Professional Documents
Culture Documents
INDICE
EDITORIALE
Per la pubblicazione che avete tra le mani non esiste alcun precedente.
Si tratta di un debutto in piena regola. Eppure la maggior parte dei nomi
che leggete (e di quelli che, se ci assistete, leggerete in futuro) sono tra i
più noti della fantascienza internazionale. La ragione è molto semplice:
Analog è l'incarnazione più recente di una rivista che al suo apparire nel
gennaio 1930 si chiamava Astounding. E se questo nome non vi dice nien-
te, sarà necessario rifarvi da capo la storia della fantascienza.
Astounding nacque quando l'editore di pulp magazine (le riviste di rac-
conti popolari su carta a basso prezzo che ebbero grande successo in A-
merica soprattutto negli anni Venti e Trenta) William Clayton chiese a uno
dei suoi responsabili di collana, Harry Bates, di inventargli una nuova ri-
vista per riempire uno spazio vuoto che aveva nel formato di stampa delle
copertine mensili dei suoi pulp. Bates propose un titolo: Astounding Sto-
ries of Super-Science. Erano gli anni del grande successo di Amazing Sto-
ries di Hugo Gernsback e di tante altre pubblicazioni simili che ponevano
l'accento sulla narrazione scientifica. Invece Astounding utilizzava il ri-
chiamo alla scienza solo per dare un contegno ad autentici melodrammoni
spaziali. Le copertine di Wesco mostravano regolarmente uomini e donne
minacciati da giganteschi insetti extraterrestri o indifferentemente da mo-
stri dello spazio profondo.
Nel 1933 la rivista seguì le sorti della casa editrice, che chiuse i batten-
ti. Malgrado la scarsa qualità del materiale ospitato, in quel breve perio-
do Astounding aveva già portato alla ribalta due grandi maestri dell'Età
dell'Oro della fantascienza: Murray Leinster e Jack Williamson. La Street
& Smith comperò la testata che riapparve, dopo solo sei mesi dalla chiu-
sura, nell'ottobre del 1933. A dirigerla c'era F. Orlin Tremaine che la por-
tò al successo. Oltre ai già citati Williamson e Leinster, pubblicarono sulle
sue pagine Catherine Moore, E.E. "Doc" Smith, John W. Campbell, H.P.
Lovecraft, Sprague De Camp, Eric Frank Russell... Nel 1937, quando
Tremaine diventò direttore editoriale della Street & Smith propose John
Campbell come suo successore. Con Campbell esordirono su Astounding;
Lester Del Rey, Ron Hubbard, ritornò Clifford D. Simak ma fu nel 1939
che si può dire che Campbell inaugurò l'Età dell'Oro della fantascienza
pubblicando Asimov, Heinlein, Sturgeon, Van Vogt...
Nel 1940 vi apparvero le storie dei robot di Asimov, i cicli più famosi di
Van Vogt e quello di Lensman di E.E. Smith, facendola divenire in breve la
rivista di punta della fantascienza. In due decenni esordirono sulle sue pa-
gine schiere di grandi scrittori: Poul Anderson, Robert Silverberg, Gordon
R. Dickson, James Blish... solo per citarne alcuni.
Nel 1960 Campbell annunciò il cambiamento di nome: Astounding di-
ventava Analog, facendo leva sull'analogia tra fantascienza e fatto scienti-
fico che costituiva il nucleo di partenza da cui si sviluppavano i racconti
presentati. Nel 1965 iniziò ad apparirvi la saga di Dune di Frank Herbert.
I nuovi scrittori del periodo furono Harry Harrison, Christopher Anvil e
Mack Reynolds. Nel luglio del 1971 morì John Campbell e a succedergli
fu Ben Bova. Di quanto successe durante la direzione di Bova trovate una
breve notizia nella nota che lo riguarda. Roger Zelazny, George R.R. Mar-
tin, Joe Haldeman furono le scoperte del periodo. Dopo le dimissioni di
Bova, sul finire del 1978, gli subentrò Stanley Schmidt, che è ancora al
suo posto.
Un elenco dei premi vinti come testata o dai testi ospitati da Ana-
log/Astounding sarebbe interminabile, visto che ogni anno se ne aggiunge
qualcuno, ma di sicuro, insieme alla Asimov, rimane l'unica rivista di fan-
tascienza americana che mantenga con continuità le premesse create dalla
sua storia gloriosa. I tempi sono cambiati, ma le caratteristiche che ne
hanno fatto un successo in passato rimangono, aggiornate ai tempi, intatte
anche oggi.
Dopo un primo momento di verifica con una periodicità trimestrale, ci
piacerebbe intensificarne le pubblicazioni, perché c'è molto materiale ine-
dito valido che meriterebbe di essere tradotto. Tutto dipenderà dalla ri-
sposta di voi lettori.
Daniele Brolli
NOTE
Ben Bova, nato nel 1932, ereditò la direzione di Analog nel 1971, dopo
la morte di John W. Campbell. Sebbene continuasse ad avere un certo suc-
cesso commerciale, si trattava a quel tempo di una rivista moribonda dal
punto di vista delle idee. Bova ne mantenne l'orientamento tecnofilo ma
abbandonò il puritanesimo che era stato di Campbell, dando alle storie un
carattere più adulto. Il successo non tardò ad arrivare, tanto che Bova vinse
il premio Hugo come curatore ininterrottamente dal 1973 al 1977, rivin-
cendolo anche nel 1979 per il lavoro svolto su Analog l'anno precedente.
Dal 1979 al 1982 è stato editor di Omni.
Bova ha un'attività intensa anche come scrittore e le sue opere rispec-
chiano coerentemente il suo interesse per la divulgazione e le ipotesi scien-
tifiche.
IL METEOROLOGO
di Lois McMaster Bujold
La disciplina militare può essere rigida,
quasi quanto il clima di Campo Permafrost
Il maggiore Cecil aveva un fianco appoggiato alla scrivania del suo im-
piegato, per verificare qualcosa sul video, quando Miles entrò nel suo uffi-
cio e salutò.
Diede un'occhiata a Miles e poi al suo cronometro. «Ah, meno di dieci
minuti. Ho vinto la scommessa». Poi ricambiò il saluto mentre l'impiegato,
con un sorriso acido, prendeva una piccola mazzetta di denaro dal portafo-
glio, ne toglieva una banconota e la passava senza parlare al suo superiore.
La faccia del maggiore era divertita solo in apparenza. Fece un cenno ver-
so la porta, e l'impiegato strappò il foglio che il suo calcolatore aveva ap-
pena prodotto e uscì dalla stanza.
Il maggiore Cecil era un uomo di circa cinquant'anni, asciutto, calmo e
acuto. Molto acuto. Anche se non era il responsabile del personale, visto
che il lavoro amministrativo spettava a un ufficiale di rango più elevato,
Miles da molto tempo aveva capito che era lui l'uomo della decisione fina-
le. Dalle mani di Cecil passavano come minimo tutti gli assegnamenti per i
diplomati dell'Accademia.
Miles l'aveva sempre considerato un uomo disponibile, perché in lui lo
studioso e il maestro predominavano sull'ufficiale. Il suo spirito era straor-
dinariamente caustico, e aveva un'assoluta dedizione al dovere. Miles si
era sempre fidato di lui. Almeno fino a quel momento.
«Signore» esordì. Poi gli passò gli ordini ricevuti con un atteggiamento
di frustrazione. «Che cosa significa?»
Cecil aveva ancora lo sguardo divertito quando infilò la banconota nel
portafoglio. «Mi stai chiedendo di leggertelo, Vorkosigan?»
«Signore, avrei una domanda...» Miles si bloccò, si morse la lingua, e
poi proseguì. «Vorrei farle qualche domanda sul compito che mi è stato
assegnato».
«Ufficiale Meteorologico alla base Lazkowski» disse il maggiore Cecil.
«Ma, allora... non si tratta di un errore? Ho ricevuto il pacco giusto?»
«Se c'è scritto così, allora è giusto.»
«Ma lei è al corrente del fatto che l'unico corso di meteorologia che ho
seguito è stato quello di meteorologia dell'aviazione?»
«Sì, ne sono al corrente.» Il maggiore non si lasciava sfuggire nulla.
Miles fece una pausa. Il fatto che Cecil avesse fatto uscire il suo impie-
gato voleva dire che avrebbero avuto una conversazione sincera. «Si tratta
di una punizione?» Che cosa ti ho fatto?
«Ma no, guardiamarina» Cecil aveva addolcito il tono di voce «è un in-
carico assolutamente normale. Il mio compito consiste nel fare corrispon-
dere alla richiesta di personale i candidati a disposizione. Ogni richiesta
deve essere ricoperta da qualcuno.»
«Qualsiasi diplomato in tecnica avrebbe potuto ricoprire questo incari-
co.» Con uno sforzo, Miles contenne il nodo che aveva nella voce, strin-
gendo i pugni. «Anzi. Non era necessario un cadetto dell'Accademia.»
«Questo è vero» concesse il maggiore.
«Ma, allora perché?» esclamò Miles. Aveva parlato con un tono di voce
più alto di quello che voleva.
Cecil sospirando, si raddrizzò. «Perché ho notato, Vorkosigan, osser-
vandoti, e tu sai bene di essere stato il cadetto più strettamente sorvegliato
che sia mai passato da questo collegio, eccetto lo stesso Imperatore Grego-
rio...»
Miles annuì.
«Indipendentemente dalla vivacità d'ingegno che hai dimostrato in alcu-
ni campi, hai dimostrato anche alcune debolezze croniche. E non mi sto ri-
ferendo ai tuoi problemi fisici, che tutti, eccetto me, pensavano ti avrebbe-
ro ucciso prima che potessi compiere un anno di vita. Tu sei stato sorpren-
dentemente sensibile a queste...»
Miles scrollò le spalle. «Ferite dolorose, signore. Non me le sono cerca-
te.»
«Molto bene. Ma i tuoi problemi cronici più insidiosi riguardano l'area
della...come posso dirlo in modo esatto...subordinazione. Tu discuti trop-
po.»
«No, non è vero.» Iniziò a dire Miles indignato, poi si zittì.
Cecil fece un ghigno. «E invece sì. Per non parlare della tua abitudine
piuttosto irritante di trattare i tuoi ufficiali di grado superiore, come se fos-
sero tuoi, ah...» Cecil fece una pausa come se cercasse la parola giusta.
«Pari?» azzardò Miles.
«Come se fossero delle bestie» lo corresse Cecil in modo imparziale «da
piegare alla tua volontà. Sei un eccellente manipolatore, Vorkosigan. Sono
tre anni che ti studio ormai, e le tue dinamiche di gruppo sono affascinanti.
Che sia un tuo incarico o no, in qualche modo sono sempre le tue idee alla
fine che vengono realizzate.»
«Mi sono comportato in modo così... irrispettoso, signore?»
«Al contrario. Dati i tuoi presupposti, è sorprendente che tu riesca a na-
scondere questa, ehm, piccola vena di arroganza così bene. Ma Vorkosi-
gan» Cecil si fece improvvisamente serio. «L'Accademia Imperiale non
costituisce la totalità del Servizio Imperiale. Tu ti sei fatto apprezzare dai
tuoi compagni perché qui il cervello è tenuto al primo posto. Sei stato il
primo a essere selezionato per tutti i gruppi strategici, per la stessa ragione
per cui sei stato escluso da qualsiasi contesto prettamente fisico. Questi
giovani uomini di successo vogliono vincere. Sempre. A qualsiasi costo».
«Io non posso essere un tipo qualunque e sopravvivere, signore!»
Cecil scosse la testa. «Sono d'accordo. Ma tuttavia devi imparare anche
a dare ordini alla gente qualunque. E a riceverne! Non si tratta di una puni-
zione, Vorkosigan, e non è nemmeno il mio modo di scherzare. Dalle mie
scelte dipende non solo la vita dei nostri giovani ufficiali, ma anche quella
degli innocenti a cui le infliggo. Se mi capitasse di giudicare male, o so-
pravvalutare o sottovalutare un uomo per un incarico, non solo metterei in
difficoltà lui, ma anche quelli che gli stanno intorno. Ora, tra sei mesi (più
un'eccedenza non programmata) il Cantiere Navale Orbitale Imperiale avrà
finito di armare il Prince Serge...»
