
vendetta.
E
quale
ritorsione
più
crudele
vi
può
essere
che
colpire
qualcuno
nei
suoi

affetti
più
cari?
Così
Crono
decise
di
rapire
tutte
e
quattro
le
figlie
di
Odino
e
Gea,
per

tenersele
con
sé
per
l’eternità
anche
se
questo
lo
avesse
condannato
all’oblio.


Crono.


Crono
così
si
sentì
come
relegato
in
un
angolo,
il
suo
posto
nell’Olimpo
e
nel
cuore
di
Gea
sua

madre
era
stato
quindi
rimpiazzato
non
solo
da
un
dio
forestiero,
ma
anche
da
quattro
giovani

ragazze
che
col
crescere
si
stavano
impadronendo
quasi
a
volerlo
sfidare
dei
suoi

possedimenti
e
così
in
un
impeto
di
furia
il
giovane
dio
allungando
di
colpo
la
notte,
rapì
nel

sonno
le
quattro
fanciulle
e
con
esse
scappò
laddove
il
fiume
Acheronte
ha
la
sua
sorgente
e

seguendolo
giù
nei
meandri
della
terra,
le
portò
dove
lo
Stige
forma
la
sua
nefasta
palude
e
lì

le
rinchiuse.
Mai
nottata
fu
così
lunga
e
fredda,
mai
giorno
tardò
tanto
ad
arrivare,
Crono
nella

sua
folle
gelosia
ebbe
l’ardire
di
disperdere
persino
i
cavalli
che
di
solito
trainavano
il
carro

del
sole
ritardando
così
il
sorgere
del
nuovo
giorno
e
in
quel
lasso
di
tempo
mise
in
atto
i
suoi

vendicativi
propositi.


Apollo
dovette
faticare
non
poco
a
ricondurre
alla
ragione
quei
destrieri
che
di
solito

trainavano
la
sua
carrozza
da
dove
ogni
mattina
sorgendo
a
oriente,
saliva
allo
zenit
e
poi

iniziando
a
scendere
a
occidente
da
dove,
passando
sotto
l’orizzonte,
raggiungeva
il
suo
punto

più
basso
nel
cielo
di
mezzanotte,
segnando
così
il
confine
tra
notte
e
giorno.


Gea
fu
la
prima
a
rendersi
conto
che
qualche
cosa
non
andasse,
già
la
sua
notte
era
stata

agitata
e
preda
d’incubi,
nei
quali
era
ricorrente
la
disperata
ricerca
di
acqua,
la
divinità
più
di

una
volta
si
destò,
ma
come
se
fosse
stata
avvolta
da
una
nube
soporifera
più
di
una
volta,

ricadde
addormentata,
sino
a
quando
un
incubo
più
spaventoso
degli
altri
la
indusse

finalmente
a
svegliarsi.
Era
ancora
notte
fonda
di
un
nero
così
profondo
che
neanche
le
pallide

stelle
che
affollavano
la
volta
celeste
sembravano
dare
alcun
aiuto.
La
dea
nel
buio
più

assoluto
si
diresse
verso
le
stanze
dove
di
solito
dormivano
le
sue
figlie
e
quando
chiamatele

una
a
una
non
ebbe
risposta,
si
gettò
a
peso
morto
sui
loro
letti
vuoti
cercando
con
mano

quello
che
con
la
voce
non
ebbe
successo.
Le
sue
mani
invece
di
stringere
quelle
delle
figlie

cingevano
ora
solo
fredde
lenzuola
e
le
sue
labbra
invece
di
baciare
le
gote
pallide
delle
sue

giovani
ragazze,
mordevano
di
rabbia
i
letti
vuoti.
Un
urlo
si
schiantò
contro
le
mura
della

stanza
e
il
suo
eco
scosse
le
fondamenta
della
stessa
terra,
ma
non
c’era
nessun
altro

all’infuori
di
lei
a
condividere
quel
dolore,
neanche
quel
dio
venuto
da
lontano
poteva

manlevare
quello
strazio,
una
sofferenza
di
madre
che
solo
una
mamma
era
in
grado
di

sopportare.
Mai
notte
fu
più
lunga
e
mai
una
nottata
così
intensa
se
ne
ebbe
un’altra
sulla

faccia
della
terra.
Gea
quando
finalmente
il
carro
del
sole
riprendendo
il
suo
percorso
illuminò

finalmente
la
terra
si
diede
a
cercare
le
sue
figliole,
chiese
quindi
aiuto
alle
ninfe
dei
laghi,

domandò
soccorso
ai
veloci
centauri,
supplicò
sostegno
alle
alate
creature
dell’aria,
ai
celesti

animali
marini
ordinò
collaborazione,
nessuno
fu
risparmiato
dalle
sue
suppliche
e
lo
stesso

Odino
fece
giuramento
che
non
sarebbe
tornato
se
non
le
avesse
trovate.


Solo
adesso
la
nordica
divinità
si
rendeva
conto
di
ciò
che
era
successo,
soltanto
ora
il
dio

costatava
l’entità
di
ciò
che
era
stato
commesso,
aveva
in
un
momento
di
passione
soverchiato

un
ordine
che
il
padre
di
tutti
gli
dei
con
fatica
aveva
costituito.
Di
colpo
la
terra
si
trovò
senza

più
né
giorno
né
notte,
il
tempo
si
era
fermato
congelando
in
un
istante
lungo
un’eternità
i

giovani
virgulti
che
a
fatica
erano
spuntati
dagli
alberi
in
fiore
e
che
dovettero
arrestare
la

loro
corsa
verso
la
vita,
in
quanto
né
luce
né
ombra
aveva
più
potestà
sulla
terra.
Similmente

tutti
i
cuccioli
su
due
o
quattro
zampe,
piumate
o
squamate,
striscianti
o
saltellanti
potevano

fare
diversamente.
La
terra
e
con
essa
i
suoi
abitanti
era
sprofondata
come
in
un
profondo

oblio.



Crono
incurante
di
ciò
che
stava
succedendo
in
superficie
aveva
rinchiuso
le
quattro
figlie
di

Gea
e
Odino
(nonché
sue
sorelle),
in
quattro
gabbie
separate
ognuna
con
un
elemento
a
farne

da
guardiano.


