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ANALOG

Anno 1. n. 1. estate 1994


Direttore Responsabile: Daniele Brolli

INDICE

Il meteorologo di Lois McMaster Bujold


Il compagno di Poul Anderson
In punto di morte di Ben Bova & A.J. Austin
La gerocrazia dei numeri di John Brunner
Il salto di Stephen L. Burns
Le costanti universali di Charles Sheffield
Diritto d'asilo di James White

EDITORIALE

Per la pubblicazione che avete tra le mani non esiste alcun precedente.
Si tratta di un debutto in piena regola. Eppure la maggior parte dei nomi
che leggete (e di quelli che, se ci assistete, leggerete in futuro) sono tra i
più noti della fantascienza internazionale. La ragione è molto semplice:
Analog è l'incarnazione più recente di una rivista che al suo apparire nel
gennaio 1930 si chiamava Astounding. E se questo nome non vi dice nien-
te, sarà necessario rifarvi da capo la storia della fantascienza.
Astounding nacque quando l'editore di pulp magazine (le riviste di rac-
conti popolari su carta a basso prezzo che ebbero grande successo in A-
merica soprattutto negli anni Venti e Trenta) William Clayton chiese a uno
dei suoi responsabili di collana, Harry Bates, di inventargli una nuova ri-
vista per riempire uno spazio vuoto che aveva nel formato di stampa delle
copertine mensili dei suoi pulp. Bates propose un titolo: Astounding Sto-
ries of Super-Science. Erano gli anni del grande successo di Amazing Sto-
ries di Hugo Gernsback e di tante altre pubblicazioni simili che ponevano
l'accento sulla narrazione scientifica. Invece Astounding utilizzava il ri-
chiamo alla scienza solo per dare un contegno ad autentici melodrammoni
spaziali. Le copertine di Wesco mostravano regolarmente uomini e donne
minacciati da giganteschi insetti extraterrestri o indifferentemente da mo-
stri dello spazio profondo.
Nel 1933 la rivista seguì le sorti della casa editrice, che chiuse i batten-
ti. Malgrado la scarsa qualità del materiale ospitato, in quel breve perio-
do Astounding aveva già portato alla ribalta due grandi maestri dell'Età
dell'Oro della fantascienza: Murray Leinster e Jack Williamson. La Street
& Smith comperò la testata che riapparve, dopo solo sei mesi dalla chiu-
sura, nell'ottobre del 1933. A dirigerla c'era F. Orlin Tremaine che la por-
tò al successo. Oltre ai già citati Williamson e Leinster, pubblicarono sulle
sue pagine Catherine Moore, E.E. "Doc" Smith, John W. Campbell, H.P.
Lovecraft, Sprague De Camp, Eric Frank Russell... Nel 1937, quando
Tremaine diventò direttore editoriale della Street & Smith propose John
Campbell come suo successore. Con Campbell esordirono su Astounding;
Lester Del Rey, Ron Hubbard, ritornò Clifford D. Simak ma fu nel 1939
che si può dire che Campbell inaugurò l'Età dell'Oro della fantascienza
pubblicando Asimov, Heinlein, Sturgeon, Van Vogt...
Nel 1940 vi apparvero le storie dei robot di Asimov, i cicli più famosi di
Van Vogt e quello di Lensman di E.E. Smith, facendola divenire in breve la
rivista di punta della fantascienza. In due decenni esordirono sulle sue pa-
gine schiere di grandi scrittori: Poul Anderson, Robert Silverberg, Gordon
R. Dickson, James Blish... solo per citarne alcuni.
Nel 1960 Campbell annunciò il cambiamento di nome: Astounding di-
ventava Analog, facendo leva sull'analogia tra fantascienza e fatto scienti-
fico che costituiva il nucleo di partenza da cui si sviluppavano i racconti
presentati. Nel 1965 iniziò ad apparirvi la saga di Dune di Frank Herbert.
I nuovi scrittori del periodo furono Harry Harrison, Christopher Anvil e
Mack Reynolds. Nel luglio del 1971 morì John Campbell e a succedergli
fu Ben Bova. Di quanto successe durante la direzione di Bova trovate una
breve notizia nella nota che lo riguarda. Roger Zelazny, George R.R. Mar-
tin, Joe Haldeman furono le scoperte del periodo. Dopo le dimissioni di
Bova, sul finire del 1978, gli subentrò Stanley Schmidt, che è ancora al
suo posto.
Un elenco dei premi vinti come testata o dai testi ospitati da Ana-
log/Astounding sarebbe interminabile, visto che ogni anno se ne aggiunge
qualcuno, ma di sicuro, insieme alla Asimov, rimane l'unica rivista di fan-
tascienza americana che mantenga con continuità le premesse create dalla
sua storia gloriosa. I tempi sono cambiati, ma le caratteristiche che ne
hanno fatto un successo in passato rimangono, aggiornate ai tempi, intatte
anche oggi.
Dopo un primo momento di verifica con una periodicità trimestrale, ci
piacerebbe intensificarne le pubblicazioni, perché c'è molto materiale ine-
dito valido che meriterebbe di essere tradotto. Tutto dipenderà dalla ri-
sposta di voi lettori.
Daniele Brolli

NOTE

Lois McMaster Bujold ha ottenuto un enorme successo in breve tempo


con i suoi romanzi collegati, in un grande affresco di storia galattica, alle
sorti della famiglia Vorkosigan.
Nata nel 1949, la Bujold ha esordito con un racconto su Twilight Zone
nel 1985, ma si può dire che tutta la sua produzione sia parte della saga dei
Vorkosigan, membri di spicco di una casta militare del pianeta Barrayar,
riscoperto dalla civiltà galattica dopo essere regredito al semifeudalesimo.
Lo stile della Bujold ricorda superficialmente quello Frank Herbert, ma
nella trama il suo affresco futuro ha qualche elemento del ciclo della Fon-
dazione di Asimov. La distingue un punto di vista strettamente umano,
persino nelle situazioni in cui maggiormente si fa sentire l'elemento tecno-
logico. Tutti i suoi romanzi del ciclo dei Vorkosigan, a cui appartiene an-
che il romanzo breve da noi presentato, sono editi in Italia dalla Nord, e-
scluso Barrayar, apparso in Urania, Mondadori.

Poul Anderson, nato nel 1926 in Pennsylvania da genitori scandinavi,


ha vissuto i primi anni della sua vita in Danimarca, prima di rifugiarsi ne-
gli Stati Uniti a causa della Seconda Guerra Mondiale. Si è laureato in fisi-
ca nel 1948.
Dopo aver pubblicato qualche racconto sparso, nel 1953 vennero seria-
lizzati su rivista tre suoi romanzi. Quello rimasto più noto è probabilmente
Three Hearts and Three Lions, Tre cuori e tre leoni, che racconta di un
uomo sbalzato dalla Terra durante il secondo conflitto mondiale, in un
mondo alternativo dove, in un'atmosfera sword & sorcery, si trova ad af-
frontare le forze del caos. Anderson ha spaziato un po' in ognuno dei cam-
pi della fantascienza e del fantasy, e il suo stile accurato gli ha consentito
di costruire varie visioni del futuro.

Ben Bova, nato nel 1932, ereditò la direzione di Analog nel 1971, dopo
la morte di John W. Campbell. Sebbene continuasse ad avere un certo suc-
cesso commerciale, si trattava a quel tempo di una rivista moribonda dal
punto di vista delle idee. Bova ne mantenne l'orientamento tecnofilo ma
abbandonò il puritanesimo che era stato di Campbell, dando alle storie un
carattere più adulto. Il successo non tardò ad arrivare, tanto che Bova vinse
il premio Hugo come curatore ininterrottamente dal 1973 al 1977, rivin-
cendolo anche nel 1979 per il lavoro svolto su Analog l'anno precedente.
Dal 1979 al 1982 è stato editor di Omni.
Bova ha un'attività intensa anche come scrittore e le sue opere rispec-
chiano coerentemente il suo interesse per la divulgazione e le ipotesi scien-
tifiche.

John Brunner, britannico, nato nell'Oxfordshire nel 1934, pubblicò il


suo primo romanzo a diciassette anni. Tra il 1953 e il 1957 la sua attività
nella fantascienza fu intermittente, a causa delle difficoltà riscontrate nel
guadagnarsi da vivere scrivendo solamente. A risolvere la situazione arrivò
un contratto con la Ace Books, che gli permise di sbarcare il lunario scri-
vendo ben 27 romanzi in sei anni, pubblicandoli a proprio nome o sotto
pseudonimo. In seguito, dopo essersi dedicato per anni alla space opera,
costruendo una propria storia futura, Brunner partorì nel 1968 Stand on
Zanzibar, Tutti a Zanzibar, romanzo mastodontico che per le tecniche di
scrittura ricorda John Dos Passos, scrittore americano amico di Hemin-
gway, che nella trilogia di 42° parallelo (1930), 1919 (1932) e Un mucchio
di quattrini (1936) mise a punto uno stile fatto di citazioni di giornali e
flusso di coscienza. La storia, che segna il passaggio di Brunner a temati-
che più impegnate, intreccia le vicende di Norman House, un nero in mis-
sione nel Terzo Mondo per facilitare la penetrazione dell'Occidente indu-
strializzato, a quelle di Donald Hogan, un agente governativo bianco che
ha il compito di appropriarsi di una scoperta per il controllo eugenetico.
Sullo sfondo un mondo oppresso dalla sovrappopolazione.
Malgrado opere come questa o The Jagged Orbit, L'orbita spezzata, del
1969, e The Sheep Look Up, Il gregge alza la testa, del 1972, esplorassero
efficacemente il terreno della distopia, a metà degli anni Settanta Brunner
si vide costretto a tornare alla narrativa commerciale. Il motivo era sempli-
ce: il successo di critica non si era trasformato in un successo di pubblico e
d'altra parte questi romanzi, per mole e complessità, erano così impegnati-
vi da non lasciargli tempo di dedicarsi ad altro. Stremato finanziariamente,
si dedicò di nuovo alla fantascienza avventurosa.
Il racconto che presentiamo è dedicato in maniera bizzarra a uno dei ma-
estri britannici della science fiction classica, Eric Frank Russell (1905-
1978).
Stephen L. Burns vive in un villaggio-vacanze in cui è il tuttofare e
scrive durante la stagione morta, da dicembre ai primi di aprile. Un curri-
culum da perfetto scrittore emergente americano. Ha pubblicato il suo
primo racconto nel 1984 e nel 1985 è apparso per la prima volta su Ana-
log. Da allora è uno degli autori più sponsorizzati dal curatore Stan
Schmidt, che vede in lui un futuro maestro della science fiction.

Charles Sheffield è nato nel 1935 in Gran Bretagna. Laureato in fisica,


ha iniziato la sua attività producendo testi scientifici. Il suo primo racconto
è del 1977, ma è durante gli anni Ottanta che si è scatenato nella sua attivi-
tà di narratore, abbandonando la carriera scientifica. Pur essendo tra gli au-
tori anglosassoni più noti e acclamati, in Italia di suo si è visto molto poco.
Ci penseranno la rivista di Asimov e Analog a colmare questa lacuna, ri-
dando a uno dei migliori scrittori della science fiction contemporanea il
posto che gli spetta? Speriamo di sì.

James White, britannico, nato a Belfast nell'Ulster nel 1928, si è fatto


conoscere con una serie di romanzi e racconti collegati tra loro (il primo
dei quali fu Hospital Station, Stazione Ospedale, del 1962), basati sul pre-
supposto che in un universo popolato da diverse razze, con differenti tipi
di meccanismi biologici, la medicina diverrebbe una scienza complessa e
non assoluta, con tutte le combinazioni del caso. La saga che elabora que-
sta idea (in Italia apparve in origine sul mensile Galassia) si svolge su una
stazione spaziale ospedale multilivello posta ai confini della galassia e
concepita in maniera da ospitare e curare i vari tipi di biologia aliena. Il
registro varia dall'umoristico al drammatico, con una narrazione a volte in-
genua ma anche sorprendentemente arguta. White è autore piuttosto proli-
fico e in oltre quarant'anni di attività (il suo primo racconto apparve su
New Worlds nel 1953), come ogni scrittore di fantascienza che si rispetti,
ha dato alle stampe romanzi sulla fine dell'umanità, sul primo incontro con
gli alieni, sul viaggio interstellare e così via, distinguendosi per la capacità
di rendere vividi e impressionanti i contorni delle vicende quanto più le
sue storie si allontanano dal presente.
Analog

IL METEOROLOGO
di Lois McMaster Bujold
La disciplina militare può essere rigida,
quasi quanto il clima di Campo Permafrost

«Servizio navale!» ridacchiò il guardiamarina, che si trovava tre posti


davanti a Miles nella fila. La gioia gli illuminava il viso. Mentre percorre-
va velocemente con lo sguardo le istruzioni, il leggero foglio di plastica gli
tremò un po' tra le mani. «Sto per diventare ufficiale d'armi sull'Incrociato-
re Imperiale Commodore Vorhalas. Devo presentarmi immediatamente a
rapporto alla Base Tannery per i trasferimenti orbitali.» Sollecitato, si spo-
stò con un salto poco decoroso, lasciando il posto all'uomo successivo del-
la fila, e continuò a borbottare felice.
«Guardiamarina Plause.» L'anziano sergente seduto alla scrivania solle-
vò il pacchetto successivo tra il pollice e l'indice con calma, riuscendo a
sembrare contemporaneamente annoiato e superiore. Da quanto tempo oc-
cupava quel posto all'Accademia Militare Imperiale? Si domandò Miles.
Quante centinaia, migliaia, di giovani ufficiali erano passati davanti al suo
sguardo ottuso in quel primo, supremo momento delle loro carriere? A-
vrebbero cominciato tutti ad assomigliargli dopo qualche anno? Le stesse
uniformi verdi nuove. Gli stessi rettangoli di plastica blu scintillante, ap-
pena guadagnati, sul bavero. Gli stessi sguardi bramosi, i dannati diplomati
della scuola più importante del Servizio Imperiale, con la visione del pro-
prio destino militare nel cervello. Non stiamo semplicemente marciando
incontro al futuro, lo attacchiamo.
Plause si fece da parte, lasciò l'impronta sul tampone, e aprì la sua busta.
«Allora?» domandò Ivan Vorpatril, che si trovava proprio davanti a Mi-
les nella coda. «Non tenerci in sospeso.»
«Scuola di lingue» disse Plause continuando a leggere.
Plause parlava già tutte e quattro le lingue originarie di Barrayar alla
perfezione. «Come studente o come istruttore?» Chiese Miles.
«Come studente.»
«Ah, ha. Si tratterà di lingue galattiche, allora. Ti vorrà il servizio segre-
to, dopo. Finirai di sicuro in qualche posto lontano dal pianeta» disse Mi-
les.
«Non necessariamente» disse Plause. «Potrebbero semplicemente siste-
marmi in un box di cemento da qualche parte, a programmare traduzioni
computerizzate fino a quando non diventerò cieco.» Ma gli occhi gli bril-
lavano pieni di speranza.
Miles caritatevolmente non gli fece notare il maggior svantaggio nell'es-
sere intelligenti, cioè che si finiva a lavorare per il Capo della Sicurezza
Imperiale, Simon Illyan, l'uomo che ricordava tutto. Ma forse allo stadio in
cui Plause si trovava, non avrebbe incontrato l'aspro Illyan.
«Guardiamarina Vorpatril» intonò il sergente. «Guardiamarina Vorkosi-
gan.»
Ivan raccolse il suo pacchetto e Miles il proprio, poi si tolsero di mezzo
con i loro due compagni.
Ivan aprì la busta. «Ah. Quartier Generale Imperiale a Vorbarr Sultana.
Devo comunicarvi che sarò l'aiutante di campo dell'ammiraglio Jollif, al
comando operativo». Chinò la testa e girò il foglio. «Comincio domani
mattina».
«Ooh» disse il guardiamarina che aveva ottenuto il servizio navale, e che
era ancora tutto eccitato. «Ivan sta per diventare segretario. Vedi di stare
in guardia se il generale Lamitz ti chiederà di sederti sulle sue ginocchia,
ho sentito dire che...»
Ivan amabilmente gli fece un gesto volgare di risposta. «Tutta invidia,
pura e semplice invidia. Vivrò da civile. Lavorerò dalle sette alle cinque,
avrò il mio appartamento in città, nessuna delle ragazze della vostra nave,
vorrei sottolineare.» Il tono di voce di Ivan era calmo e allegro, ma non
riusciva a nascondere negli occhi la totale delusione. Anche Ivan aveva de-
siderato il servizio navale. Tutti loro lo volevano.
Anche Miles. Il servizio navale. Magari il comando, come mio padre,
mio nonno, il padre di mio nonno... esitò per autodisciplina, per paura, un
ultimo lento momento di speranza. Tolse la chiusura alla busta e l'aprì con
intenzionale precisione. Un'unica leggera copertura di plastica, comoda per
viaggiare...
La calma durò solo per il breve tempo che gli ci volle a capire il paragra-
fetto che aveva davanti agli occhi. Rimase paralizzato dall'incredulità, e ri-
cominciò a leggere dall'inizio.
«Allora cosa succede, amico?» Disse Ivan dando un'occhiata da dietro le
spalle di Miles.
«Ivan» disse Miles con voce strozzata. «Ho un attacco di amnesia, o è
vero che non abbiamo mai seguito dei corsi di meteorologia durante il no-
stro corso di formazione scientifica?»
«Matematica pentaspaziale e xenobotanica, sì» Ivan cercò di ricordare.
«Geologia e valutazione del terreno, sì. Be', c'era anche meteorologia di
volo, il primo anno.»
«Sì, ma...»
«Allora cosa ti hanno affibbiato stavolta?» domandò Plause, già pronto a
fargli le sue congratulazioni o offrirgli la sua commiserazione, a seconda
delle circostanze.
«Sono stato assegnato alla base Lazkowski, come Ufficiale Capo Meteo-
rologico. Dove diavolo è la base Lazkowski? Non ne ho mai sentito parla-
re!»
Il sergente che stava alla scrivania alzò gli occhi con un ghigno diaboli-
co. «Io sì, signore» disse. «È in un posto chiamato Isola Kyril, vicino al
circolo artico. È una base invernale di addestramento di fanteria. Gli stu-
denti lo chiamano Campo Permafrost.»
«Fanteria?» disse Miles.
Ivan corrugò la fronte, e guardò corrucciato Miles. «Fanteria? Tu? Deve
esserci un errore.»
«No, non lo è» disse Miles debolmente. Si sentì sommergere dalla rag-
gelante consapevolezza dei suoi handicap fisici.
Anni di misteriose torture mediche erano quasi riusciti a correggere le
gravi deformità per cui Miles era stato sul punto di morire alla nascita.
Quasi. Curvo come un ranocchio durante l'infanzia, adesso in piedi era
quasi dritto. Le ossa che un tempo erano simili a bastoncini di gesso, fria-
bili come talco, adesso erano diventate abbastanza forti. Se da bambino era
raggrinzito come un nanerottolo, adesso era alto quasi un metro e cinquan-
ta. Alla fine si trattò di controbilanciare la lunghezza e la forza delle sue
ossa, ma il suo medico ritenne che gli ultimi centimetri di altezza erano
stati un errore. Successivamente Miles si spaccò le gambe un numero suf-
ficiente di volte da trovarsi d'accordo con lui, ma ormai era troppo tardi.
Ma non era un mutante, no... ormai aveva poca importanza. Se solo gli a-
vessero permesso di mettere le sue forze al servizio dell'Impero, sarebbe
riuscito a fargli dimenticare i propri limiti fisici. L'affare era chiaro.
C'erano milioni di lavori nel Servizio di Stato che poteva svolgere senza
che il suo aspetto bizzarro e la sua fragilità segreta facessero alcuna diffe-
renza. Come aiutante di campo per esempio, o come traduttore per i Servi-
zi Segreti. Se non come ufficiale di flotta navale, per monitoraggi compu-
terizzati. Se ne erano resi conto, certamente dovevano essersene resi conto.
Ma la fanteria? Qualcuno non si stava comportando lealmente. O forse c'e-
ra stato un errore. Non sarebbe stata la prima volta. Esitò per un momento
interminabile, soppesando la busta, poi si diresse verso la porta.
«Dove stai andando?» gli domandò Ivan.
«Voglio vedere il maggiore Cecil.»
Ivan fece una smorfia. «Buona fortuna.»
Probabilmente il sergente nascondeva un sorriso, dietro quel capo chino,
intento a esaminare un altro mucchio di pacchetti. «Guardiamarina Draut»
chiamò. La fila si spostò ancora.

Il maggiore Cecil aveva un fianco appoggiato alla scrivania del suo im-
piegato, per verificare qualcosa sul video, quando Miles entrò nel suo uffi-
cio e salutò.
Diede un'occhiata a Miles e poi al suo cronometro. «Ah, meno di dieci
minuti. Ho vinto la scommessa». Poi ricambiò il saluto mentre l'impiegato,
con un sorriso acido, prendeva una piccola mazzetta di denaro dal portafo-
glio, ne toglieva una banconota e la passava senza parlare al suo superiore.
La faccia del maggiore era divertita solo in apparenza. Fece un cenno ver-
so la porta, e l'impiegato strappò il foglio che il suo calcolatore aveva ap-
pena prodotto e uscì dalla stanza.
Il maggiore Cecil era un uomo di circa cinquant'anni, asciutto, calmo e
acuto. Molto acuto. Anche se non era il responsabile del personale, visto
che il lavoro amministrativo spettava a un ufficiale di rango più elevato,
Miles da molto tempo aveva capito che era lui l'uomo della decisione fina-
le. Dalle mani di Cecil passavano come minimo tutti gli assegnamenti per i
diplomati dell'Accademia.
Miles l'aveva sempre considerato un uomo disponibile, perché in lui lo
studioso e il maestro predominavano sull'ufficiale. Il suo spirito era straor-
dinariamente caustico, e aveva un'assoluta dedizione al dovere. Miles si
era sempre fidato di lui. Almeno fino a quel momento.
«Signore» esordì. Poi gli passò gli ordini ricevuti con un atteggiamento
di frustrazione. «Che cosa significa?»
Cecil aveva ancora lo sguardo divertito quando infilò la banconota nel
portafoglio. «Mi stai chiedendo di leggertelo, Vorkosigan?»
«Signore, avrei una domanda...» Miles si bloccò, si morse la lingua, e
poi proseguì. «Vorrei farle qualche domanda sul compito che mi è stato
assegnato».
«Ufficiale Meteorologico alla base Lazkowski» disse il maggiore Cecil.
«Ma, allora... non si tratta di un errore? Ho ricevuto il pacco giusto?»
«Se c'è scritto così, allora è giusto.»
«Ma lei è al corrente del fatto che l'unico corso di meteorologia che ho
seguito è stato quello di meteorologia dell'aviazione?»
«Sì, ne sono al corrente.» Il maggiore non si lasciava sfuggire nulla.
Miles fece una pausa. Il fatto che Cecil avesse fatto uscire il suo impie-
gato voleva dire che avrebbero avuto una conversazione sincera. «Si tratta
di una punizione?» Che cosa ti ho fatto?
«Ma no, guardiamarina» Cecil aveva addolcito il tono di voce «è un in-
carico assolutamente normale. Il mio compito consiste nel fare corrispon-
dere alla richiesta di personale i candidati a disposizione. Ogni richiesta
deve essere ricoperta da qualcuno.»
«Qualsiasi diplomato in tecnica avrebbe potuto ricoprire questo incari-
co.» Con uno sforzo, Miles contenne il nodo che aveva nella voce, strin-
gendo i pugni. «Anzi. Non era necessario un cadetto dell'Accademia.»
«Questo è vero» concesse il maggiore.
«Ma, allora perché?» esclamò Miles. Aveva parlato con un tono di voce
più alto di quello che voleva.
Cecil sospirando, si raddrizzò. «Perché ho notato, Vorkosigan, osser-
vandoti, e tu sai bene di essere stato il cadetto più strettamente sorvegliato
che sia mai passato da questo collegio, eccetto lo stesso Imperatore Grego-
rio...»
Miles annuì.
«Indipendentemente dalla vivacità d'ingegno che hai dimostrato in alcu-
ni campi, hai dimostrato anche alcune debolezze croniche. E non mi sto ri-
ferendo ai tuoi problemi fisici, che tutti, eccetto me, pensavano ti avrebbe-
ro ucciso prima che potessi compiere un anno di vita. Tu sei stato sorpren-
dentemente sensibile a queste...»
Miles scrollò le spalle. «Ferite dolorose, signore. Non me le sono cerca-
te.»
«Molto bene. Ma i tuoi problemi cronici più insidiosi riguardano l'area
della...come posso dirlo in modo esatto...subordinazione. Tu discuti trop-
po.»
«No, non è vero.» Iniziò a dire Miles indignato, poi si zittì.
Cecil fece un ghigno. «E invece sì. Per non parlare della tua abitudine
piuttosto irritante di trattare i tuoi ufficiali di grado superiore, come se fos-
sero tuoi, ah...» Cecil fece una pausa come se cercasse la parola giusta.
«Pari?» azzardò Miles.
«Come se fossero delle bestie» lo corresse Cecil in modo imparziale «da
piegare alla tua volontà. Sei un eccellente manipolatore, Vorkosigan. Sono
tre anni che ti studio ormai, e le tue dinamiche di gruppo sono affascinanti.
Che sia un tuo incarico o no, in qualche modo sono sempre le tue idee alla
fine che vengono realizzate.»
«Mi sono comportato in modo così... irrispettoso, signore?»
«Al contrario. Dati i tuoi presupposti, è sorprendente che tu riesca a na-
scondere questa, ehm, piccola vena di arroganza così bene. Ma Vorkosi-
gan» Cecil si fece improvvisamente serio. «L'Accademia Imperiale non
costituisce la totalità del Servizio Imperiale. Tu ti sei fatto apprezzare dai
tuoi compagni perché qui il cervello è tenuto al primo posto. Sei stato il
primo a essere selezionato per tutti i gruppi strategici, per la stessa ragione
per cui sei stato escluso da qualsiasi contesto prettamente fisico. Questi
giovani uomini di successo vogliono vincere. Sempre. A qualsiasi costo».
«Io non posso essere un tipo qualunque e sopravvivere, signore!»
Cecil scosse la testa. «Sono d'accordo. Ma tuttavia devi imparare anche
a dare ordini alla gente qualunque. E a riceverne! Non si tratta di una puni-
zione, Vorkosigan, e non è nemmeno il mio modo di scherzare. Dalle mie
scelte dipende non solo la vita dei nostri giovani ufficiali, ma anche quella
degli innocenti a cui le infliggo. Se mi capitasse di giudicare male, o so-
pravvalutare o sottovalutare un uomo per un incarico, non solo metterei in
difficoltà lui, ma anche quelli che gli stanno intorno. Ora, tra sei mesi (più
un'eccedenza non programmata) il Cantiere Navale Orbitale Imperiale avrà
finito di armare il Prince Serge...»
Miles si sentì mancare il respiro.
«Hai capito perfettamente» annuì Cecil. «Il più nuovo, il più veloce ap-
parecchio che Sua Maestà Imperiale abbia mai mandate nello spazio. E
con il rango più alto. Partirà, e rimarrà nello spazio per periodi di tempo
più lunghi di qualsiasi cosa sia mai esistita prima. L'Alto Comando attual-
mente si sta interessando al profilo psichico che comporta. Per cambiare.»
«Ascoltami adesso» disse Cecil piegandosi in avanti. Miles fece lo stes-
so, quasi automaticamente. «Se riuscirai a farcela per sei mesi con quel-
l'incarico, se dimostrerai di essere in grado di tenere sotto controllo Campo
Permafrost, io farò in modo che tu possa tenere in mano qualsiasi cosa il
Servizio possa pensare di affidarti. E appoggerò la tua richiesta di trasfe-
rimento sul Prince. Ma se fallirai, non ci sarà nulla che io o chiunque altro
possa fare per te. O nuoti o affoghi, guardiamarina.»
Volare, pensò Miles. Io voglio volare.
«Signore... che razza di trappola è quel posto?»
«Non voglio danneggiarti, guardiamarina Vorkosigan» aggiunse Cecil
tranquillamente.
E anche io le voglio bene, signore. «Ma... la fanteria? I miei limiti fisi-
ci... non pregiudicheranno il mio servizio, se saranno tenuti in conto, ma
non posso pretendere che non esistano. Tanto varrebbe che saltassi un mu-
ro, distruggendomi immediatamente, e risparmieremmo tutti tempo.»
Dannazione, perché mai mi hanno permesso di frequentare alcune delle
classi più prestigiose di Barrayar per tre anni, se avevano intenzione di
uccidermi al primo colpo? «Ho sempre dato per scontato che avrebbero
tenuto conto dei miei limiti fisici.»
«Un Ufficiale Meteorologo è un tecnico specializzato, guardiamarina»
disse il maggiore cercando di rassicurarlo. «Nessuno ti metterà alla prova
affidandoti un incarico di campo per distruggerti. Dubito che ci sia un uffi-
ciale del Servizio a cui piacerebbe giustificare la tua morte all'ammira-
glio.» Il suo tono di voce si era fatto leggermente freddo. «È la tua unica
buona qualità. Mutante.»
Cecil era una persona senza pregiudizi, lo stava semplicemente mettendo
alla prova. Metteva sempre tutti alla prova. Miles piegò la testa. «Faccio
del mio meglio per i mutanti che verranno dopo di me.»
«Lo avevi previsto, non è vero?»
«Anni fa, signore.»
«Mm» Cecil fece un leggero sorriso, si alzò dalla scrivania, si fece avan-
ti e gli tese la mano. «Buona fortuna, allora, Lord Vorkosigan.»
Miles gli strinse la mano. «Grazie, signore.» Prese il cumulo di autoriz-
zazioni di viaggio per metterle in ordine.
«Quale sarà la tua prima tappa?» domandò Cecil.
Lo stava di nuovo mettendo alla prova. Doveva trattarsi di un maledetto
riflesso. Miles rispose in modo imprevisto: «Gli archivi dell'Accademia».
«Ah!»
«Per dare un'occhiata al manuale meteorologico del Servizio e a materia-
li supplementari.»
«Molto bene. A proposito, il tuo predecessore nell'incarico rimarrà un
paio di settimane per darti il tempo di orientarti.»
«Sono felice di saperlo, signore» disse Miles sinceramente.
«Non vogliamo renderti le cose impossibili, guardiamarina.»
Ma solo molto difficili. «Sono felice di sapere anche questo, signore.»
Uscendo, Miles salutò in modo molto rispettoso.

Miles fece l'ultima tappa del viaggio per l'Isola Kyril su una grande na-
vetta aeromerci automatizzata, insieme a un noioso pilota di riserva e a ot-
tanta tonnellate di carico. Trascorse la maggior parte del suo viaggio soli-
tario studiando freneticamente meteorologia. Dal momento che il pro-
gramma di viaggio si era protratto in modo perverso oltre il dovuto, con
due lunghe ore di ritardo nelle due ultime fermate di carico, si ritrovò mol-
to più avanti negli studi di quanto si aspettasse, quando l'aeromerci si fer-
mò rombando alla base Lazkovski.
I portelli di bordo del cargo si aprirono, lasciando entrare la pallida luce
del sole che si nascondeva dietro l'orizzonte. La brezza dell'estate inoltrata
aveva una temperatura di cinque gradi sopra lo zero. I primi soldati che
Miles vide erano un gruppo di uomini vestiti di nero con dei caricatori, che
seguivano gli ordini di un caporale dall'aria stanca che venne incontro alla
navetta. Nessuno sembrava particolarmente preparato ad accogliere un
nuovo Ufficiale Meteorologo. Miles si strinse dentro il parka e si avvicinò
al gruppo.
Due degli uomini vestiti di nero, vedendolo scendere dalla scaletta, si
scambiarono dei commenti in greco barraiarano, un dialetto minore di ori-
gine terrestre, totalmente degradato nei secoli dell'Era dell'Isolamento. Mi-
les, stanco per il viaggio e colpito dalle espressioni delle loro facce, che gli
erano anche troppo familiari, decise immediatamente di ignorare qualsiasi
cosa avessero da dire, fingendo di non conoscere la loro lingua. In ogni
modo, Plause gli aveva detto diverse volte che il suo accento greco era
pessimo.
«Guarda quello, l'hai visto? Cos'è, un bambino?»
«Mi avevano detto che stavano per mandarci dei baby-ufficiali, ma que-
sto qui è appena nato.»
«Ehi, ma non è un bambino. È un maledetto nano. La levatrice ha perso i
colpi con questo qui. Guardalo, è un mutante!»
Miles, riuscì a fatica a impedirsi di voltarsi a guardare i due che stavano
facendo quei commenti. E quelli, sempre più convinti di non essere ascol-
tati, alzarono la voce dal sussurro a un tono normale. «Ma come mai è in
uniforme, eh?» «Forse è la nostra nuova mascotte.» Le vecchie paure ge-
netiche erano talmente radicate e ancora così diffuse che poteva capitare di
essere picchiati a morte da persone che non sapevano nemmeno perché ti
odiavano, ma che semplicemente si lasciavano esaltare dalla spirale delle
reazioni di gruppo. Miles sapeva piuttosto bene che era sempre stato pro-
tetto dalla posizione sociale del padre, ma che potevano accadere cose pe-
ricolose a coloro che appartenevano a una classe sociale meno elevata. So-
lo due anni prima era accaduta una vicenda orribile a Vorbarr Sultana nella
zona della città vecchia, un povero storpio era stato castrato con una botti-
glia di vino rotta da una banda di ubriachi. Era stato considerato un segno
di progresso il fatto che avesse suscitato scandalo, invece di essere sempli-
cemente dato per scontato. E proprio nello stesso distretto di Vorkosigan,
il caso recente di un infanticidio parlava ancora più chiaramente. Sì, appar-
tenere a un certo livello sociale o militare comportava dei vantaggi. Miles
intendeva procurarsene più che poteva.
Tirò bruscamente indietro il parka, perché si vedesse con chiarezza la
sua mostrina da ufficiale. «Salve, caporale. Ho degli ordini da riferire al
tenente Ahn, l'Ufficiale Meteorologo della base. Dove posso trovarlo?»
Miles aspettò un po' di ricevere l'opportuno saluto, ma si fece attendere,
perché l'uomo rimase a guardarlo con gli occhi fuori dalle orbite. Alla fine
si rese conto che Miles poteva davvero essere un ufficiale.
Si decise a salutarlo. «Mi scusi, ehm, signore, che cosa ha detto?»
Miles rispose al saluto gentilmente, e con calma ripeté ciò che aveva
detto.
«Ah, ho capito, il tenente Ahn. Di solito si nasconde... ecco, di solito è
nel suo ufficio. Nell'edificio dell'amministrazione.» Il caporale fece un
cenno con il braccio a indicare un punto in direzione di un prefabbricato a
due piani, che si trovava oltre una fila di depositi mezzi sotterrati al limite
della pista, a una distanza forse di un chilometro. «Non si può sbagliare, è
l'edificio più alto della base.»
Ed è anche, notò Miles, chiaramente riconoscibile dall'assortimento di
apparecchiature computerizzate che sporgono dal tetto. Molto bene.
A quel punto, doveva affidare il suo bagaglio a quei babbei e pregare
che lo portassero alla sua eventuale destinazione, qualunque essa fosse? O
interrompere il loro lavoro e arruolare forzatamente un caricatore per il
trasporto? Ebbe in un lampo la visione di se stesso ritto sulla prua di quella
cosa simile alla polena di una nave da traversata, che pesantemente si
muoveva verso il suo incontro con il destino, con mezza tonnellata di
biancheria intima termica, con due dozzine per ogni cassa, modello nume-
ro 6774932. Decise di mettersi lo zaino in spalla e di andare a piedi.
«Grazie, caporale.» Cominciò a marciare nella direzione indicata, fin
troppo consapevole della sua andatura zoppicante e degli apparecchi orto-
pedici nascosti nelle gambe dei pantaloni, per sostenere il peso in eccesso.
La distanza risultò maggiore di quello che sembrava, ma lui fece attenzio-
ne a non fermarsi o vacillare finché non scomparve oltre la prima unità-
deposito.
La base sembrava quasi deserta. Com'era prevedibile. Il nucleo della sua
popolazione era costituito dalle reclute di fanteria, che venivano e se ne
andavano in due gruppi ogni inverno. Adesso lì c'era solo il gruppo per-
manente e Miles era pronto a scommettere che la maggior parte di loro
prendeva lunghe licenze durante quella breve tregua dell'estate. Si fermò
ansimando dentro l'edificio dell'amministrazione, senza avere incontrato
nessun altro.
La Direzione e il Visualizzatore Topografico, secondo un segnale scritto
a mano applicato dall'altro lato del suo video base, erano al piano di sotto.
Miles si infilò nel primo e unico corridoio che c'era alla sua destra, in cerca
di un qualsiasi ufficio in cui ci fosse qualcuno. Quasi tutte le porte erano
chiuse ma non a chiave, le luci erano spente. In un ufficio classificato co-
me Contabilità Generale c'era un uomo in uniforme nera da lavoro, con la
mostrina rossa da tenente sul colletto, concentratissimo sul suo olovideo
che mostrava lunghe colonne di dati. Stava imprecando sottovoce.
«Dov'è l'Ufficio Meteorologico?» Gridò Miles, rimanendo sulla porta.
«Secondo.» Il tenente fece un segno verso l'alto senza voltarsi, poi si in-
curvò ancora di più e ricominciò a imprecare. Miles sgattaiolò via in punta
di piedi cercando di non dargli altro disturbo
Finalmente trovò l'ufficio al secondo piano, sulla porta chiusa c'era un
cartello con le lettere sbiadite. Si fermò fuori, poggiò il suo bagaglio e ci
mise sopra il parka. Poi si diede una rassettata, le quattordici ore di viaggio
avevano sciupato la sua freschezza iniziale. Comunque, aveva fatto in mo-
do di tenere puliti gli stivali e l'uniforme verde d'ordinanza da macchie di
cibo, tracce di fango e altre aggiunte disdicevoli. Appiattì il berretto e lo
posizionò con precisione alla cintura. Aveva percorso una buona metà del
pianeta, una buona metà della vita, per raggiungere quel preciso momento.
Alle sue spalle c'erano tre anni di addestramento vissuti in stato di eccita-
zione febbrile per l'attesa. Anche se gli anni di Accademia avevano sempre
avuto un'aria di vaga simulazione, il tipico ci-stiamo-solo-esercitando, a-
desso, finalmente si trovava faccia a faccia con le cose concrete, con il suo
primo, autentico incarico di comando. La prima impressione poteva essere
di vitale importanza, soprattutto nel suo caso. Prese fiato e bussò.
Una voce roca e smorzata lo raggiunse attraverso la porta, erano parole
indecifrabili. Forse un invito? Miles aprì la porta ed entrò.
Intravide un'intera parete di interfaccia e terminali video che lampeggia-
vano. Vacillò all'indietro per il caldo che lo colpì in volto. Lì dentro l'aria
aveva la stessa temperatura del sangue. Eccetto che per la luce emessa dai
terminali video, la stanza era immersa nella totale oscurità. Miles, accor-
gendosi di un movimento alla sua sinistra, si girò e salutò. «Guardiamarina
Miles Vorkosigan, a rapporto per l'incarico come stabilito, signore.» Si mi-
se sull'attenti, alzò gli occhi e non vide nessuno.
Il movimento doveva provenire dal basso. Abbassando lo sguardo, vide
un uomo non rasato, di circa quarant'anni, in mutande e maglietta, che se
ne stava seduto per terra, con la schiena appoggiata al quadro di comando
dei computer. L'uomo alzò gli occhi e sorrise a Miles, poi prese una botti-
glia mezza vuota di liquido ambrato, e bofonchiò: «Alla tua salute, ragaz-
zo. Sei un tesoro». E crollò lungo disteso.
Miles rimase assorto a fissarlo per un lungo, lunghissimo momento.
Poi l'uomo cominciò a russare.

Dopo avere abbassato la temperatura, essersi liberato della giubba e ave-


re lanciato una coperta sul tenente Ahn (perché era proprio di lui che si
trattava), Miles si prese una mezzora di riflessione, ed esaminò accurata-
mente il suo nuovo regno. Non c'era alcun dubbio, avrebbe richiesto le i-
struzioni all'ufficio operativo. Oltre alle immagini via satellite in tempo re-
ale, sembrava che arrivassero dati automatizzati da una dozzina di installa-
zioni di rilevamento microclimatico distribuite su tutta l'isola. Se mai era-
no esistiti dei manuali di procedura, adesso non c'erano più, e nemmeno
nei computer. Dopo un'onorevole esitazione, in cui osservò con perplessità
la sagoma che russava e si agitava sul pavimento, Miles colse l'opportunità
di dare un occhiata alla scrivania di Ahn e ai file dell'unità periferica.
La scoperta di alcuni fatti rilevanti lo aiutò a inserire l'uomo che stava
dando spettacolo di sé sul pavimento in una prospettiva più chiara. Sem-
brava che il tenente Ahn fosse un uomo da vent'anni alle soglie della pen-
sione. Era trascorso molto, moltissimo tempo dall'ultima promozione. Ed
era trascorso un tempo ancora più lungo dal suo ultimo trasferimento: era
l'unico Ufficiale Meteorologo che c'era stato sull'Isola Kyril negli ultimi
quindici anni.
Questo povero cristo è incastrato su quest'iceberg da quando io avevo
sei anni, calcolò Miles rabbrividendo al pensiero. A quel punto, era diffici-
le stabilire se i problemi che Ahn aveva con l'alcol ne erano stati la causa
oppure l'effetto. Bene, se il giorno dopo sarebbe stato abbastanza sobrio da
mostrare a Miles come procedere, tanto meglio. Altrimenti, Miles era ca-
pace di pensare a una mezza dozzina di modi, che spaziavano tra il crudele
e l'eccezionale, per fargli decidere se volesse o no essere cosciente. Se Ahn
era in grado soltanto da ubriaco di vomitare un'istruzione tecnica, per quel-
lo che importava a Miles, poteva anche ritornarsene nel suo stato comatoso
finché non fossero venuti a prenderlo su un mezzo di trasporto in partenza.
Sarebbe stato il destino a decidere la sorte di Ahn, pensò Miles infilan-
dosi la giubba, poi mise il suo equipaggiamento dietro alla scrivania e uscì
in esplorazione. Da qualche parte nella catena di comando doveva pur es-
serci un essere umano cosciente, sobrio e in salute, che in quel momento
stava facendo il suo lavoro, altrimenti quel posto non avrebbe funzionato a
quel modo. O forse lo facevano funzionare i caporali, chi poteva dirlo? In
quel caso, suppose Miles, il suo prossimo compito sarebbe stato quello di
trovare il caporale più efficiente che c'era a disposizione e di assumerne il
controllo.
Nell'atrio al piano di sotto una forma umana si avvicinò a Miles, che ini-
zialmente ne vide solo il profilo in controluce davanti alle porte principali
Avvicinandosi a passo ritmato di jogging, la figura si rivelò essere un uo-
mo alto e grosso, in tuta, maglietta e scarpe da tennis. Era evidentemente
appena rientrato da una corsa di cinque chilometri, tanto per mantenersi in
forma, forse con qualche centinaio di flessioni sulle braccia aggiunte per
dessert. Aveva i capelli grigi come il ferro e lo sguardo duro come il ferro;
forse era stato uno di quei sergenti d'addestramento particolarmente di-
speptici. Improvvisamente si fermò e abbassò gli occhi per fissare Miles, e
lo stupore si trasformò in un ghigno a mascella serrata.
Miles rimase fermo con le gambe leggermente divaricate, tirò indietro la
testa e alzò gli occhi sostenendo lo sguardo con la stessa forza. L'uomo
sembrava totalmente indifferente alla mostrina che Miles aveva sul collet-
to. Alla fine, esasperato, Miles sbottò: «Sono andati tutti in vacanza gli in-
tendenti, o c'è rimasto ancora qualcuno a portare avanti questa baracca?»
Gli occhi dell'uomo mandarono scintille, come se il ferro che contene-
vano fosse andato a sbattere contro una pietra, iniettando delle luci di av-
vertimento nel cervello di Miles, un attimo troppo tardi per la sua boccac-
cia. Sì, signore! urlava istericamente una voce di commento nella mente di
Miles, con un salto un inchino e uno svolazzo. Sono il suo ultimo pezzo da
collezione! Miles con decisione soppresse la voce. Non c'era traccia di
umorismo in quel volto segnato e minaccioso.
Emettendo fumo freddo dalle narici scolpite, il comandante della base
guardò Miles con disprezzo e ringhiò: «Sono io a dirigerla, guardiamari-
na».

Una densa nebbia stava spandendosi in lontananza, sul mare brontolante,


quando Miles finalmente riuscì a trovare il suo nuovo alloggio. Le barac-
che degli ufficiali e tutto ciò che c'era intorno era avvolto in una fredda e
schiumosa oscurità. Miles decise che si trattava di una specie di presagio.
Cristo, sarebbe stato un lungo inverno.
Miles rimase piuttosto sorpreso quando il mattino successivo, presen-
tandosi nell'ufficio di Ahn a un orario che presumeva fosse quello dell'ini-
zio del turno, trovò il tenente sveglio, sobrio e in uniforme. Non che l'uo-
mo sembrasse perfettamente in forma: aveva il viso segnato e il respiro
stertoroso. Era seduto con gli occhi a mandorla fissi sullo schermo a colori
del computer. L'olovideo fece una zumata e si spostò a velocità vorticosa
sui segnali che provenivano dal telecomando che stringeva tra le mani su-
date e tremanti.
«Buon giorno, signore» disse Miles impietosito, a bassa voce, chiudendo
la porta dietro di sé senza sbatterla.
«Eh?» Ahn alzò gli occhi, e rispose al saluto automaticamente. «Chi
diavolo sei... Ah, guardiamarina?»
«Sono il suo sostituto, signore. Non le ha detto nessuno che stavo arri-
vando?»
«Oh, sì!» Ahn immediatamente arrossì.
«Molto bene, entra.» Miles, che era già entrato, fece un breve sorriso.
«Avevo intenzione di venirti a prendere alla pista d'atterraggio» aggiunse
Ahn. «Sei arrivato in anticipo. Ma vedo che sei riuscito benissimo a trova-
re la strada da solo.»
«Sono arrivato ieri, signore.»
«Oh. Saresti dovuto venire a rapporto.»
«L'ho fatto, signore.»
«Oh.» Ahn lanciò a Miles un'occhiata preoccupata. «Davvero?»
«Lei mi ha promesso che mi avrebbe fornito tutti i dati tecnici stamattina
nel suo ufficio, signore» aggiunse Miles, approfittando dell'opportunità.
«Ah» disse Ahn socchiudendo gli occhi. «Bene.» Lo sguardo preoccupa-
to lentamente svanì. «Bene...» Ahn si strofinò la faccia e diede un'occhiata
in giro. Limitò la sua reazione all'aspetto fisico di Miles a uno sguardo fur-
tivo, e deducendo che si fossero già scambiati le presentazioni formali il
giorno prima, si tuffò immediatamente nella descrizione delle attrezzature
disposte lungo la parete, procedendo da sinistra verso destra.
Fu una vera presentazione; tutti i computer avevano nomi femminili. A
parte la sua tendenza a parlare delle macchine come se fossero degli esseri
umani, Ahn era abbastanza coerente nelle spiegazioni relative al suo lavo-
ro, e si confondeva, piombando in un silenzio ammutolito, solo quando ac-
cidentalmente deviava dall'argomento. Miles gentilmente lo rimetteva in
carreggiata, con domande pertinenti e prendendo appunti. Dopo un confu-
so viaggio browniano per la stanza, Ahn alla fine ritrovò i dischetti di pro-
cedura del suo ufficio, fissati sotto le apparecchiature corrispondenti. Poi
preparò del caffè con una macchinetta insolita, di nome "Georgette", par-
cheggiata con discrezione in un armadio ad angolo, e infine portò Miles
sul tetto dell'edificio per mostrargli il centro di raccolta dati.
Ahn controllò l'assortimento di misuratori, i raccoglitori, e alcuni cam-
pioni piuttosto svogliatamente. Gli sforzi mattutini sembrava che gli aves-
sero fatto aumentare il mal di testa. Si appoggiò pesantemente al parapetto
a prova di corrosione che circondava la stazione automatizzata e con gli
occhi socchiusi si mise a guardare l'orizzonte. Miles lo seguì rispettosa-
mente, e intanto meditava qualche minuto su ciascuno dei punti cardinali
della bussola. O forse quell'aspetto riflessivo significava semplicemente
che stava per vomitare.
Era una mattina pallida e limpida, il sole era alto, era sorto fin dalle due
del mattino, si ricordò Miles. Erano appena trascorse le notti più brevi del-
l'anno a quella latitudine. Miles osservò con interesse, da quella rara pro-
spettiva dall'alto, la base Lazkowski e il piatto panorama circostante.
L'Isola Kyril aveva una massa a forma di uovo larga circa settanta chi-
lometri e lunga più di centosessanta, e si trovava a una distanza di più di
cinquecento chilometri dalla terraferma. Una protuberanza marrone era
l'espressione che andava bene per descrivere sia l'isola che la base. La
maggioranza degli edifici nelle vicinanze, incluse le baracche degli ufficia-
li, erano scavati nel terreno, e ricoperti dal tappeto erboso originario. Nes-
suno si era preoccupato di preparare il terreno per la coltivazione lì. L'isola
manteneva il suo equilibrio ecologico barraiarano, deturpato dall'uso e l'a-
buso. Le zolle d'erba lunghe e corpose ricoprivano le baracche delle reclute
di fanteria, che adesso erano silenziose e vuote. I solchi pieni d'acqua fan-
gosa si stendevano in lontananza verso poligoni di tiro abbandonati, per-
corsi a ostacoli e aree di esercitazione.
A sud, il mare plumbeo si gonfiava, trasformando i raggi del sole in
scintille. A nord, una linea grigia segnava il confine della tundra con una
catena di montagne vulcaniche inattive.
Miles aveva seguito il suo breve corso da ufficiale di manovre invernali
nella Scarpata Nera, una regione montana immersa nel secondo continente
barraiarano; un sacco di neve, e, a dire la verità, un terreno micidiale, ma
con un'aria secca, frizzante e stimolante. Anche quel giorno, nonostante
l'estate fosse inoltrata, l'umidità del mare gli si insinuava sotto il parka e
gli tormentava le ossa nei punti in cui c'erano i segni delle vecchie fratture.
Miles si strinse addosso il parka, senza ottenere alcun effetto.
Ahn, che era rimasto appoggiato al parapetto, diede a Miles un'occhiata
di sbieco. «Dimmi un po', guardiamarina, che relazioni ci sono tra te e quel
Vorkosigan che conosco io? Me lo sono chiesto l'altro giorno, quando ho
visto il tuo nome sull'ordine.»
«È mio padre.» rispose Miles.
«Buon dio» disse Ahn ammiccando e raddrizzandosi, poi si riappoggiò
sui gomiti in modo imbarazzato. «Buon Dio» ripeté. Si mordicchiò le lab-
bra incantato, e gli occhi gli si illuminarono di autentica curiosità. «Che ti-
po è?»
Che domanda impossibile, pensò Miles esasperato. Il conte ammiraglio
Aral Vorkosigan. Il colosso della storia di Barrayaran in questa metà del
secolo. Il conquistatore di Komarr, l'eroe della spaventosa ritirata da Esco-
bar. Per sedici anni era stato il Signore Reggente di Barrayar, durante il
turbolento governo di minoranza dell'Imperatore Gregorio; per quattro an-
ni era stato il fido Primo Ministro dell'Imperatore. Distruttore del preten-
dente al trono, artefice della vittoria decisiva della Terza Guerra Cetagan-
da, l'incrollabile domatore dei sanguinosi affari politici interni degli ultimi
vent'anni. Ecco chi era Vorkosigan.
L'ho visto ridere pieno di gioia, sul molo, guardava il Vorkosigan Surle-
au e gridava ordini; era la mattina in cui navigai per la prima volta, con-
ducendo da solo la barca. L'ho visto piangere fino a che non gli colava il
naso, molto più ubriaco di quanto fossi tu ieri, Ahn, la notte in cui rice-
vemmo la notizia che il maggiore Duvallier era stato giustiziato per spio-
naggio. L'ho visto infuriarsi, diventare rosso mattone a tal punto da farci
temere per il suo cuore, quando arrivarono notizie dettagliate delle idiozie
che avevano provocato le ultime rivolte del solstizio. L'ho visto vagare a
palazzo Vorkosigan all'alba, in mutande, con la voce ancora impastata dal
sonno e punzecchiare mia madre addormentata perché lo aiutasse a trova-
re due calzini uguali. Non è possibile paragonarlo a nulla, Ahn. Lui è uni-
co.
«Si preoccupa per Barrayar» disse alla fine Miles ad alta voce, quando il
silenzio si fece imbarazzante. «Lui... ha una decisione difficile da prende-
re.» E, oh certo, dimenticavo, il suo unico figlio è un deforme mutante. C'è
anche questo da dire.
«Penso di sì» disse Ahn sospirando con un tono compassionevole, o for-
se era solo per la nausea.
Miles decise che poteva tollerare la commiserazione di Ahn. Non gli
sembrava che ci fosse alcuna traccia di pietà condiscendente, né, strana-
mente, della più comune ripugnanza. È perché sono il suo sostituto, pensò
Miles. Avrei potuto avere due teste e lui sarebbe stato ugualmente felicis-
simo di conoscermi.
«E tu, stai seguendo le orme di tuo padre?» disse Ahn serenamente. Poi,
un po' dubbioso, si guardò intorno e disse «Qui?»
«Sono un militare» disse Miles irritato. «E presto servizio, almeno ci
provo, ovunque mi mandino. L'accordo è questo.»
Ahn scrollò le spalle perplesso, non si capiva se la sua reazione fosse
stata causata da Miles o dal ghiribizzo del Servizio di spedirlo nell'Isola
Kyril. «Bene» disse sollevandosi dal parapetto con un grugnito «Nessun
preavviso di wah-wah, per oggi.»
«Nessun preavviso di che cosa?»
Ahn sbadigliò, e registrò una lista di cifre - dedotte dal nulla, per quello
che poteva dirne Miles - nel pannello che rappresentava, ora per ora, le
previsioni del tempo del giorno. «Del wah-wah. Non ti hanno detto nulla
del wah-wah?»
«No...»
«Era la prima cosa che avrebbero dovuto dirti. È maledettamente perico-
loso, il wah-wah.»
Miles cominciò a chiedersi se per caso Ahn non lo stesse sfottendo. Si
era reso conto che le prese in giro erano una forma piuttosto sottile di vit-
timizzazione, che finiva per penetrare anche le difese della classe sociale.
Un'onesta bastonata, al contrario, avrebbe procurato solo un dolore fisico.
Ahn si sporse dal parapetto per indicare un punto. «Hai notato tutte quel-
le corde che ci sono tra una porta e l'altra degli edifici? Servono per quan-
do arriva il wah-wah. Ci si tiene stretti per non volare via. Se perdi la pre-
sa, non allungare le braccia per cercare di fermarti. Ho visto molti uomini
spezzarsi il polso in questo modo, appallottolarsi e rotolare via.»
«Che diavolo è il wah-wah?»
«Un vento forte e improvviso. L'ho visto alzarsi improvvisamente, da
una calma mortale a centosessanta chilometri orari, e procurare un abbas-
samento di temperatura da sedici gradi sopra lo zero a trenta sotto lo zero.
In soli sette minuti. Può durare da dieci minuti a due giorni. Quasi sempre
arriva qui da nord-ovest, se ci sono le condizioni giuste. La stazione costie-
ra ci dà un preavviso di circa venti minuti. Noi facciamo suonare una sire-
na. Ciò vuol dire che non devi mai trovarti senza il tuo equipaggiamento
pesante, o a più di quindici minuti da un rifugio. Ci sono rifugi lungo tutti i
campi di esercitazione qua intorno.» Ahn fece un cenno verso l'esterno.
Sembrava piuttosto serio e convinto. «Quando senti la sirena corri come un
razzo a metterti al riparo. Data la tua statura, se dovessi essere sollevato e
finire in mare, non ti ritroverebbero mai più.»
«Va bene» disse Miles, pensando tra sé e sé di andare a controllare alla
prima occasione i fatti che gli aveva raccontato nelle registrazioni meteo-
rologiche della base. Si sporse per dare un'occhiata al quadro di riferimen-
to di Ahn. «Da che cosa ha dedotto tutti i numeri che ha appena inserito
lì?»
Ahn sorpreso fissò il quadro di riferimento. «Be'... sono i numeri giusti.»
«Non stavo discutendo della loro accuratezza» disse Miles con pazienza.
«Voglio sapere come li ha ottenuti. Così posso farlo io domani mattina,
fintanto che lei è ancora qui a istruirmi.»
Ahn sollevò la mano libera e fece un gesto di frustrazione. «Be'...»
«Non se li sarà inventati, spero?» disse Miles sospettoso.
«No!» rispose Ahn. «Non ci ho mai pensato, ma... credo che dipenda
dall'odore che ha la giornata.» A dimostrazione inalò a fondo.
Miles arricciò il naso e sniffò per fare una prova. Freddo, mare salato,
spiaggia, melma, umidità e muffa. Circuiti caldi negli strumenti che gira-
vano e lampeggiavano accanto a lui. Ma non riusciva a trovare nelle in-
formazioni che arrivavano alle sue narici la temperatura principale, la
pressione barometrica e la pressione relativa a quello specifico momento,
senza contare quella delle diciotto ore successive. Scosse con il pollice l'at-
trezzatura meteorologica. «Questo apparecchio può duplicare la misura-
zione olfattiva, o qualsiasi cosa sia quella di cui si sta occupando?»
Ahn sembrava sinceramente imbarazzato, come se il suo sistema inter-
no, qualsiasi cosa fosse, fosse stato intralciato dall'improvvisa consapevo-
lezza della sua esistenza. «Mi dispiace, guardiamarina Vorkosigan. Ab-
biamo le proiezioni standard computerizzate, naturalmente, ma se devo
dirti la verità non le uso da anni. Non sono abbastanza precise.»
Miles fissò Ahn, e giunse a una terrificante conclusione. Ahn non stava
mentendo, o scherzando, o inventando. Erano i suoi quindici anni di espe-
rienza, diventati subliminali, che adempivano a quelle delicate funzioni.
Un bagaglio di esperienza che lui non poteva duplicare. Nemmeno se vo-
lessi, ammise con se stesso.
Più tardi, mentre si giustificava, dicendo senza peraltro mentire che si
stava orientando sui sistemi, Miles di nascosto controllò le sconvolgenti
affermazioni di Ahn negli archivi meteorologici della base. Ahn non aveva
raccontato delle balle sul wah-wah. E peggio ancora non aveva raccontato
delle balle neppure riguardo le proiezioni computerizzate. Il sistema auto-
matizzato produceva previsioni locali con una accuratezza dell'86%, che
scivolavano al 73% nelle settimane di previsione a lungo raggio. Ahn e il
suo magico naso raggiungevano una precisione del 96%, che scendeva al
94% per quelle settimanali. Quando Ahn partirà, quest'isola andrà incon-
tro a una perdita di precisione nelle previsioni che va dal 10% al 21%.
Non potranno fare a meno di accorgersene.
Essere Ufficiale Meteorologico alla base Lazkowski era chiaramente una
posizione di maggiore responsabilità di quella che Miles aveva inizialmen-
te creduto. Lì il tempo poteva avere effetti mortali.
E quest'uomo ha intenzione di lasciarmi da solo su quest'isola con sei-
mila uomini armati, dicendomi di andare in giro a sniffare per capire se
arriva il wah-wah?

Il quinto giorno, quando Miles aveva ormai deciso che la sua prima im-
pressione era stata troppo dura, Ahn ebbe una ricaduta. Miles aspettò per
un'ora che Ahn e il suo naso si facessero vedere all'ufficio meteorologico,
per cominciare le mansioni della giornata. Alla fine tirò fuori le letture
substandardizzate del sistema computerizzato, le inserì lo stesso e partì alla
ricerca di Ahn.
Alla fine, lo scovò ancora nella cuccetta del suo alloggio nelle baracche
degli ufficiali, che russava instupidito dall'alcol, con addosso un odore di
urina... o brandy fruttato? Miles scosse le spalle. Provò a scuoterlo, a sol-
lecitarlo urlandogli nelle orecchie, ma non riuscì a svegliarlo. L'unico ri-
sultato fu che si rintanò ancora di più tra le coperte e il suo dannoso mia-
sma, ansimando. Miles, con rimpianto, mise da parte la violenza che gli
suggeriva quella vista, e si preparò ad andare avanti da solo. Presto sarebbe
rimasto da solo, comunque.
Si diresse zoppicando al deposito motori. Il giorno prima Ahn l'aveva
portato in un giro di ricognizione per la manutenzione periodica delle cin-
que stazioni meteorologiche comandate a distanza, che si trovavano vicino
alla base. La sesta, piuttosto fuori mano, era stata programmata per quel
giorno. I viaggi di routine per l'Isola Kyril si realizzavano da terra, con un
veicolo chiamato gatto-scatto, che era risultato divertente da guidare quasi
quanto una slitta antigravitazionale. I gatti-scatti aderivano al terreno come
lacrime iridescenti, sradicando la tundra, ma erano garantiti contro i venti
wah-wah, perché non volavano via. Il personale della base, così gli aveva-
no lasciato intendere, era stufo di andare a raccogliere nel mare gelato gli
slittini antigravitazionali dispersi.
Il deposito motori era un altro bunker mezzo sotterrato, simile alla mag-
gior parte degli altri edifici della base Lazkowski, solo un po' più grande.
Miles buttò giù dal letto un caporale di nome Olney, che il giorno prece-
dente aveva registrato l'uscita sua e di Ahn. Anche il tecnico che lo aiuta-
va, e che guidava il gatto-scatto dal deposito sotterraneo all'entrata, aveva
un aspetto familiare. Era alto, indossava una tuta nera da lavoro, e aveva i
capelli neri. La descrizione valeva per l'ottanta per cento degli uomini che
si trovavano alla base, ma fu quando parlò che il suo forte accento colpì
Miles. Era uno dei due uomini che avevano fatto i commenti a bassa voce
che aveva potuto origliare sulla pista d'atterraggio della navicella. Miles si
costrinse a non reagire.
Si mise a controllare con attenzione la lista di forniture in dotazione al
veicolo prima di mettere la firma di ricevuta, come Ahn gli aveva detto di
fare. Ogni gatto-scatto doveva avere con sé, tutte le volte, il kit completo
di sopravvivenza per il freddo. Il caporale Olney lo guardava con vago di-
sprezzo, mentre armeggiava per controllare che ci fosse tutto. D'accordo,
sono lento, pensò Miles con irritazione. Un novellino inesperto. Ma è l'u-
nico modo che ho per diventare meno novellino e meno inesperto. Passo
dopo passo. Riuscì con uno sforzo a contenere il proprio disagio. Prece-
denti esperienze dolorose, gli avevano insegnato che era molto più perico-
loso esprimere i propri pensieri. Concentrati sul tuo lavoro, non sul male-
detto pubblico. Hai sempre avuto un pubblico. E forse l'avrai sempre...
Miles stese la leggera carta topografica sul gatto-scatto, e indicò al capo-
rale l'itinerario che aveva programmato. Secondo Ahn queste decisioni
prese a tavolino servivano anche per la sicurezza. Olney annuì con un gru-
gnito, accompagnato da uno sguardo ben modulato di noia e insofferenza,
percettibile, ma non abbastanza perché Miles fosse costretto a notarlo.
Il tecnico in tuta nera, Pattas, guardando al di sopra delle spalle irregola-
ri di Miles, increspò le labbra e disse: «Oh, guardiamarina, signore». An-
cora una volta l'enfasi era vicina all'ironia. «Ha intenzione di andare alla
Stazione Nove?»
«Sì, e allora?»
«Per stare più tranquillo, sarà meglio che parcheggi il gatto-scatto, ehm,
al riparo dal vento, nel fosso che c'è proprio davanti alla stazione.» Con un
dito tozzo indicò nella mappa una zona segnata in blu. «Lo vedrà. In que-
sto modo sarà sicuro che il gatto-scatto si rimetta in moto.»
«Il gruppo di alimentazione di questi motori è regolato per lo spazio»
disse Miles. «Perché mai non dovrebbe rimettersi in moto?»
Per un attimo gli occhi di Olney si accesero, poi tornarono ad assumere
un'espressione neutra. «Certo, ma se improvvisamente ci fosse un wah-
wah, non vorrà mica che voli via!»
Sarei io a volare via per primo. «Credevo che questi veicoli fossero ab-
bastanza pesanti da impedirlo.»
«Sì, non volano proprio via, ma è risaputo che si ribaltano» mormorò
Pattas.
«Ah, va bene, grazie.»
Il caporale Olney tossì. Pattas, mentre Miles si allontanava alla guida del
veicolo, gli fece un saluto cordiale.
Il mento di Miles si mise a tremare per un vecchio tic nervoso. Fece un
respiro profondo e si sistemò i capelli, allontanandosi con il gatto-scatto
dalla base per dirigersi in aperta campagna. Premette l'acceleratore per
aumentare un po' la velocità, sbattendo contro una scura vegetazione di
felci. Quanto era durata la sua permanenza all'Accademia Imperiale, quan-
to tempo era rimasto là a dimostrare di continuo le proprie capacità a ogni
maledetto individuo in cui incappava ogni volta che faceva qualcosa? Un
anno e mezzo? Due anni? Forse il terzo anno lo aveva rovinato, era fuori
esercizio. Sarebbe stato così ogni volta che avesse assunto un nuovo inca-
rico? Forse sì, pensò con amarezza, accelerando ancora un po'. Ma sapeva
che tutto questo faceva parte del gioco, quando aveva chiesto di giocare.
La temperatura era abbastanza alta quel giorno, il pallido sole splendeva
quasi, e Miles si sentì quasi contento quando raggiunse la Stazione Sei,
sulla costa orientale dell'isola. Era un piacere per una volta starsene da so-
lo, solo lui e il suo lavoro. Senza spettatori. Con il tempo a disposizione e
la possibilità di fare le cose per bene. Lavorò con attenzione, controllando i
gruppi d'alimentazione, svuotando i campionatori, verificando se c'erano
segni di corrosione, danni o connessioni allentate nell'impianto. E quando
gli cadeva di mano un attrezzo, non c'era nessuno pronto a dirgli che era
uno spastico mutante. Svanita la tensione, Miles fece meno errori, e il tic
scomparve. Quando ebbe finito, si stiracchiò, e inalò l'aria umida, scopren-
do l'insolito piacere della solitudine. Si concesse ancora qualche minuto
per camminare lungo la spiaggia, osservando gli intricati frammenti di vita
marina portati a riva dalle onde.
Uno dei campionatori della Stazione Otto era danneggiato, e un misura-
tore d'umidità distrutto. Quando ebbe finito di rimpiazzarlo, si rese conto
che la tabella di marcia del suo itinerario era stata un po' troppo ottimistica.
Lasciò la Stazione Otto, mentre il sole scivolava in un verde crepuscolo.
Quando raggiunse la Stazione Nove, che si trovava in un'area di tundra e
affioramenti rocciosi sulla costa nord, era quasi buio.
La Stazione Dieci si trovava sulle montagne vulcaniche immerse nei
ghiacciai, Miles ne ebbe la conferma verificando sulla mappa con una
penna luminosa. Era meglio non inoltrarsi nella ricerca, finché era buio.
Avrebbe aspettato per quel breve spazio di quattro ore che lo separava dal-
l'alba. Riferì il suo cambiamento di programma, collegandosi con la base,
centosessanta chilometri a sud. L'incaricato non mostrò molto interesse.
Bene.
Visto che nessuno lo stava guardando, Miles colse al volo l'opportunità
di sperimentare quegli affascinanti dispositivi impacchettati sul retro del
gatto-scatto. Era molto meglio fare pratica in quel momento, in cui le con-
dizioni meteorologiche erano buone, piuttosto che più avanti in mezzo a
una bufera di neve. La piccola tenda gonfiabile a due posti, una volta mon-
tata, sembrò a Miles quasi sontuosa per il solitario splendore delle sue di-
mensioni. D'inverno doveva essere isolata con neve artificiale. La sistemò
sottovento rispetto al gatto-scatto, che aveva parcheggiato, come gli era
stato raccomandato, nel fosso a qualche centinaio di metri dalla stazione
meteorologica, abbarbicata su un affioramento roccioso.
Miles si rese conto che la tenda aveva un peso molto relativo, rispetto al
gatto-scatto. Gli era rimasto impresso un video che Ahn gli aveva mostrato
su un tipico wah-wah. Soprattutto l'aveva colpito il particolare di una latri-
na chimica che volava a cento chilometri all'ora. Ahn non era stato in gra-
do di dirgli se quando era stato girato il video c'era qualcuno lì dentro. Mi-
les prese la precauzione aggiuntiva di attaccare la tenda al gatto-scatto con
una catenella. Poi, soddisfatto, ci si infilò dentro.
L'equipaggiamento era di prima qualità. Appese al soffitto la stufa, la
accese, e si riscaldò al suo calore, sedendosi a gambe incrociate. Anche le
razioni erano di ottima qualità. Sopra una piastra scaldò un vassoio diviso
in comparti, stufato con verdura e riso, poi si preparò una decente bevanda
alla frutta con la polverina solubile. Dopo avere mangiato e messo via gli
avanzi, si sistemò su un comodo cuscino imbottito e infilò nel lettore un li-
bro su dischetto, un romanzo betano di maniera che gli aveva consigliato
la contessa, e che non aveva nulla a che fare con Barrayar, con le manovre
militari, le mutazioni, la politica, o le condizioni meteorologiche. Non
guardò nemmeno che ore erano quando si addormentò.

Si svegliò di botto, sbattendo le palpebre, in una profonda oscurità rotta


soltanto dal debole bagliore prodotto della stufa. Aveva la sensazione di
avere dormito molto, anche se dalla sezione trasparente della tenda gonfia-
bile si intravedeva un'oscurità ancora fitta. Una sorta di panico irrazionale
gli attanagliò la gola. Maledizione, non aveva alcuna importanza se aveva
dormito molto, non stava rischiando di arrivare tardi a un esame. Lanciò
un'occhiata alle lancette luminose del suo orologio da polso.
Avrebbe dovuto già essere giorno.
Le pareti flessibili della tenda si stavano incurvando all'interno. Non era
rimasto più nemmeno un terzo del volume iniziale, e il pavimento si era
tutto raggrinzito. Miles premette un dito contro la sottile e fredda plastica.
Cedette lentamente, come burro fuso, trattenendone l'impronta. Ma che
diavolo...?
La testa gli pulsava e sentiva la gola contratta, l'aria era soffocante e u-
mida.
Era come... come una diminuzione d'ossigeno e un eccesso di CO2 nelle
emergenze spaziali. Lì? Era in preda a una vertigine di disorientamento
che gli diede l'impressione che il pavimento stesse oscillando.
Il pavimento stava davvero oscillando, capì indignato, stava scivolando
in basso, e gli aveva intrappolato una gamba. Si liberò convulsamente del-
la presa, lottando contro il panico indotto dal CO2, si tirò indietro, cercan-
do di respirare più lentamente e di pensare più velocemente.
Sono sottoterra. Affondato in qualche tipo di sabbie mobili. Anzi di fan-
ghi mobili. Erano stati quei due fottuti bastardi del deposito motori a farlo
andare lì, proprio perché gli capitasse questo? Lui c'era cascato, fino in
fondo.
Forse si trattava di fanghi non tanto mobili. Il gatto-scatto non era affon-
dato in modo visibile nel tempo che gli ci era voluto per piantare la tenda.
Altrimenti non sarebbe caduto nella trappola. Certo, era buio. Ma se fosse
rimasto sveglio...
Rilassati, si disse in preda al panico. La tundra, l'aria aperta. Si sentiva
sovrastare di dieci centimetri. O di dieci metri... rilassati! Si guardò intor-
no per cercare qualcosa che si potesse usare come sonda. Doveva esserci
un lungo tubo telescopico, tagliente come un coltello, che serviva per
campionare pezzi di ghiaccio. Ma era rimasto nel gatto-scatto. Insieme al-
l'unità comunicativa di collegamento. Dopo essersi rimesso in sesto, Miles
misurò a partire dall'angolo del pavimento due metri e mezzo di profondità
a ovest della sua attuale posizione. Era il gatto-scatto che lo stava trasci-
nando in basso. La tenda gonfiabile, da sola, sarebbe finita nel lago fango-
so mimetizzato dalla tundra. Ma se riusciva a staccare la catena, la tenda,
sarebbe risalita? Non abbastanza velocemente. Gli sembrava di avere il
petto imbottito di cotone. Doveva riuscire ad aprirsi un varco verso l'aria,
altrimenti sarebbe morto asfissiato. In una tomba che sembrava un utero.
Quando finalmente l'avrebbero ritrovato, dopo essere riusciti ad aprire
quella tomba e a tirare fuori dalla palude la tenda e il gatto-scatto, con una
pesante aerocabina... forse anche i suoi genitori sarebbero stati lì a guarda-
re il suo corpo congelato e irrigidito in quell'orribile parodia di una sacca
amniotica... rilassati.
Si alzò, e si mise a spingere contro il greve tetto. I piedi gli affondarono
nel pavimento molle, ma riuscì a estrarre uno dei sostegni interni della
tenda, che si piegò formando una curva tesa oltre ogni limite. Stava quasi
per svenire dallo sforzo, immerso in quell'aria pesante. Finalmente riuscì a
trovare l'estremità alta dell'apertura della tenda, e infilò un dito per qualche
centimetro nell'anello del gancio. Abbastanza da farci passare l'asta. Aveva
temuto che il fango si riversasse all'interno, soffocandolo in un baleno, in-
vece scivolò dentro in bolle estrusive che cadevano goccia a goccia. Il pa-
ragone che gli venne in mente era ovvio e disgustoso. Cristo, se prima ero
nella merda, ora... Spinse il sostegno verso l'alto. Ma oppose resistenza e
gli scivolò tra le mani sudate. Non erano né dieci né venti centimetri, ma
un metro, un metro e trenta e l'asticella continuava ad andare avanti senza
sosta. Si fermò, rinsaldò la presa e ricominciò a spingere. Quando sarebbe
diminuita la resistenza? Era già riuscito a raggiungere la superficie? Tirava
su e giù l'asticella, ma la melma continuava a risucchiarla. Forse un varco
appena un po' più piccolo della sua stessa altezza separava la parte superio-
re della tenda dall'aria. Respirare, morire. Quanto ancora doveva scavare là
dentro? Quanto ci metteva un buco, in mezzo a quella roba, a chiudersi?
Gli si stava oscurando la vista e non perché la luce si era abbassata. Spense
la stufetta e la infilò nella tasca frontale del suo giubbotto. Si trovò immer-
so in un'oscurità irreale che lo fece tremare d'orrore. O forse era semplice-
mente l'anidride carbonica. Ora o mai più.
D'impulso, si piegò e slacciò le chiusure degli anfibi e le fibbie della cin-
tura, poi a tentoni aprì la cerniera della tenda. Cominciò a scavare come un
cane, mentre grandi chiazze di fango scivolavano nel piccolo spazio rima-
sto nella tenda. Si infilò nell'apertura, raccolse le forze, prese fiato per u-
n'ultima volta e si spinse in alto.
Quando la testa spuntò in superficie, il petto gli pulsava e la vista era
annebbiata da macchie rosse. Aria! Sputò fango e pezzi di felce, sbatté le
palpebre cercando con poco successo di schiarirsi la vista e di aprirsi le na-
rici. Tirò fuori prima una mano, e poi l'altra, e provò a sollevarsi in posi-
zione orizzontale, appiattito come un ranocchio. Il freddo lo confuse. Riu-
sciva a percepire il fango appiccicato alle gambe, che lo paralizzava come
l'abbraccio di una strega. Puntò la punta dei piedi contro la parte superiore
della tenda, che affondò sempre di più. Lui risalì di un centimetro. Era l'ul-
timo sollevamento che poteva ottenere spingendo. Ora doveva tirare. Af-
ferrò con le mani una felce. Funzionò. Ancora. Ancora. Stava facendo
qualche piccolo progresso, con l'aria fredda che gli raschiava la gola. La
strega aumentò la presa. Lui dimenò le gambe, inutilmente, un'ultima vol-
ta. Va bene, adesso sollevati!
Le gambe scivolarono fuori dagli anfibi e dai pantaloni, tirò fuori i fian-
chi e rotolò via. Si distese a braccia e a gambe aperte, per avere il massimo
supporto dal suolo traditore, con la faccia rivolta al cielo grigio che girava
vorticosamente sopra di lui. La giacca della sua uniforme e le mutande di
lana erano tutte impregnate di fango; aveva perso un calzino termico, gli
stivali e i pantaloni.
E stava nevicando.

Lo ritrovarono molte ore dopo, accartocciato attorno alla stufetta quasi


esaurita, stipato in un vano svuotato dalle attrezzature della stazione mete-
orologica automatizzata. Aveva le orbite infossate nel viso striato di nero,
le orecchie e i piedi erano bianchi. Le sue dita violacee intorpidite spinge-
vano due fili metallici incrociati l'uno sull'altro, in un ipnotico tamburellio
del codice di emergenza del Servizio. Lo aveva fatto perché fossero raccol-
te le scariche di energia statica, nel misuratore di pressione barometrica
che c'era nella sala meteorologica della base. Se e quando qualcuno si fos-
se preoccupato di osservare i dati improvvisamente difettosi, provenienti
da quella stazione, o avesse notato lo schema di quel disturbo.
Le sue dita rimasero contratte su quel ritmo per molti minuti ancora, do-
po che lo ebbero tirato fuori dalla sua piccola scatola. Il ghiaccio che aveva
sull'uniforme si ruppe in mille pezzi, quando cercarono di raddrizzargli il
corpo. Per molto tempo non ottennero da lui neppure una parola, soltanto
un sibilo tremante. Aveva gli occhi accesi dalla febbre.
Immerso nella vasca calda dell'infermeria della base, Miles rifletteva sui
vari possibili modi di crocifiggere i due sabotatori del deposito motori. A
testa in giù. Ciondolanti da una slitta antigravitazionale a poca distanza dal
mare. O meglio ancora, impalati in una palude in mezzo a una tempesta di
neve... Ma quando riprese calore, il soldato di infermeria lo tirò fuori dalla
vasca per asciugarlo, rivisitarlo, e fargli consumare un pasto. Si calmò un
po'.
Non si era trattato di un tentativo d'omicidio. E comunque, non era una
faccenda che si sentiva costretto a mettere nelle mani di Simon Illyan, spa-
ventoso capo della Sicurezza Imperiale, e braccio sinistro del padre di Mi-
les. Certo, l'immagine degli inquietanti ufficiali della sicurezza imperiale,
che venivano a prendere quei due giocherelloni per portarli molto, molto
lontano, era deliziosa ma poco realistica. Come uccidere un micetto con un
cannone maser. In ogni modo in quale posto peggiore di quello la Sicurez-
za Imperiale poteva mai spedirli?
Avevano avuto l'intenzione di fare impantanare il suo gatto-scatto men-
tre Miles si occupava della stazione meteorologica, per metterlo nell'imba-
razzante condizione di chiamare la base affinché mandasse un'attrezzatura
pesante per tirarlo fuori. Imbarazzante, non letale. Potevano anche non a-
vere previsto, nessuno poteva prevederlo, che Miles decidesse per precau-
zione di usare la catena, che in ultima analisi l'aveva quasi ammazzato. Al
massimo si trattava di una faccenda del servizio di sicurezza, o peggio, di
normale disciplina.
Lasciò penzolare i piedi da una sponda del letto, uno della fila di letti
dell'infermeria vuota, e mise il resto del pasto sul vassoio. Il soldato di in-
fermeria avvicinandosi lanciò un'occhiata agli avanzi.
«Si sente bene, signore?»
«Bene» disse Miles imbronciato.
«Ma, oh, non ha finito il suo pasto.»
«Mi capita spesso. È sempre troppo abbondante.»
«Sì, credo che lei stia abbastanza, em...» Il soldato di infermeria inserì
un appunto sulla sua cartella, si chinò a esaminargli le orecchie, e le dita
dei piedi, toccandole con dita esperte. «Credo che non perderà nessun pez-
zo, qui, è stato fortunato.»
«Lei ha a che fare con molti casi di congelamento?» O sono solo io l'u-
nico idiota? Come avrebbe suggerito lo stato di cose attuale.
«Ah, quando arriveranno le reclute, questo posto si farà affollatissimo.
Congelamenti, polmonite, ossa rotte, contusioni, commozioni... diventano
molto frequenti quando arriva l'inverno. Soprattutto si tratta di sfortunate
reclute. Ma ci sono anche molti istruttori sfortunati che si portano dietro.»
Il soldato di infermeria si alzò, e inserì delle altre annotazioni nelle cartel-
la. «Mi dispiace ma devo dimetterla, adesso, signore.»
«Le dispiace?» Miles aggrottò la fronte in modo interrogativo.
Il soldato di infermeria si raddrizzò, assumendo l'inconsapevole postura
di chi deve trasmettere brutte notizie ufficiali. Sempre la stessa solfa: loro-
mi-hanno-detto-di-dirglielo-non-è-colpa-mia. «Lei ha l'ordine di presentar-
si nell'ufficio del comandante della base, non appena sarà stato dimesso,
signore.»
Miles prese in considerazione l'eventualità di un'immediata ricaduta. No,
era meglio chiarirsi la confusione. «Mi dica, attendente, c'è mai stato nes-
sun un altro che ha affondato un gatto-scatto?»
«Oh, certamente. Le reclute ne perdono cinque o sei a stagione. Per non
parlare degli affondamenti di minor importanza. I tecnici sono molto scoc-
ciati per questo. Il comandante ha promesso loro che la prossima volta a-
vrebbe... ehm!» All'improvviso il soldato di infermeria perse la voce.
Fantastico, pensò Miles, davvero meraviglioso. Riusciva a prevedere co-
sa sarebbe successo. E non era come non saperlo.

Miles si precipitò nel suo alloggio per cambiarsi velocemente d'abito,


sospettando che il pigiama dell'ospedale potesse risultare poco adatto al-
l'incontro che lo aspettava. Immediatamente si rese conto di avere poche
possibilità. La sua divisa nera gli sembrava un po' troppo disinvolta, e
quella verde troppo formale da indossare in un ufficio che non si trovasse
al Quartier Generale di Vorbarr Sultana. I pantaloni verdi e gli anfibi del-
l'uniforme erano ancora sul fondo della palude. E lui aveva portato con sé
solo un'uniforme per tipo; i suoi ricambi, probabilmente in viaggio, non
erano ancora arrivati.
Non si trovava nella posizione di poter chiedere qualcosa in prestito a un
vicino. Le sue uniformi venivano create su misura, appositamente per lui, a
un costo approssimativamente quattro volte superiore a quello delle uni-
formi imperiali. Parte di tale costo era dovuta allo sforzo di renderle appa-
rentemente identiche a quelle cucite a macchina, ma contemporaneamente
capaci di mascherare le stranezze del suo corpo con artifici da sartoria.
Imprecò sottovoce e si infilò nella tuta verde, completandola con stivali
alti fino al ginocchio, lucidati a specchio. Almeno, gli stivali gli evitavano
gli apparecchi ortopedici.
Generale Stani Metzov, diceva l'insegna sulla porta, Comandante della
Base. Dal loro primo sfortunato incontro, Miles aveva evitato con tutte le
sue forze il comandante della base. E non era stato difficile farlo, in com-
pagnia di Ahn, nonostante la ridotta popolazione che c'era quel mese all'I-
sola Kyril, perché Ahn evitava chiunque. Miles adesso si rammaricava di
non avere cercato di intavolare conversazione con gli altri ufficiali che in-
contrava in mensa. Rimanere isolato, anche se era per via del suo nuovo
compito, era stato un errore. In cinque giorni, anche nella conversazione
più casuale, qualcuno di sicuro gli avrebbe menzionato la vorace palude
killer dell'Isola Kyril.
Un caporale che maneggiava la consolle comunicativa in anticamera lo
introdusse nell'ufficio interno. A quel punto doveva cercare di lavorarsi a
suo favore il lato buono di Metzov, ammesso che il generale ne avesse u-
no. Aveva bisogno di alleati. Miles entrò, salutò e rimase in attesa, mentre
il generale lo guardava attraverso la scrivania, senza sorridere.
Quel giorno il generale si era vestito in modo aggressivo con la divisa
nera operativa. Per il grado che Metzov ricopriva nella gerarchia, quella
scelta stilistica di solito indicava una voluta identificazione con l'Uomo da
Combattimento. L'unica concessione ai suoi gradi consisteva nell'ordine
perfetto della divisa. Le decorazioni erano state tolte, eccetto tre modeste
mostrine, tutte ricevute per alti meriti in combattimento. Modeste fino a un
certo punto, perché, potate del circostante fogliame, saltavano all'occhio.
Mentalmente, Miles approvò quell'effetto, provando una sorta di invidia.
Metzov, il comandante da combattimento, da parte sua sembrava comple-
tamente e inconsapevolmente naturale.
Avevo una possibilità del cinquanta per cento con l'uniforme, e ho sba-
gliato, pensò rabbiosamente Miles, mentre lo sguardo di Metzov vagava
sarcasticamente su e giù, osservando l'eleganza del suo abito verde. Bene,
così le sopracciglia di Metzov indicavano che Miles gli sembrava un idiota
qualunque dei quartieri alti. Non che ce ne fossero pochi, in giro, di tipi del
genere. Miles decise di farla finita con quella ramanzina, e di tagliare corto
con l'ispezione di Metzov, aprendo forzatamente la conversazione.
«Voleva vedermi, signore?»
Metzov si appoggiò allo schienale della sedia, storcendo le labbra. «Ve-
do che ha trovato dei pantaloni, guardiamarina Vorkosigan, e, ah... anche
degli stivali da cavallerizzo. Ma lei sa, che non ci sono cavalli su quest'iso-
la.»
Nemmeno al Quartier Generale Imperiale, se è per questo. Pensò Miles
irritato. Non sono stato io a disegnare questi maledetti stivali. Suo padre
una volta aveva suggerito che sarebbero serviti agli ufficiali del suo staff
per cavalcare un cavallo a dondolo, un cavalluccio marino o un caval do-
nato. Non essendo capace di trovare una replica utile alla battuta del gene-
rale, Miles rimase chiuso in un silenzio dignitoso, con il mento sollevato e
sull'attenti. «Signore.»
Metzov si piegò in avanti, tenendo le mani allacciate, e mise da parte il
proprio pesante senso dell'umorismo, con lo sguardo sempre inflessibile.
«Lei ha perso un prezioso gatto-scatto, superaccessoriato, come risultato
per averlo lasciato parcheggiato in una zona chiaramente identificata come
Zona d'Inversione Permafrost. Non vi insegnano all'Accademia Imperiale a
leggere le mappe, oppure nel nuovo servizio vi occupate soltanto delle
pubbliche relazioni, di come si fa a prendere un tè con le signore?»
Miles richiamò la mappa alla mente. La vedeva chiaramente. «Le aree
marcate in blu erano accompagnate dalle iniziali Z.I.P. Ma questa sigla
non era definita, né in codice né in nessun altro modo.»
«Allora devo presumere che lei non ha nemmeno letto il manuale.»
Si era immerso nei manuali fin dal giorno in cui era arrivato. Procedure
dell'ufficio meteorologico, equipaggiamento tecnico specialistico... «Quale
manuale, signore?»
«Il regolamento della base Lazkowski.»
Miles cercò disperatamente di ricordare se aveva visto un manuale di
quel tipo su qualche dischetto. «Io... credo che il tenente Ahn me ne abbia
dato una copia... l'altro ieri notte.» Infatti Ahn aveva scaricato un intero
cartone pieno di dischetti vicino al letto di Miles negli alloggi degli ufficia-
li. Aveva detto che stava cominciando a preparare i bagagli e che voleva
lasciare a Miles la sua biblioteca. Miles aveva letto due dischetti meteoro-
logici prima di andare a dormire quella notte. E Ahn se ne era tornato nel
suo cubicolo per fare qualche piccolo festeggiamento preliminare. La mat-
tina successiva Miles aveva preso il gatto-scatto e...
«E lei non lo ha ancora letto?»
«No, signore.»
«Perché no?»
Sono stato ingannato, si lamentò Miles tra sé e sé. Sentiva la presenza
profondamente interessata dell'impiegato di Metzov che, non essendo stato
congedato, era rimasto accanto alla porta, davanti a lui. Trasformando
quella lavata di capo in un fatto pubblico e non più privato. Se solo avesse
letto quel maledetto manuale, quei due bastardi del deposito motori sareb-
bero stati in grado lo stesso di imbrogliarlo? Volente o nolente, stava per
essere sottoposto a un esame completo proprio per quello. «Non ho scuse,
signore.»
«Bene, guardiamarina, al capitolo tre del regolamento della base La-
zkowski, troverà una descrizione completa di tutte le zone di ghiaccio pe-
renne, insieme alle regole con cui evitarle. Potrebbe darci un'occhiata,
quando le avanzerà un po' di tempo... tra un tè e l'altro.»
«Sì, signore.» La faccia di Miles sembrava fatta di vetro. Il generale a-
vrebbe avuto tutto il diritto di scuoiarlo con un coltello elettrico, se fosse
stata una faccenda privata. L'autorità che era conferita a Miles dall'unifor-
me bilanciava solo vagamente le deformità, che lo rendevano bersaglio del
profondo pregiudizio genetico, storicamente fondato, di Barrayar. Un'umi-
liazione pubblica che indeboliva quell'autorità davanti a uomini che avreb-
be dovuto comandare si avvicinava a un atto di sabotaggio. Voluto o in-
consapevole?
Il generale si stava solo riscaldando. «Il Servizio può anche provvedere
ai rifornimenti per i nobili in esuberanza che spadroneggiano al Quartier
Generale Imperiale, ma qui nel mondo reale, dove c'è una battaglia da
combattere, non ci servono dei fannulloni. Io ho lottato per ottenere i miei
gradi. Ho visto gli incidenti che ci sono stati, prima della sua nascita, per la
disputa del potere di Vordorian...»
Io sono stato uno degli incidenti occorsi nella lotta per assumere il trono
di Vordorian, prima di nascere, pensò Miles mentre la sua irritazione au-
mentava. Il gas tossico, che aveva quasi ucciso sua madre mentre era in-
cinta, e aveva reso Miles com'era, non era altro che un veleno militare.
«... e ho combattuto la rivolta di Komarr. Quelli come lei che sono nati
negli ultimi vent'anni non hanno idea di che cosa sia combattere. Questi
lunghi periodi di pace ininterrotta indeboliscono il Servizio. Se andrà a-
vanti così ancora per un po', quando arriverà la crisi non ci sarà più nessu-
no che abbia una vera esperienza di ciò che bisogna fare al momento giu-
sto.»
Miles socchiuse leggermente gli occhi, per contenere la crescente irrita-
zione. Quindi potrebbe Sua Maestà Imperiale a procurare una guerra o-
gni cinque anni, a vantaggio dei suoi ufficiali di carriera? Era piuttosto
sbalordito da quell'idea di "vera esperienza". Forse Miles aveva ottenuto la
sua prima barca perché quell'ufficiale dall'aspetto superbo la rigettasse a
riva nell'Isola Kyril?
Metzov si stava ancora pompando, autoalimentandosi. «Nelle situazioni
di vero combattimento, l'equipaggiamento di un soldato è di vitale impor-
tanza. È ciò che fa la differenza tra la vittoria e la disfatta. Un uomo che
perde il suo equipaggiamento, ha perso la sua efficacia di soldato. Un uo-
mo disarmato in una guerra tecnologica è come una donna, cioè inutile! E
lei si è disarmato da solo!»
Miles si domandò acidamente se il generale si sarebbe trovato d'accordo
nel sostenere che in una guerra tecnologica una donna armata è come un
uomo... no, probabilmente no. Non un barraiarano della sua generazione. Il
generale smise di parlare, lasciando da parte le considerazioni di filosofia
militare e di pratica concreta. Miles ne fu sollevato.
«La punizione prevista per un uomo che fa affondare nella palude un
gatto-scatto è quella di scavare lui stesso per tirarlo fuori con le proprie
mani. Con le mani. Mi rendo conto che non è fattibile, dal momento che la
profondità a cui ha affondato il suo gatto-scatto è un nuovo record. Co-
munque lei si presenterà a rapporto alle 14 dal tenente Bonn del Genio Mi-
litare, per assisterlo nel modo che lui reputerà opportuno.»
Bene, era assolutamente giusto. E sarebbe stato anche formativo, proba-
bilmente. Miles pregò che l'incontro fosse sul punto di concludersi. Posso
andare adesso? Ma il generale rimase in silenzio, con uno sguardo torvo e
pensieroso.
«Per il danno che lei ha procurato alla stazione meteorologica» cominciò
lentamente Metzov, con gli occhi - Miles avrebbe potuto giurarlo - che
emettevano bagliori di luce rossa, poi proseguì con decisione: «Lei super-
visionerà l'ordine del giorno dei lavori di base per una settimana. Per quat-
tro ore al giorno. Oltre ai suoi compiti giornalieri. Si presenti a rapporto
dal sergente Neuve, alla Manutenzione, tutti i giorni alle cinque».
Il caporale, che era ancora davanti a Miles, fece una leggera risatina na-
sale, che Miles non seppe se interpretare come ilarità o orrore.
Ma... è ingiusto! E avrebbe perso una parte importante del tempo che
rimaneva per assorbire da Ahn l'esperienza pratica... «Il danno che ho pro-
curato alla stazione meteorologica non è stato uno stupido incidente con il
gatto-scatto, signore! Ho dovuto farlo per sopravvivere.»
Il generale Metzov lo fissò con occhi glaciali. «Lo farà per sei ore al
giorno, guardiamarina Vorkosigan.»
Miles rispose tra i denti, le parole gli uscirono come se fossero tirate con
le pinze. «Forse questo colloquio le sarebbe riuscito più gradito se mi fossi
lasciato congelare, signore?»
Scese un silenzio mortale, che cominciò a gonfiarsi come un animale in-
vestito da una macchina sotto il sole estivo.
«Può andare, guardiamarina» sibilò finalmente il generale Metzov. I
suoi occhi erano diventati due fessure scintillanti.
Miles salutò, si mise sull'attenti e si allontanò marciando dritto come un
fuso. O come un palo, o un cadavere. Il sangue gli martellava nelle orec-
chie, e gli tremava il mento. Passò davanti al caporale, che sull'attenti era
una perfetta imitazione di una statua di cera. Oltrepassò la porta, poi quella
esterna, e finalmente si ritrovò da solo nel corridoio dell'edificio ammini-
strativo.
Miles imprecò sottovoce, poi ad alta voce. Doveva davvero sforzarsi di
assumere un atteggiamento più moderato nei confronti degli ufficiali an-
ziani. Era la sua educazione alla base del problema, ne era certo. Aveva
trascorso troppo tempo a saltellare tra branchi di generali, ammiragli e uf-
ficiali superiori a palazzo Vorkosigan, a pranzo, a cena, e a tutte le ore.
Aveva trascorso troppo tempo, muto come un pesce, a rendersi invisibile
per avere il permesso di ascoltare le loro schiette argomentazioni e discus-
sioni su centinaia di diverse questioni. Aveva per loro la stessa considera-
zione che quelli probabilmente avevano l'uno per l'altro. Invece quando un
normale guardiamarina è di fronte al suo comandante, deve vedere in lui
un essere simile a un dio, non un... futuro subordinato. I nuovi guardiama-
rina erano considerati una specie subumana, comunque.
Eppure... Qual era il problema con quel Metzov? Ne aveva incontrati al-
tri come lui, di diverse tendenze politiche. Molti di loro erano soldati cor-
diali ed efficienti, finché si tenevano lontani dalla politica. Come partito, i
militari conservatori si eclissarono nel momento in cui ci fu la sanguinosa
repressione del complotto degli ufficiali responsabili della disastrosa inva-
sione di Escobar, avvenuta più di vent'anni prima. Ma sapeva che il perico-
lo di una rivoluzione capeggiata dall'estrema destra (alcuni avrebbero vo-
luto formare una giunta militare per salvare l'Imperatore dal suo stesso go-
verno), rimaneva sempre possibile per suo padre.
Così, era stato quel particolare, sottile odore di politica che emanava da
Metzov a far rizzare i capelli di Miles? Certamente no. Un politico astuto
avrebbe cercato di utilizzare Miles, non avrebbe abusato di lui. O sempli-
cemente ti sei scocciato perché ti ha caricato di qualche schifoso detta-
glio? Non bisogna essere necessariamente un estremista in politica per go-
dere sadicamente nel torturare un esponente della classe nobile. Forse Me-
tzov in passato si era fatto fregare da qualche arrogante signorotto. Ragioni
politiche, sociali, genetiche... le possibilità erano infinite.
Miles allontanò dalla sua mente le lamentele inutili, e andò zoppicando a
cambiare l'abito che indossava con la divisa nera operativa, e a cercare il
Genio Militare della base. Per il momento non c'era nulla da fare, era anda-
to più a picco del suo gatto-scatto. Doveva semplicemente cercare di evita-
re Metzov il più possibile per i successivi sei mesi. Se ci riusciva Ahn, po-
teva riuscirci anche lui.