Miles si sentì mancare il respiro.
«Hai capito perfettamente» annuì Cecil. «Il più nuovo, il più veloce ap-
parecchio che Sua Maestà Imperiale abbia mai mandate nello spazio. E
con il rango più alto. Partirà, e rimarrà nello spazio per periodi di tempo
più lunghi di qualsiasi cosa sia mai esistita prima. L'Alto Comando attual-
mente si sta interessando al profilo psichico che comporta. Per cambiare.»
«Ascoltami adesso» disse Cecil piegandosi in avanti. Miles fece lo stes-
so, quasi automaticamente. «Se riuscirai a farcela per sei mesi con quel-
l'incarico, se dimostrerai di essere in grado di tenere sotto controllo Campo
Permafrost, io farò in modo che tu possa tenere in mano qualsiasi cosa il
Servizio possa pensare di affidarti. E appoggerò la tua richiesta di trasfe-
rimento sul Prince. Ma se fallirai, non ci sarà nulla che io o chiunque altro
possa fare per te. O nuoti o affoghi, guardiamarina.»
Volare, pensò Miles. Io voglio volare.
«Signore... che razza di trappola è quel posto?»
«Non voglio danneggiarti, guardiamarina Vorkosigan» aggiunse Cecil
tranquillamente.
E anche io le voglio bene, signore. «Ma... la fanteria? I miei limiti fisi-
ci... non pregiudicheranno il mio servizio, se saranno tenuti in conto, ma
non posso pretendere che non esistano. Tanto varrebbe che saltassi un mu-
ro, distruggendomi immediatamente, e risparmieremmo tutti tempo.»
Dannazione, perché mai mi hanno permesso di frequentare alcune delle
classi più prestigiose di Barrayar per tre anni, se avevano intenzione di
uccidermi al primo colpo? «Ho sempre dato per scontato che avrebbero
tenuto conto dei miei limiti fisici.»
«Un Ufficiale Meteorologo è un tecnico specializzato, guardiamarina»
disse il maggiore cercando di rassicurarlo. «Nessuno ti metterà alla prova
affidandoti un incarico di campo per distruggerti. Dubito che ci sia un uffi-
ciale del Servizio a cui piacerebbe giustificare la tua morte all'ammira-
glio.» Il suo tono di voce si era fatto leggermente freddo. «È la tua unica
buona qualità. Mutante.»
Cecil era una persona senza pregiudizi, lo stava semplicemente mettendo
alla prova. Metteva sempre tutti alla prova. Miles piegò la testa. «Faccio
del mio meglio per i mutanti che verranno dopo di me.»
«Lo avevi previsto, non è vero?»
«Anni fa, signore.»
«Mm» Cecil fece un leggero sorriso, si alzò dalla scrivania, si fece avan-
ti e gli tese la mano. «Buona fortuna, allora, Lord Vorkosigan.»
Miles gli strinse la mano. «Grazie, signore.» Prese il cumulo di autoriz-
zazioni di viaggio per metterle in ordine.
«Quale sarà la tua prima tappa?» domandò Cecil.
Lo stava di nuovo mettendo alla prova. Doveva trattarsi di un maledetto
riflesso. Miles rispose in modo imprevisto: «Gli archivi dell'Accademia».
«Ah!»
«Per dare un'occhiata al manuale meteorologico del Servizio e a materia-
li supplementari.»
«Molto bene. A proposito, il tuo predecessore nell'incarico rimarrà un
paio di settimane per darti il tempo di orientarti.»
«Sono felice di saperlo, signore» disse Miles sinceramente.
«Non vogliamo renderti le cose impossibili, guardiamarina.»
Ma solo molto difficili. «Sono felice di sapere anche questo, signore.»
Uscendo, Miles salutò in modo molto rispettoso.
Miles fece l'ultima tappa del viaggio per l'Isola Kyril su una grande na-
vetta aeromerci automatizzata, insieme a un noioso pilota di riserva e a ot-
tanta tonnellate di carico. Trascorse la maggior parte del suo viaggio soli-
tario studiando freneticamente meteorologia. Dal momento che il pro-
gramma di viaggio si era protratto in modo perverso oltre il dovuto, con
due lunghe ore di ritardo nelle due ultime fermate di carico, si ritrovò mol-
to più avanti negli studi di quanto si aspettasse, quando l'aeromerci si fer-
mò rombando alla base Lazkovski.
I portelli di bordo del cargo si aprirono, lasciando entrare la pallida luce
del sole che si nascondeva dietro l'orizzonte. La brezza dell'estate inoltrata
aveva una temperatura di cinque gradi sopra lo zero. I primi soldati che
Miles vide erano un gruppo di uomini vestiti di nero con dei caricatori, che
seguivano gli ordini di un caporale dall'aria stanca che venne incontro alla
navetta. Nessuno sembrava particolarmente preparato ad accogliere un
nuovo Ufficiale Meteorologo. Miles si strinse dentro il parka e si avvicinò
al gruppo.
Due degli uomini vestiti di nero, vedendolo scendere dalla scaletta, si
scambiarono dei commenti in greco barraiarano, un dialetto minore di ori-
gine terrestre, totalmente degradato nei secoli dell'Era dell'Isolamento. Mi-
les, stanco per il viaggio e colpito dalle espressioni delle loro facce, che gli
erano anche troppo familiari, decise immediatamente di ignorare qualsiasi
cosa avessero da dire, fingendo di non conoscere la loro lingua. In ogni
modo, Plause gli aveva detto diverse volte che il suo accento greco era
pessimo.
«Guarda quello, l'hai visto? Cos'è, un bambino?»
«Mi avevano detto che stavano per mandarci dei baby-ufficiali, ma que-
sto qui è appena nato.»
«Ehi, ma non è un bambino. È un maledetto nano. La levatrice ha perso i
colpi con questo qui. Guardalo, è un mutante!»
Miles, riuscì a fatica a impedirsi di voltarsi a guardare i due che stavano
facendo quei commenti. E quelli, sempre più convinti di non essere ascol-
tati, alzarono la voce dal sussurro a un tono normale. «Ma come mai è in
uniforme, eh?» «Forse è la nostra nuova mascotte.» Le vecchie paure ge-
netiche erano talmente radicate e ancora così diffuse che poteva capitare di
essere picchiati a morte da persone che non sapevano nemmeno perché ti
odiavano, ma che semplicemente si lasciavano esaltare dalla spirale delle
reazioni di gruppo. Miles sapeva piuttosto bene che era sempre stato pro-
tetto dalla posizione sociale del padre, ma che potevano accadere cose pe-
ricolose a coloro che appartenevano a una classe sociale meno elevata. So-
lo due anni prima era accaduta una vicenda orribile a Vorbarr Sultana nella
zona della città vecchia, un povero storpio era stato castrato con una botti-
glia di vino rotta da una banda di ubriachi. Era stato considerato un segno
di progresso il fatto che avesse suscitato scandalo, invece di essere sempli-
cemente dato per scontato. E proprio nello stesso distretto di Vorkosigan,
il caso recente di un infanticidio parlava ancora più chiaramente. Sì, appar-
tenere a un certo livello sociale o militare comportava dei vantaggi. Miles
intendeva procurarsene più che poteva.
Tirò bruscamente indietro il parka, perché si vedesse con chiarezza la
sua mostrina da ufficiale. «Salve, caporale. Ho degli ordini da riferire al
tenente Ahn, l'Ufficiale Meteorologo della base. Dove posso trovarlo?»
Miles aspettò un po' di ricevere l'opportuno saluto, ma si fece attendere,
perché l'uomo rimase a guardarlo con gli occhi fuori dalle orbite. Alla fine
si rese conto che Miles poteva davvero essere un ufficiale.
Si decise a salutarlo. «Mi scusi, ehm, signore, che cosa ha detto?»
Miles rispose al saluto gentilmente, e con calma ripeté ciò che aveva
detto.
«Ah, ho capito, il tenente Ahn. Di solito si nasconde... ecco, di solito è
nel suo ufficio. Nell'edificio dell'amministrazione.» Il caporale fece un
cenno con il braccio a indicare un punto in direzione di un prefabbricato a
due piani, che si trovava oltre una fila di depositi mezzi sotterrati al limite
della pista, a una distanza forse di un chilometro. «Non si può sbagliare, è
l'edificio più alto della base.»
Ed è anche, notò Miles, chiaramente riconoscibile dall'assortimento di
apparecchiature computerizzate che sporgono dal tetto. Molto bene.
A quel punto, doveva affidare il suo bagaglio a quei babbei e pregare
che lo portassero alla sua eventuale destinazione, qualunque essa fosse? O
interrompere il loro lavoro e arruolare forzatamente un caricatore per il
trasporto? Ebbe in un lampo la visione di se stesso ritto sulla prua di quella
cosa simile alla polena di una nave da traversata, che pesantemente si
muoveva verso il suo incontro con il destino, con mezza tonnellata di
biancheria intima termica, con due dozzine per ogni cassa, modello nume-
ro 6774932. Decise di mettersi lo zaino in spalla e di andare a piedi.
«Grazie, caporale.» Cominciò a marciare nella direzione indicata, fin
troppo consapevole della sua andatura zoppicante e degli apparecchi orto-
pedici nascosti nelle gambe dei pantaloni, per sostenere il peso in eccesso.
La distanza risultò maggiore di quello che sembrava, ma lui fece attenzio-
ne a non fermarsi o vacillare finché non scomparve oltre la prima unità-
deposito.
La base sembrava quasi deserta. Com'era prevedibile. Il nucleo della sua
popolazione era costituito dalle reclute di fanteria, che venivano e se ne
andavano in due gruppi ogni inverno. Adesso lì c'era solo il gruppo per-
manente e Miles era pronto a scommettere che la maggior parte di loro
prendeva lunghe licenze durante quella breve tregua dell'estate. Si fermò
ansimando dentro l'edificio dell'amministrazione, senza avere incontrato
nessun altro.
La Direzione e il Visualizzatore Topografico, secondo un segnale scritto
a mano applicato dall'altro lato del suo video base, erano al piano di sotto.
Miles si infilò nel primo e unico corridoio che c'era alla sua destra, in cerca
di un qualsiasi ufficio in cui ci fosse qualcuno. Quasi tutte le porte erano
chiuse ma non a chiave, le luci erano spente. In un ufficio classificato co-
me Contabilità Generale c'era un uomo in uniforme nera da lavoro, con la
mostrina rossa da tenente sul colletto, concentratissimo sul suo olovideo
che mostrava lunghe colonne di dati. Stava imprecando sottovoce.
«Dov'è l'Ufficio Meteorologico?» Gridò Miles, rimanendo sulla porta.
«Secondo.» Il tenente fece un segno verso l'alto senza voltarsi, poi si in-
curvò ancora di più e ricominciò a imprecare. Miles sgattaiolò via in punta
di piedi cercando di non dargli altro disturbo
Finalmente trovò l'ufficio al secondo piano, sulla porta chiusa c'era un
cartello con le lettere sbiadite. Si fermò fuori, poggiò il suo bagaglio e ci
mise sopra il parka. Poi si diede una rassettata, le quattordici ore di viaggio
avevano sciupato la sua freschezza iniziale. Comunque, aveva fatto in mo-
do di tenere puliti gli stivali e l'uniforme verde d'ordinanza da macchie di
cibo, tracce di fango e altre aggiunte disdicevoli. Appiattì il berretto e lo
posizionò con precisione alla cintura. Aveva percorso una buona metà del
pianeta, una buona metà della vita, per raggiungere quel preciso momento.