La
candida
Gumeide
si
disperava
e
i
suoi
lamenti
sibilando
cupi
e
tetri
incutevano
timore,
lei

amante
della
solitudine
dei
luoghi
freddi
e
silenziosi,
il
crudele
Crono
l’aveva
rinchiusa
in
un

luogo
abbietto
molto
vicino
alla
fornace
dove
Vulcano
fabbricava
le
sue
armi
invincibili
per
gli

eroi
immortali,
dove
il
calore
delle
fiamme
infernali
che
alimentavano
il
forno
del
dio
fabbro
e

il
ripetuto
battere
del
martello
sull’incudine
provocavano
alla
giovane
dolore
e
sofferenze

inenarrabili,
spasimi
e
angosce
che
crescevano
sempre
più
con
l’andare
del
tempo.
In
un
luogo

più
distante,
lontano
dai
fuochi
e
dai
ripetuti
martellamenti
di
Vulcano,
rinchiusa
tra
i
ghiacci

delle
profondità
infernali
laddove
neanche
le
più
impavide
fiamme
degli
inferi
avevano
il

coraggio
di
arrivare
era
prigioniera
Alcinea.
La
radiosa
fanciulla
lentamente
si
stava

spegnendo
soggiogata
dal
gelo
intenso
e
il
suo
colore
bruno
aveva
lasciato
il
posto
ad
un

colorito
biancastro
che
solo
chi
sta
per
morire
ne
è
proprietario.
La
mancanza
di
luce
dalla

quale
la
ragazza
si
nutriva
stava
appassendo
il
più
bel
fiore
del
creato
che
stava
lentamente

cessando
di
esistere.
Morgana
e
Antea
erano
invece
incatenate
una
contro
la
schiena
dell’altra,

bendate
in
modo
che
non
si
potessero
vedere
ma
solo
sentire
e
in
questo
modo
costrette
a

girare
intorno
senza
mai
incontrarsi,
private
della
luce
in
un
luogo
dove
l’eco
regna
sovrano,

queste
due
ragazze
vagavano
senza
meta
girandosi
intorno
in
una
danza
senza
mai
fine.

Seduto
sul
suo
trono
di
vento
il
figlio
di
Gea
contemplava
orgoglioso
dall’alto
le
sue
vittime,

ma
non
riusciva
ad
assaporare
il
dolce
nettare
della
vendetta
ancora
un
ingrediente
mancava

alla
sua
mistura,
un
elemento
fondamentale
per
la
riuscita
della
sua
rivalsa.

Quel
dio
straniero
che
aveva
osato
profanare
il
sacro
ventre
di
sua
madre
quell’essere
venuto

da
un
luogo
lontano
così
difficile
da
pronunciare,
ora
doveva
avere
il
coraggio
di
affrontarlo
in

quell’ambiente
ostile.
Doveva
avere
l’ardire
di
scendere
giù
negli
inferi
più
profondi
dove

anche
gli
dei
tremano
alla
sola
pronuncia.



Intanto
in
un
luogo
molto
più
in
alto
il
tempo
si
era
fermato
da
un
pezzo,
tutto
era
rimasto

come
congelato,
anche
i
fiumi
che
con
impeto
scendevano
verso
le
valli
alla
ricerca
delle
loro

foci
si
erano
bloccati
come
se
Fida
avesse
impresso
quel
momento
per
sempre
sul
freddo

marmo,
così
per
i
pesci
e
per
gli
esseri
alati
che
parevano
come
tessuti
da
abili
mani
divine

sull’enorme
tela
che
è
il
firmamento.
La
vita
sul
pianeta
terra
era
sospesa
come
le
stelle
nel

cielo
in
quell’immobile
silenzio
che
sovrasta
l’Olimpo
e
tutti
gli
dei,
così
a
mettere
fine
a

quest’irreale
sipario
intervenne
il
sommo
creatore
in
persona.
Dall’alto
del
suo
trono
tuonò

tutta
la
sua
ira
e
dalla
quale
ne
scaturì
un
terremoto
così
potente
che
squassò
le
grandi

imperturbabili
montagne
sempiterne
e
scosse
tutti
i
mari
e
gli
oceani
sulla
faccia
della
terra.

Scosse
l’infinitesimamente
piccolo
e
l’incommensurabilmente
grande,
tranne
uno,Crono.

Costui
indifferente
per
la
rabbia
del
padre
se
ne
stava
appollaiato
in
cima
a
una
rupe
mentre

con
occhio
annoiato
guardava
ciò
che
gli
succedeva
attorno.
D’altronde
anche
gli
inferi

pativano
la
mancanza
del
tempo
che
senza
il
suo
scandire
era
diventato
di
una
monotonia

asfissiante
tanto
che
anche
il
supplizio
inflitto
alle
quattro
sorellastre
restando
sempre
uguale

non
gli
donava
più
alcun
diletto.
A
movimentare
le
acque
fu
la
precipitosa
sfuriata
che
il
padre

di
tutti
gli
dei
fece
al
suo
figliolo
impertinente.
Nessuno
in
verità
seppe
mai
cosa
i
due
si

dissero,
fatto
sta
che
alla
fine
non
il
padre
di
tutti
gli
dei
se
ne
andò
sbuffando:‐“
non
è
più

affar
mio”
urlò
ai
ventri
infernali
e
poi
aggiunse
“ci
pensi
ora
chi
ha
combinato
questo
guaio
a

ripararlo”.


Odino
ascoltò
in
silenzio
le
sbuffate
del
vecchio
dio,
quindi
attese
che
quest’ultimo
uscisse

dall’Averno,
respirò
profondamente
e
vi
ci
si
addentrò
a
sua
volta.
Dunque
era
questo

“l‘inferno”,
pareva
chiedersi
il
dio
mentre
scendeva
lentamente
giù
per
il
ripido
pendio
che

portava
alla
foce
dello
Stige,
il
buio
più
totale
avvolgeva
l’enorme
mole
della
divinità
che
a

mano
a
mano
scendeva
in
basso,
si
sentiva
avviluppare
sempre
più,
lui
abituato
alle
immense

pianure
ghiacciate
del
“Niflheim”
si
sentiva
schiacciato
e
oppresso
da
quella
cappa
di
umidità

di
cui
non
vedeva
la
fine,
ad
ogni
passo
sentiva
il
suo
vigore
scemare,
avanzando
aveva

sentore
che
una
strana
debolezza
si
stava
prendendo
possesso
di
lui,
sino
a
quando
un
caldo

soffocante
non
lo
fece
stramazzare
al
suolo,
dovette
faticare
parecchio
per
potersi
rialzare
di

nuovo,
era
come
se
una
forza
più
potente
di
lui
lo
tenesse
inchiodato
al
terreno,
stremato

dall’insolita
fatica
Odino
non
trovò
di
meglio
che
mettersi
in
ginocchio
e
proprio
davanti
a

Crono
che
seduto
sulla
sua
rupe
a
modo
di
trono
lo
stava
osservando.

“così
tu
saresti
il
potente
Odino,
il
dio
delle
terre
del
nord”,
chiese
Crono
sganasciandosi
dalle

risate.
La
risposta
della
divinità
nordica
troppo
fioca
perché
sia
udita,
non
ebbe
risultato
che

la
ripetizione
della
stessa
ma
questa
volta
un
urlo
così
potente
che
poté
essere
udito
anche
al

di
fuori
dei
confini
infernali.
Gea
che
conosceva
fin
troppo
bene
il
carattere
di
Cromo,

cominciò
a
piangere,
e
la
sua
prima
lacrima
volò
di
là
dei
confini
celesti
e
finì
proprio
con

cadere
nelle
fredde
bianchezze
del
nord,
dove
un
dio
misericordioso
impietosito
da
quel

pianto
prese
quella
goccia
di
lacrima
e
la
versò
con
amore
sulla
neve
e
di
lì
a
poco
ne
spuntò

un
fiore
dal
candido
e
delicato
colore,
che
ancora
oggi
gli
uomini
a
ricordo
inconsapevole
di

quel
dolore
chiamano
“bucaneve”.