Il tenente Bonn si preparò a cercare il gatto-scatto. Era un uomo magro


di circa trent'anni, con un viso irregolare, dalla pelle giallastra e butterata,
arrossata dal clima. Aveva occhi scuri calcolatori, mani dall'aspetto com-
petente, e un'aria sardonica che diede a Miles la sensazione di essere per-
manente, piuttosto che rivolta a lui. Bonn e Miles si trovavano sul limitare
della palude, mentre due tecnici d'ingegneria, in tute nere isolanti, erano
abbarbicati su un'aerocabina parcheggiata al sicuro su un vicino affiora-
mento roccioso. Il sole era pallido, e soffiava ininterrottamente un vento
freddo e umido.
«Provi da questa parte, signore» suggerì Miles facendo un segno, mentre
cercava di valutare angolazioni e distanze in un posto che aveva visto solo
nell'oscurità. «Credo che debba scendere almeno di due metri.»
Il tenente Bonn, gli lanciò uno sguardo privo di gioia, sollevò la sua lun-
ga sonda metallica in posizione verticale, e la spinse dentro la palude. Si
bloccò quasi immediatamente. Miles aggrottò le ciglia, confuso. Non era
possibile che il gatto-scatto fosse risalito in superficie...
Bonn, senza eccitazione, fece forza con tutto il suo peso sulla sonda e la
torse. Cominciò a penetrare.
«Che cosa hai toccato?» domandò Miles.
«Ghiaccio» grugnì Bonn. «È spesso quasi tre centimetri, qui. Sotto que-
sta lurida superficie c'è una lastra di ghiaccio, proprio come un lago gelato,
solo che qui si tratta di fango congelato.»
Miles la pestò con il piede per fare la prova. Era umida ma solida. Pro-
prio come quando lui aveva piantato la tenda.»
Bonn, guardandolo, aggiunse: «Lo spessore del ghiaccio varia con il va-
riare della temperatura. Da qualche centimetro di solidità fino in fondo. In
pieno inverno si può parcheggiare una navetta da trasporto su questa palu-
de. D'estate si assottiglia. In qualche ora può scongelarsi fino a raggiunge-
re lo stato liquido, se c'è la temperatura giusta, e viceversa».
«Io... credo di averlo trovato.»
«Spinga» gli ordinò Bonn laconicamente, e Miles afferrò la canna della
sonda e l'aiutò a penetrare. Sentiva lo scricchiolio della lastra di ghiaccio
che si frantumava. Se la temperatura fosse scesa ancora un po', la notte in
cui lui era affondato, e il fango si fosse ricongelato, sarebbe stato in grado
di spingere verso l'alto fino a liberarsi dalla copertura di ghiaccio? Scosse
la testa e si tirò su la cerniera del parka fino a coprire la tuta nera operati-
va.
«Freddo?» chiese Bonn
«No, stavo pensando.»
«Bene, la faccia diventare un'abitudine.» Bonn toccò una leva di control-
lo, e l'asta sonica della sonda sibilò con la frequenza di un mal di denti. I
dati mostravano un oggetto a forma di goccia, qualche metro più in basso.
«Eccolo.» Bonn controllò dei dati che venivano fuori. «È davvero laggiù,
eh? Io glielo avrei fatto tirare fuori scavando con un cucchiaio, guardiama-
rina, ma suppongo che sarebbe arrivato l'inverno prima che lei fosse riusci-
to a finire.» Sospirò e fissò Miles come se stesse immaginando la scena.
Anche Miles riusciva a immaginarsi la scena. «Sì, signore» rispose cauta-
mente.
Tirarono fuori la sonda. Il fango ghiacciato rendeva la superficie scivo-
losa sotto i guanti. Bonn segnò il punto e fece un cenno ai suoi tecnici. «È
qui, ragazzi!» Loro fecero un cenno di risposta, saltarono sull'aerocabina e
la misero in movimento. Bonn e Miles si tolsero di mezzo e andarono ad
arrampicarsi sulla roccia davanti alla stazione meteorologica.
L'aerocabina sibilando si sollevò in aria e si piazzò sopra la palude. Il
suo potente braccio rimorchiatore, adatto anche a imprese spaziali, si spin-
se in basso. Fango, sostanze vegetali e ghiaccio saltarono fuori sparpa-
gliandosi in ogni direzione con un ruggito. In un paio di minuti il raggio
aveva creato un cratere melmoso, con una perla luccicante sul fondo. Le
pareti del cratere cominciarono a franare verso l'interno immediatamente,
ma l'operatore dell'aerocabina ritirò il braccio meccanico e lo fece ruotare.
Il gatto-scatto emerse, liberandosi rumorosamente dalla matrice in cui era
incastrato. La flaccida tenda gonfiabile ciondolava in modo disgustoso dal-
la catena. L'aerocabina poggiò il suo carico delicatamente nell'area roccio-
sa e atterrò lì accanto.
Bonn e Miles si precipitarono a vedere quelle rovine inzaccherate. «Lei
non era dentro quella tenda gonfiabile, guardiamarina, non è vero?» disse
Bonn tastandola con un piede.
«Sì, signore, che c'ero. Aspettavo che si facesse giorno. E... mi sono ad-
dormentato.»
«Ma è uscito fuori prima che affondasse.»
«Be', no. Quando mi sono svegliato, era già sprofondata.»
Bonn sollevò un sopracciglio. «A che profondità?»
Miles mise la mano a livello del suo mento.
Bonn sembrava colpito. «Com'è riuscito a liberarsi dal risucchio?»
«Con difficoltà. E adrenalina, credo. Sono scivolato fuori dagli stivali e
dai pantaloni. Questo mi fa venire in mente una cosa, posso avere un mi-
nuto per cercare i miei stivali, signore?»
Bonn gli fece un cenno di assenso e Miles faticosamente tornò nella pa-
lude, girando intorno all'anello di letame vomitato dal braccio rimorchiato-
re, e mantenendosi a distanza di sicurezza dal cratere, che stava riempien-
dosi d'acqua. Trovò uno stivale tutto coperto di fango, ma l'altro non c'era.
Doveva prenderlo, nell'eventualità che un giorno gli venisse amputata una
gamba? Probabilmente sarebbe stata la gamba sbagliata. Sospirò e risalì da
Bonn.
Bonn guardò corrucciato lo stivale rovinato che pendeva dalle mani di
Miles. «Lei poteva rimanere ucciso» disse con tono di seria consapevolez-
za.
«Per tre volte. Spiaccicato nella tenda gonfiabile, intrappolato nella pa-
lude, o congelato mentre aspettavo i soccorsi.»
Bonn gli lanciò uno sguardo penetrante.
«Già.» Poi si allontanò dalla tenda sgonfia, arrabbiato, come alla ricerca
di una visuale più estesa. Miles lo seguì. Quando furono abbastanza lonta-
ni da non essere sentiti dai tecnici, Bonn si fermò e scrutò la palude. Poi
osservò con noncuranza: «Ho sentito dire... non ufficialmente, che un certo
meccanico, di nome Pattas, è andato a vantarsi con un suo amico di essere
stato lui a metterla in questo pasticcio. E che lei era addirittura troppo stu-
pido per capire che le cose erano andate così. Quella vanteria poteva anche
non avere un esito... troppo felice, se lei fosse rimasto ucciso».
«Se fossi morto, non avrebbe avuto nessuna importanza, che lui se ne
vantasse oppure no» disse Miles alzando le spalle. «Quello che sarebbe
sfuggito al Servizio Investigativo, posso garantire che sarebbe stato sco-
perto dall'indagine della Sicurezza Imperiale.»
«Lei allora sa di essere stato incastrato?» disse Bonn osservando l'oriz-
zonte.
«Sì.»
«Allora, mi sorprende che non abbia chiamato qui la Sicurezza Imperia-
le.»
«Eh? Ci ho pensato, signore.»
Lo sguardo di Bonn si spostò su Miles, come se stesse facendo l'inventa-
rio delle sue disgustose deformità. «Non mi tornano i conti, Vorkosigan.
Perché l'hanno lasciata entrare nell'Esercito?»
«Privilegi nobiliari.»
«Detto in una parola.»
«Ma allora perché si trova qui? I privilegi nobiliari portano direttamente
al Quartier Generale.»
«Vorbarr Sultana è deliziosa in questo periodo dell'anno» disse Miles
convenendone. Chissà con che cosa si stava trastullando suo cugino Ivan,
proprio in quel momento. «Ma io voglio entrare nel servizio navale.»
«E non può fare in modo di entrarci?» domandò Bonn con scetticismo.
«Mi è stato detto di guadagnarmelo. È per questo che mi trovo qui. Per
dimostrare se sono in grado di occuparmi del servizio... oppure no. Chia-
mare qui una muta di lupi della Sicurezza Imperiale, a una settimana dal
mio arrivo, per mettere a soqquadro la base e chiunque si trovi dentro alla
ricerca di cospiratori di assassinio - mentre io credo che non ce ne siano -
non mi avrebbe fatto avanzare verso la mia meta. Non importa quanto a-
vrebbe potuto essere divertente.» Accuse poco chiare, la sua parola contro
quella degli altri due. Anche se Miles avesse spinto avanti la cosa fino a
una indagine formale, il putiferio gli avrebbe fatto più male, nel tempo, dei
suoi due torturatori. No, la vendetta non valeva il Prince Serge.
«La squadra motori fa parte del Genio Militare. Se la Sicurezza Imperia-
le l'avesse attaccata, avrebbe attaccato anche me.» Gli occhi castani di
Bonn scintillavano.
«Lei può attaccare chi preferisce, signore. Ma se ha dei modi non uffi-
ciali di ricevere informazioni, deve avere anche dei modi non ufficiali per
darle. E comunque, lei ha solo la mia parola su ciò che è accaduto.»
Miles soppesò il suo unico stivale inutilizzabile, e lo gettò di nuovo nella
palude.
Bonn guardò assorto la traiettoria arcuata e gli schizzi di acqua che sol-
levò. «La parola di un aristocratico?»
«Non significa nulla in questi tempi degenerati» disse Miles, scoprendo i
denti in una specie di sorriso. «Lo chieda a chiunque.»
«Uhm.» Bonn scosse la testa, e si avviò verso l'aerocabina.

La mattina successiva, Miles si presentò nell'hangar della manutenzione


per la seconda fase del lavoro di recupero del gatto-scatto, che consisteva
nel pulire tutte le attrezzature incrostate di fango. Il sole era brillante quel
giorno, ed era già sorto da ore, ma il corpo di Miles sapeva che erano solo
le cinque del mattino.
Un'ora a bagno nella vasca l'avrebbe riscaldato, l'avrebbe fatto sentire
meglio, e l'avrebbe fatto entrare nel ritmo delle cose.
Alle sei e mezza arrivò l'impassibile tenente Bonn, e consegnò a Miles
due aiutanti.
«Che piacere, caporale Olney, tecnico Pattas. Ci si rivede» disse Miles
con un sorriso acido. I due si scambiarono un'occhiata di disagio. Miles
mantenne perfettamente il suo contegno.
Poi costrinse tutti, a cominciare da se stesso, a muoversi velocemente.
La conversazione si limitò automaticamente a brevi e caute osservazioni
tecniche. Quando Miles dovette smettere di lavorare per recarsi a rapporto
dal tenente Ahn, il gatto-scatto e la maggior parte dei dispositivi erano ri-
tornati in condizioni anche migliori di quelle in cui Miles li aveva ricevuti.
Augurò ai suoi due aiutanti, che a quel punto si rodevano nell'incertezza,
un gioioso buongiorno. Be', se non lo avevano ancora capito, erano senza
speranze. Miles si domandò amaramente come mai gli riuscisse sempre
meglio stabilire un rapporto con persone intelligenti come Bonn. Cecil a-
veva ragione, se Miles non riusciva a capire come bisognava comandare
gli ottusi, non sarebbe mai stato un ufficiale del Servizio. Non a Campo
Permafrost, almeno.

Il giorno dopo, il terzo dei suoi sette giorni di punizione, Miles si pre-
sentò al sergente Neuve. Il sergente, dal canto suo, si presentò a Miles con
un gatto-scatto completamente equipaggiato, un dischetto del relativo ma-
nuale d'equipaggiamento, e un programma per fare il drenaggio e le opera-
zioni di manutenzione delle fogne della base Lazowski. Si trattava, eviden-
temente, di un'altra esperienza formativa. Miles si domandò se non fosse
stato il generale Metzov in persona a scegliere quel compito. Era propenso
a credere di sì.
La cosa migliore era che aveva di nuovo con sé i suoi due aiutanti. Quel
particolare compito di ingegneria civile sembrava non essere mai capitato
prima a Olney e Pattas, che così non avevano nessun margine di conoscen-
za superiore con cui fregare Miles. Anche loro dovevano prima fermarsi e
leggere il manuale. Miles sgobbò sulle procedure e diresse le operazioni
con un'allegria che sconfinò nel maniacale, man mano che i suoi aiutanti si
facevano più depressi.
Dopo tutto, c'era un certo fascino nelle attrezzature di drenaggio e puli-
zia. E anche di eccitazione. Lavare le tubature con l'alta pressione produ-
ceva effetti sorprendenti. C'erano delle sostanze chimiche, che avevano al-
cune proprietà belliche, come per esempio quella di dissolvere qualsiasi
cosa istantaneamente, compresa la carne umana. Nei successivi tre giorni,
Miles imparò più cose sulle infrastrutture della base Lazowski, di quanto
avrebbe mai immaginato di voler sapere. Aveva anche calcolato il punto in
cui una carica ben posizionata, poteva far crollare l'intero sistema nel caso
in cui avesse mai deciso di volere distruggere il luogo.
Il sesto giorno, Miles e la sua squadra furono mandati a pulire una fogna
intasata, che si trovava vicino ai campi di esercitazione delle reclute. Era
facile da localizzare. Uno scroscio d'acqua argentata lambiva la carreggiata
sopraelevata da un lato, dall'altro emergeva solo un piccolo ruscello che
strisciava verso il fondo di un profondo canale di scolo. Miles prese il lun-
go tubo telescopico dal retro del gatto-scatto e sondò la superficie opaca
dell'acqua. Sembrava che non ci fosse nulla che ostacolasse il flusso della
fogna. Qualunque cosa fosse, doveva essersi incastrata dalla parte opposta.
Che contentezza. Passò il tubo a Pattas, si diresse dall'altro lato della stra-
da, e fissò il fosso. Notò che la fogna aveva un diametro di circa mezzo
metro. «Passami una lampada» disse a Olney.
Si tolse il parka, lo lanciò nel gatto-scatto e scese nel canale. Puntò la lu-
ce nell'apertura. Evidentemente la fogna curvava leggermente; non si ve-
deva un bel niente. Sospirò, riflettendo sulla relativa larghezza delle spalle
di Olney, di Pattas e delle sue.
Poteva esserci qualcosa di più lontano dal servizio navale di quell'incari-
co? Le spedizioni speleologiche alle Montagne Dendarii a cui aveva parte-
cipato in passato erano la cosa che più si avvicinasse al compito che in
quel momento stava svolgendo. Acqua e terra contro fuoco e aria. Sem-
brava che avesse accumulato un surplus di yin, e lo yang che stava arri-
vando a controbilanciarlo avrebbe fatto meglio a sfolgorare.
Afferrò saldamente la torcia, si mise carponi, e si calò nel tubo di scari-
co.
L'acqua gelata gli inzuppò i pantaloni della divisa nera fino alle ginoc-
chia. L'effetto fu di intirizzimento. L'acqua gli si infilò dentro uno dei
guanti e gli diede la sensazione di una lama di coltello intorno al polso.
Miles si mise a riflettere su Olney e Pattas. Negli ultimi giorni, tra di lo-
ro si era sviluppato un rapporto di lavoro distaccato, moderatamente effi-
ciente, basato - Miles non si faceva illusioni a proposito - su un timore di
Dio instillato nei due uomini dal buon angelo di Miles, il tenente Bonn.
Come faceva Bonn a esercitare quella tranquilla autorità? Doveva riuscire
a capirlo. Tanto per cominciare, Bonn era bravo nel suo lavoro, sì, ma poi?
Miles strisciò lungo la curva, illuminò con la torcia la melma, e indie-
treggiò inorridito, bestemmiando. Si fermò un attimo per riprendere fiato
ed esaminò ciò che ostruiva il canale più da vicino, poi tornò indietro.
Quando arrivò nel fondo del canale di scarico si rimise in piedi, raddriz-
zando la spina dorsale e facendola scricchiolare. Il caporale Olney si affac-
ciò dal parapetto della strada. «Che cosa c'è lì dentro, guardiamarina?»
Miles sogghignò, cercando ancora di riprendere fiato. «Un paio di stiva-
li.»
«Nient'altro?» chiese Olney.
«Il proprietario li indossa ancora.»

Miles chiamò l'ufficiale medico della base con l'unità comunicativa del
gatto-scatto, richiedendo urgentemente la sua presenza con un kit di pronto
soccorso, una sacca per il cadavere, e un'autoambulanza. Poi Miles e la sua
squadra bloccarono l'estremità alta del canale di scolo, con un cartello
stradale, preso in prestito da un campo di esercitazione abbandonato poco
lontano da lì. Visto che era già bagnato e infreddolito, e a quel punto non
faceva differenza, Miles ritornò dentro la fogna per attaccare una corda al-
la caviglia dello sconosciuto possessore degli stivali. Quando riemerse, il
medico e il soldato di infermeria erano arrivati.
Il medico, un uomo grosso e calvo, scrutò dubbioso la tubatura.
«Che cosa riesce a vedere lì dentro, guardiamarina? Che cosa è succes-
so?»
«Non vedo nient'altro che le gambe, signore» riferì Miles. «È rimasto
incastrato. Suppongo che il sudiciume della fogna l'abbia sommerso. Biso-
gnerà capire che cosa l'ha ucciso.»
«Che diavolo ci è andato a fare lì dentro?» Disse il medico grattandosi lo
scalpo lentigginoso.
Miles allargò le braccia. «Sembra un modo insolito per suicidarsi. Lento
e incerto, un po' come affogarsi.»
Il medico sollevò un sopracciglio, annuendo. Miles e il medico dovettero
usare tutte le proprie forze, aiutati da Olney, Pattas e dal soldato di infer-
meria prima che il corpo incastrato nella fogna cominciasse a spostarsi.
«È infilzato» osservò il soldato di infermeria con un grugnito. Alla fine
il corpo saltò fuori insieme a un getto d'acqua sporca. Pattas e Olney rima-
sero a guardarlo da lontano; Miles se ne stava incollato dietro al medico. Il
cadavere, che aveva indosso la divisa nera operativa inzuppata, era blua-
stro e cereo. Le mostrine e il contenuto delle sue tasche lo identificarono
come un soldato semplice dell'Approvvigionamento. Il corpo non presen-
tava alcun tipo di ferita, eccetto le contusioni sulle spalle e le mani scorti-
cate.
Il medico inserì nel suo registratore i dati preliminari. Nessuna frattura,
nessun nervo distrutto. Ipotesi preliminare, morte per annegamento o per
ipotermia o per ambedue, nelle ultime dodici ore. Poi spense il registratore
e aggiunse: «Potrò dirlo con certezza solo quando lo porteremo in inferme-
ria».
«Capitano spesso questo genere di cose da queste parti?» domandò Mi-
les tranquillamente.
Il medico gli lanciò un'occhiata arcigna. «Ogni anno qualche idiota fini-
sce sul tavolo dell'obitorio. Cos'altro puoi aspettarti, quando metti insieme
su un'isola cinquemila ragazzini, tra i diciotto e i vent'anni, e gli dici di
giocare a fare la guerra? Devo ammettere che questo qui sembra avere
scoperto un metodo del tutto nuovo di finire all'obitorio. Suppongo che lei
non abbia mai visto niente del genere.»
«Lei crede che si sia ucciso, quindi?» In effetti era un'ipotesi un po' in-
verosimile che qualcuno prima l'avesse ucciso e poi lo avesse gettato lì
dentro.
Il medico si diresse verso la fogna, si accovacciò e la osservò con atten-
zione. «Così sembrerebbe. Ah, le dispiacerebbe dare ancora un'occhiata lì
dentro, per scrupolo, guardiamarina?»
«Nient'affatto, signore.» Miles si augurò che fosse l'ultima volta. Non
avrebbe mai immaginato che pulire una fogna potesse diventare tanto...
emozionante. Fece tutto il percorso sotto la strada, che portava fino al bor-
do gocciolante, controllando ogni centimetro, ma trovò soltanto la torcia
del morto. Quindi, il soldato semplice era evidentemente entrato nel tubo
per un motivo preciso. Con uno scopo. Che scopo? Per quale ragione era
andato carponi nella fogna nel bel mezzo della notte e di una forte tempe-
sta di neve? Miles uscì e consegnò la torcia al medico.
Poi aiutò il soldato di infermeria e il medico a impacchettare e caricare il
corpo, e infine fece riportare al suo posto da Olney e Pattas il cartello che
aveva bloccato il passaggio. L'acqua marrone ricominciò a scrosciare rug-
gendo dal fondo della fogna fino al canale di scolo. Il medico si fermò in-
sieme a Miles, appoggiandosi al parapetto per osservare il livello dell'ac-
qua che si abbassava nel piccolo lago.
«Pensa che potrebbe essercene un altro sul fondo?» domandò Miles
morbosamente.
«Quest'uomo era l'unico di cui era stata segnalata la scomparsa, nel rap-
porto del mattino» rispose il medico «quindi, probabilmente no». Ma non
dava l'impressione di essere pronto a scommetterci.
L'unica cosa che saltò fuori, quando il livello dell'acqua scese, fu il par-
ka bagnato fradicio del soldato semplice. Era chiaro che lo aveva lanciato
sul parapetto della strada, prima di entrare nella fogna, e che da lì era cadu-
to o volato in acqua. Il medico lo portò via con sé.
«Ha avuto molto sangue freddo» osservò Pattas, quando Miles si allon-
tanò dal retro dell'autoambulanza e il medico e il soldato di infermeria se
ne andarono.
Pattas non era molto più vecchio di Miles. «Le è mai capitato di traspor-
tare un corpo?»
«No. E a lei?»
«Sì.»
«Dove?»
Miles esitò. Gli avvenimenti di tre anni prima gli risalirono alla memo-
ria. I pochi mesi in cui accidentalmente era stato coinvolto in una battaglia
disperata, lontano da casa, non erano un segreto da raccontare, e nemmeno
da accennare, in quelle circostanze. Ma di sicuro gli avevano insegnato la
differenza tra la "simulazione" e la "verità", tra la guerra e il giocare alla
guerra, e che la morte ha vettori più sottili di un contatto diretto. «Un po' di
tempo fa» disse Miles lentamente. «Un paio di volte.»
Pattas scrollò le spalle e si voltò. «Bene» aggiunse in modo riluttante
«Almeno lei non ha paura di sporcarsi le mani, signore.»
Miles corrugò la fronte, perplesso. No. Non è questo che mi spaventa.
Miles segnò nel suo rapporto che la fogna era stata "sgomberata", e ri-
portò il gatto-scatto, l'attrezzatura e un Olney e un Pattas piuttosto sotto-
messi nel reparto Manutenzione del sergente Neuve, poi si diresse alle ba-
racche degli ufficiali. In tutta la sua vita non aveva mai desiderato tanto di
fare una doccia.

Stava attraversando, tutto tremante, il corridoio per recarsi al proprio al-


loggio, quando un altro ufficiale fece capolino da una porta. «Ah, guar-
diamarina Vorkosigan?»
«Sì?»
«È arrivata una video chiamata per lei poco fa, ho codificato il numero.»
«Una chiamata?» Miles esitò. «Da dove?»
«Da Vorbarr Sultana.»
Miles si sentì raggelare lo stomaco. Che fosse successo qualcosa a casa?
«Grazie.» Invertì la direzione, e attraversò di corsa il corridoio per rag-
giungere la cabina in cui si trovava la consolle video che era a disposizione
degli ufficiali del suo grado.
Si lasciò cadere apaticamente sulla sedia, e visionò il messaggio. Non
era un numero che conosceva. Lo inserì insieme al suo codice di addebi-
tamento e attese. Trillò diverse volte, poi il video si accese. La bella faccia
di suo cugino Ivan si materializzò sullo schermo e gli sorrise.
«Ah, Miles. Sei tu.»
«Ivan! Dove diavolo sei?»
«Oh, a casa mia. E non intendo casa di mia madre. Ho pensato che ti sa-
rebbe piaciuto vedere il mio nuovo appartamento.»
Miles ebbe la vaga disorientata sensazione di essere in qualche modo en-
trato in comunicazione con un universo parallelo, o con piano astrale alter-
nativo. Sì, Vorbarr Sultana. Aveva vissuto nella capitale anche lui, in una
precedente incarnazione. Un miliardo di anni prima.
Ivan spostò l'immagine video, dirigendola in giro, vertiginosamente. «È
completamente arredato. Sono subentrato nel contratto d'affitto di un capi-
tano che è stato trasferito a Komarr. Un vero affare. Mi ci sono trasferito
ieri. Riesci a vedere il balcone?»
Miles vide il balcone, che il sole del tardo pomeriggio bagnava di un co-
lore caldo e mielato. All'orizzonte Vorbarr Sultana, immersa nella foschia
estiva, sembrava una città fiabesca. La ringhiera era piena di fiori scarlatti,
talmente rossi da ferirgli gli occhi. Miles si sentiva come se fosse sul punto
di sbavare nel taschino della camicia, o di scoppiare a piangere.
«Bei fiori» disse con voce strozzata.
Sì, li ha portati la mia ragazza.»
«La tua ragazza?» Ah certo, gli esseri umani si suddividevano in due
sessi, una volta. Uno molto più profumato dell'altro. Molto di più. «Qua-
le?»
«Tatya.»
«La conosco?» Miles cercò di ricordare.
«No, è una nuova.»
Ivan smise di spostare la ripresa video e riapparve sullo schermo. I sensi
esacerbati di Miles si ricomposero leggermente. «Allora, com'è il tempo
lì?» Ivan gli lanciò un'occhiata penetrante. «Sei bagnato? Che cosa stavi
facendo?»
«Pronto soccorso... all'impianto idraulico» rispose Miles dopo una pau-
sa.
«Che cosa?» Disse Ivan corrucciando la fronte.
«Non importa» disse Miles starnutendo. «Ascolta, sono felice di vedere
un viso familiare e tutto il resto» provava una strana gioia dolorosa «ma
sono nel bel mezzo dei miei doveri giornalieri, qui.»
«Io ho finito di lavorare un paio d'ore fa» commentò Ivan. «Sto per an-
dare a prendere Tatya per cenare fuori. Mi hai trovato per un pelo. Quindi
dimmi velocemente, com'è la vita in fanteria?»
«Oh, fantastica. La base Lazkowski è proprio quello che ci vuole.» Mi-
les non specificò in che senso. «Non un... deposito per gli aristocratici in
eccesso, come il Quartier Generale Imperiale.»
«Io lavoro!» disse Ivan un po' offeso. «A dire la verità ti piacerebbe il
mio lavoro. Elaboriamo informazioni. È divertente vedere a quante opera-
zioni al secondo è possibile accedere, nell'arco di una giornata. È come es-
sere sulla cima del mondo. Dovrebbe essere proprio il tuo genere.»
«Che strano. Io penso che la base Lazkowski possa essere il tuo, Ivan.
Non è che qualcuno ha invertito i nostri mandati?»
Ivan si sfiorò il naso e ridacchiò. «Non direi.» Poi il suo senso dell'umo-
rismo si calmò e disse con autentica preoccupazione. «Ma ti prendi cura di
te, laggiù, eh? Non hai un gran bell'aspetto.»
«Ho trascorso una mattinata un po' particolare. Se ti togli dalle palle, va-
do a farmi una doccia.»
«OK. Stammi bene.»
«Buona cena.»
«Grazie. Ciao.»
Voci di un altro universo. Eppure, Vorbarr Sultana si trovava solo a due
ore di volo suborbitale da lì. In teoria. Miles si sentiva stranamente confor-
tato dal fatto che qualcuno gli aveva ricordato che l'intero pianeta non si
riduceva all'orizzonte grigio-piombo dell'Isola Kyril.

A Miles riuscì difficile, quel giorno, concentrarsi sulle condizioni mete-


orologiche. Fortunatamente il suo superiore non se ne accorse. Dall'affon-
damento del gatto-scatto Ahn aveva mantenuto con Miles un silenzio ner-
voso e colpevole, eccetto quando veniva direttamente sollecitato a fornire
specifiche informazioni. Quando ebbe concluso il suo dovere quotidiano,
Miles si diresse in infermeria.
Il medico stava ancora lavorando, o comunque era seduto alla consolle
della sua scrivania, quando la testa di Miles sbucò dalla porta. «Buona se-
ra, signore.»
Il medico gli lanciò un'occhiata. «Sì, guardiamarina? Cosa c'è?»
Miles lo considerò un invito, a dispetto dello scoraggiante tono di voce,
e scivolò dentro. «Mi stavo domandando cosa aveva scoperto sull'uomo
che abbiamo tirato fuori dalla fogna stamattina.»
Il medico allargò le braccia. «Non c'è molto da scoprire. Ho controllato
il suo documento di identificazione. È morto per annegamento. Tutti i se-
gni fisici e metabolici, stress, ipotermia, gli ematomi, sono stati causati dal
fatto che è rimasto intrappolato lì per quasi mezz'ora, prima di morire. Ho
decretato che si è trattato di morte accidentale.»
«Sì, ma perché?»
«Perché?» Disse il medico con aria stupita. «Bisognerebbe chiederlo a
lui, perché è rimasto incastrato, no?»
«Lei non vuole scoprirlo?»
«A che scopo?»
«Be', per saperlo, credo. Per essere certo di avere ragione.»
Il medico gli lanciò un'occhiata gelida. «Non mi riferivo ai suoi accer-
tamenti medici, signore» aggiunse Miles in fretta. «Ma è una faccenda così
maledettamente misteriosa. Non è curioso?»
«Per niente» disse il medico. «Mi contento del fatto che non si tratti né
di un suicidio, né di un delitto, così, al di là dei particolari, alla fine biso-
gna concludere che è morto per stupidità, o no?»
Miles si domandò se quello sarebbe stato l'epitaffio finale del medico su
di lui, nel caso in cui fosse affondato anche lui con il gatto-scatto.
«Suppongo di sì, signore.»
Quando più tardi uscì dall'infermeria in mezzo a un vento umido, Miles
si mise a riflettere. Il cadavere, dopo tutto, non era una sua proprietà per-
sonale. Non si trattava di un caso di chi lo trova se lo prende. Aveva messo
la situazione nelle mani delle autorità. Se ne era lavato le mani. Eppure...
Rimanevano ancora parecchie ore di luce. E comunque Miles, durante
quei giorni interminabili faceva fatica a dormire. Ritornò nel suo alloggio,
si infilò i pantaloni della tuta, una maglietta e le scarpe da corsa, e uscì a
fare jogging.
Si incamminò su una strada solitaria, che fiancheggiava i campi di eser-
citazione deserti. Il sole scendeva obliquo verso l'orizzonte. Miles passò
dalla corsa alla camminata, poi si mise a passeggiare. I suoi apparecchi or-
topedici sfregavano contro i pantaloni. Un giorno molto vicino avrebbe
trovato il tempo per fare sostituire le sue fragili ossa delle gambe con delle
altre sintetiche. E la scelta di operarsi poteva essere un modo quasi legitti-
mo per togliersi dall'Isola Kyril, se le cose si fossero fatte troppo disperate
prima della conclusione dei sei mesi. Anche se era un po' come barare.
Si guardò intorno, cercando di immaginare il suo attuale ambiente circo-
stante al buio e sotto una pioggia fitta. Se fosse stato al posto del soldato
semplice, mentre faticosamente camminava in quella strada a circa mezza-
notte, che cosa avrebbe visto? Che cosa poteva avere attratto l'attenzione
dell'uomo verso il canale di scolo? Perché diavolo era andato proprio lì
come primo posto, nel cuore della notte? Quella strada non portava da nes-
suna parte eccetto che a un percorso a ostacoli e al poligono.
C'era la fogna... no, quella in cui era finito lui era un po' più avanti. C'e-
rano quattro gallerie di drenaggio che toccavano la strada rialzata per quel
mezzo chilometro di rettilineo. Miles trovò il canale di scolo giusto e si
piegò sul parapetto a osservare il lento rivolo dell'acqua di scarico. Non
c'era niente d'attraente, di questo era certo. Ma allora perché, perché, per-
ché...?
Miles risalì sul lato alto della strada, esaminandone la superficie, il para-
petto, e la felce inzuppata e scura che la circondava. Raggiunse la curva e
tornò indietro, per analizzare l'altro lato. Ritornò al primo canale di scolo,
verso la fine del rettilineo, senza scoprire niente di affascinante.
Poi si sedette sul parapetto a riflettere. Va bene, era arrivato il momento
di seguire un piccolo ragionamento logico. Che tipo di emozione oppri-
mente aveva condotto il soldato semplice a infilarsi nella fogna, fregando-
sene dell'ovvio pericolo che comportava? Rabbia? Che cosa stava inse-
guendo? Paura? Da che cosa poteva sentirsi inseguito? Errore? Miles sa-
peva tutto ciò che c'era da sapere sull'errore. E se l'uomo avesse scelto il
canale sbagliato...?
Impulsivamente, Miles si lasciò scivolare nel primo canale di scolo. Due
erano i casi: o l'uomo si era fatto strada metodicamente tra tutte le gallerie
di drenaggio - ma era partito dalla base o dai campi di esercitazione? - op-
pure aveva sbagliato obbiettivo a causa della pioggia e dell'oscurità e ne
aveva raggiunto uno sbagliato. Miles le avrebbe anche attraversate tutte
carponi se fosse stato necessario, ma avrebbe preferito indovinare al primo
colpo. Anche se non c'era nessuno che guardava. La prima fogna era leg-
germente più larga di diametro della seconda, quella letale. Miles staccò la
torcia dalla cintura, si immerse, e cominciò a esaminarla centimetro per
centimetro.
«Ah» disse con un sospiro soddisfatto, dopo avere analizzato metà della
strada. Aveva trovato quello che cercava, appiccicato alla parte alta dell'ar-
co della fogna con il nastro adesivo. Era un pacco, avvolto con della pla-
stica idrorepellente. Molto interessante. Strisciò fuori e si sedette sulla
bocca della fogna, senza preoccuparsi di bagnarsi, ma stando invece bene
attento a non farsi vedere dalla strada.
Si poggiò il pacco in grembo e lo osservò pregustandolo, come se fosse
stato un regalo di compleanno. E se fosse stata droga o merce di contrab-
bando? Documenti in codice o denaro sporco? Personalmente, Miles spe-
rava che si trattasse di documenti in codice, anche se era difficile immagi-
nare qualcuno che si fosse messo a codificare qualcosa sull'Isola Kyril, ol-
tre ai rapporti di efficienza. Anche la droga sarebbe andata bene, ma un
traffico di spie sarebbe stato semplicemente meraviglioso. Sarebbe diven-
tato un eroe della Sicurezza, la sua mente aveva cominciato a fantasticare,
già pronta a fare la mossa successiva nella sua indagine segreta. Seguendo
le orme del soldato morto attraverso piccole tracce poteva arrivare a qual-
che capo dell'organizzazione, chi poteva sapere quanto sarebbe arrivato in
alto? Arresti spettacolari, forse un elogio da parte di Simon Illyan in per-
sona... Il pacco era pieno di protuberanze e scricchiolava leggermente...
carpette?
Con il cuore che gli batteva all'impazzata, lo aprì e... rimase di stucco
per la delusione. Respirò a fatica, tra le risate e i lamenti.
Pasticcini. Un paio di dozzine di lisette, un tipo di tortine glassate e im-
bottite di frutta candita, preparate tradizionalmente per la festa di san Gio-
vanni. Pasticcini vecchi di un mese e mezzo. Una nobile causa per mori-
re...
L'immaginazione di Miles, alimentata dalla sua conoscenza della vita
delle baracche, si mise prontamente in moto. Il soldato doveva aver ricevu-
to quel pacco da qualche fidanzata oppure dalla madre o dalla sorella, e lo
aveva nascosto per proteggerlo dai compagni famelici, che avrebbero divo-
rato tutto in pochi secondi. Forse l'uomo, che moriva dalla nostalgia di ca-
sa, si era razionato quei dolci morso dopo morso in un lento rituale maso-
chistico, in cui piacere e dolore si mescolavano a ogni boccone. O forse li
aveva semplicemente conservati per qualche occasione speciale.
Poi erano arrivati quei due giorni di insolita pioggia battente, e l'uomo
aveva cominciato a temere che il suo tesoro segreto si liquefacesse. Era
uscito per salvare la provvista nascosta, nel buio non era riuscito a trovare
il primo canale, ed era arrivato al secondo in preda a una determinazione
disperata, proprio mentre l'acqua saliva, e troppo tardi si era accorto del-
l'errore...
Era triste, un po' stomachevole, e soprattutto irrilevante. Miles sospiran-
do, impacchettò di nuovo i pasticcini e tornò di corsa verso la base, con il
pacchetto sottobraccio, per andare a consegnarlo al medico. L'unico com-
mento del medico, quando Miles lo raggiunse e gli raccontò della sua sco-
perta, fu: «Sì. Morto per stupidità, va bene». Poi in modo assente prese un
pezzo di pasticcino e lo annusò.

Il periodo di distaccamento di Miles alla manutenzione terminò il giorno


successivo, senza che avesse scoperto nelle cloache nulla di interessante,
oltre all'uomo affogato. E forse era meglio di così. Il giorno successivo ri-
tornò il caporale che lavorava nell'ufficio di Ahn dopo una lunga assenza.
Miles scoprì che il caporale, che lavorava all'ufficio meteorologico da cir-
ca due anni, era un repertorio vivente di gran parte delle informazioni su
cui Miles aveva trascorso le ultime due settimane, spremendosi le meningi
nel tentativo di imparare. Anche se non aveva il fiuto di Ahn.
Ahn lasciò effettivamente Campo Permafrost da sobrio, salendo a piedi
la scaletta del mezzo di trasporto nel pieno controllo di sé. Miles si recò
sulla pista della navetta per salutarlo, senza sapere bene se essere contento
o triste per la partenza del meteorologo. Comunque Ahn sembrava felice, e
la sua faccia lugubre era quasi luminosa.
«Allora dove hai intenzione di andare quando ti sarai tolto l'uniforme?»
gli domandò Miles
«All'equatore.»
«Eh? Da che parte dell'equatore?»
«Da qualsiasi parte» replicò Ahn con passione.
Miles confidava che almeno scegliesse un posto piazzato su una superfi-
cie adeguatamente solida.
Ahn si fermò un attimo sulla rampa a guardare Miles. «Stai attento a
Metzov» lo avvisò alla fine.
Quell'avvertimento sembrava arrivare un po' tardi, per non parlare di
quanto fosse snervante e vago. Miles lanciò ad Ahn uno sguardo esaspera-
to, aggrottando la fronte. «Dubito che avrò mai una parte di spicco tra le
sue conoscenze.»
Ahn si spostò con disagio. «Non era questo che intendevo.»
«Che cosa volevi dire?»
«Ma... non so. Una volta ho visto...»
«Che cosa?»
Ahn scosse la testa. «Nulla. È stato molto tempo fa. Sono successe delle
cose pazzesche, nel momento cruciale della battaglia di Komarr. Ma è me-
glio che resti fuori da questa storia.»
«Ho già avuto a che fare con vecchi ufficiali autoritari.»
«Oh, lui non è esattamente un ufficiale autoritario. Ma ha una vena di...
può essere stranamente pericoloso. Non minacciarlo mai sul serio, eh?»
«Io, minacciare Metzov?» Il viso di Miles fece una smorfia di sconcerto.
Forse, dopo tutto, Ahn non era davvero sobrio come sembrava. «Su, non
può essere così cattivo, altrimenti non gli avrebbero affidato il comando
delle reclute.»
«Non è lui ad avere il comando delle reclute. Hanno il loro corpo gerar-
chico, che arriva qui con loro, e gli istruttori fanno rapporto ai propri co-
mandanti. Metzov ha solo la responsabilità degli impianti fisici permanenti
della base.» Ahn fece una pausa «Sei un piccolo stronzo invadente, Vorko-
sigan. Cerca solo di non... esagerare con lui, o te ne pentirai. E con questo
ho finito». Ahn chiuse la bocca con determinazione e salì la scaletta.
Me ne sono già pentito, avrebbe voluto gridargli Miles. Bene, la sua set-
timana di punizione ormai era finita. Forse Metzov aveva voluto umiliarlo
con il lavoro, che in realtà si era rivelato piuttosto interessante. Affondare
il suo gatto-scatto, quello sì, che era stato umiliante. Perché era stato lui
stesso a farlo. Miles fece un ultimo cenno ad Ahn mentre scompariva nella
navetta, poi alzò le spalle, e si diresse attraverso la pista verso l'ormai fa-
miliare edificio amministrativo.
Gli ci vollero un paio di minuti, dopo che il caporale di Miles ebbe la-
sciato l'ufficio meteorologico per andare a pranzo, per lasciarsi tentare dal-
la curiosità che Ahn gli aveva scatenato, e cercare nel computer le regi-
strazioni pubbliche su Metzov. La semplice lista dei dati di comando della
base, degli incarichi e delle promozioni non dava molte informazioni an-
che se tra le righe si riusciva a capire qualcosa della storia.
Metzov era entrato nel servizio circa trentacinque anni prima. Aveva ri-
cevuto le promozioni più importanti, cosa non sorprendente, durante la
conquista di Komarr circa venticinque anni prima. In qualche modo era
riuscito a finire dalla parte giusta durante la lotta per il trono di Vordorian
a distanza di vent'anni - se si fosse schierato dalla parte sbagliata in quella
guerra civile, per Miles sarebbe stato logico capire perché un ufficiale ap-
parentemente competente come lui fosse finito a trascorrere i suoi ultimi
anni sui ghiacciai dell'Isola Kyril. Ma il capolinea della carriera di Metzov
era arrivato circa sedici anni prima, durante la rivolta di Komarr. Non c'era
alcun accenno in quel file sulle motivazioni, eccetto un rimando a un altro
file. Miles lo riconobbe come un codice di Sicurezza Imperiale. E finiva lì.
O forse no. Con le labbra serrate per la concentrazione, Miles inserì pen-
sosamente un altro codice nel suo computer.
«Comando operativo, l'ufficio dell'ammiraglio Jollif.» La faccia di Ivan
con un espressione formale cominciò a materializzarsi sullo schermo della
consolle computerizzata. «Oh, salve Miles. Che cosa succede?»
«Sto facendo una piccola ricerca. Credo che tu possa aiutarmi.»
«Avrei dovuto immaginare che non mi avresti mai chiamato al Quartier
Generale solo per cortesia. Allora che cosa vuoi?»
«Ah... sei da solo in ufficio, in questo momento?»
«Sì, il vecchio è in riunione.» Ivan socchiuse gli occhi sospettoso. «Per-
ché me lo chiedi?»
Miles si rilassò un po'. «Voglio che tu prenda un file per me.» Inserì il
codice.
La mano di Ivan cominciò a digitarlo, poi si bloccò. «Sei impazzito?
Questo è un file della Sicurezza Imperiale. Non posso farlo!»
«Certo che puoi, ce l'hai lì, no?»
Ivan scosse la testa con aria compiaciuta. «Nient'affatto. Tutti i file del
sistema di Sicurezza Imperiale sono stati resi super sicuri. Non si possono
trasferire dei dati fuori di lì, se non usando un cavo di filtraggio codificato,
che tu dovresti collegare direttamente. E per il quale io dovrei firmare. Il
che significherebbe dovere spiegare perché lo voglio, e presentare l'auto-
rizzazione. Tu hai un'autorizzazione per farlo? Ha. Credo proprio di no.»
Miles aggrottò le ciglia con aria delusa. «Sono certo che puoi richiamar-
lo sul sistema interno.»
«Sì, sul sistema interno posso. Ma non posso connettere il sistema inter-
no con un sistema esterno per scaricare i dati. Quindi sei sfortunato.»
«Hai un quadro di comando del sistema interno in quell'ufficio?»
«Certo.»
«Allora» disse Miles con impazienza «richiama in memoria il file, gira
la tua scrivania, e lascia che i due schermi si parlino tra di loro. Puoi farlo,
no?»
Ivan si grattò la testa. «Pensi che possa funzionare?»
«Provaci!» Miles si mise a tamburellare con le dita mentre Ivan spostava
la scrivania e armeggiava con la messa a fuoco. Il segnale era disturbato
ma leggibile. «Credo che ci siamo. Vuoi farlo scorrere sul video, per favo-
re?»
Affascinante, davvero affascinante. Il file era una collezione di rapporti
segreti, relativi a un'indagine della Sicurezza Imperiale, a proposito della
misteriosa morte di un prigioniero che si trovava sotto la custodia di Me-
tzov, un ribelle di Komar che aveva ucciso la sua guardia ed era a sua volta
rimasto ucciso cercando di fuggire. Quando la Sicurezza Imperiale aveva
richiesto il corpo per farne l'autopsia, Metzov gli aveva consegnato le ce-
neri cremate, scusandosene; se solo gli avessero detto qualche ora prima
che volevano il corpo, ecc. L'ufficiale investigativo aveva accennato a u-
n'accusa di tortura illegale. Forse per vendicare la morte della guardia? Ma
non era stato in grado di raccogliere prove sufficienti a ottenere un'autoriz-
zazione per interrogare i testimoni di Barrayan, tra cui un certo guardiama-
rina Ahn. L'ufficiale investigativo aveva espresso una protesta formale
contro la decisione del suo superiore di chiudere il caso, e la cosa era finita
lì. Almeno apparentemente. Se c'era qualche ulteriore elemento della vi-
cenda, si trovava solo nella eccezionale testa di Simon Illyan, un file segre-
to a cui Miles non aveva alcuna possibilità di accedere. Oppure in quella di
suo padre, l'ammiraglio Vorkosigan, che era ossessionato dal fatto che a
Komarr, che considerava la sua "conquista perfetta", le cose erano andate
così male.
Così la carriera di Metzov aveva subito un arresto, era stata letteralmente
congelata.
«Miles» lo interruppe Ivan per la quarta volta «credo sul serio che non
dovremmo farlo. È come darsi la zappa sui piedi.»
«Se non ci riusciamo, allora vuol dire che non dovevamo farlo. Dovresti
prendere il cavo per lo scaricamento veloce. Nessun vero agente segreto
sarebbe così scemo da starsene seduto lì al Quartier Generale Imperiale, a
farsi scorrere dei dati tra le mani per un'ora, aspettando di essere sorpreso e
ucciso.»
«Questo è vero.» Ivan chiuse il file della Sicurezza con un gesto della
mano. L'immagine video tremolò leggermente come se Ivan avesse sposta-
to la sua scrivania; seguirono rumori di sfregamento dovuti al fatto che si
era messo a pulire freneticamente le impronte sul tappeto prendendolo a
calci. «Io non ho fatto niente, mi hai sentito?»
«Non volevo coinvolgerti. Noi non siamo delle spie» disse Miles acci-
gliato. «Ma... Credo che qualcuno dovrebbe dire a Illyan che qualcuno ha
sbirciato nel suo dispositivo di Sicurezza.»
«Non io!»
«Perché no? Mettigliela come un brillante suggerimento teorico. Forse
potresti ottenere un elogio. Naturalmente non dirgli che noi lo abbiamo fat-
to. Ma digli piuttosto che stavamo verificando la tua teoria, va bene?»
«Tu» disse Ivan con violenza «sei un assassino di carriere. Non rimettere
mai più piede sul mio video. Eccetto che su quello di casa ovviamente.»
Miles sorrise, e permise al cugino di battersela. Poi rimase seduto per un
po' in ufficio, a guardare gli ologrammi meteorologici colorati che tremo-
lavano e si trasformavano mentre rifletteva sul comandante della base, e
sul genere di incidenti che possono accadere a un prigioniero insolente.
Be', era successo molto tempo prima. Lo stesso Metzov si sarebbe ritira-
to probabilmente entro cinque anni, con il suo status di uomo con quaran-
t'anni di servizio alle spalle, per andare a finire nella categoria dei vecchi
sgradevoli. Il problema principale sarebbe stato per lui farsi una ragione
del fatto che qualcuno avrebbe preso il suo posto. Qualcuno come Miles. Il
suo primo proposito alla base Lazkowski, si ricordò Miles, era stato quello
di svignarsela dalla base Lazkowski, quatto quatto. Metzov sarebbe rima-
sto un ricordo.
Nelle settimane successive, Miles stabilì una routine tollerabile. Per
prima cosa, arrivarono le reclute. Tutte e cinquemila. La posizione di Mi-
les crebbe sulle loro spalle, fino a raggiungere una dignità quasi-umana. La
base Lazkovski, mentre le giornate si accorciavano, subì la prima vera ne-
vicata della stagione, con un wah-wah piuttosto moderato che durò quasi
una giornata. Miles riuscì a predire tutti e due con esattezza e in anticipo.
Ancor più felicemente, Miles fu sostituito nel suo ruolo di idiota più fa-
moso dell'isola (una sgradevole notorietà, guadagnata con l'affondamento
del gatto-scatto) da un gruppo di reclute che una notte diedero fuoco alle
loro baracche, scoreggiando sui segnali luminosi. Il suggerimento strategi-
co di Miles, espresso alla riunione degli ufficiali per la sicurezza contro gli
incendi che si tenne il giorno dopo, secondo cui bisognava affrontare il
problema con un assalto logistico all'approvvigionamento nemico di com-
bustibile, cioè, eliminando lo stufato di fagioli rossi dal menu, fu cancella-
to da un'occhiata gelida del generale Metzov, anche se subito dopo, nel
corridoio, uno zelante comandante d'ordinanza fermò Miles per ringraziar-
lo del tentativo.
Questo e altro per il prestigio della Sicurezza Imperiale. Miles cominciò
a trascorrere lunghe ore da solo nell'ufficio meteorologico, studiando teoria
del caos, i dati che aveva a disposizione e le pareti della stanza. Tre mesi
erano già passati, tre ancora dovevano passare. Si stava facendo buio.

Miles era già schizzato fuori dal letto e si era già mezzo vestito, quando
il suo cervello intontito dal sonno si rese conto che quel clacson elettriz-
zante non era il segnale d'allarme del wah-wah. Si fermò con uno stivale
tra le mani. Non si trattava né di un incendio né di un attacco nemico.
Quindi, qualsiasi cosa fosse, non riguardava il suo dipartimento. Il rumore
cessò all'improvviso. Tutto era in ordine, e il silenzio era assoluto.
Controllò l'orologio digitale fluorescente. Era il crepuscolo. Aveva dor-
mito solo un paio d'ore, dopo essere crollato a letto esausto, di ritorno da
un lungo viaggio nella zona settentrionale, in mezzo a una tempesta di ne-
ve, per andare a riparare i danni procurati dal vento alla stazione meteoro-
logica Undici. L'unità di collegamento vicina al suo letto non era illumina-
ta dalla luce rossa per le chiamate d'emergenza, che lo informavano di e-
ventuali compiti imprevisti da svolgere. Poteva tornarsene a letto.
Ma il silenzio era sconcertante.
Si infilò il secondo stivale e fece capolino con la testa dalla porta. Un
paio di altri ufficiali avevano fatto la stessa cosa, e stavano discutendo tra
di loro sulla causa dell'allarme. Il tenente Bonn uscì dal suo alloggio e si
diresse a grandi passi verso l'entrata, con il parka sulle spalle. Aveva una
espressione tesa, tra il preoccupato e l'infastidito.
Miles afferrò il proprio parka e gli corse dietro. «Ha bisogno d'aiuto, te-
nente?»
Bonn gli diede uno sguardo e contrasse la labbra. «Forse» concesse.
Miles gli si affiancò, segretamente contento per l'implicita ammissione,
di potere essere realmente d'aiuto. «Che cosa sta succedendo?»
«Qualche incidente nel deposito di riserve tossiche. Se è come penso,
potremmo trovarci di fronte a un vero problema.»
Uscirono dalla doppia porta isolante degli alloggi degli ufficiali in una
notte di freddo cristallino. La neve scricchiolava sotto i passi di Miles e
veniva spazzata via dal selciato da un debole vento proveniente da est. In
alto le stelle più luminose si difendevano dalle luci della base. I due uomi-
ni si infilarono nel gatto-scatto di Bonn, con il fiato che fumava finché non
inserirono la copertura decongelante. Bonn si diresse a ovest della base a
velocità sostenuta.
Qualche chilometro dopo l'ultimo campo di esercitazione, emerse in
mezzo alla neve una fila di colline coperte da un tappeto erboso. Un grup-
po di veicoli erano parcheggiati davanti a un magazzino, c'erano un paio di
gatti-scatti, incluso quello del maresciallo dei vigili del fuoco della base, e
un autoambulanza. Tutt'intorno si vedevano delle torce. Bonn si diresse lì,
si fermò e aprì la portiera. Miles lo seguì, facendosi strada velocemente at-
traverso il ghiaccio ammucchiato.
Il medico stava dando ordini a un paio di soldati di infermeria che stava-
no caricando sull'ambulanza una forma avvolta in una coperta e un altro
soldato che tremava e tossiva. «Mettete tutto ciò che avete indosso nel de-
posito di distruzione, quando arriverete alla porta» gli urlò dietro. «Coper-
te, lenzuola, tutto. Fatte tutti la doccia di decontaminazione prima ancora
di occuparvi della sua gamba rotta. Un calmante lo aiuterà, ma se non fun-
ziona ignorate le urla e continuate a lavarvi. Vi raggiungerò immediata-
mente.» Poi il medico rabbrividì e si allontanò, con aria spaventata. Bonn
si diresse verso la porta del deposito.
«Non la apra!» gli urlarono all'unisono l'ufficiale medico e il maresciallo
dei vigili del fuoco. «Non c'è più nessuno lì dentro» aggiunse il caporale.
«È stato completamente evacuato».
«Cos'è successo esattamente?» domandò Bonn pulendo con il guanto il
finestrino della porta ghiacciato, per cercare di vedere all'interno.
«Un paio di uomini stavano spostando i rifornimenti per fare spazio a un
nuovo carico che arriverà domani» lo mise al corrente velocemente il ma-
resciallo dei vigili del fuoco, un tenente di nome Yaski. «Hanno scaricato
il caricatore, e uno di loro è rimasto intrappolato sotto rompendosi una
gamba.»
«Bisogna avere... dell'inventiva» disse Bonn cercando d'immaginarsi i
meccanismi del caricatore.
«Devono essersi messi a scherzare» disse il medico con tono impaziente.
«Ma il peggio deve ancora venire. Stavano trasportando alcuni fusti di fe-
taina. Se ne sono aperti almeno due. Ce n'è dappertutto lì dentro. Abbiamo
sigillato il deposito come meglio potevamo. Pulire a fondo» disse il medi-
co con un sospiro. «È un suo problema. Io me ne vado.» Sembrava che vo-
lesse strapparsi di dosso non solo i vestiti ma anche la sua stessa pelle. Fe-
ce un cenno di saluto e si diresse velocemente verso il suo gatto-scatto per
andare a raggiungere alla decontaminazione medica i due infermieri e i lo-
ro pazienti.
«Fetaina!» esclamò Miles stupefatto. Bonn si era ritratto in fretta dalla
porta. La fetaina era un veleno mutageno inventato come arma terrorizzan-
te, ma per quello che ne sapeva Miles non era mai stata usata in combatti-
mento. «Credevo che queste cose fossero obsolete. Fuori dalla lista.» Il
corso di chimica e biologia che aveva seguito all'Accademia lo diceva e-
splicitamente.
«In effetti è una cosa obsoleta» disse Bonn in modo lugubre. «Non se ne
prepara più da vent'anni. Per quello che ne so, questa è l'ultima scorta che
c'è a Barrayar. Maledizione, questi fusti di riserva non avrebbero dovuto
aprirsi nemmeno se lanciati da una nave spaziale.»
«Quindi, questi barili, come minimo sono vecchi di vent'anni» puntua-
lizzò il maresciallo. «Si è trattato di corrosione, allora?»
«In questo caso» disse Bonn allungando il collo «cosa ne sarà degli altri
fusti?»
«Già...» annuì Yaski.
«La fetaina non dovrebbe distruggersi venendo a contatto del calore?»
domandò Miles con nervosismo, cercando di assicurarsi, che stavano di-
scutendo contro vento rispetto al magazzino. «Le sostanze chimiche do-
vrebbero dissociarsi in componenti innocue.»
«Be', non esattamente innocue» disse il tenente Yaski. «Ma non nocive
al punto di sciogliere tutto il DNA che hai nelle palle.»
«C'è qualche tipo di esplosivo, immagazzinato lì dentro, tenente Bonn?»
domandò Miles.
«No, solo la fetaina.»
«Ma se lanciassimo un paio di mine plasmatiche attraverso la porta, la
fetaina non dovrebbe disintegrarsi chimicamente prima di distruggere an-
che il soffitto?»
«Non ti piacerebbe affatto l'eventualità in cui il soffitto andasse all'aria.
O il pavimento. Se dovesse succedere che queste sostanze si diffondessero
nel permafrost... Ma non se posizionassimo le mine su una lenta cessione
di calore, e contemporaneamente lanciassimo qualche chilo di pallottole di
plasma, il deposito dovrebbe autosigillarsi.» Bonn muoveva le labbra cer-
cando di riflettere. «... Sì, potrebbe funzionare. Anzi potrebbe essere il
modo più sicuro di rapportarsi a questa merda. Soprattutto se anche gli al-
tri fusti stanno iniziando a perdere la loro integrità.»
«Dipende da dove sta soffiando il vento» osservò il tenente Yaski, guar-
dando prima la base e poi Miles.
«Siamo in attesa di un leggero vento proveniente da est, con temperature
che scenderanno circa fino alle 7 di domani mattina» disse Miles rispon-
dendo al suo sguardo. «Poi si sposterà a nord e soffierà con maggiore in-
tensità. Le condizioni per un wah-wah, potenzialmente cominceranno in-
torno alle 18 domani sera.»
«Se vogliamo fare così, sarà meglio farlo stasera, allora» disse Yaski.
«Va bene» disse Bonn con decisione. «Chiamerò a raccolta il mio grup-
po, voi fate lo stesso con il vostro. Porterò l'impianto per il magazzino e
calcolerò i gradi di cessione dei carichi. Ci vediamo con il capo d'ordinan-
za in amministrazione tra un'ora.»
Bonn lasciò il maresciallo dei vigili del fuoco appostato per tenere
chiunque lontano dal deposito. Un compito sgradevole ma non intollerabi-
le in quelle condizioni, e poi il guardiano poteva ritirarsi dentro il suo gat-
to-scatto, se la temperatura si abbassava verso la mezzanotte. Miles tornò
in amministrazione con Bonn per fare una seconda verifica delle sue previ-
sioni relative alla direzione del vento.

Miles elaborò gli ultimi dati nel computer, in modo da potersi presentare
a Bonn con dati d'aggiornamento il più precisi possibile sulle previsioni re-
lative ai vettori del vento per le successive 26,7 ore di tempo barraiarano.
Ma prima ancora di avere avuto gli stampati tra le mani, vide dalla finestra
Bonn e Yaski che si allontanavano dall'edificio amministrativo nell'oscuri-
tà. Che stessero andando a incontrarsi con il capo dell'artiglieria da qualche
parte? Miles considerò l'eventualità di seguirli, ma le nuove previsioni non
erano molto diverse dalle ultime. Aveva davvero voglia di andare a vedere
come cauterizzavano una discarica di veleno? Poteva risultare interessante,
formativo. D'altro canto, non c'era alcun bisogno che lui andasse lì. Inoltre,
come unico figlio dei suoi genitori, e come padre, forse, di un qualche fu-
turo conte Vorkosigan, era discutibile il fatto che avesse il diritto di esporsi
a un tale azzardo mutagenico per pura curiosità. Sembrava che la base non
corresse pericoli immediati, finché il vento non cambiava. O si trattava di
vigliaccheria camuffata da logica? Aveva sentito dire che la prudenza era
una virtù.
Dal momento che era sveglio e troppo scosso anche per immaginare di
riaddormentarsi, si diede da fare nell'ufficio meteorologico, recuperando
tutti i file di routine che aveva messo da parte quella mattina per fare il gi-
ro delle riparazioni. In un'ora di attività disciplinata aveva esaurito qualsia-
si cosa che anche lontanamente avesse a che fare con il lavoro. Quando si
rese conto che stava spolverando con accanimento le attrezzature e gli
scaffali, decise che era arrivato il momento di andare a letto, che riuscisse
ad addormentarsi oppure no. Ma una luce in movimento dietro la finestra
catturò la sua attenzione, era un gatto-scatto che si stava fermando davanti
all'entrata principale.
Bonn e Yaski erano ritornati. Di già? Avevano fatto in fretta, o non ave-
vano ancora iniziato? Miles prese con sé la carpetta con i nuovi dati relati-
vi al vento, e si diresse al piano di sotto, nell'ufficio tecnico della base in
fondo al corridoio.
Nell'ufficio di Bonn le luci erano spente. Ma una luce arrivava nel corri-
doio dall'ufficio del comandante della base. Insieme alla luce, arrivavano
anche delle voci arrabbiate che salivano e scendevano di tono. Tenendo
stretta la sua carpetta, Miles si avvicinò.
La porta dell'ufficio interno era aperta. Metzov era seduto al quadro co-
mandi della sua scrivania, con il pugno chiuso poggiato sulla scintillante
superficie colorata. Bonn e Yaski erano davanti a lui in stato di tensione.
Miles scosse i fogli per segnalare la sua presenza.
Yaski si guardò intorno e il suo sguardo incrociò quello di Miles. «Man-
di Vorkosigan, lui è già un mutante, no?»
Miles fece un vago saluto e disse immediatamente: «Mi scusi, signore,
ma non è vero, non lo sono. Il mio ultimo incontro con un veleno militare
mi ha provocato danni teratogeni, non genetici. I miei futuri figli hanno le
stesse possibilità di quelli del mio vicino di essere sani. E... Mandarmi do-
ve, signore?»
Metzov guardò Miles torvamente ma non portò avanti l'inquietante sug-
gerimento di Yaski. Miles passò i fogli a Bonn che diede loro uno sguardo,
sorrise, e poi li mise al sicuro nella tasca della giacca.
«Ovviamente indosserebbero indumenti protettivi» continuò Metzov ri-
volgendosi a Bonn in modo irritato. «Non sono pazzo.»
«Ho capito, signore. Ma gli uomini si rifiutano di entrare nel deposito
anche con l'equipaggiamento anticontaminazione» riferì Bonn con tono
piatto e deciso. «Non posso biasimarli. Le precauzioni standard sono ina-
deguate alla fetaina, secondo me. Quella roba ha un valore di penetrazione
incredibilmente alto, a causa del suo peso molecolare. Passa attraverso i
tessuti permeabili.»
«Lei non può biasimarli?» ripeté Metzov stupefatto. «Tenente, lei ha da-
to un ordine. O almeno è quello che avrebbe dovuto fare.»
«È vero, signore, ma...»
«Ma... lei ha lasciato trapelare la sua indecisione. La sua debolezza. Ma-
ledizione, quando si dà un ordine, si deve dare un ordine, non girarci intor-
no.»
«Perché dobbiamo salvare quella roba?» domandò Yaski con tono la-
mentoso.
«Ne abbiamo la responsabilità. È nostro dovere» grugnì Metzov. «Sono
gli ordini che abbiamo ricevuto. Non si può chiedere a un uomo di obbedi-
re, se non si ubbidisce in prima persona.»
Ciecamente? «Sicuramente l'apparato di ricerca ha ancora la formula» si
inserì Miles, sentendo che almeno stava centrando il campanello d'allarme
sull'argomento. «Ne possono preparare ancora se davvero vogliono.»
«Stia zitto, Vorkosigan» brontolò Bonn disperatamente tra i denti, men-
tre il generale Metzov diceva bruscamente: «Apra di nuovo la bocca que-
sta notte, per pronunciare una delle sua frasette umoristiche, guardiamari-
na, e io le affido l'incarico».
Miles serrò le labbra in un sorriso vitreo. Subordinazione. Ricordati del
Prince Serge, si disse. Per quello che importava a Miles, Metzov poteva
anche bersela tutta la fetaina, e non gliene importava un tubo.
«Ha mai sentito parlare della simpatica pratica bellica, che consisteva
nel fucilare chi disobbediva agli ordini, tenente?» continuò Metzov rivol-
gendosi a Bonn.
«Io... non credo di potere fare questa minaccia, signore» disse Bonn con
fermezza.
E in ogni caso, pensò Miles, non ci troviamo in guerra, no?
«Tecnico!» disse Metzov disgustato. «Non parlavo di minacciare, ma di
fucilare. Dia un esempio e vedrà che gli altri si rimetteranno in riga.»
Miles decise che non doveva preoccuparsi troppo del senso dell'umori-
smo di Metzov. O il generale stava parlando sul serio?
«Signore, la fetaina è un violento mutageno» disse Bonn risoluto. «Non
sarei affatto certo che gli altri si rimetterebbe in riga, qualunque sia la mi-
naccia. È un tema piuttosto irragionevole. Io stesso... ho qualche difficoltà
a ragionarci su.»
«Me ne sono accorto» disse Metzov fissandolo con freddezza. Poi il suo
sguardo si spostò su Yaski, che deglutì e rimase sull'attenti, senza concede-
re nulla alla sua spina dorsale. Miles cercava di rendersi invisibile.
«Se voi tecnici volete continuare a far finta di essere degli ufficiali, ave-
te bisogno di una lezione su come ottenere obbedienza dai vostri uomini»
decise Metzov. «Riunite tutti e due la vostra squadra davanti all'ammini-
strazione entrò venti minuti. Avremo un piccolo sfoggio di disciplina vec-
chio stile.»
«Non starà seriamente pensando di fucilare qualcuno, vero?» Disse il te-
nente Yaski preoccupato.
Metzov sorrise acidamente. «Dubito che sarò costretto a farlo.» Poi
guardò Miles. «Qual è la temperatura esterna in questo momento, Ufficiale
Meteorologo?»
«Cinque gradi sotto zero, signore» rispose Miles, che stava bene attento
a parlare solo se interrogato.
«E il vento?»
«Ci sono venti provenienti da est a nove chilometri orari, signore.»
«Molto bene.» Gli occhi di Metzov scintillavano come quelli di un lupo.
«Potete andare, signori. Cercate di adempiere ai vostri ordini, stavolta.»
Il generale Metzov, con guanti pesanti e avvolto nel parka, era davanti
alla bandiera che si trovava di fronte all'edificio amministrativo, e fissava
la strada mezza illuminata. Che cosa stava cercando? Si domandò Miles.
Era quasi mezzanotte. Yaski e Bonn stavano mettendo in riga per la parata
le loro squadre, quindici uomini con le protezioni termiche e i parka indos-
so.
Miles rabbrividì, e non solo per il freddo. La faccia di Metzov aveva u-
n'espressione adirata. Stanca. Vecchia. E spaventata. A Miles ricordava la
faccia di suo nonno nelle giornate no. Anche se Metzov era addirittura più
giovane di suo padre; il padre di Miles era già di mezza età quando lui era
nato, una sorta di disallineamento generazionale. Suo nonno, il vecchio
conte generale Piotr, qualche volta gli era sembrato un rifugiato di un altro
secolo. In quel momento, la parata disciplinare vecchio stile stava ese-
guendo la messa in riga delle galosce. Quanto era tornata indietro nella
storia di Barrayar la mente di Metzov?
Metzov sorrise, un sorriso verniciato di rabbia, e ritornò a guardare un
movimento sulla strada. Poi, con voce orribilmente cordiale, confidò a Mi-
les: «Lo sa, guardiamarina, c'era un segreto dietro la rivalità ben coltivata
sulla vecchia Terra, tra i diversi corpi dell'esercito. In caso di ammutina-
mento si poteva sempre convincere l'esercito a sparare sulla marina, o vi-
ceversa, quando non riuscivano a mantenere la disciplina da soli. Per un
servizio combinato come il nostro è uno svantaggio».
«Ammutinamento!» Disse Miles, dimenticandosi che aveva preso la de-
cisione di parlare solo se interrogato. «Credevo che il problema fosse l'e-
sposizione al veleno.»
«Lo era. Sfortunatamente, per colpa della mancanza di polso di Bonn,
adesso è diventata una questione di principio.» Un muscolo nella mascella
di Metzov si contrasse. «Qualche volta doveva succedere, nel nuovo ordi-
ne. L'ordine dei rammolliti.»
Tipico modo di parlare del vecchio ordine, quel genere di stronzate, che
i vecchi si raccontano su come andavano le cose ai bei tempi.
«Una questione di principio, signore? Quale principio? Si tratta di sco-
rie» disse Miles con voce strozzata.
«Si tratta di un rifiuto di massa nell'obbedire a ordini diretti, guardiama-
rina. Quindi ammutinamento, secondo l'ordinamento di qualsiasi caserma.
Fortunatamente, questo tipo di cose sono facili da contenere, se ci si muo-
ve subito, finché sono ancora confuse e di scarsa entità.»
Il movimento che c'era in strada si rivelò essere un plotone di reclute
nelle loro tute bianche mimetiche, che marciavano guidate dal sergente
della base. Miles riconobbe il sergente come uno di quelli agli ordini per-
sonali di Metzov, un veterano che aveva servito Metzov fin dalla rivolta di
Komarr, e che aveva seguito il suo capo fin là.
Miles vide che le reclute erano state armate con distruttori nervini letali,
che erano armi puramente antiuomo. In tutto il tempo che avevano trascor-
so imparando questo tipo di cose, la possibilità di prendere in mano un'ar-
ma carica mortale era rara anche per le reclute più avanzate nell'addestra-
mento, e Miles poteva intuire il loro stato di eccitazione nervosa.
Il sergente allineò le reclute in posizione di fuoco incrociato intorno ai
tecnici immobili, e gridò rabbiosamente un ordine. Quelli mostrarono le
armi, che scintillavano con un riflesso argenteo alla luce diffusa dall'edifi-
cio dell'amministrazione, e presero la mira. Un mormorio di nervosismo si
diffuse tra gli uomini di Bonn. La faccia di Bonn era di un bianco spettrale,
e gli occhi di un nero lucido come l'ebano.
«Spogliatevi» ordinò Metzov a denti serrati.
Incredulità, confusione; solo due o tre tecnici avevano afferrato il senso
di ciò che era stato chiesto loro, e cominciarono a spogliarsi. Gli altri,
guardandosi intorno perplessi, li imitarono subito dopo.
«Quando sarete pronti a obbedire di nuovo agli ordini» continuò Metzov
con una voce altisonante che arrivava a ogni singolo soldato «allora potre-
te rivestirvi e andare a fare il vostro lavoro. Dipende da voi.» Fece un pas-
so indietro, poi annuì in direzione del sergente, e assunse la posizione di
riposo. «Questo li calmerà» mormorò tra sé e sé, ma con un tono di voce
alto abbastanza perché Miles cogliesse ciò che diceva. Metzov aveva l'aria
di chi si aspetta di rimanere in attesa non più di cinque minuti; sembrava
che già pensasse al suo alloggio riscaldato e a una bevanda calda.
Miles si accorse che Olney e Pattas erano tra i tecnici, insieme alla mag-
gior parte dell'organico di lingua greca che aveva tormentato Miles all'ini-
zio. Gli altri, Miles li aveva visti in giro o ci aveva parlato durante le sue
indagini private sul passato dell'uomo affogato, oppure li conosceva a mala
pena. I quindici uomini nudi avevano cominciato a tremare violentemente
man mano che la neve sfiorava loro le caviglie. Le quindici facce sconcer-
tate stavano cominciando ad assumere un'espressione terrorizzata, con gli
occhi che scivolavano sui distruttori nervini puntati su di loro. Arrendetevi,
li incitava Miles silenziosamente. Non ne vale la pena. Ma più di un paio
d'occhi incontrarono i suoi, e poi si richiusero con decisione.
Miles malediceva silenziosamente l'anonimo ingegnoso cervellone che
aveva inventato la fetaina come arma terrorizzante, non tanto per la sua
chimica, quanto per la sua influenza sulla psiche barraiarana. Se la fetaina
non era mai stata usata in passato, allora è possibile che non sarebbe stata
mai usata neanche in futuro. Qualsiasi fazione avesse cercato di farlo, a-
vrebbe dovuto sollevarsi contro se stessa e cadere in mille pezzi per le
convulsioni morali.
Yaski, che era dietro ai suoi uomini, sembrava letteralmente terrorizzato.
Bonn con l'espressione scura e fragile come ossidiana, cominciò a togliersi
i guanti e il parka.
No, no, no! gridò Miles dentro di sé. Se ti unisci a loro non torneranno
indietro. Penseranno di avere ragione. Terribile errore, terribile... Bonn
piegò il resto degli abiti in un mucchio, marciò in avanti, si unì alla fila, si
voltò di scatto, e incrociò lo sguardo di Metzov. Gli occhi di Metzov si
riempirono di una nuova furia. «Alla fine» sibilò «vi siete condannati da
soli. Congelatevi, allora.»
Come era potuto succedere che le cose precipitassero così in fretta? Sa-
rebbe stato il momento giusto per ricordarsi di un compito da svolgere nel-
l'ufficio meteorologico, e darsela a gambe. Se soltanto quei tremanti ba-
stardi si fossero arresi, Miles avrebbe potuto passare la notte senza intoppi.
Non aveva nessun dovere da svolgere lì, nessuna funzione...
Lo sguardo di Metzov cadde su Miles. «Vorkosigan, o lei è in grado di
prendere un'arma e rendersi utile, oppure si consideri congedato.»
Poteva andarsene. Poteva andarsene? Quando vide che non si muoveva,
il sergente si avvicinò e mise nelle mani di Miles un distruttore nervino.
Miles lo prese, mentre ancora si sforzava di pensare, con un cervello anda-
to ormai in pappa. Gli rimase giusto la lucidità sufficiente ad accertarsi che
ci fosse la sicura, prima di puntare il distruttore nella direzione degli uo-
mini che si stavano congelando.
Questo non è un ammutinamento, è un massacro.
Una delle reclute armate ridacchiò nervosamente. Che cosa gli avevano
detto che stavano facendo? Che cosa credevano di fare? Avevano diciotto,
forse diciannove anni, potevano mai essere in grado di riconoscere un or-
dine criminale? O sapere come reagire se gli capitava di riceverne uno?
E Miles?
La situazione era ambigua, era quello il problema. A metà anno suo pa-
dre veniva personalmente a tenere un seminario su quel tema per gli allievi
più anziani. Ne aveva fatto un requisito necessario per i diplomati, per de-
creto imperiale, quando era stato reggente. In che cosa consisteva esatta-
mente un ordine criminale, e come e quando disubbidirvi. Con prove fil-
mate che si riferivano a vari casi storici e cattivi esempi, incluso il politi-
camente disastroso massacro del solstizio, che si era verificato sotto lo
stesso comando dell'ammiraglio. Ogni volta uno o due cadetti erano co-
stretti a lasciare la sala durante quella parte, per andare a vomitare.
Gli altri istruttori detestavano il giorno di Vorkosigan. Le loro classi ne
rimanevano scosse per settimane. Motivo per cui l'ammiraglio Vorkosigan
non aspettava a presentarsi ad anno inoltrato. Quasi sempre era costretto a
ritornare gualche settimana dopo, per dissuadere qualche cadetto disturba-
to dal ritirarsi quando era arrivato quasi alla fine del proprio addestramen-
to. Per quello che ne sapeva Miles, solo i cadetti dell'Accademia riceveva-
no queste lezioni di vita, anche se suo padre diceva di volerle trasferire su
olovideo e farle diventare parte dell'intero addestramento di base del servi-
zio. Alcune parti del seminario erano state una rivelazione anche per Mi-
les.
Ma quella situazione... se i tecnici fossero stati dei civili, Metzov si sa-
rebbe chiaramente trovato dalla parte del torto. Se fossero stati in tempo di
guerra, incalzati da qualche nemico, Metzov si sarebbe comportato secon-
do i propri diritti e doveri. Ma quella situazione si trovava nel mezzo. I
soldati disubbidivano passivamente. E non c'era nessun nemico in vista. E
nemmeno una situazione di pericolo fisico, per chi viveva alla base (eccet-
tuati loro) almeno fino a quando il vento non cambiava. Non sono pronto
per questo, non ancora, non così presto. La mia carriera...
Un panico claustrofobico si impossessò di Miles, facendolo sentire come
un uomo con la testa intrappolata in una fogna. Il distruttore nervino gli
tremò leggermente tra le mani. Dall'altra parte del riflettore parabolico ve-
deva Bonn depresso, e ormai troppo congelato per discutere. Le orecchie
stavano diventando bianche e così le mani e i piedi. Un uomo si era accar-
tocciato in una palla tremante, ma non dava alcun segno di volersi arrende-
re. Era rimasta almeno la possibilità di un piccolo dubbio nella rigida testa
di Metzov?
Per un folle attimo Miles si vide togliere la sicura e sparare a Metzov. E
poi cosa avrebbe fatto, si sarebbe messo a sparare sulle reclute? Non sa-
rebbe riuscito a ucciderle tutte prima di restare ucciso lui stesso.
Probabilmente qui sono l'unico soldato, che non ha mai ucciso un nemi-
co né in battaglia né da qualsiasi altra parte. Le reclute potevano anche
sparare per ignoranza, o per curiosità. Non ne sapevano abbastanza per
non farlo. Ciò che faremo nella prossima mezzora continuerà a ripetersi
nella nostra mente finché avremo respiro.
Non poteva tentare di fare nulla. Solo eseguire gli ordini. In quanti guai
ci si poteva mettere, semplicemente eseguendo gli ordini? Qualsiasi co-
mandante avesse mai avuto si sarebbe trovato d'accordo nel sostenere che
lui doveva seguire meglio gli ordini. Allora pensi che ti potrebbe piacere il
tuo servizio navale, guardiamarina Vorkosigan, insieme alla tua combric-
cola di fantasmi congelati? Almeno non sarai mai solo...
Miles, sempre con il distruttore nervino in mano, fece qualche passo in-
dietro, allontanandosi dalle reclute, lontano dalla visuale di Metzov. Le la-
crime gli confondevano la vista. Senza dubbio per il freddo.
Si sedette per terra. Si tolse i guanti e gli stivali. Lasciò cadere il parka e
la camicia. Poi mise in cima al mucchio i pantaloni e la biancheria termica,
e ci poggiò sopra con cura il distruttore nervino. Si alzò e fece qualche
passo avanti. I supporti ortopedici contro i polpacci gli davano la stessa
sensazione di ghiaccioli.
Io odio la resistenza passiva. Sul serio, la odio davvero.
«Cosa diavolo crede di fare, guardiamarina?» ringhiò Metzov quando
Miles gli passò davanti zoppicando.
«Di farla finita con questa storia, signore» disse Miles con fermezza. Al-
cuni dei tecnici tremanti si allontanarono da lui, come se la sua deformità
potesse essere contagiosa. Ma Pattas non lo fece. E nemmeno Bonn.
«Bonn ha voluto questo bluff. E adesso se ne sta pentendo. Comunque
non funzionerà per lei, Vorkosigan.» La voce di Metzov tremava, anche se
non per il freddo.
Avrebbe dovuto dire "guardiamarina". Cosa c'è in un nome? Miles si
accorse del fremito di sgomento che attraversò le reclute, in quell'istante.
No, non aveva funzionato con Bonn. Miles poteva essere l'unico per il qua-
le quel tipo di intervento individuale poteva funzionare. Dipendeva da
quanto voleva spingersi oltre il folle Metzov.
Miles, a quel punto, parlò sia a beneficio di Metzov che delle reclute.
«Forse, è possibile che il servizio di sicurezza non indaghi sulla morte di
Bonn e dei suoi uomini, se lei camuffa la registrazione e afferma che si è
trattato di un incidente. Ma le garantisco che la Sicurezza Imperiale inda-
gherà sulla mia.»
Metzov fece uno strano ghigno. «Ma nell'eventualità che non sopravviva
nessun testimone da citare in giudizio?»
Il sergente di Metzov aveva lo stesso rigido aspetto del suo capo. Miles
pensò ad Ahn, all'ubriacone Ahn, al silenzioso Ahn. Che cosa aveva visto
Ahn, molto tempo prima, quando succedevano cose folli a Komarr? Che
tipo di testimone sopravvissuto era stato? Era forse colpevole? «S-s-scusi,
signore, ma vedo come minimo dieci testimoni, dietro quei distruttori ner-
vini.» Le paraboliche argentee, da quella nuova angolazione, sembravano
enormi, simili a piatti di portata. Il cambiamento di punto di vista era sor-
prendentemente chiarificante. Adesso non c'erano più ambiguità.
Miles continuò: «Oppure si ripropone di fucilare il suo plotone d'esecu-
zione e poi di sparare anche a se stesso? La Sicurezza Imperiale interro-
gherà chiunque. Lei non può farmi tacere. Vivo o morto, attraverso le mie
stesse labbra, o le sue, o le loro, comunque io testimonierò». Il corpo di
Miles era torturato dai brividi. Era sconvolgente l'effetto di quel piccolo
assaggio di vento dell'est, a quella temperatura. Lottava per non permettere
alla sua voce di tremare, per paura che il freddo fosse scambiato per paura.
«Sarà una magra consolazione per lei, guardiamarina, se si lascia conge-
lare.» Il pesante sarcasmo di Metzov urtò i nervi di Miles. Quell'uomo an-
cora credeva di vincere. Pazzo.
Stranamente i piedi di Miles avevano quasi caldo, adesso. Aveva le ci-
glia che scricchiolavano per il ghiaccio. Lui era colpito più velocemente
degli altri, in termini di congelamento mortale, senza dubbio per la sua
massa ridotta. Il suo corpo si stava ricoprendo di chiazze bluastre.
La base avvolta nella neve era immersa nel silenzio più totale. Riusciva
a sentire i singoli granelli di neve che svolazzavano sulle lastre di ghiaccio.
Sentiva le vibrazioni prodotte dalle ossa di ognuno degli uomini che gli
stavano intorno, percepiva il respiro terrorizzato delle reclute. Il tempo
stringeva.
Poteva cercare di minacciare Metzov, spezzandone l'autocompiacimento
con oscure frecciate a proposito di Komarr, la verità verrà a galla... Pote-
va appellarsi al rango di suo padre e alla sua posizione. Poteva... maledi-
zione! Metzov, pazzo o non pazzo, doveva rendersi conto che aveva supe-
rato i limiti. Il suo bluff della parata disciplinare non aveva funzionato e
adesso ci era rimasto incastrato, continuando a difendere ottusamente la
sua autorità fino alla morte. Può essere stranamente pericoloso, se lo mi-
nacci sul serio... Era difficile intuire la paura che si celava dietro a quel
sadismo. Eppure c'era... l'aggressività non stava funzionando. Metzov era
praticamente pietrificato nella sua resistenza. Come si sarebbe comportato,
allora?
«Ma rifletta, signore» disse Miles con tono persuasivo «sul vantaggio
che le procurerebbe fermarsi adesso. Lei adesso ha una prova lampante di
ammutinamento e di cospirazione. Può arrestarci tutti e condurci nella pri-
gione militare. È una vendetta migliore, perché in questo modo lei ottiene
tutto senza perdere nulla. Io perdo la mia carriera, ottenendo un congedo
disonorevole se non la prigione. Non crede che preferirei morire? Il servi-
zio di sicurezza punirà noi al suo posto. E lei otterrà tutto.»
Le parole di Miles lo avevano accalappiato; Miles lo vide, tra la luce
rossa che fluttuava nei suoi occhi socchiusi, nella leggera piega di quel
collo rigido come acciaio. Miles doveva soltanto lasciare che le cose pro-
cedessero da sole, astenersi dall'insistere e aspettare che si rinnovassero le
frenesie belliche di Metzov, doveva aspettare...
L'imponente figura di Metzov si avvicinò nella luce soffusa, in mezzo
all'aureola prodotta dal suo fiato gelato. Abbassò il tono di voce, per parla-
re al solo orecchio di Miles. «Una tipica soluzione moderata alla Vorkosi-
gan. Suo padre era stato molto permissivo con la feccia di Komarr. Ci ave-
va fatto perdere dei soldati. La corte marziale per il figlioletto dell'ammi-
raglio. La cosa potrebbe mettere in difficoltà un santerellino come te, eh?»
Miles inghiottì la saliva ghiacciata. Quelli che non conoscono la propria
storia, pensò confusamente, sono destinati a intervenirvi. Ahimè, allora
c'era chi lo faceva, almeno sembrava. «Date fuoco a quella maledetta fe-
taina» mormorò con voce roca «e vediamo.»
Il tenente Yaski aveva preso l'opportunità che si era presentata con la
concentrazione d'attenzione dovuta all'arrivo di Miles al centro della scena
per scomparire alla chetichella nell'edificio amministrativo e andare a fare
alcune frenetiche telefonate. Ma quando il comandante delle reclute, il
medico della base, e il secondo di Metzov arrivarono, pronti a persuadere o
forse anche a somministrare a Metzov un sedativo e poi portarlo via, la de-
cisione era già stata presa. Miles, Bonn e i tecnici si erano già rivestiti e
stavano marciando verso il magazzino che ospitava la prigione militare,
sotto gli occhi ardenti dei distruttori nervini.
«Si p-presume che ti debba r-ringraziare per questo?» domandò Bonn a
Miles battendo i denti. Le mani e i piedi oscillavano; sembravano due pa-
ralitici; poi Bonn si appoggiò a Miles, Miles si appese a lui e avanzarono
zoppicando insieme lungo la strada.
«Abbiamo ottenuto ciò che volevamo, no? Lui darà fuoco alla fetaina
prima che nella mattinata il vento cambi. Nessuno morirà. A nessuno si
ghiacceranno le cervella. Abbiamo vinto. Credo.» Miles emise un risolino
mortale tra le labbra intirizzite.
«Non credevo» ansimò Bonn «che avrei mai incontrato qualcuno ancora
più pazzo di Metzov.»
«Io non ho fatto nulla che non abbia fatto anche tu» protestò Miles. «So-
lo che ho fatto in modo che funzionasse. O quasi. Tutto, comunque, sem-
brerà diverso domani mattina.»
«Sì. Peggiore» affermò Bonn in modo lugubre.

Miles fece un balzo sulla cuccetta della sua cella, svegliandosi da un


breve sonno agitato, quando la porta si aprì. Stavano riportando indietro
Bonn.
Miles si sfregò la faccia non rasata. «Che ore sono fuori di qui, tenen-
te?»
«È l'alba.» Bonn era pallido, aveva la barba lunga e sembrava depresso
come Miles. Si lasciò cadere sulla sua cuccetta con un grugnito di dolore.
«Che cosa è successo?»
«Il servizio di sicurezza è dappertutto. Sono venuti con una nave dal
continente. È appena arrivata, e sembra carica. Credo che Metzov si senta
fischiare le orecchie. Stanno raccogliendo le deposizioni.»
«Si sono occupati della fetaina?»
«Sì» disse Bonn lugubremente. «Mi hanno portato a controllare e a fir-
mare il lavoro. Il magazzino è stato sottoposto a una bella ripulita a micro-
onde. Tutto bene.»
«Guardiamarina Vorkosigan, la vogliono» disse la guardia di sicurezza
che aveva accompagnato Bonn. «Mi segua.»
Miles si alzò in piedi e si diresse verso la porta della cella. «Ci vediamo
dopo, tenente.»
«D'accordo. Se localizzi qualcuno qua intorno con qualcosa da mangia-
re, perché non provi a usare la tua influenza politica per mandarmelo qui,
eh?»
Miles fece un sorriso desolato. «Ci proverò.»
Poi seguì la guardia lungo il breve corridoio della prigione militare. La
prigione militare della base Lazkowski non era esattamente ciò che si po-
teva definire una struttura di alta sicurezza, visto che era poco più grande
del soggiorno degli alloggi, con porte che si chiudevano solo dall'esterno e
senza finestre. Di solito le condizioni meteorologiche costituivano una
guardia migliore di qualsiasi altro schermo di forza, per non parlare del
fosso d'acqua ghiacciata largo cinquecento chilometri che circondava l'iso-
la.
Quella mattina l'ufficio di sicurezza della base era affaccendato. Due te-
tri sconosciuti erano in attesa davanti alla porta, erano un tenente e un
grosso sergente con l'insegna della Sicurezza Imperiale sull'uniforme lu-
cente. La Sicurezza Imperiale, non il servizio di sicurezza, la vera Sicurez-
za di Miles, quella che aveva vigilato sulla sua famiglia per tutta la vita po-
litica di suo padre. Miles li guardò con un piacere possessivo.
L'impiegato della sicurezza della base sembrava assillato. Una luce sul
quadro di comando della sua scrivania si accese e lampeggiò. «Guardiama-
rina Vorkosigan, signore, ho bisogno dell'impronta del suo palmo su que-
sto.»
«D'accordo. Cosa sto firmando?»
«Solo l'ordine di viaggio, signore.»
«Che cosa? Ah...» Miles si fermò un attimo e sollevò la mani inguantate.
«Quale?»
«Quello a destra andrà bene, signore.»
Con qualche difficoltà, Miles sfilò quello destro con la goffa sinistra. La
sua mano era lucida per il gel curativo che avrebbe dovuto curare i sintomi
da congelamento. La mano era gonfia, chiazzata di rosso e sembrava stor-
piata, ma quell'affare stava funzionando. Adesso poteva muovere tutte le
dita. Fece tre tentativi, premendo sul tampone per le impronte digitali,
prima che il computer lo riconoscesse.
«Adesso le sue, signore» disse l'impiegato facendo un cenno al tenente
della Sicurezza Imperiale. L'uomo della Sicurezza Imperiale poggiò la ma-
no sul tampone e il computer fece un blip di approvazione. Poi la sollevò e
cominciò a guardarsi in giro con aria interrogativa cercando un asciuga-
mano, alla fine se la strofinò sulla cucitura dei pantaloni proprio davanti
alla sua stupefacente fondina. L'impiegato sfiorò nervosamente il tampone
con la manica della giacca, poi toccò l'interfono.
«Sono felice di vedervi, ragazzi» disse Miles all'ufficiale della Sicurezza
Imperiale. «Avrei voluto che foste qui la notte scorsa.»
«Io sono semplicemente un accompagnatore, guardiamarina. Non sono
qui per discutere il suo caso.»
Il generale Metzov uscì dalla porta dell'ufficio interno, con un fascio di
carpette di plastica in una mano, e un capitano del servizio di sicurezza alle
spalle, che fece dei cenni circospetti alla sua controparte imperiale.
Il generale stava quasi sorridendo. «Buon giorno, guardiamarina Vorko-
sigan.»
Il suo sguardo accoglieva la Sicurezza Imperiale senza alcuno sconcerto.
Maledizione, la Sicurezza Imperiale avrebbe dovuto frullare quel quasi
omicida sotto i suoi stesi stivali da combattimento. «Sembra che ci sia un
aspetto in questo caso che non avevo preso in considerazione. Quando un
aristocratico si lascia coinvolgere in un ammutinamento, segue immedia-
tamente un'accusa di alto tradimento.»
«Che cosa?» Miles deglutì, per cercare di controllare il tono di voce.
«Tenente, non sono mica sotto arresto da parte della Sicurezza Imperiale?
È così?»
Il tenente tirò fuori un set di manette e attaccò Miles al grosso sergente.
Overholt, diceva il cartellino con il nome, sul distintivo dell'uomo, che Mi-
les mentalmente trasformò in Overkill. Bastava semplicemente che solle-
vasse il braccio per fare ciondolare Miles come un gattino.
«Lei è trattenuto per ulteriori accertamenti» disse formalmente il tenen-
te.
«Per quanto tempo?»
«A tempo indefinito.»
Il tenente si diresse alla porta, il sergente e Miles di conseguenza lo se-
guirono. «Dove stiamo andando?» domandò Miles freneticamente.
«Al Quartier Generale della Sicurezza Imperiale.»
Vorbarr Sultana! «Devo prendere le mie cose...»
«Il suo alloggio è già stato svuotato.»
«Poi, ritornerò qui?»
«Non lo so, guardiamarina.»
L'alba inoltrata stava striando Campo Permafrost di grigio e di giallo,
quando il gatto-scatto li depositò alla rampa di lancio della navetta. La na-
vetta suborbitale della Sicurezza Imperiale era appoggiata sul ghiaccio
come un uccello da preda accidentalmente poggiato sul nido di un piccio-
ne. Luccicante, nero e implacabile, sembrava che infrangesse la barriera
del suono semplicemente rimanendo fermo lì. Il pilota era pronto con i
motori accesi per il decollo.
Miles si trascinò sulla scaletta dietro al sergente Overkill, con la manetta
che gli oscillava indifferente intorno al polso. Sottili cristalli di ghiaccio
danzavano nel vento proveniente da nord-ovest. Nel corso della mattinata
la temperatura si sarebbe stabilizzata, riusciva a capirlo dalle parti secche e
umide nelle sue narici. Buon Dio, era arrivato il momento di andarsene da
quell'isola.
Miles fece un ultimo tagliente respiro, poi la porta della navetta si ri-
chiuse alle loro spalle con un soffio. All'interno c'era un silenzio pesante
che neppure il rumore dei motori riusciva a penetrare.
Ma almeno c'era caldo.