Alle sue spalle c'erano tre anni di addestramento vissuti in stato di eccita-
zione febbrile per l'attesa. Anche se gli anni di Accademia avevano sempre
avuto un'aria di vaga simulazione, il tipico ci-stiamo-solo-esercitando, a-
desso, finalmente si trovava faccia a faccia con le cose concrete, con il suo
primo, autentico incarico di comando. La prima impressione poteva essere
di vitale importanza, soprattutto nel suo caso. Prese fiato e bussò.
Una voce roca e smorzata lo raggiunse attraverso la porta, erano parole
indecifrabili. Forse un invito? Miles aprì la porta ed entrò.
Intravide un'intera parete di interfaccia e terminali video che lampeggia-
vano. Vacillò all'indietro per il caldo che lo colpì in volto. Lì dentro l'aria
aveva la stessa temperatura del sangue. Eccetto che per la luce emessa dai
terminali video, la stanza era immersa nella totale oscurità. Miles, accor-
gendosi di un movimento alla sua sinistra, si girò e salutò. «Guardiamarina
Miles Vorkosigan, a rapporto per l'incarico come stabilito, signore.» Si mi-
se sull'attenti, alzò gli occhi e non vide nessuno.
Il movimento doveva provenire dal basso. Abbassando lo sguardo, vide
un uomo non rasato, di circa quarant'anni, in mutande e maglietta, che se
ne stava seduto per terra, con la schiena appoggiata al quadro di comando
dei computer. L'uomo alzò gli occhi e sorrise a Miles, poi prese una botti-
glia mezza vuota di liquido ambrato, e bofonchiò: «Alla tua salute, ragaz-
zo. Sei un tesoro». E crollò lungo disteso.
Miles rimase assorto a fissarlo per un lungo, lunghissimo momento.
Poi l'uomo cominciò a russare.
Il quinto giorno, quando Miles aveva ormai deciso che la sua prima im-
pressione era stata troppo dura, Ahn ebbe una ricaduta. Miles aspettò per
un'ora che Ahn e il suo naso si facessero vedere all'ufficio meteorologico,
per cominciare le mansioni della giornata. Alla fine tirò fuori le letture
substandardizzate del sistema computerizzato, le inserì lo stesso e partì alla
ricerca di Ahn.
Alla fine, lo scovò ancora nella cuccetta del suo alloggio nelle baracche
degli ufficiali, che russava instupidito dall'alcol, con addosso un odore di
urina... o brandy fruttato? Miles scosse le spalle. Provò a scuoterlo, a sol-
lecitarlo urlandogli nelle orecchie, ma non riuscì a svegliarlo. L'unico ri-
sultato fu che si rintanò ancora di più tra le coperte e il suo dannoso mia-
sma, ansimando. Miles, con rimpianto, mise da parte la violenza che gli
suggeriva quella vista, e si preparò ad andare avanti da solo. Presto sarebbe
rimasto da solo, comunque.
Si diresse zoppicando al deposito motori. Il giorno prima Ahn l'aveva
portato in un giro di ricognizione per la manutenzione periodica delle cin-
que stazioni meteorologiche comandate a distanza, che si trovavano vicino
alla base. La sesta, piuttosto fuori mano, era stata programmata per quel
giorno. I viaggi di routine per l'Isola Kyril si realizzavano da terra, con un
veicolo chiamato gatto-scatto, che era risultato divertente da guidare quasi
quanto una slitta antigravitazionale. I gatti-scatti aderivano al terreno come
lacrime iridescenti, sradicando la tundra, ma erano garantiti contro i venti
wah-wah, perché non volavano via. Il personale della base, così gli aveva-
no lasciato intendere, era stufo di andare a raccogliere nel mare gelato gli
slittini antigravitazionali dispersi.
Il deposito motori era un altro bunker mezzo sotterrato, simile alla mag-
gior parte degli altri edifici della base Lazkowski, solo un po' più grande.
Miles buttò giù dal letto un caporale di nome Olney, che il giorno prece-
dente aveva registrato l'uscita sua e di Ahn. Anche il tecnico che lo aiuta-
va, e che guidava il gatto-scatto dal deposito sotterraneo all'entrata, aveva
un aspetto familiare. Era alto, indossava una tuta nera da lavoro, e aveva i
capelli neri. La descrizione valeva per l'ottanta per cento degli uomini che
si trovavano alla base, ma fu quando parlò che il suo forte accento colpì
Miles. Era uno dei due uomini che avevano fatto i commenti a bassa voce
che aveva potuto origliare sulla pista d'atterraggio della navicella. Miles si
costrinse a non reagire.
Si mise a controllare con attenzione la lista di forniture in dotazione al
veicolo prima di mettere la firma di ricevuta, come Ahn gli aveva detto di
fare. Ogni gatto-scatto doveva avere con sé, tutte le volte, il kit completo
di sopravvivenza per il freddo. Il caporale Olney lo guardava con vago di-
sprezzo, mentre armeggiava per controllare che ci fosse tutto. D'accordo,
sono lento, pensò Miles con irritazione. Un novellino inesperto. Ma è l'u-
nico modo che ho per diventare meno novellino e meno inesperto. Passo
dopo passo. Riuscì con uno sforzo a contenere il proprio disagio. Prece-
denti esperienze dolorose, gli avevano insegnato che era molto più perico-
loso esprimere i propri pensieri. Concentrati sul tuo lavoro, non sul male-
detto pubblico. Hai sempre avuto un pubblico. E forse l'avrai sempre...
Miles stese la leggera carta topografica sul gatto-scatto, e indicò al capo-
rale l'itinerario che aveva programmato. Secondo Ahn queste decisioni
prese a tavolino servivano anche per la sicurezza. Olney annuì con un gru-
gnito, accompagnato da uno sguardo ben modulato di noia e insofferenza,
percettibile, ma non abbastanza perché Miles fosse costretto a notarlo.
Il tecnico in tuta nera, Pattas, guardando al di sopra delle spalle irregola-
ri di Miles, increspò le labbra e disse: «Oh, guardiamarina, signore». An-
cora una volta l'enfasi era vicina all'ironia. «Ha intenzione di andare alla
Stazione Nove?»
«Sì, e allora?»
«Per stare più tranquillo, sarà meglio che parcheggi il gatto-scatto, ehm,
al riparo dal vento, nel fosso che c'è proprio davanti alla stazione.» Con un
dito tozzo indicò nella mappa una zona segnata in blu. «Lo vedrà. In que-
sto modo sarà sicuro che il gatto-scatto si rimetta in moto.»
«Il gruppo di alimentazione di questi motori è regolato per lo spazio»
disse Miles. «Perché mai non dovrebbe rimettersi in moto?»
Per un attimo gli occhi di Olney si accesero, poi tornarono ad assumere
un'espressione neutra. «Certo, ma se improvvisamente ci fosse un wah-
wah, non vorrà mica che voli via!»
Sarei io a volare via per primo. «Credevo che questi veicoli fossero ab-
bastanza pesanti da impedirlo.»
«Sì, non volano proprio via, ma è risaputo che si ribaltano» mormorò
Pattas.
«Ah, va bene, grazie.»
Il caporale Olney tossì. Pattas, mentre Miles si allontanava alla guida del
veicolo, gli fece un saluto cordiale.
Il mento di Miles si mise a tremare per un vecchio tic nervoso. Fece un
respiro profondo e si sistemò i capelli, allontanandosi con il gatto-scatto
dalla base per dirigersi in aperta campagna. Premette l'acceleratore per
aumentare un po' la velocità, sbattendo contro una scura vegetazione di
felci. Quanto era durata la sua permanenza all'Accademia Imperiale, quan-
to tempo era rimasto là a dimostrare di continuo le proprie capacità a ogni
maledetto individuo in cui incappava ogni volta che faceva qualcosa? Un
anno e mezzo? Due anni? Forse il terzo anno lo aveva rovinato, era fuori
esercizio. Sarebbe stato così ogni volta che avesse assunto un nuovo inca-
rico? Forse sì, pensò con amarezza, accelerando ancora un po'. Ma sapeva
che tutto questo faceva parte del gioco, quando aveva chiesto di giocare.
La temperatura era abbastanza alta quel giorno, il pallido sole splendeva
quasi, e Miles si sentì quasi contento quando raggiunse la Stazione Sei,
sulla costa orientale dell'isola. Era un piacere per una volta starsene da so-
lo, solo lui e il suo lavoro. Senza spettatori. Con il tempo a disposizione e
la possibilità di fare le cose per bene. Lavorò con attenzione, controllando i
gruppi d'alimentazione, svuotando i campionatori, verificando se c'erano
segni di corrosione, danni o connessioni allentate nell'impianto. E quando
gli cadeva di mano un attrezzo, non c'era nessuno pronto a dirgli che era
uno spastico mutante. Svanita la tensione, Miles fece meno errori, e il tic
scomparve. Quando ebbe finito, si stiracchiò, e inalò l'aria umida, scopren-
do l'insolito piacere della solitudine. Si concesse ancora qualche minuto
per camminare lungo la spiaggia, osservando gli intricati frammenti di vita
marina portati a riva dalle onde.
Uno dei campionatori della Stazione Otto era danneggiato, e un misura-
tore d'umidità distrutto. Quando ebbe finito di rimpiazzarlo, si rese conto
che la tabella di marcia del suo itinerario era stata un po' troppo ottimistica.
Lasciò la Stazione Otto, mentre il sole scivolava in un verde crepuscolo.
Quando raggiunse la Stazione Nove, che si trovava in un'area di tundra e
affioramenti rocciosi sulla costa nord, era quasi buio.
La Stazione Dieci si trovava sulle montagne vulcaniche immerse nei
ghiacciai, Miles ne ebbe la conferma verificando sulla mappa con una
penna luminosa. Era meglio non inoltrarsi nella ricerca, finché era buio.
Avrebbe aspettato per quel breve spazio di quattro ore che lo separava dal-
l'alba. Riferì il suo cambiamento di programma, collegandosi con la base,
centosessanta chilometri a sud. L'incaricato non mostrò molto interesse.
Bene.
Visto che nessuno lo stava guardando, Miles colse al volo l'opportunità
di sperimentare quegli affascinanti dispositivi impacchettati sul retro del
gatto-scatto. Era molto meglio fare pratica in quel momento, in cui le con-
dizioni meteorologiche erano buone, piuttosto che più avanti in mezzo a
una bufera di neve. La piccola tenda gonfiabile a due posti, una volta mon-
tata, sembrò a Miles quasi sontuosa per il solitario splendore delle sue di-
mensioni. D'inverno doveva essere isolata con neve artificiale. La sistemò
sottovento rispetto al gatto-scatto, che aveva parcheggiato, come gli era
stato raccomandato, nel fosso a qualche centinaio di metri dalla stazione
meteorologica, abbarbicata su un affioramento roccioso.
Miles si rese conto che la tenda aveva un peso molto relativo, rispetto al
gatto-scatto. Gli era rimasto impresso un video che Ahn gli aveva mostrato
su un tipico wah-wah. Soprattutto l'aveva colpito il particolare di una latri-
na chimica che volava a cento chilometri all'ora. Ahn non era stato in gra-
do di dirgli se quando era stato girato il video c'era qualcuno lì dentro. Mi-
les prese la precauzione aggiuntiva di attaccare la tenda al gatto-scatto con
una catenella. Poi, soddisfatto, ci si infilò dentro.
L'equipaggiamento era di prima qualità. Appese al soffitto la stufa, la
accese, e si riscaldò al suo calore, sedendosi a gambe incrociate. Anche le
razioni erano di ottima qualità. Sopra una piastra scaldò un vassoio diviso
in comparti, stufato con verdura e riso, poi si preparò una decente bevanda
alla frutta con la polverina solubile. Dopo avere mangiato e messo via gli
avanzi, si sistemò su un comodo cuscino imbottito e infilò nel lettore un li-
bro su dischetto, un romanzo betano di maniera che gli aveva consigliato
la contessa, e che non aveva nulla a che fare con Barrayar, con le manovre
militari, le mutazioni, la politica, o le condizioni meteorologiche. Non
guardò nemmeno che ore erano quando si addormentò.