“
dunque
saresti
tu
quel
dio
che
con
l’inganno
ha
preso
mia
madre,
facendole
poi
partorire

quattro
creature,
quelle
stesse
ragazze
che
vedi
ora
torcersi
dal
dolore
per
causa
tua”,
riprese

Crono
aggiungendo,
“cosa
se
ne
fa
l’Olimpo
sempiterno
di
altre
creature
uscite
dalla
voglia
di

un
dio
straniero
”
“Tu
osasti
profanare
il
sacro
tempio
di
mia
madre
fecondandolo
col
tuo


seme
e
ora
guarda
le
creature
partorite
da
quell’incesto.”
“osservarle
ora
deboli
e
vinte,

striscianti
ai
miei
piedi,
neanche
la
pietà
del
padre
sempiterno
e
di
tutti
gli
dei
le
potrà

salvare.”
“Da
lui
difatti
ho
avuto
la
potestà
di
decidere
sulla
loro
sorte”.

A
quel
punto
Odino
vedendo
avvicinarsi
la
sua
fine,
si
ricordò
di
essere
una
ancora
una

divinità
e
così
rispose
alle
accuse
di
Crono.

“se
è
vero
ciò
che
dici
allora
tuo
padre
è
anche
il
mio,
perché
anch’io
al
pari
tuo,
sono
un
dio”.

Quale
padre
può
essere
così
severo
e
senza
cuore
da
desiderare
la
morte
delle
sue
creature,

ancora
più
se
si
eriga
a
divinità
suprema
e
come
tale
senza
difetti?
Non
è
una
lacuna
dunque
la

mancanza
d’amore?
Se
dio
è
amore,
allora
costui
non
è
padre
e
se
non
è
genitore,
e
non
ha

alcun
diritto
su
queste
creature.

A
queste
parole
Crono
non
sapendo
trovare
risposta
sentiva
solo
la
sua
rabbia
salire

nell’impotenza
di
non
potere
reagire.
Persino
chi
si
ergeva
a
padre
non
ebbe
di
che
ribattere,

ma
era
il
capo
supremo
di
tutte
le
divinità
e
doveva
dunque
dimostrare
la
sua
superiorità.

Così
pensa
e
pensa
non
si
raggiungeva
a
nessuna
conclusione
proprio
a
causa
del
tempo,
già

perché
in
tutta
questa
confusione
nessuno
si
era
data
pena
di
avvisare
Crono
quale
era
il
suo

compito
e
cioè
quello
di
comandare
il
tempo.


A
ricordarglielo
ci
pensò
Odino
e
questo
fu
per
Crono
un
ulteriore
smacco,
allorché
in
preda

all’ira
più
funesta
il
traghettatore
del
tempo
proferì
questa
predizione:‐“
Che
non
si
dica
mai

che
io
Crono
il
dio
del
tempo
non
abbia
avuto
pietà.
In
nome
del
padre
sempiterno
che
mi

diede
potere
di
comandare
il
tempo
e
per
l’amore
che
mi
legò
e
mi
lega
tuttora
a
Gea
madre
di

tutto
e
mia
genitrice,
io
comando
che
le
quattro
figlie
nate
dall’obbrobrio
e
dalla
lussuria
e
ora

in
mio
potere
e
segregate
ai
quattro
angoli
dell’inferno,
possano
per
un
arco
di
un
periodo
che

io
stabilirò
avere
dimora
sulla
terra
e
che
ognuna
porti
con
se
per
quel
periodo
di
tempo

disgrazie
e
lutti
cosicché
gli
uomini
le
abbiano
a
maledirle
per
tutta
l’eternità.

La
prima
sarà
Gumeide,
lei
porterà
il
gelo
e
la
neve,
il
vento
tiranno
delle
terre
di
suo
padre,
la

desolazione
del
“Niflheim”,
il
giorno
sarà
breve
e
la
luce
del
sole
raramente
farà
capolino
dalle

montagne
sempiterne
sepolte
dalla
neve,
il
silenzio
sarà
la
voce
del
vento,
la
natura
morirà
la

prima
volta
e
l’uomo
dovrà
cercare
riparo
ed
errante
e
maledicente
non
avrà
pace.
Gumeide

sarà
chiamata
dalle
generazioni
a
venire
“inverno”,
avrà
il
colore
bianco
della
sua
carnagione

e
il
carattere
tetro
della
profondità
dei
suoi
occhi,
gli
umani
piangeranno
i
loro
morti
e
freddo

e
fame,
malattie
e
vento,
pioggia
e
grandine
saranno
per
loro
ospiti
ostili.
La
seconda
sarà

Antea,
per
mio
volere
con
lei
in
gelo
diminuirà
la
sua
morsa,
ma
le
piogge
continueranno
a

flagellare
la
terra,
il
giorno
ruberà
un
po’
di
luce
alle
tenebre,
e
la
natura
dopo
di
tanto

dormire
comincerà
a
ridestarsi,
la
brina
diventerà
rugiada,
la
neve
si
scioglierà
e
ingrosserà
i
i

quieti
fiumi
che
per
tutto
l’inverno
hanno
riposato,
quindi
uscendo
dai
loro
argini

provocheranno
danni
a
ciò
che
l’uomo
ha
faticosamente
costruito,
le
fiere
usciranno
affamate

dai
loro
giacigli
invernali,
cercando
nei
villaggio
degli
umani
ciò
di
cui
nutrirsi.
La
bionda

Alcinea
porterà
con
sé
l’arsura
di
un
sole
tiranno
e
il
calore
soffocante
del
giorno
che
al
fine
ha

vinto
sulla
notte,
trascinerà
con
sé
l’afa
e
susciterà
dai
calmi
stagni
orde
d’insetti
nauseabondi

che
entreranno
nelle
case
degli
umani,
divorandone
il
sangue,
seminerà
carestia
nei
solchi

delle
terre
incolte,
ma
colorerà
la
natura
di
vividi
colori,
spargerà
nei
cieli
dolci
profumi,
note

soavi
del
canto
di
uccelli
che
volteggiano,
intrecciando
danze
d’amore,
ma
non
si
confonda
con

il
tripudio
e
non
si
esalti
la
gioia,
presto
la
rossa
Morgana,
strapperà
le
vesti
agli
alberi,

colorerà
di
scuro
le
volte
celesti,
strapperà
le
stelle
e
danzerà
nella
notte
che
lentamente

riprenderà
possesso
del
creato,
cospargerà
le
nubi
di
pioggia,
e
agiterà
il
maestrale
che

soffiando
sui
mari
le
bianche
spume
ricorderanno
all’uomo
di
che
è
ancora
soggetto,

praticherà
strane
magie
e
richiamerà
i
morti
nei
giorni
più
freddi,
e
ancora
farà
si
che
il

tormento
ricominci
ancora
e
poi
ancora
per
tutta
l’eternità.