L'autunno nella città di Vorbarr Sultana era una stagione bellissima, e


quello era un giorno perfetto. Il cielo era intenso e azzurro, la temperatura
fresca, e addirittura i pesanti scarichi industriali facevano un buon odore. I
fiori autunnali non erano ancora sgelati, ma gli alberi di importazione ter-
restre avevano cambiato colore. Miles intravide di sfuggita uno di quegli
alberi, mentre veniva spinto fuori dall'ascensore della Sicurezza dentro u-
n'entrata laterale, che conduceva al grosso blocco di edifici che costituiva
il Quartier Generale della Sicurezza. Dall'altra parte della strada c'era un
acero terrestre, con foglie rossastre e un tronco grigio argentato. Poi la por-
ta si chiuse. Miles trattenne nella mente l'immagine dell'albero, cercando
di memorizzarla, nel caso in cui non ne avesse più visto un altro.
Il tenente della Sicurezza procurò il lasciapassare che permise a Miles e
Overholt di passare velocemente attraverso i dispositivi di sicurezza della
porta, e li guidò in un dedalo di corridoi, fino a un paio di ascensori cilin-
drici. Entrarono nel cilindro in salita, non in quello in discesa. Quindi Mi-
les non sarebbe stato portato direttamente in una delle celle di supersicu-
rezza al piano di sotto dell'edificio. Miles capì cosa significava, e desiderò
ardentemente di trovarsi nel cilindro in discesa.
Furono introdotti in un ufficio a un piano più alto da un capitano della
Sicurezza e poi dentro un ufficio interno. Un uomo, magro, bonario, in abi-
ti civili, con capelli castani brizzolati alle tempie, era seduto al quadro di
comando della sua enorme scrivania, e stava osservando un filmato. Lan-
ciò un'occhiata alla scorta di Miles e disse: «Vi ringrazio, tenente, sergen-
te. Potete andare».
Overholt staccò Miles dal proprio polso, mentre il tenente domandava:
«Sarà al sicuro, signore?»
«Penso proprio di sì» disse l'uomo seccamente.
Sì, ma io invece? Si domandò Miles tra sé e sé. I due soldati uscirono e
lasciarono Miles da solo, letteralmente steso. Sporco, non rasato, e con an-
cora indosso la tuta nera che si era infilata in fretta e furia... era successo
solo la notte prima? Aveva la faccia segnata dalle condizioni meteorologi-
che, e i piedi e le mani gonfi ancora coperti di medicamenti di plastica. Le
dita si contorcevano, avvolte com'erano in quella sostanza viscida. Non in-
dossava gli stivali. Aveva sonnecchiato, in una continua esasperante stan-
chezza, durante le due ore di volo a bordo della navetta, senza sentirsi ri-
temprato. Aveva la gola secca, le narici che gli sembravano piene di ovatta
e gli bruciavano i polmoni a ogni respiro.
Simon Illyan, capo della Sicurezza Imperiale di Barrayaran, incrociò le
braccia e osservò Miles lentamente dalla testa ai piedi e viceversa. A Miles
diede uno strano senso di deja vu.
Praticamente tutti a Barrayaran temevano il nome di quell'uomo, anche
se pochi lo avevano visto in faccia. Questo effetto era stato coltivato accu-
ratamente da Illyan, in parte costruito, ma solo in parte, sull'eredità del suo
formidabile predecessore, il leggendario capo della Sicurezza Negri. Illyan
e il suo dipartimento, da parte loro, avevano garantito la sicurezza del pa-
dre di Miles per i vent'anni della sua carriera politica, e avevano sbagliato
solo una volta, nella notte dell'infame attacco con la soluzione tossica.
Comunque, Miles sapeva che non c'era nessun'altra persona di cui Illyan
avesse paura eccetto la madre di Miles. Una volta aveva chiesto a suo pa-
dre se era per colpa della soluzione tossica, ma il conte Vorkosigan gli a-
veva risposto che non così: era solo l'effetto rimasto dalle prime intense
impressioni. Miles aveva chiamato Illyan "zio Simon" per tutta la sua vita,
finché non era entrato nell'esercito, da quel momento lo chiamò "signore".
Guardando in quel momento la faccia di Illyan, Miles pensò che final-
mente riusciva ad afferrare la differenza tra esasperazione e totale esaspe-
razione.
Illyan terminò la sua ispezione, scosse la testa e disse in tono lamentoso:
«Meraviglioso, semplicemente meraviglioso».
Miles si schiarì la gola. «Sono... sono davvero in stato di arresto, signo-
re?»
«Questo lo stabilirà l'interrogatorio» sospirò Illyan, appoggiandosi allo
schienale della sedia. «Ho dovuto alzarmi due ore dopo mezzanotte per
questa scappatella. Avevano cominciato a circolare le voci per tutto il ser-
vizio, con la stessa velocità con cui può portarle un video.
Sembra che gli avvenimenti si trasformino ogni quaranta minuti come i
batteri. Credo che non saresti riuscito a trovare un modo più evidente di
questo per autodistruggerti, no? Come cercare di assassinare l'Imperatore
con il tuo coltello da tasca durante la Celebrazione del Compleanno, per
esempio, o stuprare una pecora nella Piazza Grande durante l'ora di punta,
no?» Il sarcasmo si mescolava con un dolore autentico. «Lui riponeva tan-
te speranze in te. Come hai potuto tradirlo così?»
Non c'era alcun bisogno di domandare chi fosse "lui". Era il Vorkosigan
padre naturalmente. «Io... non credo di averlo fatto, signore. Non so.»
Sul quadro di controllo di Illyan si accese una luce. Lui sospirò, lancian-
do a Miles un'occhiata acuta, e toccò uno dei comandi. La seconda porta
dell'ufficio, sulla parete a destra della sua scrivania, si aprì, e due uomini in
abito verde entrarono.
Il Primo Ministro conte Aral Vorkosigan indossava l'uniforme con la
stessa naturalezza con cui un animale indossa la propria pelliccia. Era un
uomo di media altezza, tarchiato, con i capelli grigi, la mascella larga, pie-
no di cicatrici, una faccia da delinquente, e tuttavia aveva gli occhi grigi
più penetranti che Miles avesse mai visto. Era affiancato dal suo aiutante,
un alto tenente biondo di nome Jole. Miles aveva incontrato Jole l'ultima
volta che era stato a casa. Adesso era un perfetto ufficiale, intelligente e
brillante, aveva prestato servizio nello spazio, era stato decorato per qual-
che bravata veloce e coraggiosa durante un orrendo incidente di volo, poi
era stato spostato al Quartier Generale mentre si riprendeva dalle ferite, e
immediatamente scelto come suo ufficiale di collegamento dal Primo Mi-
nistro, che aveva un occhio acuto nel cogliere i nuovi talenti. Aveva uno
sguardo bovino, e per giunta il suo compito era probabilmente quello di fa-
re dei video per il reclutamento. Miles sospirava di una gelosia senza spe-
ranza tutte le volte che lo incontrava; Jole era anche peggio di Ivan, che
nonostante l'oscura bellezza non era mai stato considerato brillante.
«Grazie, Jole» mormorò il conte Vorkosigan al suo aiutante, non appena
vide Miles. «Ci vediamo dopo in ufficio».
«Sì, signore.» Così congedato, Jole uscì, lanciando un'occhiata preoccu-
pata a Miles e al suo superiore, e la porta si richiuse.
Illyan aveva ancora la mano sul comando della scrivania. «Sei qui uffi-
cialmente?» domandò al conte Vorkosigan.
«No.»
Illyan disinserì qualcosa, l'apparecchiatura di registrazione intuì Miles.
«Molto bene» disse, con un tono di voce incerto.
Miles salutò il padre che ignorò il saluto e lo strinse in un abbraccio,
senza dire una parola, e andò a sedersi sull'unica altra sedia della stanza,
poi incrociò le braccia, accavallò le gambe e disse: «Continua, Simon.»
Illyan, che secondo Miles era stato interrotto nel bel mezzo di ciò che
doveva essere lo sviluppo del suo discorso, si mordicchiò le labbra con
senso di frustrazione.
«Lasciamo da parte le voci» disse Illyan a Miles. «Che cosa è accaduto
realmente la notte scorsa, su quella maledetta isola?»
Usando i termini più neutrali e concisi che riusciva a trovare, Miles de-
scrisse gli avvenimenti della notte precedente dalla fuoriuscita di fetaina
fino al suo arresto a tempo indefinito da determinarsi da parte della Sicu-
rezza Imperiale. Durante l'intero racconto, suo padre non aveva detto nulla,
ma teneva tra le mani una penna luminosa con cui scarabocchiava in modo
assente o tamburellava sul ginocchio.
Quando Miles ebbe finito cadde il silenzio. La penna luminosa stava fa-
cendo distrarre Miles. Desiderò che il padre mettesse via quella dannata
cosa, o la poggiasse, o qualcosa del genere.
Il padre fece scivolare la penna luminosa nel taschino, grazie a Dio, si
appoggiò all'indietro, intrecciò le dita e assunse un'espressione accigliata.
«Fammi capire bene. Tu dici che Metzov ha giocato a fare il comandante
capo e ha costretto le reclute a fargli da plotone d'esecuzione?»
«Dieci soldati. Non so se fossero dei volontari oppure no, non ero uno di
loro.»
«Delle reclute.» La faccia del conte Vorkosigan era accigliata. «Dei ra-
gazzi.»
«Ha balbettato qualcosa a proposito dell'esercito contro la marina, al
tempo della vecchia Terra.»
«Eh?» disse Illyan.
«Credo che Metzov non fosse tanto stabile nemmeno quando è stato esi-
liato nell'Isola Kyril, dopo i guai che ha avuto con la rivolta di Komarr, e
quindici anni di riflessioni su questo argomento non devono avere aumen-
tato la sua padronanza di sé» disse Miles un po' esitante. «Il generale Me-
tzov sarà interrogato per le sue azioni, signore?»
«Il generale Metzov, per tua informazione» disse l'ammiraglio Vorkosi-
gan «ha costretto con la forza un plotone di diciottenni a fare ciò che per
un pelo non diventava una letale tortura di massa.»
Miles annuì, memore di quei momenti. Il corpo ancora gli tremava per
l'agonia.
«Per questa colpa, non c'è una buca abbastanza profonda in cui possa
nascondersi dalla mia ira. Metzov dovrà preoccuparsene.» Il conte Vorko-
sigan aveva un ghigno terrificante.
«E che cosa mi dici di Miles e degli altri ammutinati?»
«Purtroppo, temo che dovremo trattare queste faccende come un caso a
parte.»
«O come due casi separati» suggerì Illyan.
«Mm. Allora, Miles dimmi qualcosa degli uomini che erano sotto tiro.»
«Erano tecnici, signore, in gran parte. Molti greci.»
Illyan sobbalzò. «Buon Dio, quell'uomo non aveva nessun tipo di sensi-
bilità politica?»
«Non direi. Sapevo che questa faccenda avrebbe causato dei guai.» Be',
l'aveva capito solo dopo, disteso sulla brandina della sua cella, dopo che la
squadra medica se ne era andata. A quel punto gli era venuta in mente l'al-
tra possibile ramificazione politica. La maggior parte dei tecnici mezzi
congelati erano di lingua greca. I separatisti linguistici si sarebbero riversa-
ti sulle strade, ne sarebbe derivato un massacro, di certo avrebbero recla-
mato che il generale aveva ordinato ai greci quella pulizia come gesto di
sabotaggio razziale. Ci sarebbero stati molti morti, e il caos si sarebbe ri-
verberato nel tempo, forse come conseguenza del massacro del solstizio?
«Mi è venuto in mente che se fossi morto con loro, almeno sarebbe stato
perfettamente chiaro che non si era trattato di una qualche trama del vostro
governo, o dell'oligarchia aristocratica. Quindi se fossi sopravvissuto avrei
vinto, e se fossi morto, avrei vinto lo stesso. O almeno mi sarei reso utile.
Una specie di strategia, insomma.»
Il più grande stratega di Barrayar di quel secolo si strofinò le tempie,
come se gli facessero male. «Be'... sì, una specie di strategia.»
«Quindi» Miles deglutì «che cosa accadrà adesso, signore? Sarò accusa-
to di alto tradimento?»
«Per la seconda volta in quattro anni?» disse Illyan. «Diavolo, no. Non
voglio passarci un'altra volta. Ti farò semplicemente scomparire, finché
non si calmeranno le acque. Dove, non ci ho ancora pensato. L'Isola Kyril
è fuori discussione.»
«Sono felice di sentirglielo dire, signore.» Miles socchiuse gli occhi. «E
gli altri?»
«Le reclute?» disse Illyan.
«I tecnici. I miei... compagni ammutinati.»
Illyan fece un movimento brusco nel sentire quella parola.
«Sarei davvero ingiusto se dovessi cavarmela solo per un privilegio ari-
stocratico, lasciando gli altri a sostenere le accuse da soli» aggiunse Miles.
«Il pubblico scandalo di un tuo processo danneggerebbe la coalizione
centrista di tuo padre. I tuoi scrupoli morali saranno anche ammirevoli, ma
temo che non potrò assecondarli.»
Miles fissò con fermezza il Primo Ministro. «Signore?»
Il conte Vorkosigan si succhiò il labbro inferiore pensierosamente. «Sì,
potrei annullare le accuse contro di loro, per decreto imperiale. Ma biso-
gnerebbe pagare un altro prezzo, comunque.» Si appoggiò allo schienale,
scrutando Miles. «Tu non potresti più prestare servizio. Le voci viaggeran-
no anche senza un'indagine. E dopo non ci sarà più nessun comandante che
ti vorrà. Nessuno che si fidi di te, che creda che tu sia un vero ufficiale, e
non un impostore protetto da speciali privilegi. Non potrei chiedere a nes-
suno che abbia un po' di sale in zucca di essere un tuo superiore.»
Miles fece un respiro profondo. «In un certo senso erano i miei uomini.
Fallo. Elimina l'accusa.»
«Quindi rassegnerai le tue dimissioni?» domandò Illyan. Sembrava tri-
ste.
Anche Miles si sentiva triste, nauseato e infreddolito. «Lo farò» disse
con un filo di voce.
Illyan improvvisamente distolse lo sguardo dal quadro di comando sulla
sua scrivania. «Miles, come facevi a sapere delle azioni discutibili del ge-
nerale Metzov durante la rivolta di Komarr? Quel caso era classificato co-
me top-secret.»
«Ah... non le ha detto niente Ivan della piccola crepa che c'è nei file del
sistema di Sicurezza Imperiale, signore?»
«Che cosa?»
Dannato Ivan. «Posso sedermi, signore?» chiese Miles. Gli girava la
stanza davanti agli occhi, e gli martellava la testa. Senza aspettare di rice-
vere il permesso, si sedette a gambe incrociate sul tappeto, con sguardo
ammiccante. Suo padre fece un gesto preoccupato verso di lui, poi si ri-
trasse. «Stavo verificando il passato di Metzov per via di una cosa che mi
aveva detto il tenente Ahn. A proposito, quando vi occuperete di Metzov
suggerisco fortemente che interroghiate prima Ahn. Sa molto di più di
quanto sembra. Penso che possiate trovarlo da qualche parte all'equatore.»
«I miei file, Miles.»
«Ah, sì, be', capita che se connetti di fronte un sistema informatico pro-
tetto con un normale computer in grado di fornire dati, tu possa facilmente
leggere i file della Sicurezza da qualsiasi parte della rete video. Natural-
mente bisogna che ci sia qualcuno al Quartier Generale che possa e voglia
indirizzare il quadro dei comandi, e richiamare i file a seconda delle tue ri-
chieste. E non si può avere lo scorrimento veloce. Ma, ehm, pensavo che
lei lo sapesse, signore.»
«Sicurezza totale» disse il conte Vorkosigan con voce strozzata. Miles si
rese conto stupefatto che stava ridacchiando.
Illyan aveva l'aspetto di un uomo che stesse succhiando un limone.
«Come hai fatto» cominciò Illyan fermandosi un istante per lanciare un'oc-
chiata al conte. «Come hai fatto a scoprirlo?»
«Era ovvio.»
«Avevi detto che era un sistema impenetrabile» disse il conte Vorkosi-
gan, soffocando una risata. «Il più caro tra quelli finora progettati. A prova
dei virus più astuti, l'attrezzatura più sofisticata di anti-intercettazione, di-
cevi. E due guardiamarina l'hanno penetrata con un soffio?»
Incitato, Illyan sbottò: «Non avevo garantito che fosse a prova di idio-
ta!»
Il conte Vorkosigan si passò una mano sugli occhi e sospirò. «Ah, il fat-
tore umano. Correggeremo il difetto, Miles. Grazie.»
«Tu sei un'arma maledettamente pericolosa, ragazzo. Che spara in ogni
direzione.» ringhiò Illyan a Miles, sporgendo il collo per guardare dalla
parte di Miles, che era completamente accasciato. «Questo per quanto ri-
guarda la tua prima scappatella, per il resto... gli arresti domiciliari non so-
no sufficienti. Devi assolutamente essere chiuso in una cella con le mani
legate dietro la schiena. Perché io possa passare una notte tranquilla.»
Miles, che avrebbe ucciso per potersi concedere subito un'ora di sonno
decente, poté solo alzare le spalle. Forse poteva riuscire a convincere Il-
lyan a lasciarlo andare immediatamente in una cella graziosa e tranquilla.
Il conte Vorkosigan si era fatto silenzioso, una strana luce gli brillava
negli occhi. Illyan notò l'espressione, e si fermò.
«Simon» disse il conte Vorkosigan «non c'è dubbio che la Sicurezza Im-
periale debba tenere sott'occhio Miles. Per la sua salute, e per la mia.»
«E per quella dell'Imperatore» intervenne Illyan accigliato. «E di Barra-
yar. E degli innocenti passanti.»
«E cosa c'è di meglio, di più diretto e di più efficace, che assegnarlo di-
rettamente alla Sicurezza Imperiale?»
«Che cosa?» Dissero Illyan e Miles contemporaneamente, con lo stesso
tono inorridito. «Stai scherzando» continuò Illyan, mentre Miles aggiun-
geva: «La Sicurezza non è mai stata in cima alla lista delle mie preferen-
ze».
«Non si tratta di preferenze, ma di predisposizioni. Il maggiore Cecil ne
aveva discusso con me una volta. Ma come dice Miles, lui non l'aveva
messa nella lista.»
Se era per quello, non aveva messo nella lista nemmeno il Meteorologo
Artico, ricordò Miles.
«Avevi detto la cosa giusta prima» disse Illyan «Nessun comandante del
servizio lo vorrà più adesso. Nemmeno io.»
«Non c'è nessuno su cui io possa contare per prendersi Miles, eccetto te.
Ho sempre contato su di te, Simon» disse il conte Vorkosigan con uno
sguardo significativo.
Illyan sembrava confuso, come un gran manipolatore che cominciasse a
vedersi manovrato.
«Inoltre» continuò il conte Vorkosigan con lo stesso tono persuasivo «ci
permetterà di spedirlo lontano dal pianeta finché le acque non si saranno
calmate.»
Illyan si illuminò un po'. «Quanto lontano dal pianeta?»
Una strana luce, forse di dolore, attraversò il viso del conte Vorkosigan e
poi scomparve, come una nube di passaggio sul sole. «Tanto quanto gli è
necessario» replicò con fermezza. «Funzionerà sotto vari punti di vista.
Potremo metterla come se si trattasse di un esilio non ufficiale, una parten-
za in disgrazia. Calmerà i miei nemici politici, che vorrebbero cercare di
ricavare profitto da questo pasticcio. E abbasserà il tono del nostro appa-
rente condono dell'ammutinamento, che nessun servizio militare potrebbe
permettersi.»
«Un vero esilio» disse Miles «anche se non ufficiale.»
«Oh sì» si trovò d'accordo il conte Vorkosigan «ma non un'autentica di-
sgrazia.»
No? Ma... lontano dal pianeta? Il servizio navale? Doveva essere una
specie di servizio navale, non poteva allontanarsi dal pianeta se non a bor-
do di una nave. Il cuore di Miles cominciò a battergli all'impazzata, per la
prima volta da quando aveva lasciato l'Isola Kyril.
«Possiamo fidarci ad affidargli un servizio isolato, senza nessuna super-
visione?» domandò Illyan dubbioso.
«Credo di sì.» Il sorriso del conte era abbagliante come la lama di un
coltello.
«La Sicurezza può utilizzare le sue doti. La Sicurezza più di qualsiasi al-
tro dipartimento ha bisogno delle sue doti.»
«Per vedere l'ovvio?»
«E anche il meno ovvio. La vita dell'Imperatore può essere affidata a
molti ufficiali. Meglio che sia affidata a pochi, che però siano suoi pari.»
Illyan, riluttante, fece un vago gesto di acquiescenza. Il conte Vorkosi-
gan, forse per prudenza, non dimostrò troppo entusiasmo al capo della si-
curezza, ma si girò versò Miles e disse: «Sembra che tu abbia bisogno di
un infermeria».
«Ho bisogno di un letto.»
«Cosa ne diresti di un letto in infermeria?»
Miles tossì, e sbatté le palpebre. «Sì, va bene.»
«Vieni, ne troveremo uno disponibile.»
Si alzò e si appoggiò al braccio di suo padre, mentre i piedi gli sguazza-
vano viscidi dentro le fasciature di plastica.
«A parte questo, com'era l'Isola Kyril, guardiamarina Vorkosigan?» do-
mandò il conte. «Tua madre ha notato che non hai chiamato a casa molto
spesso.»
«Sono stato occupato. Il clima era feroce, il terreno letale, e un terzo del-
la popolazione incluso il mio immediato superiore era completamente u-
briaca per la maggior parte del tempo. Il quoziente medio d'intelligenza
equiparava la temperatura principale in gradi centigradi, non c'era una
donna nel raggio di cinquecento chilometri, e il comandante della base era
un omicida psicotico. Per il resto era un bel posto.»
«Sembra che non sia cambiato nemmeno nei più piccoli dettagli negli
ultimi venticinque anni.»
«Ci sei stato?» disse Miles guardandolo di traverso. «E hai permesso che
mi mandassero in quel posto?»
«Ho comandato la base Lazkowski, per cinque mesi, una volta, aspet-
tando che mi dessero il comando dell'incrociatore Generale Vorkraft. In
quel periodo, la mia carriera politica attraversava un momento di eclisse,
per così dire.»
Si fa per dire. «E cosa te ne sembrava?»
«Non mi ricordo molto. Ero ubriaco per la maggior parte del tempo. O-
gnuno trova un suo modo per avere a che fare con Campo Permafrost. An-
zi, direi che tu ne hai trovato uno migliore del mio.»
«Trovo la sua conseguente sopravvivenza... incoraggiante, signore.»
«Me l'immaginavo. Questa è la ragione per cui l'ho menzionato. Anche
se non è in nessun modo una esperienza che prenderei come esempio.»
Miles alzò gli occhi verso il padre. «Ho... ho fatto la cosa giusta, signo-
re? La scorsa notte?»
«Sì» disse semplicemente il conte. «Una cosa giusta. Anche se forse non
la più giusta in assoluto. Forse fra tre giorni ti verrà in mente una tattica
più intelligente, ma in quel momento hai fatto quello che ritenevi più op-
portuno. Io non metto alla prova i miei comandanti di campo una seconda
volta.»
Miles annuì, soddisfatto.

Titolo Originale: Weatherman


Analog Science fiction and Fact,
February 1990

IL COMPAGNO
di Poul Anderson

La condanna di chi
ha una vita più del diavolo...

Una nave stava effettuando un carico al molo Claudiano. Era stata pro-
gettata per le traversate transoceaniche, aveva due alberi, e il suo ventre
nero e rotondo poteva contenere un carico di un migliaio di tonnellate. Il
dritto di poppa dorato, che si inarcava alto sugli ordini di remi seguendo la
forma del collo e della testa di un cigno, era anch'esso indizio di ricchezza.
Lugo andò a informarsi. Diretto più o meno da quelle parti, aveva fatto una
deviazione con l'idea di dare un'occhiata a quello che succedeva al porto.
Si preoccupava di tenersi sempre aggiornato.
Gli stivatori erano degli schiavi. Nonostante fosse appena mattina, vide
che gli uomini, i quali trasportavano delle grandi giare, una per ogni due
schiavi, avevano già il corpo lucido e puzzolente di sudore mentre traspor-
tavano il loro carico dal molo sulla passerella. La brezza che arrivava dal
fiume mescolava le zaffate di pece fresca della nave con il loro odore. Il
caposquadra era lì vicino a controllare, e Lugo gli si avvicinò.
«È la Nereide» gli rispose «Ha un carico per la Britannia di vino, cristal-
li, seta, e non so che altro. Il capitano vuole approfittare della marea di
domani mattina presto per salpare. Ehi, tu!» Con la frusta sferzò una
schiena nuda. La frusta era formata da un unico cordone e non era pesante,
ma lasciò il segno tra le scapole e il perizoma. «Muoviti!» Lo schiavo gli
lanciò uno sguardo torvo e disperato e si trascinò stancamente verso il de-
posito in cui si trovava il carico successivo. «Devo dargli una rinfrescatina
abbastanza spesso» spiegò il caposquadra «altrimenti perdono il ritmo, di-
ventano pigri, e se ne stanno seduti a non fare nulla. Ma non basta mai».
Sospirò. «Ci vorrebbero degli uomini liberi, almeno in tempi difficili come
questi si potrebbe licenziarli, per poi richiamarli quando servono. Se inve-
ce sei uno schiavo a vita...»
«È incredibile che questa nave sia in partenza» disse Lugo. «Non do-
vrebbe attrarre i pirati come mosche su una carcassa? Ho sentito dire che i
Sassoni e gli Scoti stanno trasformando le spiagge armoriche in una distesa
incenerita».
«La stirpe dei Caelii è sempre stata coraggiosa, e ti garantisco che si può
ricavare un grande profitto quando sono pochi quelli che osano navigare»
rispose il caposquadra.
Lugo annuì, accarezzandosi il mento, poi mormorò: «I pirati di solito
colpiscono vicino alla costa. Senza dubbio sulla Nereide ci saranno delle
guardie e l'equipaggio sarà armato. Se dovessero profilarsi all'orizzonte
delle navi barbare, gli Scoti probabilmente non riuscirebbero a scalare le
fiancate perché troppo alte per le loro piccole imbarcazioni, e le galene
sassoni non le raggiungerebbero mai, neppure con il vento favorevole».
«Parli come un marinaio ma non ne hai l'aspetto» disse il caposquadra
con un'occhiata attenta. Il sospetto era all'ordine del giorno. Aveva di fron-
te un uomo di statura media, di aspetto forte e giovane; con il viso stretto e
gli zigomi alti, il naso aquilino e occhi castani leggermente obliqui capelli
scuri e barba ben curata, come se fosse appena uscito dal barbiere; indos-
sava una tunica bianca immacolata e un mantello blu con il cappuccio tira-
to indietro; calzava sandali robusti e aveva in mano un bastone, nonostante
camminasse con agilità.
Lugo alzò le spalle. «Ho girato molto e mi piace parlare con la gente.
Come con te, adesso.» Gli sorrise. «Ti ringrazio di avere soddisfatto la mia
curiosità, e ti auguro una buona giornata.»
«Che Dio sia con te» rispose il caposquadra, disarmato, poi riportò la
sua attenzione sugli scaricatori.
Lugo proseguì il suo giro. Quando si trovò di fronte alla chiusa succes-
siva, si fermò ad ammirare il panorama verso levante. Le sue ciglia scher-
marono la luce del sole che si frastagliò in riflessi arcobaleno.
Davanti a lui scorreva il Garunna, diretto verso la confluenza con il Du-
ranio, con cui condivideva l'estuario e lo sbocco al mare. Lungo i sei chi-
lometri di acqua splendente navigavano diverse barche a remi, un pesche-
reccio che risaliva a remi la corrente con il suo carico e una vistosa vela a
tarchia innalzata su una piccola imbarcazione. La terra dall'altro lato era di
un verde intenso; Lugo guardò le pareti brune e le tegole rosate di due ville
circondate da vigne, mentre volute di fumo si alzavano dai più poveri tetti
di paglia. C'erano uccelli ovunque, pettirossi, passeri, gru, anatre, un falco
su una altura, un martin pescatore di un blu sorprendente. Sentiva i loro ri-
chiami che si levavano in mezzo allo sciabordio e al fruscio del fiume. Era
difficile immaginare che i selvaggi germani imperversassero alle porte di
Lugduno, e che la città principale della Gallia centrale potesse essere in
quel momento caduta nelle loro mani, a poco meno di trecento miglia da lì.
O forse era anche troppo facile da immaginare. Lugo serrò le labbra.
Andiamo, si disse. Era più incline di altri alle fantasticherie, e aveva poche
scusanti di quei tempi. La vicinanza dei Germani gli era stata risparmiata
fino ad allora, ma i segni intorno a lui si facevano più chiari, giorno dopo
giorno. Si girò e rientrò in città.
La porta era piccolissima, una feritoia per le sortite tra le mura, che con
le torri e i bastioni creavano un quadrato intorno a Burdigala. Una sentinel-
la armata, mezza addormentata, era appoggiata contro le mura di pietra
scaldate dal sole. Era un ausiliario, un germano. Le legioni erano in Italia o
ai confini, e ormai erano solo l'ombra di ciò che erano state un tempo. Nel
frattempo i Barbari avevano strappato agli imperatori il permesso di stabi-
lirsi nei territori romani. In cambio, erano tenuti a obbedire alle leggi e a
prestare servizio militare; ma attorno, a Lugduno, si erano ribellati...
Lugo proseguì, passando attraverso il pomerio scoperto, lungo una stra-
da che riconobbe come la via Vindomariana, che proseguiva serpeggiando
tra edifici le cui mura scoprivano solo una striscia di cielo; i ciottoli irrego-
lari di quel viottolo oscuro, che probabilmente risaliva all'epoca in cui il
luogo era occupato solo dai Biturgi, erano ricoperti di rifiuti maleodoranti.
Comunque, Lugo si era preso la briga di imparare a riconoscere le strade di
tutta la città, sia dei quartieri vecchi che di quelli nuovi.
Non c'era una gran folla, e si trattava soprattutto di gente vestita mise-
ramente. Donne di casa che chiacchieravano portando al fiume i panni da
lavare, o trasportavano secchi d'acqua dal più vicino sbocco dell'acquedot-
to o cesti di verdure comprati al mercato locale. Uno schiavo spuntò da
sotto un carico pesante quasi quanto quello del carretto che si trovò di
fronte; sia lui che il conducente del carretto imprecarono, cercando tutti e
due di passare per primi. Un garzone che trasportava la lana per il suo pa-
drone si fermò a scherzare con una ragazza. Due contadini con giacche e
calzoncini all'antica, probabilmente degli allevatori di bestiame, discuteva-
no con un accento talmente ricco di termini gallici che Lugo riuscì a mala-
pena a capire quello che dicevano. Un ubriaco, un lavoratore a giudicare
dalle sue mani, e senza lavoro a giudicare dalle sue condizioni, barcollava
qua e là in cerca di allegria e di zuffe; la disoccupazione si era diffusa da
quando gli sconvolgimenti del decennio precedente avevano schiacciato il
commercio, che già attraversava un periodo di decadenza. Una prostituta
pateticamente addobbata, che andava in cerca di clienti nonostante fosse
ancora presto, sfiorò Lugo. Lui portò la mano sul borsellino che teneva alla
cintola, ma per il resto la ignorò. Un mendicante gobbo chiedeva lamento-
samente elemosine nel nome di Cristo, ma vedendosi comunque ignorato,
provò con Giove, Mitra, Oside, la Grande Madre, ed Epona dei Celti; infi-
ne si mise a lanciare maledizioni alle spalle di Lugo. C'erano ragazzini con
i capelli arruffati e le camiciole sudicie che facevano le loro commissioni o
giocavano. Sentì per loro un nodo di commozione in gola.
I suoi tratti levantini erano ciò che lo distingueva maggiormente dagli al-
tri. Burdigala era una città cosmopolita: l'Italia, la Grecia, l'Africa e l'Asia
vi avevano elargito il proprio sangue. Tuttavia la maggioranza degli abi-
tanti aveva conservato i tratti degli antenati: costituzione forte, testa tonda,
capigliatura scura ma pelle chiara. Parlavano latino con un'intonazione na-
sale di cui non era mai riuscito a impadronirsi.
Un negozio di vasi, con la merce esposta e da cui proveniva il rumore
del tornio, segnava il punto in cui doveva voltare per infilarsi nella più
ampia via Teutatis, che negli ultimi tempi il vescovo stava cercando di
convincere gli abitanti a trasformare in via san Giovanni. Era il percorso
più veloce, attraverso quel labirinto, per arrivare in via Madre Thornbeson,
dove viveva l'uomo che cercava. Rufus forse non era in casa, ma di sicuro
non era al lavoro. Il cantiere navale non riceveva ordinazioni da più di un
anno, e gli uomini che ci lavoravano dipendevano ora dallo stato anche per
il pane; i circhi si limitavano a qualche occasionale combattimento tra orsi
e cani o cose del genere. Se Rufus non era in casa, Lugo era pronto a gi-
ronzolare senza dare nell'occhio fino al suo ritorno. Aveva imparato a esse-
re paziente.
Aveva appena percorso un centinaio di metri quando sentì urla e schia-
mazzi. Anche altri se ne erano accorti e si erano fermati ad ascoltare, con
la testa inclinata di lato e gli occhi socchiusi. Quasi tutti iniziarono ad an-
darsene. I commercianti e i garzoni si prepararono a chiudere le porte e le
imposte. Un gruppetto di uomini, pregustando la scena, si avviò nella dire-
zione da cui proveniva il rumore. Il tumulto attraeva i rissosi. Il baccano
aumentò, smorzato dalle case e dai vicoli contorti, ma ugualmente incon-
fondibile. Lugo lo conosceva da tempo, quel ringhio profondo ed eccitato,
le grida e i lamenti. La folla stava dando la caccia a qualcuno.
Con un brivido capì chi poteva essere la preda. Si fermò per un attimo.
Valeva la pena di correre il rischio? Cordelia, i bambini, lui e la sua fami-
glia potevano avere ancora davanti trenta o quarant'anni insieme.
Poi si decise. Doveva almeno andare a vedere se la situazione era o no
senza speranza. Si coprì la testa con il cappuccio del mantello. C'era una
fodera cucita sul bordo, che si calò sul viso. Riusciva a vedere abbastanza
bene attraverso la garza, ma il viso rimaneva nascosto. Lugo aveva impa-
rato a tenersi pronto.
Una pattuglia militare avrebbe potuto stupirsi vedendolo, e fermarlo per
interrogarlo. Ma se ci fosse stata nelle vicinanze una pattuglia, il branco
non avrebbe inseguito Rufus. Piuttosto, pensò Lugo facendo una smorfia,
Rufus poteva essere arrestato.
Lugo si mosse incontro al tumulto che avanzava e gli sembrava sempre
più vicino. Si spostava un po' più velocemente di chi cercava guai, ma non
abbastanza da attirare l'attenzione. Il cappuccio gli copriva il viso e lo na-
scondeva alla vista altrui: forse nessuno lo avrebbe notato. Dentro di sé re-
citava vecchi scongiuri contro il pericolo. Non permettere che la paura ti
colga, tieni i nervi sciolti e i sensi attenti, pronto in ogni momento a gettar-
ti nel turbine dell'azione. Resta calmo, vigile, e agile; calmo, vigile e agi-
le...
Raggiunse piazza Ercole quasi contemporaneamente all'uomo in fuga. Il
nome della piazza derivava da una statua consunta dell'eroe. Da essa si di-
partivano diverse strade. Arrivò di corsa un uomo tarchiato, con tratti gros-
solani coperti di lentiggini, i capelli sottili e una barba incolta di un insolito
color rossastro. La tunica che gli svolazzava contro le membra vigorose
era inzuppata e puzzava di sudore. Deve essere proprio Rufus, pensò Lugo,
visto che probabilmente "Rufus", che in latino significava rosso, era un so-
prannome.
Il fuggitivo aveva una costituzione forte, ma poco adatta alla velocità. I
suoi inseguitori gli erano alle calcagna. Erano circa una cinquantina, in a-
biti grigiastri, proletari come i suoi, rammendati più volte. C'erano anche
delle donne, con riccioli selvaggi, come quelli di Medusa intorno alle facce
da menadi. Molti avevano con sé le armi che erano riusciti a prendere al
volo, un coltello, un martello, un bastone, una pietra. Tra i loro latrati ir-
rompevano gli insulti: «Stregone!... Infedele!... Satana!... a morte...» Fu
scagliata una pietra che colpì Rufus in mezzo alle spalle. Barcollò per un
attimo e poi si allontanò velocemente. Aveva la bocca tirata, il petto che si
sollevava, gli occhi sbarrati come se fosse cieco.
Lo sguardo di Lugo ebbe un guizzo. Qualche volta non poteva aspettare
di vedere come andavano le cose, doveva prendere una decisione imme-
diata. Calcolò la posizione, le distanze, la velocità e il carattere della folla.
In mezzo alle loro urla di odio serpeggiava il terrore. Valeva la pena fare
un tentativo di salvataggio. Se avesse fallito, sarebbe riuscito a fuggire
senza rimanere ferito in modo grave; e le ferite sarebbero guarite in fretta.
«Vieni con me, Rufus!» gridò. Poi si rivolse alla folla: «Fermi! State
lontani, cani delinquenti!»
L'uomo che li capeggiava lo guardò ringhiando. Lugo sollevò il bastone
tra le mani. Era di quercia. Ne aveva perforato le estremità e le aveva
riempite di piombo. Fece roteare il bastone e assestò un colpo. L'uomo
lanciò un grido. E annaspò. Probabilmente gli aveva rotto una costola. Con
la sua arma Lugo ne colpì un altro sotto lo sterno. L'aria gli schizzò fuori
dai polmoni. Poi colpì un terzo uomo sulla rotula. L'uomo urlò di dolore e
crollò addosso ad altri due uomini che gli erano alle spalle. Allora una
donna avanzò brandendo una scopa. Lugo gliela strappò di mano e la colpì
sulle mani. Forse rompendole un paio d'ossa.
La folla indietreggiò, accalcandosi, farfugliante e lamentosa. Lugo, da
dietro il bastone, che roteava così rapidamente da essere quasi invisibile,
digrignò i denti verso la folla e verso gli altri attaccabrighe che si stavano
aggiungendo. «Andatevene a casa» gridò. «Credete di avere la legge di
Cesare nelle vostre mani? Andatevene!»
Qualcuno tirò un sasso. Ma mancò l'obiettivo. Lugo menò un colpo con-
tro la testa più vicina. Stava tenendo la propria forza sotto controllo. La si-
tuazione era già abbastanza brutta e non c'era alcun bisogno di causare dei
morti; che immediatamente avrebbero provocato reazioni ufficiali. Ciono-
nostante la ferita che aveva provocato si mise a sanguinare in modo appa-
riscente, e il rosso brillante del sangue immediatamente ricoprì la pelle e il
lastricato, scioccando gli spettatori.
Rufus respirava affannosamente. «Andiamocene» mormorò Lugo.
«Cammina lento e tranquillo. Se ci mettiamo a correre, ci inseguiranno di
nuovo.» Indietreggiò, continuando a far roteare il bastone, e continuando a
esibire il suo ghigno più selvaggio. Con la coda dell'occhio vide che Rufus
si metteva alla sua destra. Bene. Aveva deciso di usare il buon senso.
Le belve emettevano borbottii indistinti, con la bocca spalancata per lo
stupore. I feriti ululavano. Lugo s'infilò nella strada stretta che aveva scel-
to. La strada curvava dietro un agglomerato di baracche, ed Ercole sparì
dalla sua vista. «Adesso sbrighiamoci» disse rapidamente, guardandosi in-
torno. «No, sei pazzo» disse afferrando Rufus per la manica. «Non correre.
Cammina.»
Qualcuno tra quelli che avevano assistito alla scena lì guardò con diffi-
denza ma non si intromise. Lugo si tuffò nel primo vicolo che sbucava in
un'altra strada. Quando furono soli nel mezzo di quella strada puzzolente,
disse: «Fermati». Si mise il bastone sottobraccio e sciolse la fibula che as-
sicurava il cappuccio al mantello. «Copriti con questo.» Prima di coprire i
capelli ben riconoscibili del suo compagno, sistemò la fodera dentro il
cappuccio. «Perfetto. Siamo due uomini che se ne vanno tranquillamente
per i fatti loro. Hai capito?»
L'artigiano lo guardò di sottecchi da sotto il cappuccio. Il sudore lucci-
cava nella poca luce rimasta. «Chi, chi sei?» La voce gli tremava molto.
«Che cosa vuoi?»
«Vorrei salvarti la vita» rispose Lugo freddamente. «Ma non ho nessuna
intenzione di rischiare la mia. Fa' ciò che ti dico e presto saremo al sicuro».
Ma vedendo che l'altro aveva ancora un'espressione confusa e dubbiosa,
Lugo aggiunse: «Rivolgiti pure alle autorità se preferisci. Vacci immedia-
tamente, prima che i tuoi affezionati vicini riprendano coraggio e vengano
a cercarti. Racconta al prefetto che ti accusano di stregoneria. Tanto lo
scoprirà comunque. Così quando verrai interrogato sotto tortura, avrai il
tempo di pensare a come provare la tua innocenza. La stregoneria è un rea-
to per cui è prevista la pena capitale, dovresti saperlo».
«Ma tu...»
«Io non sono più colpevole di quanto lo sia tu. Penso che possiamo aiu-
tarci l'un l'altro. Se non sei d'accordo, addio. Altrimenti, seguimi, e tieni la
bocca chiusa.»
La sua corporatura tarchiata era scossa dal fiato rantolante. Rufus si infi-
lò il mantello e s'incamminò. Man mano che procedevano, e non succede-
va nulla di avverso, il suo passo si alleggeriva. Si erano semplicemente
mescolati al viavai delle strade. «Forse a te sembra la fine del mondo» os-
servò Lugo a bassa voce. «Invece si è trattato di un semplice tafferuglio
locale. Nessun altro lo sa, e se lo sa non se ne preoccupa. Ho visto la gente
continuare a occuparsi dei propri affari mentre i nemici abbattevano le por-
te.»
Rufus gli diede un'occhiata, deglutì, e rimase zitto.

La casa di Lugo si trovava nel settore nord-est, lungo la strada dei sanda-
lai, una zona tranquilla. Era una casa semplice, piuttosto vecchia, con lo
stucco che si staccava qua e là dalle parti in muratura. Lugo bussò. Il suo
servo di fiducia venne ad aprire la porta. Teneva con sé solo pochi schiavi,
scelti attentamente e vagliati negli anni. «Quest'uomo e io abbiamo affari
confidenziali di cui discutere, Perseo» disse. «Forse resterà con noi per un
po'. Desidero che non venga disturbato in alcun modo.»
Il cretese annuì e fece un sorriso ammiccante. «Ho capito, padrone» ri-
spose. «Informerò gli altri.»
«Possiamo fidarci di loro» disse Lugo rivolgendosi a Rufus. «Sanno di
trovarsi in una situazione comoda.» Poi disse a Perseo: «Come puoi vede-
re, e sentire, il mio amico si è trovato in una situazione difficile. Lo allog-
geremo nella Camera Bassa. Prepara immediatamente dei rinfreschi; e por-
ta dell'acqua, non appena riuscirai a riscaldarne una quantità decente, con
spugne e asciugamani; e abiti puliti. Il letto è pronto?»
«È sempre pronto, padrone.» Lo schiavo sembrava un po' offeso. Rima-
se un attimo pensieroso. «Per quanto riguarda i vestiti, i vostri, padrone,
non sono della misura giusta. Li prenderò in prestito da Durig. O preferite
che ne acquisti di nuovi?»
«Di questo ci occuperemo più avanti» decise Lugo. Aveva bisogno di
tutto il contante possibile in caso di problemi. Escludendo le monetine di
scarso valore, che occupavano troppo spazio, mentre un solidus di oro e-
quivaleva a circa quattordicimila monete. «Durig è il nostro factotum»
spiegò a Rufus. «Per il resto abbiamo una cuoca di talento e un paio di
giovani serve. È una famiglia modesta.» Qualche dettaglio casalingo pote-
va rilassarlo. E lui voleva che Rufus fosse disposto a rispondere alle sue
domande il più presto possibile.
Dall'entrata si spostarono nell'atrio. Era una stanza graziosa, ugualmente
semplice, illuminata dalla luce del sole che attraverso le finestre piombate
diventava verdastra. Al centro del pavimento c'era un mosaico che mostra-
va una pantera circondata da pavoni. Sulle pareti erano incastonati dei
pannelli di legno che rappresentavano i temi consueti, c'era il Pesce e Chi
Rho tra i fiori, e un Buon Pastore dagli occhi misericordiosi. A partire dal
regno di Costantino il Grande, era stato un espediente sempre più diffuso
per professare la Cristianità, soprattutto quella cattolica. Lugo continuava a
essere un catecumeno; il battesimo l'avrebbe gravato di doveri poco con-
venienti. La maggior parte dei credenti si faceva battezzare solo dopo aver
raggiunto un'età avanzata.
Sua moglie l'aveva sentito arrivare e gli venne incontro. «Benvenuto, ca-
ro» disse allegramente. «Sei tornato presto.» Lo sguardo le cadde su Rufus
e l'espressione le si fece preoccupata.
«Quest'uomo e io abbiamo degli affari urgenti» le disse Lugo. «Si tratta
di questioni molto confidenziali. Hai capito?»
Lei sentì un nodo in gola, ma annuì. «Ti saluto e ti do il benvenuto» dis-
se salutandolo con voce sommessa.
È una donna in gamba, pensò Lugo. Era difficile toglierle gli occhi di
dosso. Cordelia aveva diciannove anni, era piccola ma armoniosa, aveva i
lineamenti delicati e teneva le labbra sempre leggermente socchiuse sotto
una massa di lucidi capelli castani. Erano sposati da quattro anni e lei gli
aveva dato due bambini fino a quel momento, tutti e due ancora vivi. Con
il matrimonio lui aveva acquisito alcuni contatti utili, visto che il padre di
lei era un curiale, anche se non si era nemmeno parlato di una dote, perché
la classe curiale era schiacciata da tasse e dazi municipali. Ma la cosa più
importante per la coppia era che erano stati attratti l'uno dall'altra, così il
matrimonio era diventato un piacere ancora maggiore.
«Marcus, ti presento mia moglie, Cordelia» disse Lugo. Quello era un
nome di sicurezza che utilizzava di frequente. Rufus fece un breve inchino
e borbottò qualcosa. Poi Lugo si rivolse a lei: «Ci metteremo immediata-
mente al lavoro. Perseo si occuperà di tutto ciò che è necessario. Ti rag-
giungerò non appena mi sarà possibile».
Lei li accompagnò con lo sguardo mentre Lugo conduceva via il suo
compagno. Che si fosse accorto dei suoi sospiri? Fu presa da un panico
improvviso. Lui se ne era andato pieno di speranza, una speranza così pri-
mitiva che aveva dovuto cercare di negarla, di rimproverarsi per averla.
Adesso si rendeva conto a cosa avrebbe potuto portare la realtà.
Non voleva pensarci. Non subito almeno. Un passo, due passi, prima il
piede sinistro, poi il piede destro, era questo il modo di marciare nel tem-
po.
La Camera Bassa era al piano di sotto, faceva parte del sotterraneo che
Lugo aveva dovuto mettere a posto dopo avere comprato la casa. Era un
nascondiglio abbastanza comune da non dare nell'occhio. Spesso i posti di
quel genere erano utilizzati per pregare e per cerimonie private. Nei pro-
getti di Lugo, gli era risultato chiaro che poteva essere usato come luogo
lontano dalle indiscrezioni. La cella, di pianta quadrata, era larga circa tre
metri e alta due. Tre piccole finestre proprio sotto al soffitto si affacciava-
no all'altezza del suolo sul giardino peristilio. Il vetro era così spesso e on-
dulato da impedire la vista, ma la luce che filtrava all'interno si rifletteva
su pareti di un bianco immacolato, ravvivando l'oscurità di quel momento.
Accanto a una pietra focaia, c'erano delle candele di sego poggiate su un
ripiano, un acciarino e dello stoppaccio infiammabile. L'arredamento era
costituito da un letto, uno sgabello, e un vaso da notte poggiato sul pavi-
mento di terriccio.
«Siediti» lo invitò Lugo. «Riposati. Sei salvo, amico mio, salvo.»
Rufus si sedette sullo sgabello. Si tolse il cappuccio ma tenne stretto il
mantello intorno alla tunica; quel posto era gelido. Sollevò la testa rossa
con un gesto di provocazione disperata. «Ma chi diavolo sei?» disse con
un grugnito.
Il suo ospite si appoggiò al muro e sorrise. «Flavius Lugo» disse. «E
credo che tu invece sia un carpentiere disoccupato del cantiere navale, che
si fa chiamare Rufus. Qual è il tuo vero nome?»
Pronunciò un'oscenità, poi aggiunse: «Che te ne frega?»
Lugo alzò le spalle. «Poco o niente. Credo. Potresti essere più gentile
con me. Quella marmaglia avrebbe potuto ucciderti.»
«E tu cosa centri in tutto questo?» La replica fu rabbiosa. «Perché ti ci
sei immischiato? Ascolta, non sono uno stregone. Non ho mai voluto avere
niente a che fare con la magia o col mondo pagano. Io sono un buon cri-
stiano, un cittadino romano libero.»
Lugo sollevò un sopracciglio. «Non ti è mai capitato di fare un'offerta in
qualche altro posto che non fosse una chiesa?» mormorò.
«Ma, ehm, be'... a Epona, quando mia moglie era in fin di vita...» Rufus
fece il gesto di alzarsi. Lui assunse un'espressione cattiva. «Sporco Cerun-
no! Tu sei uno stregone?»
Lugo sollevò una mano. Poi con la mano sinistra fece una mossa con il
bastone, un gesto piccolo ma significativo. «No. E non sono nemmeno ca-
pace di leggerti il pensiero. In ogni caso, le vecchie abitudini sono dure a
morire, anche nelle città; inoltre in campagna la maggioranza della popo-
lazione è pagana e a giudicare dal tuo aspetto e dal tuo modo di parlare, di-
rei che la tua famiglia una o due generazioni fa appartenesse ai Cadurci
delle colline sopra la valle del Duranio.»
Rufus si rimise seduto. Per un minuto il respiro gli si fece affannoso. In-
fine, lentamente, cominciò a rilassarsi. Poi fece una specie di sorriso in ri-
sposta a quello di Lugo. «I miei genitori appartengono a quella razza» bor-
bottò. «Il mio vero nome è Cotuadun, ehm, comunque tutti mi chiamano
Rufus. Sei un tipo perspicace.»
«È il modo in cui mi guadagno da vivere.»
«Ma nemmeno tu sei un Gallo. Chiunque può avere il nome di Flavius,
ma Lugo? Da dove vieni?»
«Mi sono stabilito a Burdigala un po' di anni fa.» Un colpo sulla porta di
legno arrivò a proposito. «Ah, ecco che arriva l'eccellente Perseo con i rin-
freschi che ho ordinato. Credo che tu ne abbia un po' più bisogno di me.»
Il servo portò un vassoio su cui c'erano delle caraffe con vino e acqua,
tazze, pane, formaggio, e una ciotola di olive. Lo poggiò sul pavimento, e
a un cenno di Lugo uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
Lugo si sdraiò sul letto, stese la mano verso le vettovaglie, versò da bere,
e offrì a Rufus una bevanda non molto diluita. La sua invece la diluì bene
con l'acqua.
«Alla tua salute» brindò. «Oggi stavi quasi per perderla.»
Rufus ingollò un lungo sorso. «Ahhh! Che mi venga un colpo se non mi
farà sentire meglio». Diede una rapida occhiata nell'oscurità al suo salvato-
re. «Perché l'hai fatto? Che cosa sono per te?»
«Mah, forse perché quella gentaglia non aveva alcun diritto di ucciderti.
Questo è un compito dello stato, una volta provato che sei colpevole, cosa
che non credo tu sia. Ho dovuto sostenere la legge.»
«Tu mi conoscevi già.»
Lugo bevette un sorso. Il vino era falerniano, di gusto dolce per il palato.
«So qualche cosa di te» disse. «Voci che mi sono giunte all'orecchio. È na-
turale. Mi tengo informato su ciò che accade. Ho i miei agenti. Nulla che
debba spaventarti, non si tratta di agenti segreti. Ma di ragazzi di strada,
per esempio, che si guadagnano una moneta venendomi a riferire qualun-
que cosa sia degna d'interesse. Ho deciso di venirti a cercare e di saperne
di più. È stata una bella fortuna per te che sia successo nel momento e nel
luogo giusto per poterti strappare dalle mani di quei brutti ceffi.»
Una domanda gli percorse le membra come un brivido: quante occasioni
aveva perso in tutti quegli anni, e a causa di quali insignificanti circostan-
ze? Non condivideva la diffusa fede nell'astrologia di quei tempi. Preferiva
pensare che fosse la pura e semplice casualità a far girare il mondo. Forse
oggi i dadi avrebbero fatto il suo gioco.
Se c'era un gioco. Se esisteva qualcuno come lui, o era mai esistito, da
qualche parte sotto il cielo.
Rufus spostò in avanti la testa dalle stanche spalle. «Perché l'hai fatto?»
chiese seccamente. «Che diavolo vai cercando?»
Adesso bisognava che si calmasse. Lugo considerò l'impazienza che
provava lui stesso, che per metà era paura. «Bevi il tuo vino» disse «e a-
scoltami, ti spiegherò tutto. Forse questa casa ti ha fatto pensare che io sia
un curiale, o un bottegaio piuttosto ricco, o qualcosa del genere. Non è co-
sì.» Non lo era più da un bel po'. Il decreto di Diocleziano aveva congelato
tutti nello status di nascita, incluse le classi intermedie. Ma piuttosto che
essere prosciugati, goccia dopo goccia, da tasse ingenti, circolazioni mone-
tarie prive di valore, e da scambi moribondi, un numero sempre maggiore
stava fuggendo. Se ne andavano, cambiavano il proprio nome, diventavano
servi o direttamente schiavi, lavoratori itineranti illegali e saltimbanchi;
qualcuno si univa al Bacaude le cui bande di malviventi terrorizzavano le
zone rurali, altri addirittura seguivano i barbari. Lugo aveva scelto una
strada migliore per se stesso, che andava ben oltre la pura necessità. Aveva
imparato a guardarsi intorno.
«Attualmente sono al servizio di un certo Aureliano, senatore di questa
città» continuò.
Rufus lanciò lampi di ostilità. «Ho sentito parlare di lui.»
Lugo alzò le spalle un'altra volta. «Sì, ha fatto strada nel suo ordine ge-
rarchico, ed è anche più corrotto dei suoi colleghi. E allora? È un uomo a-
stuto e sa che gli conviene essere leale nei confronti di chi lavora per lui.
Ai senatori non è permesso intraprendere dei commerci, dovresti saperlo,
ma lui ha molti interessi. Così ha bisogno di intermediari che non siano
semplici figure di facciata. Io vado in giro per lui, avanti e indietro, fiutan-
do i pericoli e le possibilità, porto messaggi, eseguo incarichi che richie-
dono discrezione, e offro consigli quando è necessario. Ci sono modi peg-
giori di guadagnarsi la vita. Già, ce ne sono di molto meno onorabili.»
«Che cosa vuole da me questo Aureliano?» domandò Rufus a disagio.
«Niente. Lui non ha mai sentito parlare di te. E se Dio vuole non ne sen-
tirà mai parlare. Sono venuto a cercarti per me. Noi potremmo essere di
grande vantaggio l'uno per l'altro.» Lugo inasprì il tono di voce. «Non fac-
cio nessuna minaccia. Se non sarà possibile lavorare insieme, ma se tu a-
vrai fatto del tuo meglio per cooperare con me, io come minimo potrò farti
scappare da Burdigala verso qualche posto in cui potrai ricominciare. Ri-
cordati, tu mi devi la vita. Se ti abbandono sei un uomo morto.»
Assunse un atteggiamento cupo. «Verranno a sapere che mi nascondi
qui.»
«Ma sì, sarò io stesso a dirglielo» dichiarò Lugo freddamente. «Sono un
serio cittadino, non desidero che tu venga trucidato illegalmente, infatti ho
ritenuto mio dovere interrogarti in privato, tirarti fuori, sostenerti!» Mentre
parlava aveva poggiato la tazza per terra, aspettandosi che Rufus provasse
a colpirlo. A quel punto afferrò il bastone con tutte e due le mani. «Resta
fermo su quello sgabello, ragazzo. Sei forte, ma hai già visto cosa sono ca-
pace di fare con questo.»
Rufus si rannicchiò.
Lugo scoppiò a ridere. «Così va meglio. Non essere così dannatamente
irascibile. Io non voglio assolutamente farti niente di male. Lascia che te lo
ripeta, se sarai sincero con me e farai ciò che ti dico, la cosa peggiore che
potrà succederti sarà di lasciare di nascosto Burdigala. Aureliano possiede
un enorme latifondo; dove senza alcun dubbio un lavoratore in più può es-
sere utile, basta che io ci metta una buona parola, e il senatore coprirà
qualsiasi irregolarità per me. Nella migliore delle ipotesi... Be', non lo so
ancora, e comunque non voglio promettere nulla, ma potrebbe essere me-
ravigliosa, al di là dei voli pindarici che hai sognato da bambino, Rufus.»
Le sue parole e il tono suadente funzionarono. Anche il vino cominciava
a fare effetto. Rufus rimase seduto tranquillamente per un attimo, poi an-
nuì, sorrise, vuotò la coppa e sollevò una mano. «Alla salute, d'accordo?»
proclamò.
Lugo afferrò la mano ruvida. Era un gesto piuttosto insolito in Gallia,
forse l'aveva imparato dagli immigrati germani. «Splendido» disse. «Par-
liamoci in modo chiaro e diretto. So che non sarà facile, ma ricordati che
ho le mie ragioni. Voglio comportarmi bene con te, per quanto Dio mi
permette.»
Riempì le coppe vuote. Sotto la sua espressione gioviale, la tensione cre-
sceva sempre più.
Rufus bevette. Barcollò. «Cosa vuoi sapere?» domandò.
«Per prima cosa, come hai fatto a finire nei guai.»
Il buon umore di Rufus appassì. Guardò torvamente il suo interlocutore.
«A causa della morte di mia moglie» borbottò. «È stata la goccia che ha
fatto traboccare il vaso.»
«Molti uomini sono vedovi» disse Lugo, mentre il ricordo lo feriva co-
me una spada piantata nel cuore.
La mano grande si strinse intorno alla coppa finché le nocche non diven-
tarono bianche. «La mia Livia era vecchia. Aveva i capelli bianchi, le ru-
ghe, ed era senza denti. Abbiamo avuto due figli, che sono cresciuti, un
maschio e una femmina. Si sono sposati, e hanno avuto figli a loro volta. E
poi sono invecchiati anche loro.»
«Credo che sia possibile» mormorò Lugo, non in latino. «Oh Ashto-
reth...»
Poi aggiunse ad alta voce usando la lingua corrente: «Le voci che mi so-
no giunte dicevano la stessa cosa. È per questo che sono venuto a cercarti.
Quando sei nato, Rufus?»
«Come diamine faccio a saperlo?» fu la risposta sgarbata. «Sono stron-
zate! I poveri non tengono il conto degli anni come fate voi ricconi. Non
saprei dirti nemmeno chi è console quest'anno. Ma la mia Livia era giova-
ne come me quando ci siamo sposati, aveva quattordici o quindici anni.
Era una donna forte, lo era davvero, ha spremuto la sua giovinezza come il
succo da un melone, solo per fare crescere i due figli. Non è crollata subito
come tante mogli.»
«Anche tu dovresti essere sulla settantina, allora, se non oltre» disse Lu-
go con un tono più gentile. «Ma non sembra che tu abbia più di venticin-
que anni. Sei mai stato malato?»
«No, se non conti un paio di volte in cui sono rimasto ferito. Erano brut-
te ferite, ma sono perfettamente guarite in qualche giorno, senza nemmeno
lasciare cicatrici. Non ho mai avuto mal di denti. Una volta ho perso tre
denti in una zuffa, e mi sono ricresciuti.» L'arroganza si era avvizzita. «La
gente ha cominciato a guardarmi in modo sempre più sospettoso. La morte
di Livia è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso» grugnì Rufus.
«Hanno cominciato a dire che dovevo avere fatto un patto con il diavolo.
Lei mi diceva quello che sentiva dire. Ma che diavolo potevo fare? Dio mi
ha dato un corpo forte. Lei ci credeva.»
«Anche io, Rufus.»
«Quando lei cadde ammalata nessuno volle più parlarmi. Per strada mi
schivavano, facevano gli scongiuri, si picchiavano sul petto. Così andai da
un prete. Anche lui ebbe paura di me, me ne accorsi. Mi disse che sarei
dovuto andare dal vescovo, ma il bastardo non mi ci portava mai. Poi Livia
morì.
«Un sollievo» Lugo non riuscì a trattenersi dal dire.
«Be', me ne rimasi in un bordello per molto tempo» rispose Rufus con-
cretamente. Era infuriato. «Ma poi le puttane mi dissero che dovevo an-
darmene e non tornare mai più. Persi la testa, e scatenai un putiferio. La
gente sentì e circondò la casa. Quando uscii, quei bavosi cominciarono a
gridarmi dietro. Colpii quello che urlava più forte. La cosa successiva che
ricordo è che mi stavano addosso. Riuscii a liberarmi e a fuggire. Mi inse-
guivano, ed erano sempre di più.»
«E saresti morto, schiacciato sotto i loro piedi» disse Lugo. «Oppure in
poco tempo le voci avrebbero raggiunto il prefetto. Un uomo che non in-
vecchia mai e che chiaramente non è un santo deve per forza essere in
combutta con il diavolo. Saresti stato arrestato, interrogato sotto tortura, e
sicuramente decapitato. Sono brutti tempi questi. Non si sa che cosa ci si
può aspettare. Prevarranno i Barbari? Avremo un'altra guerra civile? Sa-
remo distrutti dalla peste, dalla carestia o da un totale collasso dell'econo-
mia? Gli eretici e gli stregoni sono capri espiatori per allontanare la pau-
ra.»
«Io non sono nulla del genere!»
«Non ho detto che tu lo sia. Penso che tu sia un uomo come tutti gli altri,
come tutti quelli che ho incontrato in ogni luogo. Ma dimmi, hai mai cono-
sciuto o sentito parlare di qualcun altro come te, sul quale il tempo non la-
scia il segno? Un parente, magari?»
Rufus scosse la testa.
Lugo sospirò. «Nemmeno io.» Si fece risoluto e andò avanti. «E ho a-
spettato e provato, cercato e sopportato, da quando ho cominciato a capi-
re».
«Eh?» Il vino traboccò dalla coppa di Rufus.
Lugo bevette un sorso dalla sua, cercando quel poco di conforto che po-
teva dargli. «Quanti anni pensi che io abbia?» domandò.
Rufus lo scrutò da vicino prima di rispondere. «Dovresti avere venticin-
que anni.»
Un sorriso increspò il lato sinistro della bocca di Lugo. «Come te, nean-
che io conosco con esattezza la mia età» disse lentamente. «Ma Hiram era
re di Tiro quando nacqui lì. Le cronache che sono stato in grado di studiare
e capire dicono che si tratta di circa dodici secoli fa.»
Rufus spalancò la bocca. Le efelidi sembravano sporcizia tanto il viso si
era fatto pallido. Con la mano libera si fece il segno della croce.
«Non avere paura» insisteva Lugo. «Io non ho fatto nessun patto con le
potenze della notte. Né con il cielo, per questo, o per qualsiasi potere, o a-
nima. Sono semplicemente fatto della tua stessa carne, qualsiasi cosa signi-
fichi. Sono solo rimasto più a lungo nel mondo. È una condizione solitaria.
Tu hai avuto solo in parte la percezione di quanto sia solitario.»
Si alzò, lasciando il bastone e la coppa, e si mise a passeggiare con le
mani dietro la schiena per lo spazio ristretto del pavimento. «Non sono na-
to con il nome di Flavius Lugo, naturalmente» disse. «Questo è solo l'ulti-
mo nome che ho assunto... ho perso il conto di quanti ne ho cambiati. Il
primo è stato... non importa. Un nome fenicio. Ero un mercante finché gli
anni non mi misero nei guai proprio come te oggi. Allora per molto tempo
sono stato un marinaio, o guardia delle carovane, soldato mercenario, poe-
ta errante, e tutto quell'insieme di mestieri in cui un uomo può andare e
venire senza essere notato troppo. Ho imparato da una scuola dura. Sono
stato spesso sul punto di morire a causa delle ferite e dei naufragi, per la
fame, la sete e una dozzina di pericoli diversi. Qualche volta avrei potuto
morire se non fosse stato per lo straordinario vigore di questo corpo. Un
pericolo più lento, ma che mi spaventò molto di più, fu quando cominciai
ad accorgermi semplicemente che rischiavo di affogare nei ricordi, fino a
perdere la ragione. Per un po' ho usato poco la mia intelligenza. In modo
misericordioso, smussando la sofferenza dovuta alla perdita di chiunque
mi fosse caro, uomini e donne e la perdita, ah, dei bambini... Pian piano
imparai l'arte della memoria. Adesso ho ricordi chiari, sono come una bi-
blioteca ambulante di Alessandria...» Ridacchiò tra sé e sé. «Faccio degli
errori. Ma conosco l'arte di immagazzinare ciò che so, per poi richiamarlo
alla mente quando serve. Conosco l'arte di controllare il dolore. Cono-
sco...»
Osservò lo sguardo timoroso di Rufus e smise di parlare. «Milleduecen-
to anni?» sussurrò l'artigiano. «Hai visto il Salvatore?»
Lugo si sforzò di sorridere. «No, mi dispiace, non l'ho visto. Se, come si
racconta, è nato sotto il regno di Augusto, allora è accaduto, mmh, circa tre
o quattrocento anni fa, e a quei tempi mi trovavo in Britannia. Roma non
l'aveva ancora conquistata, ma l'attività commerciale era intensa e le genti
del sud ne erano influenzate culturalmente. C'erano molti meno intriganti.
Che è sempre stata una caratteristica enormemente desiderabile per un
luogo. Dannatamente difficile da trovare di questi tempi, che in breve fini-
ranno dominati dai feroci Germani o Scoti o quali che siano. E anche lo-
ro...
«Un'altra tecnica che ho sviluppato è quella di invecchiare il mio aspet-
to. La cipria sui capelli e le tinture sono rimedi scomodi e poco realistici.
Lascio parlare di quanto continui a sembrare giovanile il mio aspetto.
Qualcuno lo fa, comunque. Ma gradualmente comincio a curvarmi un po',
a trascinarmi, a tossire, a fingere d'essere diventato duro d'orecchi, a la-
gnarmi di malesseri e dolori, e dell'insolenza della gioventù moderna. Fun-
ziona solo fino a un certo punto, naturalmente. Alla fine devo scomparire e
ricominciare una nuova vita da qualche altra parte sotto un nuovo nome.
Cerco di mettere le cose in modo che risulti ragionevole supporre che mi
sia smarrito e mi sia accaduta una disgrazia, forse perché ero diventato
vecchio e svagato. Inoltre di regola mi tengo pronto allo spostamento. Ac-
cumulando un mucchio d'oro, scegliendo la mia nuova casa, e qualche vol-
ta recandomici e stabilendovi la mia nuova identità...»
Un po' della stanchezza dei secoli gli cadde addosso. «Dettagli, detta-
gli.» Si fermò e guardò attraverso una delle finestre oscurate. «Sto diven-
tando senile? Di solito non parlo a vanvera in questo modo. Bene, sei il
primo come me che ho incontrato, Rufus, proprio il primo. E mi lascia spe-
rare che tu non sia l'ultimo.»
«Sai qualcosa di, uhm, altri?» tentò la voce alle sue spalle.
Lugo scosse la testa. «Ti ho detto di no. Come avrei potuto? Qualche
volta ho creduto di avere trovato una traccia, ma o scompariva o si dimo-
strava falsa. Forse una volta. Ma non ne sono certo.»
«Di che si trattava, amico? Vuoi raccontarmelo?»
«Sì. È accaduto a Siracusa, dove mi fermai per molti anni per via dei
suoi legami con Cartagine. Una città davvero graziosa. Una donna, si
chiamava Altea, era bella e vivace, nel modo in cui lo erano le donne negli
ultimi anni delle colonie greche; conobbi lei e suo marito. Lui era un ma-
gnate navale, io capitanavo una nave da carico. Erano sposati da circa tren-
t'anni, lui era diventato calvo e panciuto, lei gli aveva dato una dozzina di
figli e il più vecchio aveva già i capelli grigi, ma lei sembrava ancora una
fanciulla.»
Lugo rimase un po' in silenzio prima di finire, con voce piatta: «I Roma-
ni catturarono la città. La saccheggiarono. Io ero assente. Bisogna sempre
inventarsi una scusa per andarsene quando stanno per accadere cose di
questo tipo. Quando tornai, feci qualche domanda. Forse poteva essere sta-
ta fatta schiava, e avrei potuto trovarla e comprare la sua libertà. Invece no,
quando scovai qualcuno che sapeva qualcosa, ed era talmente insignifican-
te da essere rimasto illeso, seppi che era morta. Stuprata fino alla morte, mi
disse. Non so se fosse vero o no. Le storie si ingigantiscono man mano che
vengono raccontate. Non importa. È accaduto tanto tempo fa.»
«È terribile. Avresti dovuto tornare prima». Lugo s'irrigidì. «Oh, scusa-
mi, amico» disse Rufus. «Non mi sembra che, uhm, che odi Roma.»
«Perché dovrei? È sempre la stessa storia che si ripete, guerra, tirannia,
massacri, schiavitù. Anche io vi ho preso parte. Adesso Roma si avvicina
alla fine.»
«Che cosa?» Rufus era sorpreso. «Non è possibile! Roma è eterna!»
«Come preferisci» Lugo si voltò a guardarlo. «A giudicare dalle appa-
renze ho trovato un compagno immortale. Finalmente c'è qualcuno che
posso proteggere, guardare, e seguirei. Dovrebbero bastare venti o tren-
t'anni. Anche se già adesso non ho dubbi.»
Prese fiato. «Ti rendi conto di ciò che significa? No, è improbabile che
tu lo capisca. Non hai avuto abbastanza tempo per pensarci su.» Osservò
attentamente il viso tirato, la fronte bassa, lo sgomento che scivolava in un
sorriso. Non mi aspetto che tu te ne renda conto, pensò. Sei un artigiano
moderatamente bravo, e nulla più. E io sono stato abbastanza fortunato a
trovarti. A meno che Altea... Ma lei mi è scivolata tra le dita, ed è morta.
«Significa che non sono unico» disse Lugo. «Se ci sono due di noi, de-
vono essercene di più. Molti di più, anche se molto rari. Non è qualcosa
che si trasmette in linea di sangue, come l'altezza o il colore della pelle o
quelle deformità che ho visto tramandarsi all'interno delle famiglie. Qua-
lunque sia la ragione, si verifica accidentalmente. O per volontà divina, se
preferisci, anche se penso che Dio non agisca per capriccio. Inoltre sicu-
ramente qualche assurda disavventura toglie di mezzo molti giovani im-
mortali, esattamente come accade per gli uomini le donne e i bambini
normali. Possiamo sfuggire la malattia, ma non la spada o un cavallo in
fuga o un'alluvione o il fuoco o la carestia, o qualcos'altro. Ci può capitare
di morire per mano di vicini convinti che dobbiamo essere per forza dei
demoni, maghi o mostri.»
Rufus si raggomitolò su se stesso. «Mi gira la testa» si lamentò.
«Hai ragione, hai passato un brutto momento. Anche gli immortali han-
no bisogno di riposarsi. Dormi pure se lo desideri.» Rufus aveva uno
sguardo vitreo. «Perché non possiamo dire di essere, che so, santi? Ange-
li?»
«Dove credi che riusciresti ad arrivare?» disse Lugo deridendolo. «Sa-
rebbe concepibile per un uomo nato re, ma non credo che accada mai, è
improbabile tanto quanto lo è la nostra razza. No, quando riusciamo a so-
pravvivere, impariamo in fretta a tenere la testa bassa.»
«Ma allora come faremo a riconoscerci tra di noi?» disse Rufus tra un
singhiozzo e una scoreggia.

«Vieni fuori con me nel peristilio» disse Lugo.


«Oh, volentieri» rispose Cordelia esultante. Sembrava quasi che danzas-
se al suo fianco.
Era una sera mite e limpida. La luna era alta nel cielo, quasi piena, in
mezzo a un cielo blu-violetto. A occidente, il cielo scuro e le stelle tremo-
lavano. I suoni della città in gran parte si erano estinti; i grilli trillavano. La
luce della luna macchiava le aiuole, faceva tremolare l'acqua dell'impluvio,
catturava il giovane viso di Cordelia e rendeva argentee le ombre.
Lei e lui rimasero mano nella mano per qualche minuto. «Sei stato molto
occupato oggi» disse lei alla fine. «Quando ho visto che eri rientrato pre-
sto, ho sperato che... oh, naturalmente hai il tuo lavoro da fare.»
«Sfortunatamente è così» replicò lui. «Ma le prossime ore ci apparten-
gono.»
Lei si sdraiò accanto a lui. Nei suoi capelli era rimasta la fragranza del
sole. «I Cristiani dovrebbero ringraziare per quello che hanno» disse con
un risolino. «Come è facile essere Cristiani, stanotte.»
«Che cosa hanno fatto i bambini oggi?» domandò lui. Suo figlio Julius
che adesso non camminava più carponi ma saltellava avventurandosi dap-
pertutto, aveva cominciato a parlare un po'; la piccola Rosa era sveglia nel
suo lettino, con le mani chiuse a riccio come stelle di mare.
«Come mai lo domandi? Va tutto benissimo» disse Cordelia un po' sor-
presa.
«Li vedo troppo di rado.»
«Ma te ne preoccupi. Non lo fanno molti padri, almeno non così tanto.»
Gli strinse la mano. «Voglio darti molti bambini.» Poi aggiunse malizio-
samente: «Potremmo cominciare subito».
«Io cercavo di... essere affettuoso.»
Lei percepì della riluttanza nelle parole di lui, e spalancò gli occhi al-
larmata. «Cosa c'è che non va, amore?»
Lui l'afferrò per le spalle e la guardò negli occhi. La luce della luna fa-
ceva splendere la sua bellezza. Poi le rispose: «Tra di noi non c'è nulla che
non vada». C'è solo il semplice fatto che tu invecchierai e morirai. E mi è
successo tante di quelle volte. Non riesco più a contarle. Non si può misu-
rare il dolore, ma penso che non possa certo diminuire; credo di aver sem-
plicemente imparato a viverci insieme, proprio come i mortali imparano a
vivere con una malattia incurabile. Credo che potremmo trascorrere insie-
me ancora, ah, trenta o quarant'anni, prima che io debba andarmene. E sa-
rebbero anni meravigliosi.
«Ma devo fare un viaggio inatteso» disse.
«Si tratta di qualcosa che quell'uomo, Marcus, ti ha detto?»
Lugo annuì.
Cordelia fece una smorfia. «Non mi piace. Perdonami, ma non mi piace.
È rozzo e stupido.»
«È vero» fu d'accordo Lugo. Gli era sembrato opportuno lasciare che
Rufus condividesse la loro cena. Confinato nella Camera Bassa senza altra
compagnia che le sue paure e le sue speranze animali, rischiava di perdere
quel po' di autocontrollo che gli era rimasto, e ne avrebbe avuto talmente
bisogno in futuro. «Tuttavia, ho ricevuto informazioni importanti da lui.»
«Non puoi dirmi di che si tratta?» Si accorse dello sforzo che lei faceva
per non supplicarlo.
«Mi dispiace, ma non posso. E non posso nemmeno dirti dove andrò né
quanto starò via.»
Lei gli prese le mani. Le sue dita erano diventate fredde. «Ma ci sono i
Barbari. I Pirati. I Bacaudi.»
«Viaggiare comporta dei rischi» ammise lui. «Ma ho passato gran parte
degli ultimi giorni a mettere le cose a posto per te. Solo nel caso in cui sarà
necessario, tesoro, solo in quel caso.» La baciò. Le labbra tremarono alla
pressione di quelle di lei che avevano un leggero sapore salino. «Devi sa-
pere che si tratta di un affare che forse potrebbe riguardare Aureliano e
forse no, ma se dovesse essere così, cosa che dovrà essere accertata imme-
diatamente, lui si trova in Italia. Ho detto altrettanto al suo corbilo, e tu po-
trai riscuotere da lui la mia paga per le tue necessità. Ho anche lasciato in
chiesa una somma sostanziosa su cui puoi fare affidamento. Ce l'ha il sa-
cerdote Antonino che mi ha rilasciato una ricevuta che ti darò. Inoltre ere-
diterai questa proprietà. Andrà tutto bene per te e per i bambini» se Roma
rimarrà in piedi.
Lei si abbandonò contro di lui e lo strinse sé. Lui le accarezzò i capelli e
la schiena, stropicciandole la tunica, e trasformò le carezze in abbraccio.
«Suvvia» mormorò. «Solo nel caso in cui sia necessario. Non avere paura.
Non correrò nessun vero rischio.» Lui sperava che fosse vero. «Tornerò.»
Questo non era vero, e il solo pronunciarlo bruciava la gola. Certo, sicu-
ramente lei si sarebbe sposata di nuovo, dopo essersi convinta che lui era
morto. Le ultime notizie che si hanno provengono dalla costa odoviciana,
prima che ci fosse un attacco degli Scoti...
Lei si tirò indietro, si raggomitolò su se stessa, deglutì, e fece un sorriso
tremante. «Certo che tor... ne... rai» ammise. «Pregherò per te per tutto il
tempo. E abbiamo ancora questa notte.»
Fino a poco dopo l'alba, quando la Nereide avrebbe mollato gli ormeggi.
Era riuscito a ottenere un passaggio per sé e per Rufus. La maggior parte
della Britannia era ancora sicura, ma i Barbari ci facevano tanti di quei
saccheggi che nessuno si sarebbe posto delle domande, vedendo due uo-
mini che si fossero presentati alle Aquae Sulis o ad Augusta Londinia rac-
contando di essere fuggiti. Con i soldi alla mano potevano ricominciare;
inoltre Lugo, qualche generazione prima, aveva nascosto una discreta scor-
ta di denaro nell'isola.
«Se solo tu potessi rimanere» sfuggì a Cordelia.
«Se solo potessi.» Ma Rufus era segnato a Burdigala.
Rufus, il maschio, il balordo, l'immortale, che sarebbe di certo morto
miseramente, se un uomo intelligente non si fosse preso cura di lui. E non
doveva accadere. Per quanto spaventoso, lui era l'unico aiuto che Lugo a-
vesse perché alla fine la loro razza potesse riunirsi.
Cordelia sentì che le parole uscivano dalla bocca di lui a stento. «Non mi
voglio lamentare» dichiarò. «Abbiamo stanotte, e ne avremo molte, molte
altre alla fine del tuo viaggio. Ti aspetterò, ti aspetterò sempre.»
No, pensò Lugo, non lo farai. Non avrebbe senso, una volta che ti sarai
rassegnata all'idea di essere rimasta vedova, ancora giovane ma col tempo
alle calcagna.
Nemmeno tu mi avresti aspettato per sempre.
Io cerco colei che non dovrà mai lasciarmi.

Titolo originale: The Comrade


Analog Science Fiction and Fact,
June 1988

IN PUNTO DI MORTE
di Ben Bova e A.J. Austin

Un grande sogno sovrasta la vita degli individui,


un sogno per il quale vale la pena
sacrificare l'amore e anche la vita

PROLOGO

La stasi fu il prezzo pagato dai Cento Mondi per mantenere nei secoli la
pace e la stabilità. L'Imperatore fu l'unico tra i potenti di allora a rendersi
conto che il suo regno era in crisi, ma non riuscì a escogitare nessun mo-
do per rivitalizzare l'Impero.
Alla fine un disastro gliene offrì l'opportunità.
Il Sole della Terra stava per entrare in una fase di instabilità. Non sa-
rebbe esploso come una Nova, ma avrebbe emesso fiammate gigantesche e
protuberanze che avrebbero fatto evaporare l'atmosfera e gli oceani della
Terra, mondo che aveva dato origine alla specie umana.
Alla corte dell'Imperatore l'opinione comune era che la Terra dovesse
essere abbandonata a se stessa. Era diventata poco più che acqua sta-
gnante per i Cento Mondi; la sua irrisoria popolazione poteva essere ri-
collocata al sicuro su altri pianeti.
L'Imperatore, che secondo la tradizione corrente era terrestre di nasci-
ta, la pensava diversamente. Trovò una scienziata, una giovane donna po-
co stimata dal Consiglio Imperiale degli Accademici, la quale elaborò un
progetto per salvare il Sole che avrebbe impiegato un'intera generazione
per essere realizzato.
Naturalmente tutti derisero il suo ambizioso progetto. Tutti tranne l'Im-
peratore. Lui l'appoggiò, contro le resistenze e l'ovvia ostilità degli acca-
demici. Spostò la Corte Imperiale dal pianeta Corinto alla Luna della Ter-
ra, proprio per sostenere il suo desiderio di salvare il Sole, e allo stesso
tempo per dare nuova forza all'Impero.
Ma l'Imperatore era vecchio, vicino alla morte. Molti pensavano che sa-
rebbe stato un bene per l'Impero affrettarne la fine. Tutto dipendeva dal
successore al trono, il Principe Ereditario Javas.
E dalla categorica volontà del vecchio Imperatore.

1. L'Arrivo

Anastasio Bomeer odiava la tunica che stava cercando disperatamente di


abbottonare nel modo appropriato. Odiava come stringeva sul collo, e co-
me lo obbligava a stare rigido e impettito, suo malgrado, durante le ceri-
monie pubbliche. Odiava il fatto che il protocollo di corte richiedesse l'uni-
forme accademica vecchio stile e desiderò, non per la prima volta, che la
tradizione lasciasse il passo a un'uniforme imperiale più moderna, più co-
moda. Ma più di tutto odiava l'occasione in cui avrebbe dovuto indossarla.
Che senso aveva una cerimonia il cui scopo consisteva più che altro nel-
l'impressionare un'adunata di terrestri?
Dannazione! Pensò. Che cosa hanno fatto con questo... Borbottando,
tentò un'ultima volta di allacciare il rigido colletto della tunica, e quasi
senza fiato per lo sforzo tremendo dovuto al solo vestirsi, rimase a guar-
darsi nello specchio a figura intera del suo lussuoso appartamento.
Aveva il viso paonazzo, e la pelle del collo debordava come non mai dal
colletto. Che la tunica si fosse rimpicciolita? Era sicuro di non essere in-
grassato molto durante la sua permanenza, relativamente breve, sulla Luna.
Dando un'occhiata ai bottoni della tunica che a livello dell'addome erano
sul punto di saltare, si accigliò, ricordandosi che quella era solo la seconda
volta in un anno, da quando era arrivato, che indossava l'abito da cerimo-
nia. La prima era stata nello spaventoso giorno in cui era atterrato lì, a ini-
ziare ciò che considerava quasi un esilio sull'unico satellite naturale della
Terra.
Infilando un dito rabbiosamente in ciascun lato del colletto tirò con forza
quasi fino a spezzarsi la trachea, nel tentativo di allargarlo un po'. O alme-
no abbastanza da fare defluire il rossore dal viso. Un suono leggero, simile
a quello di una campana, lo bloccò prima che potesse ricominciare la sua
lotta con il colletto.
«Arrivo» disse ad alta voce, spostandosi nel soggiorno. Prima di accetta-
re la chiamata lanciò un'occhiata veloce alla banda di identificazione sullo
schermo dell'unità di comunicazione.
«Solo audio, rispondo.»
Lo schermo si illuminò, mostrando la faccia giovanile del suo aiutante
personale. «Accademico Bomeer» disse l'immagine sullo schermo con vo-
ce allarmata. «Mi avevi chiesto di tenerti informato sul viaggio dell'Impe-
ratore...»
«Sì, Kandel, vai avanti.» Si spostò verso l'enorme schermo protettivo di
plexiglas che ricopriva l'intera parete della camera e contemplò l'arido pae-
saggio, descritto da uno dei primi esploratori come "Magnifica desolazio-
ne". Lui provava solo repulsione per quello che altri consideravano bello.
«Bene, signore, siamo stati informati che lo shuttle atterrerà tra dieci
minuti.»
Anticipo di programma, pensò Bomeer. Tipico del vecchio pazzo. Si ap-
poggiò alla superficie della finestra e socchiuse gli occhi per riuscire a di-
stinguere in lontananza un minuscolo oggetto luminoso che si stava avvi-
cinando rapidamente da est. Dal suo vantaggioso punto di osservazione era
in grado di vedere l'intero percorso di avvicinamento del veicolo, mentre
costeggiava il profilo della città dirigendosi verso la pista d'atterraggio.
«Accademico?»
Rispose, senza voltarsi: «Grazie, Kandel, è tutto per adesso.» Un piccolo
trillo segnalò che l'aiutante aveva interrotto la comunicazione. Bomeer
continuò a guardare il paesaggio lunare. Il suo appartamento nella zona
nord di Armelin City aveva una delle viste migliori di tutte le città lunari.
Siccome la maggior parte degli edifici industriali e di supporto erano situa-
ti a sud e a ovest, gli inquilini di quella zona pagavano profumatamente per
il panorama immacolato, senza le torri, i satelliti e il traffico che si vede-
vano di solito in quasi tutte le aree residenziali. Almeno in quelle con le fi-
nestre.
Guardò il puntino luminoso in avvicinamento per qualche minuto fino a
quando non s'ingrandì confermandogli che si trattava dello shuttle dell'Im-
peratore.
«Non avrei mai creduto di arrivare a pensare a te in un modo così vergo-
gnoso» mormorò. La nave si faceva sempre più vicina, inconsapevole dei
suoi borbottii. Salvare il Sole della Terra? Pensò, mentre la superficie di
plexiglas rifletteva la sua espressione accigliata. Salvare quei terrestri?
Si spostò sul divano e si sedette rigidamente sul bordo di uno dei cusci-
ni; imprecando di nuovo contro la tunica che gli faceva mancare il fiato,
afferrò la tastiera che era in cima all'unità comunicativa e digitò una serie
di numeri in codice. Dopo qualche secondo, apparve il viso di un uomo
con i capelli grigi che indossava una tenuta da cerimonia molto simile a
quella di Bomeer. Notò con soddisfazione che l'uomo non aveva ancora al-
lacciato il colletto della tunica.
«Anastasio! Stavo proprio per...»
«C'è stato un cambiamento di programma» lo interruppe Bomeer. «Il
suo shuttle è quasi arrivato.»
Un'espressione di sorpresa percorse i lineamenti dell'uomo. «Ma doveva
arrivare tra un'ora! Non riusciremo mai a riunirci in tempo.»
«È esattamente quello che penso anch'io. Questa è opera di Javas,
Wynne, ne sono sicuro. Ha anticipato di proposito l'arrivo dell'Imperatore,
sperando di coglierci di sorpresa, sperando di approfittare di qualsiasi
margine di vantaggio per garantire l'appoggio dei Cento Mondi al folle
piano di suo padre.»
L'altro uomo assentì pensosamente, con appena un velo di rabbia negli
occhi.
«Senti» continuò Bomeer, lanciando uno sguardo all'orologio d'oro che
aveva al polso «io esco immediatamente. Lo shuttle sta atterrando proprio
adesso, ma ci dovrebbero essere come minimo ancora venti minuti prima
che il suo gruppo si mostri sul palco. Credo che posso riuscire ad arrivarci
prima.»
«E noi?» l'altro abbottonò con abilità il colletto della tunica e accarezzò
con il palmo delle mani il tessuto di raso, irritando ulteriormente Bomeer.
«Riunitevi in gruppo, più siete meglio è, e andate là. Usate questo stesso
codice dopo che avrò interrotto il collegamento.»
Bomeer toccò di nuovo la tastiera per trasmettere il codice all'altro ter-
minale, aspettò per un attimo il segnale di conferma, poi toccò la sbarretta
per disconnettersi, accertandosi che il codice fosse a posto nella sua stessa
unità.
Diede uno sguardo in giro per la stanza.
«Abbassare l'illuminazione. Inserire il sistema di sicurezza.» Immedia-
tamente le luci della stanza si abbassarono.
Simpatico tentativo, Javas, pensò uscendo velocemente dalla stanza. Ma
non hai ancora vinto questo round.

Dall'altra parte di Armelin City, il Principe Javas era nella sua sala d'a-
spetto privata vicino alla pista d'atterraggio dello shuttle, con un'espressio-
ne piuttosto scocciata.
«Mi dispiace, sire» ripeteva la voce sintetizzata dell'unità di comunica-
zione «ma il circuito è ancora occupato. È stato inserito un codice di bloc-
caggio. Desidera che effettui una sovrapposizione?»
Naturalmente, aveva il potere di sabotare il codice di bloccaggio di Bo-
meer. Una sola parola dall'Imperatore reggente non solo avrebbe sbloccato
il circuito in meno di un millesimo di secondo, avrebbe anche potuto sop-
primere i comandi bloccati, e dopo averli elaborati e registrati, spedirli a
uno qualunque dei tecnico che aveva installato il sistema nell'appartamento
dell'accademico.
Ma non ce n'era alcun bisogno; sapere che Bomeer era ancora in casa era
l'unica informazione di cui al momento aveva bisogno.
«No. Comunque continua a tenere il circuito sotto controllo e informami
quando si sarà liberato, per favore.»
L'unità rispose con uno stridio di conferma, e lo schermo blu si spense
immediatamente.
Il Principe si concesse un attimo di piacere sadico, domandandosi cosa
stesse progettando di fare quell'uomo. Era certo di avere colto di sorpresa
Bomeer e il suo gruppo di accademici, insistendo per fare atterrare lo shut-
tle in anticipo. Il comandante Fain aveva protestato, naturalmente, come
d'altronde avevano fatto la maggior parte degli attendenti di corte del pa-
dre, quando quel mattino l'aveva proposto in una oloconferenza. Ma per-
ché l'ordine fosse eseguito era bastato un suo cenno un po' insistente e u-
n'occhiata perspicace dell'Imperatore.
Com'è buffo, pensò pigramente. Sembrerebbe che ci siamo avvicinati
molto; e che pensiamo in modo simile. Era davvero possibile che gli anni
di lontananza avessero cambiato tanto il suo modo di pensare? O era stata
l'esperienza acquisita negli ultimi dodici anni come Imperatore Reggente?
Negli ultimi mesi, mentre la nave del padre si avvicinava sempre più alla
Terra, le consultazioni e le chiacchierate tra loro due si erano fatte sempre
più frequenti. Javas sorrise tra sé e sé, rendendosi conto che il padre era ar-
rivato a conoscerlo meglio in quelle ultime settimane, nonostante fossero
lontani milioni di chilometri, che non negli anni in cui avevano vissuto in-
sieme su Corinto.
All'improvviso capì di cosa si trattava: la fiducia. Il semplice suggeri-
mento di anticipare l'atterraggio di un'ora, detto nel modo giusto, aveva
comunicato al padre: la responsabilità qui è mia. Era bastato questo al-
l'Imperatore per dare immediatamente ordine a Fain di cambiare pro-
gramma.
Una segnalazione effettuata dal sistema interruppe momentaneamente i
suoi pensieri. «Messaggio in arrivo, sire. L'Autorità portuale riferisce che
l'Imperatore arriverà tra cinque minuti.»
«Grazie.» Javas prese la giacca dallo schienale della sedia e la infilò,
chiudendo velocemente i bottoni d'oro mentre si avvicinava a un gruppo di
poltrone felpate rivolte verso la parete di fronte. «Sistema» ordinò, seden-
dosi in una poltrona in fondo a sinistra.
«Sire?»
«Apri la stanza di ricevimento. Desidero assistere all'atterraggio. Voglio
che le luci interne rimangano spente per tutta la sua durata.»
Le luci della stanza si spensero e si produsse un bagliore qualche centi-
metro più in alto rispetto all'intera superficie della parete, mentre lo scher-
mo protettivo si alzava. Un sottile raggio di luce si irradiò nella stanza lun-
go la linea di confine tra la parete e il soffitto, poi si allargò mentre la pare-
te scivolava silenziosamente verso il pavimento, mettendo in mostra l'e-
norme pista d'atterraggio. Sporgendosi in avanti, Javas guardò la sezione
privata di osservazione che si trovava proprio sotto la sua stanza, e che era
riservata ai membri della corte e agli ospiti. Quasi tutte le sedie erano oc-
cupate. Tutte eccetto quelle che si trovavano nella fila davanti, che era ri-
servata a Bomeer e ai membri dell'Accademia della Scienza. Ridacchiò tra
sé e sé, compiaciuto di come fosse stato semplice fare lo sgambetto agli
accademici. Scivolò con lo sguardo oltre il pavimento della stanza, a non
meno di cento metri sotto di lui, dove centinaia di tecnici si affrettavano
impegnati in Dio solo sa quali mansioni per garantire un atterraggio sicuro
allo shuttle.
Il Principe Javas scosse lentamente la testa per lo sgomento di fronte a
quello spettacolo straordinario, e lasciò che gli angoli della bocca gli si
sollevassero in un sorriso fanciullesco.
«Non mi stancherò mai di questo» mormorò, lasciandosi andare all'in-
dietro nella confortevole poltrona. Poi disse ad alta voce: «Sistema, mettiti
in contatto audio con il comandante Fain sullo shuttle in avvicinamento, e
informami quando è in linea».