Il giorno dopo, il terzo dei suoi sette giorni di punizione, Miles si pre-
sentò al sergente Neuve. Il sergente, dal canto suo, si presentò a Miles con
un gatto-scatto completamente equipaggiato, un dischetto del relativo ma-
nuale d'equipaggiamento, e un programma per fare il drenaggio e le opera-
zioni di manutenzione delle fogne della base Lazowski. Si trattava, eviden-
temente, di un'altra esperienza formativa. Miles si domandò se non fosse
stato il generale Metzov in persona a scegliere quel compito. Era propenso
a credere di sì.
La cosa migliore era che aveva di nuovo con sé i suoi due aiutanti. Quel
particolare compito di ingegneria civile sembrava non essere mai capitato
prima a Olney e Pattas, che così non avevano nessun margine di conoscen-
za superiore con cui fregare Miles. Anche loro dovevano prima fermarsi e
leggere il manuale. Miles sgobbò sulle procedure e diresse le operazioni
con un'allegria che sconfinò nel maniacale, man mano che i suoi aiutanti si
facevano più depressi.
Dopo tutto, c'era un certo fascino nelle attrezzature di drenaggio e puli-
zia. E anche di eccitazione. Lavare le tubature con l'alta pressione produ-
ceva effetti sorprendenti. C'erano delle sostanze chimiche, che avevano al-
cune proprietà belliche, come per esempio quella di dissolvere qualsiasi
cosa istantaneamente, compresa la carne umana. Nei successivi tre giorni,
Miles imparò più cose sulle infrastrutture della base Lazowski, di quanto
avrebbe mai immaginato di voler sapere. Aveva anche calcolato il punto in
cui una carica ben posizionata, poteva far crollare l'intero sistema nel caso
in cui avesse mai deciso di volere distruggere il luogo.
Il sesto giorno, Miles e la sua squadra furono mandati a pulire una fogna
intasata, che si trovava vicino ai campi di esercitazione delle reclute. Era
facile da localizzare. Uno scroscio d'acqua argentata lambiva la carreggiata
sopraelevata da un lato, dall'altro emergeva solo un piccolo ruscello che
strisciava verso il fondo di un profondo canale di scolo. Miles prese il lun-
go tubo telescopico dal retro del gatto-scatto e sondò la superficie opaca
dell'acqua. Sembrava che non ci fosse nulla che ostacolasse il flusso della
fogna. Qualunque cosa fosse, doveva essersi incastrata dalla parte opposta.
Che contentezza. Passò il tubo a Pattas, si diresse dall'altro lato della stra-
da, e fissò il fosso. Notò che la fogna aveva un diametro di circa mezzo
metro. «Passami una lampada» disse a Olney.
Si tolse il parka, lo lanciò nel gatto-scatto e scese nel canale. Puntò la lu-
ce nell'apertura. Evidentemente la fogna curvava leggermente; non si ve-
deva un bel niente. Sospirò, riflettendo sulla relativa larghezza delle spalle
di Olney, di Pattas e delle sue.
Poteva esserci qualcosa di più lontano dal servizio navale di quell'incari-
co? Le spedizioni speleologiche alle Montagne Dendarii a cui aveva parte-
cipato in passato erano la cosa che più si avvicinasse al compito che in
quel momento stava svolgendo. Acqua e terra contro fuoco e aria. Sem-
brava che avesse accumulato un surplus di yin, e lo yang che stava arri-
vando a controbilanciarlo avrebbe fatto meglio a sfolgorare.
Afferrò saldamente la torcia, si mise carponi, e si calò nel tubo di scari-
co.
L'acqua gelata gli inzuppò i pantaloni della divisa nera fino alle ginoc-
chia. L'effetto fu di intirizzimento. L'acqua gli si infilò dentro uno dei
guanti e gli diede la sensazione di una lama di coltello intorno al polso.
Miles si mise a riflettere su Olney e Pattas. Negli ultimi giorni, tra di lo-
ro si era sviluppato un rapporto di lavoro distaccato, moderatamente effi-
ciente, basato - Miles non si faceva illusioni a proposito - su un timore di
Dio instillato nei due uomini dal buon angelo di Miles, il tenente Bonn.
Come faceva Bonn a esercitare quella tranquilla autorità? Doveva riuscire
a capirlo. Tanto per cominciare, Bonn era bravo nel suo lavoro, sì, ma poi?
Miles strisciò lungo la curva, illuminò con la torcia la melma, e indie-
treggiò inorridito, bestemmiando. Si fermò un attimo per riprendere fiato
ed esaminò ciò che ostruiva il canale più da vicino, poi tornò indietro.
Quando arrivò nel fondo del canale di scarico si rimise in piedi, raddriz-
zando la spina dorsale e facendola scricchiolare. Il caporale Olney si affac-
ciò dal parapetto della strada. «Che cosa c'è lì dentro, guardiamarina?»
Miles sogghignò, cercando ancora di riprendere fiato. «Un paio di stiva-
li.»
«Nient'altro?» chiese Olney.
«Il proprietario li indossa ancora.»
Miles chiamò l'ufficiale medico della base con l'unità comunicativa del
gatto-scatto, richiedendo urgentemente la sua presenza con un kit di pronto
soccorso, una sacca per il cadavere, e un'autoambulanza. Poi Miles e la sua
squadra bloccarono l'estremità alta del canale di scolo, con un cartello
stradale, preso in prestito da un campo di esercitazione abbandonato poco
lontano da lì. Visto che era già bagnato e infreddolito, e a quel punto non
faceva differenza, Miles ritornò dentro la fogna per attaccare una corda al-
la caviglia dello sconosciuto possessore degli stivali. Quando riemerse, il
medico e il soldato di infermeria erano arrivati.
Il medico, un uomo grosso e calvo, scrutò dubbioso la tubatura.
«Che cosa riesce a vedere lì dentro, guardiamarina? Che cosa è succes-
so?»
«Non vedo nient'altro che le gambe, signore» riferì Miles. «È rimasto
incastrato. Suppongo che il sudiciume della fogna l'abbia sommerso. Biso-
gnerà capire che cosa l'ha ucciso.»
«Che diavolo ci è andato a fare lì dentro?» Disse il medico grattandosi lo
scalpo lentigginoso.
Miles allargò le braccia. «Sembra un modo insolito per suicidarsi. Lento
e incerto, un po' come affogarsi.»
Il medico sollevò un sopracciglio, annuendo. Miles e il medico dovettero
usare tutte le proprie forze, aiutati da Olney, Pattas e dal soldato di infer-
meria prima che il corpo incastrato nella fogna cominciasse a spostarsi.
«È infilzato» osservò il soldato di infermeria con un grugnito. Alla fine
il corpo saltò fuori insieme a un getto d'acqua sporca. Pattas e Olney rima-
sero a guardarlo da lontano; Miles se ne stava incollato dietro al medico. Il
cadavere, che aveva indosso la divisa nera operativa inzuppata, era blua-
stro e cereo. Le mostrine e il contenuto delle sue tasche lo identificarono
come un soldato semplice dell'Approvvigionamento. Il corpo non presen-
tava alcun tipo di ferita, eccetto le contusioni sulle spalle e le mani scorti-
cate.
Il medico inserì nel suo registratore i dati preliminari. Nessuna frattura,
nessun nervo distrutto. Ipotesi preliminare, morte per annegamento o per
ipotermia o per ambedue, nelle ultime dodici ore. Poi spense il registratore
e aggiunse: «Potrò dirlo con certezza solo quando lo porteremo in inferme-
ria».
«Capitano spesso questo genere di cose da queste parti?» domandò Mi-
les tranquillamente.
Il medico gli lanciò un'occhiata arcigna. «Ogni anno qualche idiota fini-
sce sul tavolo dell'obitorio. Cos'altro puoi aspettarti, quando metti insieme
su un'isola cinquemila ragazzini, tra i diciotto e i vent'anni, e gli dici di
giocare a fare la guerra? Devo ammettere che questo qui sembra avere
scoperto un metodo del tutto nuovo di finire all'obitorio. Suppongo che lei
non abbia mai visto niente del genere.»
«Lei crede che si sia ucciso, quindi?» In effetti era un'ipotesi un po' in-
verosimile che qualcuno prima l'avesse ucciso e poi lo avesse gettato lì
dentro.
Il medico si diresse verso la fogna, si accovacciò e la osservò con atten-
zione. «Così sembrerebbe. Ah, le dispiacerebbe dare ancora un'occhiata lì
dentro, per scrupolo, guardiamarina?»
«Nient'affatto, signore.» Miles si augurò che fosse l'ultima volta. Non
avrebbe mai immaginato che pulire una fogna potesse diventare tanto...
emozionante. Fece tutto il percorso sotto la strada, che portava fino al bor-
do gocciolante, controllando ogni centimetro, ma trovò soltanto la torcia
del morto. Quindi, il soldato semplice era evidentemente entrato nel tubo
per un motivo preciso. Con uno scopo. Che scopo? Per quale ragione era
andato carponi nella fogna nel bel mezzo della notte e di una forte tempe-
sta di neve? Miles uscì e consegnò la torcia al medico.
Poi aiutò il soldato di infermeria e il medico a impacchettare e caricare il
corpo, e infine fece riportare al suo posto da Olney e Pattas il cartello che
aveva bloccato il passaggio. L'acqua marrone ricominciò a scrosciare rug-
gendo dal fondo della fogna fino al canale di scolo. Il medico si fermò in-
sieme a Miles, appoggiandosi al parapetto per osservare il livello dell'ac-
qua che si abbassava nel piccolo lago.
«Pensa che potrebbe essercene un altro sul fondo?» domandò Miles
morbosamente.
«Quest'uomo era l'unico di cui era stata segnalata la scomparsa, nel rap-
porto del mattino» rispose il medico «quindi, probabilmente no». Ma non
dava l'impressione di essere pronto a scommetterci.
L'unica cosa che saltò fuori, quando il livello dell'acqua scese, fu il par-
ka bagnato fradicio del soldato semplice. Era chiaro che lo aveva lanciato
sul parapetto della strada, prima di entrare nella fogna, e che da lì era cadu-
to o volato in acqua. Il medico lo portò via con sé.
«Ha avuto molto sangue freddo» osservò Pattas, quando Miles si allon-
tanò dal retro dell'autoambulanza e il medico e il soldato di infermeria se
ne andarono.
Pattas non era molto più vecchio di Miles. «Le è mai capitato di traspor-
tare un corpo?»
«No. E a lei?»
«Sì.»
«Dove?»
Miles esitò. Gli avvenimenti di tre anni prima gli risalirono alla memo-
ria. I pochi mesi in cui accidentalmente era stato coinvolto in una battaglia
disperata, lontano da casa, non erano un segreto da raccontare, e nemmeno
da accennare, in quelle circostanze. Ma di sicuro gli avevano insegnato la
differenza tra la "simulazione" e la "verità", tra la guerra e il giocare alla
guerra, e che la morte ha vettori più sottili di un contatto diretto. «Un po' di
tempo fa» disse Miles lentamente. «Un paio di volte.»
Pattas scrollò le spalle e si voltò. «Bene» aggiunse in modo riluttante
«Almeno lei non ha paura di sporcarsi le mani, signore.»
Miles corrugò la fronte, perplesso. No. Non è questo che mi spaventa.
Miles segnò nel suo rapporto che la fogna era stata "sgomberata", e ri-
portò il gatto-scatto, l'attrezzatura e un Olney e un Pattas piuttosto sotto-
messi nel reparto Manutenzione del sergente Neuve, poi si diresse alle ba-
racche degli ufficiali. In tutta la sua vita non aveva mai desiderato tanto di
fare una doccia.
Miles era già schizzato fuori dal letto e si era già mezzo vestito, quando
il suo cervello intontito dal sonno si rese conto che quel clacson elettriz-
zante non era il segnale d'allarme del wah-wah. Si fermò con uno stivale
tra le mani. Non si trattava né di un incendio né di un attacco nemico.
Quindi, qualsiasi cosa fosse, non riguardava il suo dipartimento. Il rumore
cessò all'improvviso. Tutto era in ordine, e il silenzio era assoluto.