Furono
queste
le
condizioni
dettate
dal
dio
Crono
perché
rilasciasse
libere
le
quattro
sorelle

figlie
di
Gea
e
Odino,
e
non
ultimo
ordinò
proprio
alla
divinità
foresta
di
abbandonare
per

sempre
il
luogo
che
vide
lui
e
la
madre
terra
commettere
peccato.

L’amore
degli
dei
si
sa
è
grande,
Odino
ubbidì
e
anche
se
a
malincuore
abbandonò
quel
luogo

per
sempre,
trasferendosi
nel
suo
regno
il
gelido
“Niflheim”,
da
quel
giorno
le
gerarchie
delle

varie
divinità
furono
stabilite
ognuna
nei
suoi
domini,
e
ancora
oggi
a
ricordo
di
quel
misfatto

le
quattro
sorelle
si
alternano
sulla
faccia
della
terra
per
volere
di
un
dio
geloso,
inverno,

primavera,
estate,
autunno,
danzano
ancora
e
ognuna
porta
con
sé
sia
il
buono
che
il
grammo,

in
quell’alternarsi
di
stagioni
che
segnano
la
vita
dell’uomo
e
che
hanno
segnato
per
un
lungo

periodo
anche
quella
degli
dei.


L’invidia
degli
dei.


Era
una
calda
mattina
d’estate,
il
sole
spendeva
alto
nel
cielo
e
l’afa
cominciava
a
farsi
sentire,

era
quell’ora
in
cui
la
canicola
(complice)
faceva
avvicinare
sia
gli
umani
che
gli
dei
all’unico

corso
d’acqua,
che
sorgendo
dalle
profondità
dell’Ade
dopo
un
tortuoso
passaggio
usciva

quindi

allo
scoperto
nel
mondo
degli
uomini,
unendoli
così
agli
stessi
dei.
Il
Lete
dunque,
il

fiume
dell’oblio,
dove
si
narra
il
mito
di
Er
disceso
nell'oltretomba
per
conoscere
i
misteri

della
reincarnazione
delle
anime.
Costui
era
un
soldato
morto
in
battaglia
e
resuscitato
grazie

proprio
a
quell’acqua
per
descrivere
agli
uomini
l'Aldilà.
Orbene,
l’acqua
del
fiume
nella
sua

folle
corsa
vero
il
mare,
forma
in
un
certo
punto
come
un
falso
pendio,
una
pozza,
dove
gli

uomini
la
usano
per
abbeverarsi
e
gli
dei
superbi
per
potersi
specchiare.
Diana
soleva
sostare

sulle
rive
di
quello
specchio
d’acqua,
la
vergine
dopo
le
sue
estenuanti
battute
di
caccia
era

solita
bagnarsi
e
rinfrescarsi
in
quelle
dolci
e
fresche
acque,
attenuando
così
la
calura.
Certo

che
vedere
un
simile
spettacolo
per
gli
umani
(ma
non
so
se
dire
se
fortunati
o
sfortunati
e
il

perché
lo
saprete
presto
se
seguirete
a
leggere
),
che
avevano
la
dabbenaggine
di
sostare
a

curiosare,
non
era
cosa
da
tutti
i
giorni,
ammirare
le
bellezze
discinte
di
una
dea.
Sulle
prime

la
divinità
pareva
perfino
provarne
piacere,
suscitare
così
tanta
ammirazione
e
desiderio
in

quella
schiera
di
mortali
ansimanti,
era
come
un
gioco,
sia
da
una
parte
che
dall’altra.
Ogni

gesto
della
dea
sembrava
calcolato,
ogni
sua
movenza
comunque
sublime,
anche
gli
respiri

che
impunemente
sfuggivano
dalle
sue
labbra
avevano
un
qualche
cosa
di
magico
e
divino.
Il

gioco
poteva
continuare
per
ore
sotto
la
calura
estiva,
tanto
che
gli
umani
non
sembravano

neanche
accorgersene
tanto
erano
presi
dall’oblio
di
quella
visione
e
poi
come
spesso
succede,

il
gesto
sconsiderato
di
uno
scellerato
metteva
fine
ai
giochi
con
la
più
crudele
delle
sue

conclusioni.
Vie
era
sempre
un
tale,
che
non
accontentandosi
della
sola
visione
tentava
un

approccio
più
diretto
ormai
in
preda
alla
passione
più
sfrenata,
ed
era
proprio

quell’avvicinarsi
troppo
che
mandava
la
divinità
su
tutte
le
furie,
che
così
sentendosi
troppo

presa
ai
desideri
umani,
fulminava
tutto
d’intorno
e
coloro
che
erano
oggetto
della
sua
furia

non
avevano
scampo,
rimanevano
sul
posto
come
erba
seccata,
così
tanto
vicino
all’acqua
da

poterla
toccare,
ma
troppo
distante
per
poterla
bere,
il
loro
supplizio
era
la
sete
eterna,
il

desiderio
che
non
si
può
appagare,
qualcosa
che
brucia
più
del
fuoco,
la
passione
amorosa
che

rende
così
simili
gli
dei
ai
semplici
umani.



Ma
quel
giorno
non
era
una
un
uomo
a
sostare
sulle
rive
del
fiume,
anzi
un
profumo
di
dolci

fiori
aleggiava
nell’aria
già
arsa
dalla
canicola
estiva.
Antimea
poteva
sembrare
una
ragazza

tra
le
tante,
una
che
passavano
vicino
al
fiume
ogni
giorno,
sicuramente
era
la
più
sfacciata,

perché
pur
sapendo
che
in
quelle
acque
la
dea
Diana
amava
sostare
e
non
resistendo
ad
una

così
forte
calura,
si
era
avvicinata
proprio
a
quella
pozza,
così
ingenuamente
e
maliziosamente

come
solo
una
giovane
donna
sa
fare.
Si
era
disfatta
dei
suoi
vestiti
leggeri
e
si
era
immersa

dolcemente
in
quelle
acque
fresche
ad
invitanti;
che
piacevole
sollievo
il
sentirsi
accarezzare
il

corpo
in
un
massaggio
lieve,
che
gradevole
sensazione
ascoltare
il
mormorio
delle
bollicine

che
saltavano
fuori
dall’acqua
e
lo
sciacquio
che
provocavano
i
suoi
esili
movimenti,
che

amabile
abbraccio
tenero
e
dolce,
che
ebbrezza
sentire
leggiadri
i
lunghi
capelli
corvini

volteggiare
attorno
a
lei,
come
leggiadre
libellule.
Perché
tutto
questo
doveva
essere
goduto
di

una
persona
sola,
anche
se
dea?
Pensò
Antimea
e
poi
aggiunse;
Diana
non
si
seccherà
più
di

tanto
se
anche
io
mi
rinfresco
un
poco,
sono
sicura
che
capirà
e
che
alla
fine
prevarranno
i

buoni
sentimenti,
a
che
scopo
essere
un
dio
se
non
puoi
fare
del
bene?
Mentre
pensava
a
tutto

ciò
la
giovane
donna
si
era
già
immersa
in
quelle
acque
invitanti,
tanto
da
non
accorgersi
che

si
era
un
po’
troppo
avvicinata
alla
dea
quando
l’adolescente
creatura
involontariamente

s’immerse
con
un
tuffo
schizzando
di
spruzzi
d’acqua
la
divinità.