Il condotto di accesso al pubblico era affollato. Centinaia di persone si


affannavano a raggiungere l'ampio atrio circolare che costeggiava la pista
d'atterraggio. Molti si fermavano a dare un'occhiata ai biglietti che teneva-
no tra le mani, mentre cercavano i grandi numeri dipinti che servivano a
identificare i corridoi laterali, nel tentativo di trovare la galleria che era
stata loro assegnata per assistere alle cerimonie in onore dell'atterraggio.
Due uomini erano in piedi vicino a un lato del corridoio definito "Galle-
ria 29". Il più magro dei due si guardava intorno nervosamente e abbassava
la voce ogni volta che qualcuno gli passava vicino per paura di essere sen-
tito.
«Ma c'è talmente tanta gente in tutte le sezioni» stava dicendo. Mentre
parlava, si torceva le mani e spostava il peso da un piede all'altro. «Come
farò a sapere che è quella giusta?»
«Non ti preoccupare» rispose il suo compagno. «Abbiamo verificato
qual è la poltrona che le è stata assegnata. Sarà nella fila di fronte alla gal-
leria. Quando le cerimonie saranno concluse, rimani seduto ad aspettare
che lei esca, poi consegnale la lettera.» Sembrava molto più tranquillo del-
l'altro; anzi, del tutto a proprio agio. La sua espressione precisa era però
nascosta da una folta barba.
«Io non ne sono così sicuro. Cosa succede se...»
«Ascolta!» lo interruppe l'uomo con la barba.
La sua voce potente spazzò via immediatamente l'agitazione dell'uomo
magro, e lo forzò a sostenere i suoi occhi ferini costringendolo, quasi con-
tro la sua volontà, a prestargli piena attenzione. «La nostra causa è giusta.
Dobbiamo fare qualsiasi cosa sia necessaria perché abbia successo. Qui
c'è...» Cercò qualcosa nella tasca della giacca di pelle e tirò fuori un brac-
cialetto d'oro. «Mettitelo, e mostraglielo quando ti farai riconoscere.»
Lui obbedientemente fece scivolare il braccialetto al polso, esaminando-
ne come meglio poteva l'immagine intagliata sulla superficie. «Una feni-
ce?»
«È solo un ciondolo. Non significa nulla, serve solo a farti riconoscere.»
L'uomo con la barba fece qualche passo verso la folla e controllò l'ora su
uno schermo a infrarossi che si ricordava di avere visto qualche metro sot-
to la parete opposta. «Chiuderanno le gallerie tra qualche minuto. Sarà
meglio entrare.»
L'uomo annuì, e continuando a giocherellare in modo assente con il
braccialetto che aveva al polso scese nell'atrio.
L'uomo barbuto si fermo davanti al corridoio e occluse il passaggio, fa-
cendo finta di aspettare qualcuno, finché non sentì che il portone veniva
chiuso. Un veloce sguardo alla galleria gli confermò che era stata sigillata;
e che una guardia armata vi si era messa davanti.
Rassicurato dal fatto che nessuno potesse lasciare la galleria fino al ter-
mine dei festeggiamenti, con disinvoltura si allontanò dalla Galleria 29, fa-
cendo attenzione a non farsi notare.

«Shuttle Imperiale Bright Cay in posizione di avvicinamento a cinque


chilometri, aspettiamo l'autorizzazione finale.»
«Sei in schema, Bright Cay, vi abbiamo in agganciamento. Potete pro-
cedere quando volete.»
«Roger, agganciamento. Tenetevi pronti, prego.»
Il pilota girò la poltrona per potere guardare in faccia l'uomo in unifor-
me, seduto al posto dell'ufficiale di bordo.
Il comandante Fain si mosse nervosamente nella sedia, sentendosi inop-
portuno e superfluo nell'apparentemente piccolo ponte di controllo della
nave. In realtà, il ponte erano talmente affollato che all'ufficiale di bordo
era stata assegnata un'altra posizione sul ponte di poppa, proprio per per-
mettere a Fain di stare dietro al pilota.
Protocollo.
Non c'era nessun bisogno di lui. Sapeva che le cinque persone dell'equi-
paggio potevano occuparsi di quello e di qualsiasi altro atterraggio anche
nel sonno, e in effetti era stato proprio Fain a selezionare tra i suoi stessi
ufficiali l'equipaggio che in quel momento si trovava sulla nave ammira-
glia in orbita lunare, ma il protocollo richiedeva la sua presenza.
«Comandante?» Il pilota stava ancora aspettando una risposta. Anche il
copilota si era girato a guardarlo, e Fain si domandò quanto tempo avrebbe
aspettato prima di parlare.
«Procedete nell'avvicinamento finale» disse con fermezza, poi si rad-
drizzò sulla sedia per guardare oltre le spalle del pilota, il paesaggio che
scivolava via dietro lo shuttle. Le autorità portuali avrebbero assunto il
pieno controllo dell'atterraggio non appena il pilota avesse condotto la na-
ve più vicino, ma la manovra finale era ancora lontana.
Alla vista della giovane donna che pilotava con disinvoltura lo shuttle,
Fain provò un'acuta fitta di gelosia. Quanto tempo era passato dall'ultima
volta che aveva pilotato con le sue stesse mani una nave come quella? So-
spirò e si appoggiò allo schienale della sedia; man mano che si avvicina-
vano alla cupola aumentava l'angolazione verticale, e quindi non c'era più
molto da vedere attraverso l'oblò di babordo.
«Comandante Fain?» disse l'ufficiale addetto alle comunicazioni che si
trovava alla sua sinistra. «Sto ricevendo da terra un messaggio automatiz-
zato per lei.»
Adesso? «Mettimi in comunicazione, allora.»
«È un codice privato, signore; solo audio.»
Fain espirò profondamente e poi schiacciò un interruttore sul bracciolo
della poltrona, inserendo la cuffia nel modulo per le comunicazioni priva-
te.
«Parla Fain» disse, poi aspettò conferma che la sua identità fosse stata
verificata dal codice di identificazione della sua voce.
«Rimanga in attesa di una trasmissione da parte del Principe Javas» dis-
se una voce sintetizzata.
Fain aggrottò la fronte preoccupato, la chiamata era stata automatizzata
del sistema personale del principe. «Pronto a ricevere?»
«Sì.» Ci fu un ritardo di un secondo prima che cominciasse la comuni-
cazione, ma l'attesa sembrò molto più lunga.
«Comandante, spero tu sia in buona salute.»
«Sto bene, sire. Ma devo ammettere che la vostra chiamata mi ha lascia-
to un po' sconcertato.»
La risata del Principe ronzò nella cuffia. «Mi dispiace di averti spaventa-
to. Atterrerai tra pochi minuti e ti vedrò di persona sul palco di ricevimen-
to, ma c'era qualcosa che volevo dirti adesso.
«Portando a termine questo atterraggio, avrai anche portato a termine il
lungo e difficile viaggio della corte imperiale sulla Terra. Sono certo che
non è necessario che ti ricordi l'obiettivo di quest'impresa, e nemmeno la
sua fondamentale importanza per il progetto di mio padre. Ma...» Smise di
parlare, e Fain pensò per un attimo che il ragazzo avesse perso la parola
per la prima volta da quando lo conosceva.
«Ho contato su di te in questi ultimi dodici anni, più di quanto tu creda»
continuò. «Le condizioni di salute di mio padre non sono buone, lo sai. Ma
forse non ti sei reso conto di quanto tu sia benvoluto da lui.»
«Sire, io...»
«Lasciami finire, comandante. Hai servito bene mio padre, sia come
comandante della Flotta Imperiale... che come amico. Lui si è fidato di te
sia per i consigli personali che per la competenza professionale, e sono
convinto che non sarebbe sopravvissuto al viaggio senza di te. Grazie,
Fain.»
Fain era confuso, e non sapeva cosa rispondere. Aprì la bocca senza riu-
scire a emettere suono, ma il Principe, che evidentemente si rendeva conto
del suo disagio, lo tolse dall'imbarazzo, aggiungendo velocemente con vo-
ce allegra: «A presto, comandante». Ci fu un clic quasi impercettibile nella
cuffia, segno che la linea era stata interrotta.
«Siamo a 500 metri, comandante, e...» disse il pilota di spalle. Fain ve-
locemente si ricompose e si tolse le cuffie. «Dammi una visione dal basso,
per favore.» Lo schermo dell'ufficiale di bordo si spostò immediatamente
su un'immagine della cupola d'atterraggio che era sotto di loro. Anelli con-
centrici simili a un bersaglio si accendevano intorno al perimetro della cu-
pola a forma di occhio di bue. Una scura porzione circolare al centro degli
anelli, che costituiva le imponenti porte della baia d'attracco, era visibile
anche sul piccolo schermo.

«Abbiamo l'autorizzazione portuale adesso, signore; Vuole occuparsi lei


dell'attracco?»
Fain la guardò, e colse un leggero sorriso mentre lei si girava di nuovo
verso il pannello di controllo. «Grazie» disse tamburellando sul bracciolo.
«Direzione portuale, quali sono le vostre condizioni?»
«Vi abbiamo in completo agganciamento, e siamo pronti per l'atterrag-
gio.»
«Bright Cay pronta. Portateci dentro.»
«Sì, signore.» Interruppe il collegamento immediatamente. Un leggero
brivido percorse la nave, segnalando che era stato inserito il controllo gra-
vitazionale. La sensazione passò quasi immediatamente, e la nave scivolò
dolcemente verso la cupola, ormai del tutto controllata da terra.
Il ponte d'atterraggio del Palazzo Imperiale era il più grande spazio chiu-
so che Adela de Montgarde avesse mai visto. A paragone le strutture por-
tuali del suo Mondo erano piccole. Perfino il porto stellare del pianeta Im-
periale, che era in assoluto il più grande dei Cento Mondi, era niente in
confronto.
Era seduta nella quinta fila di una sezione speciale riservata alle perso-
nalità invitate dalla corte imperiale, circondata da ambedue i lati da mem-
bri del suo staff scientifico. Diede un'occhiata veloce alla sezione e si ac-
corse che tranne la fila di fronte tutte, le poltrone erano occupate. Adela,
vedendo la fila vuota, si domandò come mai l'odioso Bomeer e il suo
gruppo di parassiti non fossero ancora arrivati. Probabilmente vogliono fa-
re un'entrata trionfale, pensò.
I suoi occhi scrutarono l'enorme sala, cercando di non lasciarsi sfuggire
nemmeno un particolare. Il soffitto si stagliava a più di 400 metri al di so-
pra di lei, e bisognava guardare attentamente per riuscire a vedere le linee
di separazione che c'erano in cima alla cupola tra i portelli e le pareti, che
si alzavano in una curva morbida fino a congiungersi. Sulle pareti c'erano
alcune passerelle dislocate regolarmente e si vedevano le finestre illumina-
te di numerose stazioni di lavoro, camere d'osservazione e strutture tecni-
che che brillavano piene di luce su ognuno dei livelli. Sotto la passerella
più bassa c'erano le gallerie per gli spettatori. Come la cupola anche le gal-
lerie, costruite proprio per quella occasione, luccicavano da quanto erano
nuove. Erano disposte in modo irregolare intorno al perimetro della baia
d'atterraggio, e davano al ponte l'aria di un'arena, anche se la strana dispo-
sizione delle sezioni su tutta la cupola facevano pensare ad Adela che non
vi si potesse svolgere alcun evento sportivo.
Il livello delle gallerie era separato da quello superiore, dove si trovava
la zona tecnica della cupola, e ciascuna sezione era molto distanziata da
quella successiva. Adela notò centinaia di agenti di sicurezza poco armati,
tutti in uniforme, che gironzolavano sia sulle passerelle più basse che nelle
ampie aree tra le stesse sezioni. Ogni sezione si concludeva con alcune
poltrone visibilmente vuote.
L'intera zona era dominata, anche se forse sovrastata sarebbe un termine
più adatto, dall'enorme piattaforma d'atterraggio sottostante, costituita da
un reticolato luccicante a linee intrecciate. Le tacche sulla rete offrirono ad
Adela una chiave per ottenere l'esatta misura del luogo: sapeva che le linee
che componevano la rete erano posizionate a venti metri l'una dall'altra,
anche se da quella distanza sembravano vicine come le linee di una carta
millimetrata.
Tra la folla si levò un mormorio e lei si girò per vedere quale fosse la
fonte dell'eccitazione. Proprio sopra di loro si era aperta una sala d'osser-
vazione, dove seduto in attesa di assistere all'arrivo di suo padre, c'era il
Principe. Lui si alzò in piedi, e sollevò la mano in segno di saluto verso la
folla, la sala si riempì di un misto di acclamazioni, applausi, fischi e grida.
Il Principe fece scorrere lo sguardo sulla sezione imperiale, e la vide.
Quando i loro sguardi si incrociarono, un sorriso gli illuminò il viso, e le
fece un cenno con la testa in segno di saluto. Indugiò ancora un attimo con
lo sguardo prima di spostarlo sulla sala affollata. Fece un ultimo cenno di
saluto alla folla e si rimise a sedere.
Un ronzio indistinto, più intuito che sentito, e un bagliore improvviso
nell'aria la colsero di sorpresa. Alzò gli occhi proprio mentre qualcosa di
simile a uno scudo d'aria isolava l'intera sezione. Mentre lo scudo si allar-
gava progressivamente fino a occupare sezione dopo sezione l'enorme baia
d'atterraggio, le arrivarono all'orecchio le grida di sorpresa degli spettatori
che non conoscevano le precauzioni di sicurezza. Le grida di sorpresa la-
sciarono il posto alle risate isteriche, quando quelli che erano più abituati
alle tecnologie spiegarono ai vicini che cosa stava succedendo.
Echeggiarono tre acuti squilli di tromba, che immediatamente zittirono
la folla. Dozzine di luci rotanti intorno alla passerella più alta attirarono
tutti gli sguardi, non appena un altro scudo apparve sulla cima della cupo-
la. Man mano che si formava diventava più luminoso, e si allargava pro-
gressivamente fino a coprire tutto lo spazio occupato dai portelli d'entrata
che si trovavano sul soffitto. Un leggero sibilo attraversò la sala quando
l'aria che si trovava tra le due porte e lo scudo fu evacuata. Il sibilo svanì,
sostituito da un lungo squillo di corno, e le porte si separarono dal centro
producendo un frastuono che fece vibrare tutta la cupola. Anche se la baia
d'atterraggio era molto illuminata, neppure Adela era preparata all'intensità
del fascio di luce che esplose quando si aprirono i portelli. Molti nella folla
allontanarono subito lo sguardo, accecati da quella luce improvvisa. Rima-
sero a guardare la traiettoria della luce che rapidamente si allargava sulla
piattaforma d'atterraggio sottostante, finché non si furono abituati alla sua
intensità e ritornarono a guardare di nuovo in alto giusto in tempo per ve-
dere i portelli aprirsi del tutto.
Per qualche momento non accadde più nulla, poi improvvisamente tra la
folla si levò un brusio e un sospiro di stupore generale. Cominciò nelle file
che si trovavano più in basso, in cui spettatori più centrali ebbero per primi
la possibilità di scorgerne la fonte, e poi si estese velocemente alle gallerie.
Cristo, è enorme, pensò Adela mentre il carrello d'atterraggio e la parte
bassa dello shuttle apparvero davanti all'apertura. La luce del sole si riflet-
teva sulla lucentezza della nave spaziale, il bagliore le fece lacrimare gli
occhi e fu costretta a chiuderli, e a sfregarli ogni tanto con le nocche. So-
pra lo schermo protettivo, polvere e fumo turbinavano impetuosamente in
un silenzio assurdo, nello spazio limitato dai portelli, ma il moto vorticoso
si estinse immediatamente non appena i razzi per la spinta d'avvicinamento
si spensero. L'imbracatura gravitazionale della pista d'atterraggio teneva
saldamente la nave, e la faceva scendere dolcemente e regolarmente attra-
verso l'apertura.
Furono i piedi d'atterraggio a toccare per primi lo scudo, sollevando l'a-
ria tutt'intorno al carrello man mano che l'apparecchio si abbassava, e for-
mando tutt'attorno delle piccole onde di luce proprio come sulla superficie
di un lago. Adela si rese conto che con l'avvicinarsi dello shuttle allo scudo
il rumore aumentava d'intensità. Dall'interno dello stesso veicolo proveni-
vano ronzii meccanici e il gemito dei razzi che procedevano nel loro ciclo
di discesa, mentre alcune parti del luccicante rivestimento metallico scop-
piettavano e scricchiolavano via via che si equalizzava alla temperatura in-
terna della pista d'atterraggio.
Lo shuttle aveva quasi toccato lo scudo quando i portelli cominciarono
lentamente a richiudersi. L'operazione si svolse in modo tale che i portelli
si chiusero rimbombando nello stesso momento in cui l'enorme nave sferi-
ca si poggiò completamente sulla rete d'atterraggio. Non appena la trazione
gravitazionale lo abbandonò, l'apparecchio si assestò con tutto il suo peso
sul carrello.
Non aveva mai visto nulla di simile, e nemmeno i milioni di persone ve-
nute ad assistere all'avvenimento. Quando anche l'ultimo esausto razzo di
spinta si fu smorzato, dalle gallerie si alzò un potente ruggito, sommergen-
do il suono delle ventole di ricambio dell'aria della baia.
Adela si voltò di nuovo a guardare la sala d'osservazione del Principe
accanto alla loro sezione. Faceva dei cenni d'approvazione, e anche da
quella distanza era evidente il sollievo che si era dipinto sul suo viso. Un
attimo dopo, si alzò e si unì all'applauso generale. Lei si voltò di nuovo a
guardare la nave e poi, incapace di contenersi, si alzò in mezzo alla folla e
cominciò ad applaudire.
Solo qualche minuto prima, a bordo del Bright Cay, l'Imperatore dei
Cento Mondi era comodamente seduto sul suo trono, e a dispetto della ri-
gorosa uniforme da cerimonia che indossava, godeva della naturale attra-
zione del mondo sottostante, era la prima gravità naturale che sentiva da
anni. Il più intimo dei suoi medici su Corinto di solito aveva da ridire sulla
sua presunta capacità di distinguere la gravità artificiale prescritta per gli
alloggi personali dalla gravità naturale. Ma come gli capitava anche con i
bioimpianti a cui era più che abituato, sapeva, anzi sentiva una certa sottile
differenza che uomini di estrazione inferiore alla sua non erano in grado di
percepire.
«Fra quanto tempo atterreremo?» domandò a Brendan, l'aiutante a tempo
pieno che gli era stato assegnato per la durata del lungo viaggio. Si rifiuta-
va di pensare a Brendan come a qualcosa di diverso da un aiutante, anche
se il buon senso e la continua esperienza gli ricordavano che in realtà si
trattava di un infermiere in servizio ventiquattro ore su ventiquattro. Le sue
labbra assumevano una piega di disgusto ogni volta che gli veniva in men-
te la parola infermiere, ma nonostante tutto all'Imperatore quell'uomo pia-
ceva.
Era segno sia di buona formazione professionale che di intuizione il fat-
to che Brendan, alla domanda dell'Imperatore, non fosse immediatamente
saltato al suo fianco, nel borioso tentativo di rassicurarlo sulla sicurezza
della nave. L'Imperatore ne aveva avuti fin troppi di aiutanti di quel tipo, e
non era la prima volta che apprezzava la semplicità di Brendan e il modo
in cui si rapportava alla sua posizione. Infatti il giovane si girò lentamente
nella poltrona e, dando uno sguardo al polso, replicò semplicemente: «Tra
circa cinque minuti, Sire.» Stava assistendo allo svolgersi dell'atterraggio
sul grande schermo posto nella parete di fronte.
Poi, come se avesse avuto un ripensamento, aggiunse casualmente: «C'è
ancora abbastanza tempo per andare ad assistere all'atterraggio dalla vostra
cabina privata, sire, se preferite».
L'imperatore osservò attentamente il giovane. Nonostante le sue condi-
zioni di salute venissero costantemente trasmesse al computer imperiale e
da lì allo staff medico, l'aiutante aveva i suoi innesti e monitorava costan-
temente i suoi dati medici. Anche in quel momento, ne era certo, Brendan
stava comparando la respirazione, il battito cardiaco, la pressione del san-
gue e altri biolivelli con quelli ritenuti accettabili per l'Imperatore nelle va-
rie situazioni. Le mie pulsazioni devono essere leggermente alte, pensò
l'Imperatore, altrimenti non mi avrebbe suggerito uno spostamento che ha
il solo scopo di rimettermi a letto. Fece il tentativo di rilassarsi, respirando
lentamente e profondamente per calmare l'eccitazione che provava per
l'imminente conclusione del lunghissimo viaggio.
Brendan si voltò di nuovo a guardarlo, con il sopracciglio destro leg-
germente arcuato, con un'angolazione quasi uguale a quella del mezzo sor-
riso che gli apparve sul viso. «Suppongo che preferiate di no.»
L'Imperatore sapeva che i suoi tentativi di sotterfugio erano stati letti e
interpretati in modo corretto, e gli restituì un sorriso riconoscente. Non
posso nasconderti nulla, eh? aggiunse silenziosamente.
L'atterraggio procedeva più rapidamente e facilmente di quanto si aspet-
tasse, e sembrava che fossero trascorsi solo pochi attimi quando la tromba
che segnalava il contatto suonò dolcemente nella sala di sistema. Quando il
carrello d'atterraggio toccò il cuscinetto ammortizzatore, ci fu un breve
scossone, e un altro ancora quando l'imbracatura gravitazionale si sganciò.
L'Imperatore inserì l'integratore che collegava la sua mente direttamente
con il computer di bordo e appurò che l'atterraggio si era svolto alla perfe-
zione da tutti i punti di vista, anche se non si aspettava niente di meno con
un equipaggio uscito dalle mani di Fain. Inviò un comando mentale con
l'integratore, perché ogni membro dell'equipaggio venisse lodato.
Brendan si alzò in piedi con aria solenne, e con un'espressione insolita-
mente seria sul viso. «Sire, io... vorrei avere il permesso di rimanere a bor-
do finché non sarete trasportato alla residenza imperiale.»
«Eh?» L'Imperatore scrutò l'espressione del giovane, cercando di capire
qual era la ragione del suo disagio. «Perché mai?» L'aiutante si irrigidì da-
vanti al suo sguardo. Utilizzando un'altra volta l'integratore, si accorse che
sia le pulsazioni che la respirazione di Brendan avevano un ritmo piuttosto
sostenuto. Siamo legati in modo inscindibile, pensò. Paziente e infermiere
legati più di due gemelli siamesi. Ammorbidì il tono di voce. «Brendan, se
non possiamo parlare liberamente tra di noi, dopo tutti questi anni, allora
vuol dire che ti conosco meno di quanto pensassi. Per favore c'è qualche
cosa che devo sapere?»
Il cambiamento nella voce dell'Imperatore sembrò tranquillizzare l'uo-
mo, che ricominciò a parlare, questa volta in modo più sicuro. «Sire, men-
tre parliamo i vostri referti clinici vengono trasferiti dalla nave al computer
imperiale locale; in più io continuo, naturalmente, a monitorare. Ma quan-
do lascerete la nave tra qualche minuto, sarà la prima volta dopo molti anni
che vi mostrate in pubblico. Voglio dire che le cerimonie sono state estese
a tutto il sistema solare, e su tutte le reti imperiali, senza contare i milioni
di persone che hanno viaggiato fin qui per l'onore di essere presenti a que-
sto momento storico...» Si fermò e respirò profondamente. «Desidera dav-
vero essere visto in pubblico con un... infermiere al suo fianco?»
Dopo aver detto con lealtà quelle parole, espirò profondamente e guardò
dritto in faccia l'Imperatore. L'Imperatore si sfregò pensieroso la barba
bianca con dita sottili e fragili e annuì silenziosamente. Il pensiero non gli
aveva neppure sfiorato la mente. Devo essere invecchiato sul serio, se ho
tralasciato un particolare così ovvio, ammise con se stesso. Guardò il gio-
vane, e gli tese la mano ossuta.
«Hai ragione, Brendan» disse, sentendo la stretta della mano dell'altro.
«Grazie per avermelo fatto notare.» Liberando la sedia automatizzata dalle
restrizioni magnetiche dovute all'atterraggio, scivolò tranquillamente da-
vanti allo schermo. «Informa il comandante Fain che sono pronto a scen-
dere quando vuole.»
«Sì, Sire.» Fece un breve inchino e si diresse immediatamente verso la
porta.
Ci vollero quasi quindici minuti prima che il sistema computerizzato lo
informasse che il comandante Fain stava arrivando, e altri dieci minuti
prima che raggiungessero l'ascensore dello shuttle. La maggior parte dei
membri che scortavano la corte imperiale erano già in formazione d'attesa
fuori dalla nave, così i due uomini, da soli, salirono in silenzio assoluto fi-
no a quando l'ascensore non si fermò sulla stessa pista d'atterraggio. L'im-
peratore inclinò la testa da un lato, cercando di capire cosa fosse la vibra-
zione costante che percepiva attraverso le pareti del cubicolo. Fain se ne
accorse e suggerì: «È la folla, Sire».
«Bene, allora» rispose. «Sarà meglio non farli aspettare oltre.»
Le porte si aprirono silenziosamente, e i due uomini furono colpiti da
qualcosa che sembrava un solido muro sonoro. L'Imperatore dei Cento
Mondi spostò la sedia lentamente nella piattaforma affollata, mentre il co-
mandante Fain camminava rimanendo alla sua destra. Gli ufficiali imperia-
li, l'equipaggio della nave ammiraglia e i membri dell'equipaggio dello
shuttle, il personale di supporto, e numerosi altri dignitari si facevano da
parte al suo passaggio e poi si rimettevano in posizione dietro di lui. Fain
scortò l'Imperatore fino a una grande area circolare di ricevimento che era
stata ovviamente allestita per accoglierlo, poi fece due passi indietro men-
tre l'Imperatore stesso si spostava nel centro.
Le luci della sala si abbassarono e un riflettore illuminò il centro dell'a-
rea. L'Imperatore alzò una mano in segno di saluto, e la folla esplose in un
applauso tumultuoso che si prolungò per diversi minuti. Allora sollevò tut-
te e due le mani nel tentativo di farli smettere, e aspettò con pazienza che il
clamore lentamente si placasse. Diede un'occhiata a Fain, che si toccò le
cuffie e annuì, confermandogli che l'impianto audio nella baia d'atterraggio
era operativo, poi si voltò a guardare la folla.
«Vi ringrazio moltissimo per il vostro caldo benvenuto» disse con sem-
plicità, mentre la sua voce pacata si riverberava sulle pareti dell'enorme sa-
la. «È bello essere a casa.»
La folla proruppe in un applauso di approvazione, e l'Imperatore decise
che in quel momento era inutile cercare di fare un discorso. Invece, indicò
con la mano un punto proprio sopra la galleria più vicina, quella riservata
agli ospiti imperiali, e fece segno di illuminare la sala di osservazione del
Principe. Un secondo riflettore si mosse nella sala e illuminò il Principe
che si trovava nel centro, mentre tutti gli occhi si girarono a guardare Javas
che si alzava, si inchinava brevemente, e si allontanava in fretta scompa-
rendo dalla vista. Ricomparve qualche secondo più tardi davanti alla porta
in cima alla galleria affiancato da due guardie di colore e, dopo un unico
cenno alla folla, cominciò a scendere i gradini di fianco alla sezione priva-
ta. Scese con voluta lentezza la stretta navata laterale finché non raggiunse
la quinta fila, poi si fermò e fece un cenno con la mano a una donna in abi-
to da cerimonia seduta verso la fine della fila. Lei esitò, ma spinta dall'insi-
stenza di chi le stava vicino si alzò e si mosse con circospezione lungo la
fila per andare a mettersi nervosamente al fianco del Principe.
Lui le offrì il braccio e la scortò fino in fondo alla galleria. Le guardie di
colore del Principe si allontanarono per andare velocemente a prendere po-
sizione ai due lati della scaletta che conduceva direttamente alla rete di at-
terraggio. Una sezione dello scudo d'aria in cima alla scala vibrò e per un
attimo cambiò di colore, permettendo a Javas e ad Adela di passare, per
poi solidificarsi non appena i due ebbero raggiunto l'area di accoglienza
dove li attendeva l'Imperatore.
Erano quasi arrivati sulla piattaforma quando l'Imperatore si rese conto
che la donna scortata dal figlio era la sottile ragazza che lo aveva convinto
ad appoggiare il suo piano per salvare il Sole della Terra. Gli anni l'hanno
invecchiata, pensò mentre lei si inchinava formalmente davanti a lui. Le
studiò il viso, e si accorse che aveva negli occhi una lieve espressione di
sorpresa, uno sguardo che rifletteva il turbamento che l'aveva colta nel ve-
derlo così deperito.
Il Principe Javas fece un profondo inchino, e si spostò davanti alla sala
circolare di accoglienza, poi guardò la folla e sollevò un braccio per otte-
nere silenzio. Quando si ritenne soddisfatto del livello sonoro, si tolse di
dosso la fascia imperiale con cura e la tenne alzata con tutte e due le mani,
girandosi lentamente in modo che il maggior numero possibile di persone
fosse in grado di vedere il suo gesto. Facendo un segno di croce, come
previsto dal cerimoniale, davanti al trono del padre, la fece scivolare sopra
la testa dell'Imperatore, lisciando le parti della stoffa satinata sulle spalle, e
sussurrò all'orecchio del padre: «Va tutto bene». Javas fece un segno verso
la fila rimasta vuota nella galleria riservata, e gioì dello sguardo di intesa
che brillò negli occhi del padre quando questi capì che Bomeer era stato
scavalcato. Si alzò in piedi e guardò la folla.
«Signore e signori» disse il Principe con decisione, orgogliosamente, e
con un timbro di voce più potente di quello che l'Imperatore ricordava.
«Ecco a voi l'Imperatore dei Cento Mondi!»
A quel punto non ci fu più nulla che riuscì a trattenere la folla dall'esplo-
dere in grida di entusiasmo che fecero tremare le pareti. Javas fece qualche
passo verso il sorridente comandante Fain e gli porse una mano che l'altro
strinse vigorosamente. Mentre il Principe faceva il giro per andare a met-
tersi formalmente alla destra del padre, Fain si spostò velocemente accanto
all'Imperatore e prese posizione alla sua sinistra, completando il cerimo-
niale di trasferimento del potere. Mentre i tre rimanevano in posa per il
pubblico, l'Imperatore si accorse che Adela, che non aveva familiarità con
il protocollo imperiale, se ne stava imbarazzato sul limite della piattaforma
circolare di accoglienza. Alzò gli occhi e quando catturò lo sguardo del fi-
glio fece un segno verso di lei. Javas sollevò un sopracciglio chiedendo si-
lenziosamente il permesso, e quando l'Imperatore annuì in senso di appro-
vazione, allungò lentamente il braccio, facendo cenno alla donna di rag-
giungerlo e di mettersi al suo fianco. Il frastuono era tale che ci volle qual-
che minuto prima che qualcuno si accorgesse dell'agitazione che si era cre-
ata sulla destra della piattaforma di ricevimento. Dozzine di agenti di sicu-
rezza avevano circondato una delle gallerie per il pubblico, e le persone
che si trovavano lì dentro si pigiavano l'una contro l'altra nel tentativo di
fuggire.
In una delle file più arretrate della galleria si produsse un bagliore im-
provviso e l'intera area cuneiforme immediatamente si tinse di rosso nono-
stante l'esplosione fosse contenuta dalle barriere di protezione. La fiamma-
ta si estinse immediatamente, lasciando dietro di sé solo un cubo squadrato
e fumoso. Uno scricchiolio improvviso riempì l'aria non appena lo scudo
protettivo della zona d'atterraggio, che fino a quel momento era rimasto in
posizione normale, si chiuse di scatto ermeticamente, sovrapponendo al
perimetro della piattaforma un velo traslucido che rendeva difficile capire
che cosa stesse succedendo nella galleria. Javas si lanciò verso il trono nel
tentativo istintivo di proteggere il padre con il suo stesso corpo, ma una
dozzina di membri dello staff della sicurezza lo circondarono immediata-
mente, tenendolo lontano dall'Imperatore, mentre anche Fain e Adela ve-
nivano spinti da guardie altrettanto grosse in due differenti zone di sicu-
rezza. L'Imperatore cercò disperatamente di capire cosa stesse succedendo
nel padiglione d'atterraggio, ma ormai era nelle mani protettive dell'equi-
paggio dello shuttle.
Se ciò che sospettava era vero, l'intera galleria, che era stata completa-
mente isolata dallo scudo d'aria, si era trasformata in un forno, causando la
morte di quanti si trovavano nella sezione. L'Imperatore scosse la testa,
comprendendo che la sua più grande paura si era realizzata.
Così, pensò, si comincia.

2: Riunione

«Morti. Tutti morti.»


L'Imperatore dei Cento Mondi non si era accorto che, anche se debol-
mente, si era espresso ad alta voce, e per un attimo fu spaventato dal beep
confuso dell'infosistema inserito nelle pareti dello studio. Il sistema aveva
interpretato le sue parole come un ordine incompleto.
«Cancella...» Stava per dire, ma poi cambiò idea. Esitò, perché sapeva
che se avesse pronunciato quel pensiero improvviso, ne avrebbe ottenuto
solo un enorme dolore. Sospirò pesantemente, sentendosi sommergere dal-
la stanchezza arretrata delle ultime ventiquattro ore, e spostò il trono da-
vanti al grande schermo che occupava la parete dello studio.
«Spegnere le luci interne.» L'illuminazione artificiale si spense imme-
diatamente, ma lo schermo diffuse nella stanza una luce morbida e ripo-
sante. «Fammi vedere in una schermata unica il file biografico di ciascuna
delle vittime dell'esplosione di ieri nella Galleria 29, in ordine alfabetico.»
«Rotazione manuale o continua?»
«Manuale.» La risposta dell'imperatore era quasi un sussurro. Anche se
poteva essere captata facilmente dal sistema, un'altra persona che si fosse
trovata nella stessa stanza sarebbe riuscita a sentire solo un leggero mor-
morio. Il borbottio di un vecchio, pensò con amarezza.
«I file richiesti necessitano di un po' di tempo per svolgersi manualmen-
te, Sire. Desidera un carico integrato?»
L'imperatore non rispose, e rimase assorto davanti allo schermo. Il primo
file biografico era già sul display, e mostrava un giovane con capelli bion-
do-rossicci e con un sorriso raggiante. James Altann, diceva il file. Età: 32
anni. Luogo di nascita: Alphonsus, Luna. Occupazione: trasportatore mer-
ci, esterno. Stato Civile: sposato, un figlio.
«Preferisce un carico integrato?» ripeteva il sistema computerizzato del-
la stanza.
«No, solo audiovisivo. File successivo.»
Lo schermo cambiò immediatamente, per mostrare il viso lentigginoso
di una donna con lunghi capelli biondi e splendenti occhi blu. Miriam Al-
tann. Età: 31 anni. Luogo di nascita: Alphonsus, Luna...
L'integratore era talmente insostituibile che l'Imperatore era arrivato a
detestarlo e a usarlo unicamente in caso di necessità; quando era da solo,
quasi sempre ne faceva a meno. Le informazioni che poteva ottenere tra-
mite il collegamento con il computer imperiale erano di enorme valore, e
molto spesso indispensabili, ma rendevano le cose troppo aride, troppo
"pulite". L'integratore avrebbe potuto fornirgli i file in pochi secondi, ma
l'Imperatore voleva esaminarli con i propri sensi, individualmente, uno do-
po l'altro.
«Sire» intonò il sistema, accompagnato da un ronzio insistente. «C'è una
comunicazione in arrivo, codificata come importante.»
«Registra tutti i messaggi per un recupero successivo. Il prossimo.»
L'Imperatore avvicinò il trono allo schermo, e si sentì raggelare esaminan-
do il file. «Cinque anni» sussurrò. Ci fu un unico beep del sistema, che in-
dicava confusione rispetto a ciò che aveva interpretato ancora una volta
come un ordine incompleto. L'Imperatore dei Cento Mondi lo ignorò e si
concentrò sul file biografico del piccolo Tracy Altann, notando che il pic-
colo aveva le stesse lentiggini della madre.
«File successivo.» L'Imperatore esaminò i file, lentamente, uno dopo
l'altro. C'erano numerose registrazioni senza nessuna apparente connessio-
ne con chi era morto nella sedia accanto. Alcuni erano impiegati di Arme-
lin City, altri turisti. C'erano membri dello staff di ricerca imperiale e ne-
gozianti locali. C'erano anche intere famiglie, che avevano viaggiato fin lì
per il raro privilegio di assistere all'arrivo dell'Imperatore. Tutti morti.
Il ciclo dei file ricominciò da capo. «Questo è un codice 1 di preceden-
za.» Il tono insistente del sistema computerizzato della stanza scosse l'Im-
peratore dal suo ingrato compito. Non aveva modo di sapere quante volte
il sistema lo avesse chiamato da quando qualche minuto prima l'aveva di-
sattivato, ma comunque sapeva bene che la chiamata di precedenza si sa-
rebbe ripetuta fino a quando non fosse stata accettata; i suoi medici, giu-
stamente preoccupati per la salute del proprio capo che andava deterioran-
dosi man mano che passava il tempo, avevano ordinato che il codice di
precedenza fosse installato nel suo programma personale di chiamata.
L'Imperatore sapeva anche che se avesse ignorato per troppo tempo la
chiamata in codice 1, Brendan e lo staff medico, scortati dal gruppo della
sicurezza al completo, avrebbero aperto la porta con la fiamma ossidrica,
se necessario, per verificare come mai non avesse risposto. Con riluttanza
inviò mentalmente l'ordine di riattivare nella stanza il programma di co-
municazione.
«Non voglio essere disturbato!»
«Padre, stai bene?» Era Javas. «Ho cercato di mettermi in contatto con te
diverse volte e mi sono preoccupato. Posso entrare?» L'Imperatore non ri-
spose immediatamente, e il tono di voce di Javas si fece più insistente.
«Padre, devo parlarti dell'incidente accaduto nella baia d'atterraggio.»
L'Imperatore sospirò, rassegnandosi al fatto di avere rimandato quel col-
loquio già troppo a lungo. Con l'integratore, prima di lasciare entrare il
Principe, ordinò al sistema di abbandonare il modulo vocale e di ripristina-
re l'illuminazione della stanza ai livelli normali. «Mi dispiace, Javas» disse
al figlio dopo che fu entrato «ma stavo leggendo i file delle persone rima-
ste uccise nell'esplosione e, be', temo di essermi immerso più di quanto vo-
lessi.» Osservò il Principe per un attimo e, sapendo che un giorno anche
lui avrebbe dovuto affrontare compiti simili, gli fece un breve sorriso pri-
ma di aggiungere: «Non è mai facile».
Javas sorrise educatamente, mettendosi alle spalle del padre.
Spegnere il display, ordinò mentalmente, ma capì che molto probabil-
mente Javas aveva già visto il file di Tracy Altann sullo schermo. Javas
tornò immediatamente a guardarlo mentre il display si chiudeva e veniva
rimpiazzato dal paesaggio della superficie lunare che circondava Armelin
City, permettendosi solo un semplice assenso come risposta al commento
del padre, ed evitando di sottolineare ciò che era ovvio. Ti ringrazio, figlio,
per avermi permesso un momento di dolore solitario, pensò.
«Ti prego, siediti.»
I due uomini si guardarono in silenzio per qualche minuto; si sentivano
tutti e due un po' imbarazzati da quel primo incontro che avveniva dopo
tanti anni. L'Imperatore notò che i modi di Javas erano cambiati percetti-
bilmente da quando era entrato nello studio. La rabbia e la frustrazione do-
vute alla necessità di occuparsi della tragedia si potevano leggere chiara-
mente sul suo viso appena era arrivato, ma adesso dava l'impressione di
essere più agitato di quanto quella terrificante situazione richiedesse. Il ra-
gazzo si mise a sedere rigidamente sulla poltrona, senza appoggiare la
schiena, e si agitò nervosamente. Sembrava che il Principe non riuscisse a
guardarlo negli occhi, e le volte in cui i loro sguardi si incontravano, l'Im-
peratore vedeva un lampo (un misto di dolore e rimorso?) accendersi sul
viso del figlio. Fece richiesta di un'analisi diagnostica del biomonitoraggio
personale del Principe. L'informazione gli arrivò in fretta e gli confermò
ciò che sospettava: gli indici del battito cardiaco del figlio, della respira-
zione e dell'attività cerebrale erano tutti ai massimi livelli, nonostante il
Principe facesse del suo meglio per nascondere il proprio disagio.
Per un attimo i loro occhi si incontrarono, e l'Imperatore capì che Javas
aveva indovinato ciò che stava facendo. Adesso è il mio turno di toglierti
un po' di imbarazzo, pensò.
«Il mio aspetto ti ha colpito» disse tranquillamente, ma con tono deciso.
«Ma cosa ti aspettavi? Ero già vecchio ancora prima di imbarcarmi in que-
sta grande avventura vent'anni fa. Invecchio. L'Imperatore invecchia sem-
pre.» Guardò Javas dritto negli occhi e poi aggiunse. «Succederà anche a
te, quando diventerai Imperatore e sarai costretto a interrompere il ringio-
vanimento.»
«Padre, io...»
«No, Javas. Va tutto bene.» Le sue parole rivelavano una nota d'indul-
genza. Per il momento decise di tralasciare gli aspetti che concernevano il
loro rapporto di Principe e Imperatore, per parlargli invece da padre a fi-
glio. «Non è necessario che l'integratore mi dica cosa stai pensando. Le
tante olodiscussioni che abbiamo avuto negli ultimi mesi sono una cosa,
ma vedermi adesso di persona, qui in questa stanza, deve averti fatto a ri-
flettere sul tuo futuro. Un futuro che temo diverrà presente prima di quanto
tu voglia.»
Javas annuì silenziosamente e poi guardò il padre intensamente negli oc-
chi.
«Ci sono stati tempi difficili qui» cominciò. «Quando all'inizio mi sono
accinto a svolgere il compito di riportare il trono imperiale qui, mi sono
posto molte domande sulla saggezza di quest'impresa. Nell'ultimo anno
temo di avere posto troppe di queste questioni a Bomeer, e di avere ascol-
tato troppo attentamente e troppo spesso le sue risposte. Ma qualsiasi fosse
il motivo di discussione continuava a ripetere, che questa non era altro
che...» Il Principe si interruppe, e guardò un attimo il padre prima di conti-
nuare «... l'impresa di un pazzo...»
L'Imperatore fece una smorfia divertita.
«Bene, c'è almeno una cosa, allora, che gli anni non cambiano.»
«Ha continuamente cercato di portarmi dalla sua parte riguardo partico-
lari questioni o procedure relative ai nostri scopi, ma Adela - il dottor
Montgarde - mi ha convinto della validità di ciascuna questione.»
L'Imperatore sollevò un sopracciglio. «Vedo.»
«L'accademico Bomeer ha fatto del suo meglio in ogni occasione per
convincere gli altri della sua posizione, proprio mentre seguiva i tuoi ordi-
ni...»
«Figliolo» lo interruppe l'Imperatore, sentendo che il suo stato d'animo
stava cambiando. Se inizialmente si era sentito disturbato, sconvolto, dalla
tragedia del giorno precedente, a quel punto si fece forza e ancora una vol-
ta parlò da Imperatore. «Ho visto i rapporti; sia quelli che mi hai fatto
premurosamente pervenire tu, che quelli del mio servizio informazioni pri-
vato. Sono consapevole dei problemi che hai dovuto fronteggiare qui, e
anche di tutti i tuoi successi. La situazione mi è abbastanza chiara, allo sta-
to attuale delle cose.» Spostò il trono nella sua postazione di lavoro accan-
to alla scrivania, poi con un ordine mentale aprì un stipo nella parete che
aveva alle spalle e girandosi prese da un ripiano interno, ben provvisto,
una bottiglia e due bicchieri. Sorrise tra sé e sé mentre ritornava alla scri-
vania, divertito all'idea di ciò che i suoi medici personali avrebbero pensa-
to se avessero scoperto il suo nascondiglio segreto, installato per ordine di
Javas, su copia esatta di quello esistente nel suo studio di Corinto. Diede
un altro ordine mentale, questa volta per sopprimere quegli specifici bio-
monitoraggi che altrimenti avrebbero trasmesso certe informazioni, infor-
mazioni relative alla quantità di alcol ingerito, a Brendan, che senza alcun
dubbio stava monitorando i suoi dati d'uscita in tempo reale.
«Per la verità» proseguì, riempiendo i due bicchieri «anche se dovessi
trovarmi fuori gioco per qualche giorno, sono sicuro che potrei fornirti in-
formazioni molto più utili di quanto immagini.» Offrì uno dei bicchieri al
Principe, poi sollevò il suo per un brindisi veloce prima di bere un lungo
sorso di liquore. «Per esempio, sei al corrente del fatto che ci sarà un tenta-
tivo di attentato la settimana prossima durante il consiglio planetario dei
Cento Mondi?» Javas guardò il padre, e rimase con il bicchiere bloccato a
qualche centimetro dalle labbra.
«Che c'è figliolo, non ti piacciono più gli alcolici?» L'Imperatore bevette
un sorso dal suo bicchiere, e poi lo appoggiò vicino allo schermo del ter-
minale, inserito sulla scrivania.
«Padre! Stai scherzando.» Javas mandò giù l'intero contenuto del bic-
chiere tutto d'un fiato.
L'Imperatore scosse la testa. «Un liquore pregiato dovrebbe essere gusta-
to, non trangugiato. No, sono perfettamente serio. Quando parleremo all'a-
dunanza dei rappresentanti dei Cento Mondi, ci sarà un altro attentato alle
nostre vite; alla tua, e alla mia. E forse anche a quella del dottor Montgar-
de.»
Javas, ricomponendosi velocemente, poggiò lentamente il bicchiere sulla
scrivania davanti a sé. L'Imperatore osservò il figlio con attenzione e sorri-
se compiaciuto, accorgendosi che la momentanea alterazione risultata dai
dati sulla salute del ragazzo era tornata presto alla normalità.
«Posso capire che tu sia diventato un bersaglio, padre» disse bruscamen-
te «e che lo sia diventato anch'io, in grado minore. Se c'è qualcosa che ho
imparato negli ultimi dieci anni qui, è che il tuo progetto non è stato affatto
bene accolto. Devono esserci molte persone che sarebbero felici di vedere
il piano stroncato insieme alla fine del tuo regno. Ma perché mai dovrebbe
essere in pericolo la vita del dottor Montgarde? Qualsiasi oppositore sicu-
ramente si rende conto che senza il pieno potere e il supporto dell'Impera-
tore al suo lavoro, il piano si invaliderebbe immediatamente.»
«Andrebbe così, allora?» Osservò il figlio con fermezza, facendo in mo-
do che il significato delle sue parole penetrasse fino in fondo. «Se dovessi
morire, tu assumeresti subito il comando. E, anche se non te ne sei reso
conto, è già ampiamente risaputo da molti dei rappresentanti dei Cento
Mondi che continueresti dal punto in cui io ho lasciato.»
Prese di nuovo la bottiglia, e riempì nuovamente i bicchieri. Bevette un
altro sorso dello scuro liquore prima di proseguire, «Inoltre, figliolo, a me-
no che io non abbia male interpretato sia le informazioni che ho ricevuto
che le mie stesse percezioni, è chiaro a molti che tu sicuramente lavoreresti
al progetto forte di una maggiore intimità con il dottor Montgarde di quella
che ho avuto io.»
Il Principe per un po' rimase seduto tranquillamente, poi si alzò e si av-
vicinò alla finestra. Sorseggiò il liquore davanti al paesaggio lunare. «Sono
stato un pazzo» disse con calma, voltandosi a guardare la figura imponente
seduta accanto all'enorme scrivania. «Ho manifestato troppo chiaramente i
miei sentimenti verso il progetto.» Si fermò, poi aggiunse: «E sì, è vero, la
mia intimità con il dottor Montgarde è cresciuta».
L'Imperatore fece un gesto con la mano per lasciar cadere la piccola con-
fessione, e indicandogli la sedia davanti alla scrivania aspettò che il Prin-
cipe si fosse seduto prima di proseguire. «Non sei stato uno sciocco. In re-
altà, il tuo aperto entusiasmo verso le teorie del dottor Montgarde proba-
bilmente ti sarà di vantaggio nel tempo. Rifletti su questo: Molti pensano
che il mio sostegno a questo piano sia solo il sogno di un vecchio malato,
aggrappato per l'ultima volta ai fili del potere prima che accada l'inevitabi-
le.» L'Imperatore fece una pausa, un sorriso impercettibile gli increspò le
labbra mentre osservava assorto il bicchiere vuoto nella mano raggrinzita.
«Be', forse c'è qualcosa di vero in tutto questo, ma comunque tu sei ama-
to e rispettato. Il lavoro che hai fatto qui ha impressionato molti dei rap-
presentanti dei Cento Mondi. La tua convinzione e il tuo entusiasmo hanno
conquistato molti più sostenitori tra di loro di quanto abbiano potuto fare le
blaterazioni deliranti di Bomeer.»
Mentre Javas rifletteva su ciò che gli era stato appena detto, l'Imperatore
inviò un altro ordine mentale, poi si appoggiò al comodo schienale del tro-
no.
Una luce verde lampeggiò diverse volte sul bracciolo destro della sedia.
L'Imperatore toccò l'interruttore della luce, che si spense, poi disse ad alta
voce: «Entra».
Il Principe Javas si girò verso il lato opposto dello studio mentre una
porta, che fino a quel momento era rimasta invisibile nell'intricata lavora-
zione in legno della parete del soggiorno, si apriva silenziosamente all'in-
terno del doppio rivestimento di pannelli circostanti.
Il nuovo arrivato era un uomo di statura e corporatura media, poco appa-
riscente, che indossava non l'uniforme della flotta o la giacca imperiale,
come ci si sarebbe aspettato da qualcuno che entrava con tanta disinvoltura
nello studio privato dell'Imperatore, ma un semplice abito civile di taglio
piuttosto comune nelle più grandi e cosmopolite città lunari. Ma un esame
più attento del suo abbigliamento rivelava che i suoi abiti non erano di fat-
tura così economica come poteva sembrare da un'occhiata superficiale; in
realtà erano stati appositamente disegnati per sembrare piuttosto ordinari,
come se chi li indossava desiderasse mescolarsi alla folla senza attrarre
l'attenzione su di sé. La porta si chiuse alle sue spalle e l'uomo, nell'avvici-
narsi all'enorme scrivania, assunse inaspettatamente un atteggiamento mol-
to più formale, fermandosi a circa un metro di distanza. Senza esitazioni,
una volta fermo, si mise sull'attenti.
«No, non sei stato uno sciocco a mostrare il tuo coinvolgimento» conti-
nuò il vecchio, rivolgendo di nuovo la sua attenzione al Principe. «Anche
se sei stato sbadato. Oh, scusa, ti presento Marcus Glenney.» L'Imperatore
si appoggiò di nuovo contro lo schienale, per guardare la reazione nel viso
del figlio. Così, quest'uomo anziano riesce ancora a stupire, eh?
Javas gli diede la mano salutandolo cordialmente, ma inclinò la testa di
lato, e socchiuse gli occhi, con la chiara espressione di chi pensa ci-siamo-
già-visti-da-qualche-parte. «Ci conosciamo?»
Glenney gli strinse la mano con forza. «No, almeno non ufficialmente.
Ma è bello finalmente incontrarla, giovane Principe.»
«Allora ci siamo incontrati... non ufficialmente?»
L'Imperatore ridacchiò sommessamente, divertito dal piccolo gioco di
parole, e fece segno ai due uomini di sedersi. Prese un bicchiere e versò da
bere per il nuovo arrivato, che lo ringraziò ma appoggiò il bicchiere sul ta-
volo senza bere.
«Marc ti è stato vicino per quasi, vediamo un po'... trent'anni di tempo
soggettivo?» Glenney annuì. «E dal mio arrivo è diventato capo dei servizi
di sicurezza imperiali qui sulla Luna. Ti è stato costantemente vicino, sen-
za che tu lo sapessi, credo, fin dal giorno del tuo matrimonio. Te lo asse-
gnai io come protettore personale lo stesso giorno...» fece una pausa, e in-
volontariamente una nota di disprezzo gli riempì la voce «... in cui lei entrò
a far parte della nostra Famiglia.»
«Così sembra che io abbia un angelo custode» replicò Javas, ignorando
l'assolo del padre su sua moglie. Un sorriso divertito per un attimo gli in-
crespò le labbra prima che abbassasse la voce, assumendo un tono frivolo.
«Mio padre non mi avrebbe rivelato la tua identità se non ci fosse stata una
ragione per farlo. Che cosa hai da riferire?»
L'Imperatore guardava e ascoltava attentamente suo figlio, compiaciuto
per il modo in cui si era adattato velocemente a quella nuova situazione, e
per come prontamente se ne fosse fatto carico. Sei maturato moltissimo,
pensò. Avrei dovuto affidarti molto prima una posizione di responsabilità.
«Giovane Principe, mi rammarico che ci siano stati non meno di tre ten-
tativi di assassinio dal vostro arrivo qui sulla Luna.»
«Tre!» disse con un'espressione di sorpresa.
«Sono al corrente del fatto che ce ne sia stato uno, undici mesi fa. La
mia personale squadra di sicurezza» Javas lanciò una rapida occhiata al
padre «mi ha informato dei suoi sospetti molto prima che la minaccia si
realizzasse. Le persone coinvolte sono state arrestate e punite.»
Glenney guardò Javas con fermezza e disse, senza attribuirsi nessun me-
rito: «Lo so. La sua squadra di sicurezza ha ricevuto un bel po' d'aiuto. Da
me. Le informazioni, naturalmente erano state inviate attraverso canali se-
greti. Non potevano sapere in nessun modo che non erano stati i loro sforzi
a disinnescare la situazione».
Glenney diede un'occhiata all'imperatore che annuì cortesemente, a quel
punto proseguì. «Il secondo è stato stroncato senza che la vostra squadra
personale di sicurezza lo sapesse. In quel caso, comunque, i responsabili
sono stati portati immediatamente a Landsdowne, dal lato opposto della
Luna, con la minaccia di non farsi mai più vedere ad Armelin City.»
«Capisco.» Javas era immobile e guardava attentamente l'agente di sicu-
rezza.
«E il terzo?»
Per la prima volta Glenney si mosse nervosamente sulla poltrona. Si vol-
tò a guardare l'Imperatore, in attesa di un segno che lo incitasse a continua-
re, quando Javas sbatté un pugno contro il tavolo.
«Non guardare mio padre perché ti dia il permesso di parlare! Ti ho fatto
una domanda!»
Glenney si drizzò di scatto, come se fosse al centro dell'attenzione in una
piazza d'armi, ma prima che potesse rispondere l'Imperatore lo fermò al-
zando la mano avvizzita.
Poi guardò Javas, provando un misto di orgoglio per l'inaspettata forza
mostrata dal figlio e di vergogna per avergli tenuto nascosto ciò che adesso
stava per dirgli.
«L'esplosione di ieri non è stata un incidente.» Si fermò un attimo per-
ché cogliesse il senso delle sue parole, e aspettò finché non vide che un
lampo di comprensione trasformò i tratti del Principe. L'Imperatore aveva
ordinato che la tragedia fosse spiegata come un incidente, che era stata la
rottura di una linea del compressore sotto le gallerie che aveva causato la
fiammata responsabile della morte di quasi 160 persone.
«Non è stato un incidente?» La rabbia filtrava dal viso di Javas che si
abbandonò nella sedia girevole. «Ma qualsiasi attentato alla tua vita pro-
veniente dalle gallerie sarebbe stato respinto dallo schermo protettivo.
Qualsiasi assalitore se ne sarebbe reso conto. Non capisco.»
Glenney cercò dentro la giacca, ed estrasse una sottile striscia di carta
rigida, poi la passò al Principe. «Sa cos'è?» domandò.
Javas l'esaminò, lesse le scritte: Galleria 29, 1 Fila, Sedia 11. La data era
quella del giorno precedente. «È ovviamente un pass per la cerimonia d'at-
terraggio. L'hai trovato su una delle vittime?» domandò guardando Glen-
ney, poi siccome l'uomo della sicurezza rimaneva zitto, si girò a guardare
il padre.
«No» rispose il padre al posto di Glenney. «Non c'era molto da racco-
gliere. Questo era il pass del dottor Montgarde. Lei era stata assegnata ini-
zialmente alla Galleria 29.» Osservò Javas con attenzione, notando che la
sua fronte era corrugata dalla preoccupazione, e che aveva le labbra serrate
in una linea sottile.
«Senza saperlo, hai salvato la sua vita, e anche quella di diversi membri
del suo gruppo di ricerca.»
«Quando l'ha invitata a sedersi nella galleria imperiale» aggiunse Glen-
ney «abbiamo pensato che non fosse più necessario concentrare i nostri
sforzi sulla Galleria 29. Fortunatamente nessun altro membro dello staff
imperiale o del gruppo del dottore era seduto lì.»
La bocca di Javas si aprì in una smorfia di incredulità di fronte a un'af-
fermazione così cinica, e all'improvviso si alzò in piedi. Per un attimo
l'Imperatore pensò che il Principe volesse colpire l'uomo, ma vide che il
figlio si voltava inaspettatamente, allontanandosi disgustato verso l'altro
lato dello studio.
«Centosessanta persone» disse sommessamente. Il Principe sospirò e
scosse la testa commosso, ma la riflessione intima durò pochi secondi pri-
ma che uno sguardo di fiera determinazione gli brillasse negli occhi. Ri-
volgendo tutta la sua attenzione all'uomo della sicurezza, disse: «Voglio i
responsabili, Glenney, chiaro?» L'Imperatore stava per parlare ma Javas lo
interruppe prima che potesse dire qualcosa. «No! Padre, è affar mio.»
Glenney si schiarì la gola. «Temo che non sarà possibile, Sire. La causa
dell'esplosione è stata una sostanza chimica, e i responsabili sono morti
con gli altri. Questa è in parte la ragione per cui, purtroppo, non siamo stati
capaci di scoprire in anticipo quest'attentato.»
«Oh, e come è potuto accadere, agente di sicurezza?» Javas non fece al-
cun tentativo di mascherare il proprio sarcasmo e gli si mise di fronte, sen-
za battere ciglio, fino a quando l'altro non proseguì.
«Dalle analisi spettrografiche di quel poco che siamo riusciti a recupera-
re, sembra che si trattasse di un tentativo individuale di attentare alla vita
del dottor Montgarde. Una persona, certamente non più di due, a giudicare
dalle apparenze, ha portato delle sostanze chimiche volatili nella galleria;
molto probabilmente ne avevano impregnato un capo d'abbigliamento. Da
sole le sostanze chimiche sono innocue, ma combinate, forse con un gesto
semplice come quello di incrociare le braccia in modo da fare toccare le
maniche l'una con l'altra, producono una reazione quasi istantanea. Dal
momento che c'era lo scudo protettivo, l'assaltatore sapeva che non gli sa-
rebbe stato possibile sedersi vicino al suo obiettivo. L'esplosione, infatti, si
è originata nell'ultima fila. Ironia della sorte, dal punto in cui si trovava,
l'assalitore probabilmente non si è reso conto che il dottore non era nella
galleria.»
Javas attraversò la stanza e si sedette. Si strofinò gli occhi stancamente
con il dorso delle mani e l'Imperatore per la prima volta si accorse di quan-
to il figlio fosse stanco. Capì che non era stato l'unico a dormire poco la
notte precedente.
Il Principe appoggiò un gomito sul bracciolo della poltrona e si sfregò il
mento rimanendo pensieroso per alcuni minuti prima di fare ruotare la se-
dia verso Glenney.
«Hai dimenticato qualcosa» disse. Parlava lentamente, scandendo le pa-
role, e attese fin che non ebbe la totale attenzione dell'altro.
Glenney si drizzò a sedere, con la testa leggermente inclinata, perplesso
e curioso per ciò che il Principe avrebbe suggerito, ma rimase silenzioso.
«L'esplosione si è verificata» continuò «diversi minuti dopo che il dottor
Montgarde si trovava in piena vista sulla piattaforma d'atterraggio. Dimmi
un po', agente di sicurezza: perché un assalitore, agendo da solo e con il
controllo delle proprie azioni, avrebbe dovuto cercare di colpire un obietti-
vo che chiaramente non era più raggiungibile?»

3: Alleanze

«Non mi piace» disse l'uomo con i capelli grigi. «Non mi piace per nien-
te. Affatto.» Si appoggiò all'indietro, sprofondando nella comoda fodera
imbottita del sofà, ma a dispetto dei suoi sforzi sembrava tutt'altro che co-
modo.
«E credi che a me piaccia?» rispose Bomeer. Passeggiava avanti e indie-
tro davanti all'enorme finestra, guardando ogni tanto nervosamente la sca-
tola appoggiata sul tavolo basso tra il sofà e le due poltrone identiche che
gli stavano di fronte. Vedendo che l'estremità superiore del piccolo cubo
era illuminata da una luce verde, rassicurato dal fatto che il blocco-audio
funzionava alla perfezione, continuò: «I nativi della Terra mi piacciono
anche meno di quanto mi fidi di loro, ma guardiamo in faccia la realtà: a-
desso che Javas intende dare il suo pieno appoggio al folle progetto del
vecchio, e addirittura portarlo avanti lui stesso quando diventerà imperato-
re, non possiamo permetterci di andare troppo per il sottile sugli aiuti da
accettare». Si spostava di continuo, lanciando ogni tanto qualche occhiata
al terminale di comunicazione per controllare l'ora.
«Accademico! Mi fai il favore di sederti?»
Bomeer si blocco a metà di un passo e guardò il suo compagno. Con uno
sguardo confuso si diresse verso una delle poltrone che erano di fronte al
sofà e ci si lasciò cadere pesantemente.
«Hai ragione, Wynne» disse guardando di nuovo l'ora. «Ti faccio le mie
scuse.» Bomeer prese un bicchiere dallo stesso ripiano in cui aveva pog-
giato il cubo, ma un debole squillo alla porta lo fermò. Si rivolse concisa-
mente al sistema di comunicazione. «Identificazione.» Lo schermo si acce-
se immediatamente, e una videocamera esterna mostrò un uomo alto e ma-
gro davanti all'entrata dell'appartamento.
«È lui?» Domandò Wynne, piegandosi in avanti per osservare lo scher-
mo più da vicino.
«Sì.» Tutti e due gli uomini si alzarono, e Bomeer si diresse frettolosa-
mente verso l'entrata.
«C'è una cosa da dire dei terrestri: sono puntuali.» Disse sottovoce al-
l'accademico, poi, a voce alta aggiunse: «Ammesso».
Non appena la porta si aprì, Bomeer si rese conto che il terrestre era alto;
in modo sorprendente. La videocamera esterna di sicurezza non aveva dato
un'impressione realistica della vera statura dell'uomo né un'idea chiara del-
la complessità dei suoi tratti somatici. Nonostante fossero nascosti da una
folta barba, i suoi tratti sembravano per lo più nordamericani o europei; ma
Bomeer intuì una traccia di appartenenza al ceppo asiatico in qualche pun-
to dell'albero genealogico dell'uomo. Indossava un abito pulito ma infor-
male, dominato dalle tonalità del marrone che si intonavano con il colore
dei capelli e della barba. Bomeer notò che la giacca era di pelle finemente
pettinata. Senza aspettare di essere invitato a entrare, piombò nella stanza
con decisione non appena la porta si fu completamente spalancata.
«A nome dei colleghi dell'Accademia» disse Bomeer rivolto alle spalle
dell'uomo «sono onorato che abbia accettato di...»
L'uomo si girò di scatto, zittendo subito l'accademico con la ferocia dei
suoi occhi scuri. Poi si voltò di nuovo e si spostò bruscamente verso il di-
vano che era al centro della stanza. Ignorando del tutto Wynne, esaminò
frettolosamente la zona circostante e tirò fuori dalla tasca della giacca un
piccolo cilindro, che a Bomeer sembrò simile a una penna o a uno stilo, ne
fece ruotare la punta in senso orario, e poi lo bloccò nel piccolo risvolto
della giacca. La punta dell'oggetto si mise a lampeggiare debolmente e uni-
formemente. Si girò a guardare Bomeer, e la pelle della giacca scricchiolò
leggermente mentre con disinvoltura intrecciava le mani dietro la schiena e
concedeva un sorriso educato.
«Bene, allora. Cosa stavi dicendo?»
Aveva una voce profonda e vibrante apparentemente calma, che stonava
con l'immagine rude che dava di sé.
Bomeer increspò le labbra e si sforzò di contenere l'irritazione che pro-
vava per il visitatore, ma alla fine lasciò perdere, pensando che le sue ma-
niere forse erano normali per un terrestre. Intrecciando anche lui le mani
dietro la schiena si diresse nella zona occupata dal divano e si mise di fron-
te al nuovo arrivato. I due uomini si guardarono in faccia per qualche se-
condo, senza fare il benché minimo tentativo di stringersi la mano. Il collo
di Bomeer cominciò a irrigidirsi quando si trovò di fronte alla statura gi-
gantesca dell'uomo, e subito si pentì di avere cercato di imitarne i gesti.
«Il suo bloccaggio non era necessario» disse finalmente Bomeer, indi-
cando l'oggetto che lampeggiava dalla giacca del terrestre. «Abbiamo già
preso tutte le precauzioni opportune.»
«Davvero?» La mano dell'uomo in un lampo si infilò nel soprabito, e
prima che i due accademici potessero rendersi conto di quello che stava
succedendo, avvicinò alla faccia di Bomeer un minuscolo laser. «Certo
non mi riuscirebbe facile ucciderti con quest'aggeggio, Bomeer, ma di si-
curo potrei accecarti in due secondi» disse, facendo scattare l'arma avanti e
indietro diverse volte a qualche centimetro dagli occhi di Bomeer per ri-
marcare la sua osservazione. Un sorriso sgradevole gli increspò le labbra
quando aggiunse: «Naturalmente, con uno dei miei piedi piantato salda-
mente sul tuo petto, e quindici o venti secondi di lavoro, riuscirei senz'altro
ad aprirti la gola». Abbassò la mano all'altezza del collo di Bomeer sussur-
rando, mentre gli passava vicino: «Zip. Zip. Zip».
Bomeer era paralizzato, e sentiva goccioline umide scivolargli sul collo
e lungo la schiena; le ascelle gli bruciavano, ma nello stesso tempo lo colse
un assurdo accesso di sudore freddo. Mosse le labbra diverse volte per par-
lare, ma non riuscì a emettere alcun suono. Guardò in cerca d'aiuto Wynne,
che era ancora in piedi davanti al sofà, ma si rese conto che il vecchio ac-
cademico era ancora più terrorizzato di lui per quanto stava succedendo.
La cosa continuò ancora per qualche lungo minuto d'agonia, prima che
l'uomo con la barba scoppiasse a ridere fragorosamente e si allontanasse,
riponendo immediatamente il laser nel soprabito, e poi andasse a sedersi
con disinvoltura su una delle poltrone di fronte al sofà.
«Non credi che sia il caso di rivedere quello che chiami "precauzioni",
Bomeer?»
Bomeer si sistemò la tunica, cercando nervosamente di recuperare la pa-
dronanza di sé, poi andò a sedersi su un lato del sofà. Guardò Wynne, che
era ancora senza parole, e provò a liberarsi della propria agitazione con-
centrandosi sullo spavento dell'altro. Si schiarì la gola una volta, e un'altra
ancora.
«Wynne, per favore siediti» disse utilizzando tutta la forza di volontà
che aveva in modo che le sue parole suonassero calme e controllate.
Osservò attentamente il suo ospite mentre Wynne si sedeva, cercando di
farsi un'idea di quello straniero terrestre, e contemporaneamente di sfrutta-
re al massimo ogni attimo di silenzio in più per tranquillizzarsi.
«Come stavo dicendo» iniziò, avendo ripreso in gran parte il controllo di
sé «mi fa piacere che lei abbia chiesto di incontrarci questo pomeriggio.
Lui è Plantir Wynne, condirettore dell'Accademia Imperiale della Scien-
za.» Fece un cenno in direzione di Wynne, che sembrava ancora più a di-
sagio di quanto non fosse già stato prima dell'arrivo del terrestre. Wynne
gli tese una mano tremante.
L'uomo con la barba guardò Wynne con disprezzo, e anche Bomeer fu
costretto ad ammettere, anche se solo tra sé e sé, che l'uomo aveva un a-
spetto davvero disgustoso. «La prego, mi chiami Johnson durante questa e
qualsiasi altra transazione che avremo» disse, decidendosi finalmente a
stringergli la mano.
«Sarò franco» continuò Bomeer, ansioso di cominciare te discussione e
di finirla il più presto possibile «sono rimasto un po' sorpreso nel ricevere
il suo messaggio. Non mi è chiaro ciò di cui dovremmo discutere.»
Johnson era di fronte a lui, con un mezzo sorriso che si intravedeva sotto
la barba. «È molto semplice. Lei vuole fermare il piano per la salvezza del
Sole. Tutta l'"Accademia della Scienza", come lei la chiama, ha fatto del
suo meglio per opporsi al progetto fin dall'inizio, ma voi due siete quelli
che hanno espresso più apertamente il proprio disaccordo, giusto?»
E cos'altro sai? Si domandò Bomeer. «Sono stato fedele all'Imperatore
per tutta la vita» disse «ma non ho nascosto la mia sensazione che questo
progetto indebolirebbe seriamente l'Impero, e che potenzialmente lo man-
derebbe in rovina. Ho convinto alcuni amici della corte imperiale a stare
dalla mia parte, ma nascondere i miei sentimenti sarebbe un danno.»
«Capisco» disse Johnson annuendo pensieroso, poi si girò verso Wynne
e gli chiese in modo pungente: «E lei? Condivide ogni pensiero del suo
collega, o ha qualcosa di personale da dire?»
Wynne sembrava aver ripreso un po' di autocontrollo. Si voltò verso il
terrestre lanciandogli un'occhiata accigliata. «L'Imperatore è stato un buon
capo per molti anni» disse senza esitazione, sorprendendo Bomeer per l'i-
naspettata sicurezza della voce. «Ma questo piano distruggerà la struttura
portante dell'Impero.»
«Capisco» disse nuovamente Johnson. Poi si alzò dalla poltrona, si di-
resse verso la finestra e rimase per un momento a osservare con serietà il
paesaggio lunare prima di girarsi di nuovo a guardare in faccia gli altri
due. «Io e quelli che rappresento non potremmo preoccuparci di meno per
la cosiddetta "struttura dell'Impero".» Per la prima volta da quando era en-
trato nella stanza, il terrestre lasciò che un'emozione genuina si mostrasse
nella sua voce, anche se Bomeer non sarebbe stato in grado di dire se la
cosa era accaduta intenzionalmente oppure no.
«Noi ce ne freghiamo del vostro Impero» continuò con la voce piena di
disprezzo. «I vostri obiettivi non sono i nostri. I vostri valori, le vostre
formule governative, il vostro modo di vivere ispira orrore a quelli che tra
di noi cercano di liberarsi dalla vostra influenza.»
«Ma avete accettato ben volentieri i benefici che derivano dall'essere
membri dei Cento Mondi, o no?» obiettò Bomeer, sentendo che la rabbia
cominciava a montargli dentro. «C'è un pizzico di ipocrisia in voi puri e
limpidi terrestri, eh?»
«Sì, è stato un compromesso che ci ha dato dei benefici!» Johnson ebbe
un'esitazione, poi ritornò alla sua poltrona e si sedette con le gambe incro-
ciate, recuperando l'atteggiamento disinvolto che aveva mostrato prima.
Quando ricominciò a parlare ogni traccia di emozione era scomparsa dalla
sua voce.
«Non siamo dei poveri deficienti primitivi, come sembra si creda larga-
mente nei Mondi. A noi piace la nostra vita così com'è, e accettiamo dal-
l'Impero i benefici che riteniamo opportuni. L'accordo con l'Impero in tutti
questi secoli è stato considerato necessario per mantenere il nostro stile di
vita.»
«Il sistema solare è un sistema armonioso. Quei terrestri che non voglio-
no essere parte del sistema di vita dell'Impero dei Mondi sono liberi di de-
cidere altrimenti, e molti di risistemarsi qui sulla Luna, o nelle Orbite. Al-
cuni si sono riuniti con il progetto di reclamare per sé Venere o si sono
stabiliti sulle lune dei giganti gassosi; altri ancora hanno accettato il siste-
ma di vita imperiale, o hanno scelto una vita dura su uno dei Mondi di
Frontiera. Lo fanno con la nostra benedizione, lasciando i nostri valori, e i
loro, assolutamente intatti. È così difficile da capire per te?» Bomeer guar-
dò prima Johnson poi Wynne con fermezza. «Quello che mi sembra di ca-
pire» disse alzandosi dal sofà «è che a giudicare dalle apparenze non c'è
nessuna ragione per proseguire la discussione.» Stava per prendere il cubo
dal tavolo quando Johnson gli afferrò il polso con la mano. Aveva una
stretta incredibilmente forte. Bomeer fissò la mano del terrestre, invidioso
della forza nascosta in dita apparentemente tanto delicate, e notò un brac-
cialetto d'oro che gli circondava il polso. Eccetto che per l'incisione di un
uccello avvolto dalle fiamme sulla superficie liscia e scintillante del metal-
lo, il braccialetto era semplice e disadorno. Bomeer alzò gli occhi e si ri-
trovò a guardare dritto in faccia Johnson. A quella distanza, notò che l'uo-
mo aveva addosso un profumo di muschio gradevolmente mescolato all'o-
dore della sua giacca di pelle. Inoltre, vide qualcosa nello sguardo di Jo-
hnson, mentre si piegava verso di lui, che mise Bomeer nella disposizione
di ascoltare qualcosa che gli diceva di fidarsi di quell'uomo.
«Cerchiamo di capirci, allora: tu e io siamo persone diverse, e abbiamo
filosofie diverse.» Disse ai due accademici lasciando andare il braccio di
Bomeer e tornando a sedere rigidamente. «Ma in questo momento condi-
vidiamo lo stesso obiettivo. Voi volete fermare il progetto. E anche noi.
Sono solo le motivazioni a essere diverse.»
Bomeer si massaggiò il polso indolenzito. Ma quali sono esattamente le
vostre motivazioni? si domandò.

Rihana era seduta al tavolo della toilette della sua camera privata, a os-
servare la propria immagine riflessa nello specchio mentre si spazzolava
lentamente i lunghi capelli ramati. Non le dispiaceva affatto quello che ve-
deva. Prima di lasciare Corinto aveva dato per scontato il fatto di doversi
sottoporre al ringiovanimento una volta arrivata nel sistema solare, invece
un sorriso le increspò le labbra nel verificare quanto poco aveva influito il
lungo viaggio sul suo aspetto.
Ci fu un tocco leggero ed educato alla porta. «Padrona Valtane?»
Lei si fermò, a metà di un colpo di spazzola, ma finì di pettinarsi e ripo-
se la spazzola sul tavolo prima di rispondere.
«Sì, cosa c'è Linn?» Non fece nemmeno lo sforzo di girarsi per guardare
in faccia la sua cameriera quando entrò, invece concentrandosi invece sulla
sua immagine riflessa nello specchio per cercare di decidere quale gioiello
avrebbe esaltato meglio l'abbigliamento scelto per l'incontro.
«Il segretario dell'ambasciatore è qui, padrona. Sta aspettando nella sala
di ricevimento.»
A quelle parole Rihana si girò. «Il segretario? Non l'ambasciatore in per-
sona?» Dal momento che era stato l'ambasciatore a chiedere quell'incontro,
rimase sorpresa dalla notizia. «Molto bene» disse. «Arrivo immediatamen-
te.»
La cameriera annuì, e lasciò subito la stanza. Rihana si spostò davanti a
uno specchio a figura intera, che si trovava vicino a uno dei tanti armadi
della stanza. Aveva scelto il suo abbigliamento pensando in modo specifi-
co all'ambasciatore, facendo bene attenzione a scegliere gradazioni di colo-
ri visibili all'alieno. Si svestì in fretta, lanciando con noncuranza la costosa
tunica su una sedia, e scelse un completo con pantaloni di raso luccicante.
Anche se si trattava di un abito un po' meno costoso di quello che adesso
giaceva abbandonato sulla sedia, era molto più comodo.
Lui era già in piedi quando la donna entrò, e stava guardando pigramen-
te il via vai della piccola struttura d'atterraggio vicina alla sala di ricevi-
mento. Lei intravide oltre le sue spalle lo shuttle di Sarpan parcheggiato, di
cui si stavano occupando i membri della sua squadra. L'uomo indossava
una ampia camicia bianca con il colletto slacciato, le maniche corte, e dei
pantaloni in tinta di stoffa leggera, e sembrava più un uomo in vacanza che
l'emissario ufficiale di una razza aliena. Rihana riconobbe in lui lo stesso
uomo che l'aveva contattata, per accordarsi sull'incontro, il giorno prece-
dente.
«Padrona Valtane» disse con un educato cenno del capo che era quasi un
inchino formale. «A nome dell'ambasciatore Press, la ringrazio di avermi
ricevuto.»
«La prego, si metta comodo» disse lei guidandolo verso un divano circo-
lare situato in un angolo della stanza e prima di continuare aspettò che si
fosse seduto, e che avesse appoggiato in grembo una piccola cartella. «De-
vo ammettere signor... Carrigan, no?... che sono un po' sorpresa. Quando
ieri ci siamo parlati, avevo avuto l'impressione che l'ambasciatore in per-
sona desiderasse parlarmi.»
Carrigan si schiarì la voce, ma se era nervoso o insicuro non lo diede a
vedere. «Mi dispiace che ci sia stato un malinteso, Padrona Valtane, ma
l'ambasciatore non incontra mai nessuno di persona, nemmeno i membri
della sua stessa razza, durante ciò che chiamano "Primo contatto". È con-
suetudine dei membri importanti del regno di Sarpan che l'incontro ini-
zialmente avvenga tramite un intermediario, anche quando ci si incontra
nella stessa stanza, e hanno esteso questa consuetudine anche ai membri
dei Cento Mondi. Mi scuso, ma credevo che lei ne fosse al corrente.»
«Primo contatto» ripeté lei quasi a se stessa, e poi gli tese la mano.
«Molto bene, allora.»
Lui prese la mano che lei gli offriva. «L'ambasciatore Press porge i suoi
saluti e i suoi migliori auguri alla Casa dei Valtane.»
Lei fece un cenno di ringraziamento e Carrigan cominciò a sciogliere la
stretta, ma Rihana trattenne la mano ancora un po' prima di lasciarla anda-
re, per studiare le sue reazioni. E anche in quel caso lui sembrò assoluta-
mente padrone dei propri gesti.
«Allora» domandò lei abbandonandosi sulla poltrona «potrei sapere qual
è lo scopo di questo incontro?»
«Dal momento che è ampiamente risaputo che la Casa dei Valtane non è
più unita a quella dell'Imperatore, l'ambasciatore è curioso di sapere a cosa
si deve la vostra presenza sulla Luna» rispose lui senza alcuna esitazione.
«Può porle qualche domanda sui suoi scopi?»
Rihana sorrise tra sé e sé. Così arrivi subito al punto, eh? pensò. Perché
no? «Sì, può.»
«Benissimo. Prima di incontrarlo mi permetta di illustrarle alcuni punti
del protocollo.»
Rihana fu colta di sorpresa. «Lui è qui?»
«Sì: è sullo shuttle con cui sono arrivato. Credevo di essermi spiegato.»

***

Rihana fu grata della veloce lezione di protocollo che le fece Carrigan


mentre aspettava che l'ambasciatore entrasse nella piccola sala di ricevi-
mento dello shuttle. La stanza era divisa in due da una larga parete di ple-
xiglas, e le due parti, per quello che le era possibile vedere attraverso la fit-
ta nebbia tipica dell'atmosfera di Sarpan, erano speculari: in entrambe le
sezioni c'erano tre poltrone di fronte alla parete trasparente. Ma scrutando
più da vicino si potevano notare alcune differenze. Mentre le poltrone che
si trovavano dal lato dell'alieno avevano un'imbottitura di plastica idrore-
pellente, quella in cui stava seduta lei era ricoperta di stoffa. Dall'altro lato
l'umidità gocciolava giù dalle pareti, e la parete di tanto in tanto si appan-
nava leggermente. La superficie divisoria irradiava calore rendendo il suo
lato della stanza sgradevolmente caldo. Improvvisamente le fu chiaro per-
ché Carrigan aveva scelto quel tipo di abbigliamento.
«Ambasciatore Press» disse quando lui entrò nella stanza, ricordandosi
di guardarlo dritto in faccia «È con grande onore che le do il benvenuto
nella mia Casa.» Fece un cenno con la mano per indicare non tanto lo shut-
tle quanto la baia d'atterraggio che lo stava ospitando. Carrigan, che le era
seduto vicino, le fece un segno e lei si alzò e si avvicinò alla parete diviso-
ria, poi appoggiò il palmo della mano sulla superficie calda e umida.
L'ambasciatore di Sarpan era un po' più basso di lei, e gli fu necessario sol-
levarsi un po', per mettere la sua mano palmata a quattro dita di fronte a
quella di lei. Annuì diverse volte, facendo gonfiare a ogni movimento la
pappagorgia che gli circondava il collo. Una volta che il "contatto" fu
completato, andò a sedersi nella sedia posta al centro della stanza.
L'ambasciatore indossava una gonna corta arancione acceso, una sciarpa
dello stesso colore poggiata su una spalla, calzari di cuoio leggero e poco
altro. Rihana notò che le pieghe della sua pappagorgia erano forate, e che
vi erano appesi dei piccoli pendagli d'argento che, non appena cominciò a
parlare, mandarono bagliori luminosi sulla sua pelle grigio-marrone.
«Padrona Valtane» disse lui con voce insolitamente melodiosa attraverso
l'interfaccia comunicativo. «L'onore è mio.» Poi si voltò a guardare il suo
messaggero. «Signor Carrigan?»
«Ambasciatore, ho già informato la Padrona Valtane del vostro interesse
nei confronti della sua Casa, e lei si è trovata d'accordo nel discutere con
franchezza la situazione.»
«Bene.» Tornò a guardare Rihana, asportando l'eccesso di umidità con
membrane nittitanti trasparenti. Le gocce che gli scivolavano lungo il viso
davano l'impressione che stesse piangendo.
«Perché è venuta nel sistema solare? Ci risulta che lei non gode più dei
favori della casa dell'Imperatore dei Cento Mondi. Allora. Come mai è
qui?»
«Ambasciatore, la mia espulsione dalla Casa di mio marito è senza pre-
cedenti. Sono venuta per reclamare alcuni diritti in quanto moglie del fi-
glio dell'Imperatore.»
«Ma lei non è più sua moglie. Non ha più alcun diritto.»
Se fosse stato un altro essere umano a parlarle in quel modo, Rihana si
sarebbe sentita oltraggiata da tanta sfrontatezza. Ma rendendosi conto che
lui stava parlando con candore, represse la rabbia e rimase a guardare con
calma l'ambasciatore. «Lei ha ragione a dire che non sono più la moglie
del Principe, ma questo non cambia il fatto che sono comunque la madre di
suo figlio.»
Press socchiuse le membrane degli occhi e intrecciò e slacciò le dita di-
verse volte mentre rifletteva su quel sorprendente surplus di informazione.
«Ora capisco. Un'altra domanda, allora: la sua...» Press esitò, cercando di
ricordare la parola che aveva usato lei "spulsione" dalla casa di suo marito
ha avuto in qualche modo a che fare con il tentativo di bloccare la rinascita
del Sole?»
«Sì, Mi sono opposta all'idea che appoggiasse il progetto dell'Imperato-
re. Ma sono confusa, ambasciatore. Le ragioni per cui sono qui hanno a
che vedere esclusivamente con i miei diritti, e non c'entrano affatto con il
progetto...»
«Un momento, un momento» la interruppe Press «un momento. Cer-
chiamo di capirci. Credo che, probabilmente, vista la sua estraneità con la
Casa dell'Imperatore, lei potrebbe essere meno riluttante a fornirmi delle
informazioni sul progetto. È così?»
«È così». Infatti. Si tratta di questo, allora, pensò, e aspettò che lui con-
tinuasse.
«Rifletta su questo, la prego, noi assistiamo a una massiccia costruzione
di navi spaziali da parte della vostra gente. Vediamo la vostra corte spo-
starsi velocemente dalla sfera di influenza di Sarpan. Vediamo che il vo-
stro popolo viaggia dai Cento Mondi per venire qui. Così, rifletta: che cosa
dobbiamo pensare?»
Rihana meditò. Il popolo di Sarpan era, molto semplicemente, preoccu-
pato dalla massiccia costruzione di attrezzature e navi spaziali da parte del-
l'Impero. E perché mai non avrebbe dovuto? I rapporti tra l'Impero e Sar-
pan al meglio erano stati tenui, e al peggio, occasionalmente, mortali. Co-
me facevano a sapere che i Cento Mondi non avevano deciso che era ora di
cambiare la relazione a proprio favore una volta per tutte?
«Per quello che ne so, ambasciatore, gli scopi accampati dall'Imperatore
sono veri e non esistono motivi nascosti.»
«Ma bloccare la rinascita di una stella! Non è una pazzia?»
Rihana fece un cenno di approvazione. «Lo so» ammise «sembra folle,
proprio come ho detto al mio ex marito.» Improvvisamente le venne un'i-
dea. «Ambasciatore, nonostante il trattamento che la mia Casa ha ricevuto
da parte del mio ex marito, io non sono certo priva di influenza. Non avrei
grosse difficoltà a ricevere una conferma o un smentita sulla verità di tutto
ciò.»
«Sì? E in cambio di questa verità?»
È acuto, pensò Rihana, mentre un sorriso le increspava le labbra.
«E se eventualmente» cominciò «la Casa dei Valtane sarà in grado di
confermare che la natura del progetto dell'Imperatore è solo scientifica,
che questo piano di "bloccare la rinascita", come lei lo definisce, è esatta-
mente quello che sembra?»
Un ghigno umano di fastidio apparve sul viso dell'ambasciatore. «Signor
Carrigan, ci lasci soli.» Il messaggero dell'ambasciatore si alzò, fece un
educato cenno di saluto a Rihana e uscì dalla stanza.
«Quello che diremo adesso deve rimanere tra noi. Se la Casa dei Valtane
potrà confermarlo, allora mi sentirò molto in debito con la Casa dei Valta-
ne.»
«Forse. Ma è necessario che non si tratti di un accordo estemporaneo»
puntualizzò lei. «Pensi al futuro, ambasciatore: scambi, informazioni, ma-
teriali; sia la mia Casa che la sua potrebbero trarre molto profitto da questo
tipo di cooperazione.»
Rihana si fermò un attimo mentre lui rifletteva, poi inclinò la testa e sor-
ridendo ironicamente disse: «Pensi anche a quando un Impero umano sarà
retto da un figlio della mia Casa».

4: Decisione

Mi ero sbagliato, pensò l'Imperatore guardando Adela de Montgarde che


si avvicinava. Non è invecchiata; è maturata. In realtà, agli angoli degli
occhi adesso c'erano delle rughe che non esistevano quando aveva lasciato
Corinto per la Luna della Terra. Anche la sua figura era più piena, meno
adolescenziale di come la ricordava. Se i compiti che aveva affrontato in
quella difficile impresa l'avevano leggermente invecchiata, contemporane-
amente l'avevano resa più forte, e le avevano dato una fermezza che salta-
va facilmente agli occhi dopo una separazione così lunga. Eppure, nono-
stante la scoperta di questa nuova maturità, si sentì confortato dal modo in-
fantile con cui la vide gioire davanti a ciascuna delle cose meravigliose del
giardino privato della famiglia reale.
La scienziata camminava frettolosamente attraverso il giardino, dirigen-
dosi verso di lui. Pur essendo più piccolo dell'area verde della casa impe-
riale, che, a sua volta, era solo un po' meno grandiosa di tutto il verde della
stessa Armelin City, il giardino splendeva di piante e fiori di centinaia di
colori, che provenivano da dozzine di mondi diversi.
C'era uno slancio, nel suo passo, di cui non era responsabile la gravità
lunare. È ansiosa, eccitata, concluse lui. Ho il diritto di rendere più diffici-
le il suo sogno? Rallentò il passo avvicinandosi, ma prima che potesse sa-
lutarlo formalmente lui le sorrise e le fece cenno di raggiungerlo.
«Non c'è nessun bisogno di attenersi al protocollo, qui» disse «non c'è
tempo per il lusso. Per favore, fa' quattro passi con me.» L'Imperatore fece
ruotare lentamente il trono, spostandolo silenziosamente verso uno dei via-
li lastricati che attraversavano il giardino.
Mentre camminavano, lei gli parlò del progetto e dei molti successi già
raggiunti nella ricerca. Ascoltando solo per metà, l'Imperatore la osservava
mentre proseguivano lungo il sentiero. I suoi dati medici erano solidi, veri-
ficò; tanto quanto la sua determinazione.
«Desideravo vederti prima del Consiglio Planetario di domani» le disse.
«Sono successe molte cose dal mio arrivo, e c'è stato poco tempo per
parlare. Sei pronta per la presentazione?»
Lei fece un breve sorriso. «Sire, ormai sono anni che faccio le prove di
questa presentazione, in un modo o nell'altro. Non c'è mai stato niente in
tutta la mia vita per cui mi sia sentita così preparata.»
«Sì, credo che sia così. Vieni, da questa parte.» Il sentiero si allargava,
attraversando alcune aiuole fiorite prima di terminare in un'area circolare
vuota, dove convergevano molti dei sentieri del giardino. All'interno dell'a-
rea c'erano diversi sedili di pietra, circondati da una corona di alti arbusti.
L'Imperatore guidò il trono verso il sedile più vicino e fece segno ad Adela
di sedersi. Poi si guardò intorno, contemplando la bellezza del giardino che
lo circondava, e inspirò una boccata d'aria profumata. Adela si sedette e
aspettò in silenzio che lui continuasse. Sembrava che lei avesse percepito
un cambiamento nel suo comportamento, e l'Imperatore si rese conto di
avere momentaneamente abbassato la guardia. Sta diventando più difficile
nascondere le mie emozioni, pensò con amarezza. Sta diventando più diffi-
cile mentire.
«Adela, ho bisogno di parlarti di due faccende molto serie.»
«Sì, Sire?» Aveva un tono di voce preoccupato, nervoso; giocherellava
con le mani appoggiate in grembo. L'Imperatore non aveva bisogno dell'in-
tegratore per sapere che il cuore le batteva più forte.
Crede che le voglia togliere la direzione del progetto! «Prima di tutto,
sappi che il progetto ha tutto il mio appoggio.» Lei si rilassò, ma solo un
pochino. «Mi rendo conto che questi lunghi anni in cui ti sei impegnata a
costruirne le basi sono stati difficili. Ma ricordati che questo è solo l'ini-
zio.»
Smise di sorridere e lo guardò dritto in faccia. «Lo so» disse. C'era qual-
cosa nella sua voce che l'Imperatore impiegò qualche minuto a identifica-
re.
La guardò in modo diverso e proseguì: «Ti sto parlando con condiscen-
denza, eh? Come fanno i vecchi con i bambini».
Adela abbassò gli occhi, e rimase in silenzio, confermando così l'osser-
vazione.
Lui fece un cenno di scusa. «Perdona questo vecchio, che a quanto pare
ha assunto le abitudini dei vecchi.» Lei alzò gli occhi per guardarlo, e lui si
sentì sollevato nel vedere che vi era tornata la luce.
«Allora ti parlerò francamente, da pari a pari: Adela io sto morendo.»
Lei cercò di protestare, ma lui continuò prima che potesse dire qualsiasi
cosa. «A un certo punto ho temuto di non riuscire a sopravvivere al viag-
gio per arrivare qui. Mi dispiace di essere stato costretto a prendere misure
drastiche per essere certo di raggiungere la Luna in salute.»
«Misure drastiche? Credo di non riuscire a...»
«Drastiche è un eufemismo; avrei dovuto dire "illegali". Durante il viag-
gio il mio staff medico ha dovuto tenermi in isolamento per settimane, per
vari problemi di salute. Sotto mio ordine, è stato riferito alla corte imperia-
le che "venivo preparato", in senso medico, per sostenere il passaggio dal-
l'ambiente aperto e dalle condizioni atmosferiche di Corinto all'ambiente
chiuso della Luna.» Fece un gesto con la mano fragile per indicare l'enor-
me cupola che s'innalzava sopra le loro teste. «Soltanto il mio aiutante me-
dico personale e qualcuno dello staff imperiale sono al corrente del fatto
che ho trascorso un totale di quattro anni e mezzo di sonno criogeno. Fece
una pausa per farle cogliere il senso delle sue parole. «Nemmeno Javas lo
sa.»
Adela si alzò e silenziosamente passeggiò fino a un cespuglio fiorito che
stava a qualche metro di distanza. Colse distrattamente uno dei fiori rosso
fuoco e si voltò verso l'Imperatore, evitandone lo sguardo. «Io odio la leg-
ge» disse tranquillamente. «Mi sembra un'inutile superstizione impedire
all'Imperatore di utilizzare le moderne tecniche biomediche.»
«Credi?» la contraddisse lui. «Pensa un po' agli anni di difficoltà che hai
affrontato quando hai dovuto far ascoltare i risultati delle tue ricerche alla
massa di inflessibili vecchi in cima alle gerarchie mediche. Supponi che
sul trono ci fosse come imperatore un vecchio inflessibile. Un uomo che
non dovesse vivere solo centosessant'anni, ma secoli. No. È una tradizione
saggia invece, una di quelle che non avrei voluto violare» si fermò un at-
timo, sospirando rassegnato. «Ma è stato assolutamente necessario.»
Adela ritornò a sedersi sul sedile di pietra. «Perché mi sta dicendo que-
ste cose?» domandò, appoggiando il fiore accanto a sé.
Lui le si avvicinò, e le prese una mano tra le sue. «Sapevo che non avrei
raggiunto vivo il sistema solare. Ma sapevo anche che senza la mia pre-
senza Javas avrebbe avuto molte più difficoltà a fare accettare il suo soste-
gno al progetto, soprattutto a causa di quelli come Bomeer e i suoi seguaci,
che non perdono occasione per contrastarlo.»
Sospirò e si lasciò ricadere pesantemente contro lo schienale del trono.
«Ti ho detto adesso tutto questo perché voglio che ti renda conto di una
cosa: voglio che tu sappia che sono convinto della opportunità e del valore
del tuo sogno e che sono pronto a fare tutto ciò che è necessario per con-
tribuirvi.» Si fermò, poi aggiunse: «Guardami». Adela sollevò il viso e
guardò l'Imperatore ancora una volta.
«Quando la tua causa è giusta, devi fare tutto ciò che è necessario perché
abbia successo. E non sempre è piacevole, perché a volte può procurare
dolore sia a te che a quelli che ti sono vicini; tuttavia, Adela, per il tuo be-
ne devi adottare questo atteggiamento, altrimenti fallirai.»
«Lo so» disse lei con un filo di voce.
«Accadranno molte cose al Consiglio Planetario e nei giorni che segui-
ranno. Ti offrirò tutto l'aiuto che posso per il tempo che mi rimane, ma
cerca di capire: qualsiasi cosa succederà, rimani saldamente ancorata a ciò
che consideri giusto.»
L'Imperatore raccolse il fiore e se lo avvicinò al naso, inalandone la dol-
ce fragranza.
«È il fiore del fuoco» spiegò «proviene dal mio pianeta d'origine. Sono
stati adattati alle condizioni lunari e piantati su richiesta del Principe Javas.
Lui... sapeva quanto sentissi la mancanza di casa mia.»
Lo hai conquistato, non è così? Quasi nello stesso modo in cui hai con-
quistato me. Pensò tra sé e sé, divertito, poi le porse il fiore. Lei lo odorò e
poi delicatamente si accarezzò la guancia con i petali.
«C'è... c'è ancora una cosa» aggiunse, sorpreso dalla propria esitazione.
«Sì?» Un improvviso lampo di paura le attraversò lo sguardo all'idea di
ciò che poteva dirle. Poggiò le mani sulle gambe e comincio a rigirare tra
le dita lo stelo del fiore.
«L'esplosione che c'è stata nella baia d'atterraggio non è stata incidenta-
le» disse lui brutalmente, senza fare alcun tentativo di rendere le parole
meno crude. «Si è trattato di un tentativo d'assassinio... diretto contro di
te.»
Le tremarono le labbra, e un'unica lacrima le scivolò lungo la stessa
guancia che, qualche momento prima, era stata accarezzata dal fiore che
adesso giaceva dimenticato ai suoi piedi.
«In qualche modo, inconsciamente... credo che già lo sapessi.» Il respiro
improvvisamente le si fece strozzato, e si prese il viso tra le mani.