Controllò l'orologio digitale fluorescente. Era il crepuscolo. Aveva dor-
mito solo un paio d'ore, dopo essere crollato a letto esausto, di ritorno da
un lungo viaggio nella zona settentrionale, in mezzo a una tempesta di ne-
ve, per andare a riparare i danni procurati dal vento alla stazione meteoro-
logica Undici. L'unità di collegamento vicina al suo letto non era illumina-
ta dalla luce rossa per le chiamate d'emergenza, che lo informavano di e-
ventuali compiti imprevisti da svolgere. Poteva tornarsene a letto.
Ma il silenzio era sconcertante.
Si infilò il secondo stivale e fece capolino con la testa dalla porta. Un
paio di altri ufficiali avevano fatto la stessa cosa, e stavano discutendo tra
di loro sulla causa dell'allarme. Il tenente Bonn uscì dal suo alloggio e si
diresse a grandi passi verso l'entrata, con il parka sulle spalle. Aveva una
espressione tesa, tra il preoccupato e l'infastidito.
Miles afferrò il proprio parka e gli corse dietro. «Ha bisogno d'aiuto, te-
nente?»
Bonn gli diede uno sguardo e contrasse la labbra. «Forse» concesse.
Miles gli si affiancò, segretamente contento per l'implicita ammissione,
di potere essere realmente d'aiuto. «Che cosa sta succedendo?»
«Qualche incidente nel deposito di riserve tossiche. Se è come penso,
potremmo trovarci di fronte a un vero problema.»
Uscirono dalla doppia porta isolante degli alloggi degli ufficiali in una
notte di freddo cristallino. La neve scricchiolava sotto i passi di Miles e
veniva spazzata via dal selciato da un debole vento proveniente da est. In
alto le stelle più luminose si difendevano dalle luci della base. I due uomi-
ni si infilarono nel gatto-scatto di Bonn, con il fiato che fumava finché non
inserirono la copertura decongelante. Bonn si diresse a ovest della base a
velocità sostenuta.
Qualche chilometro dopo l'ultimo campo di esercitazione, emerse in
mezzo alla neve una fila di colline coperte da un tappeto erboso. Un grup-
po di veicoli erano parcheggiati davanti a un magazzino, c'erano un paio di
gatti-scatti, incluso quello del maresciallo dei vigili del fuoco della base, e
un autoambulanza. Tutt'intorno si vedevano delle torce. Bonn si diresse lì,
si fermò e aprì la portiera. Miles lo seguì, facendosi strada velocemente at-
traverso il ghiaccio ammucchiato.
Il medico stava dando ordini a un paio di soldati di infermeria che stava-
no caricando sull'ambulanza una forma avvolta in una coperta e un altro
soldato che tremava e tossiva. «Mettete tutto ciò che avete indosso nel de-
posito di distruzione, quando arriverete alla porta» gli urlò dietro. «Coper-
te, lenzuola, tutto. Fatte tutti la doccia di decontaminazione prima ancora
di occuparvi della sua gamba rotta. Un calmante lo aiuterà, ma se non fun-
ziona ignorate le urla e continuate a lavarvi. Vi raggiungerò immediata-
mente.» Poi il medico rabbrividì e si allontanò, con aria spaventata. Bonn
si diresse verso la porta del deposito.
«Non la apra!» gli urlarono all'unisono l'ufficiale medico e il maresciallo
dei vigili del fuoco. «Non c'è più nessuno lì dentro» aggiunse il caporale.
«È stato completamente evacuato».
«Cos'è successo esattamente?» domandò Bonn pulendo con il guanto il
finestrino della porta ghiacciato, per cercare di vedere all'interno.
«Un paio di uomini stavano spostando i rifornimenti per fare spazio a un
nuovo carico che arriverà domani» lo mise al corrente velocemente il ma-
resciallo dei vigili del fuoco, un tenente di nome Yaski. «Hanno scaricato
il caricatore, e uno di loro è rimasto intrappolato sotto rompendosi una
gamba.»
«Bisogna avere... dell'inventiva» disse Bonn cercando d'immaginarsi i
meccanismi del caricatore.
«Devono essersi messi a scherzare» disse il medico con tono impaziente.
«Ma il peggio deve ancora venire. Stavano trasportando alcuni fusti di fe-
taina. Se ne sono aperti almeno due. Ce n'è dappertutto lì dentro. Abbiamo
sigillato il deposito come meglio potevamo. Pulire a fondo» disse il medi-
co con un sospiro. «È un suo problema. Io me ne vado.» Sembrava che vo-
lesse strapparsi di dosso non solo i vestiti ma anche la sua stessa pelle. Fe-
ce un cenno di saluto e si diresse velocemente verso il suo gatto-scatto per
andare a raggiungere alla decontaminazione medica i due infermieri e i lo-
ro pazienti.
«Fetaina!» esclamò Miles stupefatto. Bonn si era ritratto in fretta dalla
porta. La fetaina era un veleno mutageno inventato come arma terrorizzan-
te, ma per quello che ne sapeva Miles non era mai stata usata in combatti-
mento. «Credevo che queste cose fossero obsolete. Fuori dalla lista.» Il
corso di chimica e biologia che aveva seguito all'Accademia lo diceva e-
splicitamente.
«In effetti è una cosa obsoleta» disse Bonn in modo lugubre. «Non se ne
prepara più da vent'anni. Per quello che ne so, questa è l'ultima scorta che
c'è a Barrayar. Maledizione, questi fusti di riserva non avrebbero dovuto
aprirsi nemmeno se lanciati da una nave spaziale.»
«Quindi, questi barili, come minimo sono vecchi di vent'anni» puntua-
lizzò il maresciallo. «Si è trattato di corrosione, allora?»
«In questo caso» disse Bonn allungando il collo «cosa ne sarà degli altri
fusti?»
«Già...» annuì Yaski.
«La fetaina non dovrebbe distruggersi venendo a contatto del calore?»
domandò Miles con nervosismo, cercando di assicurarsi, che stavano di-
scutendo contro vento rispetto al magazzino. «Le sostanze chimiche do-
vrebbero dissociarsi in componenti innocue.»
«Be', non esattamente innocue» disse il tenente Yaski. «Ma non nocive
al punto di sciogliere tutto il DNA che hai nelle palle.»
«C'è qualche tipo di esplosivo, immagazzinato lì dentro, tenente Bonn?»
domandò Miles.
«No, solo la fetaina.»
«Ma se lanciassimo un paio di mine plasmatiche attraverso la porta, la
fetaina non dovrebbe disintegrarsi chimicamente prima di distruggere an-
che il soffitto?»
«Non ti piacerebbe affatto l'eventualità in cui il soffitto andasse all'aria.
O il pavimento. Se dovesse succedere che queste sostanze si diffondessero
nel permafrost... Ma non se posizionassimo le mine su una lenta cessione
di calore, e contemporaneamente lanciassimo qualche chilo di pallottole di
plasma, il deposito dovrebbe autosigillarsi.» Bonn muoveva le labbra cer-
cando di riflettere. «... Sì, potrebbe funzionare. Anzi potrebbe essere il
modo più sicuro di rapportarsi a questa merda. Soprattutto se anche gli al-
tri fusti stanno iniziando a perdere la loro integrità.»
«Dipende da dove sta soffiando il vento» osservò il tenente Yaski, guar-
dando prima la base e poi Miles.
«Siamo in attesa di un leggero vento proveniente da est, con temperature
che scenderanno circa fino alle 7 di domani mattina» disse Miles rispon-
dendo al suo sguardo. «Poi si sposterà a nord e soffierà con maggiore in-
tensità. Le condizioni per un wah-wah, potenzialmente cominceranno in-
torno alle 18 domani sera.»
«Se vogliamo fare così, sarà meglio farlo stasera, allora» disse Yaski.
«Va bene» disse Bonn con decisione. «Chiamerò a raccolta il mio grup-
po, voi fate lo stesso con il vostro. Porterò l'impianto per il magazzino e
calcolerò i gradi di cessione dei carichi. Ci vediamo con il capo d'ordinan-
za in amministrazione tra un'ora.»
Bonn lasciò il maresciallo dei vigili del fuoco appostato per tenere
chiunque lontano dal deposito. Un compito sgradevole ma non intollerabi-
le in quelle condizioni, e poi il guardiano poteva ritirarsi dentro il suo gat-
to-scatto, se la temperatura si abbassava verso la mezzanotte. Miles tornò
in amministrazione con Bonn per fare una seconda verifica delle sue previ-
sioni relative alla direzione del vento.
Miles elaborò gli ultimi dati nel computer, in modo da potersi presentare
a Bonn con dati d'aggiornamento il più precisi possibile sulle previsioni re-
lative ai vettori del vento per le successive 26,7 ore di tempo barraiarano.
Ma prima ancora di avere avuto gli stampati tra le mani, vide dalla finestra
Bonn e Yaski che si allontanavano dall'edificio amministrativo nell'oscuri-
tà. Che stessero andando a incontrarsi con il capo dell'artiglieria da qualche
parte? Miles considerò l'eventualità di seguirli, ma le nuove previsioni non
erano molto diverse dalle ultime. Aveva davvero voglia di andare a vedere
come cauterizzavano una discarica di veleno? Poteva risultare interessante,
formativo. D'altro canto, non c'era alcun bisogno che lui andasse lì. Inoltre,
come unico figlio dei suoi genitori, e come padre, forse, di un qualche fu-
turo conte Vorkosigan, era discutibile il fatto che avesse il diritto di esporsi
a un tale azzardo mutagenico per pura curiosità. Sembrava che la base non
corresse pericoli immediati, finché il vento non cambiava. O si trattava di
vigliaccheria camuffata da logica? Aveva sentito dire che la prudenza era
una virtù.
Dal momento che era sveglio e troppo scosso anche per immaginare di
riaddormentarsi, si diede da fare nell'ufficio meteorologico, recuperando
tutti i file di routine che aveva messo da parte quella mattina per fare il gi-
ro delle riparazioni. In un'ora di attività disciplinata aveva esaurito qualsia-
si cosa che anche lontanamente avesse a che fare con il lavoro. Quando si
rese conto che stava spolverando con accanimento le attrezzature e gli
scaffali, decise che era arrivato il momento di andare a letto, che riuscisse
ad addormentarsi oppure no. Ma una luce in movimento dietro la finestra
catturò la sua attenzione, era un gatto-scatto che si stava fermando davanti
all'entrata principale.
Bonn e Yaski erano ritornati. Di già? Avevano fatto in fretta, o non ave-
vano ancora iniziato? Miles prese con sé la carpetta con i nuovi dati relati-
vi al vento, e si diresse al piano di sotto, nell'ufficio tecnico della base in
fondo al corridoio.
Nell'ufficio di Bonn le luci erano spente. Ma una luce arrivava nel corri-
doio dall'ufficio del comandante della base. Insieme alla luce, arrivavano
anche delle voci arrabbiate che salivano e scendevano di tono. Tenendo
stretta la sua carpetta, Miles si avvicinò.
La porta dell'ufficio interno era aperta. Metzov era seduto al quadro co-
mandi della sua scrivania, con il pugno chiuso poggiato sulla scintillante
superficie colorata. Bonn e Yaski erano davanti a lui in stato di tensione.
Miles scosse i fogli per segnalare la sua presenza.
Yaski si guardò intorno e il suo sguardo incrociò quello di Miles. «Man-
di Vorkosigan, lui è già un mutante, no?»
Miles fece un vago saluto e disse immediatamente: «Mi scusi, signore,
ma non è vero, non lo sono. Il mio ultimo incontro con un veleno militare
mi ha provocato danni teratogeni, non genetici. I miei futuri figli hanno le
stesse possibilità di quelli del mio vicino di essere sani. E... Mandarmi do-
ve, signore?»
Metzov guardò Miles torvamente ma non portò avanti l'inquietante sug-
gerimento di Yaski. Miles passò i fogli a Bonn che diede loro uno sguardo,
sorrise, e poi li mise al sicuro nella tasca della giacca.