“Piccola
creatura
impudente
!”
esplose
di
botto
la
dea,
poi
aggiunse;
“come
ti
permetti
?
non

sai
cosa
stai
rischiando
con
quel
tuo
modo
tanto
sfacciato,
se
solo
volessi
ti
potrei
trasformare

in
un
pesce…”,
ma
la
dea
non
ha
il
tempo
di
finire
la
frase,
che
la
giovane
Antimea
riemersa

dalle
acque
appare
alla
divinità
in
tutta
la
sua
sfolgorante
bellezza,
nuda
e
bagnata
con
il
sole

che
filtra
a
mala
pena
tra
gli
alti
cannicci
e
disegna
sul
giovane
corpo
della
ragazza
arabeschi

luminosi,
la
sua
pelle
bianca
come
il
latte,
abbaglia
di
esuberante
bellezza
e
i
suoi
capelli
neri

come
il
carbone,
s’incendiavano
di
luce
purpurea
al
riverbero
del
sole,
mentre
grondanti

d’acqua
le
incorniciano
il
volto,
io
stesso
la
potevo
scambiare
per
una
dea
tanto
era
bella,
io

tale
e
quale
a
un
novello
Paride
avrei
commesso
la
stessa
blasfemia.


C’è
un
momento
in
qui
il
divino
e
il
terreno
si
mescolano,
per
l’assurdo
gioco
del
fato,
ed
è
che

in
quell’attimo
che
vidi
riflessa
nell’acqua
un’immagine
più
bella
del
divino,
solo
per
un

attimo,
ed
è
proprio
in
quell’istante
in
cui
Eris
(la
discordia),
getta
con
tutta
la

rabbia
il
suo

seme.
Contemplavo
dunque
in
sacro
silenzio
quelle
due
maestose
bellezze
che
parevano

fronteggiarsi,
l’una
di
fronte
all’altra
stavano
nude
e
statuarie
e
solo
i
loro
respiri
avevano

l’ardire
di
rompere
il
silenzio.
Nessuna
delle
due
pareva
prendere
l’iniziativa
mentre
anche
il

tempo
rendendosi
conto
della
grandezza
del
momento
si
era
rispettosamente
fermato.

Voi

semplici
mortali
non
potete
avere
la
cognizione
di
cosa
significhi
fermare
il
tempo,

specialmente
qui
nel
vostro
amato
mondo.

Rare
volte
è
concesso
questo
miracolo
e
quella
era

una
delle
poche.
L’aria
si
raggela
e
d’incanto
tutto
si
ferma;
gli
uccelli
che
fluttuano
nel
cielo,

gli
insetti
che
stanno
per
posarsi
sui
petali
dei
fiori,
le
gocce
d’acqua
che
invece
di
cadere
a

terra
si
fermano
nel
mezzo,
in
uno
spazio
che
non
è
più
di
nessuno.
Attorno
il
gelo,
ma
così

diverso
da
quello
che
porta
con
se
Skadi,
quando
ammanta
di
bianco
colore
le
vette
dei
monti,

e
quando
il
vento
gelido
del
nord
arriva
suonando
il
suo
lungo
corno
ricurvo.
Quello
era
un

gelo
divino,
un
freddo
intenso
che
ferma,
anche
lo
scorrere
del
tempo.
Solamente
due
creature

parevano
non
accorgersi
di
tutto
ciò
che
accadeva
attorno,
due
sguardi
uno
in
quello
dell’altra,

come
se
volessero
indagare
nell’io
più
profondo,
come
se
desiderassero
rapire
i
desideri
più

reconditi,
due
luci
lampi
divini
e
mentre
succedeva
questo,
i
loro
respiri
si
facevano
mano
a

mano
più
profondi
stravolgendo
quel
confine
labile
che
c’è
tra
il
respirare
e
l’ansimare
o

gemere
agli
gli
orecchi
dei
più
smaliziati.
Nel
mentre
si
consumava
quest’amplesso
divino

fatto
di
luce
e
suoni,
ecco
che
una
ninfa
che
era
solita
giacere
in
quelle
acque
seminascosta
la

cui
bellezza
non
era
apprezzata
né
dagli
dei
né
dai
mortali,
ebbe
un
cattivo
pensiero,
un’idea

di
vendetta
verso
tutto
il
creato
e
che
così
volle
attuarla.


Prima
di
ciò
è
giusto
che
vi
parli
di
questo
piccolo
essere
non
proprio
amato
dagli
abitanti
dei

due
mondi.



La
leggenda
di
Fthonos.
(Invidia)


Ftnosia
non
era
bella
come
le
ninfe
dei
laghi,
non
era
piacevole
come
le
naiadi
dei
fiumi
i
cui

canti
soavi
facevano
innamorare
gli
uomini
che
avevano
la
sventura
di
avvicinarsi
a
loro,
anzi

la
sua
voce
era
sgraziata
e
profonda
a
volte
così
bassa
che
lo
stesso
Pan
ne
aveva
timore.

Ftnosia
non
aveva
i
capelli
lisci
come
le
altre
amadriadi
né
la
pelle
bianca
e
levigata
profumata

di
primavera
e
a
questa
sventurata
fanciulla
il
destino
e
gli
dei
le
avevano
anche
riservato
una

diversa
sorte.
Molto
tempo
prima,
quando
ancora
gli
animali
parlavano
agli
uomini;
gli
umani

e
gli
dei
andavano
d’accordo
vi
era
tra
loro
complicità
tale,
tanto
che
la
cosa
non
piacque
a

Lucifero,
il
quale
si
infastidì
così
tanto
di
vedere
tanta
armonia
nel
mondo
che
volle
andare
dal

Padre
di
tutte
le
cose
per
lamentarsi.
“Padre”
esordì
il
demone,
poi
aggiunse:‐”
Con
tutto
il

rispetto,
credo
vi
sia
un
motivo
se
esiste
la
terra
di
mezzo,
ma
sembra
che
tutti
giù
se
ne
siano

scordati…”,
dopo
una
pausa
egli
riprese
:‐“
Il
mondo
è
stato
creato
poiché
gli
uomini

scontassero
le
loro
condanne,
Tu
stesso
d’altronde
lo
hai
stabilito…io
invece
vedo
che
v’è
pace

e
regna
equilibrio
in
quel
mondo
in
cui
tutto
dovrebbe
essere
messo
in
discussione
a
causa

loro,
dov’è
dunque
la
punizione
se
v’è
solo
assoluzione?
Come
si
può
espiare
una
colpa
se
non

v’è
condanna?”.