Gesù, pensò Adela mentre si avvicinava al suo ufficio, che altro c'è, an-
cora? Mancavano meno di due ore all'inizio del Consiglio Planetario dei
Cento Mondi, e l'ultima cosa di cui aveva bisogno era un visitatore. Si era
seduto ad aspettare su una delle poltrone vicine al banco di ricezione e alla
base dei terminali fuori dal suo ufficio. Il suo segretario la raggiunse non
appena la vide arrivare. «Mi dispiace, dottore» balbettò «ma hanno insisti-
to che volevano aspettare...»
Adela lo liquidò con un sorriso di comprensione e scosse la testa. «Non
preoccuparti, Stase» disse. «Perché non ti prendi una pausa.» Lui annuì
con entusiasmo, e non perse tempo dileguandosi in direzione della Hall.
Adela si girò verso il visitatore. «Sì? Posso esserle utile?»
L'uomo si alzò dalla poltrona, tenendo le mani intrecciate con noncuran-
za davanti a sé. Nonostante indossasse un elegante abito da uomo d'affari,
qualcosa nei suoi modi rendeva ovvio il fatto che era al servizio di qualcu-
no. «Mi chiamo Poser, e sono un servitore di Casa Valtane. La Padrona
Rihana Valtane desidera parlarle.»
«Temo che questo non sia il momento opportuno...»
«Desidera parlarle in privato» continuò come se lei non avesse detto nul-
la, sfoderando uno dei suoi migliori sorrisi di plastica. «Mi sono preso la
libertà di organizzare il colloquio nel suo ufficio.»
«Nel mio... capisco.» L'uomo attese pazientemente, sorridendo senza al-
cuna esitazione. Sembrava determinato a non spostarsi di un millimetro;
conoscendo l'ex moglie di Javas, probabilmente temeva che avrebbe messo
in pericolo la propria vita se avesse desistito.
«D'accordo.»
Il sorriso di lui si allargò più che poteva, e l'uomo bussò alla porta ener-
gicamente. Un altro servitore aprì la porta dall'interno. «Il dottor Montgar-
de è qui» disse quello rimasto sulla porta quando si fu aperta del tutto.
Fece segno ad Adela di seguirlo e poi prese posizione a lato della porta,
annunciandola formalmente mentre la faceva entrare. «Il dottor Adela de
Montgarde, la Padrona Rihana della Famiglia Valtane.»
Nonostante Adela fosse molto arrabbiata per l'insistenza della sua visita-
trice che l'aveva interrotta per ottenere un "colloquio", non poté fare a me-
no di rimanere intimorita da ciò che vide. Rihana era ancora più sorpren-
dente di quanto Adela ricordasse dalla prima volta che aveva incontrato su
Corinto la donna, una decina d'anni prima a cena dall'Imperatore, a fianco
del Principe Javas. Indossava un abito lungo aderente, blu cobalto, che
luccicava a ogni minimo movimento. Intorno al collo aveva una collana di
zaffiri, ricavata presumibilmente da un'unica gemma, che con gli identici
gioielli che portava alle orecchie e al polso creava un contrasto perfetto
con la massa selvaggia di capelli ramati sciolti sulle spalle.
Adela s'inchinò automaticamente in modo rispettoso. «Principessa Riha-
na...»
Uno sguardo di ghiaccio bloccò Adela prima che potesse finire. «Dottor
Montgarde, sono assolutamente sicura che si rende conto che il titolo di
principessa non è più opportuno. "Padrona" andrà benissimo.»
Adela sentì un impeto di collera ma lo soffocò e chinò lievemente la te-
sta un'altra volta. «Come preferisce, Padrona. Cosa posso...»
«Grazie Poser, Dennie.» Disse Rihana bruscamente, interrompendo
Adela un'altra volta. «È tutto per adesso»
I due annuirono educatamente, e uscirono, chiudendo la porta dall'ester-
no. Adela sentì un leggero clic e si rese conto che uno dei servitori di Ri-
hana si era preso la libertà di chiudere a chiave.
«Che cosa l'ha condotta qui, Padrona?» Domandò Adela cercando di u-
sare un tono di voce il più possibile amichevole. «A dire la verità, non sa-
pevo nemmeno che si trovasse sulla Luna.»
Rihana la guardò per un attimo pensierosamente, poi disse. «Posso se-
dermi?» Fece un cenno in direzione di un sofà che si trovava dall'altro lato
della stanza accanto alla scrivania di Adela, e senza aspettare risposta vi si
diresse.
Adela la seguì impressionata alla vista dell'abito della donna che scintil-
lava mentre camminava, e si sedette su una poltrona di fronte alla sua ospi-
te.
«Come le ho chiesto prima, che cosa l'ha condotta qui?»
Rihana prese dalla scrivania una piccola statuetta, ricavata da un pezzo
di roccia grisiana, e la osservò, rigirandola tra le mani delicate mentre par-
lava. «Credo che ciascuna di noi due abbia qualcosa da offrire all'altra»
disse senza preamboli. «La mia Famiglia potrebbe essere interessata a of-
frire, a un certo prezzo, ovviamente, appoggio per il raggiungimento della
sua, em, meta.» Sollevò un sopracciglio in segno d'intesa e aggiunse un
leggero sorriso alle parole. «La Famiglia Valtane ha un'influenza conside-
revole su alcuni dei Mondi di Frontiera, un'influenza che potrebbe essere
necessaria per portare il progetto a compimento.» Poggiò la statuetta sulla
cima di un mucchio di moduli che erano sulla scrivania di Adela, e non fe-
ce nemmeno il gesto di rimetterla in piedi quando rotolò giù.
«Ma a che proposito mi parla dei mondi di frontiera?»
Le domandò di rimando Adela, senza fare alcun tentativo, a quel punto,
di nascondere il disprezzo che provava per la sua ospite. «Lei, Padrona, è
al corrente di qualche problema laggiù?»
Gli occhi di Rihana scintillarono, e per un momento perse la calma, ma
la recuperò immediatamente. «Vediamo di essere oneste l'una con l'altra,
d'accordo? Senza il totale appoggio di ognuno dei pianeti dei Cento Mon-
di, non può certo sperare di portare a buon fine il suo progetto.»
«Capisco.» Adela sollevò a sua volta un sopracciglio. «Lei adesso am-
mette che la mia idea ha dei pregi?»
L'ex principessa inclinò leggermente la testa rendendosi conto che la
donna con cui stava patteggiando era un avversario forte.
«Mi lasci dire una cosa: la mia gente ha fatto delle ricerche sulle sue teo-
rie, e le ha trovate valide. Tecnicamente valide, ecco tutto.» Si appoggiò al
sofà e incrociò le lunghe gambe. Adela notò che il vestito lungo era scivo-
lato di lato, e mostrava le grazie della donna.
«Comunque, personalmente, continuo a credere che questo tentativo sia
il folle sogno di un pazzo, che cerca di lasciare un ultimo memorabile ri-
cordo di sé. Ma non ha nessuna importanza; posso ottenerne grandi van-
taggi per la mia Famiglia. E cosa c'è di tanto spaventoso in questo?»
Che cos'è esattamente che vuoi, si domandò Adela. E quale sarebbe il
tuo prezzo? «Ecco la risposta alla sua richiesta, allora: non c'è niente di
sbagliato in questo, Padrona. E io devo accettare tutto l'aiuto che posso ri-
cevere. L'appoggio della Famiglia Valtane sarà assolutamente gradito».
Apparentemente soddisfatta dal fatto che l'incontro stava per concluder-
si, Rihana si alzò e si diresse verso la porta.
«Grazie per avermi concesso il suo tempo, dottore» disse lasciando un'o-
locarta da visita sul tavolo di servizio. La fragile carta svolazzò senza ade-
rire alla superficie del tavolo e poi cadde per terra. «Può contattarmi con
questa per mettere a posto ogni questione riguardante il nostro reciproco
vantaggio.» Sorrise educatamente e fece un mezzo inchino, più d'intesa
che di rispetto, poi bussò alla porta chiusa. Uno dei suoi servitori la aprì
immediatamente dall'esterno.
Prima di uscire Rihana si girò per un attimo, quasi come se le fosse ve-
nuto in mente qualcosa all'improvviso. «Per questo progetto... ci vorranno
diverse generazioni, o mi sbaglio?»
«È così» rispose lei, alzandosi. «Avrò bisogno di anni di sonno criogeno
e di processi di ringiovanimento per poterlo vedere realizzato.»
Rihana annuì, e un sorriso sadico le apparve sulle labbra. «Allora lo per-
derà, questo è certo, come l'ho perso io.» Si girò brutalmente e uscì senza
dire altro.
Naturalmente Adela lo sapeva, ma si era rifiutata di pensarci: una volta
che Javas fosse salito sul trono, secondo la legge imperiale, non avrebbe
più potuto sottoporsi alle terapie di ringiovanimento. Lei l'avrebbe visto
invecchiare e morire.
Chiuse la porta, e recuperò la olocarta da visita, notando che il rettango-
lo color rame era apparentemente vuota e trasparente. Ma sollevandolo alla
luce dalla giusta angolazione, si accorse che l'insegna della Famiglia Val-
tane brillava di un acceso blu cobalto.

L'Imperatore chiuse le palpebre diverse volte, cercando di contenere lo


stress causato dalle lunghe uscite dell'integratore che aveva appena inseri-
to. L'accesso al computer imperiale era diventato per lui molto faticoso, e
negli ultimi tempi si riservava di usarlo solo per brevi atti o per file troppo
lunghi per essere riportati a voce, proprio come quello che Glenney gli a-
veva appena dato.
«Sono stati uccisi tutti, allora?» domandò alla fine l'Imperatore.
Glenney abbassò gli occhi. «Sfortunatamente sì. A quel punto non ab-
biamo più potuto fare nulla; stiamo ricevendo un piccolo ma prezioso aiuto
dalle autorità terrestri.»
«Sei proprio sicuro che avessero dei collegamenti con il pianeta?»
«Certo, Sire. Inoltre, come ho riferito nella mia relazione, credo che
questo gruppo fosse coinvolto nell'esplosione avvenuta alla baia d'atter-
raggio.» Glenney cercò qualcosa nella tasca della giacca e tirò fuori un
braccialetto d'oro che porse all'Imperatore. «Due degli uomini che sono
morti indossavano questo.»
L'Imperatore lo rigirò tra le mani, esaminando la fattura dell'incisione, e
notò quanto fosse leggero. «È cavo?»
Glenney annuì, poi aggiunse: «Le sostanze chimiche volatili potevano
essere nascoste in un contenitore, con una piccola valvola per mescolare
gli scomparti al momento giusto. Lo stesso oro avrebbe potuto fungere da
eccellente protezione. Questo, naturalmente, è vuoto.»
«Chi erano, e che tipo di minaccia costituivano?»
«Al momento è ancora incerto, Sire. Comunque, c'è una possibilità che
in realtà non costituissero nessuna grave minaccia o addirittura nessuna
minaccia in assoluto per il Consiglio.»
«Cosa significa?»
«Sire, ho il sospetto che facessero parte di un gruppo molto più ampio e
ben organizzato, e che si siano resi conto che i miei uomini erano un po'
troppo vicini alla possibilità di scoprirli. Credo che abbiano selezionato
appositamente questo gruppo, come esca, sperando che arrivassimo alla
conclusione che fossero loro a costituire il grosso della minaccia e abban-
donassimo le ricerche. Dubito che quei cinque sapessero cosa stava loro
per succedere.»
L'Imperatore considerò l'ultima osservazione.
«Chiunque ci sia dietro di loro, li ha sacrificati.»
«Sì, Sire.»
«"Una persona che è pronta a morire per la sua causa non si crea nessun
problema a ucciderti per la sua causa." Sai chi ha detto questa frase?»
«Come?»
«Un commediografo del ventesimo secolo.»
L'Imperatore scosse la testa ripensando all'ironia della frase. «Significa
che hai a che fare con un gruppo di persone che non si fermeranno di fron-
te a niente pur di raggiungere i propri obiettivi. Ricordatelo. Voglio che le
indagini su questo gruppo siano la tua maggiore preoccupazione.»
Glenney assentì.
«È molto lunga la tua prossima relazione?» Glenney annuì di nuovo e
l'Imperatore sospirò con stanchezza. «Molto bene.» Chiuse gli occhi per i
pochi minuti necessari affinché le immagini e le informazioni gli scorres-
sero nella mente.
L'Imperatore fece un respiro profondo e si raddrizzò sul trono quando
l'afflusso dei dati fu terminato. «Rihana ha avuto molto da fare, vero?»
«Si, Sire» replicò Glenney. «Sfortunatamente non ci è stato possibile de-
terminare l'esatta natura della sua discussione con l'ambasciatore, o i moti-
vi che aveva per incontrarlo, e non sappiamo nulla neppure della ragione
che l'ha spinta a parlare con il dottor Montgarde.»
L'Imperatore sorrise e fece l'occhiolino all'agente di sicurezza. «La pri-
ma cosa non dovrebbe essere difficile da indovinare: ovviamente sta cer-
cando un qualche tipo di alleanza tra la sua Casa e Sarpan, lo scopo è una
questione su cui possiamo solo tirare a indovinare spero che farai di questi
interrogativi un'altra delle tue priorità. In ogni caso sono d'accordo con te
sul fatto che al momento le ragioni che l'hanno spinta a contattare il dottor
Montgarde sono assolutamente incomprensibili.»
«Potrei farla arrestare» suggerì Glenney. «Per un civile, anche se appar-
tiene a una casata importante come la sua, incontrare personalmente un
rappresentante ufficiale di Sarpan senza averne prima messo al corrente la
corte...»
«Non è necessario che mi citi la legge imperiale» disse bruscamente
l'Imperatore. Tirandosi su, si massaggiò le tempie con le dita sottili e fragi-
li, senza dare segno di volersi scusare, prima di proseguire. «Non arrestar-
la. Ma tienila sotto stretta sorveglianza fino a quando non ti sarai fatto u-
n'idea più chiara dei suoi scopi.» Lo raggiunse una richiesta urgente da
parte di Brendan e immediatamente si rimproverò per avere permesso che
lo stress degli ultimi giorni prendesse il sopravvento su di lui. Fece un re-
spiro asmatico e, anche se i sistemi di controllo medico inseriti nella sua
poltrona si misero a lavorare a tutta velocità, ordinò mentalmente di far
venire il suo aiutante.
La porta si aprì, e l'attendente medico entrò bruscamente nella stanza.
Prima salutò rispettosamente l'Imperatore, rivolgendosi subito al vecchio
sovrano senza curarsi del fatto che l'agente di sicurezza che alla sua entrata
era balzato in piedi in atteggiamento di difesa solo allora stesse abbassan-
do la guardia.
«Sire, i vostri dati clinici hanno raggiunto dei livelli non più sostenibili a
garantire la sicurezza per la vostra salute.» Si inginocchiò di fianco all'Im-
peratore ed esaminò i dati forniti dal trono per ricevere conferma sulle in-
formazioni che aveva ricevuto un attimo prima dalle sue attrezzature. Rial-
zandosi, aggiunse rispettosamente ma con fermezza: «Mi dispiace dovere
insistere ma questo colloquio deve concludersi o comunque essere riman-
dato».
L'Imperatore osservò Brendan per un attimo, e decise che la sua solleci-
tudine era sincera ma che in realtà non era più eccessivamente preoccupa-
to; effettuando una veloce verifica con il computer, appurò che aveva can-
cellato mentalmente il codice di emergenza medica che l'aveva spinto a en-
trare nel suo studio privato.
Tirò un altro respiro profondo, poi ancora un altro, e cominciò a sentire
l'energia che tornava sotto gli efficienti sforzi del sistema computerizzato
installato nel trono. «Forse hai ragione» ammise l'Imperatore. «Sono tal-
mente stanco.»
«Aspetterò in anticamera.» Brendan indietreggiò rispettosamente, ri-
mandando qualsiasi ulteriore discussione medica a quando l'Imperatore
avesse congedato l'ospite, poi lasciò la stanza.
L'Imperatore tornò a rivolgersi all'agente. «È arrivato il momento, Marc,
di avvisare mio figlio di ciò che hai scoperto sulla sua ex moglie. Per favo-
re sottoponigli la relazione che ho appena visto e fa' in modo che sia tenuto
al corrente su qualsiasi altra cosa riuscirai a scoprire riguardo le sue attivi-
tà.»
L'uomo sbarrò gli occhi. «Sire?»
«Non discutere» disse. Socchiuse gli occhi e guardò con rispetto l'uomo.
«Ti ringrazio per la relazione.» Poi sollevò un braccio per fargli capire che
la conversazione era finita e cominciò a spostare il trono, bloccandosi
quando si rese conto che l'uomo era rimasto immobile e non dava alcun
segno di volere uscire dalla stanza.
«Sire...»
Per un attimo l'Imperatore pensò che l'uomo volesse domandargli di ri-
considerare la richiesta di informare Javas, ma gli occhi di Glenney, nor-
malmente imperscrutabili, gli dissero che si stava sbagliando. «Sì? C'è
qualcos'altro?»
Glenny frugò nel soprabito e prese un data stick, che fece rotolare ner-
vosamente da una mano all'altra mentre parlava.
«Ci sarebbe un'aggiunta alla mia relazione» esordì, con una punta di sin-
cero dispiacere nella voce «una cosa che riguarda un altro incontro, che
non ho ancora inserito nel sistema principale. A causa del suo contenuto.
Io...» Esitò, umettandosi le labbra che improvvisamente erano diventate
secche. «Vorrei che lei ne facesse una verifica personale, prima di inserirlo
nel file principale.» Posò lo stick nella mano che l'Imperatore gli porgeva,
e sembrò sollevato all'idea di essersene liberato.
L'imperatore infilò lo stick nella fessura che si trovava nel bracciolo del-
la poltrona e si irrigidì mentre le immagini gli scorrevano nel cervello.
Quando vide Rihana Valtane conversare in una saletta privata di uno dei
più esclusivi ristoranti di Armelin City, si sentì gelare il sangue. Il suo ab-
bigliamento era poco appropriato, anche se probabilmente quel piccolo
mascheramento aveva lo scopo di distogliere l'attenzione più che di evitare
le investigazioni imperiali. La qualità visiva della relazione della sorve-
glianza era tale che si poteva facilmente vedere la quantità di vino che c'e-
ra nel bicchiere del suo compagno, ma la conversazione era stata ovvia-
mente oscurata da un bloccaggio audiofonico. Mentalmente velocizzò lo
scorrimento, annotando l'ora, la data e altri particolari dell'incontro.
«Il movimento delle labbra era la cosa che più risaltava di ciò che ho ap-
pena visto.» Disse a Glenney. «Hai cercato di ottenere una ricostruzione
computerizzata della loro discussione?»
«No, Sire. Ho pensato che si trattava di una faccenda piuttosto importan-
te e che era meglio sottoporla alla sua attenzione prima di fare qualsiasi
cosa.»
«Grazie di avermelo portato subito» disse allontanandosi da Glenney e
immergendosi nei propri pensieri. «Puoi andare.»
«Glenney fece un passo avanti. «Posso inserirlo insieme agli altri file?»
«Non sarà necessario» mentì. Stava usando tutta la forza di volontà che
aveva per controllare non solo i dati del proprio stato fisico ma anche le
emozioni. «L'ho già fatto.»
L'Imperatore non si preoccupò di girare il trono, ma il suono della porta
che si chiudeva e il silenzio in cui la stanza era rimasta gli confermarono
che Glenney era uscito. Abbassando le luci a un livello più confortevole
osservò il braccialetto che gli era rimasto in mano, e si meravigliò di come
riflettesse anche la luce più debole. Una fenice, pensò divertito. La vita che
risorge dalla morte. Aspettò, perso nei suoi pensieri. Dopo meno di un
minuto, la porta si aprì di nuovo. Non aveva bisogno di girarsi per sapere
chi era il nuovo arrivato: escluso il Principe Javas, c'era solo un'altra per-
sona che poteva permettersi di entrare nel suo studio senza che fosse stato
l'Imperatore a dargli prima il permesso di entrare.
«Prendi una sedia, per favore, Brendan» cominciò. Con una leggerezza
nella voce che ne mascherava i sentimenti. Spostò il trono per guardare in
faccia il suo aiutante, poi aggiunse: «Presumo che tu voglia rimproverarmi
per avere ripetutamente ignorato i tuoi ultimi ordini medici».
L'uomo sollevò un sopracciglio e sorrise, come faceva tutte le volte che
ricordava all'Imperatore le sue necessità mediche. «Mi sembra che qualche
volta i miei rimproveri siano presi un po' alla leggera. Comunque, spero
che quando oggi pomeriggio si concluderà questa faccenda del Consiglio
dei Cento Mondi, sarà disposto ad assecondare gli ordini che le ho dato da
quando siamo arrivati, e che avrà la bontà di mettere in pratica quello che
più di tutti è stato ignorato: riposo dopo un lungo viaggio.»
Per la prima volta da quando Glenney era entrato l'Imperatore si permise
di sorridere. «Forse sì, e forse no.» Lo guardò fisso negli occhi e si con-
centrò, esprimendo un complicato ordine che fece accendere lo schermo
dello studio, riproponendo una porzione della relazione che Glenney gli
aveva dato sul data stick ancora inserito nel bracciolo della poltrona.
Il viso di Brendan diventò di tutti i colori quando vide la registrazione,
che mostrava Rihana Valtane mentre parlava con lui al ristorante. Spostò
gli occhi dall'Imperatore allo schermo, più volte. Vide se stesso nella scena
registrata in stato di agitazione, e si accorse che si era guardato intorno di-
verse volte per paura di essere riconosciuto mentre parlava con lei. Mentre
guardava, il sudore aveva cominciato a colargli lungo la fronte, e nono-
stante fosse seduto rigidamente sulla sedia, tremava tutto. La luce dello
schermo colse un riflesso del viso di Brendan e della sua tunica bianca nel-
la stanza buia, aggiungendo un'ulteriore esagerazione grottesca alla sua
paura e al suo comprensibile disagio. L'Imperatore non ne fu affatto diver-
tito.
La registrazione si bloccò altrettanto brutalmente di come era comincia-
ta. Eccetto che per il respiro ansioso di Brendan la stanza era immersa nel
più totale silenzio. L'Imperatore rimase dov'era e guardò il suo aiutante
con fermezza, senza parlare, senza chiedergli nulla. Teneva sotto costante
monitoraggio i dati provenienti da Brendan, a dispetto del dolore che lo
sforzo gli causava.
«C'è un obbligo tra le nostre Case» disse Brendan alla fine con voce
tremante. «Lei... un rappresentante della sua Famiglia si è messo in contat-
to con me, insistendo perché la incontrassi. Non potevo rifiutare.»
«Lo sappiamo.» Il tono di voce dell'Imperatore si era abbassato fino a
diventare un sussurro. «Che cosa voleva?»
Brendan cercò di rispondere, ma appena apriva la bocca per parlare ri-
considerava ciò che stava per dire e cercava di ricominciare da capo. Ave-
va la fronte corrugata per lo stato di confusione in cui si trovava, e quando
finalmente recuperò il controllo abbastanza da potersi esprimere in modo
coerente, le sue parole furono interrotte dai singhiozzi. «Non lo so! Lei...
io...» Si raddrizzò ancora una volta sulla sedia, consapevole dello sguardo
dell'Imperatore su di lui, e cercò disperatamente di ritrovare un contegno.
Mi stai dicendo la verità, pensò mentre monitorava le diverse spie del
sistema vitale di Brendan. L'Imperatore incrociò le mani davanti a sé e a-
spettò che continuasse.
«Io... avevo già deciso, molto prima di incontrare quella donna, che a-
vrei rifiutato qualsiasi tipo di richiesta mi avesse fatto. L'obbligazione tra
le nostre Famiglie risale a molti secoli fa, e avevo intenzione di non tenervi
fede.» Alzò gli occhi, pieno di vergogna e confusione. «Vi ho giurato fe-
deltà, Sire, e ho vissuto secondo questo giuramento. Volevo invalidare
quell'obbligazione, ma non mi ha chiesto nulla!»
«Ripensaci attentamente» disse l'Imperatore. Parlava con fermezza, ma
allo stesso tempo cercava di controllare la forza nella voce in modo che
l'uomo sentisse di poter parlare liberamente. «Che cosa ha detto? Di che
cosa avete discusso?»
«Di nulla di importante, Sire, lo giuro.» Il suo ritmo respiratorio si era
placato, e adesso parlava con più calma. Scosse la testa per il senso di fru-
strazione che provava cercando di ricordare. «Era come, uso quest'espres-
sione per mancanza di una descrizione migliore, come... una riunione di
famiglia. Mi ha domandato solo come stavo: se le mie mansioni erano pe-
santi, se c'era qualcosa che mi mancava qui, se mi aveva causato peggio-
ramenti il trasferimento della corte imperiale, e cose di questo genere.»
L'Imperatore ascoltava l'altro che raccontava la conversazione, poi
quando Brendan terminò fece cenno di avere capito. Si lasciò andare con-
tro lo schienale della poltrona, e si mise ad accarezzare la barba bianca e
rada, riflettendo sulle implicazioni di ciò che aveva appena sentito.
«Sei stato usato» disse tristemente. «Le tue risposte e le sue domande
sembravano abbastanza innocenti; e credo che superficialmente lo fossero.
Ma sono altrettanto convinto che i suoi uomini ti abbiano tenuto costante-
mente sotto osservazione.»
«Sire, io non...»
«Mentre parlavi, ognuna delle tue parole, ognuna delle tue reazioni ve-
niva analizzata, forse dalle stesse persone che prima l'avevano istruita sulle
domande, attentamente prestabilite, che avrebbe dovuto farti. Voleva otte-
nere delle informazioni, Brendan. Su quanto tu mi fossi vicino. Sul mio at-
tuale stato di salute. Su qualsiasi cosa relativa ai miei rapporti con te e con
chiunque altro io frequenti. E tu senza saperlo gliele hai fornite.»
Brendan rimase seduto, con gli occhi sbarrati e la bocca leggermente a-
perta, scioccato dalla rivelazione che aveva appena avuto.
L'Imperatore sospirò e scosse lentamente la testa. «Non è stata colpa tua,
ma mia.» È stata colpa mia, continuava a ripetersi mentalmente, per avere
sottovalutato quella puttana.
Brendan si abbandonò sulla sedia sopraffatto dal rimorso. «Sire, sono
profondamente dispiaciuto per il ruolo che ho avuto in questa...»
Non ci sarebbero più state le piccole punzecchiate scherzose che aveva-
no divertito l'Imperatore; né il modo sicuro con cui il giovane aveva svolto
per tanto tempo il suo dovere, permettendo contemporaneamente all'Impe-
ratore di conservare la propria dignità. E nemmeno ci sarebbe più stato ciò
che sarebbe mancato di più all'Imperatore: la vicinanza con qualcuno che
aveva finito per diventare più un amico che un sottoposto.
«Si può rimediare» disse l'Imperatore scuotendo Brendan dal suo stato
depressivo. «Ma ci sarà bisogno di un sacrificio da parte tua.»
«Qualsiasi cosa, Sire!» Gli si illuminò il viso all'idea di potere ancora
servire il suo sovrano.
L'Imperatore si piegò verso di lui. «Non ho chiesto la tua approvazione,
perché ho già preso la mia decisione e ho già stabilito quale sarà il tuo ruo-
lo nella faccenda. Prima della fine di questo giorno ti troverai al centro del-
l'attenzione di tutto l'Impero; ti verranno poste molte domande, da parte di
molte persone.» Studiò la reazione di Brendan, soppesandola tra il presen-
timento e la confusione che aveva negli occhi. «Non dire nulla di questa
faccenda. Nulla, hai capito?»
L'uomo annuì lentamente, senza capire.
«Non dire nulla» disse ancora una volta. «Non rispondere a nessuna do-
manda.»
«Sì, Sire.» Brendan lasciò cadere la testa contro il petto, e aggiunse con
voce tremante: «Ho capito, ma... non sono sicuro di avere capito perché».
L'Imperatore spostò il trono talmente vicino a Brendan che avrebbe po-
tuto toccarlo, poi gli diede il braccialetto, che con la sua superficie lucci-
cante catturava la luce quasi ipnoticamente. «Prendilo» disse. «Lo scopo di
tutto ciò ti sarà chiaro più tardi.» L'aiutante medico fece scivolare obbe-
dientemente il braccialetto nella tasca. «Rispondimi: daresti la vita per il
tuo Imperatore?»
L'uomo sbarrò gli occhi, ma non esitò a rispondere. «Sì, Sire. Ho giurato
di servirvi quando prima di partire da Corinto ho acconsentito a farmi im-
piantare gli innesti. Non potrei rinnegare adesso quel giuramento.»
«Così va bene» rispose l'Imperatore con voce gentile e premonitrice.
«Va bene. Perché alla fine di questo giorno la tua vita sarà finita davvero.»
Diede uno sguardo al data stick nella fessura della poltrona e espresse
mentalmente un ordine composto da un'unica parola:
Cancella.

5: Conclusioni
Il Principe Javas si trovava in quel momento da solo in un lato del palco.
Tutti gli altri, i funzionari imperiali, gli aiutanti, i membri della corte, e tut-
ti quelli che erano coinvolti nella presentazione, si aggiravano lì intorno
bisbigliando e sussurrando senza tregua. Dall'altro lato del palco c'erano
diversi gruppi di persone. Con facilità riconobbe Bomeer e il suo seguito, e
riuscì addirittura a scorgere nella penombra l'espressione torva che l'uomo
aveva sul viso. Poco più in là, c'era il comandante Fain che dava ad alcuni
dei suoi uomini gli ultimi ordini. Davanti a una delle entrate posteriori c'e-
ra Adela circondata dai membri della sua squadra di laboratorio. Mentre la
guardava, si accorse che tutti gli scienziati andavano a scambiare con lei
qualche parola, le stringevano la mano o le davano un breve abbraccio,
prima che si girasse e passasse attraverso il controllo di sicurezza. Natu-
ralmente capiva perfettamente la necessità delle misure di sicurezza, ma si
sentì a disagio vedendo che era lei a esservi sottoposta. Allontanando lo
sguardo, vide Glenney che si spostava da un punto all'altro vigilando atten-
tamente, controllando qua e là, apparentemente soddisfatto del funziona-
mento delle misure di sicurezza. Soltanto un'ora prima si era sentito in uno
stato di forte eccitazione, di inquietudine, e aveva goduto di quegli ultimi
minuti di trambusto che precedevano il passaggio dagli anni di lavoro pre-
paratorio per il progetto del padre all'inizio del progetto stesso. Ma il modo
di fare di alcune delle persone chiave che aveva intorno, insieme al costan-
te mormorio di impazienza che arrivava dai rappresentanti dei Cento Mon-
di stipati nell'auditorium, lo avevano molto influenzato in quegli ultimi
minuti che precedevano la presentazione. La naturale punta di eccitazione
che c'era nell'aria lo aveva contagiato nel modo peggiore, e ora era presa
da puro e semplice nervosismo.
Era una sensazione che non gli piaceva.
Il retroscena dell'auditorium era enorme, grande quasi quanto tutta l'area
occupata dai posti a sedere, e Javas si sentiva scomparire dietro la massic-
cia tenda di velluto che si stava aprendo in quel momento, mentre veniva-
no approntati i dettagli dell'ultimo minuto. Fissava l'andirivieni che si
svolgeva davanti a lui, notando che gli uomini scelti di Glenney restavano
ai loro posti sulle passerelle, in mezzo alle parti già ben sistemate delle
scenografie e dell'impianto luci. Sorrise osservando il groviglio di cose che
succedevano nel retroscena, cose che normalmente erano invisibili al me-
cenate di un teatro, ma necessarie a uno svolgimento senza intoppi della
produzione. Proprio come nella vita, pensò divertito.
Javas si avvicinò al sipario e diede uno sguardo al palcoscenico, come
aveva già fatto almeno un centinaio di volte, verificando, se ce ne fosse
ancora bisogno, che lo schermo protettivo era al suo posto sul bordo del
proscenio. Fino all'inizio della presentazione lo schermo avrebbe mantenu-
to il modulo opaco. La folla che si trovava dall'altro lato non riusciva a ve-
dere la retrostante zona in penombra, ma la forte illuminazione della sala
permetteva a Javas di intravedere qualche occasionale spostamento del
pubblico. La vista delle silhouette di una dozzina di guardie imperiali ar-
mate, dall'altra parte dello schermo, con le spalle voltate per controllare la
folla, lo sollevò un po' dalla tensione.
«Sire?»
Il principe sobbalzò per l'improvvisa intrusione nei suoi pensieri, e si
voltò bruscamente verso il suo aiutante personale. «Sì» disse arrabbiato.
«Che cosa c'è?»
L'aiutante si inchino con rispetto. «Sire, l'Imperatore sta per giungere al-
l'auditorium.»
«Molto bene. Informa il comandante Fain che inizieremo non appena
mio padre arriverà.»
L'uomo si girò e rapidamente si diresse dall'altra parte del palcoscenico.
Javas stava per andare a raggiungere Fain, quando fu bloccato da una ma-
no che gli tirava delicatamente la manica dell'uniforme.
Adela era splendida con indosso un abito lungo svolazzante, blu oltre-
mare, che le cadeva in modo squisito, e ne accentuava la bellezza. I capelli
scuri, che normalmente portava raccolti o tirati indietro, le cadevano sciolti
sulle spalle. Una pietra levigata pendeva da una semplice catena d'argento
che aveva intorno al collo, e si era messa tra i capelli un fiore del fuoco.
Sorrise e senza parlare si diresse proprio nel punto in cui il Principe Javas
si trovava qualche minuto prima, dietro il sipario.
Javas la seguì. A qualche metro di distanza davanti alla parete c'era una
guardia in uniforme imperiale. Dimenticando che era proibito lasciare la
posizione assegnatagli, l'uomo fece il gesto di ispezionare la passerella da-
vanti a lui. Javas lesse il cartellino con il nome che aveva sull'uniforme e
ne prese mentalmente nota.
Poi prese la ragazza sotto braccio e inebriato dal modo in cui il profumo
di lei sì mescolava gradevolmente con quello naturale del fiore che aveva
tra i capelli, la baciò.
Si separarono e Adela, che era rimasta tra le sue braccia, gli appoggiò la
testa contro il petto. «Non riesco a credere che finalmente ci siamo» disse
alla fine.
Javas le prese delicatamente il mento tra le dita e la guardò profonda-
mente negli occhi. «Non ho mai dubitato che sarebbe accaduto.» Conti-
nuando e tenerle il mento con la mano, la baciò di nuovo, questa volta con
più tenerezza.
La guardia che era lì accanto tossì e Javas la respinse dolcemente, con ri-
luttanza. La guardia fece un segno in direzione del palco e Javas si girò,
con le mani intrecciate dietro la schiena, poi vide Fain che si avvicinava.
«Comandante?»
Fain fece un veloce inchino ad Adela, poi si rivolse al Principe. «Sire,
vostro padre è arrivato.»
«Grazie.»
Fain si inchinò di nuovo, e poi si affrettò verso l'entrata posteriore, e Ja-
vas vide che adesso era circondata da tutti e due i lati da membri della cor-
te. Cercò la guardia con gli occhi e gli fece un cenno di ringraziamento,
poi si incamminò lungo il palcoscenico tenendo Adela sottobraccio.

Erano seduti nelle due file riservate del proscenio, qualche metro dietro
lo schermo protettivo, che adesso si incurvava, invisibile e trasparente, in-
torno al limite del palco. C'erano cinque posti nella prima fila: l'Imperatore
era seduto sul trono al centro del palcoscenico, affiancato a destra dal
Principe, che in quel momento si stava rivolgendo alla folla con qualche
frase introduttiva, e dal dottor Montgarde. Alla sinistra dell'Imperatore c'e-
ra il posto di Fain, e poi il suo, proprio accanto a quello di Fain.
Bomeer prestava poca attenzione sia a ciò che il Principe stava dicendo
sia alla dozzina di persone sedute nella fila dietro di loro. Stava dando u-
n'occhiata alle persone sedute nella seconda fila di poltrone proprio di
fronte alla tenda di velluto abbassata. Lì c'erano Plantir Wynne e la balia
dell'Imperatore, Brendan. C'era anche qualcuno della squadra scientifica, e
diversi altri membri della corte.
Bomeer tornò a guardare l'assemblea, disturbato dalla magnificenza di
ciò che vedeva. L'auditorium era quasi completamente pieno di rappresen-
tanti dei Cento Mondi e dei loro ospiti, cosa che Bomeer non si aspettava.
Ed eccetto una piccola sezione sul retro della sala in cui alcuni rappresen-
tanti vi stavano assistendo olograficamente, quasi tutti gli spettatori aveva-
no sostenuto un lungo viaggio per vedere coi propri occhi l'Imperatore che
presentava il suo folle progetto.
Anche se il momento della discussione nel Consiglio non sarebbe inizia-
to se non dopo tutte le presentazioni, le discrete indagini di Bomeer lo a-
vevano già messo al corrente del fatto che il sostegno per il progetto era
forte da parte dei Mondi. Aveva anche incontrato un certo numero di rap-
presentanti che si opponevano apertamente a quell'impresa rischiosa, ma
non era certo che avrebbero costituito un'opposizione sufficiente a ostaco-
larla.
Mentre il Principe parlava delle opportunità, dell'avanzamento tecnolo-
gico e dei benefici che ci sarebbero stati per tutti i membri dell'Impero,
Bomeer diede un'occhiata al pubblico dei rappresentanti, che stavano a-
scoltando rapiti il discorso di Javas.
«... Sarà un'epoca di espansione, l'epoca della scienza» stava dicendo il
Principe Javas. «Ciascuno dei Mondi, contribuendo con le proprie risorse e
con le proprie prerogative, crescerà in proporzione al contributo offerto.
Forse vi state domandando: ma in che modo possono contribuire quei
mondi che hanno un livello tecnologico inferiore? E i Mondi di Frontiera e
le colonie appena fondate, che potrebbero avere minori competenze da of-
frire, dal momento che stanno lavorando per ideare e costruire le loro stes-
se case?» Javas fece scivolare lo sguardo lentamente sul pubblico, mentre
cominciavano a diffondersi brusii e mormorii di assenso tra alcuni dei rap-
presentanti che, a giudicare dalle apparenze, sembravano pensarla allo
stesso modo.
«Anche quei Mondi prenderanno parte a quest'impresa. Infatti i Mondi
di Frontiera, anche se qualche volta poveri di tecnologie, sono ricchi delle
materie prime fondamentali per la completa riuscita della più importante
impresa che i Cento Mondi abbiano mai tentato. Quei Mondi, in cambio
delle materie prime e della manodopera, possono aspettarsi di ricevere un
aiuto maggiore per fondare una patria di quello che hanno ricevuto tutti gli
altri Mondi dall'inizio dell'Impero...»
Non c'è da meravigliarsi se la risposta dei Mondi è così positiva, pensò
Bomeer, è facile ottenere cooperazione quando si paga per riceverla.
L'accademico tornò di nuovo a guardare gli spettatori, cercando di desin-
tonizzarsi dal discorso del Principe, ma fu ancora una volta impressionato
dall'immensità dell'assemblea. Bomeer si rese conto che le poltrone dei
rappresentanti erano state predisposte sulla base della distanza del loro
pianeta natio dalla Terra. Ognuna delle delegazioni si distingueva per un
piccolo stendardo, che mostrava l'insegna o la bandiera di quel pianeta. I
rappresentanti dei Mondi più vicini alla Terra erano seduti nelle file davan-
ti, e quelli dei Mondi più lontani nella parte più alta dell'auditorium. I rap-
presentanti della Terra, della Luna, e delle loro orbite erano seduti in prima
fila.
Bomeer osservò la delegazione terrestre, e quasi gli si fermò il cuore
quando vide seduto in mezzo al gruppo un uomo alto con la barba. Cristo,
che cosa ci fa qui?
Proprio mentre lo stava guardando, Johnson si girò di scatto e il suo
sguardo incrociò inaspettatamente quello di Bomeer. Gli occhi feroci del
terrestre, simili a quelli di un lupo, lo misero a fuoco immediatamente e...
l'uomo gli stava forse sorridendo?

Il momento è arrivato, pensò l'Imperatore ascoltando suo figlio. Senza


pensare alla propria stanchezza, si sentì orgoglioso di come il Principe sta-
va catturando l'attenzione della folla: i rappresentanti dei Cento Mondi
pendevano letteralmente dalle sue labbra. Sarai un ottimo capo.
Javas intanto aveva finito il suo discorso e si era messo al suo fianco per
assisterlo, mentre si accingeva a parlare all'auditorium. Spostò il trono
qualche metro davanti agli altri e poggiò le mani con forza sui braccioli
della poltrona. Con l'aiuto di Javas che lo sosteneva dai gomiti, si alzò in
piedi. Si accorse che il figlio aveva un'espressione preoccupata, e gli sorri-
se per rassicurarlo sul perfetto funzionamento dei supporti di sostegno per
le gambe e del supporto di rinforzo per la schiena che lo aiutava a cammi-
nare.
A ogni passo il cuore gli batteva più forte per lo sforzo, e sentì una goc-
cia di sudore scivolargli sul collo mentre si concentrava più che poteva,
per impedire a Brendan di accorgersi della sofferenza provocata dalla pres-
sione che il supporto esercitava sulla schiena. Si girò verso il figlio e lo
abbracciò, poi guardò di nuovo l'auditorium e aspettò che l'applauso sce-
masse.
Sollevò una mano per ottenere silenzio, ma accorgendosi che tremava la
lasciò cadere immediatamente lungo il fianco. Sentì un dolore al petto
mentre aumentava ulteriormente la propria concentrazione per sopprimere
le informazioni sul suo stato fisico che gli impianti stavano cercando di in-
viare ai terminali costantemente monitorati da Brendan.
«Membri dei Cento Mondi» cominciò, e mentre la voce echeggiava at-
traverso l'impianto sonoro dell'auditorium che lui aveva progettato, le sue
parole raggiungevano non solo quelli che aveva davanti a sé ma attraver-
sando lo spazio tutto l'Impero.
«Membri della corte, cittadini e amici. Oggi stiamo per iniziare un viag-
gio la cui entità a paragone farà sembrare piccolo lo stesso Impero.»
Non aveva imparato a memoria il discorso che stava facendo, ma non ce
ne era bisogno. Sapeva ciò che voleva e doveva dire.
Mentre parlava ogni tanto veniva interrotto dagli applausi, e l'Imperatore
utilizzava ogni pausa per riprendere fiato e rinforzare la propria concentra-
zione. A un certo punto le ginocchia cominciarono a tremare, quasi imper-
cettibilmente, nei supporti che Brendan aveva collegato alle sue gambe, e
un senso di debolezza lo sommerse come un'onda. A quel punto percepì
che Brendan lo stava esplorando, e fu costretto a stringere i denti ancora
più duramente, per nascondere al sistema ciò che provava realmente.
«Tra qualche minuto... una giovane scienziata con un sogno vi parlerà
tra qualche minuto.» La sua forza di volontà stava vacillando, e rendendosi
conto che le sue parole stavano diventando balbettii ripetitivi, cercò di fare
più attenzione a quanto diceva. «La sua ingenuità, la sua condotta e i suoi
sogni sono esemplari» continuò. Le parole gli uscivano con difficoltà e
cadde per un attimo in preda a uno stato confusionale. Adesso era coperto
di sudore freddo, e non essendo più in grado di controllare il tremore delle
mani, le lasciò cadere lungo i fianchi.
«Ma senza... la cooperazione di noi tutti, che abbiamo lavorato insieme
come un solo uomo, i suoi sogni non sarebbero nulla. Ed è questa, credo...
la vera forza dei Cento Mondi: ciascuno dei Mondi membri, forte già da
solo, diventa più forte... unendosi agli altri.»
Ci fu un altro applauso, e l'Imperatore sentì la mano di suo figlio sulla
spalla. Javas era al suo fianco, con gli occhi carichi di preoccupazione.
L'Imperatore guardò gli altri membri della corte che erano seduti nel palco.
Le lacrime scivolavano lungo il viso di Adela che sembrava totalmente ter-
rorizzata. Fain si agitava sulla sedia, guardandosi intorno in cerca d'aiuto.
Persino Bomeer sembrava a disagio, mentre in modo assente si mordeva il
labbro inferiore.
Javas lo guardò supplichevole, poi si girò verso Brendan che era seduto
proprio accanto al trono e gli domandò: «Sta bene?»
«Io... io non lo so!» farfugliò Brendan. «I dati sono confusi.»
Sul viso di Brendan c'era un'espressione di puro terrore. Solo adesso si
rendeva conto che l'Imperatore gli aveva nascosto le sue reali condizioni di
salute per tutto il tempo.
L'Imperatore sentì una fitta al petto, una linea di dolore che gli scivolava
lungo le braccia, bruciando. L'auditorium roteava intorno a lui, e si rese
conto che stava barcollando mentre il dolore lo sommergeva, eppure capì
che non sarebbe caduto, perché i supporti che gli sorreggevano le gambe
automaticamente compensavano ogni movimento scorretto.
«Padre!»
Accadde tutto in un attimo, anche se sembrava che le cose si svolgessero
al rallentatore. Javas lo raggiunse. Brendan balzò in piedi e gli fu subito
accanto. Fain abbaiava ordini nel suo apparecchio da polso per le comuni-
cazioni. Adela ansimava, con le mani sulla bocca. Glenney si muoveva con
impazienza tra le pareti divisorie. Tutti parlavano, piangevano e gridavano
contemporaneamente. Poi nell'auditorium cadde un silenzio mortale e pie-
no di stupore.
Un'altra fitta di dolore lo colpì e cadde in avanti tra le braccia di Javas.
Smise di contrastare gli impianti di monitoraggio, lasciando che i dati
fluissero di nuovo liberamente, e immediatamente sentì una stretta forte al-
le spalle; era Brendan, scivolatogli dietro nel momento in cui gli improvvi-
si messaggi di sofferenza si erano riversati nei suoi impianti. Javas lo la-
sciò adagiare sul pavimento e si inginocchiò, cullando il padre tra le brac-
cia. L'Imperatore sentì la pressione di dita delicate sulla mano e capì che
Adela si era inginocchiata al fianco di suo figlio, con il viso stravolto da
una maschera d'angoscia.
Liberato dal peso di controllare i dati che uscivano dai suoi impianti, gli
fu chiaro improvvisamente il motivo per cui sull'auditorium era calato un
pesante silenzio, e capì che qualcuno, forse Fain o Glenney, aveva spento
la ripresa audio che diffondeva la presentazione attraverso l'impianto sono-
ro. Tenendo gli occhi chiusi, usò quel po' di forza che gli restava, per cer-
care nella circuiteria computerizzata il canale adatto a riattivare il sistema.
«Ascoltatemi» disse, con una voce che era poco più di un sussurro. Le
parole echeggiarono nell'auditorium e l'Imperatore sorrise debolmente
pensando al segnale che si diffondeva. Immediatamente ad Armelin City,
qualche secondo dopo sulla Terra, qualche secondo dopo ancora sulle orbi-
te, e qualche minuto più tardi nelle colonie del sistema solare, e alla fine in
tutti i Cento Mondi.
«Ascoltatemi! Questa non è... una fine, ma... un inizio.» L'Imperatore fu
scosso da un violento colpo di tosse, e cercò di riprendere fiato prima di
andare avanti. «Non dovete permettere che ciò che... mi è accaduto vi al-
lontani... da... dalla nostra nobile meta.»
Colui che è pronto a morire per la propria causa... Ansimando, aprì gli
occhi e vide Brendan chino su di lui. Sul viso cinereo dell'uomo c'era la
scioccante consapevolezza di quale sarebbe stato il suo ruolo in ciò che
stava per succedere, incapace di guardarlo, si girò dall'altra parte.
«Se vi ho chiesto di lavorare tutti insieme e con reciproca comprensione
a quest'impresa» disse l'Imperatore ansimando «avrei mai potuto chiedere
a me stesso... di meno?»
«Padre, ti prego. Riposati.» Sul viso di Javas era riflesso tutto il dolore
che provava.
L'Imperatore guardò il figlio negli occhi. «Principe Javas. Figlio. Io... io
ho preso molte decisioni durante il mio regno. Come ultima decisione, in
nome del compito che adesso ricade sulle tue spalle... perdono chi mi ha
fatto questo. Io... li perdono.» La testa gli cadde di lato semplicemente, e
morì.
Javas adagiò delicatamente il corpo del padre sul palco, poi si alzò in
piedi, afferrò Brendan per le spalle e lo scosse fino a farlo vacillare.
«Perché mio padre è morto?» gli domandò. «Come mai i medici non so-
no stati informati sulle sue condizioni?» A quelle parole del Principe,
Glenney chiamò alcuni degli uomini che erano lì vicino schioccando le di-
ta.
Javas a quel punto afferrò per le spalle l'infelice, scuotendolo mentre
continuava a parlare. «Tu eri in collegamento costante con l'Imperatore, sei
l'unico che poteva sopprimere i dati sul suo stato di salute!» Lo mollò di
scatto, lasciandolo crollare in un ammasso singhiozzante, poi si girò, in
preda allo sdegno, mentre gli uomini di Glenney lo trascinavano via dal
palco.

6: Gli inizi

Il sole splendeva e all'orizzonte raggi di luce rossa e arancione giocava-


no attraverso le nuvole e sulle strisce lasciate dai jet nel cielo serale.
Quando alla fine il sole sprofondò oltre l'orizzonte, il bagliore rosso rimase
nel cielo dell'imbrunire fino a quando non apparvero le prime stelle.
Che poesia era? Si chiedeva Brendan. Cieli rossi della notte... Stava
camminando su una strada dissestata di terra battuta, senza avere in mente
nessuna destinazione particolare, ma sperava di trovare in fretta la locanda.
Un contadino di passaggio gli aveva parlato di un posto alla periferia del
villaggio, dove avrebbe potuto consumare un ottimo pasto e trovare una
stanza per la notte. L'uomo guidava un primitivo carro di legno, tirato da
due dei cavalli più belli che l'ingegneria genetica avesse mai prodotto, ma
quando si fermò per indicargli la strada per il villaggio, Brendan notò un
mucchio di strani attrezzi da lavoro nel retro del carro sgangherato. C'era-
no alcune zappe di legno e di metallo, rastrelli e pale, come ci si poteva
aspettare, tutte ricoperte di fango e concime secco. Ma mescolati a casac-
cio c'erano anche una sonda idrica, anch'essa incrostata di fango e conci-
me, e i componenti di un impianto di raffreddamento ad acqua, che ovvia-
mente appartenevano a un sistema di irrigazione artigianale.
Che assortimento di contrasti era la Terra, con strade sporche e veicoli
tirati da animali, mescolati a biotecnologie avanzate e aviogetto. La cosa
più strana di tutte era che i terrestri non sembravano accorgersi della con-
traddizione. Meglio abituarsi subito, si disse, visto che avrebbe trascorso lì
il resto della sua vita. La locanda apparve proprio sulla collina successiva.
Si era fatto buio e lui era abbastanza vicino da riuscire a sentire i suoni fe-
stosi che provenivano dal locale, prima ancora di riuscire a vederla bene.
Era un locale di due stanze, ampio e invitante, tranne il rivestimento metal-
lico del soffitto, era interamente in legno. C'era un'insegna intagliata a ma-
no appesa in modo precario davanti all'entrata, illuminata dalla luce di due
lanterne. Alcuni cavalli legati a un palo orizzontale scalpitavano nervosa-
mente mentre l'insegna, oscillando, batteva contro la facciata della casa.
Nell'oscurità riuscì appena a distinguere il profilo di un'antenna di ricezio-
ne montata sul tetto.
L'interno della taverna era una collezione di contraddizioni, come tutto
quello che aveva visto in quelle due settimane passate sulla Terra. Un fuo-
co scoppiettante riscaldava la stanza e alla maggior parte dell'illuminazio-
ne provvedevano lampade a olio, ma un terminale d'informazioni per il
pubblico era stato installato proprio all'entrata, e la musica, ovviamente re-
gistrata, riempiva la stanza. Sette o otto persone sedevano ai tavoli sparsi
qua e la, qualcuno mangiava, alcuni bevevano; a un tavolo vicino al cami-
netto due uomini conversavano ad alta voce, e a tratti esplodevano in
scoppi di risate. Nessuno gli prestò attenzione quando entrò.
Si avvicinò al bancone di legno massiccio e ordinò un piatto caldo e un
boccale della bevanda del posto, una bevanda al malto, di sapore amaro ma
non spiacevole, servita a temperatura ambiente; la portò con sé a un tavolo
libero e attese di cenare.
«Trascorrerete la notte qui, allora, signore?» gli domandò il locandiere
quando gli portò il piatto, pieno di cibo fumante. Guardandolo più da vici-
no per la prima volta, Brendan si accorse che era appena un ragazzo, di
non più di diciannove anni. Per un attimo fu sorpreso nel vedere qualcuno
così giovane fare un lavoro di quel tipo, ma i terrestri non usavano il pro-
lungamento della vita ed era abitudine comune cominciare a lavorare pre-
sto.
«Oh, sì. Sì, vorrei una stanza per la notte.»
«Molto bene, signore.» Il ragazzo si girò verso una donna che stava pu-
lendo un tavolo dalla parte opposta della stanza, e fece un fischio per supe-
rare le chiacchiere e richiamare la sua attenzione. Poi sollevò due dita.
«Sarah, prepara la camera due per il viaggiatore» urlò prima di girarsi di
nuovo verso il suo avventore. «Mia moglie le farà trovare la camera pronta
per quando avrà finito di mangiare. Un'altra birra?»
«No. Grazie.» Il ragazzo, anzi il giovane uomo si disse Brendan, fece un
cenno e ritornò al suo posto dietro il bancone. Brendan finì il suo pasto in-
disturbato, pagò per quello e per la stanza, e andò a dormire.
Era addirittura troppo stanco per togliersi gli stivali, e si lasciò cadere
sul letto completamente vestito. Fece fatica a prendere sonno, perché ave-
va preso l'abitudine di tirare tardi, così rimase sdraiato a guardare fuori
dall'unica finestra della stanza. Si era alzata la luna, e l'ombra di un pallido
raggio illuminava il pavimento.
Ho fatto ciò che mi hai chiesto di fare, pensò. Non ho detto nulla, non
gli ho detto nulla. Gli faceva un po' male la testa, anche se non sarebbe sta-
to in grado di dire se il dolore gli era causato dagli impianti che erano stati
disattivati o dalla birra che aveva bevuto.
Perché? Era così importante vedere iniziare quel progetto che hai dovu-
to sacrificare in questo modo la tua vita? Brendan fece un pesante sospiro
agitandosi nel piccolo letto. Si abbandonò alla stanchezza, con gli occhi
che gli bruciavano e poi aggiunse silenziosamente: E la mia?

Come era accaduto già numerose volte dalla morte del padre, avvenuta
circa tre settimane prima, Javas era in riunione con i due amici e consiglie-
ri più cari all'Imperatore, in quello che era stato lo studio di suo padre. C'e-
ra molto da fare, ora che il Consiglio Planetario aveva approvato, con un
margine schiacciante di voti, il progetto del dottor Montgarde, e Javas si
era già consultato numerose volte con Fain e Bomeer. Il comandante, a-
vendo realizzato i vantaggi che il progetto offriva alla Flotta Imperiale, si
era dimostrato uno dei sostenitori più fedeli. E anche Bomeer, pur conti-
nuando a sottolineare ogni pecca o aspetto negativo del piano, sembrava
che alla fine avesse ammorbidito la sua linea d'opposizione.
Il comandante Fain si avvicinò a passi lenti verso lo schermo. «Pallatin è
stato una spina nel fianco per l'Impero fin dalla sua colonizzazione tre se-
coli fa» disse Fain con voce roca per il troppo parlare. «Hanno concluso
solo qualche piccolo trattato con gli altri Mondi, e ancor meno scambi, e a
parte la rappresentanza minima che hanno nel Consiglio Planetario, prefe-
riscono vivere senza assistenza imperiale. Non sembrano affatto preoccu-
pati del loro corredo genetico che va alla deriva, e non dimostrano alcun
interesse nel preservare una linea di base genetica. Non mi sorprende che
Pallatin sia stato tra quelli dei Cento Mondi che hanno rifiutato apertamen-
te di cooperare.»
Fain attraversò la stanza, riprendendo il suo posto vicino a Bomeer.
«Sfortunatamente» continuò «possiedono più materie prime necessarie alla
costruzione delle navi di qualsiasi altro Mondo. Senza contare che le loro
attrezzature tecniche sono le più precise dell'Impero.»
«Ma loro sono membri dell'Impero, anche se solo formalmente» conclu-
se al suo posto Javas. «E in quanto tali, non possono, anzi non devono ri-
fiutare, in nessun caso, le necessità dell'Impero.»
Fain alzò le spalle. Il capo delle Forze Militari Imperiali aveva sostenuto
per tutta la sua carriera che con i Mondi di Frontiera era necessaria mag-
giore fermezza, e che se anche non esultava all'eventualità di usare la for-
za, in caso di bisogno, era pronto a utilizzarla.
«Abbiamo bisogno della cooperazione di Pallatin in questo progetto»
disse Javas con fermezza. «Fa' pure tutto ciò che è necessario, comandan-
te.»
Fain fece un cenno di assenso; la leggera punta di soddisfazione eviden-
te nel suo atteggiamento fece capire a Javas che aveva gradito la sua deci-
sione.
Questo incontro, come molti altri, durava da ore. Javas si sfregò il viso
con le mani, cercando di rianimarsi, e una sensazione improvvisa di fru-
strazione lo travolse, costringendolo a interrompere la discussione. Dopo
essere rimasto a occhi chiusi per scacciare la stanchezza, li riaprì e vagò
con lo sguardo per lo studio, fermandosi sullo schermo, poi sulla lavora-
zione artigianale dell'armadietto in legno, e infine sulla massiccia scrivania
sempre di legno su cui erano poggiate le sue dita. Aveva progettato perso-
nalmente la stanza e tutto ciò che conteneva per l'Imperatore, l'aveva equi-
paggiata con tutti i lussi, con ogni comodità che il padre potesse desidera-
re. Javas era rimasto sorpreso, quando con riluttanza aveva preso per sé lo
studio, di fronte all'estrema comodità di quella stanza, che gli si "adattava"
perfettamente. Era una sensazione che lo disturbava.
«Perché lo ha fatto? Perché ha perdonato il suo assassino?» Esplose Ja-
vas colpendo con il pugno la scrivania, e facendo sobbalzare i due uomini
che gli sedevano di fronte. Poi si piegò in avanti e si prese il mento tra le
dita aguzze, guardando fisso negli occhi i due. «Tu lo conoscevi meglio di
chiunque altro, Fain. Perché?»
«Non posso rispondere a questa domanda, Sire.» Fain era rigidamente
seduto sulla sua sedia, un po' distratto, e rispose allo sguardo del nuovo
Imperatore. C'era forza in quegli occhi, ma c'era anche dolore e frustrazio-
ne.
«Nemmeno io posso rispondere» aggiunse Bomeer intono sommesso.
Fece scorrere una mano tra i folti capelli in modo più irrequieto del solito.
«Sire, nessuno avrebbe potuto accorgersi dell'enormità della minaccia che
l'infermiere personale di vostro padre rappresentava per la sua salute. Nes-
suno.» Abbassò gli occhi verso il pavimento mentre sceglieva le parole,
poi guardò Javas seriamente, ma con attenzione. «Sire ho servito vostro
padre per tutta la mia vita, e se anche qualche volta mi sono opposto a lui,
l'ho sempre amato come un fratello. Gli ho parlato onestamente di ciò che
pensavo su ogni argomento, anche quando le mie posizioni erano in con-
trasto con le sue, come è accaduto per il progetto. È vero che la brutalità
delle mie osservazioni qualche volta l'ha fatto arrabbiare, ma i miei consi-
gli sono sempre stati considerati degni d'importanza. Posso permettermi di
essere così sfrontato da parlare brutalmente?»
Fain si mosse un po' sulla sedia, inarcando quasi impercettibilmente il
sopracciglio.
«Se c'è una cosa che ho imparato da mio padre, è quella di cercare i con-
sigli degli altri e di prenderli in considerazione. Parla liberamente.»
Bomeer si schiarì la gola, e senza ulteriori esitazioni, disse: «Sire, vi sta-
te rimproverando per la morte di vostro padre».
«È così, Accademico?» Javas sentiva la rabbia crescergli nella voce. «E
voi, comandante? Siete d'accordo?»
La risposta di Fain fu immediata. «Sì.» Si fermò, poi, quasi come se vo-
lesse valutare ulteriormente il suo nuovo Imperatore prima di continuare;
infine disse. «E posso parlare anch'io con franchezza, Sire?»
Javas annuì.
«Il partito d'opposizione è stato battuto, e la stessa morte di vostro padre
farà confluire i Cento Mondi intorno al progetto. C'è molto da fare, ma è
mia opinione ponderata che qualsiasi preoccupazione relativa alla sua mor-
te potrà servire soltanto a tenerci lontani dal raggiungere le mete che vo-
stro padre si prefiggeva.»
Javas aprì la bocca per ribattere a quell'affermazione, ma invece annuì
lentamente comprendendo che i due uomini condividevano il suo senso di
colpa. Osservando prima uno poi l'altro, si accorse che tutti e due sembra-
vano stanchi tanto quanto lo era lui, ed era certo che un'occhiata allo spec-
chio avrebbe mostrato che aveva intorno agli occhi gli stessi cerchi che
vedeva intorno a quelli dei suoi compagni. Si allontanò dalla scrivania e si
avvicinò silenziosamente allo schermo situato sulla parete opposta. Con le
braccia intorno al petto, guardò pigramente la rappresentazione grafica del
sistema di Pallatin, di cui Fain aveva discusso.
Hanno ragione, pensò, rimanendo davanti allo schermo. Stiamo accu-
sando noi stessi. Sospirò profondamente, e ritornò alla scrivania.
«Vi ringrazio per la vostra onestà» disse allora l'Imperatore dei Cento
Mondi.
«Comandante, quando sarai pronto a partire per Pallatin?»

Erano distesi l'uno accanto all'altro, con le gambe ancora avvolte nelle
lenzuola di raso dell'enorme letto, e guardavano tranquillamente i rami de-
gli alberi che ondeggiavano dolcemente sopra di loro. Ogni tanto i rami si
spostavano abbastanza da rivelare a Javas una manciata di stelle che gli era
sconosciuta quanto quella che si vedeva dalla Luna. Si appoggiò sui gomiti
e sorrise di come l'effetto della foresta olografica fosse aumentato dal pro-
fumo delle foglie e dei fiori, e di come il canto di un uccello notturno, in
lontananza, sembrasse un richiamo rivolto alle lune gemelle che si stavano
alzando in quel momento tra un radura di alberi. Ritornò a guardarla, e ri-
mase incantato dal modo in cui i capelli si drappeggiavano intorno alle sue
spalle bianche, e di come il petto le si sollevava e si riabbassava mentre re-
spirava. Lei spostò il viso per guardare le lune che si alzavano, così lui non
fu più in grado di decifrare la sua espressione. Avevano fatto l'amore in
modo appassionato, pur sapendo che lei sarebbe partita.
Nonostante l'impressione di spazio aperto suggerita dalla foresta ologra-
fica, la stanza era diventata calda, e quando Javas accarezzò il morbido
ventre piatto di Adela con la mano sinistra, la punta delle dita gli scivolò
leggermente su un sottile rivolo di sudore. Corrugò la fronte concentrando-
si, e mentalmente ordinò un abbassamento della temperatura di qualche
grado. Con un ulteriore sforzo di concentrazione si produsse un alito d'aria,
che avvolse la camera da letto quasi come una brezza, dando l'impressione
di arrivare dalla "foresta" più che dal sistema di raffreddamento della stan-
za. Anche se ancora non si era abituato all'integratore, e non aveva ancora
imparato a usarlo con la stessa naturale facilità che aveva mostrato suo pa-
dre, tuttavia stava già cominciando ad apprezzare certe raffinate possibilità
che offriva.
La respirazione di Adela si era normalizzata, e il suo respiro era quasi
impercettibile, quando prese la mano di lui tra le sue e se la portò alle lab-
bra, coprendolo poi con le lenzuola che si erano ammucchiate nel mezzo.
Strinse Javas a sé e lo avvolse in un lungo bacio appassionato, ma prima
che lui potesse ricambiarlo, si allontanò spostando le gambe dal proprio la-
to del letto. Senza una parola si alzò, dirigendosi verso un piccolo sofà che
delimitava la stanza, e si fermò lì di spalle, in controluce rispetto alla luna,
ad ammirare la vista che la circondava.
«Grazie» disse teneramente «per questa visione del mio pianeta, mi
mancava talmente.»
«L'avevo fatta programmare un po' di tempo fa» rispose lui, rimanendo
appoggiato su un gomito. «Volevo farti un regalo.» È così esile, pensò,
guardando la luna che attraverso gli alberi andava a riflettersi sulle curve
aggraziate del suo corpo. «Anche se non l'avevo considerato un regalo di
addio.»
Naturalmente era giusto che lei partisse. Se c'era qualcuno che poteva
convincere quelli di Pallatin della necessità della loro cooperazione, era
proprio Adela. Non era stata forse lei, dopo tutto, a convincere anche lo
stesso Javas? Almeno, se alla fine Fain fosse stato costretto a usare la for-
za, non sarebbe certo accaduto perché erano venute a mancare le sue capa-
cità di persuasione. Poi c'era il fattore tempo. Tutti e due avevano dovuto
fare i conti con il fatto che lei avrebbe seguito il progetto fino alla sua con-
clusione, e questo richiedeva lunghi periodi di sonno criogeno o di viaggio
alla velocità della luce, se non tutte e due le cose. Il viaggio sarebbe durato
circa quarant'anni di tempo reale, anche se lei sarebbe invecchiata sola-
mente di qualche anno. Scosse la testa al pensiero di quanto sarebbe stato
vecchio al suo ritorno, adesso che il ringiovanimento gli era proibito.
Un uccello le svolazzò talmente vicino da farla sobbalzare, ma subito
dopo scoppiò a ridere pensando a quanto era stata sciocca a farsi prendere
in giro da qualcosa che non esisteva veramente. Amo i tuoi modi da bam-
bina, e come le cose semplici ti rendano piena di gioia, pensò lui, quando
la risata gli giunse alle orecchie. Sto per perdere queste cose. Quel pensie-
ro gli fece venire in mente un'altra ragione, molto più importante, per cui
non aveva ostacolato la decisione di partire di Adela: la sua sicurezza per-
sonale. Fino a quando non avesse saputo tutta la verità sulla morte del pa-
dre, preferiva che lei si trovasse da qualche altra parte.
Ci fu un lieve cicalio, così leggero che non l'avrebbero udito se non ci
fosse stata tutta quella tranquillità intorno a loro.
«Capito.» Javas si infilò qualcosa addosso e poi si avvicinò ad Adela,
che non si era mossa dal sofà. Rimanendo alle sue spalle le circondò la vita
con le forti braccia e la baciò sul collo.
«E ora di andare, vero?» mormorò lei.
«Sì.»
Senza parlare Adela accese la luce, prese una tunica lunga fino al ginoc-
chio e se la infilò, sistemandosela addosso con l'aiuto delle mani, prima di
stringerla all'altezza della vita.
«Devo andare.»
Javas annuì, e dopo avere dato un ultimo sguardo alla tranquilla foresta
grisiana, si rivolse al sistema computerizzato della casa. «Cancella e ripri-
stina.» Istantaneamente la scena scomparve rimpiazzata dalla sua camera
da letto.
Avrebbe voluto trattenerla, chiederle, anzi ordinarle di restare, ma sape-
va che era meglio non farlo. Invece le prese il viso tra le mani e la baciò
ancora una volta.
«Addio» disse semplicemente.
Adela sorrise e avvicinandosi al suo viso gli carezzò le guance. Si solle-
vò sulla punta dei piedi e lo baciò, poi si girò e uscì tranquillamente dalla
camera da letto.
E anche dalla sua vita, per i successivi quarant'anni.

Titolo originale:
He Who Must Die
Analog SF/Fact, January 1992

LA GEROCRAZIA
di John Brunner e Er*c Fr*nk R*ss*ll

Sul pianeta Vorgrim


anche la matematica
è un'opinione!

Il grosso poliziotto sembrava a disagio, perché quello che stava succe-


dendo era molto distante da ogni sua esperienza precedente. Si mise più
comodo sullo sgabello, appoggiò una penna sopra quello che doveva esse-
re senza alcun dubbio un modulo per il verbale dell'incidente, e disse qual-
cosa di incomprensibile.
«Vuole sapere il tuo nome, la tua età e la tua professione» gli sussurrò
Hannah Lodge. Lei era avvantaggiata dal computer-interprete montato su
uno degli eleganti orecchini nero e oro che indossava.
«Jerry Faulkner» sussurrò con tono autorevole. «Cinquant'anni. Pilota
spaziale.»
Lei tradusse.
Il pianeta si chiamava Vorgrim. Secondo le informazioni fornite dal di-
spositivo di Hannah, era stato colonizzato durante il declino dell'Impero
Euterpano, e da allora aveva perso quasi tutto il suo patrimonio tecnologi-
co, la lingua si era deformata fino al punto di ingarbugliarsi e la società si
era frammentata in innumerevoli microregni e gerocrazie. Fino ad allora
non erano ancora riusciti a scoprire quale era stato l'errore che avevano
commesso.
Il poliziotto fece le stesse domande a Hannah, e lei presumibilmente gli
fornì i dati che la riguardavano. Jerry ascoltava, cercando di cogliere gli
equivalenti locali di operatore interstellare e di Oh... trentanove anni, ma
quei suoni gli erano assolutamente sconosciuti.
Ci fu un'altra domanda e Jerry assunse un'espressione interrogativa.
Hannah scrollò le spalle.
«Mi ha chiesto in che cosa commercio.»
«Mmmm, questa sì che è una bella domanda!» Jerry si mise a esaminare
le pareti di pietra grezza e le rudimentali panche di legno della stazione di
polizia, dove erano stati accompagnati da un gruppo di agricoltori piuttosto
nervosi. Se avessero posseduto delle armi da fuoco, sarebbero stati senza
alcun dubbio persone dal grilletto facile. Fortunatamente le loro armi con-
sistevano soltanto in una mezza dozzina di attrezzi agricoli. Utensili, si di-
ce così? Proseguì: «Non credo che abbiano nemmeno mai avuto delle lenti
di ingrandimento, figuriamoci un microscopio come quelli che si usano per
vedere un microcongegno. Cosa pensi di dirgli?»
«Dovrò almeno dirgli delle attrezzature mediche e industriali ultraminia-
turizzate.»
Hannah provò a tradurre. L'effetto fu sconvolgente. Il poliziotto rimase a
bocca aperta, con la mascella ciondolante.
Da quel momento in poi tutto si fece difficile e faticoso come una cam-
minata in salita.
Quando alla fine si trovarono a passare la notte chiusi in una gelida cel-
la, con delle mensole di due metri che facevano da letti e una ciotola a te-
sta di una zuppa salatissima per rifocillarsi, Jerry si chiese perché il com-
puter-interprete di Hannah non l'avesse messa in condizione di capire che
cosa ne sarebbe stato di loro.
«Domattina ci porteranno - ti riferisco ciò che mi ha detto parola per pa-
rola - davanti agli onorabili custodi della conoscenza perfetta.»
«E chi sono?»
«E chi lo sa? Un qualche tipo di alti prelati forse.» Hannah svuotò la sua
ciotola, la mise da parte e prese la coperta che costituiva presumibilmente
l'intera biancheria per il letto. Tirandone un lembo verso di sé, si ritrovò
con dito infilato in uno dei numerosi buchi.
«Almeno è ben ventilato» sottolineò ironicamente.
Jerry la osservò, non per la prima volta, ammirandone i capelli rosso
fuoco, gli occhi verde smeraldo, e la carnagione chiara e lentigginosa, e
desiderò, nemmeno questo per la prima volta, di averla incontrata in un
contesto diverso da quello in cui lei era il passeggero e lui il pilota della
navetta charter. In ogni modo, non era certo il desiderio che li avrebbe tira-
ti fuori da quel pantano. Disse bruscamente: «Non ho mai incontrato un al-
to prelato, cosa credi che vogliano da noi?»
«Scoprire se siamo esseri razionali.»
La mascella di Jerry ciondolò quasi quanto quella del poliziotto. «Ma ar-
rivare con una nave stellare per loro non è una prova sufficiente?» aggiun-
se con un moto di onestà. «Non che il Fizgig sia una nave stellare molto
imponente, ma deve essere sembrato piuttosto spettacolare durante la di-
scesa.»
Hannah aspettò ostentatamente che finisse, poi disse: «L'amico poliziot-
to non è un gran chiacchierone, ma ha cercato di comunicarmi che sare-
mo... be'... esaminati.»
Jerry si grattò il mento irsuto, domandandosi se ci fossero dei rasoi su
Vorgrim. Gli abitanti del posto che avevano incontrato fino a quel momen-
to avevano tutti delle barbe trascurate. «Per capire se siamo all'altezza de-
gli... come li hai definiti? Ah, gli onorabili custodi della conoscenza perfet-
ta; capisco. E quale sarebbe la conoscenza, quella che gli onorabili custo-
discono?»
«La geometria.»
La fissò sbigottito. «Sei sicura che il tuo orecchino non sia rimasto dan-
neggiato durante la discesa?»
«Questo è il messaggio che ricevo.»
«Be', se hanno intenzione di esaminarci su questo argomento, dovremmo
riuscire a passare l'esame senza molti problemi. Mmm... l'area del quadrato
costruito sull'ipotenusa è uguale e opposta all'area del quadrato costruito
sui cateteri. Da un punto dato si possono tracciare un numero infinito di
parallele finché non fai un buco nel foglio. I quadricicli hanno bisogno di
quattro persone che li pedalino...»
«Su, piantala» disse Hannah con tono annoiato, sdraiandosi e sisteman-
dosi la coperta meglio che poteva. «Cerca di ricordarti che ci troviamo su
un pianeta che è rimasto indietro nel tempo, e che abbiamo bisogno del-
l'aiuto dei suoi abitanti se vogliamo andarcene di qui. È meglio che comin-
ci a comportarti in modo educato, almeno.»
«Credo che tu abbia ragione. D'accordo. Buona notte.»
«Buona notte.»

Prima dell'alba si fece vivo un altro poliziotto. Salutò il suo collega in un


modo curioso, alzando l'indice della mano sinistra. Quello rispose al saluto
alzando l'indice destro. Dopo avere fatto una firma di ricevuta per Hannah
e per Jerry, quasi come se fossero stati una consegna di fertilizzante, il
nuovo arrivato li raggiunse su un carretto sobbalzante, tirato da quattro ra-
gazzi sporchi e scalzi. In risposta all'espressione di incredulità di Jerry,
Hannah si rivolse al poliziotto con un'unica parola. La prima volta, lui
scosse la testa ma al secondo tentativo ottenne un'intera frase in risposta.
«Sono schiavi» spiegò a Jerry. «Sospettavo che lo fossero.»
«Schiavi!» esclamò Jerry indignato. «Come osano!»
«Vengono ritenuti privi di anima.»
«Perché?»
«Perché non capiscono i principi della geometria.»
«Vuoi dire che sei noi non superiamo questo esame, o interrogatorio o
quello che è...»
A quel punto, in un tono che non richiedeva particolari interpretazioni, il
poliziotto gli ordinò di chiudere la bocca, e trascorsero il resto del viaggio
immersi in un silenzio deprimente.

Dopo poco più di un'ora raggiunsero una città piuttosto grande, cinta da
mura in stile medievale. Furono lasciati passare attraverso dei portoni di
legno massiccio sorvegliati da sentinelle assonnate, evidentemente del tur-
no di notte, che a loro volta si produssero nel rituale del saluto con le dita.
Dall'altra parte delle mura si apriva un dedalo di strade strette, con un
acuto odore di fumo, come se gli abitanti avessero acceso dei fuochi per
proteggersi dal nuovo giorno. C'era già un po' di gente in giro; alcune per-
sone, dal volto arcigno, coperte da mantelli grigiastri con il cappuccio, lan-
ciarono delle occhiate prive di curiosità agli stranieri e poi ripresero la
propria strada.
Tutti gli edifici avevano tetti bassi, eccetto un'alta torre quadrata nel cen-
tro della città, che si rivelò essere la loro destinazione. Era una torre d'a-
spetto curioso, con la cima tagliata a quarantacinque gradi. La parte più al-
ta terminava parallela a uno dei lati, mentre quella più bassa sporgeva al-
l'esterno. La sua forma aveva un aspetto familiare, ma nonostante facesse
del suo meglio, Jerry non riuscì a identificarla.
Il poliziotto disse qualcosa, e Hannah tradusse.
«Dice che dovremmo ritenerci onorati. I custodi non hanno l'abitudine di
alzarsi così presto al mattino, eppure sono già tutti in piedi ad aspettarci.»
«Cattive notizie, allora» sospirò Jerry.
«Che vuoi dire?»
«Ti piacciono le persone che ti tirano giù dal letto prima del tempo?»
«Capisco.»

C'erano nove custodi, ma solo tre di loro sembravano contare qualcosa,


gli altri erano semplici attendenti. Sulla sinistra c'era un vecchio ossuto ve-
stito di giallo, con un'espressione torva stampata sul viso. Sulla destra era
seduto un corpulento uomo di mezza età vestito di blu; il suo sguardo era
bonario ma leggermente imbarazzato, come chi avesse appena capito di
aver sbagliato festa e di doversi invece trovare nella casa accanto.
Al centro, in marrone, c'era un uomo alto e sottile d'aspetto giovanile,
che per tutta la durata della successiva procedura, continuò a lanciare delle
occhiate a quello vestito di giallo, in cerca di approvazione. Non era diffi-
cile dedurne che credeva di essere sulla buona strada per ottenere il lavoro
del Giallo, qualsiasi esso fosse.
Fin dall'inizio fu soprattutto il Marrone a parlare, interrompendosi spes-
so per il rituale delle dita. Hannah, volente o nolente, dovette farsi carico
di rispondere. Jerry nel frattempo si mordicchiava il labbro inferiore, e fa-
ceva del suo meglio per dimostrarsi onorato del favore che gli veniva con-
cesso a quell'ora del mattino.
Ogni tanto Hannah traduceva per lui. «Fino a ora va tutto bene» mormo-
rò. «Non sembrano intenzionati a decretare che andiamo bene solo come
schiavi. Non ancora, almeno. Per il momento vogliono sapere perché ci
troviamo qui. Dovrai rispondere tu a questa domanda.»
«Non vogliono discutere di geometria?»
«Non vi hanno fatto alcun riferimento.»
«Questo è strano, non trovi? Oh, va bene, ci proverò.»
Le cose procedevano con una lentezza estenuante. La lingua di Vorgrim
non era memorizzata nel dispositivo di Hannah, e il traduttore fu costretto
a estrapolarla usando leggi di evoluzione linguistica, che in quel caso par-
ticolare sembravano avere molte eccezioni. Per giunta gli abitanti del luo-
go avevano anche trascurato il proprio sviluppo tecnologico. Anche Jerry
aveva qualche problema con i computer.
Comunque cercò di comunicare la cosa fondamentale, ossia che non a-
vevano nessuna intenzione di commettere una violazione. Il Fizgig era ri-
masto invischiato in un flusso di neutrini emesso da una supernova. Ne e-
rano risultati alterati i dati di navigazione essenziali, e si era innescata una
procedura d'atterraggio di emergenza. Per tutta la galassia c'erano radiofari
per quel tipo di problema, da cui si potevano scaricare i dati sostitutivi, e
fare alcuni milioni di copie di scorta, da utilizzare in caso di deterioramen-
to. Questo era ciò che avevano intenzione di fare, per poi riprendere la
propria strada, in modo da arrivare in tempo alla Fiera Solstiziale di Wyta-
bit, dove Hannah sperava di vendere diversi bilioni dei suoi microcongegni
anticipando la concorrenza.
«Vi saremo molto grati per il vostro aiuto» concluse ottimisticamente.
«Per fare cosa?»
La domanda era stata posta dall'uomo in blu. Hannah guardò Jerry e si
accigliò. «Ha ragione» disse. «Hai dimenticato questa parte.»
Jerry avrebbe voluto ribattere, ma non poteva. Maledicendo tutte le don-
ne che avevano sempre ragione, disse nel modo più mite possibile. «Il ra-
diofaro più vicino è a Chlorosis Kappa. Sfortunatamente in questa stagione
si trova al di sotto dell'orizzonte da cui la mia nave ha cominciato la disce-
sa, non di molto, ma abbastanza. Abbiamo bisogno di portare un ricevitore
verso sud, a circa duecento chilometri.
«Lei non può volare così lontano con la sua meravigliosa macchina?»
Disse il Marrone sarcasticamente.
Jerry represse i suoi impulsi più bassi. «Purtroppo, una volta che la pro-
cedura per l'atterraggio di emergenza è stata attivata, non è più permesso
decollare con dati di navigazione incompleti.»
Il Giallo si piegò in avanti e parlò con voce sottile e stridula. Hannah
tradusse, con un'espressione preoccupata.
«Ci rendiamo conto di ciò che stiamo chiedendo? Per farlo, dovrebbero
mandare una spedizione annata in un territorio ostile!»
Il Marrone diede un ordine secco. Una delle tante guardie, che sembrava
non avere nient'altro di meglio da fare che starsene lì con aria impassibile,
gli portò una carta geografica disegnata a mano. Con l'aiuto di questa, il
Marrone chiarì agli stranieri che il paese in cui si trovavano, Yubble, finiva
esattamente dove si trovava il Fizgig, e che il paese vicino, Gleege, non
gradiva i visitatori, soprattutto se provenienti da Yubble. Probabilmente
c'era stata una guerra che non si era conclusa in modo decisivo, e che tutte
e due le parti speravano di riprendere non appena si fossero sentite sicure
di vincere.
Sembrava che le cose stessero così. L'alternativa era ovvia: avrebbero
dovuto trovare qualche modo per guadagnarsi da vivere, finché la librazio-
ne di Vorgrim avesse riportato Chlorosis Kappa in una posizione visibile
da Yubble. Cosa per cui ci sarebbero voluti dei mesi. E su un pianeta così
decadente, di sicuro c'erano poche opportunità di lavoro per una commer-
ciante di microcongegni, e tanto meno per un pilota spaziale. Una depres-
sione quasi tangibile piombò su di loro.
Ma a dissiparla, se non proprio a disperderla completamente, furono
proprio quelli da cui meno ce lo si sarebbe aspettato. Il brontolone vestito
di giallo disse qualcosa, e il Marrone gli fece eco entusiasta. Tutti i custodi
annuirono più o meno vigorosamente. Hannah tradusse.
«Dice che è un'opportunità troppo preziosa per essere lasciata cadere.
Così sono disposti a organizzare una spedizione, a una condizione.»
Il cuore di Jerry fece un balzo d'ottimismo. «E cioè?»
«Dobbiamo accettare di portare via con noi, quando partiremo, dei mis-
sionari, perché la conoscenza perfetta sia condivisa con altri mondi.»
L'ottimismo di Jerry crollò. «Non è possibile. Il Fizgig può trasportare
solo due persone.»
Quest'affermazione provocò una esclamazione di incredulità. E Jerry ne
capiva la ragione. La sua piccola nave doveva sembrare immensa a gente
che non conosceva mezzi di trasporto più avanzati di un carretto trascinato
da schiavi. In ogni modo, le cose stavano così, e quindi l'offerta della spe-
dizione fu revocata.
«Allora che cosa facciamo adesso?» domandò a Hannah causticamente.
«Cerchiamo qualche giornale locale in cui ci siano delle offerte di lavo-
ro?»
Ma il suo spirito crollò immediatamente. Perché il Marrone stava facen-
do una proposta che gli accattivò subito la benevolenza sia del Blu che del
Giallo.
«Se non vogliono portare con sé i nostri missionari, allora saranno uti-
lizzati loro stessi come missionari. Educhiamoli con la bontà dei nostri
cuori all'unica grande ineguagliabile verità. Dicono che la stella che devo-
no vedere, sarà visibile tra sei mesi. Possono occupare questo periodo di
tempo in modo produttivo. E se davvero sono delle creature razionali, cosa
di cui io dubito, non potranno non lasciarsi persuadere della trascendente
verità della nostra geometria.»
Il Giallo annuì pensierosamente. «È una proposta eccellente. Non sei
d'accordo?» disse rivolgendosi al Blu.
«Oh, sì! Stupendo, che idea meravigliosa. Farò io stesso del mio meglio
per essere all'altezza di questa responsabilità!» disse il Blu traboccante
d'allegria.
Jerry notò che il Marrone aveva in faccia un sorriso di scherno.
«Perché non cominciamo subito?» propose. «La giornata scolastica sta
quasi per iniziare. Mettiamoli in una delle classi inferiori, insieme ai bam-
bini più piccoli, perché sono nati nell'ignoranza laggiù nelle tenebre e sal-
varli sarà un compito lungo e faticoso.»
Quella frase già echeggiava i vari "Te l'avevo detto io" che sarebbero
seguiti.
Il Blu, che non sembrava molto entusiasta, disse: «Benissimo. Che le
guardie li conducano nella classe del Maestro Thull, immediatamente».

«Mi sono trovato in situazioni imbarazzanti altre volte» disse Jerry a


denti stretti. «Ma questa è il colmo.»
Con somma difficoltà, e accompagnati dalle risatine di circa una dozzina
di bambini di otto anni, probabilmente di ambedue i sessi ma con indosso
vestiti identici che ne dissimulavano le differenze, lui e Hannah si infilaro-
no in due banchi uguali a quelli degli altri. La scuola era all'aperto sotto un
albero. I banchi erano rivolti verso una lavagna. Ma non si vedeva nessuno
che potesse essere Thull.
«Quello che mi dà fastidio» disse Jerry arrabbiato «è che non ci hanno
nemmeno fatto un esame per capire ciò che già sappiamo. Il tuo compu-
ter...»
Ci fu un rumore di scompiglio. I bambini si alzarono in piedi e dissero in
coro qualcosa che poteva significare soltanto «Buon giorno Maestro!»
Hannah e Jerry si alzarono in ritardo rispetto agli altri e si risedettero all'ar-
rivo del maestro. Era giovane, con capelli castani e di bell'aspetto, vestito
di grigio. Con lui c'era una ragazza con la pelle olivastra e i capelli neri, tra
i diciotto e i vent'anni, che indossava una giacca rosso scuro e un paio di
pantaloni: un abbigliamento completamente diverso da tutti quelli che
Hannah e Jerry avevano visto da quando erano atterrati. Pensarono che an-
che lei fosse un'insegnante, dato che era palesemente in confidenza, per
non dire in intimità, con Thull, ma con loro immensa sorpresa anche lei
andò a sedersi in uno dei banchi di misura ridotta.
Poi li fissò con franca curiosità, mentre Thull andava a informarsi dalle
guardie su chi fossero e su che cosa dovesse fare con loro.
Thull assunse un'espressione infastidita, si passò le mani tra i capelli e
rivolse una domanda ai suoi nuovi "scolari". Hannah rispose e lui sembrò
appena un po' tranquillizzato.
«Ha detto...» iniziò Hannah. Jerry la interruppe.
«Voleva sapere come è possibile che ci insegni qualcosa se non siamo in
grado di capire ciò che dice, allora tu l'hai tranquillizzato. Giusto?»
«Molto bene!» esclamò lei con stupefatta ammirazione. «E poi?»
«Ha detto qualcos'altro?»
«In realtà sì. Metterci alla pari significherà per la classe rimanere indie-
tro con il programma stabilito, ma dal momento che è un ordine dei custo-
di, deve eseguirlo e sperare che sia considerato un ripasso. Non lo avevi
capito?»
Jerry non rispose. Stava osservando con attenzione ciò che Thull pren-
deva da una cassetta poggiata accanto alla lavagna. Quella scuola, a giudi-
care dalle apparenze, non vantava alcun sussidio didattico moderno, eccet-
to la lavagna e i gessetti. Quelli che stava sistemando uno accanto all'altro
erano dei pannelli incisi, su cui c'erano dei simboli. Fu immediatamente
chiaro che dovevano essere copiati alla perfezione, e imparati a memoria.
Jerry e Hannah scambiandosi delle occhiate perplesse, cercarono di capi-
re il significato del primo pannello. Era costituito da fasci di linee, alcune
intersecate, e altre semplicemente unite, e da un assortimento di punti, trat-
tini e cerchietti. Davanti a ciascun simbolo c'era qualcosa di più familiare:
dei deformati ma riconoscibili numeri.
Appoggiando quel cartello in alto, in un punto da cui poteva essere visto,
Thull gliene affiancò un altro, che mostrava una selezione dei simboli, di-
sposti su quattro file. Jerry provò il desiderio irresistibile di avere un'intui-
zione.
«Non si aspetta che noi impariamo velocemente come Fee» disse Han-
nah a bassa voce (Fee era evidentemente la ragazza vestita di rosso). «Fee
adesso ci darà una dimostrazione di quanto ha imparato nel breve periodo
che ha trascorso qui.»
Mostrando chiaramente di apprezzare quella lusinga, Fee puntualmente
lesse, o forse recitò, una breve frase.
«La strada verso la verità è quella dello studio costante» tradusse Han-
nah con l'aiuto degli orecchini. «Lo stesso vale per la scrittura! Eppure so-
no stati talmente insistenti sul fatto che avremmo studiato geometria... Oh,
sì! Naturalmente! Non la geometria, anche se originariamente la parola è la
stessa. Gematria!»
Era quasi saltata via dalla sedia per l'eccitazione, ed era una vera pro-
dezza considerando come le aderiva strettamente ai fianchi.
«Che diavolo è?» domandò Jerry.
«È un sistema mistico che assegna valori numerici alle lettere, così, oltre
al significato comune, ciascuna parola ha un valore nascosto, che si sup-
pone la colleghi ad altre parole, la cui somma di lettere è la stessa.»
«Vuoi dire che... ti sei eccitata perché due parole hanno tutte e due come
totale novantanove, e...»
«Non proprio. Si sommano i nove e si ottiene diciotto, poi si somma l'u-
no con l'otto e si ottiene di nuovo il nove, che è uno speciale numero magi-
co, e che si suppone implichi alcune connessioni fondamentali tra tutte le
parole con somma nove. Ci sono persone che hanno trascorso tutta la vita
cercando questo tipo di connessioni. Sono stati scritti dei trattati sull'argo-
mento, e non è un'esagerazione affermare che sono state combattute delle
guerre a causa di interpretazioni contrastanti dei testi sacri.»
Jerry aveva gli occhi sbarrati dall'incredulità. «Sapevo che ai vecchi
tempi la gente era pazza» disse. «Ma non avevo capito che fossero pazzi
fino a questo punto. Credi che pensino di tenere anche l'ottava base?»
«Fai attenzione» lo avvertì Hannah. «Queste persone lo considerano
molto seriamente. Oh, sono dispiaciuta per questo» aggiunse rivolgendosi
a Thull, dimenticando che non stava usando la lingua giusta. Alcuni bam-
bini ridacchiarono, poi, vedendo il maestro accigliato, assunsero una e-
spressione angelica.
Aiutata dal computer, Hannah ritradusse le sue scuse in Vorgrimese, poi
proseguì, probabilmente ripetendo ciò che aveva appena detto a Jerry. Il
viso di Thull si illuminò man mano che parlava, e alla fine era raggiante.
«Credeva che non sapessimo nulla sull'argomento» riferì lei. «È felice di
essersi sbagliato. Sappiamo già talmente tanto che di sicuro supereremo
anche Fee.»
A quest'ultima l'idea non piacque affatto. Il suo sguardo accigliato a-
vrebbe potuto congelare l'idrogeno.
«Non puoi dirmi qualcosa di più?» le domandò Jerry. «Potrebbe farmi
comodo.»
«Un attimo. Dovrò fare qualche programma impegnativo. Guarda, su
quel pannello che ha tirato fuori, innanzitutto le lettere sono classificate
per valori, non per suoni. E scommetto che ci sono delle eccezioni. La loro
lingua si è allontanata a tal punto dalla norma galattica, in questo breve
spazio di tempo, che sicuramente ci sono pronunce e inflessioni obsolete e
che hanno portato a una trascrizione non-fonetica.»
«Tutte queste cose le stai imparando dal tuo computer o si tratta di cose
che sapevi già?»
«Naturalmente conosco i mutamenti linguistici. Ho fatto affari con quin-
dici sistemi diversi. Ma non mi sarei mai aspettata di incontrare persone
regredite a tal punto nel primitivo, da credere in questo tipo di...»
«Interessantissimo!» esclamò Jerry ad alta voce, cercando di rigirarsi,
pur essendo intrappolato nel banco, per darle un calcio nello stinco. «Sono
sicuro che se ci mettiamo d'impegno, capiremo subito il concetto, soprat-
tutto se il Maestro Thull ci aiuta! Traduci!»
Hannah sbarrò gli occhi quando si rese conto che era stata sul punto di
dire qualcosa di cui avrebbero potuto pentirsi. Se c'era qualcuno su Vor-
grim ancora in grado di capire il linguaggio galattico, chi altro poteva esse-
re se non un maestro? Di fretta e furia mascherò il suo passo falso chie-
dendo a Thull di scrivere i suoni e i valori numerici di tutti i glifi. Dopo
avere caricato quei dati, domandò che le venissero mostrati i restanti pan-
nelli uno alla volta. Poi li lesse ad alta voce, pomposamente; calcolò le
somme numeriche di ciascuna parola, frase e periodo, e la citazione com-
pleta che ogni pannello presentava, e che era o una massima o un prover-
bio. Fece qualche proposta in via d'esperimento, riguardo le connessioni
tra un pannello e l'altro, osservando per esempio che tre di loro consecuti-
vamente totalizzavano quattro, cinque e sei, e un'altra triade sei, sette e ot-
to. Modestamente si astenne dal fare delle supposizioni su ciò che potesse
significare, se significava qualcosa. Thull, a quel punto, stava praticamente
gongolando.
Si fece mezzogiorno. I bambini, dopo essere stati congedati, si sedettero
sotto un albero poco lontano per consumare una colazione al sacco. Jerry li
guardò con la bava alla bocca.
«Pensi che ci sia un ristorante decente qui intorno?» brontolò. «Laverò i
piatti se è necessario.»
Hannah però, stava cercando di ottenere con la lusinga delle informazio-
ni dalla non più offesa Fee, e ci riuscì molto bene.
Durante la mattinata Thull aveva inviato una guardia con un messaggio,
presumibilmente relativo allo straordinario intuito di Hannah. Proprio allo-
ra l'uomo ritornò. Più raggiante che mai, Thull ripeté a Hannah ciò che do-
veva dirle.
«Abbiamo di meglio da fare che lavare i piatti» disse lei a Jerry. «Siamo
stati invitati a mangiare dal custode in abito blu. Si chiama Wulgo, ed è il
responsabile degli archivi e dell'educazione. Ci saranno anche Thull e Fe-
e.»
«Allora, chi è Fee?»
«È una principessa.»
«Stai scherzando!»
«No è proprio così. È la figlia del re Nolon di Gleege.»
«Ma che cosa ci fa a scuola una principessa? Non dovrebbe avere un in-
tero stuolo di schiavi?»
«Ah. Questo è un fatto interessante. A Gleege non approvano la schiavi-
tù. Il Marrone non ci ha raccontato come è cominciata quella guerra di cui
abbiamo sentito. Gli schiavi fuggivano da Yubble passando il confine.
Puoi biasimarli? Così di tanto in tanto quelli di Yubble violano a loro volta
il confine per cercare di riportarli indietro. La maggior parte delle volte ci
riescono, perché gli abitanti di Gleege sono solo esseri umani, e non si
preoccupano troppo di rischiare la propria vita per la salvezza di quella al-
trui.»
Jerry sospirò. «La cosa quadra. È un pasticcio che si può risolvere solo
se Yubble rinuncia alla schiavitù. E allora?»
«Così una parte dell'accordo che ha concluso l'ultimo scontro, o meglio
che l'ha sospeso, consisteva nel costringere Fee a trascorrere qui cinque
anni, come ostaggio, così naturalmente lei deve studiare geometria, proprio
come noi. Non le piace molto, ma a Thull sì.»
«L'avevo notato» mormorò Jerry. «C'è qualcos'altro?»
«Dopo pranzo ci verrà concesso una visita guidata del Sancta Sancto-
rum.»
«Che sarebbe..?»
«Non lo so con esattezza. L'unica cosa di cui sono certa è che questo
pranzo potrebbe essere una lunga conferenza.»