«Ovviamente indosserebbero indumenti protettivi» continuò Metzov ri-
volgendosi a Bonn in modo irritato. «Non sono pazzo.»
«Ho capito, signore. Ma gli uomini si rifiutano di entrare nel deposito
anche con l'equipaggiamento anticontaminazione» riferì Bonn con tono
piatto e deciso. «Non posso biasimarli. Le precauzioni standard sono ina-
deguate alla fetaina, secondo me. Quella roba ha un valore di penetrazione
incredibilmente alto, a causa del suo peso molecolare. Passa attraverso i
tessuti permeabili.»
«Lei non può biasimarli?» ripeté Metzov stupefatto. «Tenente, lei ha da-
to un ordine. O almeno è quello che avrebbe dovuto fare.»
«È vero, signore, ma...»
«Ma... lei ha lasciato trapelare la sua indecisione. La sua debolezza. Ma-
ledizione, quando si dà un ordine, si deve dare un ordine, non girarci intor-
no.»
«Perché dobbiamo salvare quella roba?» domandò Yaski con tono la-
mentoso.
«Ne abbiamo la responsabilità. È nostro dovere» grugnì Metzov. «Sono
gli ordini che abbiamo ricevuto. Non si può chiedere a un uomo di obbedi-
re, se non si ubbidisce in prima persona.»
Ciecamente? «Sicuramente l'apparato di ricerca ha ancora la formula» si
inserì Miles, sentendo che almeno stava centrando il campanello d'allarme
sull'argomento. «Ne possono preparare ancora se davvero vogliono.»
«Stia zitto, Vorkosigan» brontolò Bonn disperatamente tra i denti, men-
tre il generale Metzov diceva bruscamente: «Apra di nuovo la bocca que-
sta notte, per pronunciare una delle sua frasette umoristiche, guardiamari-
na, e io le affido l'incarico».
Miles serrò le labbra in un sorriso vitreo. Subordinazione. Ricordati del
Prince Serge, si disse. Per quello che importava a Miles, Metzov poteva
anche bersela tutta la fetaina, e non gliene importava un tubo.
«Ha mai sentito parlare della simpatica pratica bellica, che consisteva
nel fucilare chi disobbediva agli ordini, tenente?» continuò Metzov rivol-
gendosi a Bonn.
«Io... non credo di potere fare questa minaccia, signore» disse Bonn con
fermezza.
E in ogni caso, pensò Miles, non ci troviamo in guerra, no?
«Tecnico!» disse Metzov disgustato. «Non parlavo di minacciare, ma di
fucilare. Dia un esempio e vedrà che gli altri si rimetteranno in riga.»
Miles decise che non doveva preoccuparsi troppo del senso dell'umori-
smo di Metzov. O il generale stava parlando sul serio?
«Signore, la fetaina è un violento mutageno» disse Bonn risoluto. «Non
sarei affatto certo che gli altri si rimetterebbe in riga, qualunque sia la mi-
naccia. È un tema piuttosto irragionevole. Io stesso... ho qualche difficoltà
a ragionarci su.»
«Me ne sono accorto» disse Metzov fissandolo con freddezza. Poi il suo
sguardo si spostò su Yaski, che deglutì e rimase sull'attenti, senza concede-
re nulla alla sua spina dorsale. Miles cercava di rendersi invisibile.
«Se voi tecnici volete continuare a far finta di essere degli ufficiali, ave-
te bisogno di una lezione su come ottenere obbedienza dai vostri uomini»
decise Metzov. «Riunite tutti e due la vostra squadra davanti all'ammini-
strazione entrò venti minuti. Avremo un piccolo sfoggio di disciplina vec-
chio stile.»
«Non starà seriamente pensando di fucilare qualcuno, vero?» Disse il te-
nente Yaski preoccupato.
Metzov sorrise acidamente. «Dubito che sarò costretto a farlo.» Poi
guardò Miles. «Qual è la temperatura esterna in questo momento, Ufficiale
Meteorologo?»
«Cinque gradi sotto zero, signore» rispose Miles, che stava bene attento
a parlare solo se interrogato.
«E il vento?»
«Ci sono venti provenienti da est a nove chilometri orari, signore.»
«Molto bene.» Gli occhi di Metzov scintillavano come quelli di un lupo.
«Potete andare, signori. Cercate di adempiere ai vostri ordini, stavolta.»
Il generale Metzov, con guanti pesanti e avvolto nel parka, era davanti
alla bandiera che si trovava di fronte all'edificio amministrativo, e fissava
la strada mezza illuminata. Che cosa stava cercando? Si domandò Miles.
Era quasi mezzanotte. Yaski e Bonn stavano mettendo in riga per la parata
le loro squadre, quindici uomini con le protezioni termiche e i parka indos-
so.
Miles rabbrividì, e non solo per il freddo. La faccia di Metzov aveva u-
n'espressione adirata. Stanca. Vecchia. E spaventata. A Miles ricordava la
faccia di suo nonno nelle giornate no. Anche se Metzov era addirittura più
giovane di suo padre; il padre di Miles era già di mezza età quando lui era
nato, una sorta di disallineamento generazionale. Suo nonno, il vecchio
conte generale Piotr, qualche volta gli era sembrato un rifugiato di un altro
secolo. In quel momento, la parata disciplinare vecchio stile stava ese-
guendo la messa in riga delle galosce. Quanto era tornata indietro nella
storia di Barrayar la mente di Metzov?
Metzov sorrise, un sorriso verniciato di rabbia, e ritornò a guardare un
movimento sulla strada. Poi, con voce orribilmente cordiale, confidò a Mi-
les: «Lo sa, guardiamarina, c'era un segreto dietro la rivalità ben coltivata
sulla vecchia Terra, tra i diversi corpi dell'esercito. In caso di ammutina-
mento si poteva sempre convincere l'esercito a sparare sulla marina, o vi-
ceversa, quando non riuscivano a mantenere la disciplina da soli. Per un
servizio combinato come il nostro è uno svantaggio».
«Ammutinamento!» Disse Miles, dimenticandosi che aveva preso la de-
cisione di parlare solo se interrogato. «Credevo che il problema fosse l'e-
sposizione al veleno.»
«Lo era. Sfortunatamente, per colpa della mancanza di polso di Bonn,
adesso è diventata una questione di principio.» Un muscolo nella mascella
di Metzov si contrasse. «Qualche volta doveva succedere, nel nuovo ordi-
ne. L'ordine dei rammolliti.»
Tipico modo di parlare del vecchio ordine, quel genere di stronzate, che
i vecchi si raccontano su come andavano le cose ai bei tempi.
«Una questione di principio, signore? Quale principio? Si tratta di sco-
rie» disse Miles con voce strozzata.
«Si tratta di un rifiuto di massa nell'obbedire a ordini diretti, guardiama-
rina. Quindi ammutinamento, secondo l'ordinamento di qualsiasi caserma.
Fortunatamente, questo tipo di cose sono facili da contenere, se ci si muo-
ve subito, finché sono ancora confuse e di scarsa entità.»
Il movimento che c'era in strada si rivelò essere un plotone di reclute
nelle loro tute bianche mimetiche, che marciavano guidate dal sergente
della base. Miles riconobbe il sergente come uno di quelli agli ordini per-
sonali di Metzov, un veterano che aveva servito Metzov fin dalla rivolta di
Komarr, e che aveva seguito il suo capo fin là.
Miles vide che le reclute erano state armate con distruttori nervini letali,
che erano armi puramente antiuomo. In tutto il tempo che avevano trascor-
so imparando questo tipo di cose, la possibilità di prendere in mano un'ar-
ma carica mortale era rara anche per le reclute più avanzate nell'addestra-
mento, e Miles poteva intuire il loro stato di eccitazione nervosa.
Il sergente allineò le reclute in posizione di fuoco incrociato intorno ai
tecnici immobili, e gridò rabbiosamente un ordine. Quelli mostrarono le
armi, che scintillavano con un riflesso argenteo alla luce diffusa dall'edifi-
cio dell'amministrazione, e presero la mira. Un mormorio di nervosismo si
diffuse tra gli uomini di Bonn. La faccia di Bonn era di un bianco spettrale,
e gli occhi di un nero lucido come l'ebano.
«Spogliatevi» ordinò Metzov a denti serrati.
Incredulità, confusione; solo due o tre tecnici avevano afferrato il senso
di ciò che era stato chiesto loro, e cominciarono a spogliarsi. Gli altri,
guardandosi intorno perplessi, li imitarono subito dopo.
«Quando sarete pronti a obbedire di nuovo agli ordini» continuò Metzov
con una voce altisonante che arrivava a ogni singolo soldato «allora potre-
te rivestirvi e andare a fare il vostro lavoro. Dipende da voi.» Fece un pas-
so indietro, poi annuì in direzione del sergente, e assunse la posizione di
riposo. «Questo li calmerà» mormorò tra sé e sé, ma con un tono di voce
alto abbastanza perché Miles cogliesse ciò che diceva. Metzov aveva l'aria
di chi si aspetta di rimanere in attesa non più di cinque minuti; sembrava
che già pensasse al suo alloggio riscaldato e a una bevanda calda.
Miles si accorse che Olney e Pattas erano tra i tecnici, insieme alla mag-
gior parte dell'organico di lingua greca che aveva tormentato Miles all'ini-
zio. Gli altri, Miles li aveva visti in giro o ci aveva parlato durante le sue
indagini private sul passato dell'uomo affogato, oppure li conosceva a mala
pena. I quindici uomini nudi avevano cominciato a tremare violentemente
man mano che la neve sfiorava loro le caviglie. Le quindici facce sconcer-
tate stavano cominciando ad assumere un'espressione terrorizzata, con gli
occhi che scivolavano sui distruttori nervini puntati su di loro. Arrendetevi,
li incitava Miles silenziosamente. Non ne vale la pena. Ma più di un paio
d'occhi incontrarono i suoi, e poi si richiusero con decisione.
Miles malediceva silenziosamente l'anonimo ingegnoso cervellone che
aveva inventato la fetaina come arma terrorizzante, non tanto per la sua
chimica, quanto per la sua influenza sulla psiche barraiarana. Se la fetaina
non era mai stata usata in passato, allora è possibile che non sarebbe stata
mai usata neanche in futuro. Qualsiasi fazione avesse cercato di farlo, a-
vrebbe dovuto sollevarsi contro se stessa e cadere in mille pezzi per le
convulsioni morali.
Yaski, che era dietro ai suoi uomini, sembrava letteralmente terrorizzato.
Bonn con l'espressione scura e fragile come ossidiana, cominciò a togliersi
i guanti e il parka.
No, no, no! gridò Miles dentro di sé. Se ti unisci a loro non torneranno
indietro. Penseranno di avere ragione. Terribile errore, terribile... Bonn
piegò il resto degli abiti in un mucchio, marciò in avanti, si unì alla fila, si
voltò di scatto, e incrociò lo sguardo di Metzov. Gli occhi di Metzov si
riempirono di una nuova furia. «Alla fine» sibilò «vi siete condannati da
soli. Congelatevi, allora.»
Come era potuto succedere che le cose precipitassero così in fretta? Sa-
rebbe stato il momento giusto per ricordarsi di un compito da svolgere nel-
l'ufficio meteorologico, e darsela a gambe. Se soltanto quei tremanti ba-
stardi si fossero arresi, Miles avrebbe potuto passare la notte senza intoppi.
Non aveva nessun dovere da svolgere lì, nessuna funzione...
Lo sguardo di Metzov cadde su Miles. «Vorkosigan, o lei è in grado di
prendere un'arma e rendersi utile, oppure si consideri congedato.»
Poteva andarsene. Poteva andarsene? Quando vide che non si muoveva,
il sergente si avvicinò e mise nelle mani di Miles un distruttore nervino.
Miles lo prese, mentre ancora si sforzava di pensare, con un cervello anda-
to ormai in pappa. Gli rimase giusto la lucidità sufficiente ad accertarsi che
ci fosse la sicura, prima di puntare il distruttore nella direzione degli uo-
mini che si stavano congelando.