Allora
il
Padre
supremo
disse
al
demone
impertinente:‐“
cosa
proporresti
tu?”.
“lascia
Mio

Signore,
che
io
getti
un
piccolo
seme,
una
goccia
nel
mare
per
fare
si
che
gli
uomini
si

ricordino
che
sono
uomini
e
gli
dei
che
sono
dei”.
Il
silenzio
dell’eterno
Padre
suonò
alle

orecchie
di
Lucifero
come
un
assenso
ed
egli
sparì
tra
le
nubi
cariche
di
pioggia
e
d’ora
in

avanti
l’acqua
delle
nuvole
non
avrebbe
più
avuto
lo
stesso
sapore.
Eterea
era
una
ninfa,
che

vagava
nell’aria
era
poco
più
che
una
bambina
quando
Lucifero
la
prese
e
quando
il
frutto
del

loro
amplesso
nacque,
Eterea
sparì
così
come
era
venuta.
Ftnosia
crebbe
senza
madre
né

padre
e
per
questa
vergogna
si
nascose
agli
occhi
degli
altri.
Schiva,
non
bella
né
intelligente,

anzi
piccola
e
sgraziata,
sembrava
fare
di
tutto
per
rendersi
ancora
più
antipatica,
se
le
sue

compagne
cantavano
i
loro
dolci
versi,
lei
con
la
sua
voce
stridula
e
penetrante
rompeva
tutti

gli
incanti
per
non
parlare
del
suo
fisico
minuto
e
così
sgraziato
e
brutto,
con
quei
suoi
capelli

crespi
che
usava
più
come
reti
da
pesca
che
come
vessilli
d’amore.
In
breve
tempo
questa

naiade
si
era
conquistata
una
pessima
fama
e
lei
non
faceva
proprio
nulla
per
migliorarla,
anzi

il
culmine
arrivò
quando
proprio
in
quella
pozza
d’acqua
dove
la
dea
Diana
e
la
mortale

Antimea
stavano
per
consumare
un
amplesso
divino.
Ftnosia
colma
d’invidia
(un
sentimento

fino
allora
mai
provato
né
dagli
umani,
né
dagli
dei,
né
tanto
meno
dalle
ninfe),
s’impadronì

del
suo
essere
gracile
e
rosa
dalla
gelosia
la
giovane
naiade
si
struggeva
dal
livore,
già
il
suo

corpo
stava
cambiando,
la
sua
pelle
bruna
si
stava
coprendo
di
squame,
le
sue
labbra
per
le

troppe
maldicenze
si
stavano
mutando
in
un
becco
ricurvo,
i
seni
penduli
sembravano
due

inutili
orpelli
e
le
sue
gracili
gambe
si
stavano
trasformando
in
zampe
orrende,
mentre
la
sua

voce
acuta
si
alterava
in
un
gracchiare
stridulo
e
nonostante
tutto
dal
suo
rostro
contorto

continuava
a
proferire
blasfemie
e
maledizioni.
Tra
queste
una
si
impressionò
nell’aria
prima

che
le
sue
ultime
parole
mutassero
in
bieco
stridere…”sia
l’invidia
pascersi
della
vostra

lascivia”.
L’anatema
non
cadde
invano
anzi,
ebbe
subito
effetto,
di
colpo
la
dea
Diana
quasi

rendendosi
conto
di
ciò
che
stava
per
compiere
fece
un
passo
indietro
e
Antimea
per
timore
si

nascose
dietro
gli
alti
cannicci.
Per
la
vergogna
la
giovane
divinità
corse
a
coprirsi
perché

nessun
umano
prima
di
allora
l’aveva
vista
nuda
così
da
vicino.
Poi
tornando
in
se
e
rivestitasi

in
tutta
fretta,
sparì
nella
foresta
per
sempre,
mentre
la
povera
Antimea
che
non
si
era
ancora

resa
conto
di
quello
che
era
appena
accaduto,
venne
avvicinata
dalla
trasformata
Fthonos,
che

anche
il
nome
aveva
mutato,
ora
era
invidia
dalle
nere
ali
che
sbattendo
provocano
il
gelo
nei

cuori,
invidia
dal
gracchiare
acido
che
causa
astio
nei
sentimenti,
dallo
sguardo
che
provoca

livore
nei
cuori.
Maledisse
gli
umani
così
come
maledisse
gli
dei,
troppo
deboli
per
potersi

opporre.
Sempre
vi
saranno
astio
e
invidia
tra
dei
e
umani
a
causa
tua
Antimea,
la
tua
bellezza

sfidò
quella
degli
dei,
tu
che
facesti
innamorare
Diana.
Il
tuo
amore
sarà
la
tua
condanna
e
sia

dannata
tutta
la
tua
progenie,
che
la
bellezza
appassisca
come
un
fiore
nel
deserto,
che
lo

splendore
si
affievolisca
con
gli
anni,
che
la
grazia
si
muti
in
goffaggine
col
tempo,
che
tutto

non
rimanga
che
un
ricordo
e
che
questo
svanisca
presto.
Anche
se
oramai
non
poteva
più

esprimere
una
parola
ma
solo
gracchi
sgradevoli,
Fthonos
aveva
pronunciato
la
sua
ultima

sentenza,
d’ora
in
avanti
non
più
con
la
parola
ma
solo
con
lo
sguardo
avrebbe
offeso.

Così
fu.
Da
quel
giorno
iniziò
l’invidia
a
rodere
gli
animi
dei
mortali
e
i
sonni
degli
dei,
tanto

che
un
demone
ebbe
a
dire
che
le
figlie
degli
uomini
sono
più
sensuali
delle
creature
degli
dei

perché
racchiudono
in
loro
il
meglio
e
il
peggio,
il
bene
e
il
male,
la
luce
e
il
buio.
Ma
il
Padre

eterno
colui
che
vede
e
sa
tutto,
volle
mettere
ordine
ancora
una
volta
in
queste
cose,
così
creò

un
amore
così
puro,
così
forte,
così
perfetto,
da
non
poter
essere
prevaricato
neanche

dall’invidia,
un
amore
che
ancora
adesso
l’invidia
si
rode
nelle
profondità
degli
inferi.

L’amore
che
Dio
padre
ha
creato,
quello
che
non
conosce
astio,
è
quello
che
serba
per
noi
e

che
noi
il
più
delle
volte
non
sappiamo
o
non
vogliamo
ricambiare.