Hannah a quel riguardo non si era sbagliata. Wulgo mangiò a malapena


un boccone del pasto scadente, parlando diffusamente dell'impareggiabile
conoscenza degli yubbleriani riguardo la natura fondamentale dell'univer-
so, che poteva riassumersi in nove numeri. Prima ancora che i piatti dei
suoi ospiti fossero vuoti, o il loro stomaco pieno, sollevò dalla sedia la sua
considerevole mole e precedendoli si diresse all'esterno ondeggiando verso
uno sfarzoso edificio di pietra. Lì davanti c'era una fila di persone con la
faccia triste, di ambedue i sessi e di tutte le età, che aspettavano di essere
ammesse all'interno pochi per volta. Wulgo si fece aprire un varco dalle
guardie, passando davanti alla coda.
Dentro, dietro a una griglia di ferro, era riposto un enorme libro scritto a
mano. Era aperto a circa due terzi. Hannah si chinò per ispezionare il testo,
lo lesse ad alta voce più o meno accuratamente, e aggiunse una traduzione
per Jerry: «"L'obbedienza ai propri superiori naturali è una legge universa-
le. Quelli che non riconoscono i propri superiori devono essere resi schiavi
fino a quando non lo fanno." Il valore numerico di questa pagina» aggiun-
se «è sei».
«Diamine, è vero!» disse Wulgo animatamente. «Lei ha una compren-
sione istintiva della geometria! Se il suo compagno può eguagliarla, do-
vremo organizzare questa spedizione, dopo tutto!»
«Jerry!» lo incitò Hannah.
«Ah...» Lui si schiarì la gola. Stava pensando a Fee. Non era in grado di
sapere se lei conosceva lo scopo della menzionata spedizione, ma sospet-
tava che ne intuisse la destinazione. Il suo viso, in ogni caso, era imper-
scrutabile. «Senza dubbio capisco il principio. Ma come fate a essere così
sicuri che il vostro sistema di assegnare numeri alle lettere e... ciò che ne
consegue sia giusto e il resto sbagliato?»
«Una domanda acuta» disse Wulgo con serietà. «Ma la risposta è sem-
plice. I nostri antenati hanno dimostrato con dibattiti e errori che deve es-
sere quello giusto, perché esso è l'unico sistema secondo cui la somma del
nostro Libro... e non è un volume piccolo, visto che si aggiunge una pagina
per ogni giorno dell'anno, così ogni giorno si può leggere un diverso mes-
saggio morale, la totalità dei quali comprende tutta la saggezza. Permet-
tiamo anche agli schiavi di entrare e di imparare, come avrà notato, anche
se naturalmente possono venire solo nei loro giorni di libertà, e se offen-
dono i loro padroni possono passare degli anni prima che riescano a legge-
re ogni pagina, e fino a quando non lo fanno... ma dove ero rimasto? Ah,
sì. I nostri antenati, finalmente scoprirono il sistema secondo cui il numero
generato dal Libro è il numero che significa la perfezione irriducibile.»
Tutti i presenti, eccetto gli stranieri, sollevarono il loro dito indice.
«Ma certo!» irruppe Jerry. «La torre! È la figura numero uno!»
«Commemora la più grande conquista dei nostri saggi» disse Wulgo or-
gogliosamente. «È costato secoli di delusione e di false partenze. Venite da
questa parte.»
Li condusse in una sala adiacente e molto più ampia. Rotoli di carta e li-
bri riempivano gli scaffali alti più della loro statura e lunghi trenta, quaran-
ta cinquanta passi. Ogni sezione era identificata da una targa di legno nu-
merata, appesa a una corda. Il luogo era vuoto a esclusione di un copista
con gli occhi cisposi, che alzò la testa per un attimo, e poi ritornò a som-
mare le lettere della pagina che aveva trascritto per ultima, per assicurarsi
che non ci fossero errori.
«Che cosa sta succedendo?» domandò Hannah.
«Naturalmente può esserci un'unica copia del Libro completo» rispose
Wulgo in modo diligente. «Violare la sua unicità sarebbe blasfemo. Ma i
nostri studenti non possono affidarsi all'unica copia originaria. Quindi sono
necessarie copie su copie per l'insegnamento, il tipo di cose su cui lavora
l'uomo che è qui. Di conseguenza le sezioni sono state copiate e tenute se-
parate, e poi le copie, una dopo l'altra, sono state confrontate e sottoposte a
un esame. Quante volte la buona riuscita sembrò a portata di mano, quando
i nostri antenati proseguivano nel loro eroico lavoro per poi sbagliare al-
l'ultima frase, all'ultima riga, all'ultima parola, all'ultimo accento... E quale
gioia ci fu quando sommarono le pagine conformemente alla vera equiva-
lenza, e scoprirono che il risultato era esattamente mille!»
«Che significava» disse Jerry aggrottando le ciglia «che potevano ridur-
lo a uno.»
«Ha afferrato il principio alla perfezione!»
«Ma che cosa vi ha reso, intendo i vostri antenati, così determinati nel
cercare il modo per arrivare a una somma il cui risultato era uno?»
Wulgo sembrava scioccato. Thull alzò il dito in aria come una lama.
«Perché è il numero della perfezione! Gliel'ho già detto!»
«Ma...»
Hannah gli pestò il piede con forza, e poi mormorò con il più dolce dei
sorrisi sulle labbra: «Mi dispiace tanto!» e continuando a sorridere prose-
guì: «Ci rendiamo perfettamente conto. Perché uno è l'unico numero usato
dai computer nella nostra navicella spaziale. Non si può davvero conside-
rare lo zero un numero, no?»
«Naturalmente no!» Thull e Wulgo si trovarono immediatamente d'ac-
cordo.
«Trovo l'intera cosa affascinante. Ma mi dica: lei dice che voi girate le
pagine del Libro giorno per giorno, allora per leggere l'originale dovrei ri-
manere qui un anno intero. Be'» aggiunse poi maliziosamente «spero che
lei darà il proprio appoggio per quella spedizione armata se noi passiamo il
vostro esame. Lei ha detto che è quello che possiamo aspettarci, no?»
«Oh sì!» esclamò Fee, e Thull le fece eco, mettendo a disagio Wulgo,
che si spostò goffamente da un piede all'altro.
«Be'... ehm..»
«È ciò che mi era sembrato di capire» dichiarò Thull coraggiosamente.
«E noi ci impegniamo a dire sempre la verità, non è vero?»
«Ne sono certa, ne sono certa!» esclamò Hannah. «Comunque, io posso
leggere l'intero testo del Libro, no? Voglio dire posso leggere queste copie
che sono state fatte dai vostri antenati.» Fece un cenno verso il libro e i fo-
gli impolverati.
«Sì, naturalmente» disse Wulgo. Aveva un'espressione e un tono di voce
preoccupato, come se temesse che gli fosse stata tesa una trappola, ma non
riusciva a capire dove fosse.
«Vorrei cominciare subito, allora, per favore.»
«Be', lei sicuramente è abbastanza diligente... non vedo come potrei ri-
fiutarlo a una studentessa tanto diligente.» Poi con improvvisa asprezza
disse: «Lei capisce che dovrò appostare delle guardie armate per control-
larla? E trattenere il suo amico per assicurarmi che lei si comporti bene?»
«Io resto qui» disse Jerry impetuosamente. «Anche io vorrei leggere tut-
to il Libro.»
«No» disse Wulgo in un modo che non ammetteva repliche. «Lei tornerà
nella classe di Thull. Sono curioso di sentire quanti progressi fa da solo.
Credo che fino a questo momento lei si sia nascosto dietro il lavoro della
sua amica. Deve fare molto più di questo, per qualificarsi come missiona-
rio. Thull, portameli tutti e due dopo la fine della scuola.»
Jerry si rese conto che Wulgo poteva sembrare vago e incapace, ma che
difficilmente avrebbe raggiunto il rango di custode senza una vena di cru-
deltà, non in una cultura in cui c'erano ancora gli schiavi e le guerre. Se-
guendo Fee non appena tornarono in classe, si ritrovò a domandarsi cosa
succedeva nella mente di una principessa barbara, e giunse alla conclusio-
ne che lui probabilmente preferiva quella di una commerciante interstella-
re.
Lui e Hannah si ritrovarono appena i bambini si furono sparpagliati per
andare a casa. Quando la lasciarono andare via dalla stanza dei documenti,
assunse un'espressione strana e indecifrabile. Imperscrutabile era il termine
esatto. Rispose in modo assente alle domande di Jerry. A Thull che voleva
sapere che progressi avesse fatto, lei rispose: «Oh, ho letto quasi tutto».
«E allora...?» mormorò meravigliato.
«Allora penso che sia meglio che io parli con Wulgo prima.»
Le parole in qualche modo li precedettero. Quando si ritrovarono alla
presenza di Wulgo, lui aveva un aspetto ancora più preoccupato di prima.
Dopo il solito dimenamento dell'indice, che Jerry ottimisticamente imitò
per rendersi poi conto di avere usato la mano sbagliata, Wulgo disse: «Ca-
pisco la sua affermazione di avere letto tutto il testo del Libro».
«Sì. Ho letto una copia di ciascuna sezione.»
«E allora?»
«I conti non tornano.»
«Cosa?»
«La somma delle copie non dà come risultato uno. Il risultato della
somma è due.»
«È un'assurdità!» ruggì Wulgo, mentre Thull serrava i pugni rabbiosa-
mente e le guardie sollevavano l'indice. Fee sembrava inizialmente scioc-
cata e poi deliziata. «Sono state controllate, ricontrollate e controllate an-
cora!»
«Le assicuro che è così.» Hannah sospirò profondamente e mise a posto
il suo orecchino-computer. Futilmente Jerry si domandò perché lei li in-
dossasse tutti e due, dal momento che non ne aveva mai fatto cenno. Forse
semplicemente per avere la coppia, si disse.
Lei proseguì: «Suppongo che come custode lei conosca il Libro a me-
moria. Se venisse distrutto lei sarebbe in grado di ricostruirlo?»
«Certamente. Tutti noi potremmo.»
«Molto bene. Comincerò da pagina uno. Lei tenga il conto. Così potrà
individuare il punto in cui hanno sbagliato. "L'universo cominciò..."»
«Si fermi! Un'accusa così grave deve essere condivisa da tutti noi!
Guardie, andate a chiamare i miei colleghi custodi!»
Ne derivò un momento di panico controllato. Non solo gli altri dei cu-
stodi, ma anche degli estranei arrivarono di corsa per quella ragione. Jerry
sussurrò qualcosa a Hannah, ma lei lo ignorò. La fissò in modo interroga-
tivo. Il viso di lei rimase di pietra. Alla fine pensò di urlarle contro ma non
lo fece, perché era fin troppo chiaro cosa sarebbe potuto succedere se l'a-
mato fondamento delle credenze di quelle persone fosse stato demolito.
Oppure tutto era fin troppo confuso. In ogni caso non si sarebbero compor-
tati in modo molto cortese con degli stranieri che gli avevano fatto fare la
figura dei gonzi.
Il Marrone fu il primo ad arrivare insieme ai suoi accoliti, negando con
tutta la voce che aveva in corpo che potesse esserci qualcosa di sbagliato
nella somma dei loro avi. Di seguito arrivò il Giallo, tremando e ansiman-
do, e dovette essere posizionato sulla sedia dai suoi attendenti. Rimase se-
duto lì a balbettare tra sé e sé finché, con fastidio del Marrone, Wulgo non
ordinò di fare silenzio e invitò Hannah a cominciare. Tre attendenti erano
pronti con penna e block notes. Prendendo fiato, lei riprese:
«"L'Universo cominciò..."»
Ci vollero delle ore. Dopo ciascuna pagina gli scrivani confrontavano le
annotazioni; tutte le volte erano in accordo assoluto. Poi improvvisamente
cadde il silenzio.
«Non mi ricordo questo» disse ansimando il Giallo.
«Nemmeno io» borbottò il Blu.
Il Marrone dichiarò: «Deve avere alterato la copia!»
«A che pagina sei arrivata?» domandò Jerry a Hannah.
«A pagina trecentoquaranta. Verso la fine. Non c'è da meravigliarsi che i
copisti si siano stancati e abbiano fatto degli errori dopo un così lungo...»
«Trattenga la lingua!» urlò il Marrone.
Tranquillamente, Hannah fece ciò che le era stato chiesto. Dopo diverse
altre argomentazioni l'incontro, con lei e Jerry cacciati in un angolo, si tra-
sferì forzatamente alla sala documenti. Tutte le copie della pagina trecen-
toquaranta, e ce n'erano diverse, furono esaminate. Espressioni da campana
a morto si diffusero come i granellini di polvere nella coda di una cometa,
mentre lentamente cominciavano a rendersi conto: la totalità di lettere e di
diacritici su ciascuna copia di quella pagina portava a una somma che cor-
rispondeva a un numero in più di quello che avrebbe dovuto risultare. Nel
qual caso l'intero Libro...
«Deve essere stata lei a cambiarlo!» sbottò il Marrone. «Wulgo, sei un
pazzo! Come hai potuto permetterle di rimanere lì da sola?»
«Ma non l'ho fatto!» disse Wulgo arrabbiato. «Le guardie sono rimaste
con lei per tutto il tempo! Voi l'avete tenuta d'occhio, non è vero?» aggiun-
se rivolgendosi alle sentinelle.
«Abbiamo obbedito ai suoi ordini» disse una di loro con fermezza.
«Inoltre» aggiunse un'altra «che cosa poteva utilizzare per alterarlo?
Non aveva nessun tipo di penna o di stilo, né qualsiasi altra cosa con cui
potere scrivere.»
«L'abbiamo perquisita per esserne certi» disse la prima che aveva parla-
to, guadagnandosi un'occhiataccia da parte di Hannah.
«Sei stato tu a ordinarlo?» domandò a Wulgo il Marrone.
«Ah... non esattamente! Ma credo nella necessità di incoraggiare l'inizia-
tiva anche tra gli schiavi!» disse asciugandosi il sudore dalla fronte con la
manica.
«Possiamo andare avanti?» suggerì Hannah. I custodi dovettero accon-
sentire per forza.
Alla fine, molto dopo il tramonto, arrivarono a una decisione. Se la co-
pia della pagina trecentoquaranta che Hannah aveva consultato era accura-
ta, ed era identica a tutte le altre che lei non aveva avuto nessuna possibili-
tà di manometterla, allora il prezioso Libro non aveva come risultato della
somma l'unità. L'aria si riempì di un mormorio di risentito disaccordo.
«Non riesco a capire come mai non vogliate fare la cosa più ovvia» disse
Jerry alla fine, e domandò a Hannah di tradurre. Gli sguardi inferociti si
concentrarono su di lui.
«Di grazia, quale crede che sia questa cosa ovvia?» disse il Marrone con
voce stridula.
«Bene, a Hannah non è stato possibile toccare il Libro vero e proprio,
no?»
«Non ho nemmeno potuto avvicinarmici» confermò Hannah. «Sono cer-
ta che se ci avessi provato, mi sarei ritrovata con una lancia conficcata nel-
le budella.»
«Ah!» sospirò di sollievo il Giallo. «Naturalmente. Se anche è stato fatto
un errore di copiatura, che in qualche modo si è ripetuto, l'originale...»
«Ma non è il giorno giusto per girare a pagina trecentoquaranta!» urlò
Wulgo. «Mancano ancora tre settimane!»
Hannah fece la faccia lunga.
«Ascolta, ascolta!» esclamò il Marrone, che sudava ancora più di Wul-
go.
«No!» tuonò il Giallo, per quello che poteva, con la sua voce vecchia e
stridula. «Non vi rendete conto di quello che può succedere in queste tre
settimane, imbecilli, con le voci sull'imperfezione del Libro che si propa-
gano come una malattia? Gli schiavi potrebbero diventare ostili! Gleege
potrebbe approfittarsene e invaderci, tanto per cambiare! Ci sono infinite
spaventose possibilità!»
Jerry, forse, era stato l'unico ad accorgersi che Fee si era tirata su di mo-
rale, ma poteva anche non essere così. Durante tutti quegli avvenimenti
aveva mantenuto un'aria molto allegra.
«Facciamolo immediatamente!» insisteva il Giallo. Ma siccome gli altri
non reagivano, aggiunse: «Sono ancora io o no, il capo dei custodi? A di-
spetto dei vostri...» rivolgendosi prevedibilmente al Marrone «intrighi de-
stinati ad accusarmi di senilità! Ho letto il Libro molte più volte di quante
voi abbiate consumato la vostra cena fumante, e so, maledetti scettici, co-
dardi, e peccatori, io so che la pagina trecentoquaranta ha come risultato
della somma quello che ha sempre avuto, cioè due! Proprio come alla pa-
gina trecentoquarantuno la somma è sei, e alla pagina trecentotrentanove è
cinque! Portate la chiave dell'inferriata!»
«È curioso» disse Hannah pensierosa «che i numeri della pagina non ab-
biano lo stesso totale di quelli delle parole. Credevo che si trattasse di un
sistema vero...»
«Silenzio!» urlò rabbiosamente il Marrone, ma lei aveva ormai raggiun-
to il suo scopo. Jerry notò uno sguardo di smarrimento sulla faccia di
Thull, come se fosse stato un risultato a cui sarebbe dovuto giungere da so-
lo. Allungò la mano per intrecciare le sue dita con quelle di Fee, che stava
ridendo. Anche le guardie avevano cominciato a scambiarsi occhiate signi-
ficative. Gli venne in mente la legge di superiorità naturale e quello che
poteva accadere a essa.
Ma era troppo sperare che venisse rovesciata. Era stato intelligente da
parte di Hannah alterare il testo sacro, ma se non le era stato permesso di
avvicinarsi all'originale, non appena la pagina trecentoquaranta fosse stata
esaminata tutto sarebbe tornato come prima. Seminare lo scetticismo era
un'idea eccellente, ma dubitava che avrebbe prodotto risultati utili più ve-
loci che aspettare semplicemente che Chlorosis Kappa si alzasse all'oriz-
zonte la successiva primavera...
Improvvisamente si rese conto che regnava una grande calma.
«È impossibile» sospirava il Giallo.
«Non ci posso credere» piagnucolava Wulgo.
«È un complotto» strillava il Marrone. «È un complotto contro di me,
ordito da voi!»
«Stai zitto, pazzo paranoico! Non c'è altro da fare che contare un'altra
volta l'originale, riga per riga, parola per parola...»
«Adesso stai insinuando che i nostri antenati potrebbero avere sbagliato
a fare la somma!»
«Scommetterei che non è l'unico errore che voi avete introdotto! Demoni
come voi non si fermano dinanzi a nulla!»
«Il Libro dev'essere perfetto. Deve dare come somma uno.»
«Forse abbiamo fatto tante di quelle copie che ha finito per perdere la
sua unicità!»
«Lo sapevo che eravate invidiosi, ma non mi sono mai sognato di pensa-
re che poteste arrivare a tanto!»
«Guardie! Restate vicine al vostro capo dei custodi!»
«Guardie! A me il bibliotecario e gli archivisti!»
«Guardie! Ignorate questi traditori! Sono arrivati talmente in basso con il
loro odio implacabile da sabotare il Libro!»
Mentre le guardie cercavano di decidere a chi dovevano obbedire, Jerry
si sentì toccare il braccio.
«Lasciamoli alle loro discussioni» gli sussurrò Thull. «Abito non molto
lontano da qui. Credo che dobbiamo parlare.»
«Sono d'accordo» disse Hannah. Jerry tentennò un attimo.
«E il cibo della sua padrona di casa è molto meglio di quello di Wulgo»
asserì Fee.
E la decisione fu presa.

Finì per essere una notte chiassosa. Di qualsiasi malattia si trattasse, le


voci si stavano diffondendo proprio così. Da porta a porta, lungo le strade
in cui avrebbe dovuto esserci il coprifuoco, attraverso i tetti da un abbaino
all'altro, la gente si stava riferendo le "notizie" di cui arrivarono natural-
mente degli stralci anche all'appartamento di Thull. Nei diversi quartieri
della città si erano sviluppati racconti diversi. Uno dei custodi era pagato
da Gleege. Era stata ritrovata una pagina soppressa del Libro, che corri-
spondeva al Giorno del Salto (il computer di Hannah diceva che il calenda-
rio di Vorgrim ne prevedeva uno ogni cinque anni) e che contraddiceva
tutto il resto. Non era vero che alcuni bambini non erano capaci di com-
prendere la geometria; è che veniva impedito loro di studiarla, in modo ta-
le che potesse essere sempre garantito il rifornimento di schiavi. Alla gente
era stato detto di fare il saluto degli indici con la mano sbagliata, i custodi
invece lo facevano nel modo opposto, durante riti segreti con cui mantene-
vano la propria supremazia...
Jerry successivamente non riuscì a capire come avesse fatto a dormire.
La tensione nell'aria era quasi soffocante. Come se stesse per arrivare un
terremoto.
«Le cose saranno diverse domani mattina» mormorò Thull.

A colazione non c'era segno della presenza di Fee. «Dov'è?» domandò


Hannah.
«Con un po' di fortuna, ha superato il confine» replicò Thull.
«Sei un agente gleegeriano?» gli domandò Jerry.
Thull scosse la testa. «No, sono solo uno schiavo.»
Hannah lo guardò sbigottita. «Utilizzano gli schiavi per insegnare la ge-
ometria? Ma...»
«Tu credi che le persone che capiscono la geometria abbiano il diritto di
non essere fatte schiave?» Il tono di Thull era pieno di amarezza. «Chiun-
que a Yubble che all'età di dodici anni non abbia letto ogni pagina del li-
bro, per principio è uno schiavo. Che i genitori siano schiavi o uomini libe-
ri, portano i figli a guardarlo, anche se ancora non lo capiscono, prima dei
dodici anni. Che la sventura li colga se non ci riescono. E i custodi fanno
di tutto per impedire ai bambini di salvarsi.»
«Tu» disse Hannah in modo acuto «ti sei ritrovato fuori tempo.»
Thull annuì, improvvisamente depresso e abbattuto. «Per una pagina.
Trovarono una scusa dopo l'altra per tenermici lontano...e vedere una copia
non serviva! Potevo raccontare dettagliatamente tutto il testo del Libro in
modo impeccabile proprio come Wulgo, ma non aveva importanza!»
«Così...» Jerry cominciò confusamente. Thull lo interruppe.
«Sono dequalificato per sempre. Sono uno schiavo. Punto.»
«È uno strano tipo di schiavo quello che è amico di una principessa!»
Hannah fece schioccare le dita. «Io penso che... Thull! Eri fuggito a Gle-
ege e sei stato catturato?»
«Mm...»
«È stato lì che hai incontrato Fee?»
«Mm-hm.»
«Tu...?»
All'improvviso si sentì il rumore di qualcosa di rotto. Un mattone avvol-
to nella carta era finito, attraverso la finestra, nella stanza in cui erano se-
duti, mancando Thull per un pelo. Lui lo afferrò con un un'imprecazione.
Sul pezzo di carta c'era un messaggio. Lo lesse ad alta voce.
«È del mio alunno più diligente... esclusa te Hannah, e Fee! "Noi non
verremo in classe ne oggi né mai più!"» Il viso di Thull si trasformò come
per magia. «Wow! la situazione sta precipitando più velocemente di quan-
to avessi mai sognato che potesse accadere! Almeno posso smettere di fin-
gere! Andiamo a vedere cosa sta succedendo!»

Era una città diversa da quella in cui erano entrati pochi giorni prima.
Quasi tutte le pareti erano imbrattate con slogan riferiti al Libro, tra i quali
emergeva sempre il numero 340. La gente aveva lasciato da parte le solite
faccende di tutti i giorni e se ne stava per le strade a discutere, gridare, a
tratti anche a lottare. I bambini che non erano andati a scuola saltellavano
qua e là intorno agli ufficiali svogliati, che, essendo essi stessi schiavi co-
me aveva spiegato Thull, facevano un tentativo solo formale di cercare di
portarli dentro. Davanti alla casa dei custodi si era assemblata la folla, con
dei cartelli approntati in fretta e furia che dicevano LASCIATECI
LEGGERE LA PAGINA DEL SALTO e UNO O DUE? DECIDETEVI!
«Sono pronta a scommettere» disse Hannah tranquillamente «che i cu-
stodi sono capaci di inventarsi qualsiasi ragione logica per giustificare che
la somma che risulta dal libro adesso è due. Molto probabilmente afferme-
ranno che è cresciuto. Alcuni potrebbero anche correre il rischio di profe-
tizzare che tra un secolo o poco più ci sarà un ulteriore aumento, fino ad
arrivare a tre.»
Thull fece una smorfia.
«Quello che hai detto conferma un punto su cui Fee e io abbiamo di-
scusso spesso quando eravamo a Gleege. Laggiù affermano che si possono
inventare associazioni tra qualsiasi tipo di idiozia e continuare a presentare
delle giustificazioni pseudologiche.»
«Quindi non bisognerebbe prendere sul serio queste cose?»
«Esatto.»
Avanzavano sempre più lentamente. Stavano per raggiungere la Torre
della figura uno, che era circondata da una folla sospettosa e potenzialmen-
te irascibile. Infine si immobilizzarono, proprio mentre una ragazza alta
con voce stridula costringeva un uomo che era vicino a lei a fare di tutto
per approntare un palco da cui parlare. Da lì si mise a gridare: «Non hanno
ancora finito di contare?»
«Non credo che possano!» gridò un uomo da venti metri di distanza.
«Non vi rendete conto che vogliono impedire alle persone di entrare a leg-
gere il precetto di oggi?»
Dalla folla si alzò un sospiro collettivo. Qualcuno gridò: «Non può esse-
re!»
Una voce burbera risuonò. «È la verità! Stamattina ero assegnato a tene-
re i conti. C'era una bambina a cui mancava solo una pagina, e il suo tem-
po scade oggi, ma loro mi hanno ordinato di chiuderle il cancello in fac-
cia!»
Un boato d'orrore attraversò l'assemblea, come il rumore del vento tra la
boscaglia.
«Il nuovo conteggio sarà di sicuro una bugia!» dichiarò una voce stridu-
la. «Ci hanno mentito prima e non ci hanno mai permesso di controllarlo!
È la prova che hanno mentito!»
Per quanto la logica fosse traballante, quello era il segnale che la folla
stava aspettando. Anche le guardie che proteggevano il palazzo dei custodi
erano schiavi. Non avevano alcun interesse a proteggerlo, e se abbandona-
vano il loro compito in quel momento, avrebbero avuto una discreta possi-
bilità di andare incontro a un futuro migliore. Per una volta (e in seguito
Jerry si ricordò che era un avvenimento raro) fu possibile vedere degli es-
seri umani che si comportavano in modo razionale per massimizzare i loro
benefici collettivi, piuttosto che lasciarsi influenzare dalla demagogia o la-
sciarsi intimorire da un tiranno.
Così le guardie, con intelligenza, aiutarono la folla a forzare i cancelli
del palazzo dei custodi. Dopo averli catturati e portati fuori tutti e nove, li
trascinarono nel luogo in cui era custodito il Libro. Thull, con i pugni stret-
ti, saltava da tutte le parti. «Preghiamo che non abbiano un altro asso nella
manica!» si lamentò. «Se le persone che sono state a contare per tutta la
notte hanno trovato un altro modo per ottenere come totale l'uno, questi
preti schifosi ricominceranno a pretendere di avere sempre avuto ragio-
ne...»
«Se ci proveranno» lo interruppe Hannah «segui il consiglio di Jerry e
chiedigli se trattengono anche la base otto.»
«La base che?»
«Non ti preoccupare. Non dovrebbe essere necessario... guarda! Avevo
ragione più di quanto credessi!»
La folla che circondava l'entrata della sala in cui era tenuto il Libro si
stava facendo da parte per lasciare passare uno sparuto gruppetto di anzia-
ni, imbrattati d'inchiostro fino ai gomiti, con gli occhi spalancati e arrossa-
ti, che parlavano con voce roca e dicevano frasi confuse.
«Sono queste le persone che hanno passato tutta la notte a contare il Li-
bro?» domandò Jerry.
«Credo di sì» rispose Thull.
«Che cosa stanno dicendo?»
«Che il libro ha come somma totale tre, o due, o otto, o cinque, o...»
Una delle persone in questione gridò con tutta la voce che aveva.
«Dice che c'è stata una magia. Che c'è una maledizione su di loro. Lui
personalmente ha contato una delle sezioni due volte, e la prima volta il ri-
sultato è stato otto e la seconda nove, anche se non c'era nessuna differenza
in quello che c'era scritto!»
In ritardo Jerry ebbe l'illuminazione. Si chinò verso Hannah.
«Dimmi, a cosa ti serve l'altro orecchino?»
«Be', devo avere sempre con me i miei campioni.»
«Il campionario per il tuo lavoro?»
«Che altro?»
«Vuoi dire che il Libro non raggiungerà mai più lo stesso risultato due
volte di seguito.»
«Pensi che sia una gran perdita?»
«Niente affatto.»
«Bene. Adesso tutto ciò che dobbiamo fare è aspettare l'invasione dei
gleegeriani, che sarà la prima dopo cinquant'anni e non incontrerà alcuna
resistenza, in parte perché tutti gli schiavi si metteranno immediatamente
dalla parte dei gleegeriani e in parte perché...»
Fece un gesto. La folla stava trascinando Wulgo fuori di casa, insensibi-
le alle sue urla, e lo stava riempiendo di insulti.
Thull si era messo ad applaudire insieme a tutti gli altri. Improvvisamen-
te fu come se avesse registrato piuttosto che sentito l'ultimo scambio di
battute che c'era stato tra Jerry e Hannah, e che solo allora si fosse reso
conto della loro importanza. Si girò verso di loro, sbattendo le palpebre ri-
petutamente.
«Hannah, sei stata tu a farlo?»
«A fare cosa?»
«Non so! Ma hanno provato a contare il libro e...!» Fece un gesto di ras-
segnazione.
«Sì, e non avranno più fortuna, se lo rifaranno.»
«Ma come hai fatto? Come?»
«Se te lo dico, ci guiderai nel luogo più vicino in cui possiamo unirci al-
l'esercito del re Nolon? Abbiamo bisogno di un ricevitore...»
«Per mettervi in contatto con il radiofaro di quella stella! Lo so! Va be-
ne!»
«D'accordo» disse Hannah con un sorriso. «Io commercio in microcon-
gegni. Sono talmente piccoli che potrei infilartene mille nell'occhio e non
li toglieresti mai più. Tengo la mia provvista qui» disse toccandosi l'orec-
chino. «Non c'è stato alcun problema a rieditare il Libro sotto la direzione
del computer che c'è in questa clip dell'altro orecchino. Sono collegati an-
che con il mio cervello. Tutto sommato è stato piuttosto divertente.»
«Rieditare?» Ripeté Thull confuso, mentre Jerry fissava Hannah come se
non l'avesse mai vista prima.
«Fare dei cambiamenti. Che cosa diceva la pagina di ieri?»
«Che cosa c'era ieri?... Ah... era quello sull'obbedire ai superiori natura-
li!»
«E la sua somma era...?»
«Sei, naturalmente!»
«Durante la notte» disse Hannah con modestia, tenendo gli occhi bassi.
«Ci sono stati risultati totali di quattro, nove e sette.»
«Cosa?»
«I vostri antenati erano talmente disperati alla fine per cercare di fare
funzionare le cose come volevano loro, che avevano fatto ricorso ad am-
massare alcuni casi speciali come eccezioni su forme alternative. Ci sono o
no quindici segni che hanno come valore uno?»
«Ah... sì!»
«E c'è qualcuno di loro che attualmente è pronunciato?»
«No!» disse Thull stringendo i pugni.
«Perché?»
«Perché il numero sacro è riservato...»
Sopprimendo l'impulso di sollevare il dito nel simbolismo del numero
sacro, si lasciò cadere le braccia lungo i fianchi.
«Avrei dovuto rendermene conto quando ero a Gleege, non è vero?»
«Sì» rispose Hannah con calma. «È stato l'unico periodo della tua vita,
in cui hai goduto di qualche libertà. Comunque, spesso le persone come te
non sanno come avvantaggiarsi dalla libertà quando hanno la possibilità di
averla. Pensi che Wulgo ne sarà capace?»
«Di godersi la libertà?»
«Be', è stato deposto dal suo ruolo di custode, così l'unica cosa che anco-
ra lo può ostacolare è il Libro, e per quanto riguarda il Libro...»
Scartò il pensiero, scrollando le spalle. Wulgo, lamentandosi, si avvicinò
barcollando, poi li oltrepassò inseguito da un gruppo di ragazzini gioiosi
incitati dalle loro madri.
«Mi sbaglio, o conosco alcuni di quei ragazzini?» mormorò Jerry.
«Sì.»
«Allora sei davvero un buon maestro, non è vero Thull?»

«Non è esattamente nel nostro stile invadere il territorio degli altri» disse
re Nolon di Gleege, accarezzandosi la barba color bronzo. «D'altro canto, è
l'unica cosa che possiamo fare per evitare entrate abusive nel nostro terri-
torio...» Sorrise, guardando affettuosamente sua figlia.
«Bene, ecco il vostro ricevitore» continuò. «È stato trasportato come a-
vevate richiesto sulla cima di una collina per puntarlo verso Chlorosis
Kappa, ed è stato esposto alla giusta frequenza. Voi ci avete messo in un
mare di guai, lo sapete, anche se credo che sarà un cambiamento giusto.»
Esitò un attimo. «Ciò che soprattutto vorrei sapere è questo. Se tu, Hannah,
indossavi degli orecchini che da un lato contengono un intero computer e
dall'altra milioni di microcongegni, perché Jerry non indossava qualcosa
come un braccialetto che contenesse tutti i dati di navigazione di cui pote-
va avere bisogno, nel caso in cui fosse saltata la memoria del computer?»
Jerry scosse le spalle.
«Anche voi avete la burocrazia. Noi abbiamo visto la versione di Yubble
in atto... o meglio l'inattività di Yubble.»
Stava facendo dei buoni progressi con la lingua locale, anche se un po' in
ritardo, nonostante sperasse con tutto se stesso di non dovere mai più aver-
ne bisogno, ma quel gioco di parole non gli riuscì. Fee disse con tono stu-
pito: «C'è dappertutto, non è vero?»
«La burocrazia? Sì.»
«E allora?»
«La burocrazia vecchia di seimila anni?»
«Oh.»
«Sì, voi potete rimanere terribilmente fossilizzati in quest'epoca... guar-
da, dobbiamo sbrigarci. La fiera di Wytabit comincia domani, e Hannah ha
bisogno di organizzarsi.»
«Ma volevamo preparare un banchetto in vostro onore! Non potete fer-
marvi?»
«Lasciamo che i pensieri diano spazio all'azione. Se non fosse così cosa
ne sarebbe delle ipotesi scientifiche? Arrivederci e grazie!»

Fu solo quando le tracce del fumo d'ascensione del Fizgig si confusero


nel cirro che Fee disse con un tono stupito: «Per quale motivo credete che
se ne siano andati via in fretta e furia?»
Non ci fu risposta. E come avrebbe potuto essercene una?

Titolo originale:
The Numbers Racket
Analog Science Fiction and Fact,
January 1993

IL SALTO
di Stephen L. Burns

Si tratta di fede o di libero arbitrio?


Solo chi si lancia nel vuoto può scoprirlo

Padre Tim Shannon finì di pettinarsi i radi capelli rossi, appoggiò il pet-
tinino d'acciaio, e si guardò a lungo nello specchio. Per quanto fosse orgo-
glioso delle sue origini irlandesi, era felice di non essere più un giovincel-
lo. I due bicchieri di soda che si era tracannato avevano sedato il peggio
della rivolta che c'era nel suo stomaco. Il Neoval e il G-Right, con cui ave-
va innaffiato il primo non lo avevano danneggiato molto, proprio come un
paio di Ave Maria in più, per penitenza.
«Ammettilo, Tim» disse alla sua immagine riflessa. «Non eri tagliato per
i viaggi spaziali.» Fatto che, comunque, lasciava irrisolta la questione di
ciò per cui era tagliato.
Per quello, no di sicuro. Quando Aloisio X O'Malley, presidente del
Consorzio per lo Sviluppo di Venere, aveva chiesto che venisse mandato a
sue spese per un breve viaggio sulle stazioni di Venere un prete provenien-
te dalla diocesi a cui apparteneva la sua famiglia, Tim aveva chiesto al ve-
scovo Pastorelli di inviare lui, considerando l'incarico un modo per lasciar-
si alle spalle tutti i problemi terrestri.
All'epoca gli era sembrata una buona idea.
Sapeva che il motivo principale per cui il vescovo Pastorelli aveva scelto
lui tra gli altri candidati era la speranza che un cambiamento radicale po-
tesse scuoterlo dallo stato in cui era caduto. Anche Tim l'aveva creduto
possibile, ma come gli succedeva per molte altre cose, non senza avanzare
qualche dubbio.
La fede di Tim aveva rischiato di barcollare come una chiesa costruita
sul solco di una faglia attiva, ma la caduta libera l'aveva progressivamente
convinto dell'esistenza del diavolo. Nessun altro avrebbe potuto concepire
un tormento del genere.
Aveva ricevuto un primo terrificante assaggio di questo specifico infer-
no sul Soarliner, che lo aveva trasportato dalla Terra nella cilindrica città
orbitale di Newtonia. Il lungo viaggio da lì fino ad Adone, l'enorme stazio-
necilindro che fungeva da base operativa del Consorzio Venusiano, si era
esaurito in un quasi impercettibile batter d'occhio.
La vita su Adone era simile a quella sulla Terra, i battesimi, le confes-
sioni e i matrimoni che aveva celebrato lì, non erano più complicati di
quelli che aveva celebrato a Boston. Poteva recitare le preghiere e sembra-
re sincero senza rivelare che aveva finito per considerare fasulla la sua pro-
fessione di fede.
L'apparecchio su cui viaggiava adesso era una piccola combinazione a
sedici posti, a metà tra una navetta e un rimorchiatore. Il distributore di
bevande e il bagno erano le sue uniche attrattive. Se sentivi la mancanza
della forza di gravità, bastava pensare a quanto era insignificante, se para-
gonata al nulla abissale intorno e ai pianeti ostili.
La chiave per riuscire in quell'impresa era la pazienza. Non doveva fare
altro che tornarsene prudentemente al suo posto e stare attento a non vomi-
tare il pranzo durante il resto del viaggio fino alla piccola e ordinaria sta-
zione di ricerca Anteros, passarci un paio di giorni a svolgere le proprie
funzioni di sacerdote, e poi iniziare il viaggio di ritorno verso la Terra, con
la sua superficie solida e la sua affidabile forza di gravità.
Sistemò il colletto un'ultima volta. Averlo sempre indosso gli dava il
conforto di un buon travestimento. Era la prima cosa che le persone vede-
vano e di rado andavano oltre, così elaboravano le loro supposizioni su chi
e che cosa fosse, sulla base di ciò che aveva intorno al collo piuttosto che
negli occhi.
Provò a fare un sorriso. Non era molto convincente, ma sapeva che tutti
quelli che si trovavano nel compartimento principale l'avrebbero sempli-
cemente interpretato come il viso di un uomo che cerca di farsi coraggio di
fronte al mal di spazio. Una verità da Pilato.
«Sei un imbroglione» disse alla sua faccia nello specchio, poi si rigirò
nel piccolo bagno e cercò la maniglia della porta.
Mezzo secondo prima che le sue dita sfiorassero la maniglia, si ricordò
di avere lasciato il pettine sulla mensola. Era un regalo d'addio che aveva
ricevuto da un suo vecchio amico, padre Hiro Ryuku, e non voleva perder-
lo. Sul manico, incisa in caratteri onciali, c'era una preghiera in latino per
la resurrezione dei suoi capelli, il tipo di regalo scherzoso da prete per un
uomo già mezzo calvo. Ma come succedeva sempre con Hiro, c'era un sot-
tile sottinteso nel regalo; una piccola parabola sulla fede e la speranza.
Proprio mentre si girava per prenderlo, il piccolo compartimento fu
sommerso da un suono così aspro e assordante che dovette mettersi le ma-
ni sulle orecchie per non sentirlo. Barcollò come un ubriaco mentre il ri-
morchiatore oscillava da un lato all'altro. Improvvisamente il pavimento
gli sfuggì da sotto i piedi. Le orecchie stavano per scoppiargli. La sensa-
zione del proprio peso era scomparsa in fretta com'era arrivata, perché lo
spostamento aveva fatto staccare i ganci magnetici delle suole delle scarpe
dal rivestimento metallico del pavimento.
Lo slancio lo scagliò di lato, e si ritrovò con la mensola che gli sfregava
contro il ginocchio. Con la coda dell'occhio si rese conto che lo specchio
sopra di essa stava per cadergli addosso e cercò di sollevare le braccia per
proteggersi dall'impatto, ma il lucente metallo di cui era fatto lo specchio
lo colpì sulla testa con una violenza tale da farlo sanguinare.
Si rese conto che stava rimbalzando, e nello stesso tempo si stava allon-
tanando dalla mensola. Muovendo una mano a tentoni riuscì a trovare il
rubinetto del lavandino sotto la coscia, e lo afferrò per tenersi. Poi strinse
l'altra mano intorno allo spigolo dello scaffale, e riuscì a fermarsi. Cercan-
do di riprendere fiato, scosse la testa per schiarirsi le idee, domandandosi
che diavolo fosse successo. Le luci del compartimento tremolarono, get-
tandolo per alcuni minuti in una terribile oscurità, poi si rimisero a posto.
Sussultò quando una voce arrivata dal nulla si mise a gridare contempo-
raneamente in inglese e in giapponese.
«Attenzione! Perdita di pressione nel compartimento principale!» Urla-
va in brusco tono di comando. «Tutti i passeggeri indossino immediata-
mente le tutte pressurizzate di emergenza! Attenzione...»
Perdita di pressione? Pensò Tim, mentre la confusione si trasformava in
panico. Si guardò intorno come un pazzo, e fece un balzo all'indietro alla
vista di una luce rossa che gli cadeva addosso alla sua sinistra, trasforman-
dosi davanti ai suoi occhi in una figura che se ne stava in piedi lì nel bagno
a fissarlo con un bambino sottobraccio.
Un attimo dopo il suo cervello inceppato si rese conto di ciò che stava
vedendo. Era una tuta pressurizzata di emergenza, arancione brillante, che
era sbucata fuori da un comparto in alto. Il bambino era in realtà una tuta
di piccola taglia infilata sotto il braccio.
Deglutì, e sentì il sapore del sangue nel punto in cui si era morso la lin-
gua. «Tranquillo, Tim» disse a se stesso, riuscendo solo a malapena a sen-
tire la sua voce tra quella doppia del computer e il ronzio che aveva nelle
orecchie. «Stai calmo. Ricordati le istruzioni. Infila la tuta e tutto andrà
bene.»
Mordendosi le labbra, si spostò da sotto lo scaffale e fece leva sulle
gambe tremanti. I magneti delle scarpe aderirono al pavimento in modo
rassicurante. Prese la tuta e la liberò dal gancio. I grandi e pesanti stivali
magnetizzati caddero sul pavimento con un tonfo, e rimasero in piedi. La
voce del computer si bloccò nel bel mezzo di una frase.
Nel silenzio che seguì, cominciò a sentire un suono diverso. Si girò per
cercarne la fonte.
«Oh, Signore» mormorò, sbarrando gli occhi mentre il viso gli si faceva
talmente pallido che sembrava fosse stato prosciugato di tutto il sangue. La
porta del bagno si stava incurvando verso l'esterno, piegandosi letteralmen-
te a causa della pressione cui era sottoposta. Il suono che sentiva era il
ronzio e il fischio dell'aria che fuoriusciva. Fissò la porta paralizzato dal
terrore, rendendosi conto che se si fosse staccata, qualche secondo più tar-
di avrebbe visto in faccia il Creatore.
Distolse lo sguardo e fissò la tuta che aveva tra le mani. Se non si infila-
va quell'affare, e in fretta anche, sarebbe morto.
«Mantieni la calma, adesso» mormorò tra sé e sé, cercando di scacciare
dalla mente l'immagine residua di quella porta pronta a volare via, e di ri-
cordarsi almeno una delle tre o quattro dimostrazioni su come indossare le
tute d'emergenza a cui aveva assistito. Gli scorrevano tutte insieme nella
mente, come rivoli in un canale di scolo per l'acqua; torbide, turbinanti,
caotiche, ingarbugliate. Si sfregò la fronte sperando di districarle.
Gli sembrò una cosa utile. «Prima le gambe.» La chiusura scattò. Con le
mani sudate e tremanti, gettò via la tuta da bambino, aprì quella da adulto
sul davanti, e infilò prima un piede e poi l'altro. Nonostante avesse le scar-
pe, i giganteschi stivali erano troppo grandi per lui. Subito dopo infilò le
braccia nelle maniche, le mani sudate scivolarono fino ai guanti. Poi si mi-
se sulla testa la rigida bolla di plastica trasparente e sistemò sulle spalle il
collare inflessibile. Il fischio dall'aria che fuoriusciva si smorzò.
«Chiusura frontale.» Ansimando, afferrò l'anello che stava esattamente
sotto l'ombelico e lo tirò su, chiudendo il davanti dell'enorme tuta. Adesso
era tutto a posto. E dopo? «Regolala.» C'era una scatola chiusa attaccata su
un fianco. Cercò a tentoni di aprirla, poi schiacciò il grande bottone rosso
all'interno.
Quando la tuta si restrinse per adattarglisi, con le fibre che si contraeva-
no e si irrigidivano, sentì uno strano formicolio. Le camere d'aria degli sti-
vali si gonfiarono, facendoli aderire ai piedi. Il colletto si strinse intorno al-
la gola, e una chiusura attivata con un congegno elettronico si sigillò erme-
ticamente. Seguirono un sibilo e un fruscio, quando l'unità di sopravviven-
za del piccolo zaino entrò in funzione.
Tim si assestò dentro la tuta, tirando un sospiro di sollievo. Adesso era
salvo. Cercò di asciugare le gocce di sudore che aveva sul viso, ma le mani
inguantate andarono a cozzare contro il bernoccolo che aveva sulla testa.
«Bene, e adesso?» domandò. La sua voce aveva un suono stranamente
sordo dentro l'elmetto.
Ma conosceva già la risposta. Con la tuta le cose si facevano un po' più
facili. Anche se la rigidezza del tessuto gli dava la sensazione di trovarsi in
una tuta corazzata.
Si girò verso la porta. Non ne era sicuro, eppure gli sembrava che non si
stesse più incurvando verso l'esterno con la forza di prima. Ma con quel
bozzo sulla testa non era in grado di sentire se c'era ancora il fischio. Provò
a considerare la situazione in cui si trovava. Indubbiamente era successo
qualcosa di grave. Anzi, di molto grave. Forse il rimorchiatore aveva col-
pito qualcosa. Ma non riusciva a immaginare cosa. Tutto ciò che sapeva
con certezza era che se c'era stato un incidente gli altri passeggeri potevano
essere rimasti feriti e avere bisogno d'aiuto. Loro erano fuori e lui era den-
tro. Stava per aprire la porta, ma all'ultimo minuto si bloccò, lasciando le
dita inguantate poggiate sulla maniglia.
La porta si incurvava verso l'esterno. Quindi, dentro c'era pressione... e
fuori... il vuoto?
Fissò la porta, mordendosi le labbra. Che cosa sarebbe successo se l'a-
vesse aperta? Non sarebbe per caso fuoriuscita tutta l'aria che c'era lì den-
tro? Magari trascinandoselo dietro?
Riabbassò la mano, ridacchiando al pensiero di quanto era stato vicino
all'eventualità, piuttosto probabile, di commettere un errore fatale. Si tro-
vava in un ambiente ostile e doveva considerare con attenzione ogni gesto.
Ma allora che cosa doveva fare? Aggrottò la fronte. Forse era proprio una
di quelle eventualità di cui parlavano nei due seminari informativi per chi
lasciava la Terra, ma tutto ciò che sapeva di questo genere di situazioni a-
vrebbe potuto stare sulla capocchia di uno spillo e sarebbe rimasto abba-
stanza spazio da farci danzare gli angeli.
Anche se le sue nozioni di fisica erano piuttosto confuse, cercò di utiliz-
zarle. L'aria stava uscendo attraverso l'intelaiatura della porta. Prima o poi
sarebbe uscita tutta, e a quel punto lui avrebbe potuto andarsene senza cor-
rere rischi. Quanto tempo ci sarebbe voluto? Non ne aveva idea. Ma aveva
qualche conoscenza di pronto soccorso, e durante tutto il tempo in cui lui
sarebbe rimasto ad aspettare là dentro, le persone che erano dall'altro lato
della porta sarebbero potute morire per la mancanza di soccorsi.
Così, ciò che doveva fare era escogitare un modo per fare uscire l'aria
più in fretta. Diede un'occhiata alla piccola stanza in cui si trovava, cer-
cando qualcosa che potesse servire allo scopo. Sfortunatamente era un ba-
gno, e non un ripostiglio per attrezzi.
Improvvisamente un bagliore metallico catturò il suo sguardo. Sul pavi-
mento c'era il pettinino che gli aveva regalato padre Ryuku.

Padre Tim si accovacciò per terra vicino alla porta. «La pazienza è una
virtù» ricordò a se stesso, infilando attentamente il pettine nella parte più
larga della fessura della porta. «Vai lento e tranquillo». Parlare da solo a
voce alta lo faceva sentire matto, ma gli era di conforto.
Quando ebbe infilato una delle estremità del pettine abbastanza in fondo,
tirò l'altra estremità delicatamente, usandola come fosse una levetta. L'a-
pertura si allargò un po' e sentì sia la porta che il pettine vibrare tra le mani
inguantate.
Gli venne in mente la sgradevole eventualità che l'operazione potesse es-
sere inutile, se per caso c'era un sistema che spediva dell'altra aria nel
compartimento man mano che lui la faceva uscire. Scacciò via quel pensie-
ro. Poteva solo sperare che non fosse così.
Proprio mentre cominciava a pensare che i muscoli della schiena e delle
braccia stessero per cedere, si rese conto che il pettine non stava più vi-
brando come un diapason. Forse significava che aveva funzionato, e che
gran parte dell'aria era fuoriuscita. Ritirò il pettine e posò il palmo della
mano sulla porta. Con il guanto era difficile dirlo con certezza, ma sem-
brava che non ci fossero più vibrazioni.
Gli scricchiolarono le ginocchia quando si rimise in posizione eretta.
C'era una tasca di stoffa all'altezza del petto. Ci infilò dentro il pettine. Poi
strinse la mano intorno alla maniglia, fece un respiro profondo, e la girò.
La porta si spalancò con violenza per la spinta dell'aria rimasta nel com-
partimento, facendogli sfuggire di mano la maniglia. La pressione dell'aria
lo catapultò in avanti piegandolo a quarantacinque gradi, ma gli stivali
mantennero la presa sul pavimento, e così riuscì ad aggrapparsi con l'altra
mano all'intelaiatura della porta. Si tirò indietro, soffocando un urlo. La
caduta libera e la tensione avevano portato al limite il suo stomaco. Ciò
che vide nel compartimento principale lo fece quasi vomitare.
«Gesù Cristo onnipotente» mormorò, cercando disperatamente di man-
dare giù il malloppo acido che gli saliva su per la gola.
Il bagno era situato tra il compartimento principale da una parte e la ca-
mera d'equilibrio dall'altra. Prima che si alzasse dal suo posto per andare in
bagno c'era un corridoio nel mezzo, con quattro file di sedili a due posti su
ciascun lato. Alla fine del corridoio, in posizione centrale, con una paratia
a ogni lato, c'era la poltrona del pilota con lo schienale alto, circondata da
una consolle di controllo a ferro di cavallo. All'altezza degli occhi c'era
una vetrata lunga e stretta, e sopra di essa un altro pannello curvo di stru-
menti e apparecchiature di controllo.
Quattordici delle sedici sedie erano occupate quasi tutte da residenti del-
la stazione di Anteros che probabilmente consideravano la caduta libera
abbastanza confortevole. Alcuni di loro avevano scherzato con lui lamen-
tandosi del proprio battesimo nel vuoto per aiutarlo a distrarsi dal disagio
che provava.
L'illuminazione della cabina era saltata. Adesso c'era un bagliore duro e
sulfureo, che copriva tutto di una luce fredda e lugubre.
La luce arrivava dal punto in cui prima c'era il corridoio centrale.
Gran parte del pavimento era distrutto. Tutto ciò che era rimasto consi-
steva in un larga lacerazione, bordata di metallo ritorto e di cavi stracciati.
La voragine iniziava proprio sotto la sedia del pilota e si estendeva verso
di lui, fermandosi a pochi passi dalla porta del bagno. Sotto non c'era altro
che un orribile e sconfinato nulla, che alla fine cedeva il passo alla nuda
faccia di Venere. La cosa peggiore era che il buco era grande all'incirca
quanto l'intera cabina. Non solo mancava quasi tutto il rivestimento del
pavimento, ma anche i sedili interni di tutti e due i lati. Quelli esterni erano
parzialmente piegati verso l'interno, quasi volessero offrire ai loro occu-
panti una vista migliore del disastro.
A tenere insieme i sedili esterni era rimasto poco più che una striscia di
metallo stretta e storta, che scorreva all'esterno della cabina. Pezzi di me-
tallo impossibili da identificare erano conficcati nelle pareti e nel soffitto
della cabina.
Tute pressurizzate inutilizzate erano appese dappertutto, simili a tronchi
contorti, con gli stivali attaccati alla superficie di metallo più vicina. Tim si
aggrappò all'intelaiatura della porta, cercando disperatamente di trattenere
il vomito, mentre in stato di shock spostava lo sguardo da un orrore all'al-
tro. Il sedile sulla sinistra proprio di fronte a lui era vuoto, la cintura di si-
curezza fluttuava libera. Nel sedile successivo c'era una donna con la cin-
tura ancora allacciata, aveva gli occhi ciechi sbarrati e la bocca spalancata
in un grido d'agonia. Teneva stretta tra le mani una scarpa da bambino.
«No» disse Tim con voce rotta, scuotendo la testa da un lato all'altro. Si
chiamava Jenny: lei e suo marito lavoravano su Anteros. Occupava il sedi-
le vicino a quello di Tim, e lui aveva chiacchierato con lei proprio fino a
quando non si era scusato per andare in bagno. Nel sedile accanto, dal lato
del corridoio, era seduto il suo bambino di cinque anni. Un diavoletto pie-
no d'energia con gli occhi verdi e i capelli castani, che aveva il sopranno-
me di Sparky.
Allontanò lo sguardo dal viso angosciato della donna. Il posto era pro-
prio quello lì accanto. Il posto che aveva lasciato per andare in bagno a
svuotarsi dei due bicchieri di soda che gli avevano salvato la vita. Subito
dopo quel sedile c'era il primo posto della fila. Un esile ragazzo di colore
era inchiodato lì da una specie di stanga di ferro conficcata nel petto. Ave-
va tutte e due le mani intorno alla cosa che lo aveva impalato, e la fissava
con uno sguardo di cieca sorpresa, dietro gli occhiali storti.
Gli occhi di Tim si accesero di speranza alla vista della poltrona del pi-
lota. Se c'era qualcuno che sapeva cosa fare, era proprio lei. Lo schienale
della poltrona era aperto in due, ma la donna che c'era seduta poteva essere
ancora tutta intera. Cristo, sperava che fosse così.
L'unico modo per saperlo era spostarsi nella parte anteriore della cabina
e verificarlo. Per farlo, doveva riuscire in qualche modo a girare intorno al-
l'orribile buco che c'era al posto del pavimento. Evitando accuratamente di
guardare in basso, esaminò la situazione. La sponda sinistra sembrava leg-
germente più larga di quella destra. Ma la camera d'equilibrio bloccava il
passaggio. Così rimaneva un unico percorso possibile da seguire.
Doveva solo fare in modo che i suoi piedi si muovessero.
Deglutì, staccò un piede dal pavimento e fece un passo verso il bordo.
Appena il primo stivale trovò un punto d'appoggio su ciò che era rimasto
del pavimento, lo fece seguire dall'altro, trasferendo la presa dall'intelaiatu-
ra della porta ai braccioli della prima poltrona della fila.
Il sedile era vuoto. Per depurare il cervello da un po' della paura che ne
intasava ogni singola sinapsi, cercò di ricordare chi aveva occupato quel
posto.
Un vecchio signore con la barba alla Van Dyke e uno yarmulka sulla te-
sta. Probabilmente non era cattolico, pensò, trattenendo a stento una risata
isterica. Comunque, liberò una mano dalla presa per farsi il segno della
croce, e sussurrò una breve preghiera per l'anima dell'uomo. Le parole del-
la preghiera avevano sapore di cenere, ma l'atto gli impegnò la mente in
qualcosa di diverso da ciò che stava facendo e dal motivo che lo spingeva
a farlo.
Oltrepassare la poltrona era un affare rischioso. Doveva afferrarsi al se-
dile con le gambe. La sponda non bastava a contenere nemmeno uno stiva-
le e i talloni erano rimasti sospesi nel vuoto. Ma la presa sembrava abba-
stanza forte e i braccioli della sedia gli offrivano un appiglio. Quando fu
riuscito ad aggrapparsi con tutti e due piedi al sedile, allungò una mano
verso il bracciolo della poltrona successiva. Tenendosi con tutte le sue for-
ze si spostò in avanti. Si ritrovò di fronte alla donna con la scarpina da
bambino tra le mani. Di nuovo pronunciò qualche parola per raccomandare
la sua anima e quella del bambino al paradiso. Evitando accuratamente di
guardare in basso, diede un'occhiata al di sopra delle proprie spalle al sedi-
le che si trovava dall'altro lato della cabina rispetto a lei.
Ci stava seduto un uomo. Aveva i capelli grigi, la mascella larga e un'a-
ria militare. Anche da morto era seduto rigidamente sull'attenti, con il viso
impassibile e gli occhi fissi. Spostando lo sguardo da lui alla donna orien-
tale che si trovava nella sedia di fronte, Tim per l'ennesima volta rischiò di
vomitare nell'elmetto.
Un pezzo di metallo piatto era conficcato nella parete accanto a lei. A-
veva strappato via quasi completamente la testa della donna. Penzolava at-
taccata al moncone nero del collo come un macabro palloncino, trattenuta
solo da una striscia di carne annerita, non più grande del suo polso sottile.
La testa era girata verso di lui, con gli occhi fissi in uno sguardo interroga-
tivo.
Tim chiuse gli occhi e disse qualche parola strozzata per tutti e due, reci-
tandola come un mantra che stava tra lui e la follia. Fatto questo, si fece
strada intorno al corpo della madre morta, cercando di non guardarla in
faccia. Girò intorno alla propria poltrona vuota notando, con un distacco
intorpidito, che c'erano diversi fori sullo schienale, e che da alcuni di essi
sporgevano delle schegge di metallo simili a coltelli.
Mormorò le preghiere per l'uomo di colore con il pezzo di metallo infil-
zato nel petto. Aggirarlo fu un po' più facile, perché la sponda era legger-
mente più larga. Con le mani aggrappate allo schienale della sedile del-
l'uomo, si guardò intorno per cercare la poltrona del pilota, con la punta
dei piedi sull'orlo della voragine.
Lo schienale della poltrona si trovava a circa un metro e mezzo di di-
stanza da lui, ma tra di loro c'era il nulla assoluto. Si spinse in avanti, la
mano mancò la presa per un pelo. Stringendo i denti si piegò di più, e con
la punta delle dita si agganciò a mala pena al bracciolo della sedia che a-
veva accanto.
Ma non riuscì lo stesso a raggiungere il pilota.
Si tirò indietro e si guardò intorno impotente, cercando un altro modo
per avvicinarsi, ma senza successo.
Con la mascella serrata per contenere il piagnucolio che sentiva traboc-
care dentro di sé, fece scivolare il piede sinistro più avanti che poteva, la-
sciandolo appoggiato solo per metà ai resti deformati del pavimento. Poi
lentamente, con cautela, lasciò andare la presa della poltrona e fece scivo-
lare il piede destro accanto a quello sinistro.
Così si ritrovò esattamente nel centro del nulla; alla sua destra irrag-
giungibile c'era la poltrona del passeggero, e alla sua sinistra, altrettanto ir-
raggiungibile, la poltrona del pilota. Riuscì a tenere gli occhi lontani dal
freddo vuoto che aveva sotto i piedi, ma non riuscì ad allontanarlo dalla
mente. Le orecchie cominciarono a fischiargli e la testa a girare, scuri lam-
pi gli danzavano davanti agli occhi. Sentì che stava per cadere. Non è nien-
te, si disse disperatamente, ma la logica non riuscì a convincere il suo cor-
po.
Fu preso da un attacco di panico, e si lanciò accanto alla poltrona del pi-
lota in un impeto di terrore, ma la forza che fu costretto a usare per stacca-
re gli stivali magnetizzati dal pavimento gli fece perdere la mira. Mentre le
sue braccia annaspavano inutilmente, con la coda dell'occhio vide Venere
che si sollevava per risucchiarlo.
Quando le sue spalle andarono a sbattere contro il sostegno metallico
della poltrona, si gettò con le braccia intorno a esso, come un uomo che sta
annegando si afferra a una fune. Le gambe scalciavano freneticamente
man mano che scivolavano trascinandosi dietro il resto del corpo.
Ma il suo braccio era avvinghiato alla struttura metallica con una stretta
mortale. Finì per rimanere appeso lì, attaccato al sostegno per salvarsi l'a-
mata vita, mentre il resto del corpo ciondolava fuori dalla nave danneggia-
ta. Rimase così per quasi un minuto, cercando di prendere fiato con gli oc-
chi serrati. Gli sembrò che il cuore fosse sul punto di balzargli fuori dal
petto.
Finalmente il terrore si stabilizzò a un livello tale da permettergli di pro-
vare a tirarsi fuori dal buco. Fece oscillare le gambe finché uno degli stiva-
li non trovò un punto d'appoggio, poi cominciò a spingersi verso la parte
anteriore della poltrona. Pian piano, muovendosi come un uomo che si tira
su da una tomba scoperchiata, riuscì a issare il corpo sul pavimento davan-
ti al sedile.
Non appena ebbe il terreno solido sotto i piedi si sentì talmente bene che
avrebbe potuto anche baciarlo. Mezzo ansimante, e con le membra treman-
ti per l'adrenalina che aveva nel sangue, afferrò lo spigolo della consolle e
si avvicinò per dare un'occhiata al pilota.
Bastò una semplice occhiata e le sue deboli speranze sul fatto che lei
stesse bene e potesse tirarli fuori da quel pasticcio si spensero come una
candela votiva con un secchio d'acqua gelata.
La donna aveva lo sguardo fisso su di lui, e il bianco degli occhi castani
era diventato rosso a causa dei vasi sanguigni bruciati.
Pur sapendo che era tempo perso, si avvicinò titubante per sentire le pul-
sazioni sul collo.
La testa le ciondolò in avanti. Una sbarra sporgeva fino al cranio tra le
ciocche dei capelli neri come un rigido ricciolo metallico. Dietro la sua
poltrona c'era un altro buco.
«Gesù misericordioso» sussurrò Tim, quando la cruda verità della situa-
zione gli crollò addosso come un set di porte d'acciaio. Erano tutti morti
eccetto lui, e senza nessuno capace di pilotare quell'aggeggio era esatta-
mente come se anche lui fosse già morto.

Non sarebbe stato in grado di dire quanto tempo era rimasto lì come uno
zombie a fissare il pilota privo di vita mentre la sua mente girava a vuoto,
cercando di trovare un modo che gli permettesse di credere che si trattava
solo di un brutto sogno, la terribile origine di tutti gli incubi.
Ma non ci fu nessun risveglio nel letto bagnato fradicio di sudore. Nulla
che gli potesse far giurare che per tutta la vita non avrebbe più fatto uno
spuntino di mezzanotte con una pizza fredda o con le sardine. Questa volta
era vero. Anche troppo vero.
Distolse lo sguardo dalla faccia della donna e fece un respiro profondo,
cercando di mantenere un briciolo di autocontrollo. «Stai calmo adesso»
disse tra sé e sé. Per l'ennesima volta provò ad asciugarsi il sudore dalla
fronte, e le sue mani dentro i guanti urtarono contro il casco di plastica.
Devi riflettere.
Era più facile a dirsi che a farsi. L'unica cosa che gli venne in mente fu
di dare l'estrema unzione al pilota. Lo fece, recitando le preghiere con un
mormorio distratto, mentre la sua mente cercava disperatamente la propria
salvezza, e non quella di lei.
«E adesso che faccio?» Era una domanda da cui non poteva sfuggire.
Non aveva nemmeno un'idea. Aveva bisogno d'aiuto, ne aveva un enorme
bisogno.
Trovare aiuto.
Fu quasi sul punto di sorridere. Doveva esserci su quell'affare una radio
o qualcosa del genere, no?
Doveva esserci qualcuno da qualche parte, che poteva dirgli cosa doveva
fare. Si girò a guardare la consolle di controllo, ma le sue speranze si tra-
sformarono di nuovo in panico, di fronte alla sbalorditiva complessità di
quei congegni. C'erano letteralmente dozzine di quadranti numerici e di
schermi, innumerevoli interruttori e indicatori, di cui molti fuori uso o ac-
cesi di un rosso snervante.
Come diavolo posso riuscire a capire qualcosa in questa confusione? A
casa era stato sempre costretto a chiedere aiuto per fare funzionare un
semplice sistema PA che usava per giocare a bingo. Chiuse gli occhi. For-
se il pilota poteva far funzionare quel pasticcio, ma lui non aveva nemme-
no un dannato straccio di possibilità. Gli venne in mente la faccia della
donna, quasi a ricordargli quale sarebbe stata ben presto la sua fine.
Tim spalancò gli occhi e si girò a guardarla. Questa volta invece di con-
centrarsi sul viso, fissò la cuffia e il microfono che aveva indosso.
Con quello la donna poteva comunicare con le basi di controllo del traf-
fico aereo, o con qualsiasi altra maledetta cosa ci fosse all'esterno.
«Scusami» disse sfilandole dalla testa l'apparecchio. Si infilò la cuffia
sull'elmetto. Gli sembrò di sentire un confuso ronzio, ma non ne era certo.
Che fosse rotto? Forse si era staccato. Seguì la traccia del filo fino a una
cavità che c'era nel bracciolo della poltrona. Sembrava a posto.
Poi si ricordò. Le onde sonore non viaggiano nel vuoto. Che cosa aveva
detto di fare, il dimostratore delle tute d'emergenza, quando si voleva co-
municare con qualcuno?
Toccare il casco. Ma non funzionò. Si spremette le meningi affaticate.
C'era qualcos'altro. Qualcosa...
Poi gli venne in mente. Nel collare della tuta erano installati un microfo-
no e un fonorivelatore, che potevano essere inseriti nel sistema di comuni-
cazione in circostanze come quella. Il filo era collocato in un riquadro ri-
gido che si trovava all'altezza della vita.
Tim si diede da fare freneticamente con il coperchio del riquadro, riu-
scendo alla fine ad aprirlo. Tirò fuori il filo metallico, staccò la cuffia auri-
colare, e infilò il suo cavo nell'attacco. Non appena fu realizzata la connes-
sione ci fu una scarica statica, poi sentì il suono più bello che avesse mai
udito in tutta la sua vita. Un suono che gli fece venir voglia di gridare alle-
luia.
Era il suono di una voce umana.
«...Vettore Alfa Due Uno Cinque, rispondete prego. Qual è la vostra si-
tuazione? Ripeto, qual è la vostra situazione?» Era una voce femminile,
secca, calma e controllata, ma con una evidente punta di apprensione.
Oh Cristo, aiutami! singhiozzò Tim. «Ti prego, devi aiutarmi!»
Ci fu un attimo di pausa, poi sentì di nuovo la voce della donna, e gli
sembrò una luce nell'oscurità.
«Ti sento. Sei tu, Sherry?»
Padre Tim lottò per mantenersi calmo. Speranza, terrore, sollievo; gli
sembrava di essere sul punto di esplodere. Prese fiato. «Io... io sono Tim
Shannon.» Balbettò. «Io... sono l'unico sopravvissuto qui. Tutti gli altri so-
no m-morti».
Seguì un altro momento di silenzio. Poi la voce della donna ritornò,
calma e rassicurante. «Va bene, Tim. Spiegami lentamente e con calma.
Stai dicendo che Sherry, il pilota, è morta?»
«Sì, signora.» Deglutì faticosamente. «E anche tutti gli altri. Tutti eccet-
to me». Ripeterlo ad alta voce faceva sembrare la cosa ancora più reale.
Tutto il resto non contava. E poi c'era la consapevolezza di quanto era so-
lo, più solo di quanto avrebbe mai potuto essere sulla Terra.
«Sai dirmi che cosa è successo, Tim?»
«Non lo so» piagnucolò «ero nel bagno. C'è stata un'esplosione. Che ha
scosso la nave da cima a fondo. Mi sono infilato una tuta pressurizzata.
Dopo avere fatto uscire tutta l'aria dal bagno sono tornato qui. A quel pun-
to ho trovato... trovato...»
«Stai tranquillo, Tim» disse lei gentilmente. «Sei con me. Mi hai detto
che hai dovuto fare uscire tutta l'aria dal bagno. Quindi non c'è più aria nel
compartimento principale?»
«No» rispose lui dando un'occhiata raggelata allo stato di distruzione che
aveva alle spalle.
«Non c'è più nessun maledetto pavimento! È andato, e insieme a lui me-
tà dei sedili, e io sono solo e...» La sua voce si alzava di volume a ogni pa-
rola, portandolo a un punto in cui gli rimaneva solo di urlare.
«Tim!» il tono di secco comando lo bloccò a metà di una parola.
«Devi rimanere calmo. Non sei solo. Io sono qui.»
«E io sono qua!» sibilò, mentre in un attimo la paura si trasformava in
rabbia di fronte all'ingiustizia di quanto accaduto.
La donna ridacchiò. Ci fu qualcosa nel suono della risata che scosse
Tim, e lo riportò in uno stato di strana calma. «Credimi, Tim» disse lei
«non sono in una situazione migliore di quella in cui ti trovi tu.»
«Mi... mi risulta piuttosto difficile crederci» disse con una risatina isteri-
ca.
Seguì di nuovo una lunga pausa. Tim sapeva che lei era nella posizione
di chi sta cercando di parlare con una persona sul punto di precipitare in un
burrone, e che lui si trovava dannatamente vicino all'orlo.
Per mantenersi calmo, provò a immaginare che aspetto avesse. Sui cin-
quantacinque anni, forse. Un viso forte e paziente, asciutto, segnato dal
sorriso e da rughe d'espressione. Occhi nocciola chiaro. Capelli scuri ta-
gliati in modo non privo di stile...
Gli si strinse il cuore nel petto. Se la stava immaginando simile a Be-
verly. Proprio come...
«Va bene, Tim» disse lei, facendo deragliare i suoi pensieri dal binario
morto in cui si stavano infilando. «Credo che sia meglio, per il momento,
mettere da parte questo argomento. Vale la stessa cosa riguardo a ciò che è
successo. Prima di tutto occupiamoci delle cose fondamentali. Suppongo
che tu non sia capace di guidare una nave spaziale.»
«Io non ho mai guidato nemmeno un'automobile» ammise lui con deso-
lazione.
«Quindi posso dedurre che non hai nessuna brutta abitudine che dob-
biamo vincere» disse, cercando di sembrare soddisfatta della sua incompe-
tenza. Tim sorrise stancamente. Se lei riusciva a rimanere così calma e po-
teva addirittura scherzare, forse stava andando tutto bene. «Sherry è ancora
seduta nella poltrona di pilotaggio?»
Annuì: «Uh huh.»
«Bene. La prima cosa che devi fare è spostarla per sederti tu al suo po-
sto. Puoi farlo?»
«Io... credo di sì.»
«Questo è lo stato d'animo giusto. Provaci.»
«Va bene.» Si spinse più vicino per cercare la cintura di sicurezza che
tratteneva il corpo della donna sulla poltrona. C'erano delle cinghie che
scendevano dalle spalle, e finivano in una chiusura dall'aspetto complicato
che tratteneva anche una larga fascia all'altezza della vita.
«Dai un mezzo giro alla manovella che c'è sulla chiusura» disse la donna
proprio mentre Tim stava per toccarla.
«Grazie, ehm...»
«Lilith. Ma puoi chiamarmi Lil. Tutti i miei amici mi chiamano così.»
La serratura scattò facilmente. Le fibbie si slacciarono. «Lilith, uhm. Lil
forse va meglio per me. Sono un prete cattolico, e la tua omonima non è
uno dei personaggi preferiti dalla Chiesa».
Lil sbuffò. «La Chiesa calunnia il suo nome. In qualche cerchia lei è
considerata la prima eroina femminista. La sua unica colpa è stata di rifiu-
tarsi di essere la schiava di Adamo, e di dire a Dio che non c'è nessun sen-
so nell'avere il libero arbitrio, se non puoi usarlo.»
Il libero arbitrio era un concetto che aveva dato a Tim parecchi proble-
mi, così lasciò passare il commento di lei senza contestarlo. A quel punto
era pronto ad accettare l'aiuto anche di qualcuno che si chiamasse Belzebù.
Tolse l'ultima cinghia. «Adesso è libera dall'imbracatura. Che cosa devo
fare con lei?»
«Puoi spostarla in un altro sedile?»
Si girò a guardare l'apertura del buco che avrebbe dovuto superare per
raggiungere il sedile vuoto più vicino, lo stomaco gli si contrasse per l'an-
sia. «Non credo.»
«Allora lasciala semplicemente andare.»
«Ma potrebbe cadere giù!» C'era qualcosa che lo terrorizzava all'idea
che il buco potesse inghiottire qualcun altro. Sarebbe stato come spingere
qualcuno oltre la porta dell'inferno. Si guardò intorno, cercando un'alterna-
tiva. Poi vide la cuffia auricolare. «C'è un po' di filo metallico.» Lo prese
in mano. «Credo che ce ne sia abbastanza per legarla allo schienale della
poltrona.»
«Ottima idea, Tim» disse Lil con tono di approvazione. «Fallo. Ma sbri-
gati.»
Tim si domandò che fretta c'era, ma non le chiese nulla. Puntò i piedi,
afferrò il cadavere della donna da sotto le ascelle e lo sollevò. Per un atti-
mo sentì resistenza, poi il corpo si staccò dalla sedia. E cominciò ad allon-
tanarsi.
«Dannazione, no!» disse affannosamente, non appena si accorse che il
cadavere lo stava trascinando con sé. Resistette con tutte le sue forze, poi
all'improvviso sentì che uno degli stivali si stava staccando dal pavimento.
Lasciò andare il corpo prima che i piedi perdessero completamente la pre-
sa.
«Qualche problema?» domandò Lil tranquillamente.»
«Io... lei...» Il corpo andò a sbattere contro il soffitto, ricadde, e comin-
ciò a ritornare verso di lui. «Aspetta un momento...» L'afferrò per la tuta,
cercando di dirigere il corpo, che aveva ricominciato a spostarsi, accanto
alla poltrona. Stava quasi per perdere la presa, nel tentativo di bloccare il
movimento della donna, ma riuscì a mantenerla.
Non appena ebbe appiccicato il corpo allo schienale della poltrona gli
avvolse intorno il filo metallico e lo annodò frettolosamente.
«Fatto» disse con un respiro di sollievo.
«Perfetto, Tim. Adesso siediti e mettiti la cintura di sicurezza.»
Fece come lei gli aveva detto, infilandosi goffamente le cinghie e allac-
ciando la chiusura. Non appena ebbe terminato si sentì protetto e molto più
sicuro. Una vocina nella testa gli ricordò che non era stata di grande utilità
per il precedente occupante della poltrona, ma fece finta di niente.
«Ho allacciato tutto.»
«Eccellente. Adesso guarda all'estremità del bracciolo destro, c'è un
pannello chiuso. Lo vedi?»
Abbassò gli occhi. «Sì».
«Togli il coperchio. C'è una fila di bottoni dentro. Premi quello blu.»
Tim tolse il coperchio e guardò attentamente ciò che c'era sotto. «Mmm,
sono tutti scuri, Lil.»
«Maledizione» disse lei senza nessuna particolare enfasi. «Va bene,
premi quello più lontano sulla sinistra, poi il secondo a partire da te sulla
destra».
«Perfetto». Fece come gli aveva detto. Non era in grado di capire se era
successo qualcosa.
«Per quanto riguarda il piano A basta così» disse lei tranquillamente.
«Serviva alla spinta telemetrica e a ripristinare il pilota automatico. Ma
nessuno dei due ha funzionato. Adesso guarda il tabellone di controllo che
c'è alla tua destra. C'è uno schermo quadrato nel mezzo, grande circa due
volte la tua mano. È acceso?»
«Sì che lo è!» Si era già fatto un quadro mentale di Lil come di qualcuno
che non si arrende facilmente. Era riuscita a fargli fare delle cose, e presto
o tardi avrebbero funzionato. Dovevano funzionare.
«Bene. All'estremità del pannello che hai individuato c'è una leva di
scambio. Tirala verso il basso, e poi a destra. Appena lo farai, vedrai uno
schema dall'alto dei motori della nave. Dimmi quante luci verdi vedi, e do-
ve si trovano.»
«Tirare in basso, e poi a destra» mormorò, ripetendo le istruzioni mentre
le eseguiva. «Vedo soltanto delle luci rosse. Sono cinque.»
«Dannazione. Prova la posizione intermedia».
Faceva quello che lei gli diceva di fare, e la sua apprensione aumentava
di fronte a ciò che appariva sul piccolo schermo. «Ce ne sono quattro ros-
se, e nemmeno una verde. È un brutto segno, vero?»
«Potrebbe andare meglio» rispose lei con tono asciutto. «Prova l'ultima
posizione.»
Ma anche così, nient'altro che luci rosse.
Glielo disse con un filo di voce.
Lil rimase in silenzio per qualche secondo.
«Va bene, Tim» disse, e per la prima volta la sua calma suonò forzata e
falsa. «Stai andando benissimo. Guarda in basso sul lato sinistro della
consolle. Ci sono due piccole uscite digitali, una sopra l'altra. Riesci a leg-
gere ciò che dicono?»
Tim si girò a guardare.
«Quella che c'è in cima dice 4733. Quella in basso, 1397.»
«Va bene, questa è la conferma di ciò che leggo in telemetria. Adesso
possiamo provare ancora un paio di cose, Tim. Ma prima devo staccarmi
dal circuito per un minuto o due. Tu rimani seduto immobile. Sarò di ritor-
no prima che te ne possa accorgere. Va bene?»
Il pensiero di rimanere solo un'altra volta riaccese la miccia del panico
dentro di lui. Ma riuscì a contenere la voce quando le rispose: «Sarò qui,
Lil».
«Sarà meglio. Io conto su di te.»

Tim rimase seduto da solo, con il silenzio sconfinato che gli fischiava
nelle orecchie e l'odore acido del suo stesso sudore. Era buffo che non ci
avesse fatto caso fino a quel momento.
Aveva la vaga sensazione che Lil gli stesse nascondendo qualcosa. Che
la situazione fosse anche peggiore di come sembrava dal posto in cui era
seduto, che oltre tutto era già abbastanza brutta, grazie tante. Quanto era
peggiore? Non c'era alcun modo di saperlo prima che lei glielo dicesse, e
lui non era esattamente incline a chiedere.
Piegò le mani all'interno dei guanti. Le sentiva umide e appiccicose.
L'impulso di usarle in qualche modo lo portò a cercare il rosario nella tasca
della giacca. Ma le mani inguantate scivolarono sul tessuto liscio della tuta
pressurizzata. Rimase a guardare in basso colto da un attimo di confusione,
poi realizzò che il rosario poteva anche essere rimasto nella sua stanza di
Boston, per quello che gliene importava in quel momento.
Un sorriso sarcastico gli attraversò il viso. Parlare di vecchie abitudini
dure a morire...o essere vicino a morire portandosi dietro le vecchie abitu-
dini. Era da un pezzo che non aveva più una vera fede nella preghiera. Ne-
gli ultimi quattro anni aveva pregato con fervore per trovare la forza e una
guida, con l'unico risultato di affondare sempre più in una palude di confu-
sione e di dubbi. Gli ultimi due erano stati gli anni peggiori.
«Sì, sei dannatamente in mezzo ai Beati, Tim» mormorò tra sé e sé. La
Riorganizzazione del 2003 e del 2021 aveva portato alla istituzione della
Trinità Sacerdotale; che consisteva in tre sovraordini separati. C'erano i
Pastori: uomini e donne sacerdoti, che potevano sposarsi, anche tra perso-
ne dello stesso sesso, e avere dei bambini. Poi c'erano i Pescatori: si tratta-
va di unioni consacrate tra sacerdoti, il cui matrimonio era dedicato al la-
voro missionario e a diffondere e sostenere la fede. E infine c'erano i Beati,
che erano rimasti fedeli alle vecchie e severe regole tradizionali; le donne
erano monache e gli uomini preti, votati all'ascetismo e al celibato.
Tim aveva preso i voti di Beato a vent'anni, e dopo avere trascorso circa
quindici anni di zelante servizio, la sua fede aveva cominciato a sgretolar-
si. Ma avrebbe anche potuto mettere una pezza su quei due anni se non a-
vesse incontrato Beverly.
Gli tornò in mente. Come era quando l'aveva incontrata per la prima vol-
ta, una figura linda e padrona di sé, con un mucchio di libri sottobraccio,
che l'aveva costretto a fermarsi e a fissarla come se l'avesse riconosciuta.
Non come l'aveva vista l'ultima volta, in uno scatola foderata di rosa, con il
viso pallido, così bianco...
«Tim, sei ancora lì?»
Padre Tim cercò di scrollarsi di dosso la sensazione di tristezza sconfi-
nata che lo aveva colto. Così dolce da viva e poi morta in modo così tre-
mendo. «Sì» disse con voce incerta «sono ancora qui.» Le era caduto un
libro quel primo giorno, Le lettere dalla Terra di Mark Twain.
«La pausa è finita. Possiamo provare ancora una cosa prima di ricorrere
a una alternativa. Va bene?»
«Certo.» Lui l'aveva raccolto, quel libro, e si era presentato. Ma con
quell'atto innocente aveva cominciato a precipitare nel profondo e buio
crepaccio che divideva due mondi.
«Tutto bene?»
Fece un respiro profondo, nel tentativo di spazzar via le polverose ragna-
tele della memoria. Doveva concentrarsi. Forse la vita non era stata il mas-
simo negli ultimi tempi, ma non era ancora pronto a morire. «Sto bene.
Cosa vuoi che faccia?»
«Apri il pannello che sta sul bracciolo sinistro della poltrona. Sulla cima
c'è un interruttore con la chiave. Spingilo e giralo a destra.»
«Sto togliendo la copertura. Vedo l'interruttore. È stato già girato.»
«Questo vuol dire che la nave è in modalità di controllo via cavo. La-
sciami guardare...» Seguì una lunga pausa. «Niente da fare. Giralo tutto a
sinistra.»
Girò nervosamente la chiave dall'altro lato. «Fatto.»
«Bene. Sembra che tutti i computer della nave siano fuori uso. A questo
punto dobbiamo spostare il controllo della nave in modalità manuale. Fac-
ciamo un tentativo nel caso in cui ci siano ancora un motore o due funzio-
nanti.»
«I motori erano quelle piccole luci rosse che ho visto sullo schermo?» Il
rosso significa morte. Come tutto ciò che c'è qui. Compreso me.
«Esatto. C'è un grande schermo sopra quello dei motori. Dovrebbe mo-
strare due cerchi collegati. Nel centro di uno di loro c'è una scatola rossa,
con una serie di fili intrecciati nel mezzo. Dovrebbe esserci una luce verde
lampeggiante in mezzo all'altro cerchio. Se in questo display qualcosa
cambia voglio che tu me lo dica immediatamente.»
Lui annuì. «Va bene. C'è anche una luce rosa lampeggiante a un lato e-
sterno, e una linea che parte da lì e si infila in una delle sbarre di fili incro-
ciati.»
«Lo so. Ignorala. Adesso sono sicura che hai notato le leve di comando
che ci sono su tutti e due i braccioli. Afferra quella destra e muovila in a-
vanti.»
«Stai attento, allievo pilota» scherzò debolmente Tim avvicinando la
mano alla sbarra. Mordendosi le labbra per l'attesa snervante, la spinse in
avanti.
«Non mi pare che sia successo nulla» le riferì con voce priva d'emozio-
ne.
«Temo che tu abbia ragione. Senza il computer a mediare il flusso del
carburante, saresti stato sbattuto contro lo schienale della sedia con violen-
za spaventosa. Le tue telemetrie sono tutte in disordine, ma riesco a legge-
re abbastanza.» Esitò un secondo.
«Rischiamo il tutto per tutto. Prova le altre posizioni.»
«Il tutto per tutto, eh?» cominciò a spostare la leva con la mano destra.
«A destra. In basso. A sinistra.»
«Niente. Prova con l'altra leva, prima in avanti.»
«Avanti. Destra. Sinistra. In basso.»
Passarono diversi secondi prima che Lil parlasse di nuovo. Quando lo
fece la sua voce era apparentemente calma, ma era impossibile non accor-
gersi della tensione che nascondeva. «Be', amico mio, abbiamo un proble-
ma.»
Questo era ormai terribilmente ovvio. «La nave è completamente fuori
controllo, eh?» disse lui con un filo di voce.
«Sì, Tim, è così.»
«Sto per schiantarmi su Venere.» La luce sinistra che riempiva la cabina
sembrò farsi più intensa, come se stesse preparando qualcosa. Poteva quasi
sentirla lì sotto di lui, mentre pazientemente aspettava di risucchiarlo.
«No» disse lei tranquillamente. «La perdita di pressione ha spostato la
nave dal suo percorso originario. Sia Sherry che il pilota automatico hanno
cercato di compensare lo spostamento, ma senza molto successo. Se il ri-
morchiatore mantiene la direzione che sta seguendo adesso, tra circa venti
minuti si schianterà nel bel mezzo della stazione Anteros.»
Tim rimase scioccato. «Tu stai... stai...» Prese fiato a fatica, aveva la
bocca secca come la polvere. Su quella stazione vivevano e lavoravano
circa un centinaio di persone. Al suo arrivo avrebbe trovato ad attenderlo
un battesimo, un matrimonio, e nove confessioni. Gli venne in mente che
adesso il suo arrivo avrebbe scatenato la distruzione delle persone di cui
avrebbe dovuto essere il ministro.
Recuperò la voce. Era un roco brontolio. «Non puoi... la stazione non
può essere spostata?».
«Non in tempo» rispose lei gentilmente. «I propulsori che la mantengo-
no in orbita sono controllati completamente dal computer. Ci vorrebbero
almeno tre ore in più per approntare qualsiasi tipo di controllo manuale. Il
nostro rimorchiatore potrebbe spostarlo in tempo dal percorso, ma sfortu-
natamente ci sei tu lì dentro.»
«Allora... era questo che intendevi quando hai detto che non ti trovavi in
una situazione migliore della mia» disse con voce incerta. Come aveva fat-
to a rimanere così calma pur avendolo saputo sin dall'inizio... Non c'era da
meravigliarsi se non glielo aveva detto, aveva paura che si spiaccicasse
come un uovo sotto un colpo di martello.
Aveva fatto bene a tacere. Era già abbastanza tremendo il pensiero di
morire, ma l'idea di uccidere così tante persone era più di quanto potesse
sostenere. La fragile calma che aveva mantenuto fino a quel momento co-
minciava ad andare in pezzi. Aveva voglia di imprecare, di piangere, di
strapparsi i capelli e gridare, gli sembrava che fossero stati tutti i suoi dub-
bi e la mancanza di fede a metterlo in quella situazione spaventosa; Dio lo
stava punendo facendolo diventare l'assassino di un mucchio di persone
innocenti.
«E questa è solo una parte della cosa, Tim.» Sentì che faceva un respiro
profondo, le parole di lei gli ronzavano minacciose nelle orecchie. Cosa
poteva esserci di peggio? Aspettò che dicesse ciò che doveva dire, abban-
donato nella poltrona a fissare le proprie mani inutili.
«Mi stai ascoltando, Tim?»
«Uhuuh.»
«Non voglio mentirti. Al momento non c'è nulla che né tu né io possia-
mo fare per salvarti. Mi dispiace, ma è così che stanno le cose. Ma forse
c'è ancora qualcosa che puoi fare per evitare di uccidere chiunque si trovi
su quella stazione.»
Forse era caduto in stato di shock. Forse aveva già cominciato a morire
dentro di sé. Perché improvvisamente non sentì più nulla. Niente di niente.
Solo il rumore bianco di un'indifferenza apatica.
«È così?» Disse con voce monotona e robotica. Lei era buona, ma non
aveva nessuna importanza. Anche Beverly era buona, ma era finita spiac-
cicata come una cimice sotto il paraurti di un autobus.
«Sì, è così, Tim. Prima proveremo il modo più semplice, anche se le tue
telemetrie mi fanno dubitare che funzioni. Se non funzionerà, dovrò chie-
derti di fare qualcosa di molto difficile.»
Venti minuti. Anche meno. Fino a quel momento non aveva funzionato
nulla. E non avrebbe funzionato nulla. Dio aveva deciso di usarlo per ucci-
dere quelle persone e non c'era niente che lui potesse fare per evitarlo. C'e-
ra in azione il libero arbitrio...
... Si rivide incapace di decidere se abbandonarsi alla sua vocazione, o
rinunciarvi per impegnarsi con la donna di cui si era innamorato. Si rivide
unirsi a lei mentre continuava a esercitare la sua funzione di prete per
quasi diciotto mesi, senza darsi veramente a nessuna delle due cose. E si
rivide seduto in una stanza buia della canonica, consapevole del fatto che
lei si stava domandando come mai non era andato all'appuntamento, co-
sciente del fatto che stava spingendo troppo oltre la sua pazienza e che lei
gli avrebbe posto una domanda a cui non poteva rispondere. Si rivide ri-
spondere al telefono e venire a sapere che lei era stata investita e uccisa
da un autobus mentre ritornava a casa da sola, dal ristorante in cui a-
vrebbero dovuto incontrarsi per cenare...
«Tim?»
«Uh huh.» Dio avrebbe potuto perdonarlo se lui avesse scelto di abban-
donare l'Ordine dei Beati per stare con lei. Lei avrebbe potuto perdonarlo
se lui avesse scelto di mantenere i voti. Oh, i peccati di omissione procura-
no le macchie più profonde, le più indelebili nel tessuto dell'anima...
«Ci proverai?»
Fece spallucce dentro la tuta. Che utilità c'era nel provare? Il rosso signi-
fica morte. La vita è una barzelletta e la morte il suo punto culminante.
«Ti prego, Tim.»
C'è un fondo alla disperazione. E lui lo aveva toccato abbastanza in fret-
ta, perché gli era già successo molte altre volte. Era un luogo in cui fer-
marsi. O accucciarsi. Forse addirittura genuflettersi.
«Lo so che è difficile.»
No, non è vero, è la cosa più facile del mondo fingere di fare qualcosa.
Io dovrei saperlo.
«Cosa vuoi che faccia?» disse con voce totalmente priva di emozione.
Parlò in fretta, come se avesse capito di averlo scosso. «All'estrema sini-
stra della consolle, esattamente sopra i numeri che hai letto prima, ci sono
due chiavi sotto una copertura trasparente. Girale a destra, per favore.»
«A cosa dovrebbero servire?» domandò mentre le cercava. Non a cosa
servono, né a cosa serviranno.
«Sono gli scarichi d'emergenza di carburante e ossigeno. I serbatoi sono
all'esterno, sopra il compartimento principale. La pressione rilasciata do-
vrebbe modificare la rotta abbastanza da evitare Anteros.» Si piegò a cer-
carle, anche se sapeva che non sarebbe successo nulla, solo per compiacer-
la.
«Ho tolto la copertura. Ne sto girando una a destra. Adesso quella sulla
sinistra. Basta così, no?»
Passarono diversi secondi prima che lei rispondesse. «Non è successo
niente alle chiavi, ma credo che sia successo qualcos'altro.»
«Cosa?»
«Ci hai rinunciato.»
Lui non disse nulla, rimase a fissare fuori dal lungo e stretto portello tra
la consolle in alto e quella in basso. Vi vide riflessa la propria immagine
spettrale, un viso pallido intrappolato dentro una bolla di plastica, come un
pesce gatto albino allevato nelle grotte e infilato in una vasca per pesci
rossi. Intrappolato e fuori luogo. Senza via di scampo.
«Non è così?»
Lui abbassò gli occhi, e allargò le mani. «Forse è così, Lil» Non si trat-
tava di una ammissione ma semplicemente di una constatazione. «Forse
Dio mi sta punendo, e io ho solo deciso di accettare il mio destino. O forse
non c'è nessun Dio, ed è così che finiscono quelli che seguono qualcosa
che non esiste»
«Credevo che fossi un prete.»
«Lo ero, una volta. Ho ancora addosso il colletto, ma non significa nulla.
Un prete fallito può fingere di avere fede proprio come una moglie ubbi-
diente finge l'orgasmo. Non è difficile. Le persone vedono ciò che voglio-
no vedere, comunque.»
«Io non credo in Dio» disse Lil sovrappensiero. «Suppongo che ciò in
cui credo sia la gente.»
Una smorfia che poteva essere un sorriso abortito gli attraversò il viso.
«Significa andare a cercare una vita di disillusioni.»
«Forse è così. Sono stata delusa un mucchio di volte, esattamente come
chiunque altro. Ma nemmeno le persone più devote si aspettano una rispo-
sta a tutte le proprie preghiere, no? Il fatto è che se ciò in cui credi si dimo-
stra vera abbastanza spesso, e soprattutto quando ne hai più bisogno, allora
cominci ad aver fede. Lascia che ti dica una cosa, Tim. Ho trascorso diver-
si spaventosi minuti a parlare in un microfono muto, cercando di mettermi
in contatto con qualcuno su questo rimorchiatore, sapendo sin dal primo
momento che si stava dirigendo dritto dritto su Anteros. Mi illudevo che se
qualcuno fosse sopravvissuto, allora poteva esserci una possibilità di evita-
re il disastro. Una persona è sopravvissuta.»
«Esatto. Io. Un prete senza fede.»
«Mi hai detto che sono tutti morti sulla navicella. Hai detto qualche pre-
ghiera per loro?»
«Sì» ammise.
«In poche parole hai fatto ciò che potevi. Anche se non faceva nessuna
differenza, hai fatto tutto ciò che potevi. Ed è questo che voglio che tu fac-
cia adesso.»
Tim sospirò. «Certo. Perché no?» Si lasciò andare in una risata sepolcra-
le e beffarda. «Non credo di avere nulla da fare nei prossimi cinque minu-
ti.»
«Così va bene». Il suo tono di voce divenne immediatamente frettoloso,
efficiente. «Vediamo, tu hai addosso una tuta d'emergenza, giusto?»
«Uh uhu.»
«Bene. Proprio di fronte a te nel punto più basso della consolle c'è una
maniglia nera con una sbarra striata di rosso. Spingi la sbarra e gira la ma-
niglia.»
Fece ciò che gli aveva detto. «È venuta fuori una cosa lunga e nera.»
Sperò che fosse previsto, ma era difficile immaginare che la nave si potes-
se scassare ancora di più.
«Era previsto. C'è una sacca all'altezza della tua coscia sinistra. Infilala
dentro. Adesso all'estrema destra, all'altezza del ginocchio, c'è un compar-
to con delle strisce gialle e nere intorno, inserito in fondo alla consolle. Gi-
ra la maniglia e aprilo.»
Tim infilò l'oggetto nero nella tasca e chiuse il coperchio di veltro. Si
piegò in avanti tanto quanto gli permise l'imbracatura, trovò il comparto e
lo aprì. Il portello si abbassò, e all'interno si accese una luce.
«L'ho aperto.»
«Bene, ci sono alcuni microcircuiti quadrati inseriti nel portello. Alcuni
sono gialli, e altri rossi. Prendine uno giallo. Si adatta all'attacco del com-
parto di comunicazione della tuta. È un comando di frequenza a distanza.
Non appena l'avrai inserito non avrai più bisogno del filo elettrico per par-
lare con me.»
Tim eseguì gli ordini. «Lo sto inserendo... adesso tolgo la connessione
elettrica. Mi senti?»
«Come se sentissi la voce degli angeli. Ci sono fasci di oggetti gialli si-
mili a cinghie dentro il comparto. Prendine un paio più grande, assomi-
gliano a delle toppe per le ginocchia, agganciale intorno alle ginocchia, poi
infila un paio delle più piccole in modo che ti coprano il palmo delle ma-
ni.»
Le vagliò e cominciò a infilarsele. Cominciò dalle gambe. Le morbide
coppe scivolarono sulle ginocchia e le fibbie di lato. La prima scivolò sul
ginocchio e si allacciò facilmente, nonostante i guanti voluminosi. «Che
cosa sono?»
«Ginocchiere. Sono fatte con fibre magnetiche che si attaccano alle su-
perfici metalliche. Stai per provare l'ebbrezza del volo.»
«In che senso?» Sistemò la seconda fibbia e cominciò a infilarsi le fasce
elastiche sulla mano.
«In questo modo sarai in grado di muoverti sul tetto della nave e aprire
le valvole manuali di scarico.»
L'intorpidimento di apatia amniotica che aveva colto Tim si sgretolò in
un centinaio di pezzettini tremolanti, non appena gli fu chiaro il significato
delle sue parole. Rimase raggelato, con la seconda fascia a metà. «Tu... co-
sa vuoi che faccia?»
«C'è un portello di emergenza proprio sopra la tua testa, Tim. Voglio che
tu vada fuori sullo scafo, e che poi raggiunga il montante verticale e spinga
le leve di scarico manuali.» La faceva sembrare la cosa più semplice del
mondo. Sollevò il collo per guardare cosa c'era sopra la sua testa. Certo,
c'era un portello circolare. E sotto...
... il nulla.
«Io... io non posso...» sussurrò sconvolto. Solo il pensiero gli raggelava
il sangue e gli scombussolava lo stomaco.
«Devi farlo. Se non lo fai c'è un'ottima probabilità che ciascun individuo
che si trova su Anteros muoia.» Aveva un tono di voce assolutamente piat-
to; era un freddo e indiscutibile dato di fatto.
Tim cercò di nascondersi la faccia tra le mani, ma riuscì soltanto a tocca-
re con i guanti il casco di plastica. Non c'era nessun posto in cui nascon-
dersi, e nel silenzio si sentiva il ticchettio implacabile dell'orologio.
Oh Signore, perché proprio io? Chiese a se stesso, guardando fisso i
comandi inutili. È perché ti ho deluso? È perché sono fuggito e ho cercato
di nascondermi? O è perché hai voluto mettermi qui dove non ho nessun
modo di nascondermi dal tuo esame e dal tuo giudizio? Alzò un'altra volta
gli occhi verso il portello. Gli cadde lo sguardo su qualcosa che fino a quel
momento non aveva visto.
Era uno specchio, posizionato in modo tale che il pilota potesse vedere i
passeggeri. Proprio come in un autobus.
Se ne era dimenticato. Prima di prendere posto e allacciarsi la cintura
aveva guardato avanti, e aveva visto riflesso nello specchio il viso abbron-
zato e tranquillo del pilota. Gli era sembrata così rilassata, così tranquilla.
Gli aveva sorriso e gli aveva strizzato l'occhio, e in quel momento un po'
della sua ansia relativa al fatto di essere incastrato in quella piccola nave, a
galleggiare su milioni di chilometri di puro nulla, si era dileguata.
Adesso lui era al suo posto, e se guardava dietro di sé l'unica cosa che
vedeva era la morte. La donna che teneva tra le mani la scarpa del bambi-
no attirava lo sguardo con il cupo e irresistibile magnetismo delle grandi
tragedie. Si ritrovò a immaginare gli ultimi secondi della vita di quella
donna. L'inaspettato, orribile suono, il pavimento che si squarciava in una
piaga mortale, la linfa vitale dell'aria portata via in un attimo, il tentativo di
salvare il bambino; l'urlo che era rimasto raggelato sul suo viso mentre fa-
ceva il disperato tentativo, condannato in partenza, di tenere il figlio, e i
suoi ultimi secondi di orrore e di rifiuto mescolato al dolore più tremendo
che una madre possa provare.
Padre Tim chiuse gli occhi per scacciare quell'immagine, con il risultato
di vederla replicata su Anteros un centinaio di volte in più, mentre il ri-
morchiatore ci si schiantava come un missile mortale spedito dalle profon-
dità dell'inferno.
Chinò la testa, con le urla di morte che gli risuonavano nelle orecchie.
«Dimmi cosa vuoi che faccia» sussurrò.