Questo non è un ammutinamento, è un massacro.
Una delle reclute armate ridacchiò nervosamente. Che cosa gli avevano
detto che stavano facendo? Che cosa credevano di fare? Avevano diciotto,
forse diciannove anni, potevano mai essere in grado di riconoscere un or-
dine criminale? O sapere come reagire se gli capitava di riceverne uno?
E Miles?
La situazione era ambigua, era quello il problema. A metà anno suo pa-
dre veniva personalmente a tenere un seminario su quel tema per gli allievi
più anziani. Ne aveva fatto un requisito necessario per i diplomati, per de-
creto imperiale, quando era stato reggente. In che cosa consisteva esatta-
mente un ordine criminale, e come e quando disubbidirvi. Con prove fil-
mate che si riferivano a vari casi storici e cattivi esempi, incluso il politi-
camente disastroso massacro del solstizio, che si era verificato sotto lo
stesso comando dell'ammiraglio. Ogni volta uno o due cadetti erano co-
stretti a lasciare la sala durante quella parte, per andare a vomitare.
Gli altri istruttori detestavano il giorno di Vorkosigan. Le loro classi ne
rimanevano scosse per settimane. Motivo per cui l'ammiraglio Vorkosigan
non aspettava a presentarsi ad anno inoltrato. Quasi sempre era costretto a
ritornare gualche settimana dopo, per dissuadere qualche cadetto disturba-
to dal ritirarsi quando era arrivato quasi alla fine del proprio addestramen-
to. Per quello che ne sapeva Miles, solo i cadetti dell'Accademia riceveva-
no queste lezioni di vita, anche se suo padre diceva di volerle trasferire su
olovideo e farle diventare parte dell'intero addestramento di base del servi-
zio. Alcune parti del seminario erano state una rivelazione anche per Mi-
les.
Ma quella situazione... se i tecnici fossero stati dei civili, Metzov si sa-
rebbe chiaramente trovato dalla parte del torto. Se fossero stati in tempo di
guerra, incalzati da qualche nemico, Metzov si sarebbe comportato secon-
do i propri diritti e doveri. Ma quella situazione si trovava nel mezzo. I
soldati disubbidivano passivamente. E non c'era nessun nemico in vista. E
nemmeno una situazione di pericolo fisico, per chi viveva alla base (eccet-
tuati loro) almeno fino a quando il vento non cambiava. Non sono pronto
per questo, non ancora, non così presto. La mia carriera...
Un panico claustrofobico si impossessò di Miles, facendolo sentire come
un uomo con la testa intrappolata in una fogna. Il distruttore nervino gli
tremò leggermente tra le mani. Dall'altra parte del riflettore parabolico ve-
deva Bonn depresso, e ormai troppo congelato per discutere. Le orecchie
stavano diventando bianche e così le mani e i piedi. Un uomo si era accar-
tocciato in una palla tremante, ma non dava alcun segno di volersi arrende-
re. Era rimasta almeno la possibilità di un piccolo dubbio nella rigida testa
di Metzov?
Per un folle attimo Miles si vide togliere la sicura e sparare a Metzov. E
poi cosa avrebbe fatto, si sarebbe messo a sparare sulle reclute? Non sa-
rebbe riuscito a ucciderle tutte prima di restare ucciso lui stesso.
Probabilmente qui sono l'unico soldato, che non ha mai ucciso un nemi-
co né in battaglia né da qualsiasi altra parte. Le reclute potevano anche
sparare per ignoranza, o per curiosità. Non ne sapevano abbastanza per
non farlo. Ciò che faremo nella prossima mezzora continuerà a ripetersi
nella nostra mente finché avremo respiro.
Non poteva tentare di fare nulla. Solo eseguire gli ordini. In quanti guai
ci si poteva mettere, semplicemente eseguendo gli ordini? Qualsiasi co-
mandante avesse mai avuto si sarebbe trovato d'accordo nel sostenere che
lui doveva seguire meglio gli ordini. Allora pensi che ti potrebbe piacere il
tuo servizio navale, guardiamarina Vorkosigan, insieme alla tua combric-
cola di fantasmi congelati? Almeno non sarai mai solo...
Miles, sempre con il distruttore nervino in mano, fece qualche passo in-
dietro, allontanandosi dalle reclute, lontano dalla visuale di Metzov. Le la-
crime gli confondevano la vista. Senza dubbio per il freddo.
Si sedette per terra. Si tolse i guanti e gli stivali. Lasciò cadere il parka e
la camicia. Poi mise in cima al mucchio i pantaloni e la biancheria termica,
e ci poggiò sopra con cura il distruttore nervino. Si alzò e fece qualche
passo avanti. I supporti ortopedici contro i polpacci gli davano la stessa
sensazione di ghiaccioli.
Io odio la resistenza passiva. Sul serio, la odio davvero.
«Cosa diavolo crede di fare, guardiamarina?» ringhiò Metzov quando
Miles gli passò davanti zoppicando.
«Di farla finita con questa storia, signore» disse Miles con fermezza. Al-
cuni dei tecnici tremanti si allontanarono da lui, come se la sua deformità
potesse essere contagiosa. Ma Pattas non lo fece. E nemmeno Bonn.
«Bonn ha voluto questo bluff. E adesso se ne sta pentendo. Comunque
non funzionerà per lei, Vorkosigan.» La voce di Metzov tremava, anche se
non per il freddo.
Avrebbe dovuto dire "guardiamarina". Cosa c'è in un nome? Miles si
accorse del fremito di sgomento che attraversò le reclute, in quell'istante.
No, non aveva funzionato con Bonn. Miles poteva essere l'unico per il qua-
le quel tipo di intervento individuale poteva funzionare. Dipendeva da
quanto voleva spingersi oltre il folle Metzov.
Miles, a quel punto, parlò sia a beneficio di Metzov che delle reclute.
«Forse, è possibile che il servizio di sicurezza non indaghi sulla morte di
Bonn e dei suoi uomini, se lei camuffa la registrazione e afferma che si è
trattato di un incidente. Ma le garantisco che la Sicurezza Imperiale inda-
gherà sulla mia.»
Metzov fece uno strano ghigno. «Ma nell'eventualità che non sopravviva
nessun testimone da citare in giudizio?»
Il sergente di Metzov aveva lo stesso rigido aspetto del suo capo. Miles
pensò ad Ahn, all'ubriacone Ahn, al silenzioso Ahn. Che cosa aveva visto
Ahn, molto tempo prima, quando succedevano cose folli a Komarr? Che
tipo di testimone sopravvissuto era stato? Era forse colpevole? «S-s-scusi,
signore, ma vedo come minimo dieci testimoni, dietro quei distruttori ner-
vini.» Le paraboliche argentee, da quella nuova angolazione, sembravano
enormi, simili a piatti di portata. Il cambiamento di punto di vista era sor-
prendentemente chiarificante. Adesso non c'erano più ambiguità.
Miles continuò: «Oppure si ripropone di fucilare il suo plotone d'esecu-
zione e poi di sparare anche a se stesso? La Sicurezza Imperiale interro-
gherà chiunque. Lei non può farmi tacere. Vivo o morto, attraverso le mie
stesse labbra, o le sue, o le loro, comunque io testimonierò». Il corpo di
Miles era torturato dai brividi. Era sconvolgente l'effetto di quel piccolo
assaggio di vento dell'est, a quella temperatura. Lottava per non permettere
alla sua voce di tremare, per paura che il freddo fosse scambiato per paura.
«Sarà una magra consolazione per lei, guardiamarina, se si lascia conge-
lare.» Il pesante sarcasmo di Metzov urtò i nervi di Miles. Quell'uomo an-
cora credeva di vincere. Pazzo.
Stranamente i piedi di Miles avevano quasi caldo, adesso. Aveva le ci-
glia che scricchiolavano per il ghiaccio. Lui era colpito più velocemente
degli altri, in termini di congelamento mortale, senza dubbio per la sua
massa ridotta. Il suo corpo si stava ricoprendo di chiazze bluastre.
La base avvolta nella neve era immersa nel silenzio più totale. Riusciva
a sentire i singoli granelli di neve che svolazzavano sulle lastre di ghiaccio.
Sentiva le vibrazioni prodotte dalle ossa di ognuno degli uomini che gli
stavano intorno, percepiva il respiro terrorizzato delle reclute. Il tempo
stringeva.
Poteva cercare di minacciare Metzov, spezzandone l'autocompiacimento
con oscure frecciate a proposito di Komarr, la verità verrà a galla... Pote-
va appellarsi al rango di suo padre e alla sua posizione. Poteva... maledi-
zione! Metzov, pazzo o non pazzo, doveva rendersi conto che aveva supe-
rato i limiti. Il suo bluff della parata disciplinare non aveva funzionato e
adesso ci era rimasto incastrato, continuando a difendere ottusamente la
sua autorità fino alla morte. Può essere stranamente pericoloso, se lo mi-
nacci sul serio... Era difficile intuire la paura che si celava dietro a quel
sadismo. Eppure c'era... l'aggressività non stava funzionando. Metzov era
praticamente pietrificato nella sua resistenza. Come si sarebbe comportato,
allora?
«Ma rifletta, signore» disse Miles con tono persuasivo «sul vantaggio
che le procurerebbe fermarsi adesso. Lei adesso ha una prova lampante di
ammutinamento e di cospirazione. Può arrestarci tutti e condurci nella pri-
gione militare. È una vendetta migliore, perché in questo modo lei ottiene
tutto senza perdere nulla. Io perdo la mia carriera, ottenendo un congedo
disonorevole se non la prigione. Non crede che preferirei morire? Il servi-
zio di sicurezza punirà noi al suo posto. E lei otterrà tutto.»
Le parole di Miles lo avevano accalappiato; Miles lo vide, tra la luce
rossa che fluttuava nei suoi occhi socchiusi, nella leggera piega di quel
collo rigido come acciaio. Miles doveva soltanto lasciare che le cose pro-
cedessero da sole, astenersi dall'insistere e aspettare che si rinnovassero le
frenesie belliche di Metzov, doveva aspettare...
L'imponente figura di Metzov si avvicinò nella luce soffusa, in mezzo
all'aureola prodotta dal suo fiato gelato. Abbassò il tono di voce, per parla-
re al solo orecchio di Miles. «Una tipica soluzione moderata alla Vorkosi-
gan. Suo padre era stato molto permissivo con la feccia di Komarr. Ci ave-
va fatto perdere dei soldati. La corte marziale per il figlioletto dell'ammi-
raglio. La cosa potrebbe mettere in difficoltà un santerellino come te, eh?»
Miles inghiottì la saliva ghiacciata. Quelli che non conoscono la propria
storia, pensò confusamente, sono destinati a intervenirvi. Ahimè, allora
c'era chi lo faceva, almeno sembrava. «Date fuoco a quella maledetta fe-
taina» mormorò con voce roca «e vediamo.»
Il tenente Yaski aveva preso l'opportunità che si era presentata con la
concentrazione d'attenzione dovuta all'arrivo di Miles al centro della scena
per scomparire alla chetichella nell'edificio amministrativo e andare a fare
alcune frenetiche telefonate. Ma quando il comandante delle reclute, il
medico della base, e il secondo di Metzov arrivarono, pronti a persuadere o
forse anche a somministrare a Metzov un sedativo e poi portarlo via, la de-
cisione era già stata presa. Miles, Bonn e i tecnici si erano già rivestiti e
stavano marciando verso il magazzino che ospitava la prigione militare,
sotto gli occhi ardenti dei distruttori nervini.
«Si p-presume che ti debba r-ringraziare per questo?» domandò Bonn a
Miles battendo i denti. Le mani e i piedi oscillavano; sembravano due pa-
ralitici; poi Bonn si appoggiò a Miles, Miles si appese a lui e avanzarono
zoppicando insieme lungo la strada.
«Abbiamo ottenuto ciò che volevamo, no? Lui darà fuoco alla fetaina
prima che nella mattinata il vento cambi. Nessuno morirà. A nessuno si
ghiacceranno le cervella. Abbiamo vinto. Credo.» Miles emise un risolino
mortale tra le labbra intirizzite.