La
colpa
della
bellezza.



Preambolo.

L’estate
timida
aveva
da
poco
fatto
capolino
lasciando
dietro
di
se
una
primavera
tarda
ad

arrivare,
già
le
cicale
avevano
preso
d’assalto
i
campi
incolti
portando
con
se
una
cappa
d’afa

pesante.
Il
cielo
terso
faceva
da
sfondo
ad
un
sole
orgoglioso
e
maestoso
capace
di
fermare
il

tempo
cosicché
tutto
diventasse
lento
e
grève.
Non
ancora
arsa
era
la
terra
né
secche
le
pozze,

ma
già
una
brezza
calda
leggere
vagava
senza
meta
oziando
the
i
rami
degli
alberi
in
fiore.

Leggeri
i
miei
passi
per
non
disturbare
quella
quiete
campestre,
profondo
il
respiro
per

godere
appieno
di
quell’aria
oziosa,
vagava
l’occhio
cercando
un
posto
dove
posarsi,
tanto
era

bello
lo
spettacolo
tutto
d’intorno
che
come
un
bimbo
curioso
l’occhio
inseguiva
il
miraggio

della
perfezione.
Così
a
parer
mio
doveva
essere
il
mondo,
calmo
come
il
respiro
d’un
neonato,

bello
come
lo
sguardo
di
una
fanciulla
e
caldo
come
l’abbraccio
di
un’amante.
Vagando
per
i

poderi
scorgo
una
cascina
semi
abbandonata,
l’uscio
è
aperto
e
pare
invitarmi
ad
entrare,
io

indiscreto
come
un
gatto,
m’intrufolo
nella
magione
ed
ecco
che
un
soave
odore
di
mosto
mi

indica
il
cammino,
anche
se
dentro
la
luce
del
sole
v’entra
a
fatica,
senza
sforzo
alcuno,
mi

dirigo
verso
il
luogo
di
quell’inaspettata
fragranza.
Ed
ecco
in
tutta
la
sua
maestosità
il
mostro

che
superbo
già
m’inebria
della
sua
dolce
fragranza,
sarebbe
come
mentire
a
me
stesso
se

negassi
di
sentire
arsa
la
gola,
così
senza
pensarci
su
due
volte,
arraffo
la
prima
cosa
che

somiglia
ad
un
boccale
e
lo
immergo
più
volte
nel
nettare
divino,
meravigliandomi
che
la
sete

invece
di
calare
aumenta
con
l’aumentare
delle
bevute.
Forse
che
i
baci
di
mille
amanti

possano
essere
più
soavi
o
che
mille
carezze
lascive
possano
apparire
più
seducenti?
Fatto
sta’

che
la
sete
è
pacata
ma
ora
un
leggero
torpore
mi
appesantisce
gli
occhi,
esco
fuori

barcollando
come
un
ubriaco
e
cerco
un
posto
dove
potermi
riposare.
Così
sotto
qui
filari

d’uva
oramai
spogli
mi
accingo
a
coricarmi,
ma
neanche
ho
il
tempo
di
chiudere
gli
occhi
che

ecco
sento
un
gran
baccano,
tuoni
dal
cielo
e
crepitii
dalla
terra,
un
tumulto
come
se
fosse

scoppiata
la
rivoluzione,
così
anche
io
mi
decido
a
lasciare
il
provvisorio
giaciglio
a
seguire
la

provenienza
di
quei
rumori.
Più
mi
avvicinavo
più
quei
fragori
si
facevano
forti
e
chiari,

potevo
udire
chiaramente
una
voce
greve
come
rombo
di
tuono
e
tutt’attorno
un
vociare

furioso
come
la
pioggia
che
cade
pesante
sul
selciato.
Avevo
ancora
gli
occhi
come
impastati

dal
sonno
ma
potevo
vedere
ormai
non
troppo
distante
da
me
un
assembramento
di
molta

gente
che
strepitava,
che
spingeva,
urlava,
biascicava
improperi
indecenti
ma
all’indirizzo
di

chi?
Da
quella
distanza
non
potevo
veder
chi
era
bersaglio
di
tali
offese,
così
decisi
nonostante

la
mia
minuta
figura
di
farmi
spazio
per
conquistare
almeno
un
posto
decente
da
cui
potessi

rendermi
conto
di
che
si
trattava.
L’impresa
non
fu
delle
più
semplici,
dovetti
anche
io

ricorrere
a
mezzi
poco
ortodossi
per
potermi
fare
largo
in
mezzo
a
quella
marea
umana

vociante.
Tra
calci,
spinte
e
scossoni
alla
fine
anche
se
malconcio
conquisto
il
mio
sospirato

posto
tra
le
prime
fila.
Un
uomo
grande
e
possente
stava
ritto
in
piedi,
la
sua
voce
profonda

come
il
tuono
pareva
scuotere
la
terra
tutt’intorno,
costui
dalla
folta
criniera
a
dalla
spessa

barba
bianca
teneva
per
mano
un
essere
bellissimo,
una
ragazza
di
tale
splendore
che
mai
i

miei
occhi
avevano
veduto.
Scosso
dal
suo
fascino
ed
incapace
di
fare
benché
qualsiasi

movimento,
rimasi
come
incantato
da
tale
avvenenza
che
solo
la
potenza
della
voce

dell’omone
con
la
candida
barba
mi
fece
ripiombare
nella
triste
realtà.
Un
attimo
solo
di

stropicciarmi
gli
occhi,
dal
ripulirmi
le
vesti,
che
non
feci
fatica
a
riconoscere
che
vi
avevo

davanti.
Colui
che
s’erigeva
in
tutta
la
sua
possanza
era
il
padre
di
tutti
gli
dei,
Zeus
in
persona

stava
dinnanzi
a
me,
cercando
di
ammansire
una
folla
esagitata,
che
forse
proprio
per
rispetto

alla
divinità
non
avanzava
di
un
passo,
ma
chi
era
dunque
quell’essere
oggetto
pare
di
tanto

odio?
A
soddisfare
la
mia
curiosità
una
figura,
un
essere,
una
femmina
dai
capelli
che

parevano
aspidi
pronti
a
mordere,
dagli
occhi
iniettati
di
sangue,
pronti
a
schizzare,
dalle
dita

ossute
e
dalle
unghie
spuntate
pronte
per
graffiare,
dalle
labbra
secche
e
dalla
voce
acuta
e

stridula,
dalle
vesti
lacere
e
dalla
pelle
arida
come
le
pozze
del
deserto.
Costei
nell’impeto

della
sua
enfasi,
eruttava
dalla
sua
infernale
bocce
epiteti
che
a
malapena
si
potevano
capire,

quella
è
l’invidia
mi
sussurrò
quasi
con
timore
all’orecchio
una
piccola
donna
vicino
a
me,

allora
senza
perdere
tempo
le
chiesi
anche
chi
fossa
quell’essere
bersaglio
di
tanti
insulti,
è
la

bellezza
m’informò
la
mia
gentile
interlocutrice,
e
di
cosa
la
si
accusa
le
chiesi
prontamente,
la

risposta
la
diede
proprio
l’invidia
allorquando
le
sue
parole
si
fecero
più
chiare.