Due minuti più tardi era in piedi sui braccioli della poltrona del pilota e
si apprestava ad aprire il portello. Dal momento che da entrambi i lati c'era
il vuoto, tutto ciò che doveva fare era girare la barra di chiusura e aprirlo.
Come se dovendo camminare sull'acqua l'unico problema consistesse nel
fare il primo passo...
Cominciò a dirsi che fuori dal portello non c'era nulla che non fosse già
là dentro, ma aprirlo si rivelò lo stesso piuttosto difficile.
«Bene, Tim» disse Lil incoraggiante. «Metti una mano sulla barretta rin-
forzata e apri lo sportello con l'altra. È facile come bere un bicchier d'ac-
qua.»
«Uh huh.» Afferrò saldamente la sbarra e poi in fretta, prima di cambia-
re idea, spostò di lato la leva di bloccaggio e la spinse.
Il portello si aprì subito, ritraendosi così velocemente che se non fosse
stato aggrappato con tutte le sue forze, sarebbe volato fuori come un pove-
ro pupazzo a molla. «Si è aperto.»
«Ottimo. Adesso sollevati in modo da fare passare attraverso il portello
la parte superiore del corpo.»
L'assenza di pressione gli facilitò abbastanza il compito di sollevarsi,
almeno in senso fisico. Non appena la testa e le spalle riuscirono a passare
attraverso l'apertura, si aggrappò alla sbarra di sostegno con una mano, fa-
cendo scivolare l'altra sul rivestimento esterno dell'apparecchio. Gli adeso-
ri magnetici che aveva sulle mani aderirono immediatamente. Mantenne lo
sguardo fisso verso il basso, sul buco in cui si trovava piuttosto che sulla
scoraggiante eternità che lo circondava e aspettava di ingoiarlo.
«Bene, Lil» disse con voce stridula. «E adesso?»
«C'è un pannello dal lato del portello che guarda a poppa, verso la parte
posteriore, è a strisce nere e gialle. Non appena lo aprirai vedrai all'interno
delle cinture di sicurezza rosse. Infilatene una.»
Tenendosi con una mano alla sbarra di sostegno che c'era sotto, aprì il
pannello e prese una delle cinture. Ne venne fuori un sottile filo argentato.
Era questo che avrebbe dovuto sostenerlo?
«Ne ho presa una. C'è una specie di piccola luce verde sulla fibbia.»
«Significa che il sistema di bloccaggio è in funzione. Esce dal suo stesso
alimentatore in caso d'emergenza.»
«Scommetto che ne abbiamo uno proprio qui» disse lui con una risata
penosa. «Forse due. Come credi che possa riuscire a infilarmi questo dan-
nato aggeggio, e contemporaneamente rimanere attaccato alla sbarra?»
«Dovrai usare tutte e due le mani per infilare la cintura. Punta le ginoc-
chia contro il bordo interno del portello. Gli adesori ti terranno ben fermo.
Il filo metallico della cintura e la fibbia vanno sul davanti.»
Sollevò le ginocchia e le premette contro la sponda del portello, i ma-
gneti si attaccarono al metallo. Lasciare andare la presa della sbarra di so-
stegno era dura, ma lo fece.
«Come fai a sapere con esattezza dove si trova ogni cosa e come funzio-
na?» Domandò armeggiando con la cintura intorno al petto. Dentro i guan-
ti aveva le mani scivolose dal sudore. Doveva continuare a parlare per al-
lontanare dalla mente il pensiero di ciò che avrebbe dovuto fare dopo. Se
solo ci avesse pensato lontanamente, sarebbe tornato dentro, chiudendosi il
portello alle spalle, e avrebbe contato i minuti che mancavano prima di di-
ventare un assassino di innocenti.
«L'ho manovrata io stessa diverse volte. Sono responsabile della stazio-
ne di Anteros, e devo conoscere ogni pezzo di equipaggiamento sia all'in-
terno che all'esterno.»
«Se riuscirai a fare deviare questo affare, signora, credo che dovrai con-
cederti un buon aumento.» Sentì che rideva, e quasi sorrise anche lui. «A-
desso ho indosso la cintura.»
«Bene. I tuoi stivali magnetici sono abbastanza aderenti da permetterti di
camminare sullo scafo. Ma finché non ti sarai abituato all'EVA, forse ti
sentirai più sicuro camminando carponi. Gli adesori magnetici ti facilite-
ranno il compito, e anche se dovessi staccarti dallo scafo, le fibbie ti trat-
terranno.» Le si abbassò la voce.
«La cabina raggiunge solo metà dell'estensione del rimorchiatore. Il
montante verticale si trova a poppa della cabina. Il fatto è che non abbiamo
molto tempo. Secondo le simulazioni dovresti far scattare le leve di scarico
nei prossimi sei minuti per essere certi che funzionino.»
Solo il riferimento al fatto di stare in piedi sullo scafo gli aveva fatto gi-
rare la testa e contorcere le budella. Deglutì. «Credo... credo che sia me-
glio che vada carponi piuttosto che diritto.»
«Va benissimo, Tim. Non devi andare molto lontano. Ma è meglio che
cominci a muoverti.»
Lui respirò profondamente, dicendosi che poteva farcela, che doveva
farcela. «Bene. Si parte.»
Poggiò i due palmi delle mani contro lo scafo, e gli adesori magnetici si
attaccarono perfettamente. Poi con cautela tirò fuori un ginocchio e lo ap-
poggiò contro la superficie metallica della nave. Sia le toppe magnetiche
che aveva sulle ginocchia che le suole magnetizzate degli stivali fecero
presa. Lottando contro uno strisciante senso di vertigine, e tenendo lo
sguardo fisso sulla superficie bianca liscia e consumata che aveva tra le
mani, sollevò lentamente l'altra gamba.
«Sono... sono fuori. Adesso mi dirigo verso la porta posteriore.»
«Stai andando benissimo, Tim» disse Lil, come se lo pensasse veramen-
te. «Mi rendo conto di quanto ti faccia paura.»
Avanzò con una mano di qualche centimetro. Un ginocchio in avanti.
Poi l'altra mano. E l'altro ginocchio. «Oh?» disse con voce tremante. «Rie-
sci a sentire attraverso la radio la pipì che mi scivola lungo le ginocchia?»
Lei ridacchiò. «Mi stai inondando.»
Si spinse avanti ancora di una quindicina di centimetri. Quanto poteva
essere la distanza in metri? Chi diavolo se ne fregava? «Vuoi sentire qual-
cosa di divertente?» Parlava sommessamente, come se il suono della sua
voce potesse in qualche modo distrarlo.
«Potrebbe essere un cambiamento simpatico.»
«Sto commettendo un peccato mortale.»
«Che vuoi dire?»
«Suicidio. Io non sono un esperto di missilistica, ma so che cosa succe-
derà se riuscirò a scaricare quelle cisterne. Si trovano in cima alla nave.
Venere è proprio lì sotto. Mi ci dirigerò volontariamente contro.»
Lil rimase in silenzio per qualche secondo. «Pensi davvero che ciò che
stai per fare sia sbagliato?»
Considerò la domanda prima di rispondere. «No, non lo penso sul serio.
Sterzare il volante dell'automobile per evitare di uccidere un bambino e
spiaccicarsi contro un appoggio di cemento non è un suicidio. Ed è proprio
ciò che sto facendo qui. Una deviazione.»
«Stai facendo molto di più, Tim. Stai dimostrando coraggio. E fede.»
Tim ridacchiò tra sé e sé, spostandosi ancora di qualche centimetro verso
la parte posteriore della nave. «Stai cercando di farmi recuperare la fede,
Lil? Vuoi aiutarmi a fare la pace con Dio prima di morire?»
«Perché sei ancora vivo, Tim?» Domandò tranquillamente.
Sbuffò. «Ho bevuto troppa soda per rimettere a posto lo stomaco e ho
dovuto liberarmi la vescica. La porta del bagno che avrebbe dovuto scardi-
narsi per qualche ragione ha tenuto.»
«Queste sono circostanze, non ragioni. Io penso che tu sia vivo per poter
fare esattamente ciò che stai facendo in questo momento.»
Tim rimuginò su questa osservazione, mentre continuava ad avanzare
carponi verso la parte posteriore della cabina. Passo dopo passo aveva fatto
un terzo del percorso. Era affiancato da due lunghi cilindri, uno a ogni lato,
su cui c'era scritto CARBURANTE, con lettere delle dimensioni delle sue
mani. All'interno c'erano due cilindri più piccoli disposti parallelamente, su
cui era scritto OSSIGENO. Quelli più grandi sarebbero stati all'altezza del-
le sue spalle se fosse stato abbastanza coraggioso da alzarsi in piedi, quelli
più vicini erano leggermente più alti delle sue spalle incurvate. Averli da
tutti e due i lati, come un doppio assortimento di ringhiere di sicurezza, lo
fece sentire molto più sicuro.
Avanzò più velocemente, tenendo le ginocchia e la punta dei piedi incol-
lati allo scafo. Il montante verticale doveva essere da qualche parte davanti
a lui, ma aveva paura di alzare lo sguardo dallo scafo.
«Vuoi dire... che Dio mi ha messo qui perché facessi questo?» disse an-
simando.
«Voglio dire che sei la persona giusta, nel posto giusto e nel momento
giusto. Qualcuno che crede in Dio potrebbe vederci la sua mano.»
Tim annuì. «Suppongo di sì. E tu? Che cosa ci vedi?»
«Vedo confermata la mia fede personale.»
«Credevo che avessi detto di essere atea.» A Tim non sfuggiva la singo-
larità della sua situazione. Era lì, che avanzava sulle mani e sulle ginocchia
come un penitente, su una nave spaziale sfuggita al controllo, con un pia-
neta chiamato con il nome di una divinità pagana sotto di lui, a discutere di
teologia con un'atea che sarebbe morta se lui avesse fallito. E il peggio era
che non sarebbe vissuto abbastanza per ripensarci e riderne.
«Lo sono. È in te che ho fede, Tim.» Parlava con profonda convinzione.
«Non me lo merito.» Dio, la Chiesa, i suoi confratelli, il vescovo Pasto-
relli, Beverly: li aveva delusi tutti. Debole nella carne e povero nello spiri-
to, con la futilità rimasta come unica fede.
«Alcuni dicono la stessa cosa dell'amore di Dio, no? Io non credo nei
santi e nella santità, ma credo negli eroi e nell'eroismo. E vedo che tu stai
facendo ciò che deve essere fatto, mettendo da parte i tuoi dubbi e le tue
paure, per riuscire a salvare la vita di altri.»
«Così, adesso stiamo parlando di salvezza. Poi tirerai fuori la redenzio-
ne. Sei sicura di non essere un'atea gesuit... ouch!»
«Cos'è successo?» Improvvisamente la voce di Lil si fece apprensiva.
Tim si lasciò andare in una risata incerta. «Tutto bene. Ero così preso
dalla nostra conversazione che stavo superando il montante verticale.» Da-
vanti a lui c'era un'intelaiatura di metallo con dei grossi tubi all'interno, e
con una specie di scatola bassa in cima.
«Grazie a Dio.»
«Questa battuta è mia. Adesso che cosa faccio, Lil?»
«Sposta verso l'alto le leve di scarico.»
«Verso l'alto.» Le fece eco tristemente. Significava che dopo tutto a-
vrebbe dovuto alzarsi in piedi. Gli bruciavano gli occhi per il sudore. Per
l'ennesima volta, il solo pensiero di alzarsi gli strinse le budella e gli fece
battere il cuore all'impazzata contro il torace. Ma era andato troppo avanti
per mollare adesso.
Si inumidì le labbra secche. «Va bene. Si comincia.»
C'erano delle maniglie a forma di U saldate all'intelaiatura. Si allungò
per afferrare quella più in basso prima con una mano e poi con l'altra, man-
tenendo per tutto il tempo gli occhi ben fissi sul metallo di fronte, assolu-
tamente certo che se si fosse permesso di guardare dove si trovava, sarebbe
rimasto paralizzato dalla paura come una statua di sale.
Si avvicinò carponi, poi con circospezione rinunciò agli adesori magne-
tici per mettersi in posizione rannicchiata. Le suole magnetiche degli stiva-
li aderirono saldamente rassicurandolo.
«Parlami» brontolò mentre alla cieca cercava di afferrare la seconda ma-
niglia.
«Amo essere qui fuori, nello spazio. È talmente bello. Sono vent'anni
che non torno sulla Terra.»
«Davvero? Io vorrei esserci adesso.» Aveva trovato il piolo successivo
della scala. Ci si afferrò, desiderando che le sue mani non fossero così su-
date.
«Come sei arrivato fin qui, Tim?»
«È una lunga storia. Ti basti solo sapere che stavo cercando di fuggire.»
La bocca gli si increspò in una mezza risata, quando si sollevò in posizione
eretta.
«E guarda dove sono finito. Sono in piedi adesso. Vedo le due leve con
scritto sopra SCARICO D'EMERGENZA.»
«Grande. Vedi come sono serrate?»
«Uh... hu.»
«Prima apri tutti e due i chiavistelli.»
«Va bene.» Tenendosi con una mano, aprì le serrature di sicurezza delle
due leve. «Fatto.»
«Bene. Voglio che per prima cosa scarichi il carburante, c'è una pressio-
ne minore. Quando girerai questa leva fuoriuscirà dalla cima qualcosa di
simile a un geyser. Ci sarà un'accelerazione, quindi tieniti forte. Sei pron-
to?»
«Pronto, come non mai.»
Si agganciò con il braccio intorno all'appiglio, stringendo saldamente le
dita sul lato metallico del piolo, poi poggiò l'altra mano sulla maniglia del-
la leva in cui c'era scritto CARBURANTE.
«Dio, dammi la forza» sussurrò quasi senza fiato, chiudendo gli occhi e
girando con forza la maniglia.
Non sentì nulla di preciso, ma la vibrazione si trasmise dal metallo alle
mani e ai piedi. La sensazione di stare per cadere lo colse, facendogli arri-
vare lo stomaco in gola. Digrignò i denti e si attaccò all'amata vita con tut-
te le sue forze.
Gli arrivò la voce di Lil, acuta per l'eccitazione. «Il tuo vettore sta co-
minciando a cambiare. Adesso aziona lo scarico d'ossigeno.»
Gli ci volle fino all'ultimo briciolo di coraggio per spostare la presa da
una leva all'altra. La spinse, inviando una seconda nuvola di fumo nella
notte sconfinata.
La sensazione di cadere si fece più forte, diventò quasi opprimente. L'in-
telaiatura vacillò tutta a causa della forza che le era stata trasmessa.
Sta cambiando diceva una voce lontana. Tim si aggrappò al montante,
piegò la testa e chiuse gli occhi. Sentì che qualcosa cresceva da una zona
nel profondo della sua anima, e cominciò a pregare. Era la preghiera più
autentica di tutta la sua vita.
Non era una preghiera per la propria sopravvivenza o salvezza. Pregava
affinché Anteros venisse salvata.

«Tim, mi senti?»
Tim scosse la testa per riprendersi. «Sì, ti sento». La sensazione di cade-
re era svanita. Tutto era tranquillo, anzi, regnava quasi la pace.
Sollevò la testa e aprì gli occhi.
Quando vide le stelle si sentì attraversare da un brivido di freddo. Erano
talmente limpide, luminose, e ce n'erano talmente tante! Spalancò la bocca
quasi come se volesse respirarle.
Rimase sgomento. Al posto del vuoto, trovava la pienezza; invece dell'o-
scurità, c'erano strati su strati di luce senza fine. Senza rendersi conto di
quello che faceva lasciò andare il montante metallico e fece un passo in-
dietro, piegando la testa confuso dal grandioso arco dell'eternità.
«Ha funzionato, Tim. Il rimorchiatore eviterà la stazione. Ci passerai
sotto tra circa tre minuti».
Lui annuì, poi si ricordò che lei non poteva vederlo. Anche prima che la
donna parlasse, lui si rese conto che le proprie preghiere erano state esau-
dite. «Sono felice. Lil?»
«Sì, Tim?»
Adesso riusciva a vedere la sagoma arrotondata di Venere, splendente
come una perla infuocata. Sentì che dagli occhi gli scivolavano lacrime di
commozione, si sforzava di trovare le parole. «È...è così bello» disse con
voce trasognata, rendendosi conto che stava avvilendo la grandezza di
quella visione con delle lodi inadeguate. Non era mai stato un gran citatore
della Bibbia, ma si mise a recitare i versi dei Salmi. "I cieli proclamano la
gloria di Dio e il firmamento mostra la sua opera". Era una declamazione
così intensa che anche un sordo come lui poteva sentirla.
«Sì, è vero. Ma sono convinta di sapere una cosa che ti sembrerà anche
più bella.»
«Che cos'è, Lil?» Già ciò che vedeva era sufficientemente bello. Si sen-
tiva appagato, completamente appagato. Come aveva potuto avere paura?
Le sue preghiere erano state esaudite, e in quel risveglio aveva riconquista-
to molto più che la sua fede perduta; aveva trovato la pace di Dio, la pace
che va oltre qualsiasi comprensione.
«Sono io, naturalmente. Guarda alla tua destra.»
Si girò per guardarsi intorno, senza nemmeno pensare due volte se i
grandi e goffi stivali l'avrebbero trattenuto. In lontananza, contro l'oscurità
spolverata di diamante, c'era una macchia di bianco azzurrato. Rimase fis-
so a guardarla, accigliato, aggrottando la fronte. «Sei tu? Credevo fossi
sulla stazione.»
«Lo so. In questo momento sto tornando indietro da una delle piattafor-
me immerse nell'atmosfera da cui è partito questo pasticcio. Mi trovo in un
piccolo carro satellite a due posti, e fin dall'inizio mi sono portata dietro
questo fardello. Se non fossimo riusciti a cambiare la traiettoria del rimor-
chiatore, mi sarei schiantata con violenza in meno di un minuto. Anteros
avrebbe potuto essere colpita lo stesso dai detriti, ma un venticinque per
cento di probabilità predetto dal computer sarebbe stato molto meno
drammatico del novantacinque per cento che potevamo aspettarci da un
impatto con il rimorchiatore.»
Passò quasi un minuto prima che Tim riuscisse a parlare. «Non c'è stato
un momento in cui tu l'abbia lasciato trapelare» disse con calma. «Eri
pronta a sacrificarti e non l'hai nemmeno accennato.» Aveva maturato un
considerevole rispetto nei confronti di quella donna calma e competente
nel breve lasso di tempo trascorso da quando l'aveva conosciuta. La stima
crebbe ulteriormente di fronte a quella rivelazione. Non c'era da meravi-
gliarsi che credesse negli eroi, lei era uno di loro.
«Ehi, il tuo piatto era già pieno. Ma quando mi sono resa conto che eri
vivo, ho capito che forse non sarei dovuta diventare una palla di cannone
umana. Ma non c'è niente di interessante adesso nel parlare di questo. Il
fatto è che ho cominciato a frenare proprio quando tu ti sei arrampicato
fuori dal portello. Da quel momento in poi ho cercato di starti dietro.»
Tim aveva girato la testa per guardare davanti al rimorchiatore. Lì in
lontananza c'era un diadema di luci che doveva essere Anteros. Aggrottò la
fronte pensosamente. «Non so molto di questo genere di cose, ma non vor-
rebbe dire che tu te ne sei fregata della possibilità di speronare il rimor-
chiatore?»
«È andata proprio così.»
Scosse la testa perplesso.
«Perché?»
«Sapevo che non ce n'era bisogno. Il computer mi aveva detto che se tu
avessi scaricato in tempo il carburante avresti scansato la stazione, e io sa-
pevo che ci saresti riuscito.»
Tim riusciva a credere a malapena alla velocità con cui si era avvicinato
alla stazione. Adesso sembrava quasi sopra la sua testa. Il tracciato di luci
lampeggiò una volta, due volte e poi rimase fisso. Lui sorrise e sollevò un
braccio in segno di saluto. In un attimo gli era accanto.
«Come facevi a essere sicura che non sarei precipitato?»
«Ho avuto fiducia in te, Tim.»
Lasciò ricadere il braccio, senza sapere se ridere o piangere, e si accorse
che la sua tranquillità traboccava sia di lacrime che di risate. «Sono felice
che tu non abbia dovuto ucciderti.» Si girò di nuovo a guardare verso il
punto in cui si trovava la donna. Adesso riusciva a vedere una specie di
massa all'interno del bagliore bluastro. «Sembra ancora piuttosto rischio-
so.»
«Forse è così, ma ho pensato che ne valesse la pena. Cominciando a fre-
nare inoltre sarei stata in grado di rallentare abbastanza da raccoglierti.»
Le sue parole arrivarono a Tim talmente inattese che inizialmente non
riuscì a capirne il senso. Raccoglierti?
«Tu... tu hai rischiato tutto per avere la possibilità di salvarmi?»
«Non è niente di più di quello che hai fatto tu, vecchio amico. Ma non
sarà esattamente facile, mi muoverò come minimo a trenta kliks all'ora in
rapporto a te, e posso avvicinarmi solo così. Dovrai saltare, e dovrai tenerti
forte quando toccherai. Ma che diavolo, tu sei padre Tim, l'uomo volante.»
L'idea che dopotutto non sarebbe morto era talmente strana che gli ci
volle un po' prima di accettarla. «Avevi detto che non c'era niente che po-
tessi fare per salvarmi.» Non che volesse discutere quella eventualità, ma
voleva capire.
«No, io ho detto che non c'era nulla che potessi fare in quel momento.
Questa era una possibilità e niente di più. Non faccio mai promesse se non
sono sicura di poterle mantenere. Ascolta, se salvarti le chiappe non fosse
già una ragione sufficiente per farlo, lo sarebbe quel modulo blu che vo-
glio che tu prenda, è il registratore di volo del rimorchiatore. Quanto è ve-
ro Iddio, voglio sapere che cosa ha causato l'esplosione».
Tim si mise a ridere fragorosamente. «Tieni tutto sotto controllo, eh
Lil?»
Si diede una pacca sulla coscia. Il modulo era ancora lì.
«Puoi scommetterci le chiappe, caro mio. È per questo che sono il boss.
Allora, hai intenzione di prendere questo apparecchio di controllo e salire
sul montante? Se lo farai, saremo ad Anteros in circa un paio d'ore. Tra un
paio di giorni potrai tornare su Adone, e metterti in viaggio per la Terra
prima della fine della settimana.»
Tim cominciò a togliere l'anello della cintura. Sorridendo tra sé e sé, dis-
se: «No».
Seguì qualche minuto di silenzio. Abbastanza per togliere la cintura e
avvolgerla intorno a uno degli appigli.
«Che cosa significa no? Hai deciso di essere il primo uomo a mettere
piede su Venere? Non preoccuparti, ti ridurrai come una patatina fritta,
morto stecchito non appena entrerai nell'atmosfera.»
Lui guardò verso la nave in cui si trovava la donna. Adesso riusciva a
vedere il veicolo chiaramente. Aveva l'aspetto di un assurdo assemblaggio
di montanti, serbatoi e rampini, con una bolla di plastica trasparente inseri-
ta nel mezzo. Dentro la bolla c'era una minuscola figura vestita di blu. I
razzi direzionali brillavano e pulsavano, mentre manovrava la nave per
portarla al loro appuntamento.
Poggiò le mani in cima alla colonna e si sollevò, ritrovandosi in ginoc-
chio lassù. Era la posizione adeguata al luogo.
«Non tornerò sulla Terra. Voglio un lavoro, Lil. Posso pulire i bagni, la-
vare i piatti se è necessario. Non mi importa ciò che mi farai fare, ma vo-
glio rimanere qui.»
Aspettò che lei ribattesse. Invece domandò: «Cos'è stato a farti prendere
questa decisione?»
Tim si alzò, guardò le stelle che lo circondavano e la faccia di Venere
sotto di sé. La paura era scomparsa, non ne era rimasto nemmeno l'eco. Si
sentiva sollevato, elevato. Si trovava abbastanza in alto da vedere chiara-
mente, e gli erano caduti tutti i veli dagli occhi. In lontananza c'era una
piccola capocchia di spillo blu che forse era la Terra.
Qui c'era abbastanza meraviglia e grandezza a sufficienza per mantenere
Dio vivo dentro di sé per tutta la vita. Qui si rivelava il volto del Creatore
in tutta la sua gloria.
«Forse Dio mi ha fatto finire qui perché potessi fare questa scoperta»
disse più a se stesso che a Lil «Forse il suo piano era anche più importante
di questo. Forse mi ha portato qui, vicino a lui, perché questo è il posto in
cui vuole che io rimanga per sempre.»
«La persona giusta nel posto giusto, al momento giusto» disse Lil dol-
cemente, con una tensione sotterranea nella voce, mentre continuava a ma-
novrare il rozzo apparecchio verso di lui. «Il tuo recupero è piuttosto stu-
pefacente, Tim. Diamine. Sei assunto.»
«Parleremo più tardi del salario e delle indennità, capo...» disse Tim ri-
dendo mentre si alzava in piedi sulla cima del montante. Lei a quel punto
era arrivata quasi sopra di lui.
«... Però voglio le domeniche libere.»
«Affare fatto. Bene, sto per cominciare a contare. Quando dirò Tre vo-
glio che salti con tutto lo slancio possibile. Sei pronto?»
«Assolutamente.» Lanciò uno sguardo alla nave danneggiata che aveva
sotto i piedi, e gli vennero in mente quelli che erano morti lì dentro. Chiuse
gli occhi e disse una preghiera per le loro anime. Questa volta le parole a-
vevano risonanza e senso. In qualche modo erano già in paradiso.
«Uno!»
Aprì di nuovo gli occhi. Uno dei manipolatori affusolati sulla facciata
dell'apparecchio era quasi esattamente sopra di lui. Stava davvero esau-
dendo un piano di Dio? O semplicemente stava per avere un'altra chance di
cominciare una nuova vita, e questa volta la stava cogliendo?
«Due!» Piegò le gambe e allargò le braccia come se stesse per volare.
L'apparecchio adesso era arrivato completamente sopra di lui, in mezzo
c'erano tre o quattro metri di nulla assoluto. Forse prima non era stato ca-
pace di scegliere perché non erano le scelte giuste. Il piano di Dio si era ri-
velato. Libero arbitrio, e la giusta decisione da prendere quando arriva il
momento. In fondo non è davvero importante quale sia. In tutti e due i casi
la richiesta è la stessa. Una decisione che Lil aveva preso quando aveva
creduto in lui. Una capacità che lui aveva perso, ma che Dio gli aveva re-
stituito in tutta la sua pienezza. Tutto ciò che ci voleva era...
«Tre!»
... un po' di fiducia.
Padre Tim Shannon ridendo si lanciò nel vuoto, spiccando il salto.

Titolo originale: Leap


Analog Science Fiction and Fact,
January 1993

LE COSTANTI UNIVERSALI
di Charles Sheffield

Le leggi fisiche e l'animo umano:


ci sono più cose sotto il cielo...

«Devo ammettere che mi ha del tutto sorpreso che tu sia venuto qui»
disse Van Lyle amabilmente. «Bisogna davvero riconoscerlo alla direttri-
ce. Credimi, Anna Griss aveva previsto tutto, l'effetto che avrebbe avuto
l'annuncio, l'arrivo di McAndrews, e poi il tuo. Molto perspicace da parte
sua. D'altronde, non è per questo che lei fa l'amministratore, e noi no?»
Era davanti a un paio di enormi porte metalliche, e stava controllando la
tastiera inserita nell'intelaiatura. Dalla parte opposta erano disposte le va-
sche di lavorazione, dove ogni tipo di tessuto organico - muscoli, ossa, un-
ghia, pelle e capelli - veniva sciolto in biomolecole di base. C'erano segnali
di avvertimento disseminati per tutta la stanza, e sulle due porte:
ACCESSO CONTROLLATO, PERICOLO, LIQUIDI E GAS
CORROSIVI, VIETATO AGIRE SENZA TUTE PROTETTIVE, OLTRE
QUESTA ZONA L'ACCESSO È CONSENTITO SOLO AI
RAPPRESENTANTI DEL DIPARTIMENTO UFFICIALE.
Van Lyle si girò verso di me con espressione interrogativa. «È impres-
sionante, non trovi? Non fare la timida, comandante. Mi piacerebbe davve-
ro conoscere la tua opinione su tutto ciò.»
Roteai gli occhi verso di lui. Ero seduta rigidamente su una sedia a rotel-
le di metallo. Avevo polsi e gomiti legati ai braccioli della sedia con un
largo nastro adesivo di fibra, di quelli difficili da staccare e praticamente
impossibile da strappare. I miei polpacci erano fissati alla struttura metalli-
ca della sedia con identico materiale. Una larga striscia appiccicosa dello
stesso nastro mi copriva la faccia, da sotto il naso fino al mento.
«Ah, capisco» continuò Lyle. «Ma adesso sei disposta a parlare in modo
cortese, e a non fare storie?»
Feci un cenno affermativo con la testa, una delle poche libertà che pote-
vo permettermi.
Van Lyle mi fece un cenno di risposta. «Molto bene! Ma nel caso in cui
ti sentissi tentata a cambiare idea, permettimi di chiarirti che sarebbe com-
pletamente inutile. Questa parte dell'installazione è automatizzata. Non c'è
nessun altro qui, a parte noi due.»
Mi si avvicinò e toccò una delle estremità del nastro che mi copriva la
bocca. Ma invece di strapparlo via, si fermò e fece scorrere le dita prima su
un lato del naso poi dall'altro.
«Ma guarda che grazioso e proporzionato ornamento» disse. «Comple-
tamente diverso dal mio, non trovi? Prima di finire, dovremo occuparce-
ne.»
Fino a quel momento non mi ero resa conto di quanto mi odiasse. Il suo
naso era storto e leggermente schiacciato, una menomazione per la sua ru-
de e bionda bellezza. Le labbra sotto il naso storto si contorsero in una
smorfia di cattiveria quando mi strappò il nastro dalla bocca. Strinsi le lab-
bra l'una contro l'altra, tremando. Uno strato di pelle si era staccato insie-
me al nastro superadesivo, e si era portato dietro tutta la sottile peluria che
avevo sulla faccia. Sentii che un rivolo di sangue mi scivolava sul mento.
Era stata la discussione più breve sul naso che avessi avuto, ma anche la
migliore. Avevo spaccato quello di Van Lyle, a mezzo anno luce di distan-
za dal Sole, perché non voleva togliermi di dosso le sue mani lascive. Era
successo molto tempo prima, ma sfortunatamente non sembrava che aves-
se intenzione di dimenticarsene.
«Sai come è fatto McAndrew» dissi. «È bastata la parola giusta, ed ecco-
lo pronto a partire per la Terra. Non c'era nulla che potessi dire per fermar-
lo.»
«Capisco» annuì Lyle. «Ma tu, Jeanie, non dovresti essere un po' più
scaltra? Ero pronto a scommettere che non l'avresti seguito fin qui.»
Sentirmi chiamare Jeanie da Van Lyle mi fece accapponare la pelle, ma
aveva ragione. Io non avevo la scusa che aveva Mac, il canto della sirena,
la parolina magica che lo aveva lasciato privo di difese: una nuova costan-
te universale.
«Tu non capisci» dissi. «Ho trascorso metà della mia vita correndo die-
tro a Mac quando si metteva nei guai. Ormai è la mia seconda natura. Ma
di solito si tratta di andare in qualche luogo in mezzo alle stelle, non di un
viaggio all'interno della Terra.»
Non avevo nessun reale interesse nel raccontare queste cose a Van Lyle,
nonostante fossero vere. Stavo solo cercando di guadagnare tempo, e di
rimandare il momento in cui mi avrebbe di nuovo tappato la bocca per poi
condurmi al successivo stadio del programma. Avevo qualche incertezza
su quello che stava per succedere. Lyle non mi aveva trascinato in quel-
l'impianto di lavorazione, lontano dalla terra e a centinaia di metri sotto la
superficie del mare, solo per mostrarmi le tecnologie avanzate del Dipar-
timento Alimentare Terrestre.
Ed era davvero un brutto segno che avesse menzionato il nome di Anna
Griss. In passato si era sempre rifiutato di ammettere che lavorava per lei.
Mi domandavo che cosa stesse aspettando. In quel momento, e ciò di-
mostra fino a che punto ero disperata, mi auguravo addirittura che stesse
progettando un altro tentativo di stupro nei miei confronti. Gli avrei per-
messo di fare qualsiasi cosa, qualunque cosa potesse occupare un tempo
sufficiente a fare arrivare gli aiuti, o a offrirmi anche solo una piccola pos-
sibilità di opporre resistenza. Era meglio quello che rimanere legata alla
sedia a rotelle, capace solo di muovere la testa e il busto da un lato all'al-
tro.
Non avevo molte speranze. Quello non era il mio ambiente, ma il loro.
Avrei avuto una possibilità se mi fossi trovata nello spazio profondo, ma lì
sulla Terra, Van Lyle e Anna Griss giocavano in casa.
E di colpo non ebbi più alcuna speranza. Perché sentii che si aprivano le
porte d'acciaio nella parte posteriore della stanza, le stesse attraverso cui
ero stata trasportata all'interno. Ci fu lo stridio di un cuscinetto poco oliato,
e qualche secondo dopo una sedia a rotelle venne fatta scivolare accanto
alla mia. Ci stava seduto McAndrew, e aveva le gambe legate alla struttura
metallica della sedia con delle grosse corde intrecciate invece che con il
nastro adesivo. Non aveva la bocca coperta. Mi guardò dispiaciuto.
«Mi dispiace, Jeanie» disse. «Davvero. È tutta colpa mia, completamen-
te.»
Cercai di sorridergli, e sobbalzai per il dolore che mi procurava la ferita
sulla carne viva. Le labbra ricominciarono a sanguinare. «Non prendertela,
Mac» mormorai. «Se la colpa è tua, la responsabilità è mia.»

Tutto era cominciato un mese prima al Penrose Institute. Ero di ritorno


da un giro di consegne di routine in Europa. Capitò che le geometrie orbi-
tali fossero favorevoli, così per me fu la cosa più naturale del mondo fare
un salto a trovare McAndrew. L'Istituto, dopo un paio d'anni di disastrose
regole burocratiche, era di nuovo sotto la guida salda ma informale del
vecchio dottor Limperis, che aveva rimandato il pensionamento per rimet-
tere a posto la situazione. Volevo vedere come stavano andando le cose e
rinverdire le vecchie amicizie.
Mi diressi immediatamente nel settore in cui lavorava Mac. Lui non c'e-
ra. Al suo posto, trovai Emma Gowers che stava oziando nella sedia prefe-
rita di Mac davanti al display.
«È andato al centro comunicazioni» disse. «Tornerà tra poco. Puoi be-
nissimo aspettarlo qui.» Era bionda, bella, e sciatta come sempre. Ma pre-
sumibilmente altrettanto brillante. Era l'esperto interno dell'Istituto per le
Matrici della Sostanza Multipla.
«Sta bene?» domandai. Di solito Mac doveva essere trascinato a forza
fuori dal suo ufficio, a meno che non andasse da qualche parte a seguire un
esperimento.
«Oh, sì, sta bene» rispose Emma sollevando la bionda massa di capelli
sulla testa. «Ma sai com'è fatto McAndrew. Sta seguendo l'andamento di
un altro programma sugli animali. Si riesce a parlargli a malapena.»
Annuii. Era un classico trovare McAndrew in preda a una nuova osses-
sione scientifica. Ero certa che sarebbe stato contento di vedermi. Anche
se si sarebbe accorto solo vagamente della mia presenza.
Mi sedetti vicino a Emma. «Di che cosa si tratta stavolta?»
«Si parla di una nuova costante fondamentale. Francamente, io sono
scettica, ma lui ci crede, almeno ci crede abbastanza da volerla verificare
personalmente.»
«Istruiscimi, Emma. Che cosa intendi per costante fondamentale?»
Le spiegazioni semplici non erano il forte della dottoressa Gowers. Mi
guardò in cagnesco. «Oh, be', le cose che non cambiano nel corso delle tra-
sformazioni. Come la determinante di un sistema lineare durante una rota-
zione ortogonale, o le equazioni di moto newtoniane in una trasformazione
galileiana, o come le equazioni di Maxwell in una trasformazione di Lo-
renz.»
Emma Gowers ha un lato curioso. I suoi gusti in fatto di uomini sono o-
rientati verso le specie primitive, verso esseri confusi e pelosi che a giudi-
care dalle apparenze hanno deciso di bloccare l'evoluzione in qualche pun-
to del primo Pleistocene. Tuttavia continua a partire dal presupposto che
McAndrew e io siamo sullo stesso livello intellettuale, solo perché siamo
amici da molto tempo.
«Eh?» avrei voluto dire; ma fui salvata da un'ennesima ammissione di
stupidità e ignoranza dall'arrivo trafelato dello stesso McAndrew.
«Stai di nuovo usando la mia sedia e la mia banca dati, Emma» disse.
«Via, via, via.» Poi si rivolse a me, come se ci fossimo visti il giorno pri-
ma: «Jeanie, questo sì che è perfetto tempismo».
La maggior parte delle persone pensano che io tollero comportamenti in
McAndrew, che non sopporterei in nessun altro essere umano, solo perché
è un genio. E lui lo è, la più perfetta combinazione tra un teorico e uno
sperimentatore che si sia manifestata nel mondo della fisica dopo Isaac
Newton, almeno questo è ciò che mi dicono molti di quelli che sono in
grado di esprimere una valutazione su di lui. Ma la genialità non ha nulla a
che vedere con la mia tolleranza nei confronti di Mac, né con la sua nei
miei confronti.
L'unica ragione che posso dare è che andiamo d'accordo. Siamo diversi,
ma abbiamo punti di contatto sufficienti a unirci.
McAndrew la mette diversamente. «Un legame all'idrogeno» mi ha detto
talmente spesso da diventare irritante. «Non un legame ionico, che è fisso
e rigido, e nemmeno un legame bivalente, in cui le cose sono addirittura
condivise. No. Noi siamo un legame all'idrogeno, sciolto, libero e condi-
scendente.»
Io direi che semplicemente ci piacciamo. E anche se lui pensa che io sia
talmente ottusa che qualsiasi cosa mi dica riguardo la scienza debba essere
volutamente semplificata, e se a mia volta penso che lui sia così preso dal-
le astrazioni che non bisognerebbe permettergli di trovarsi nel mondo reale
senza un tutore... be', sono cose che tutti e due accettiamo.
Quella volta rispose al mio abbraccio, ma in modo automatico e assente.
«Se sei diretta all'interno» continuò «come sospetto, farò un giro con te.»
La struttura spaziale che ospita il Penrose Institute è mobile, e al mo-
mento della mia visita stava di nuovo spostandosi fuori dall'orbita di Mar-
te. Ma l'interno? Di solito gli interessi di Mac sono circoscritti al confine
esterno del sistema solare.
«Sulla Terra» specificò. Vide che aggrottavo la fronte e aggiunse: «Oh,
non preoccuparti, non ti sto chiedendo di venire con me. Lasciami al punto
di librazione, Jeanie. Andrà benissimo».
Conosceva bene la mia avversione nei confronti della Terra, così so-
vrappopolata, rumorosa e puzzolente. Ma avevo sempre creduto che anche
lui la condividesse, inoltre sia lui che io avevamo altre buone ragioni per
evitare di andarci. Uno dei personaggi più potenti della Terra era Anna
Griss, ex capo del Dipartimento Alimentare Terrestre, e ora amministrato-
re del Consiglio per l'Energia e l'Alimentazione. Mac le aveva tagliato un
braccio con un laser, nella Nube di Oort. Lo aveva fatto con le migliori in-
tenzioni, e le aveva salvato la vita; ma conoscevo Anna. Non lo avrebbe né
dimenticato né perdonato.
In quanto a me, ero diventata un bersaglio del suo odio, durante quello
stesso viaggio, forse anche più di Mac, perché avevo messo in discussione
la sua autorità e dimostrato i suoi errori.
Non è sorprendente che esistano individui come Anna Griss nel mondo.
Ce ne sono sempre stati. Torna indietro di cinquantamila anni, al tempo in
cui la maggioranza di noi se ne andava in giro in cerca di un cespuglio de-
cente di bacche mature o di qualche pezzo di carne. Alcuni, come McAn-
drew, erano occupati a inventare la lingua o i numeri, o a dipingere i muri
delle caverne. E altri, appena una manciata, ma comunque già troppi per
qualsiasi epoca, cercavano di avvantaggiarsi sugli altri: con l'accesso al-
l'acqua, mettendo insieme delle regole, o limitando l'ingresso al paradiso.
Non importa quanti fossero, Anna Griss sarebbe stata una di loro.
Così, McAndrew sapeva molto bene dove volevo andare a parare quan-
do lo guardai fisso negli occhi e dissi: «La Terra? Credi che sia una buona
idea?»
«È necessario» disse. «Ho intenzione di andare al Consiglio per l'Ener-
gia. Per essere più precisi andrò nel laboratorio di Ernesto Kugel, dove c'è
la prova che qualcosa di meraviglioso è stato scoperto: una nuova Costante
Universale.»
Si potevano sentire le maiuscole.
«È quello che ti hanno detto» disse Emma Gowers. Poi si alzò in piedi,
tirandosi più che poteva il vestito corto sulle ginocchia appuntite, e rimase
impettita
Se le parole di McAndrew avevano lo scopo di impressionarmi, fallirono
nel loro intento.
«Mac» dissi «per me, con tre costanti e un dollaro vinci una tazza di caf-
fè.»
«Sei una selvaggia, Jeanie» rispose amabilmente. «Sto semplicemente
usando i termini che ha usato Kugel: una nuova costante universale. Può
esserti utile se riformulo questa affermazione e dico che lui sostiene di a-
vere scoperto una nuova legge di conservazione?»
Era utile, perché frequentavo McAndrew da molto tempo. Ma non mi
chiariva molto.
«Nuova, in che senso?» domandai. «Voglio dire, so che l'energia si con-
serva, e che la velocità si conserva...»
«In un sistema chiuso.»
«In un sistema chiuso, esatto. Ma come può esserci una nuova legge di
conservazione?»
«Bene, è proprio qui che le cose si fanno interessanti. Di quando in
quando i fisici si rendono conto che alcune cose che credevano indipen-
denti sono in realtà aspetti diversi di uno stesso fenomeno. Per esempio,
alcune centinaia di anni fa si credeva che il calore, il movimento e la luce
fossero entità separate. Ma successivamente, dopo molti studi di personag-
gi come Rumford, Joule e Kelvin, gli scienziati si sono resi conto che quel-
le cose separate erano tutte forme di energia. E, anche se tipi diversi di e-
nergia possono essere convertiti l'uno nell'altro, stabilirono che l'insieme
non poteva essere cambiato. E così fu sancito il principio di conservazione
dell'energia.
«A cominciare dal lavoro di chimici come Lavoisier, si osservò che an-
che la massa si conserva, in ogni forma di reazione chimica e fisica. Così
hai una legge di conservazione dell'energia, e una legge di conservazione
della massa. Ma il grande passo avanti fu fatto nel 1905, quando Einstein
dimostrò che massa ed energia si equivalgono, e che è il loro insieme a
conservarsi, piuttosto che l'una o l'altra. Dimostrò inoltre che non è impor-
tante il quadro di riferimento che si usa per le misurazioni. Il momento e-
nergetico a quattro vettori è una costante. Questo singolo principio servì a
unificare l'intero campo della fisica.
«La stessa cosa è successa con il momento angolare. Per un po' sembrò
che non si conservasse nelle reazioni nucleari. Ma poi gli studiosi di teorie
quantistiche scoprirono che un momento angolare interno, lo spin, doveva
essere aggiunto al quadro di molte particelle, e a quel punto il momento
angolare divenne una quantità pienamente conservata. Questa fu un'idea
splendidamente generalizzante. Lo sapevi che nel 1931 Pauli dedusse l'esi-
stenza di una nuova particella, il neutrino, solo perché i principi di conser-
vazione dell'energia e del momento angolare richiedevano che esistesse?»
«Sì, lo sapevo, Mac» dissi per l'ennesima volta. «Ma non hai risposto al-
la mia domanda. Mi è assolutamente chiaro che ci sono principi di conser-
vazione. Ma com'è possibile che ce ne sia uno nuovo?»
«Posso darti due possibili risposte. La prima è che le leggi fisiche dell'u-
niverso, per come le conosciamo attualmente, ammettano quantità conser-
vate che noi semplicemente non abbiamo ancora riconosciuto.»
«Ma non è improbabile?»
«Puoi anche pensarla così visto che, con tutto il tempo e gli sforzi che
abbiamo impiegato nella ricerca di questo tipo di costanti, negli ultimi cen-
tocinquanta anni non siamo ancora riusciti a dimostrare nulla. Ma c'è un'al-
tra risposta possibile, anche se non suona molto meno improbabile. È pos-
sibile che il laboratorio di Ernesto Kugel abbia scoperto una nuova forma
fondamentale di legge fisica.»
McAndrew stava cominciando a farsi capire, e quello avrebbe dovuto
essere il preciso segnale che c'era qualcosa che non andava. Di solito, più
parliamo più mi sento confusa.
«Intendi una nuova forza? Qualcosa di simile alla scoperta della legge di
gravità?»
«Sarà meglio precisare. È da quando esiste l'umanità che siamo consa-
pevoli della legge di gravità, e abbiamo teorie su di essa da più di cinque-
cento anni. Conosciamo la forza elettromagnetica da tre secoli, e le forze
deboli e quelle forti che governano le interazioni nucleari solo da un paio.
Ma ora come ora la gravità è una forza molto debole, qualcosa di cui ci ac-
corgiamo solo perché ne sono soggetti corpi molto grandi. Ma se ci fossi-
mo evoluti, invece, come creature molto piccole, delle dimensioni di una
pulce, nel mezzo di un plasma energetico? In questo caso la forza di gravi-
tà non avrebbe avuto tanti effetti immediati sulle nostre vite. Avremmo
imparato prima le leggi dell'elettromagnetismo, ma potremmo ancora non
sapere nulla sulla legge di gravità.» Cominciavo ad avvertire la confusione
mentale che di solito accompagna le spiegazioni di McAndrew. «Ma noi
non ci siamo evoluti come creature più piccole di pulci nel mezzo di un
plasma.»
«No. Però ambienti diversi facilitano la scoperta di forze diverse.»
«Ma meno di un anno fa mi dicevi che il luogo in cui bisognava cercare
nuove leggi della natura era fuori, nello spazio profondo, dove non siamo
mai stati, là dove il Sole e i pianeti non interferiscono con l'osservazione.»
«È vero, l'ho detto. Ma supponi che mi sia sbagliato. Non sarebbe ecci-
tante, Jeanie? Una nuova legge di natura, piazzata sotto il nostro naso per
tutto questo tempo, da scoprire lì, sulla superficie della Terra.»
Eccoci. La maggior parte delle persone detesta sapere di essersi sbaglia-
ta. Ma non McAndrew. Quando si ha la prova che è lui a essersi sbagliato,
ne è estasiato. Significa che ha imparato qualcosa di nuovo, e questa è la
sua principale ragione di vita.
Ma non mi piaceva lo stesso l'idea che andasse sulla Terra. «Ernesto
Kugel. Se è del Consiglio per l'Energia, vuol dire che lavora per Anna
Griss.»
«E allora?»
«Lo conosci?»
«Non personalmente. Ma conosco il suo lavoro, molto bene. Ernesto
Kugel è quello che ha costruito il Geotron.»
Di nuovo le maiuscole. Resistetti all'impulso di lasciarmi distrarre da es-
se.
«È il tipo di persona che credi possa fare una nuova scoperta fondamen-
tale?»
«Oh, no.»
«Allora...»
«Non lui. Lui è un ingegnere, e di prim'ordine anche, ma non è un fisico.
Deve essere stato qualcun altro del suo laboratorio a fare la scoperta.
Qualcuno che non conosco. Probabilmente Kugel vuole mettere il proprio
nome sulla scoperta perché vi si presti attenzione.»
«Ma non crederai che qualcuno, un assoluto sconosciuto, possa esserse-
ne venuto fuori con una grande scoperta scientifica?»
«Jeanie, le grandi innovazioni scientifiche emergono sempre da qualcosa
di assolutamente sconosciuto. E il genio salta fuori ovunque. Kugel ha a-
vuto fortuna.»
«Forse. Ma Kugel lavora per Anna Griss, e tu le stai sullo stomaco. Non
ti ricordi che cosa le hai fatto?»
«Ah, smettila.» Fece scorrere le dita tra i capelli sottili. «Jeanie, sono
certo che è una cosa che è stata dimenticata da molto tempo. L'invito a vi-
sitare il laboratorio di Kugel è stato approvato da Anna. L'ha firmato.»
«Lo ha fatto?» dissi. «Bene, allora questo naturalmente significa che tut-
to va bene, no?»
Avrei dovuto saperlo. L'ironia con McAndrew è completamente spreca-
ta.
Mi sorrise radioso. «Ero certo che una volta conosciuti i fatti mi avresti
capito, Jeanie. Quando partiamo?»
Penso che le mie voci interne abbiano quasi sempre ragione quando mi
avvertono che ci sono guai in arrivo. Il problema è che non sempre le a-
scolto.
In quel caso permisi a un altro avvenimento di occupare i miei pensieri,
quando invece avrei dovuto preoccuparmi della visita di McAndrew sulla
Terra. A mia discolpa, devo dire che si trattò di un'intrusione esterna.
Quando le sfere collegate dell'Assemblaggio furono a metà del viaggio
verso la Terra, con Mac e me accomodati nella sezione di controllo, rice-
vetti un messaggio di Hermann Jaynsie dal quartier generale della Federa-
zione Unita dello Spazio. Era lungo e prolisso, perché Hermann è lungo e
prolisso, ma posso riassumerlo. In sostanza diceva: «Che diavolo hai com-
binato, comandante Roker, nel tuo ultimo viaggio di trasporto dal sistema
di Giove alla Terra? Credevamo di avere stipulato un contratto con loro
per quattro bilioni di tonnellate di alimenti vegetali, coltivati nelle nostre
fabbriche oceaniche in Europa. Ora dalla Terra ci stanno dicendo che non
vogliono accettare la consegna di nessun'altra spedizione.»
Il viaggio di andata e ritorno alla velocità della luce per il quartier gene-
rale della FUS durava sette minuti, così non potevo esattamente andare, fa-
re quattro chiacchiere e tornare indietro. Invece gli inviai un messaggio di
risposta abbastanza lungo, che a sua volta può essere riassunto così: «Che
cavolo ne so, Hermann. Mi erano sembrati piuttosto contenti di quello che
gli avevo lasciato l'ultima volta».
Il mio livello di sussistenza non fu colpito dalla cancellazione di un con-
tratto per il rifornimento di alimenti con la Terra, ma lo fu il mio ego, e
trascorsi un bel po' di tempo infuriata. Era stata Anna Griss ad arrivare a
me in un modo così smaccatamente indiretto? Sapevo che era capace di
cattiverie tanto sottili. Eppure continuavo a cercare una spiegazione più
logica. Non riuscivo a credere che Anna rischiasse il rifornimento alimen-
tare della Terra solo per colpire me.
Non avevo nessuna intenzione di andare sulla Terra, né di perdere altro
tempo a pensare a Ernesto Kugel e alla sua misteriosa costante. Così,
quando arrivammo al punto di attracco della colonia, dove l'Assemblaggio
sarebbe rimasto ormeggiato fino al viaggio successivo, McAndrew e io
andammo ciascuno per la propria strada. Lui si infilò in una navicella, ec-
citato come un bambino alla sua prima festa di compleanno. Io, invece,
andai a mettere la nave in naftalina, e la lasciai alla squadra locale di ma-
nutenzione della FUS.
Mi ci vollero tre giorni. E la mattina del quarto giorno, senza nemmeno
rendermi conto di quello che stavo facendo, mi ritrovai imbarcata su una
navicella.
Diretta verso la Terra.
Avevo un numero con cui avrei potuto rintracciare McAndrew, e gli in-
viai un messaggio per informarlo che ero in viaggio, e quando e dove sarei
arrivata. Non glielo domandai, ma ero piuttosto speranzosa di trovarlo ad
aspettarmi.
Non c'era. E passare le formalità di entrata cercando la faccia di McAn-
drew, e trovare invece Van Lyle ad aspettarmi dall'altra parte della barriera
fu una delle esperienze meno piacevoli della mia vita.
«Comandante Jeanie Roker.» Mi venne incontro e mi prese la mano. «È
un bel pezzo che non ci si vede.»
Gli strinsi la mano, ma dalla mia faccia doveva essere evidente quello
che provavo, perché si mise a ridere e aggiunse: «Non dire nulla, tu hai fat-
to quello che hai fatto e io me lo sono veramente meritato. Mettiamoci una
pietra sopra».
Eppure si toccò il naso storto con la punta delle dita.
Domandai: «E McAndrew?»
«Si sta divertendo come un matto, comandante, a consumarsi con le at-
trezzature del Geotron. Mi ha chiesto di venire al porto e di portarti lì per
incontrarlo.»
Sembrava abbastanza plausibile. Ma non riuscivo a gettarmi il passato
alle spalle come affermava di avere fatto lui.
«È stato il professor McAndrew a chiederti di venire a prendermi?»
Invece di rispondermi, Lyle tirò fuori da una tasca un telefono grande
come il palmo di una mano e digitò una serie di numeri.
«Quattro uno sette» disse nell'unità. Dopo qualche secondo di attesa mi
passò il telefono.
Mi trovai di fronte a un piccolo schermo in cui c'era un viso dagli zigomi
pronunciati che mi era familiare. I capelli sottili sporgevano in piccole
punte irregolari, e il colorito era una gradazione più intensa del solito. Non
vedevo le sue dita ma ero in grado di intuire che si stava facendo schiocca-
re le giunture.
«Jeanie» disse non appena mi vide, «non mi aspettavo di sentirti prima
che arrivassi al Geotron. Cosa c'è che non va? Hai dei problemi a venire
sott'acqua?»
Sott'acqua? Eppure era McAndrew, senza alcun dubbio. Un McAndrew
vivo, in buona salute, libero e con l'aria di chi sta vivendo l'occasione della
sua vita. Effettivamente non sembrava particolarmente eccitato dalla noti-
zia del mio arrivo.
«Nessun problema» dissi «sono atterrata da pochi minuti.»
«Tutto bene allora, devo andare. Qui siamo molto impegnati.» Veloce-
mente la sua immagine scomparve. La linea telefonica era stata interrotta.
Era sicuramente l'autentico McAndrew, e stava indubbiamente bene. A
quel punto la cosa più intelligente che avrei potuto fare sarebbe stata scu-
sarmi con Van Lyle per la mia rudezza, usare come pretesto un impegno di
lavoro precedente lontano dalla Terra, fare dietro front e tornare nello spa-
zio. Invece gli restituii il piccolo telefono, sospirai, e dissi: «Prima che io
impazzisca del tutto, dimmi una cosa. Che cos'è un Geotron, e dove si tro-
va un Geotron?»
Van Lyle mi guardò dritto negli occhi. Credo che fossi davvero riuscita
a sorprenderlo.
«Tu stai chiedendo a me che cos'è un Geotron?»
«Sì.»
«Ma il professor McAndrew non te l'ha spiegato?»
«L'avrebbe fatto, se gliene avessi dato l'opportunità.»
«Be', io non sono uno scienziato, come ben sai.»
«Nemmeno io. Questo dovrebbe rendere le cose più facili per tutti e
due.»
Ci incamminammo verso un lucido aeromobile ad alta velocità, mentre
Van Lyle diceva: «Bene, sai cosa sono i neutrini, no?»
«Sì, sono particelle elementari, prive di carica e di massa. La loro sco-
perta fu prevista da Pauli nel 1931, perché erano necessari a salvaguardare
le leggi di conservazione dell'energia e del momento angolare.» Era una
volgare disonestà intellettuale, e lo sapevo. Ma Lyle no. Sembrò piuttosto
impressionato.
«Esatto» disse «tutto ciò che posseggono è moto ed energia. Inoltre non
interagiscono molto con le sostanze comuni, a meno che non abbiano un
altissimo potenziale energetico. Questo ne fa dei rivelatori diabolici. Un
neutrino libero può tranquillamente attraversare la Terra. Ma in qualche
caso si rivela vantaggioso. Per esempio, se vuoi fare un'esplorazione ad al-
ta profondità. E decidi di costruire un Geotron.»
Mi spiegò il resto della cosa mentre decollavamo e volavamo verso o-
vest a Mach dieci. Lo staff del Dipartimento Alimentare e del Consiglio
per l'Energia aveva fatto nelle viscere della Terra tutte le esplorazioni pos-
sibili, cioè una ricerca di giacimenti per circa venti chilometri di profondi-
tà. Adesso erano costretti o a cercare più in fondo, oppure a restare dipen-
denti dalle risorse esterne alla Terra. Il Geotron non era altro che una sorta
di enorme macchina a raggi X, costruita per esaminare la struttura profon-
da del pianeta. Solo che invece dei raggi X, che sarebbero riusciti ad arri-
vare a una profondità non maggiore di qualche decina di centimetri, la
macchina generava fasci serrati di neutrini ad alta energia. Potevano essere
spediti in qualsiasi direzione. Attraversavano il centro della Terra disper-
dendosi tra le sue strutture interne, e rispuntavano in alcuni punti sparsi per
il mondo, dove ne veniva misurato il numero. A quel punto, una serie di
incredibili programmi computerizzati raccoglieva le informazioni sui neu-
trini rilevati e le usavano per dedurre la struttura interna che avevano in-
contrato nel loro percorso tra il Geotron e la camera di verifica.
«La ricerca di metano primordiale è considerata l'obiettivo principale»
spiegava Lyle. «Ci sono sacche di metano compresso che risalgono ai
tempi della formazione della Terra e che sono tuttora intrappolate al suo
interno.»
«Da usare come combustibile?»
«Cristo, no. Il metano è un materiale organico troppo prezioso per essere
bruciato, se anche le leggi lo permettessero. No, lo usiamo per sintesi di i-
drocarburi complessi.»
«Siete riusciti a trovarne?»
«Più di quanto tu possa immaginare.»
Mi venne in mente che questa era una spiegazione possibile da offrire a
Hermann Jaynsie circa la perdita di interesse manifestata dalla Terra nei
confronti dei contratti di rifornimento alimentare. Non ci sarebbe mai po-
tuta essere una deficienza di azoto sulla Terra, visto che l'atmosfera del
pianeta era composta per circa l'ottanta per cento di quel gas. Se adesso
avevano abbastanza idrocarburi, e energia sufficiente, la sintesi delle so-
stanze alimentari si sarebbe potuta realizzare in un batter d'occhio.
La cosa più sorprendente era la compiacenza di Van Lyle nel raccontare
tutto questo a me, un esterno. Possibile che il Consiglio per l'Energia e l'A-
limentazione non si preoccupasse affatto di chi ne venisse al corrente?
«Ho capito che cos'è il Geotron» dissi. «Ma per quale ragione si trova
sott'acqua?»
«Be', non avrai pensato che lo installassimo sulla superficie della Terra,
no? La superficie solida è troppo preziosa. Così l'abbiamo messo in fondo
al mare.» Poi, vedendomi confuso, aggiunse: «Comandante Roker, quanto
credi che sia grande il Geotron?»
«Non ne ho la più pallida idea.»
«Allora te lo dirò. L'anello principale è di quaranta chilometri.»
Quaranta chilometri. Un giorno di marcia. O meglio, in questo caso un
giorno di nuoto.
«Così, è stato costruito nella costa continentale delle Malvine» continuò.
«Dove c'è un fondo marino disponibile, e una profondità dell'acqua che va-
ria tra i cinquanta e i cento metri»
«Le Malvine?»
«A largo della costa est della Patagonia. Saremo lì tra mezz'ora. Così ti
renderai conto da sola.»
Nei minuti successivi venni a sapere che la zona costiera delle Malvine
era diventata l'area di sviluppo principale della Terra; non solo era il sito
del Geotron, ma anche delle attrezzature e dei laboratori genetici per la
produzione alimentare più moderni del mondo. Tutto ciò, naturalmente,
lontano dalla costa, nelle acque basse che scorrono per centinaia di chilo-
metri a est del continente.
Mentre Lyle parlava, mi lambiccavo il cervello cercando di ricordare
dove si trovasse la Patagonia. Nell'emisfero sud? Decisamente. Nel Suda-
merica? Era probabile. Mi resi conto che anche se ero capace di indicare la
misura e i parametri orbitali approssimativi di ognuno dei corpi maggiori
tra Mercurio e il confine della Nube di Oort, non conoscevo la geografia
della Terra.
Stavamo volando sul limite dell'atmosfera. Sollevai gli occhi a guardare
il familiare cielo scuro, su cui si stagliavano le stelle più luminose, poi ab-
bassai lo sguardo verso un fascio di nubi bianche, e molto al di sotto vidi il
mare alieno.
Mi sentii, come mi succede sempre quando mi trovo sulla Terra, molto
lontana da casa.

La discesa verso il Geotron non alleggerì affatto il mio senso di estranei-


tà. Non mi ero resa conto che l'aeromobile fosse anfibio, fino a quando non
ci ritrovammo a sfiorare le lunghe onde fluttuanti. Atterrammo, planando
sulla superficie in una nube di spruzzi. Lyle lasciò i comandi.
Ma invece di sobbalzare sulle onde, continuammo a scendere. Dopo
qualche attimo di panico, mentre il livello dell'acqua saliva contro i fine-
strini e ci immergevamo in una verde oscurità, capii che l'aeromobile non
solo era anfibio ma anche sommergibile. Sentivo a poppa il tamburellare
dei motori, e vedevo raggi di luce gialla che illuminavano per molti metri
il percorso avanti e dietro di noi.
«Sono luci per i passeggeri» mi spiegò Lyle. «Giusto perché tu possa
godere della vista. Ho smesso di controllare il veicolo nel momento in cui
siamo atterrati sulle onde. Verremo condotti nelle strutture del Geotron au-
tomaticamente, attraverso un controllo sonar, naturalmente, non radar. I
segnali radio non possono viaggiare nell'acqua.»
«Quanto siamo lontani?»
«Solo un paio di chilometri. Non c'è nessun motivo per atterrare troppo
lontano, ma l'approccio finale è interessante.»
Stavamo scivolando regolarmente verso il basso. La luce naturale del so-
le stava scomparendo, per essere sostituita da torbide chiazze verde scuro.
Banchi di pesci verde argentato insieme a qualcosa che assomigliava a in-
finiti milioni di calamari violacei guizzavano tra i raggi dei nostri fari. Poi
scomparvero anch'essi, e io ebbi la mia prima visione del fondo marino
terrestre, un tappeto di sottili sedimenti grigio-marroni che turbinavano in-
torno a noi, come una nebbia sinistra, nella scia e nei getti del nostro moto-
re a propulsione.
Quella nube aliena mi mise a disagio. Mi sentii molto confortata quando
davanti a noi apparve l'enorme parete argentea dell'anello esterno del Geo-
tron, e ci spostammo verso un attracco sottomarino. Lo sentivo abbastanza
familiare. Una pressione dell'acqua marina verso l'interno sostituiva la
pressione verso l'esterno dell'ambiente spaziale contro il vuoto, ma era ne-
cessario lo stesso tipo di decompressione. Quando fummo dentro era come
se ci trovassimo in un qualsiasi ambiente tra il vulcano Nexus e la Profon-
da Volta di Iperione.
Van Lyle fece strada lungo un complesso di camere collegate che for-
mavano il gruppo di controllo del Geotron. Una serie di altre aree di con-
trollo erano dislocate tutt'intorno al margine dell'anello principale, a una
distanza di un paio di chilometri. Dopo un ultimo viaggio su e giù dall'e-
stremità dell'anello interno, finalmente fummo fatti scivolare da una scala
mobile in una grande stanza quadrata, divisa in una dozzina di piccoli
scompartimenti da lavoro.
McAndrew era seduto in uno di essi con un uomo e una donna sulla ven-
tina. Era senza scarpe e senza calze e guardava con attenzione un elenco
che riempiva l'intera parete dello scomparto. Aveva un bell'aspetto, non
era sottoposto ad alcun tipo di costrizione, e dava tutta l'impressione di es-
sere un uomo totalmente a proprio agio e che si stesse divertendo come un
matto.
«Eccolo» disse Van Lyle. «Mi domandavo perché mai quando lavora si
toglie le calze e le scarpe.»
«Nel caso che abbia bisogno di contare oltre il dieci.» Ma in realtà non
sapevo quale fosse la vera ragione, non più di quanto la sapesse Lyle, e
conoscevo Mac da tanto tempo. Almeno al momento non stava facendo
scrocchiare le dita dei piedi.
Avanzammo verso di loro e Mac vide me per primo, e si alzò in piedi.
«Jeanie! Questi sono Merle Thursoe e Tom O'Dell. Stiamo preparando un
esperimento veramente importante.»
Mi fece un cenno, quasi di commiato, e si girò di nuovo verso il display.
Poi qualcosa, forse il mio sbuffo di stizza, gli fece capire che non avrebbe
dovuto comportarsi così con qualcuno che era venuto da tanto lontano per
incontrarlo.
«Tom, Merle» disse «vi dispiacerebbe andare avanti per qualche minuto
senza di me?» Poi, girandosi dalla mia parte, si alzò. «Jeanie, non credo
che tu conosca Ernesto Kugel. Vieni. Devi incontrarlo.»
Mi scortò attraverso il complicato centro della stanza in un cubicolo non
più grande né più attrezzato degli altri. Seduto alla scrivania, a guardare
fuori, c'era un uomo piccolo e serio che indossava un formale abito nero,
una camicia bianca, e una cravatta blu scuro. Una rosa dello stesso colore
adornava il risvolto della giacca.
«Direttore Ernesto Kugel.» Mac Andrew non era mai stato così solenne.
«Vorrei presentarle il comandante Jeanie Roker.»
Kugel si alzò, girò intorno alla scrivania, e s'inchinò, offrendomi la vi-
sione di una nuca pelata, liscia, bianca e tonda come il frutto di un'ostrica.
Non aveva capelli né peli sul volto, eccetto i baffi neri curati alla perfezio-
ne sul labbro superiore. Decisi che la natura da sola non poteva avere crea-
to quell'effetto. Era stato Ernesto Kugel a darsi da fare.
Ero già certa che avrei trovato quell'uomo antipatico, quando si raddriz-
zò e mi prese la mano.
«Sono felice di conoscerla, comandante Roker» disse con voce profonda
e pacata. «Il professor McAndrew mi ha detto che lei è molto competente.
Ma non mi aveva parlato della sua eleganza e della sua bellezza.»
Lo guardai dritto negli occhi. «Questa battuta le funziona spesso?»
Sostenne lo sguardo, senza batter ciglio e senza vergogna, i suoi occhi
scuri erano luminosi e vivaci come quelli di un uccello. «Non tanto spes-
so.» Improvvisamente sorrise, e il suo viso si trasformò. «Ma mi permetta
di dire che funziona abbastanza spesso.»
«E credo che funzioni anche il fatto di scherzarci sopra, no?»
«Qualche volta. La maggior parte delle volte. E se non funziona» disse
con un'alzata di spalle «che male c'è? Dio ha creato due sessi, comandante
Jeanie, e fortunatamente era il numero giusto.»
Improvvisamente mi sembrò impossibile trovarlo del tutto antipatico. Ci
stavamo sorridendo, quando McAndrew disse: «Vorrei scambiare una pa-
rola in privato. Noi tre soli».
«Certamente.» Kugel fece un cenno in direzione del cubicolo. «Ma que-
sto è il massimo di privacy che possiamo avere. Credo che non farei bene
ad allontanarmi da dove viene svolto il lavoro concreto. Sarebbe brutto nei
confronti del mio staff, e dannoso più per me che per chiunque altro.» Ku-
gel ci fece segno di sederci. La sua scrivania era ordinata e organizzata,
quasi quanto di solito era in disordine quella di McAndrew.
McAndrew era uno che non perdeva tempo. «Ernesto, potrei spiegare io
stesso al comandante Roker... a Jeanie, ciò di cui abbiamo discusso. Ma mi
sentirei molto più a mio agio se lo facessi tu.»
«Naturalmente.» Kugel si piegò verso di me, e si mise a parlare con la
sua voce bassa e confidenziale. «Lei dovrebbe andare a letto con lui, sa.
Voi due dovreste avere dei bambini.»
Mi voltai verso McAndrew. «Mi hai portato qui solo per sentire una
proposta indecente a tuo favore? Sei abbastanza cresciuto da gestire da so-
lo le tue pubbliche relazioni.»
«Ma non era questo che intendevo fare!» Mac si rivolse con un segno al-
l'altro uomo. «Andiamo avanti, Ernesto»
«Certo.» Kugel stava ridacchiando. «Ciò che volevo dire, comandante
Jeanie, è che l'uomo che ha di fronte, Arthur Morton McAndrew, è un
grande genio. I suoi geni, e i vostri, dovrebbero essere preservati e conser-
vati con cura. Conoscevo la sua reputazione molto tempo prima che venis-
se qui, ma adesso mi sono reso conto che lui è uno degli immortali.»
«Ma non sono degno neppure di lustrare le scarpe del dottor Kugel,
quando si tratta di ingegneria su larga scala» aggiunse McAndrew. Sentirsi
lodato sulle proprie capacità lo metteva terribilmente a disagio.
Sospirai. Mi trovavo evidentemente in una società di mutua ammirazio-
ne. A giudicare dalle apparenze avevo percorso la distanza che c'è tra la
Luna e la Terra, solo per sentire quei due complimentarsi reciprocamente.
«Ma per arrivare alla questione» disse Kugel dopo una lunga pausa du-
rante la quale erano rimasti seduti a farsi inchini e a sorridersi «prima del-
l'arrivo del professor McAndrew, io e il mio staff abbiamo lavorato al
Geotron per tre mesi. In tutto questo tempo abbiamo osservato che si è ve-
rificata un'inspiegabile perdita di neutrini. Sappiamo quanti ne produce la
macchina. E siamo a conoscenza di quanti se ne trovano nei nostri rivela-
tori mobili. Così basta un semplice calcolo per valutare il numero totale di
quelli svaniti sull'intera superficie della Terra. Sono troppi, più di quelli
che avevamo prodotto, in quantità che si scosta non di poco dai ragionevo-
li margini d'errore statistico. Sono davvero troppi. Per molto tempo abbia-
mo pensato che dovesse essere una questione di cambiamento di fase, o di
taratura degli strumenti. Alla fine abbiamo deciso che non poteva essere
quello il motivo.
«Non riuscivamo a trovare nessuna spiegazione. Fino a quando due bril-
lanti giovani del mio staff, Thursoe e O'Dell, non se ne sono occupati.»
«Jeanie li ha conosciuti tutti e due» disse McAndrew.
«Allora deve sapere, comandante, che sono entrambi molto più brillanti
di me. Loro hanno proposto una precisa motivazione fisica per la scompar-
sa dei neutrini, ragionando per analogia sulla teoria della corrente conser-
vata del vettore di Feynman e Geli-Mann. In questo modo verrebbe impli-
cata l'esistenza di un nuovo tipo di forza debole, e di un nuovo tipo di co-
stante fisica. Si tratta di una affermazione teorica, ma credo che sia interes-
sante. Ho fatto riferimento al lavoro e alla teoria nelle mie relazioni setti-
manali sulle attività al Consiglio per l'Energia e l'Alimentazione. Non mi
aspettavo che potessero avere una divulgazione esterna, fino all'arrivo im-
provviso della richiesta del professor McAndrew di visitare le attrezzature
del Geotron, e di verificare la prova.»
Si girò verso Mac. «Ora credo che dovresti continuare tu.»
«Allora...» McAndrew si sentiva a disagio. «Non mi piace criticare il la-
voro degli altri, lo sai, e la teoria di O'Dell e Thursoe è molto ingegnosa,
ma mi sembra che potrebbe esserci una spiegazione più semplice.»
«Tu lo sapevi già» disse Kugel monotonamente. «Lo sapevi ancor prima
di lasciare il Penrose Institute.»
«No. Tutto dipendeva dai risultati dell'esperimento.» McAndrew si voltò
di nuovo verso di me. «Vedi, Jeanie, il Geotron ha operato a un altissimo e
precisissimo livello di energia neutrinica, un campo che, per quanto ne so,
non è mai stato esplorato prima nei particolari. Mi sembra che la spiega-
zione della perdita di neutrini potrebbe essere qualcosa di semplice come
la cattura per risonanza. Certe sostanze, comuni nelle viscere della Terra,
possono avere un'altissima fetta di assorbimento per i neutrini dell'energia
del Geotron. Questo potrebbe rendere conto della differenza osservata tra
la produzione e la rilevazione. E sarebbe già una scoperta scientifica di
grandissimo valore, perché questo tipo di risonanza non è prevista dalle te-
orie attuali.»
«Mph» dissi. Significava: Mac, ho già sentito più di quanto volessi co-
noscere sulla perdita di neutrini.
Ma McAndrew, a conti fatti, si apprestava a concludere. «E c'è un modo
molto semplice per sapere se ho ragione» disse. «In meno di dodici ore
possiamo realizzare un esperimento con energia geotronica modulata, e-
sclusa da qualsiasi forma possibile di risonanza, e ottenere un conteggio i-
stantaneo dei neutrini. Questo è ciò a cui stavamo lavorando O'Dell, Thur-
soe e io. E siamo quasi pronti per la messa a punto finale.»
Come ho detto, conosco McAndrew da molto tempo; da abbastanza per
interpretare il significato di ciò che mi aveva appena detto: era pronto a
condurre un accurato esperimento fisico, e per la successiva mezza giorna-
ta niente in cielo o in terra l'avrebbe spostato dalle attrezzature del Geo-
tron.
Questa convinzione fu immediatamente rinforzata da Ernesto Kugel.
«Lei è naturalmente la benvenuta se vuole rimanere qui durante l'esperi-
mento» mi disse con calma. «D'altro canto, uno dei membri dello staff
amministrativo suggerisce che potrebbe trovare più interessante una visita
al nostro nuovo impianto di produzione alimentare, a qualche chilometro
da qui. Sarebbe felice di farle da guida.»
«Più che felice.» E quasi come se avesse ricevuto l'imbeccata, Van Lyle
si stagliò davanti all'entrata del cubicolo. «Quando vuoi sono a tua disposi-
zione, comandante Roker.»
Era tutto troppo perfetto, e appena un pochino troppo a proposito.
«Devo andare in bagno» dissi «prima di partire.»
«Certo.»
Non appena fui dentro il box mi sedetti sulla toilette, mi presi la testa tra
le mani, e cominciai a pensare.
Mi sentivo a disagio. Ma qual era la fonte del mio fastidio? Nulla a cui
potessi dare un nome, eccetto che il lupo aveva perso il pelo un po' troppo
in fretta. Questo Van Lyle non era il Van Lyle che conoscevo.
Ma allora quali erano i pericoli che correvo? Non mi veniva in mente
niente.
Ero diventata paranoica. Tornai fuori. Diedi a McAndrew un abbraccio
di saluto, mentre Ernesto Kugel ci rivolgeva uno sguardo di approvazione.
Ma durante l'abbraccio sussurrai nell'orecchio di Mac: «Vado a dare un'oc-
chiata al centro di produzione alimentare con Van Lyle. Se non torno tra
dodici ore, vieni a cercarmi».
McAndrew non è molto bravo in questo genere di cose. «Cosa?» disse a
voce alta.
«Hai sentito» dissi senza alzare il tono di voce. «A presto, spero.»