L’accusa.

(l’invidia).

Minuta
e
gracile,
livida
e
maldestra
tanto
piccola
da
sparire
al
primo
soffio
di
vento,
ma
così

potente
da
lacerare
un’esistenza,
l’invidia
tentò
di
prendere
la
parola,
ma
la
bellezza

dell’accusata
era
tale
che
il
solo
suo
splendore
aveva
il
potere
di
offuscare
anche
le
parole
che

l’invidia
vomitava
con
furore,
nessuno
l’ascoltava
e
questo
la
faceva
andare
ulteriormente
in

bestia,
vedevo
la
sua
rabbia
salire
cambiarle
fisonomia,
renderla
se
qualora
fosse
stato

possibile
ancor
più
brutta
e
odiosa,
ma
anche
ciò
non
destava
effetto
alcuno.
Allorché
presa
da

una
vampata

di
eccesso
d’ira,
si
rivolge
al
grande
Giove
pregandolo
di
offuscare
la
sua

bellezza
almeno
per
un
momento.
Il
dio
essendo
sopra
le
parti
anche
se
malvolentieri

acconsentì
alla
richiesta
finalmente
l’invidia
prese
la
parola:

“nel
tuo
nome”
indicando
con
le
sue
dita
ricurve
la
giovane
donna
mira
di
tanto
furore,
“ne
tuo

nome,
dicevo
quali
orrendi
peccati
l’uomo
commette,
quali
miseri
misfatti
si
compiono
nel
tuo

nome,
per
te
l’uomo
diventa
nulla,
abbietto,
misero,
per
te
si
annulla,
tutto
per
uno
sguardo,

un
sorriso
indecente,
ecco
cosa
è
la
bellezza
è
indecenza”.
Mentre
l’invidia
procedeva

questo

sproloquio,
potevo
vedere
il
suo
misero
essere
girare
attorno
alla
povera
vittima
come
un

avvoltoio
volteggia
sopra
la
carcassa
moribonda
della
sua
offerta.
La
sua
voce
diventava
simile

al
gracidio
stridulo
di
una
gracula,
chiunque
poteva
udirla
anche
a
chilometri
di
distanza,
poi

come
in
una
macabra
danza,
si
avvicinava
quasi
con
timore
alla
bellezza
tentando
come
fa
un

corvo
affamati
do
beccare
un
seme
lasciato
cadere
nel
terreno
incolto.
Avanti
e
indietro
come

fanno
in
battaglia
i
soldati,
un
affondo
e
una
ritirata
ma
la
vittima
è
aimè
disarmata
e
la

vittoria
sembrerebbe
troppo
facile
se
non
fosse
l’invidia
a
condurre
il
gioco.
Più
volte
si

avvicina,
più
volte
la
schernisce,
ma
i
suoi
argomenti
sono
troppo
vaghi,
e
non
c’è
confronto

tra
le
due
contendenti.
L’invidia
sembra
rendersene
conto
e
dopo
un
breve
momento
di

riflessione
torna
all’attacco:”
Avanti
donne”
questa
volta
sembra
più
decisa
che
mai,
e
chiede

l’aiuto
di
quelle
donne
che
per
scherzo
del
fato
o
chissà
per
quale
altre
ragioni
ora
si
vedono

assimilate
all’invidia
in
un
oscuro
destino.
L’invidia
sa
sicuramente
il
fatto
suo
e
in
questo
caso

apostrofando
una
moltitudine
di
vecchie
megere,
le
incita
con
l’arma
a
lei
più
cara
l’ira.

“orbene,
cosa
passa
tra
voi
e
lei,
tra
voi
defraudate
del
bene
più
caro
che
è
la
gioventù,

violentante
nell’intimo
più
profondo
del
vostro
essere,
femmine
secche,
donne
senza
più

voglie.
Il
vostro
male
è
qui
davanti
a
voi,
lo
scempio
delle
vostre
notti
è
dinanzi
ai
vostri
occhi,

in
attesa
della
condanna.
E’
lei
con
le
sue
subdole
armi,
che
vi
ha
asciugato
l’amore
dei
vostri

uomini,
ridtti
ora
a
meri
maschi
imploranti.
Lei
vi
ha
reso
impotenti,
così
come
ha
reso
inetti
i

vostri
uomini.
Guardatela!


In
quell’istante
un
raggio
di
sole
più
fulgido
degli
altri
illuminò
di
una
luce
irreale
la
“bellezza”

facendola
apparire
come
un
miraggio
divino,
difficile
da
descrivere
anche
per
il
più
grande
dei

poeti.
Il
suo
corpo
madido
di
sudore
scintillava
sotto
quel
raggio
malandrino
di
sole,
rendendo

ciechi
i
superbi
e
muti
i
lussuriosi.
E’
così
dunque
la
bellezza
in
tutto
il
suo
splendore,
un

raggio
di
luce
che
uccide
e
rigenera,
dunque
è
così
la
bellezza
nella
sua
nudità,
un
sogno
lungo

un
respiro.

L’invidia
ferita
se
fosse
ancora
possibile
nel
suo
orgoglio,
non
si
da
pace
e
continua
in
quello

che
sta’
diventando
un
turpiloquio.
La
rabbia
che
ha
in
corpo
invece
di
consumarla
la

ritempra,
come
se
nuova
linfa
venisse
pompata
da
oscure
forze
nelle
sue
secche
viscere,

dandole
così
forza
e
vigore.
“lei,
è
la
causa
dei
peccati
del
mondo,
per
lei
l’uomo
ha
tradito
il

suo
creatore,
per
l’effimero
desiderio
l’uomo
ha
precipitato
la
sua
progenie
nel
baratro”.

Orami
in
preda
agli
spasmi
l’invidia
non
proferisce
più,
urla,
inveisce,
sputa
verdastre
e
spesse

sentenze
che
bucano
il
terreno
corrodendolo
quando
cadono
al
suolo.
Non
cammina
più

striscia,
come
una
serpe,
i
suoi
capelli
stopposi
si
trasformano
vivi,
come
aspidi
affamate.

Medusa
ora
avrebbe
paura
di
lei
e
fuggirebbe
se
solo
non
le
avessero
mozzato
la
testa,

quell’essere
che
ora
si
agita
come
un
ossesso
non
sembra
avere
più
nulla
di
umano,
verde

dalla
rabbia
esplode
e
le
sue
viscere
corrosive
precipitano
sugli
occhi
di
quelle
megere
che

fino
a
poco
prima
inveivano
e
imprecavano
contro
una
vittima
predestinata,
ed
ora
ceche
e

mute
piangono
del
loro
triste
destino.


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