La Terra è un luogo sorprendente. È una forza consumata, una logora re-


liquia, un dinosauro imbalsamato che il resto del sistema considera, con un
bonario senso di sufficienza, un ricordo.
Ma la Terra non lo sa, o almeno fa finta di non saperlo.
Le attrezzature di produzione alimentare delle Malvine erano stupefa-
centi. Il centro di produzione era posizionato sul fondo del mare, veniva a-
limentato da una gran quantità di energia di fusione e con i soli elementi
grezzi come materiale di base stava producendo alimenti buoni come non
ne avevo mai assaggiati da nessun'altra parte del sistema. Non c'è da mera-
vigliarsi quindi che la Terra volesse rifiutare i contratti sulle scorte alimen-
tari, avendo a disposizione la scorta di metano primordiale di diecimila an-
ni assicurata da Ernesto Kugel. Aveva ben poco interesse in ciò che consi-
derava come un'estorsione da parte del sistema esterno.
La Terra sembrava quasi (posso dirlo?) il pianeta del futuro.
Forse fu proprio questo, la sensazione di vivere un'esperienza surreale,
che mi fece abbassare la guardia. Lyle e io stavamo camminando in una
stanza in cui c'era una vasca dietro l'altra di latte sintetico ed estratto di
carne in fermentazione.
«Dopo facciamo un giro nel centro di riciclaggio organico» disse. «Ma
prima annusa questo.» Ci fermammo davanti a un contenitore aperto, mol-
to più piccolo degli altri. «È formaggio Roquefort. Sintetizzato, ma forse
non l'hai ancora provato. Abbassati e dagli una buona sniffata. Poi te ne
darò un assaggio.»
Mi chinai verso la vasca. E immediatamente persi i sensi, senza nemme-
no rendermi conto che stavo svenendo.
Quando rinvenni, mi ritrovai su una sedia a rotelle, legata ma non ancora
imbavagliata. Lyle era in piedi accanto a me.
«Ah, eccoti, Jeanie» disse con voce allegra. «Sei tornata tra noi final-
mente. Sei pronta per l'azione?»
Mi girava la testa e mi era rimasto nelle narici un odore nauseante. Per
quanto tempo ero rimasta priva di sensi? Non lo sapevo, ma mi sembrava
un'eternità. McAndrew poteva arrivare in qualsiasi momento. Dovevo pen-
sare, e dovevo cercare di sopravvivere fino a quando ciò non fosse succes-
so.
«Non ho idea di cosa tu abbia intenzione di fare» dissi «ma sono certa
che non funzionerà. Verranno a cercarmi.»
«Credi che verranno adesso?» Lyle sollevò la testa educatamente. «Non
prendertela a male, Jeanie, ma credo che tu stia commettendo un errore.
Anche se devo riconoscere che sto aspettando con ansia l'apparizione del
professor McAndrew. Senza di lui lo spettacolo non sarebbe lo stesso.
Comunque penso che, per il momento, sia meglio che la tua bocca venga
tappata, solo per precauzione.» Un attimo dopo aggiunse: «Devo ammette-
re che il tuo arrivo è stato una sorpresa assoluta».
Credo che questo sia il punto da cui abbiamo cominciato. Dopo un paio
di minuti ci fu l'arrivo di McAndrew su una seconda sedia a rotelle, spinto
dalla stessa Anna Griss, fatto che mi gettò nel più totale sconforto.
«Mac» sussurrai, quando fu spinto vicino a me. Ero già in preda a un
tremendo sospetto. «Dove sono gli altri?»
«Gli altri?» Mi guardò aggrottando le sopracciglia e corrugando la fron-
te. «Gli altri? Sono venuto da solo.»
McAndrew aveva fatto ciò che gli avevo chiesto di fare, letteralmente.
Era venuto a cercarmi. Da solo.
Be', almeno c'era ancora qualche speranza. Ma quando Anna Griss ven-
ne avanti e si piazzò di fronte a noi, non ce ne fu più nessuna. Era, come
sempre, vestita con eleganza, truccata con cura ed estremamente sicura di
sé. Rimase di fronte a noi per qualche secondo senza parlare. Oserei dire
che fissava me con gelido odio, e McAndrew come se fosse stato un bam-
bino testardo, che, a dispetto di ogni ammonimento, avesse commesso un
terribile e imperdonabile errore.
«C'è voluto un po' di tempo, non trovate?» disse. «Quanto tempo è pas-
sato dalla Nube di Oort? Eppure alla fine tutto ha funzionato, sapevo che
sarebbe andata così.»
«Non crederai di farla franca» dissi. «Ci sono delle persone che sanno
dov'è McAndrew. E sanno anche dove sono io.»
«Certo che lo sanno» disse Anna Griss. «Ma capita che si verifichino
degli incidenti, no? Un giro nelle attrezzature di riciclaggio, uno sfortunato
passaggio in un'area chiaramente proibita...»
«Sei un mostro.»
«Ti ringrazio. Ma non credo di avere alcun bisogno di ascoltare questo
genere di discorsi. E non ho alcuna necessità di guardare.» Si voltò verso
Lyle. «Rimettile il bavaglio sulla bocca. Parla troppo. Poi finiscili tutti e
due. Ma prima di farlo, ho bisogno di scambiare ancora una parola con te.
Ti aspetto fuori.»
Tipico di Anna. Non voleva guardare, non voleva ascoltare, così, se per
qualsiasi ragione ci fosse mai stata un'indagine, lei avrebbe potuto procla-
mare la propria innocenza. Non vedo, non sento.
Se ne andò. Ma Van Lyle era ancora lì, e lui da solo era più che suffi-
ciente. Venne avanti, con il nastro adesivo tra le mani e si fermò davanti a
me.
«Sarà bello sentirti gridare, Jeanie» disse tranquillamente. «Non riuscirò
a farti tutto quello che ti meriti, quello che vorrei farti davvero. Non ab-
biamo abbastanza tempo per queste cose. Ma non vedo l'ora di vederti stri-
sciare. Voglio sentirti chiedere pietà, Jeanie.»
«Può darsi di sì.» dissi con voce tremante. «E può darsi di no.» Si stava
avvicinando. «Ma se mi tappi la bocca, non sentirai nulla da me. Mai. Co-
sì, fa' pure.»
Esitò. «Ti umilierai» disse «e mi implorerai. Credimi, Jeanie. Tu suppli-
cherai, pregherai, e urlerai. Aspetta.»
Lasciò la stanza. Ma non mi aveva imbavagliata.
La sedia a rotelle di Mac era esattamente accanto alla mia. «Non muo-
verti» dissi, e mi piegai il più possibile sulla sinistra. Potevo solo cercare
di raggiungere con la bocca le corde che legavano la sua mano destra.
Può anche sembrare una cosa semplice disfare dei nodi di corde spesse.
Ma non lo è, soprattutto se non riesci a vedere quello che stai facendo, hai
una fretta disperata, e puoi darti da fare solo con la bocca. Le labbra sono
organi molto sensibili, ma noi siamo animali visivi. Cercai con la lingua e
con le labbra, afferrai e tirai con i denti, e mi convinsi che non sarei riusci-
ta a ottenere niente.
Mi sforzai di rimanere calma, di avere pazienza, di tirare con delicatezza
invece che cercare di stracciare e mordere. McAndrew non si mosse,
nemmeno quando afferrai con i denti la sua carne invece della corda.
Mi sembrò un'eternità prima di sentire che si stava sciogliendo, final-
mente un nodo che rispondeva alla mia bocca tremante. Ma da quel mo-
mento le cose andarono più in fretta. Il secondo nodo sembrava facile. Alla
fine la mano destra di Mac fu libera.
«Bene» borbottò. «Saremo fuori di qui tra un minuto.» Cercò di rag-
giungere l'altra mano, con la corda sciolta ancora intorno al polso destro.
Mentre si dava da fare con la mano sinistra, allungai la testa per vedere se
Van Lyle tornava.
«Fatto» disse alla fine Mac. Ma aveva le gambe ancora legate quando mi
accorsi che la porta si stava aprendo.
«Non c'è più tempo» sussurrai. Quando Van Lyle si avvicinò di nuovo
verso di noi eravamo tutti e due paralizzati. Mac aveva lasciato le corde in-
torno a tutti e due i polsi, e teneva l'avambraccio sul bracciolo della sedia a
rotelle. Dava l'impressione di essere bloccato saldamente, mani e piedi. In
quanto a me, avevo ancora le braccia e le gambe legate come un pollo
pronto per essere arrostito.
«Allora, Jeanie» disse Lyle «dici di non sapere se chiederai pietà, eh?
Bene, devo dirti che la dottoressa Griss ha lasciato i passi finali nelle mie
mani. Il modo in cui morirai dipende solo dalla mia volontà, e dalla tua.
Veloce e semplice, o lento e doloroso. Credi di riuscire a convincermi a
essere gentile con te? Su, scopriamolo.»
Si mise al mio fianco e spinse in avanti la sedia a rotelle. Poi mi rag-
giunse al pannello che controllava la grande doppia porta.
«Dai un'occhiata a questo, Jeanie.»
Le porte scorrevoli si aprirono. Dei gas pungenti si levarono dall'abisso
che si era aperto davanti a me, bruciandomi la gola. Vidi una grande pozza
di liquido scuro, proprio dietro le porte e un mezzo metro più in basso.
«Dieci secondi lì dentro» disse Lyle in tono colloquiale «e soffocheresti.
Mezzo minuto, e la tua pelle comincerebbe a staccarsi. Ma non dobbiamo
affrettarci tanto. Puoi essere immersa e tirata fuori come un pezzo di carne
alla bourguignon, un dito, un piede o una mano per volta, con la frequenza
e la velocità con cui sceglierò di farlo. Vuoi iniziare a pregare adesso, Jea-
nie? O forse preferisci che io mi dimostri molto misericordioso con te e ti
stordisca, prima di cominciare?»
Avevo poche possibilità di movimento ma cercai lo stesso di fare un
balzo e urlai e mi contorsi cercando di sciogliermi, facendo più rumore che
potevo. Lyle rideva deliziato, fra tutti e due facevamo un chiasso spaven-
toso.
Fino a che punto il mio urlo era panico allo stato puro? Non lo so, ma
sono certa che lo era in gran parte, visto che la mia sedia stava scivolando
progressivamente sempre più vicino al limite, senza nemmeno essere spin-
ta. C'era un piccolo gradino proprio sul margine della fossa, ma poteva es-
sere insufficiente a bloccare il movimento in avanti.
Ero a un passo dalla morte, con la sedia sempre più vicina al bordo, Van
Lyle era al mio fianco per guardare da vicino la mia faccia e godersene l'e-
spressione.
Poi, all'ultimo minuto, sentii alle mie spalle lo stridore di ruote non olia-
te.
Prima che Van Lyle potesse muoversi, McAndrew gli fu addosso. Mac
era riuscito a slegarsi le gambe ed era saltato fuori dalla sedia a rotelle.
Comportandosi in modo molto più intelligente di quanto avrei fatto io, si
era lanciato in avanti silenziosamente, spingendo la sedia a rotelle come se
fosse stata un ariete. Lo spigolo della sedia colpì Lyle dietro la coscia al-
l'altezza del ginocchio. Lui cadde in avanti in posizione seduta. Prima che
potesse gridare era già arrivato al limite dello strapiombo. Lui e la sedia
precipitarono. Ci fu un urlo e si sentì un grande splash. McAndrew si fer-
mò sul margine a guardare in basso.
«Mac!» urlai. Stavo ancora scivolando in avanti.
Lui fece un mezzo giro e si mise davanti alla sedia, bloccandola con il
suo stesso corpo. Poi ci fermammo a guardare proprio sull'orlo della fossa.
Lyle era caduto a faccia in su. Riemerse in superficie tra una nube di va-
pore, urlando e lacerandosi gli occhi. Mentre stavamo guardando, i suoi
capelli e la sua pelle cominciarono a fumare e a friggere. Le braccia si agi-
tavano e ricadevano colpendo il corpo da tutte le parti. Poi affondò di nuo-
vo. La vasca era molto più corrosiva di quanto Lyle avesse lasciato inten-
dere. Riemerse ancora due volte, lamentandosi ormai in agonia. Ma il li-
quido doveva aver raggiunto i polmoni. Quando riemerse per l'ultima volta
era muto, una massa grigio-verde che stava già perdendo il suo aspetto
umano.
Mentre Lyle moriva, McAndrew cominciò a strappare il nastro adesivo
che mi teneva imprigionata. Credo che fosse l'unica cosa che riuscisse a
impedirgli di tuffarsi per cercare di aiutarlo.
Il nastro adesivo era resistente e le mani di Mac stavano tremando. Ci
vollero più di due minuti prima che potessi alzarmi e avanzare barcollando
fino all'orlo per guardare tra i fumi verdi. Vidi una vasca piena di un liqui-
do scuro, con delle piccole onde lente sulla superficie. A circa tre metri dal
margine della fossa galleggiava un amorfo grumo arrotondato.
«Non guardare» disse McAndrew. «È morto.»
«Certo che è morto. Ma è stata tutta colpa sua, dannazione.»
Non ho idea di quanto la mia voce suonasse carica di rabbia, ma Mac
trasalì. «Su, Jeanie» disse «è tutto finito adesso. Tiriamoci fuori di qui.»
«No» risposi, poi visto che mi guardava fissa, aggiunsi: «Non è finita.
Non ancora. Vieni, Mac. Potrei avere bisogno del tuo aiuto».
Rifeci di corsa la serie di camere che s'infilavano nell'installazione per la
produzione alimentare come perline in una collana. Anna Griss era seduta
alla scrivania della terza camera, a leggere tranquillamente. Ebbe giusto il
tempo di gridare di sorpresa prima che la raggiungessi. La riempii di colpi
a casaccio e le sferrai un pugno sullo zigomo sinistro. Mentre stava ancora
annaspando all'indietro, piuttosto stordita, l'afferrai per il collo.
«Avanti, Mac. Aiutami. Portiamola alle vasche.»
Lui non fu di grande aiuto, ma non aveva importanza. Il livello della mia
adrenalina era così alto, che avrei potuto facilmente trasportarla per tutto il
percorso anche da sola. Quando la gettai sulla sedia a rotelle rimasta, stava
ancora lottando debolmente. Il nastro adesivo che mi aveva tenuto bloccata
non era più utilizzabile in alcun modo, ma le corde che avevano legato
Mac bastarono a legarla.
La spinsi nella sedia a rotelle fino all'orlo della vasca, tanto che i vapori
di acido corrosivo riempirono sia la sua gola che la mia.
«Quella cosa che galleggia lì dentro è Van Lyle» dissi indicando la car-
cassa verde, molle e umidiccia, che galleggiava ed era sul punto di essere
sommersa. «Stai per raggiungerlo.»
«Oh Cristo. No, no.» Ansimava, scuotendo la testa con i capelli insoli-
tamente disordinati e il trucco sbavato. «Non mi spingere dentro. Non uc-
cidermi. Ti prego.»
«Però eri quasi pronta a guardarci morire. Adesso tocca a te, Anna
Griss.» Inclinai la sedia in avanti, in modo tale che l'unica cosa che le im-
pediva di cadere nella vasca erano le corde che la legavano. «Ecco cosa
capita alle persone che mi prendono in giro. Sei morta.»
Avvicinai la mia faccia alla sua. Era troppo spaventata per piangere, ma
i suoi occhi sbarrati erano velati di lacrime a causa dei gas velenosi.
«Comincia a pregare e a dire addio» sussurrai.
«Oh, no. Ti prego.» Si spingeva indietro, per tenersi lontana dalla vasca
mortale. «Non farlo. Farò qualunque cosa. Qualunque cosa!»
«Jeanie!» gridò McAndrew
«Piantala, Mac. È una questione tra me e lei.»
Tirai indietro la sedia di un paio di metri, e mi spostai di fronte a lei per
poterla guardare bene negli occhi. «Guardami, Anna Griss. Non ti uccide-
rò, per questa volta. Ma dammi ancora dei fastidi, e sei morta. Hai capito?
Se mai dovessi incrociare sulla mia strada di nuovo la tua figura o la tua
voce o il tuo odore, ti inseguirò. E ti prenderò. Non dubitarne. Ti avrò.»
Annuì, senza dire niente. Mi girai verso McAndrew.
«Credo che abbia ricevuto il messaggio. Se disturberà un'altra volta uno
di noi due, finirà in pasto ai maiali. Andiamo Mac.»
«Ma non puoi semplicemente lasciarla lì! Potrebbe cadere giù.»
«Se cadrà, cadrà.» Lo afferrai per il braccio. «Non sarà una gran perdita.
Noi ce ne andiamo. Dai, vieni.»
Si girò a guardarla, ma si lasciò trascinare via. Io non mi girai indietro.
«Non l'avresti fatto sul serio, non è vero?» Mi domandò alla fine, quan-
do fummo passati attraverso una mezza dozzina di stanze.
«Non l'avresti mai uccisa, indipendentemente da ciò che aveva fatto.»
Era chiaro quello che voleva sentirsi dire. «No, non l'avrei uccisa.»
«Ma allora perché l'hai fatto, perché l'hai terrorizzata?»
«Perché ho dovuto farlo. Potrei chiedere la stessa cosa a te, perché hai
spinto giù Van Lyle?»
«Ma stava per ucciderti. Non ho avuto il tempo di pensare, l'ho fatto e
basta. Come è successo a te quando ti sei messa a urlare mentre ti avvici-
navi alla vasca. L'hai semplicemente fatto. È stata una bella fortuna che
Lyle non ti abbia imbavagliata! Altrimenti non avresti potuto gridare, e
quando mi stavo slanciando su di lui mi avrebbe sentito arrivare.»
Di solito non mi importa degli elogi che ricevo. Ma questo era un po'
troppo.
«Mac» dissi «ascoltami. Sto per dirti qualcosa a proposito delle Costanti
Universali. Tu hai le tue costanti fisiche e matematiche, le determinanti e
la velocità e i vettori di corrente. E io ho le mie, le costanti della natura
umana: l'amore, la gelosia, la paura e l'odio. Van Lyle era un uomo crude-
le, un sadico bastardo. Era così quando lo abbiamo incontrato per la prima
volta, era uguale nella Nube di Oort, ed è rimasto lo stesso fino all'ultimo
momento della sua vita. La sua natura non sarebbe cambiata. Gli ho detto
intenzionalmente che non avrei potuto implorare e gridare e umiliarmi se
mi avesse imbavagliata. Ero certo che dopo averglielo detto per nessuna
ragione mi avrebbe imbavagliata, al di là di quello che Anna Griss potesse
dirgli. Voleva vedere il mio terrore, e sentirmi gridare. E così hai avuto la
possibilità dislegarti.»
McAndrew è un animo innocente. Rimase silenzioso, scioccato da quel-
lo che gli avevo detto. Alla fine sospirò e mormorò: «Forse hai ragione.
Ma io non riesco comunque a capire perché ti sei comportata in quel modo
con Anna Griss».
«Ho dovuto farlo, perché a suo modo non è diversa da lui. Anche lei ha
le sue costanti: potere, controllo e paura. Non si tratterrebbe dal vendicarsi
per essere gentile con qualcuno. Va avanti, più avanti possibile, fino a
quando non viene fermata. Tu e io l'abbiamo semplicemente bloccata. Non
saremmo riusciti a farlo con la persuasione e la logica. Doveva guardare in
faccia la sua stessa morte, e guardare giù nella fossa nera.»
«Ma potrebbe ancora causarci dei problemi. Inseguirci, sulla Terra o
lontano da essa.»
«Potrebbe, ma non lo farà. Le piacerebbe prenderci, ma si ricorderà di
quella fossa. Anna riconosce il potere. Se la sua gente dovesse provarci di
nuovo e di nuovo fallire sa che l'andrei a cercare. Il piacere di uccidermi
non vale il rischio.»
«Ne sei certa?»
«Sì, ne sono certa Mac, credimi. Se io non discuto sui tuoi spin e sulla
calibrazione delle scale ottiche, tu non dovresti mettere in dubbio le mie
considerazioni su Anna Griss.»
«Allora pensi che possiamo tornare al Geotron senza correre rischi a ve-
dere come procede l'esperimento? Me ne sono andato prima che si comin-
ciassero a raccogliere i risultati, sai, per quello che mi avevi detto.»
Stava tornando normale, cioè totalmente anormale.
Feci un sospiro. «Certo. Possiamo tornare al Geotron.»
Sembrava che tutto fosse finito, ma non era così. Eravamo nel sommer-
gibile, riportato indietro dal laboratorio di Ernesto Kugel. Mi domandavo
che storia avrei raccontato. Probabilmente non avrei detto nulla. Avrei fat-
to finto di aver fatto una piacevole gita, e avrei lasciato ad Anna Griss il
compito di raccontare un'altra versione.
A un certo punto McAndrew ricominciò a parlare.
«Jeanie. Davvero non l'avresti mai uccisa? Al di là di tutto?»
Mi avvicinai e gli diedi un colpetto sulla guancia. «Certo che non l'avrei
fatto. Ma vogliamo piantarla di occuparcene adesso? Tu e io dobbiamo fe-
steggiare il fatto di essere ancora vivi. Forse dobbiamo seguire il suggeri-
mento di Ernesto Kugel, il primo, intendo.»
Suonò stonato e artificiale come infatti era, e non ingannò McAndrew
neanche per un minuto. Mi lanciò uno sguardo diffidente e stanco, e si
riappoggiò allo schienale della poltrona. Ma avevo raggiunto il mio obiet-
tivo. Avevamo escluso dalla conversazione un argomento che avevo paura
di discutere.
Perché ho imparato una cosa nella vita, che le persone non conoscono
mai le proprie costanti. Io sapevo di conoscere la risposta alla domanda di
McAndrew, ma non ne ero sicura. Quella terribile rabbia, la furia che si era
consumata, che avevo provato quando Anna Griss si era trovata sull'orlo
della fossa... se avesse opposto solo un pochino più resistenza, se solo fos-
se stata un po' più tenace e provocatoria, chi sa che cosa avrei potuto fare.
Io non lo so.
Ma so una cosa con certezza. Non ne avrei parlato con McAndrew. Mai.
È una cara persona, ed è super intelligente, e credo che sia meraviglioso
quasi in tutto. Ma è proprio come la maggioranza delle persone che tra-
scorrono la propria vita a studiare la natura dell'universo.
Coglie solo un piccolo pezzo della realtà.

Titolo originale:
The Invariants of Nature
Analog Science Fiction and fact,
April 1993

DIRITTO D'ASILO
di James White

la diretta televisiva può


mettere a disagio chiunque,
anche una creatura extraterrestre
in panne sul nostro pianeta...

Il convento delle Suore Missionarie d'Africa si trovava in un vecchio ca-


stello sito su un basso promontorio, che fendeva le lunghe onde dell'Atlan-
tico come la prua di una grande nave di basalto, e offriva, a chiunque in-
dugiasse nei pressi, un panorama che da qualsiasi prospettiva lo sì guar-
dasse era di una bellezza così selvaggia e fuori dal comune da poter risul-
tare perfino fastidioso. La magnificenza dello scenario era il motivo prin-
cipale per cui l'edificio era stato designato come Casa di Riposo, e vi veni-
vano invitate le suore delle missioni, degli istituti educativi e di cura per ri-
storare corpo e mente, perseguire i loro studi senza distrazioni, o sempli-
cemente trascorrere il resto della vita in un ambiente di straordinaria bel-
lezza, pace e solitudine.
Ma ora era giunto un visitatore sgradito, e di conseguenza pace e solitu-
dine erano svanite. Il fatiscente muro esterno, nel lato rivolto verso la ter-
raferma, era presidiato da carri armati, coadiuvati da un'unità di fanteria e
da un elicottero da ricognizione, mentre la sagoma grigia e bassa di un
missile da guerra teleguidato era adagiata nei pressi, sulla spiaggia. Dentro
le mura, davanti all'entrata principale, erano parcheggiati un furgone per le
riprese televisive esterne e una roulotte, e lo studio di suor Augustine era
in preda alla confusione più totale, tanto che il pavimento era ricoperto di
cavi di connessione per le luci e le telecamere.
Il presentatore, il signor Matlock, sfoderando uno dei suoi sorrisi più
ampi e falsi, le aveva detto che i partecipanti al programma sarebbero stati
quattro. Lei e suor Constance avrebbero preso le parti degli angeli, mentre
il dottor Watterson, esperto di psicologia sociale, e il capitano McCloskey,
che lei aveva già conosciuto, rappresentavano gli interessi militari.
Forse per deferenza nei confronti della sua età e della sua posizione di
madre superiora del convento, l'avevano fatta sedere per prima e l'avevano
tenuta talmente impegnata con i problemi di illuminazione e di suono pro-
vocati dal suo abito scuro e dal tono basso della sua voce che non aveva
avuto il tempo di parlare con loro, e nemmeno di chiedere il consiglio di
suor Constance, che era seduta vicino a lei, simile a un enorme Buddha
tutto vestito di nero. Ma anche se lo avevano fatto deliberatamente per
confonderla prima ancora che cominciasse l'inchiesta, la preoccupava
maggiormente la notizia che le suore le avevano sussurrato non appena era
entrata nella stanza, e così aveva deciso di rimanere in silenzio.
Non si tratta di vigliaccheria, si disse suor Augustine mentre la sigla del
programma suonata da una banda veniva diffusa sommessamente dagli al-
toparlanti e i titoli cominciavano a scorrere sul monitor; solo che non sa-
peva scegliere il momento giusto per fare esplodere la bomba.
«Vi parla Ben Matlock» disse il presentatore guardando in macchina
«che vi dà il benvenuto a un nuovo "Processo in tv", un programma che
indaga, interroga e non teme di dire la verità su chi si ritiene al di sopra
della legge. Quello che condurremo qui oggi sarà un processo molto parti-
colare, non solo perché il programma non avrà limiti di tempo e proseguirà
oltre i cinquanta minuti consueti, né perché viene considerato talmente im-
portante da essere mandato in onda in diretta, via satellite, nei paesi di tut-
to il mondo. Sarà un processo molto particolare perché la persona sotto in-
chiesta è normalmente considerata dalla stragrande maggioranza degli
spettatori, e anche da me, irreprensibile e senza nulla da nascondere.»
«Questa persona» continuò con tono severo «non è un esponente di quel
crimine legalizzato, e uso quest'ultimo termine tra virgolette, contro cui la
società è impotente, né un politico cinico e privo di scrupoli, e nemmeno
un fanatico religioso che cerca di riportare i suoi seguaci all'età della pie-
tra, anche se qualcuno di voi potrebbe avere da ridire su quest'ultima af-
fermazione. Si tratta invece di una suora, dedita alla vita religiosa da quasi
mezzo secolo. E tuttavia essa ha qualcosa da nascondere.»
«Ci siamo fatti ormai un'idea chiara di ciò che essa nasconde» continuò
Matlock «tuttavia è mia intenzione scoprire le ragioni che la spingono a
perseverare nel suo atteggiamento, nonostante abbia ricevuto numerose ri-
chieste di abbandonarlo e persino ordini diretti da parte delle maggiori au-
torità civili, militari ed ecclesiastiche. Ma non potrebbe trattarsi semplice-
mente di un tentativo interessato e cinico di speculare sulla situazione? Il
convento che lei dirige si trova in una posizione graziosa e pittoresca, ma
ho potuto notare che esso ha un'impellente necessità di interventi strutturali
e che i suoi impianti antiquati andrebbero sostituiti: la somma di denaro
che ricaverà da un programma come il nostro, trasmesso in tutto il mondo,
sarà considerevole.»
«Ma in questo specifico programma» continuò tranquillamente mentre
suor Augustine apriva la bocca per protestare «non abbiamo a che fare con
una persona che ha portato l'arte della menzogna e dell'inganno a livelli ar-
tistici sublimi, ma con l'anziana e rispettatissima madre superiora di questo
convento. Può darsi che la situazione sia più semplice: una persona abitua-
ta a esercitare il potere è forse troppo avvezza ai suoi modi di fare consueti
per potervi rinunciare...»
«Suor Augustine non è una vecchia svanita né si comporta come un ca-
porale» ringhiò suor Constance con la sua voce profonda e baritonale. «E
se sta cercando di insinuare una sciocchezza del genere...»
«La prego, sorella» la interruppe Matlock sollevando la mano. «Avrete
tutte e due fra breve ampie opportunità di parlare. Ora dobbiamo iniziare
dal momento in cui le cose per voi si sono complicate, con la prima visita
del capitano McCloskey. Vuole raccontarci come è andata, capitano?»
Senza rivolgersi a nessuno in particolare, l'ufficiale raccontò il suo pri-
mo incontro con suor Augustine e diverse altre suore che lei gli aveva pre-
sentato come sue consigliere. La madre superiora si era rifiutata di conce-
dere ai suoi uomini il permesso di perquisire l'edificio, per cui, senza for-
nirle dettagli precisi, lui aveva sostenuto che l'oggetto delle loro ricerche
era un animale fuggito dal vicino zoo, affamato e potenzialmente molto
pericoloso. Non che lui si aspettasse di trovare qualcosa, ma il convento
era l'unica struttura di dimensioni rilevanti in quell'area a non essere stata
ancora controllata e bisognava farlo il più presto possibile prima di esten-
dere le ricerche.
Il capitano McCloskey proseguì con tono sbrigativo: «Mentre cercavo di
spaventarle o comunque di turbarle in modo da ottenere il permesso neces-
sario, una delle suore presenti, una suora molto anziana che fino a quel
momento mi era parsa addormentata, disse che mi stavo comportando da
sciocco perché la creatura non era in condizioni di fare del male a nessuno.
A quel punto, rendendosi conto che ormai sapevo che la creatura si trovava
nell'edificio, suor Augustine mi mostrò una foto che le aveva scattato non
appena aveva messo piede nel convento. Nella speranza che mi consegnas-
se la creatura, decisi di dare a suor Augustine tutte le informazioni che e-
rano in mio possesso, e che in quel momento erano rigorosamente riservate
alla NATO».
«E che cosa le disse, esattamente?» domandò Matlock. «Le sembrò che
si rendesse conto delle implicazioni?»
«Le capì abbastanza da discutere in seguito ogni cosa nei dettagli» disse
il capitano McCloskey. «Le dissi che otto giorni prima il nostro radar di si-
curezza per i missili aveva intercettato la traccia di un oggetto non identifi-
cato che precipitava o scendeva in picchiata verso la superficie terrestre, a
una velocità superiore alle possibilità di qualsiasi apparecchio esistente. La
traiettoria dell'oggetto era irregolare, e quindi con ogni probabilità c'era a
bordo qualcuno che lo guidava e che stava cercando deliberatamente di
sfuggirci, forse per evitare un prevedibile attacco militare. Negli ultimi
minuti di volo, inoltre, esso aveva sfiorato la superficie del mare per non
essere rilevato dai nostri radar. Per questa ragione non eravamo in grado di
stabilire con esattezza dove si fosse schiantato o dove fosse atterrato, ma
solo che il fatto era avvenuto all'interno di un cerchio dal diametro di cen-
tocinquanta miglia che comprendeva l'isola più occidentale della Scozia e
questa distesa della costa nordirlandese. Non era stato mai possibile osser-
varlo direttamente, ma dalla traccia del radar sembrava che possedesse la
massa di un aereo di linea di media grandezza; non avevamo inoltre alcuna
idea delle risorse degli invasori.»
«Delle risorse dei sopravvissuti» disse dolcemente suor Augustine.
«O delle potenzialità militari dei sopravvissuti» proseguì il capitano an-
nuendo educatamente. «Spiegai che la nave era stata prodotta fuori dal no-
stro sistema solare, e che per questa ragione era idonea al volo interstellare
e presentava un livello tecnologico di gran lunga superiore al nostro. Dissi
che la sua traiettoria irregolare si poteva attribuire sia all'atterraggio forza-
to di una nave civile che a un incidente occorso durante un giro di ricogni-
zione militare, ma che in ogni caso l'incidente ci offriva un vantaggio che
non potevamo lasciarci sfuggire contro la loro tecnologia avanzata e ci
metteva in condizione di neutralizzarli ed eventualmente di catturarli. Poi
domandai alla suora se la creatura aveva con sé qualcosa di simile a un'ar-
ma.»
Esitò per un istante guardando suor Augustine, che intervenne con voce
tranquilla: «Dissi al capitano McCloskey che quando l'abbiamo trovata,
non indossava alcun abito e non aveva con sé alcun tipo di equipaggiamen-
to.»
«Vada avanti, capitano, per favore» disse Matlock.
«Le dissi» proseguì l'ufficiale «che ci erano sconosciuti sia il suo livello
intellettivo che le sue intenzioni nei nostri confronti. Era possibile che ci
considerasse una forma di vita inferiore, o poco più di insetti nocivi, e che
l'unico modo per scoprirlo era quello di sottoporlo a un interrogatorio, a
un'osservazione comportamentale a lungo termine, a test fisici e psicologi-
ci, e a qualsiasi altra azione fosse ritenuta necessaria, mantenendolo in uno
stato di isolamento. Le dissi che mi assumevo la responsabilità di questo
procedimento e che l'avrei liberata dalla creatura non appena mi avesse
mostrato dove si nascondeva, in modo che avrei potuto portarla via con
l'aiuto di alcuni uomini e un paio di ufficiali armati. Lei disse di no.»
«Le disse sicuramente molto di più di questo» disse Matlock con fred-
dezza mentre il monitor mostrava un primo piano del viso della madre su-
periora. «E voglio saperlo da lei, capitano. Suor Augustine potrà parlare
più tardi.»
L'ufficiale, evidentemente a disagio, si schiarì la gola e continuò. «Mi ri-
spose che tutte le suore avevano già visitato la creatura, che a suo giudizio
non costituiva un pericolo per nessuno e che io stesso me ne sarei convinto
se l'avessi incontrata. Ma aggiunse che non poteva permetterlo, visto che
ero armato e avrei potuto provare l'impulso di catturarlo da solo o, una vol-
ta saputo dove si trovava, avrei potuto ordinare ai miei uomini di farlo.
Disse che se avessi violato il monastero in quel modo o minacciato azioni
del genere, allora io e i miei superiori saremmo stati criticati molto seve-
ramente dai membri di numerosi gruppi religiosi, oltre che dai media, in
patria e all'estero, e che sarebbe stato meglio se avessi preso in considera-
zione le conseguenze che la mia carriera avrebbe subito.»
«Quindi stava cercando di ricattarla» disse Matlock rivolgendo uno
sguardo significativo alla telecamera. «Cos'altro le disse?»
«Stavo cercando di dare un consiglio a questo giovanotto» disse bru-
scamente suor Augustine. «E non vedo la ragione per cui debba essere il
capitano McCloskey a riferire le mie parole, quando è presente chi le ha
dette per primo, e non penso neppure che lei abbia l'autorità morale o ec-
clesiastica per impormi un voto di silenzio come e quando vuole. Le ripe-
terò quindi esattamente ciò che gli dissi.»
Per un attimo si sforzò di recuperare calma interiore e controllo esterio-
re, poi disse con tono più pacato: «Il mio punto di vista su questa vicenda,
forse eccessivamente semplicistico, è che la creatura è uno straniero che
proviene da un paese lontano, e il modo più opportuno di comportarsi nei
suoi confronti è descritto in un libro di regole che dovrebbe esservi fami-
liare. La creatura è sola, spaventata, ferita, probabilmente afflitta dalla per-
dita dei suoi amici, ed è braccata come un animale. I cacciatori sono armati
o come minimo parecchio nervosi, tanto che essa rischia di essere ferita in
modo ancor più grave o forse perfino uccisa per mano loro.
«Anche se non è in grado di chiedere aiuto a parole» proseguì «questa
richiesta è implicita nella situazione in cui si trova e deve esserle offerta la
nostra protezione. Quindi la creatura non lascerà questa casa fino a quando
non indicherà in qualche modo che la sua intenzione è proprio questa. Du-
rante la sua permanenza qui, essa non sarà molestata in alcun modo, e non
potrà essere avvicinata né dalle nostre consorelle né da estranei privi di au-
torizzazione. Questo vale anche per lei, giovane amico, i suoi sottoposti, i
suoi superiori e chiunque altro cerchi di contattare la creatura.
«Mi appello al diritto d'asilo previsto dalle nostre regole.»
Per un istante ci fu un silenzio assoluto, che fu interrotto da una risata
breve e alquanto forzata del conduttore.
Con il sorriso ancora sulle labbra, Matlock disse: «Su, su, sorella. Cer-
chiamo di essere realistici. Non siamo più nel medioevo per tirare fuori
questa storia del diritto d'asilo. E se il capitano facesse riferimento alla
stessa epoca e si appellasse alla regola della disfida armata? Che cosa gli
direbbe allora? Non direbbe forse quello che le sto dicendo io adesso, ov-
vero che quella regola è antiquata e ridicola?»
Prendendo la parola per la prima volta, il dottor Watterson disse: «Una
sorta di diritto d'asilo viene offerta qualche volta dalle ambasciate a perso-
naggi politici o religiosi di spicco che...»
Si interruppe accorgendosi che suor Constance si stava faticosamente al-
zando in piedi.
«I tentativi di usare la forza militare convenzionale sono già stati com-
piuti senza ottenere risultati» brontolò lei, e la sua larga faccia tonda fu at-
traversata da un breve sorriso. «Se ricordo bene la storia, nelle disfide ar-
mate è l'individuo sfidato, o il suo campione, ad avere la scelta delle armi.
Io non ho mai usato alcun tipo di arma in tutta la vita. Ma se le può essere
utile saperlo, quando sono tornata a casa lo scorso Natale, ero ancora in
grado di battere mio fratello maggiore a braccio di ferro.»
Il capitano McCloskey fissò per un attimo la figura massiccia della suo-
ra, poi tornò a guardare Matlock. «Se dovessi essere costretto a fare a
braccio di ferro con una suora per il possesso di un extraterrestre, o per
ogni altra ragione, potrei tranquillamente dire addio alle mie speranze di
promozione.
«Soprattutto» aggiunse gravemente «se fosse lei a vincere.»
Ci vollero diversi secondi prima che Matlock riuscisse a farsi sentire,
quindi disse irritato: «Non è una questione su cui si può scherzare, capita-
no...»
«È stato lei a cominciare» disse l'ufficiale.
«Quando la sorella ha invocato il diritto d'asilo» continuò Matlock «lei
che cosa ha fatto?»
«Per circa un quarto d'ora ho cercato di farla ragionare» rispose il capi-
tano. Arrossì leggermente quando aggiunse: «Ma ci sono situazioni, signor
Matlock, in cui si capisce istintivamente chi è che comanda. E così me ne
andai».
Senza offrire a nessun altro l'opportunità di rispondere, il conduttore del
programma disse in fretta: «Suor Constance, lei sembra piuttosto ansiosa
di unirsi alla discussione, ed è stata lei la prima persona a vedere la creatu-
ra. Per favore, ci racconti con parole sue tutto ciò che riesce a ricordare su
di essa. E impieghi pure tutto il tempo che vuole».
«È una storia vecchia e faccio fatica a ricordare» disse suor Constance.
Per mostrare la propria irritazione inalò piuttosto rumorosamente dal naso,
poi proseguì con maggiore tranquillità. «Quel giorno ero andata a prendere
la verdura per il pranzo nella nostra fredda cantina, una piccola cella priva
di illuminazione ed elettricità alla quale si accede attraverso una porta e-
sterna che c'è sul muro di fronte all'orto del castello. Fu allora che sentii un
rumore provenire dalla cantina sottostante. È più grande e anche più fredda
di quella superiore e la usiamo soprattutto per conservare la carne salata; le
suore la visitano raramente perché credono che un tempo sia stata la pri-
gione sotterranea e la camera di tortura del castello. Presi una delle candele
che stavo utilizzando e scesi la scala che conduce alla cantina sotterranea.
Seguii il suono, una specie di rumore sordo simile a un gorgoglio, finché
non ne scoprii la fonte. La candela non faceva luce sufficiente a illuminare
chiaramente la creatura, ma ero sicurissima di non avere mai visto nulla di
simile. Corsi, anzi, considerando il mio peso è meglio dire che mi affrettai,
a riferire la cosa a suor Augustine.»
«E poi?»
Suor Augustine disse con calma: «Mi recai con la sorella in cantina, por-
tando con me una torcia elettrica, e mi resi conto immediatamente che la
creatura era ferita, pienamente cosciente, intelligente, che provava una de-
cisa avversione per la fiamma della candela ma non per la luce della mia
torcia, e infine che non era una creatura terrestre. Curammo le sue ferite,
che erano piuttosto superficiali, e suor Constance le offrì una scelta di ali-
menti per...»
«Ma sorella, questo è assolutamente ridicolo» si inserì lo psicologo che
le stava di fronte. La telecamera si spostò per riprenderlo e il monitor mo-
strò per un attimo la sua espressione arrabbiata, mentre una didascalia lo
identificava come il dottor Kenneth Watterson, assistente universitario di
psicologia, prima di fare una dissolvenza sulla fotografia che la madre su-
periore aveva scattato all'alieno fasciato. Lo psicologo proseguì: «Ci sta
forse dicendo che lei ha immediatamente riconosciuto e curato le ferite di
una forma di vita finora sconosciuta? Guardate, per l'amor del cielo! Sem-
bra un volontario bendato da capo a piedi per una dimostrazione di pronto
soccorso! Sorella, è stato un gesto avventato, se non stupido date le circo-
stanze. Lei avrebbe potuto essere, anzi potrebbe ancora essere, responsabi-
le della sua morte. Non aveva alcun diritto di agire in questo modo irre-
sponsabile. Non ha alcuna qualifica in questo ambito.»
«E lei sì?» domandò pacatamente suor Augustine.
Lo psicologo scosse la testa nervosamente. «Io sono anche un medico, e
ciò che mi preoccupa è che sia stato dato a un essere vivente del cibo senza
alcun riguardo per eventuali effetti tossici sul suo metabolismo e senza
considerare l'eventualità di uno scambio di germi patogeni nocivi contro i
quali né la creatura né chi si stava, per così dire, prendendo cura di lei po-
teva avere alcuna immunità. Agire come lei ha fatto va certamente al di là
delle sue competenze come cuoca di un convento!»
«Dottore, lei sta affermando» disse suor Augustine bruscamente «che
dal momento che suor Constance è molto grassa, essa è anche molto stupi-
da. Ma non è così. Ha fatto la cuoca fino a questo fine settimana, quando
un'altra sorella è subentrata in questo compito. A lei piace cucinare, lo fa
bene, e le altre gradiscono che sia lei a farlo, con risultati tali che si ritrova
a cucinare molto più spesso di quanto richiederebbe il calendario delle
mansioni da svolgere...»
«Con tutto il rispetto, sorella» la interruppe Matlock «non siamo molto
interessati ai vostri accordi sulla preparazione del cibo.»
«Ma il motivo per cui si trova qui» continuò suor Augustine, ignorando
l'interruzione «è completare la sua tesi di dottorato che aumenterà la sua
possibilità di essere scelta come direttrice del Collegio Domenicano che si
trova in città quando, il prossimo anno, l'attuale incaricata andrà in pensio-
ne. Non è stato tuttavia il suo titolo a darle la qualifica necessaria per agire
come ha fatto, ma il semplice senso comune.»
Il capitano McCloskey si stava strofinando un lato della faccia, e la ma-
no gli nascondeva la bocca. I tratti del volto di Watterson erano invece an-
cora alterati dalla rabbia.
«Allora, sorella» riprese Matlock «sia gentile e ci dica che cosa ha fatto
esattamente a quella creatura»
«A proposito delle mie qualifiche» disse suor Augustine con fermezza,
ignorando momentaneamente la domanda che le era stata rivolta «appar-
tengo a un ordine di suore missionarie a cui è richiesto di avere una prepa-
razione superiore da infermiera, e in questo ruolo ho lavorato per quasi
vent'anni in Africa. Inoltre, a rischio che mi si possa giudicare vanaglorio-
sa, ho imparato abbastanza sull'anatomia umana da sapere con certezza
quando un essere non è umano, e ho accumulato un'esperienza pratica suf-
ficiente nel trattamento delle malattie e delle ferite, spesso in zone isolate
dove le medicazioni necessarie sono limitate o addirittura inesistenti, da
cercare quanto meno di essere d'aiuto in un caso in cui le nostre cure uma-
ne non si possano applicare, o siano addirittura letali per il metabolismo
non-umano del paziente.»
Il monitor stava mostrando nuovamente la fotografia a colori, mentre
suor Augustine proseguiva velocemente nella descrizione di come insieme
a suor Constance aveva comunicato con la creatura, facendo una semplice
addizione con le dita, e riferì della loro meraviglia quando la creatura ave-
va dimostrato di essere intelligente rispondendo immediatamente, nono-
stante il braccio ferito. Poi raccontò del primo contatto fisico, avvenuto
quando lei aveva esaminato una delle ferite.
«La creatura mi sembrò alquanto riluttante a lasciarsi toccare, inizial-
mente» continuò, indicando la fotografia che era sullo schermo. «Affinché
possiate capirne il motivo, vi descriverò quali erano le sue condizioni
quando la vedemmo la prima volta...»
La creatura era raggomitolata su un largo divano sgangherato. Era gran-
de e misurava circa due metri e mezzo a partire dalla testa pesante e smus-
sata fino alla punta della coda corazzata, e rassomigliava lievemente a un
alligatore nero con scaglie iridescenti. Aveva tre paia di arti. I due arti sot-
to la base del collo erano più sottili degli altri e terminavano con sei dita
dotate di un numero inconsueto di giunture; gli altri quattro, che sostene-
vano la parte inferiore del corpo, erano più corti e grossi e finivano in piedi
piatti e tondi con dita lunghe e palmate. La creatura aveva tre occhi, molto
grandi, contenuti in una cavità e protetti da sporgenze ossee disseminate
regolarmente su tutta la faccia. Le altre caratteristiche delle sua faccia era-
no: una bocca larga con denti molto grossi, che all'inizio sembravano spor-
chi di sangue ma che a un esame più attento risultarono dipinti di diversi
colori, e un certo numero di orifizi circondati da grinze e pieghe di pelle
che potevano essere orecchie o narici. Aveva due lunghe pieghe verticali
nella pelle, da cui emetteva suoni gorgoglianti, che erano situate a metà del
grosso collo conico.
Il corpo era segnato in diversi punti, soprattutto sulle giunture degli arti
e nelle altre zone in cui le ossa erano più vicine alla pelle, da strisce e
chiazze di sangue fresco e raggrumato, che si accompagnano di solito a fe-
rite da taglio e a scorticature.
«... Quando avvicinammo la torcia per ispezionare uno dei tagli più pro-
fondi» proseguì suor Augustine «la creatura da principio non si mosse, poi
improvvisamente fece roteare la coda davanti a me.»
Il ricordo la fece interrompere per un istante, poi proseguì. «Questa coda
che, come potete vedere, è incurvata all'indietro ed è situata lungo la spina
dorsale, è lunga e grossa, termina in un osso piatto che presenta delle e-
stremità molto taglienti e deve essere la sua principale arma naturale. La
creatura la fece roteare davanti a me, ma controllò il movimento quando
l'estremità dell'osso piatto venne a trovarsi a qualche centimetro dal mio
viso.»
«E non ebbe paura?» domandò Matlock.
Suor Augustine si fermò giusto il tempo per sottolineare che si trattava
di una domanda irrilevante, poi riprese a parlare. «Quando mi avvicinai
una seconda volta, rimase passiva e mi lasciò toccare la ferita. Mi sembrò
evidente che la sua azione precedente aveva avuto lo scopo di avvertirmi
di stare attenta, o almeno di essere delicata durante la medicazione. Penso
che abbia espresso il concetto in modo perfetto.»
Sorrise al presentatore e proseguì. «Non potevamo correre il rischio di
usare alcuna medicazione o antibiotico della nostra cassetta di medicinali,
per i motivi che il dottor Watterson e io abbiamo già spiegato, così l'unico
trattamento sicuro consisteva nell'irrorare le ferite con l'acqua. Se ci fossi-
mo trovati in Africa, avremmo prima dovuto bollirla, ma qui siamo riforni-
te di acqua naturale di sorgente, e in ogni caso, a giudicare dalle condizioni
del pavimento della cella, sembrava che avesse trascorso un certo lasso di
tempo in mare senza riportarne effetti negativi. La pulizia era necessaria
perché le sue ferite erano state quasi certamente causate dal contatto con le
rocce che sono sotto il convento, mentre nuotava fino alla cantina.
Le ferite da taglio vennero pulite senza usare alcun tipo di sapone tossi-
co, e i lembi delle ferite furono tenuti insieme con tamponi piegati ricavati
da lenzuola di lino e fermati da bende cicatrizzanti. Lasciammo le abrasio-
ni scoperte perché il sangue in quelle zone aveva già iniziato a coagularsi e
a formare le croste. Sistemammo la creatura nel modo più comodo possibi-
le sul divano che, come potete vedere, era stato prima coperto con lenzuoli
bianchi, in modo che la polvere della tappezzeria potesse raggiungere me-
no facilmente le lacerazioni che erano rimaste scoperte. Accanto al divano
posizionammo un recipiente coperto, per i suoi rifiuti corporei...»
Il dottor Watterson aprì la bocca per intervenire e lei proseguì veloce-
mente: «L'eliminazione delle scorie mi procurò qualche preoccupazione.
La creatura, che non indossava alcun abito protettivo, e che anzi non in-
dossava abiti di alcun tipo, non si comportava come se fosse preoccupata
di prendere qualche malattia da noi nei contatti fisici, così mi sentii tran-
quillizzata al pensiero che la stessa cosa forse valeva anche per noi. Ma
poiché per un corpo terrestre i rifiuti sono la maggior fonte di infezione, al-
lora decidemmo che il materiale doveva essere sotterrato, sia per sicurezza
che per conservarlo in vista di analisi future, piuttosto che rischiare di dif-
fondere un'eventuale infezione eliminandolo nel modo consueto. Fino a
quel momento la quantità non era cospicua, ma il fatto che il nostro cibo
fosse stato metabolizzato ci rassicurò».
Le maniere di Watterson si erano fatte molto meno ostili. «Credo che lei
abbia agito in modo sensato nella più insolita delle situazioni mediche»
disse «ma permettere alla vostra cuoca di dare cibo terrestre... Quello non
era certo il momento di offrire una semplice e imprudente ospitalità, indi-
pendentemente dalle buone intenzioni. Lei avrebbe potuto ucciderla, sorel-
la. E il rischio sussiste ancora, se c'è stata accumulazione di effetti tossici.»
«Non si è trattato di un'ospitalità semplice o imprudente, dottore» disse
suor Constance con un grugnito di irritazione. «Questa diapositiva mostra
la creatura distesa sul nostro divano, quindi lei può vedere solo l'estremità
del tavolino che c'è di fronte. Suor Augustine e io abbiamo riflettuto molto
attentamente sulla selezione e sulla preparazione di quegli alimenti.»
Watterson sembrava scettico, ma rimase in silenzio. Matlock disse:
«Non ci tenga con il fiato sospeso, sorella».
Per l'ennesima volta suor Constance sbuffò dal naso, poi disse: «Deci-
demmo che, anche se la creatura respirava la nostra aria e aveva sangue
rosso, le sue necessità dietologiche erano di sicuro diverse dalle nostre, ma
aveva bisogno di cibo e acqua per aiutare la guarigione. Decidemmo che
l'unica cosa da fare era offrirle una scelta di alimenti, e avere fiducia che il
suo senso del gusto e dell'olfatto la rendessero capace di scegliere lei stessa
quelli che erano innocui, o almeno non dannosi. Sapevamo già che non era
spaventata dalla luce, ma aveva una forte avversione per la fiamma della
candela, e questo escludeva qualsiasi tipo di alimento caldo».
Improvvisamente sorrise, poi andò avanti: «Il menu che le offrimmo
comprendeva una selezione di verdure crude, lavate con molta attenzione,
tagliate a pezzi, e con unico tipo di verdura per ciascun piatto, in modo che
la creatura potesse capire chiaramente che cosa le stavamo offrendo. C'e-
rano anche piatti che contenevano pezzi di carne, pane integrale, cereali
secchi, crudi e senza latte, una caraffa d'acqua e una di latte. Suor Augusti-
ne suggerì che, se la creatura fosse stata un anfibio, poteva piacergli il pe-
sce. Facemmo questo tentativo utilizzando alcune sardine, ma le lavammo
attentamente per rimuovere la salsa di pomodoro e gli additivi che poteva-
no confondere il suo senso del gusto. Il cibo fu disposto su un tavolino
lungo e basso, a sua volta coperto da una tovaglia bianca, che poteva esse-
re raggiunto con facilità. Disponemmo accanto a ciascun piatto forchette e
cucchiai, ma evitammo i coltelli».
«E quale fu il risultato?» domandò concitatamente il dottor Watterson, la
cui curiosità aveva sopraffatto l'ostilità iniziale.
«Non prese nessuna verdura cruda» rispose suor Constance «né il latte
né la carne, ma solo un piccolo quantitativo di pane integrale e gradì il pe-
sce. Ignorò tutti i cereali eccetto la farina d'avena, che invece finì comple-
tamente. Bevve tutta l'acqua, forse per inghiottire meglio la farina d'avena
secca, e questa è la ragione per cui cominciammo a cucinarla e a servir-
gliela fredda per renderla più gustosa. Provammo a fare la stessa cosa con
altri tipi di alimenti, e ogni piatto che non era stato toccato per qualche
giorno veniva escluso; così la creatura ha stabilito da sola la sua dieta e ha
mangiato, anche se forse senza gustarli troppo, i nostri alimenti. Molte
bende sono state tolte, le ferite sono asciutte e ben cicatrizzate, ed è in gra-
do di muoversi liberamente nella cantina.»
«Ma sardine e porridge freddo...» terminò con tono dispiaciuto. «Non è
di sicuro questo il tipo di vitto che offriamo ai visitatori.»
Matlock si concesse uno dei suoi più fievoli sorrisi, ma prima che potes-
se parlare, suor Augustine disse: «Ma a parte i momenti dedicati alla cura
delle ferite e quelli in cui lo riforniamo del cibo che preferisce, e natural-
mente durante la notte, il visitatore rimane da solo. Anche se ormai tutte le
suore lo hanno già visto, la maggior parte di loro è ancora un po' nervosa
in sua compagnia. Così, per dargli qualcosa a cui pensare oltre che alle fe-
rite e al suo futuro, e sperando di incrementare la comunicazione al di là
dell'attuale livello di linguaggio di segni e schizzi fatti a penna, ho spostato
nella cantina il mio televisore portatile. È stato collegato all'impianto elet-
trico del convento con un cavo del nostro tagliaerba, il che mi rende possi-
bile spegnerlo quando i programmi non sono adatti.»
«Censura, sorella?»
«No, selezione» rispose lei con fermezza, «guarda programmi di storia
naturale, geografia, e attualità, ma credo che i cartoni animati potrebbero
solo confonderla. Inoltre i film di guerra, di cui ignora il carattere fittizio,
potrebbero spaventarla. Può vedere già abbastanza violenza nei telegiorna-
li.»
Inaspettatamente il dottor Watterson sorrise e annuì in segno di approva-
zione. Poi disse: «Avete agito ambedue in modo più responsabile e intelli-
gente di quanto mi aspettassi. Mi scuso, sorelle, vi avevo decisamente sot-
tovalutate».
Matlock, che non desiderava che i protagonisti del programma diventas-
sero troppo cordiali, disse in fretta: «Ma rimane il fatto che non siete ade-
guatamente preparate per far fronte a questa situazione. Voi sapete che a-
vreste dovuto affidare la creatura a persone più qualificate, invece di tenere
deliberatamente segreta la sua presenza. Sorella, se non fosse stato per la
prontezza del capitano McCloskey, noi ancora non sapremmo che la crea-
tura si trova qui. Non è vero, Capitano?»
«Suppongo di sì» disse l'ufficiale che sembrava molto a disagio. «Ma mi
vergogno di me stesso per non essere stato capace di convincere la sorella
ad affidarmela. Devo averle fatto una brutta impressione.»
«Niente affatto, giovanotto» disse suor Augustine. «Mi scuso se ho reso
visibile la mia irritazione. Ma è stato semplicemente perché lei porta u-
n'arma, cosa che non dovrebbe fare in un posto come questo, e perché ave-
vate indosso abiti da guerra e stivali chiodati che hanno graffiato la super-
ficie del nostro antichissimo pavimento lucente. C'era inoltre la possibilità,
da me già accennata, che lei potesse portare via il nostro ospite con la for-
za. Ma le sue maniere sono state sempre impeccabili.»
«Grazie» disse il capitano, che sembrava sempre più a disagio.
La madre superiora proseguì: «Questa è una delle ragioni per cui, nella
sua seconda visita, le ho permesso di accompagnare l'operatore a filmare la
creatura. Non aveva con sé una mitraglietta e indossava questa uniforme
da giorno più elegante con scarpe appropriate. Volevo inoltre che lei ve-
desse il visitatore, nella speranza che si rendesse conto, e forse convinces-
se i suoi superiori, che non si trattasse di un nemico.»
Prima che l'ufficiale potesse replicare, Matlock disse in modo irritante:
«Su, su, sorella. Il capitano McCloskey è un militare di professione. Non si
lascerebbe ingannare sulla forza di un nemico in seguito a un incontro con
un prigioniero disarmato e ferito. Lei è stata assolutamente poco realistica
e sciocca con questa storia dell'asilo. Ci pensi. Ci troviamo di fronte a una
situazione inconcepibile, in cui un'anziana madre superiora di un ordine re-
ligioso non molto importante ha vietato a chiunque, eccetto al capitano
McCloskey e a un operatore, di visitare il primo extraterrestre che è venuto
sulla Terra. Lei lo ha fatto a dispetto delle pressioni continue e crescenti da
parte delle autorità militari e civili, e tra gli altri anche della sua stessa au-
torità ecclesiastica. Io so per certo che è stato richiesto l'intervento della
Madre Generale e della Madre Provinciale, del vescovo e addirittura del
Nunzio Apostolico, e che le hanno consigliato caldamente di affidare que-
sta creatura a noi.
«Non esiste una regola d'obbedienza, sorella?»
«Certo» rispose suor Augustine scegliendo attentamente le parole. «Ma
la responsabilità qui è mia, e se bisogna obbedire agli ordini, non sempre si
devono accettare consigli, indipendentemente dalla loro provenienza e dal-
la forza con cui vengono espressi. A meno che io non sia dichiarata in-
competente o mentalmente incapace, non c'è niente che i miei superiori
possano costringermi a fare. È una questione che tocca la mia coscienza,
che per quanto mi riguarda è assolutamente pulita.»
«Ho un piccolo dubbio a riguardo, sorella» disse Matlock con tono di
educata incredulità. «Normalmente il mio programma indaga su persone
che hanno molto da nascondere, e la cui coscienza è invece sporca. Non
penso che lei mentirebbe a me, ma nutro il forte sospetto che non ci stia
dicendo tutto ciò che sa. Per un membro di un ordine religioso ci sono,
purtroppo, restrizioni di linguaggio e di comportamento che...»
«Signor Matlock» disse suor Augustine interrompendolo con gentilezza
«mi sono divertita a vedere il suo programma molte volte, e non ho alcuna
obiezione sui metodi che di solito usa per interrogare. Il fatto che nessuno
dei soggetti che hanno partecipato al suo programma sia stato riconosciuto
innocente mi preoccupa un po', ma se lei ha dei piccoli dubbi, mi permetta
di scioglierli. Sono certa che il suo linguaggio e il suo comportamento non
mi faranno arrossire.»
Ma era la faccia di Matlock a essere diventata paonazza. Ignorando il
complimento, disse con durezza: «Sorella, perché ha permesso solo al ca-
pitano McCloskey e a un operatore di filmare la creatura, invece che alla
troupe usuale? E perché è stata così ansiosa di farci riprendere esclusiva-
mente la creatura sul divano e il tavolo con il cibo? E come mai la pellico-
la che abbiamo filmato era esattamente della metratura necessaria a garan-
tire che lei, apparentemente una semplice e anziana suora, fosse in grado di
tenerci tutti quanti col fiato sospeso? Non si è resa conto che così facendo
ci ha costretti a venire qui, a girare questo programma speciale da un con-
vento che ha evidentemente bisogno di grossi interventi di restauro?
«Non potrebbe essere» continuò rapidamente «che l'arrivo della creatu-
ra, sia stato, dal suo punto di vista, un'opportunità inviata dal cielo per rea-
lizzare quelle riparazioni? Tutta questa faccenda del diritto d'asilo non sarà
forse un modo per ottenere il massimo della pubblicità? Ha forse sottova-
lutato il programma, semplice e ingenua com'è? E il pagamento per le re-
pliche che deriverebbe da un programma mandato in onda potenzialmente
dalle reti televisive di tutto il mondo? Be', sorella, non posso nemmeno va-
lutarne l'entità, perché una cosa come questa non si verifica dal primo at-
terraggio sulla luna. Ma sono in grado di dirle che sarà molto di più di
quello necessario per riparare le fatiscenti mura esterne, e per rimpiazzare
il vostro antiquato riscaldamento centrale, e che sarà sufficiente anche a
spostare il convento, pietra per pietra, e a ricostruirlo in qualsiasi posto
della terra che lei sceglierà, e avanzerà ancora denaro.
«Stiamo aspettando delle risposte, sorella.»
«Allora forse aspetterà ancora un momento» disse suor Augustine «in
modo che possa ricordare tutte le domande, incluse quelle a cui lei cerca di
rispondere al posto mio.»
«Faccia pure con calma» disse Matlock. «Le ricorderò io quelle che di-
menticherà.»
«La ringrazio» disse suor Augustine. Per un attimo si domandò se fosse
un peccato veniale o mortale dare volontariamente informazioni incomple-
te, poi tranquillamente proseguì: «La ragione per cui è stato permesso di
effettuare la ripresa a un solo operatore e al capitano, in modo che potesse
aiutarlo con il microfono e le luci, è perché ho pensato che la creatura po-
tesse essere spaventata da un numero di persone maggiore e che potesse
compiere qualche azione difensiva, soprattutto perché avrebbero usato ap-
parecchiature che poteva scambiare per armi. La creatura non ha mai in-
contrato un numero considerevole di esseri umani tutti in una volta. Le
suore le hanno fatto visita solo a due o tre per volta, ed è possibile che
pensi che noi siamo poche. Gli abiti che indossano le suore le fanno sem-
brare identiche anche ai terrestri».
Il capitano McCloskey scoppiò a ridere e Matlock lo guardò accigliato.
Poi la madre superiora continuò: «Un'altra ragione ancor più veniale per
limitare le riprese è che la cella è piena di vecchie apparecchiature polve-
rose e di rottami e ha urgente bisogno delle pulizie di primavera. Sarei ri-
masta mortificata se lei avesse acceso i suoi riflettori su di essa. Posso e-
sprimermi liberamente?»
«La prego» disse Matlock.
«Non mi piace, e respingo categoricamente, la sua illazione sul fatto che
sarei il tipo di religiosa imbrogliona, affamata di pubblicità e di denaro.
Sono contenta che questo programma ci faccia guadagnare molti soldi, ma
questo denaro non sarà a disposizione mia, bensì della Madre Generale del
mio ordine. Non ho dubbi sul fatto che la maggior parte di esso sarà devo-
luto alle vittime della carestia e alle nostre scuole e missioni, che si trova-
no in zone molto povere, così il mio riscaldamento centrale sarà in fondo
alla lista di priorità. Inoltre rispetto all'idea che il nostro convento possa
essere spostato pezzo per pezzo, si dia un'occhiata intorno...»
Sollevò il braccio lentamente e indicò, oltre la finestra dello studio, lo
spettacolo fantastico del sole che stava tramontando fra la luce scintillante
del mare e il profilo scuro della scogliera. Una telecamera ruotò per segui-
re la direzione indicata dal suo dito.
«...Non riesco a immaginare nessun altro posto in cui vivere.»
«Sorella» disse Matlock sarcasticamente «sta forse cercando di dirigere
questo programma come se fosse una primadonna? Non è necessario che
mi risponda. Adesso manderemo in onda il filmato e, mi creda, le doman-
de che seguiranno non saranno retoriche.»
Tutti gli occhi erano concentrati sul monitor quando si vide la telecame-
ra a spalla che inquadrava i gradini che scendevano verso la cantina sotter-
ranea. Poi la telecamera e le luci si spostarono su suor Augustine che spie-
gava quanto fosse necessario fare sapere alla creatura che quell'attrezzatura
era innocua. Infine la telecamera passava sulla creatura stessa, avvicinan-
dosi lentamente. Si riuscivano a vedere tutti i particolari fisici, a sentire
ogni suono basso e gorgogliante emesso dalla creatura. La telecamera pas-
sò a un primo piano della testa, del petto e delle spalle. E si vide la lunga
mano dell'alieno. Si faceva il segno della croce.
«E questa» disse Matlock con voce amareggiata e sprezzante «è la ra-
gione della presenza della nave nella baia, del carro armato appostato da-
vanti alle mura, e della continua sorveglianza aerea a bassa quota, e infine,
il motivo di questo programma. Perché questa pellicola è stata vista da
chiunque abbia accesso a un televisore sul pianeta, e molti si sono preoc-
cupati. Non tutti, naturalmente, ma solo la gente comune, dominata dai
pregiudizi, che costituisce ancora la maggioranza della popolazione. Essi,
molti dei quali non aderiscono alla sua specifica fede, hanno esercitato sui
rappresentanti dei rispettivi governi pressioni politiche tali che nessuna au-
torità civile o militare correrebbe il rischio di venire qui e portarle via la
creatura, per timore delle serie ripercussioni politiche e religiose che cer-
tamente seguirebbero.
«È quindi compito mio, sorella» continuò «discutere con lei. Convincer-
la che sta commettendo un errore, impedendoci di vedere questo alieno, o
se fallirò, mostrare ai miei spettatori che la sua posizione è insostenibile,
ridicola e si fonda sulla superstizione più che sulla ragione, così che alcune
obiezioni cadranno quando entreremo e le toglieremo la creatura.
«Se è d'accordo nel consegnarcela subito» aggiunse «eviterà a se stessa e
al convento un bel po' di afflizioni.»
Per un lungo istante suor Augustine rimase zitta, poi disse: «Non pos-
so».
«Una risposta prevedibile» disse Matlock. Poi proseguì con decisione:
«Se l'unico modo per ottenere l'accesso alla creatura è screditare lei e il ti-
po di pensiero ristretto, antiquato e superstizioso che lei qui rappresenta,
allora io la screditerò. Ma le chiedo, sorella, di pensare più in generale. Il
primo extraterrestre giunto sulla terra si trova nel suo convento e la prima,
o forse la seconda cosa che lei ha fatto è stato cercare di convertirlo al suo
credo religioso! Come ha potuto agire in modo tanto meschino?»
«Un momento, giovanotto!» disse suor Augustine, con un tono che non
era più quello gentile di una suora. «Le ho già raccontato dell'incidente av-
venuto quando la creatura mi ha avvisata di stare attenta con le sue ferite,
ma ovviamente non l'ho raccontato con dettagli sufficienti. Spaventarmi
con la sua coda è stata la prima volta in cui ha fatto qualcosa di simile a u-
n'azione ostile. Quando la coda si è trovata a qualche centimetro dalla mia
faccia, ho fatto un balzo all'indietro e istintivamente mi sono fatta il segno
della croce perché credevo che stesse per uccidermi. Da quel momento, si
fa il segno della croce tutte le volte che qualcuno lo viene a trovare, ma si
tratta semplicemente di un gesto imitativo. Probabilmente crede di compie-
re un gesto di amicizia o di riconoscimento. L'idea che stiamo cercando di
convertirlo al nostro credo religioso è grottesca. Anche se volessi, non riu-
sciremmo a comunicare abbastanza bene da scambiarci concetti filosofici
o teologici. La prossima cosa che lei dirà sarà che l'ho battezzato irrorando
d'acqua le sue ferite.»
L'intensificarsi del colore sulla faccia di Matlock suggeriva che stava per
dire esattamente questo. Ribatté invece: «Quindi, sorella, lei può assicu-
rarmi che non c'è alcun significato religioso, alcun significato universale
profondo, alcuna rivelazione soprannaturale nel gesto della creatura? Ed è
in grado di rassicurare i telespettatori di tutto il mondo, persone di tutte le
fedi religiose, cristiani o no, terribilmente preoccupati sapendo che una
creatura extraterrestre si fa il segno della croce, che, invece, non hanno as-
solutamente nulla di cui preoccuparsi?»
«Sì» disse suor Augustine prontamente. «Sì, su tutte e due le questioni.»
Non appena un'espressione di tranquillo trionfo si dipinse sul viso di Mat-
lock, lei proseguì. «Ma detto ciò, devo confessare di essere seriamente
preoccupata da questa faccenda. Ho cominciato a chiedermi come mai di
tutti i luoghi della Terra in cui avrebbe potuto sbarcare, lo ha fatto in que-
sto convento? Non c'è alcun dubbio che lei dirà che doveva arrivare da
qualche parte, e che il luogo è dipeso dal caso, da una coincidenza, o dal
destino. Ma capirà che rispetto alla mia vocazione, devo prendere in con-
siderazione anche la Provvidenza.»
C'era una punta di sarcasmo nella voce di Matlock quando disse: «È e-
vasiva, sorella. Prima dice che non c'è nessun significato religioso nel ge-
sto della creatura e nella sua presenza, e poi suggerisce il contrario». Si gi-
rò verso suor Constance. «Forse lei può darmi una risposta diretta, sorella.
Riesce a ricordare, se le è permesso di ricordare, qualsiasi occasione in cui
suor Augustine abbia eseguito riti religiosi o ha pregato davanti a questa
creatura?»
«La mia memoria» disse suor Constance, mentre la rabbia abbassava di
un'ottava la sua voce già profonda «è molto buona, e non è soggetta a in-
fluenze esterne. L'unica occasione in cui qualcosa di simile a una preghiera
è stata pronunciata, si è verificata la prima sera, quando abbiamo spostato
la creatura sul divano. Ma mi è sembrato che suor Augustine più che pre-
gare stesse pensando a alta voce.»
«Che cosa disse esattamente?» domandò Matlock.
«Disse molto pacatamente» rispose suor Constance «"Buon Dio, la tua
creazione è molto più complessa e meravigliosa di quello che pensiamo".»
In quel momento la porta dello studio si aprì e una delle suore, con il vi-
so nascosto dall'ampia schiena del tecnico del suono che le stava occlu-
dendo il passaggio, cercò di entrare. Attraverso la porta aperta, giunse an-
che, senza alcun impedimento, l'ineffabile suono dolce e glorioso del Kyrie
Eleison in onore del Creatore del Mondo.
«La vostra musica sacra» disse Matlock ironicamente «arriva a proposi-
to. Anche se lei, sorella, mi aveva promesso che non avremmo subito in-
terruzioni.»
«Mi dispiace, Signor Matlock» disse «Ma deve rendersi conto che que-
sto è un convento e che i nostri esercizi religiosi, incluso il canto dei Ve-
spri, devono continuare indipendentemente dall'afflusso della troupe tele-
visiva» disse alzando leggermente il tono di voce. «Per favore vada, sorel-
la, parleremo più tardi.»
Il cristallino canto gregoriano s'interruppe quando la porta venne chiusa,
poi Matlock disse: «Credo che io e suor Augustine stiamo cominciando a
irritarci vicendevolmente. C'è qualcun altro che ha una domanda da fare?»
Il dottor Watterson si schiarì la gola e disse: «Il mio interesse nella que-
stione è più psicologico che religioso, sorella. Mi sembra che lei abbia fat-
to amicizia con la creatura, e che ora si senta protettiva nei suoi confronti,
anche se all'inizio l'ha spaventata molto. Sto considerando l'eventualità che
sia stata esercitata un'influenza telepatica di qualche genere»
«Inoltre» continuò «poco fa lei ci ha detto, e spero di citare con accura-
tezza le sue parole, che spaventarla con la coda è stata la prima volta in cui
la creatura ha fatto qualcosa di simile a un gesto di ostilità. Ci sono state
altre azioni di ostilità? E se è così, può descrivere le circostanze e i senti-
menti del momento, nel modo più esatto possibile?»
«Non sono stata soggetta ad alcun tipo di influenza psicologica, dottore»
rispose suor Augustine. «Date le circostanze, le mie sensazioni sono state
le stesse che avrei provato nei confronti di qualsiasi persona ferita e biso-
gnosa di cure. Se fosse stata in grado di comunicare telepaticamente, inol-
tre, avremmo dovuto faticare tanto per farci capire da lei?»
Il dottor Watterson annuì pensosamente e aspettò che lei continuasse. La
madre superiora esitò, sentendosi avvampare il viso dall'imbarazzo che sa-
peva già prossimo.
«Dottore» disse Matlock con impazienza «credo che lei abbia toccato un
punto delicato.»
Ignorando il conduttore, suor Augustine fece un respiro profondo e pro-
seguì «Il secondo e solo altro gesto ostile si è verificato quando la creatura
mi ha afferrato il polso con forza, mentre cercavo di prendere un oggetto
sua proprietà. Era una scatola che...»
«Sorella!» esplose il capitano McCloskey con tono accusatorio. «Lei mi
aveva dato a intendere che la creatura non aveva abiti né equipaggiamenti.
Non mi aveva detto niente di nessuna scatola. Potrebbe contenere o essere
un'arma di inimmaginabili...»
Lei sollevò una mano e disse: «Non sapevo nulla della scatola al mo-
mento della sua prima visita, e ho deciso di non parlarne a causa del tipo di
reazione che il capitano McCloskey sta mostrando adesso».
Mantenendo la propria attenzione concentrata sullo psicologo, continuò:
«Una mattina scoprimmo che la creatura la teneva con sé, e che grattava e
premeva su di essa con le dita, cercando palesemente di aprirla. Gli por-
tammo la nostra scatola degli attrezzi, quella che usiamo per le riparazioni
dell'impianto elettrico, ma non servì. Dopo aver cercato di aprirla per quasi
un'ora e mezzo, la creatura scagliò la cassetta in un angolo. Se lei fosse sta-
to presente, dottore, credo che sarebbe stato d'accordo con me che per es-
sere un extraterrestre, la creatura mostrava reazioni molto umane nei con-
fronti di uno stupido oggetto che non funzionava. Quando raccolsi la sca-
tola per vedere se riuscivo a aprirla, la creatura mi afferrò il polso con for-
za. Non appena la lasciai andare, la spinse sotto il divano e sollevò la coda
in posizione di allerta per un attimo. Evidentemente non voleva separarsi
dall'oggetto.
«Anche la scatola era molto ammaccata» proseguì «probabilmente a
causa del contatto con le rocce quando la creatura è approdata qui. Era di
circa quaranta centimetri e profonda quindici. Uno dei lati più grandi era
coperto da una piccola imbottitura e si incavava per accogliere l'incurvatu-
ra superiore del petto e del collo della creatura. Sul lato opposto c'era un
cerchio del diametro di quindici centimetri che rientrava di circa mezzo
centimetro. C'erano quattro maniglie per prenderla, ma non riuscivo a capi-
re come funzionasse la chiusura. Pesava molto poco, non più di un chilo, e
pensai si trattasse di un qualche tipo di cintura di salvataggio o di un con-
tenitore di razioni di emergenza, di sicuro non di un'arma.»
«E lei, naturalmente, è un'autorità per quel che riguarda le armi extrater-
restri» disse Matlock acidamente.
«La prego, vada avanti, sorella» disse il dottor Watterson ignorandolo.
«Non posso dire molto di più sulle mie sensazioni» disse suor Augusti-
ne. «Con tanti uomini armati di guardia, che non sanno nemmeno cosa
stanno cercando, ho temuto che la creatura potesse essere uccisa prima an-
cora che fossero chieste spiegazioni, e decisi di tenere segreta la sua pre-
senza, per il momento. Telefonai alla Madre Provinciale per dirle che cosa
stavo facendo, e mandai da lei una suora con una fotografia della creatura,
come prova che non ero in preda a un attacco di pazzia.
«Una settimana dopo arrivò il capitano McCloskey» continuò «e l'incon-
tro avvenne come lui l'ha raccontato. Le notizie relative alla presenza della
creatura qui erano trapelate, forse perché le mie chiamate telefoniche alla
Madre Provinciale erano state intercettate. Poco dopo fummo assalite dai
media, che si comportarono in modo molto meno gentile dell'esercito, e mi
fu chiesto dalla Madre Provinciale di provvedere alle attrezzature necessa-
rie per questo programma. Era una richiesta che non potevo logicamente
rifiutare, anche se sia io che la Madre Provinciale sapevamo che il signor
Matlock, con il sostegno di qualcuno come il dottor Watterson, l'avrebbe
usato per screditarmi o per mostrare che ero mentalmente incapace...»
«Lei» disse lo psicologo sommessamente «non è mentalmente incapa-
ce.»
«...Ma adesso» continuò lei «le cose si sono messe così male che le mie
consorelle, che non sono né giovani né forti, hanno paura di recarsi in città
per le loro visite quotidiane ai malati. È stata data loro la caccia come ai
reali in viaggio di nozze, e neppure gli anziani a cui fanno visita riescono a
salvarsi dalle molestie.
«Io mi appello al diritto d'asilo per la creatura» aggiunse con fermezza.
«La responsabilità è soltanto mia, e non è giusto che debbano essere altri
a soffrirne.»
«Mi permetta di ripeterle, sorella» disse Matlock ad alta voce, come se
fosse ansioso di ricordare a tutti che era ancora lì «che c'è un modo molto
semplice per liberare dalla trappola i suoi amici e lei stessa.»
«Dubito che sia necessario che glielo ricordiate, signor Matlock» disse
lo psicologo. Poi rivolgendosi a suor Augustine, proseguì: «ha pensato, so-
rella, che il suo piano per proteggere la creatura potrebbe già avere avuto
successo? Lei ha senza alcun dubbio ottenuto più attenzione del minimo
necessario a garantire che non venga uccisa accidentalmente, o scambiata
per un animale fuggito dallo zoo. Il punto che voglio sottolineare è che lei
ha la certezza che non le verrà arrecato alcun danno fisico».
Visto che suor Augustine non rispondeva, lui continuò a parlare: «Que-
sta creatura appartiene a un altro mondo il cui livello tecnologico è molto
lontano dal nostro, e la cui cultura e le cui intenzioni nei nostri confronti
sono del tutto sconosciute. L'unico modo di scoprirlo è attraverso l'osser-
vazione a lungo termine e un'indagine in profondità. Ma per farlo, dob-
biamo prima esaminarla, studiarne il metabolismo in dettaglio, in modo da
fornirle l'alimentazione adatta e la giusta sistemazione, per poi stabilire,
senza dubbio con l'aiuto di un computer, una corretta comunicazione reci-
proca».
Fece un cenno in direzione del capitano McCloskey e proseguì: «Sono
sicuro che i militari ci seguiranno a ogni stadio. Vorranno sapere se la sua
creatura era impegnata in operazioni esplorative che sono andate male, o
se è stata in grado di fare rapporto prima di precipitare. Qual è la forza e il
grado di ostilità della sua gente, o se esiste un intento aggressivo, cosa di
cui sono incline a dubitare. Ma col tempo avremo questo tipo di informa-
zioni, perché abbiamo gli specialisti e le attrezzature per ottenerle. Non c'è
più alcuna ragione perché rimanga qui, sorella, quindi perché non si rilassa
e non lascia che subentrino i professionisti?»
Suor Augustine si guardava le mani, domandandosi perché stesse conti-
nuando a discutere, visto che non c'era più alcuna ragione di farlo. Disse:
«Dubito che la creatura troverebbe il regime che lei ha abbozzato più gra-
devole della sua attuale sistemazione. Come ho già spiegato al capitano, il
mio punto di vista personale è che la creatura è uno straniero, un viaggiato-
re rimasto ferito, spaventato e solo, e che potrebbe essere angosciato per la
famiglia o gli amici che non sono sopravvissuti allo schianto, e i cui senti-
menti e le cui intenzioni ci sono sconosciute. Io capisco il suo punto di vi-
sta, dottore, e negli ultimi giorni sono stata tentata di fare esattamente co-
me lei ha suggerito».
«Ma come posso essere certa» continuò prima che Matlock potesse in-
terromperla «di fare la cosa giusta? Mi sembra che se la creatura fosse sta-
ta diretta da qualcuno in questo luogo specifico, questo di sicuro non è av-
venuto perché fosse messa nelle mani delle persone che prima le avevano
dato la caccia, e adesso intendono torturarla per motivi di carattere scienti-
fico. Io non stavo imprigionando la creatura, perché non c'è nulla di valore
nelle cantine e non vengono mai chiuse a chiave. Stavo solo cercando di
proteggerla fino a quando non avesse imparato abbastanza su di noi da po-
ter decidere da sola cosa fare.»
«Ma non imparerà mai abbastanza» disse gentilmente lo psicologo «con
qualche segno, con i vostri disegni a matita e i programmi televisivi.»
«Ha avuto molto più di questo per andare avanti» disse suor Augustine.
«La notte scorsa suor Constance e io l'abbiamo portata a fare una cammi-
nata sui bastioni, per mostrarle le forze che sono state schierate intorno a
noi...»
«Mi scusi, sorella» la interruppe il capitano McCloskey. «C'è stato riferi-
to di due suore che si comportavano in modo sospetto la notte scorsa, a
giudicare dalle apparenze, utilizzando le mura e i bastioni per nascondersi
dai riflettori aerotrasportati. Ma sono state viste dal sensore a infrarossi, e
non erano accompagnate.»
Suor Augustine guardò suor Constance, che si schiarì la gola e disse:
«Abbiamo corso un rischio calcolato, capitano. Supponevo che stavate u-
sando rivelatori a infrarossi, visto che le vostre luci aerotrasportate illumi-
navano la zona tutt'intorno al convento ma di rado l'interno. Ho pensato
anche che, probabilmente, l'attrezzatura a infrarossi installata sull'elicottero
poteva non essere stata ancora del tutto riparata dall'interferenza dovuta al
calore del motore, e che quindi ci sarebbe stata una conseguente perdita di
definizione dell'immagine. La creatura ha una temperatura corporea molto
bassa, altrettanto bassa, forse, del terreno circostante. Stando così le cose,
ho pensato che probabilmente il nostro grado di calore, che in rapporto è
molto più forte, avrebbe nascosto il fatto che la creatura camminava tra di
noi. Se la mia supposizione fosse stata sbagliata, sono certa che ci sarebbe
stata una reazione immediata da parte dei suoi uomini, capitano».
«È vero» disse il capitano, che sembrava volesse nascondersi.
«Qual è stata la reazione della creatura» domandò lo psicologo «di fron-
te a tutto questo schieramento di forze militari?»
«Non ho avuto alcun modo di saperlo» rispose suor Augustine. «Quando
siamo tornate nella cella, ho cercato di spiegare la situazione graficamente
e a gesti, per far capire alla creatura che potevo anche non essere in grado
di tenerla separata per molto tempo ancora dalle persone che c'erano fuori.
Ma non so che cosa stesse pensando, emetteva suoni gorgoglianti, e di si-
curo io non ero in grado di comprendere le sue espressioni.»
«Ma, sorella» disse lo psicologo eccitato «ciò significa che lei sapeva
che alla fine avrebbe dovuto consegnare la creatura, lo sapeva fin dall'ini-
zio! Capisco solo adesso che invocare il diritto d'asilo è stato un colpo da
maestro, e lei merita tutta la nostra gratitudine per questo, perché ci ha
bloccati tutti e ci ha costretti a riflettere quando, con grande facilità, a-
vremmo potuto compiere il peggiore errore della storia. Posso presupporre
che adesso lei è pronta a consegnarla?»
«Non posso» disse lei.
Lo psicologo fece un pesante sospiro di irritazione. Matlock, in un impe-
to d'esasperazione, diede un colpo sul tavolo e disse con freddezza: «In-
tende dire che non vuole».
Suor Augustine respirò profondamente e pensò: Eccoci. «Non posso»
disse «perché non so dove si trovi. Proprio prima che iniziasse il pro-
gramma mi è stato detto che ha lasciato il convento. Non è qui.»
«Devo immediatamente riferire...!» cominciò il capitano, balzando in
piedi. Poi si sedette di nuovo più lentamente e aggiunse: «Questo pro-
gramma è in diretta, quindi i miei uomini lo sanno già. Ma come è riuscita
ad andarsene, alla luce del sole, senza essere individuata?»
Il monitor stava mostrando il viso di suor Augustine in primo piano, pic-
colo, segnato, rugoso; il profondo imbarazzo le aveva fatto diventare la
pelle, solitamente gialla e incartapecorita, splendente e apparentemente in
buona salute. Guardandosi le mani di nuovo, riprese: «Un altro motivo per
cui non ho voluto molte luci nella cella è stato perché, vicino ai rottami, c'è
un passaggio che conduce direttamente al mare. Attraverso una piccola
grotta che viene sommersa dall'alta marea, e una spiaggetta in cui le sorelle
facevano il bagno, prima che una roccia franata non bloccasse l'apertura
della grotta danneggiando la spiaggia. Credo che, a giudicare dalle sue fe-
rite, il nostro visitatore sia arrivato da questa strada e se ne sia andato se-
guendo lo stesso percorso.»
«Ma perché non ce l'ha detto prima, dannazione?» disse il capitano, met-
tendo da parte per un attimo le sue maniere impeccabili. «Voleva che a-
vesse più tempo per scappare, è questa la ragione?»
«Adesso la ragione non ha più importanza» disse amaramente il dottor
Watterson. «Questo ultimo indugio è stato assolutamente inutile e inaccet-
tabile, sorella. A causa di questo lei ci ha privati dell'unica possibilità che
avevamo di esaminale, studiare e comunicare con un membro di una razza
extraterrestre intelligente.»
«Forse no, dottore» disse il capitano. «Non ha speranze di nascondersi
sulla terraferma, e se resta in mare abbiamo sonde sottomarine e attrezza-
tura da salvataggio che non sono state ancora messe in funzione, perché
pensavamo di sapere dove si trovasse la creatura.» Indirizzò un altro sorri-
so furioso a suor Augustine. «Spero soltanto che non si faccia prendere dal
panico e rimanga uccisa nel tentativo di evitare il salvataggio. Ma perché
se ne è andata? Dove può essere andata?»
«Da nessuna parte» disse lo psicologo tristemente. «Forse suor Augusti-
ne è capace di comunicare meglio di quanto pensiamo, e ha fatto in modo
che si rendesse conto di che cosa avrebbe implicato un salvataggio da parte
nostra. Imprigionata da esseri assolutamente alieni, che studiano senza tre-
gua il suo corpo e la sua mente procurandole dolore, dal momento che non
si può correre il rischio di utilizzare su di lei anestetici terrestri, in un pro-
cesso che sarebbe durato per il resto della sua vita. Se fossi stato al suo po-
sto, avrei seriamente riflettuto sul fatto di lasciarmi salvare.»
Per un lungo istante sembrò che nessuno avesse voglia di parlare, fino a
che Matlock non puntò un dito accusatore sulla madre superiora, e disse:
«Mi sembra che il suo tentativo incauto di dare asilo a questa creatura, e
tenerci lontani da essa, potrebbe averla condotta al suicidio. Ora, sorella,
non solo gli insegnamenti del suo ordine religioso riguardo al suicidio la
mettono in una posizione scomoda, ma mi meraviglia che lei abbia potuto
giustificare il suo... sorella, un'altra interruzione! Nessuna delle sue conso-
relle fa ciò che le è stato detto?»
La porta dello studio si era aperta un'altra volta e lei riuscì a vedere suor
Agatha, la più vecchia delle sue consorelle, che le faceva dei segni insi-
stenti da sotto il braccio disteso del tecnico del suono. «In questo momen-
to, signor Matlock l'interruzione arriva a proposito. Mi scusi, sarò di ritor-
no immediatamente.»
Quando ritornò alla sua poltrona alcuni minuti dopo, le tenevano tutti gli
occhi addosso; Matlock, arrabbiato e incredulo; suor Constance e, incredi-
bilmente, il capitano con aria di commiserazione; il dottor Watterson con
lo sguardo clinico che si rivolge ai pazienti il cui comportamento è causa
di preoccupazione, perché suor Augustine stava sorridendo e non riuscì a
non scoppiare a ridere quando si mise seduta.
«Per favore, sorella» disse Matlock infuriato «non vuole dividere con
noi il suo divertimento?»
«Con piacere» disse suor Augustine. «Sembra che siamo stati tutti un po'
affrettati riguardo la partenza del nostro visitatore e il suo equilibrio emo-
tivo. Suor Agatha mi ha detto che è tornato un'ora e mezza fa. Stava guar-
dando questo programma nella televisione della cantina, e adesso sta a-
spettando nel corridoio.
«Con il vostro permesso, signor Matlock» aggiunse «la creatura vorreb-
be unirsi a noi.»
Tutte le telecamere puntarono sulla creatura quando entrò ondeggiando
dalla porta e si diresse senza alcuna esitazione tra le due suore, che sposta-
rono le loro sedie per farle spazio. Con i quattro piedi piantati saldamente
sul pavimento e i graffi ancora freschi che si vedevano sulla parte superio-
re del dorso ferito, poggiò le braccia sulla scrivania. Poi girò la testa smus-
sata e guardò Matlock con due dei suoi tre occhi. Aprì la bocca tanto da
mostrare i denti sconcertanti, grandi e colorati, e dalla bocca e dalle bran-
chie uscì un suono basso e gorgogliante.
Ma dalla scatola ammaccata, attaccata al petto, venne fuori una voce
perfettamente modulata e priva d'inflessione.
«Queste condizioni ambientali sono sgradevolmente calde per me» disse
«e devo ritornare nella cantina il più presto possibile; per favore non ritar-
diamo questa spiegazione relativa alla mia presenza qui con inutili interru-
zioni. Non vi dirò il mio nome perché il vostro apparato vocale avrebbe
difficoltà con esso. Io sono un topografo, un cartografo, un individuo soli-
tario per natura che manca sia della preparazione specialistica che dell'in-
clinazione naturale per prendere contatto con altre specie. Vi dico questo
per giustificare la brutalità dei miei modi.
«Scoprire pianeti abitabili non è un'esperienza nuova per me» proseguì
«ma trovarne uno con una vita indigena intelligente è una vera rarità. È per
questo che non ho tenuto conto del regolamento e mi sono avvicinato per
guardare più da vicino; in quel momento la mia nave ha avuto un guasto
che non poteva essere corretto in volo all'interno dell'atmosfera. Sono pre-
cipitato in mare, la nave è andata in pezzi ed è affondata. I dispositivi pro-
tettivi hanno limitato i danni alla mia persona e ho nuotato in direzione
delle luci di questo edificio. Ma prima che potessi penetrarvi il mio corpo è
rimasto danneggiato dal contatto con le rocce, esattamente come la mia at-
trezzatura di traduzione e il segnalatore di richiesta di soccorso, che mi
servivano per spiegare la mia presenza ai nativi in caso di situazioni come
questa, e per chiedere aiuto.
«Comunque, nonostante la perdita del traduttore» proseguì «anche se a
un livello molto semplice la comunicazione venne stabilita. Mi è stato dato
del cibo e mi sono state curate le ferite dalle entità Augustine e Constance,
che mi hanno procurato anche attrezzi tipici del luogo per aiutarmi a ripa-
rare il traduttore danneggiato, ma senza risultati. Solo la notte scorsa mi
sono reso conto che le due entità erano spaventate da un gran numero di
persone che ignoravano la situazione reale. Fu allora che decisi di andare a
nuoto dove si trovavano i rottami della mia nave e gli attrezzi per riparare
l'apparecchiatura, in modo che le persone che si trovavano fuori dal con-
vento potessero essere rassicurate e potesse essere abbassato il loro grado
di ignoranza. Per fortuna, l'apparecchiatura è stata riparata con il risultato
che ora state ascoltando.
«Adesso ritornerò in cantina» disse, cominciando ad alzarsi dalla scriva-
nia «ad aspettare il recupero della nave e l'indagine che ne seguirà...»
«Aspetti, per favore» disse il capitano McCloskey interrompendolo, sen-
za fare alcun tentativo di nascondere la sua impazienza. «Questa sua na-
ve... è totalmente distrutta? La sua gente proverà a salvarla o...»
«Sì, per favore, non se ne vada» disse il dottor Watterson con insistenza.
«Ho un milione di domande da farle. Quanto tempo passerà prima che lei
venga portato in salvo? Chi o che cosa verrà a prenderla? Possiamo fare
qualcosa per rendere la sua permanenza più confortevole? È disposto a sot-
toporsi almeno a un semplice esame psicologico...»
«È nei guai?» domandò suor Augustine tranquillamente. «Voglio dire,
sarà punito per la perdita della nave? Sarà una punizione severa?»
«Questa situazione» disse Matlock con freddezza «sta diventando un po'
troppo amichevole e confidenziale. Anch'io ho alcune domande da porre.
O meglio, i miei telespettatori in tutto il mondo avranno domande che io
devo porre al posto loro, e sento un pressante desiderio di essere rassicura-
to: non sono per nulla soddisfatto della spiegazione che ha dato sul perché
è venuto qui senza preavviso, senza invito e, se non fosse stato per l'inci-
dente accaduto alla sua nave, senza essere individuato. Non posso impedi-
re di domandarmi se il suo racconto non sia in realtà semplicemente una
storiella inventata per nascondere una missione di ricognizione clandesti-
na, organizzata da esseri le cui intenzioni nei nostri confronti sono ostili.
Devo ammettere che i dettagli che avvalorano la sua versione sono buoni,
soprattutto quando cerca di suscitare la nostra pietà raccontando di essere
nei guai con i suoi superiori. Un tocco da maestro. Un tocco, come noi di-
ciamo qui, da vero professionista. Ma qual è la verità?»
Senza dargli il tempo di rispondere, Matlock proseguì: «C'è qualche al-
tra nave, o magari un'intera flotta nelle vicinanze, che forse si sta nascon-
dendo o si trova sulla luna o dietro di essa? Stanno aspettando un suo se-
gnale per venire a salvarla e distruggere noi? Avanti, qual è la vera ragione
che l'ha portata qui? Abbiamo risorse che nel vostro pianeta sono carenti?
Avete problemi di sovrappopolazione? O si tratta semplicemente del desi-
derio sanguinario di espansione territoriale?»
L'extraterrestre fissava la scrivania in silenzio. La faccia del dottor Wat-
terson era paonazza dalla rabbia e dall'imbarazzo, e il capitano sembrava
imbarazzato e preoccupato al tempo stesso. Improvvisamente l'extraterre-
stre alzò gli occhi e disse: «Non sono stato addestrato, e non so come ri-
spondere a domande come queste».
«Così lei sarebbe semplicemente un giovane soldato» disse Matlock sar-
casticamente. «Ma io ho intenzione di ottenere delle risposte. A meno che,
naturalmente, lei non pensi che dovremmo avere paura di toccarla, per ti-
more di una vendetta da parte dei suoi amici. Me lo dica. Questa potrebbe
anche essere una questione ipotetica, ma che cosa farebbe la sua gente se
noi le facessimo del male, o la tenessimo come ostaggio per garantirci che
loro si comportino bene in futuro?»
«Per l'amor di Dio!» lo interruppe lo psicologo infuriato. «La smetta,
Matlock. Cerchi di pensare a ciò che dice, e all'impressione che questo
straniero può farsi della razza umana. Queste sono domande che si pone
solo lei, con sospetti da paranoico, e credo che lei stia parlando a nome di
una piccolissima parte dei suoi telespettatori. Lei ha di fronte un extrater-
restre, un visitatore che arriva dalle stelle, maledizione, non uno dei suoi
politici imbroglioni, e non sta neppure parlando con le suore indifese che,
con mia immensa vergogna, sono venuto qui ad aiutarla a screditare. È lei
che ha processi mentali sospetti.»
«Ha detto suore indifese?» disse Matlock ironicamente. Sorrideva e ave-
va l'aspetto di chi pensa che le cose alla fine vadano nella direzione da lui
voluta, con la vittima sotto i riflettori e un esperto come testimone che at-
tacca violentemente il conduttore. Poi, aggiunse con tranquillità: «Stiamo
ancora aspettando una risposta».
La creatura girò lentamente la sua faccia aliena verso suor Augustine e
disse: «Risponderò alla sua domanda per prima, visto che lei si è preoccu-
pata e si preoccupa ancora del mio benessere personale. Sì, avrò dei pro-
blemi e sarò punito per aver perso la mia nave, e sarò costretto a sentire
molte critiche. Perderò anche un piccolo grado di servizio ma otterrò molto
prestigio personale perché, dopo tutto, ho scoperto la prima cultura intelli-
gente da tre generazioni a questa parte. Quindi, cara amica, non si preoc-
cupi per me».
Poi, rivolgendosi al capitano, proseguì: «Il costo per riportare sul mio
pianeta i rottami sarebbe proibitivo, quindi la nave sarà lasciata così com'è,
esattamente dove si trova. La filosofia strutturale della nave è di tipo mo-
dulare e molti sistemi saranno intatti. Sono a vostra disposizione e potete
esaminarli, con l'unica eccezione dell'unità di alimentazione che per le no-
stre regole deve essere fusa per evitare la catastrofe che risulterebbe da un
intervento non specialistico su di essa. Sono certo che troverete interessan-
ti i rimanenti resti».
Il capitano tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia con un ampio
sorriso, e la creatura si rivolse verso Matlock.
«È normale che un essere dotato di intelligenza affronti una situazione
nuova con cautela» disse «e che cerchi di essere rassicurato. Ma non sono
in grado di tranquillizzarla rispetto a minacce che sono state prodotte da
una mente intelligente diversa, anche se credo che l'entità Watterson sia
qualificata per farlo. L'idea di una minaccia proveniente da forze militari di
un'altra specie, è difficile da afferrare per me, però posso assicurarle che ci
sono mondi abitabili in numero maggiore del necessario senza una vita in-
digena intelligente per chiunque voglia impadronirsi delle proprietà di u-
n'altra specie, e che non c'è una nave madre o una flotta nascosta dalla lu-
na. Se io venissi attaccato deliberatamente da lei, non verrebbe intrapresa
alcuna rappresaglia, finché fosse possibile verificare che ci siano altre per-
sone tra la popolazione che non avrebbero desiderato farmi del male. In
ogni modo, il suo mondo non verrebbe visitato una seconda volta.
«La storia galattica ha dimostrato» aggiunse «che una cultura animata da
un tale diffidenza nei confronti degli stranieri ritorna inevitabilmente alla
barbarie o si distrugge da sola.
«Per quanto riguarda il tempo necessario all'arrivo di una nave di salva-
taggio» continuò, rivolgendosi al dottor Watterson «credo che non superi
dodici dei vostri giorni. La nave sarà un po' più grande della mia, con un
equipaggio di due entità, di cui una sarà uno specialista in guarigioni nel
caso in cui io risulti danneggiato. In cinquanta dei vostri giorni sarà seguita
da una nave ancora più grande che conterrà uno specialista in contatti e le
sue attrezzature, tra cui apparecchiature di comunicazione, aeromobili, sin-
tetizzatori di cibo e generi di conforto necessari a una lunga permanenza.
La seconda nave non atterrerà senza che la gente di questo istituto la inviti
prima a unirsi a loro.
«Ringrazio per l'offerta» continuò «ma c'è poco che possiate fare per me
che non sia già stato fatto qui. Siccome sono prudente, se non vigliacco, lei
capirà perché non mi sottoporrò ad alcun tipo di esame psicologico.»
Lo psicologo si mise a ridere. «Credo che sarebbe la stessa cosa per uno
di noi sottoporsi alle indagini mediche di uno stregone.»
«Escluse le due eccezioni che mi stanno accanto» disse l'extraterrestre
«è un paragone adeguato.»
«Certamente, signore» protestò Matlock, rendendosi conto che era in as-
soluta minoranza, e cambiando quindi radicalmente posizione. «Lei e lo
specialista in contatti siete le persone più importanti in visita nel nostro
pianeta. Saremmo felici di provvedere a qualsiasi tipo di attrezzatura possa
essere richiesta, per dimostrare sia la nostra buona volontà sia il nostro li-
vello tecnologico che, naturalmente, non è elevato come il vostro. Eppure
sembra che lei preferisse rimanere in questo antiquato e disagevole luogo,
tra persone ancorate a superstizioni ancor più antiche e rigide delle pietre
del loro edificio. Guardiamo in faccia la realtà, non fanno certo una buona
pubblicità alle conquiste filosofiche e scientifiche terrestri.»
Forse il caldo stava mettendo di cattivo umore l'extraterrestre, perché
disse ad alta voce: «Non si trattava di una preferenza ma di una regola, una
regola molto sensata, adottata da tutti gli specialisti in contatti. Non sono
qualificato per giudicare il valore delle vostre conquiste filosofiche e
scientifiche. Posso giudicare solo sulla base della mia esperienza diretta la
superstizione che governa il modo di pensare e i comportamenti delle enti-
tà che vivono in questa struttura, il cui atteggiamento e le cui capacità di
adattarsi a una situazione unica, reggono il confronto in modo molto favo-
revole con ciò che ci si aspetta dai Cittadini della Galassia nella loro espe-
rienza con altre specie.
«La regola stabilisce» continuò velocemente «che alle entità che danno
il benvenuto e dimostrano in generale un livello di comportamento civile
nei confronti del primo visitatore proveniente da un altro pianeta sia ri-
chiesto, se non esistono delle leggi locali che lo proibiscano, di estendere
la stessa ospitalità ai visitatori successivi dell'altra specie, che ovviamente
preferiranno essere certi di essere i benvenuti, piuttosto che affidarsi a e-
stranei, anche se bene intenzionati.
«Questi visitatori» continuò voltando nuovamente il capo verso suor
Augustine «arriverebbero uno per volta e trascorrerebbero la maggior parte
del loro tempo viaggiando sul vostro pianeta. Utilizzerebbero la vostra di-
mora solo come base, come luogo in cui recuperare le forze, e non vi da-
rebbero eccessivi problemi. Potrei fornirvi molti altri dettagli rassicuranti,
amici di un altro mondo, ma sono molto a disagio in questa stanza e devo
andarmene senza indugio. C'è qualcuna delle vostre regole che vi proibisce
di ricevere questo tipo di visitatori?»
Tutti quelli che si trovavano nella stanza, guardarono improvvisamente
suor Augustine, e il suo viso riempì lo schermo del monitor per l'ennesima
volta. Lei fissò per un attimo i denti colorati dell'alieno, e poi il suo occhio
più vicino. Suor Constance si stava sporgendo in avanti sulla poltrona, con
un'espressione dalla quale traspariva chiaramente che diventare direttrice
di un istituto universitario non era più il sogno della sua vita.
«Non credo che ci siano problemi insormontabili» disse pacatamente
«né con la Madre Generale né con nessun altro. Dopo tutto, questo con-
vento è stato designato come Casa di Riposo, un luogo di studio e di recu-
pero fisico e spirituale. Riceviamo spesso visitatori che appartengono ad
altre sette religiose, e quindi potrebbe certamente accogliere anche voi...»
Improvvisamente tutti scoppiarono a ridere, compresi i tecnici e lo stes-
so Matlock. Quando smisero, l'extraterrestre aveva già lasciato la stanza
per ritornare alle comodità della sua cantina.

Titolo originale: Sanctuary


Analog Science Fiction and Fact,
December 1988

FINE

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