«Non credevo» ansimò Bonn «che avrei mai incontrato qualcuno ancora
più pazzo di Metzov.»
«Io non ho fatto nulla che non abbia fatto anche tu» protestò Miles. «So-
lo che ho fatto in modo che funzionasse. O quasi. Tutto, comunque, sem-
brerà diverso domani mattina.»
«Sì. Peggiore» affermò Bonn in modo lugubre.
IL COMPAGNO
di Poul Anderson
La condanna di chi
ha una vita più del diavolo...
Una nave stava effettuando un carico al molo Claudiano. Era stata pro-
gettata per le traversate transoceaniche, aveva due alberi, e il suo ventre
nero e rotondo poteva contenere un carico di un migliaio di tonnellate. Il
dritto di poppa dorato, che si inarcava alto sugli ordini di remi seguendo la
forma del collo e della testa di un cigno, era anch'esso indizio di ricchezza.
Lugo andò a informarsi. Diretto più o meno da quelle parti, aveva fatto una
deviazione con l'idea di dare un'occhiata a quello che succedeva al porto.
Si preoccupava di tenersi sempre aggiornato.
Gli stivatori erano degli schiavi. Nonostante fosse appena mattina, vide
che gli uomini, i quali trasportavano delle grandi giare, una per ogni due
schiavi, avevano già il corpo lucido e puzzolente di sudore mentre traspor-
tavano il loro carico dal molo sulla passerella. La brezza che arrivava dal
fiume mescolava le zaffate di pece fresca della nave con il loro odore. Il
caposquadra era lì vicino a controllare, e Lugo gli si avvicinò.
«È la Nereide» gli rispose «Ha un carico per la Britannia di vino, cristal-
li, seta, e non so che altro. Il capitano vuole approfittare della marea di
domani mattina presto per salpare. Ehi, tu!» Con la frusta sferzò una
schiena nuda. La frusta era formata da un unico cordone e non era pesante,
ma lasciò il segno tra le scapole e il perizoma. «Muoviti!» Lo schiavo gli
lanciò uno sguardo torvo e disperato e si trascinò stancamente verso il de-
posito in cui si trovava il carico successivo. «Devo dargli una rinfrescatina
abbastanza spesso» spiegò il caposquadra «altrimenti perdono il ritmo, di-
ventano pigri, e se ne stanno seduti a non fare nulla. Ma non basta mai».
Sospirò. «Ci vorrebbero degli uomini liberi, almeno in tempi difficili come
questi si potrebbe licenziarli, per poi richiamarli quando servono. Se inve-
ce sei uno schiavo a vita...»
«È incredibile che questa nave sia in partenza» disse Lugo. «Non do-
vrebbe attrarre i pirati come mosche su una carcassa? Ho sentito dire che i
Sassoni e gli Scoti stanno trasformando le spiagge armoriche in una distesa
incenerita».
«La stirpe dei Caelii è sempre stata coraggiosa, e ti garantisco che si può
ricavare un grande profitto quando sono pochi quelli che osano navigare»
rispose il caposquadra.
Lugo annuì, accarezzandosi il mento, poi mormorò: «I pirati di solito
colpiscono vicino alla costa. Senza dubbio sulla Nereide ci saranno delle
guardie e l'equipaggio sarà armato. Se dovessero profilarsi all'orizzonte
delle navi barbare, gli Scoti probabilmente non riuscirebbero a scalare le
fiancate perché troppo alte per le loro piccole imbarcazioni, e le galene
sassoni non le raggiungerebbero mai, neppure con il vento favorevole».
«Parli come un marinaio ma non ne hai l'aspetto» disse il caposquadra
con un'occhiata attenta. Il sospetto era all'ordine del giorno. Aveva di fron-
te un uomo di statura media, di aspetto forte e giovane; con il viso stretto e
gli zigomi alti, il naso aquilino e occhi castani leggermente obliqui capelli
scuri e barba ben curata, come se fosse appena uscito dal barbiere; indos-
sava una tunica bianca immacolata e un mantello blu con il cappuccio tira-
to indietro; calzava sandali robusti e aveva in mano un bastone, nonostante
camminasse con agilità.
Lugo alzò le spalle. «Ho girato molto e mi piace parlare con la gente.
Come con te, adesso.» Gli sorrise. «Ti ringrazio di avere soddisfatto la mia
curiosità, e ti auguro una buona giornata.»
«Che Dio sia con te» rispose il caposquadra, disarmato, poi riportò la
sua attenzione sugli scaricatori.
Lugo proseguì il suo giro. Quando si trovò di fronte alla chiusa succes-
siva, si fermò ad ammirare il panorama verso levante. Le sue ciglia scher-
marono la luce del sole che si frastagliò in riflessi arcobaleno.
Davanti a lui scorreva il Garunna, diretto verso la confluenza con il Du-
ranio, con cui condivideva l'estuario e lo sbocco al mare. Lungo i sei chi-
lometri di acqua splendente navigavano diverse barche a remi, un pesche-
reccio che risaliva a remi la corrente con il suo carico e una vistosa vela a
tarchia innalzata su una piccola imbarcazione. La terra dall'altro lato era di
un verde intenso; Lugo guardò le pareti brune e le tegole rosate di due ville
circondate da vigne, mentre volute di fumo si alzavano dai più poveri tetti
di paglia. C'erano uccelli ovunque, pettirossi, passeri, gru, anatre, un falco
su una altura, un martin pescatore di un blu sorprendente. Sentiva i loro ri-
chiami che si levavano in mezzo allo sciabordio e al fruscio del fiume. Era
difficile immaginare che i selvaggi germani imperversassero alle porte di
Lugduno, e che la città principale della Gallia centrale potesse essere in
quel momento caduta nelle loro mani, a poco meno di trecento miglia da lì.
O forse era anche troppo facile da immaginare. Lugo serrò le labbra.
Andiamo, si disse. Era più incline di altri alle fantasticherie, e aveva poche
scusanti di quei tempi. La vicinanza dei Germani gli era stata risparmiata
fino ad allora, ma i segni intorno a lui si facevano più chiari, giorno dopo
giorno. Si girò e rientrò in città.
La porta era piccolissima, una feritoia per le sortite tra le mura, che con
le torri e i bastioni creavano un quadrato intorno a Burdigala. Una sentinel-
la armata, mezza addormentata, era appoggiata contro le mura di pietra
scaldate dal sole. Era un ausiliario, un germano. Le legioni erano in Italia o
ai confini, e ormai erano solo l'ombra di ciò che erano state un tempo. Nel
frattempo i Barbari avevano strappato agli imperatori il permesso di stabi-
lirsi nei territori romani. In cambio, erano tenuti a obbedire alle leggi e a
prestare servizio militare; ma attorno, a Lugduno, si erano ribellati...
Lugo proseguì, passando attraverso il pomerio scoperto, lungo una stra-
da che riconobbe come la via Vindomariana, che proseguiva serpeggiando
tra edifici le cui mura scoprivano solo una striscia di cielo; i ciottoli irrego-
lari di quel viottolo oscuro, che probabilmente risaliva all'epoca in cui il
luogo era occupato solo dai Biturgi, erano ricoperti di rifiuti maleodoranti.
Comunque, Lugo si era preso la briga di imparare a riconoscere le strade di
tutta la città, sia dei quartieri vecchi che di quelli nuovi.
Non c'era una gran folla, e si trattava soprattutto di gente vestita mise-
ramente. Donne di casa che chiacchieravano portando al fiume i panni da
lavare, o trasportavano secchi d'acqua dal più vicino sbocco dell'acquedot-
to o cesti di verdure comprati al mercato locale. Uno schiavo spuntò da
sotto un carico pesante quasi quanto quello del carretto che si trovò di
fronte; sia lui che il conducente del carretto imprecarono, cercando tutti e
due di passare per primi. Un garzone che trasportava la lana per il suo pa-
drone si fermò a scherzare con una ragazza. Due contadini con giacche e
calzoncini all'antica, probabilmente degli allevatori di bestiame, discuteva-
no con un accento talmente ricco di termini gallici che Lugo riuscì a mala-
pena a capire quello che dicevano. Un ubriaco, un lavoratore a giudicare
dalle sue mani, e senza lavoro a giudicare dalle sue condizioni, barcollava
qua e là in cerca di allegria e di zuffe; la disoccupazione si era diffusa da
quando gli sconvolgimenti del decennio precedente avevano schiacciato il
commercio, che già attraversava un periodo di decadenza. Una prostituta
pateticamente addobbata, che andava in cerca di clienti nonostante fosse
ancora presto, sfiorò Lugo. Lui portò la mano sul borsellino che teneva alla
cintola, ma per il resto la ignorò. Un mendicante gobbo chiedeva lamento-
samente elemosine nel nome di Cristo, ma vedendosi comunque ignorato,
provò con Giove, Mitra, Oside, la Grande Madre, ed Epona dei Celti; infi-
ne si mise a lanciare maledizioni alle spalle di Lugo. C'erano ragazzini con
i capelli arruffati e le camiciole sudicie che facevano le loro commissioni o
giocavano. Sentì per loro un nodo di commozione in gola.
I suoi tratti levantini erano ciò che lo distingueva maggiormente dagli al-
tri. Burdigala era una città cosmopolita: l'Italia, la Grecia, l'Africa e l'Asia
vi avevano elargito il proprio sangue. Tuttavia la maggioranza degli abi-
tanti aveva conservato i tratti degli antenati: costituzione forte, testa tonda,
capigliatura scura ma pelle chiara. Parlavano latino con un'intonazione na-
sale di cui non era mai riuscito a impadronirsi.
Un negozio di vasi, con la merce esposta e da cui proveniva il rumore
del tornio, segnava il punto in cui doveva voltare per infilarsi nella più
ampia via Teutatis, che negli ultimi tempi il vescovo stava cercando di
convincere gli abitanti a trasformare in via san Giovanni. Era il percorso
più veloce, attraverso quel labirinto, per arrivare in via Madre Thornbeson,
dove viveva l'uomo che cercava. Rufus forse non era in casa, ma di sicuro
non era al lavoro. Il cantiere navale non riceveva ordinazioni da più di un
anno, e gli uomini che ci lavoravano dipendevano ora dallo stato anche per
il pane; i circhi si limitavano a qualche occasionale combattimento tra orsi
e cani o cose del genere. Se Rufus non era in casa, Lugo era pronto a gi-
ronzolare senza dare nell'occhio fino al suo ritorno. Aveva imparato a esse-
re paziente.
Aveva appena percorso un centinaio di metri quando sentì urla e schia-
mazzi. Anche altri se ne erano accorti e si erano fermati ad ascoltare, con
la testa inclinata di lato e gli occhi socchiusi. Quasi tutti iniziarono ad an-
darsene. I commercianti e i garzoni si prepararono a chiudere le porte e le
imposte. Un gruppetto di uomini, pregustando la scena, si avviò nella dire-
zione da cui proveniva il rumore. Il tumulto attraeva i rissosi. Il baccano
aumentò, smorzato dalle case e dai vicoli contorti, ma ugualmente incon-
fondibile. Lugo lo conosceva da tempo, quel ringhio profondo ed eccitato,
le grida e i lamenti. La folla stava dando la caccia a qualcuno.
Con un brivido capì chi poteva essere la preda. Si fermò per un attimo.
Valeva la pena di correre il rischio? Cordelia, i bambini, lui e la sua fami-
glia potevano avere ancora davanti trenta o quarant'anni insieme.
Poi si decise. Doveva almeno andare a vedere se la situazione era o no
senza speranza. Si coprì la testa con il cappuccio del mantello. C'era una
fodera cucita sul bordo, che si calò sul viso. Riusciva a vedere abbastanza
bene attraverso la garza, ma il viso rimaneva nascosto. Lugo aveva impa-
rato a tenersi pronto.
Una pattuglia militare avrebbe potuto stupirsi vedendolo, e fermarlo per
interrogarlo. Ma se ci fosse stata nelle vicinanze una pattuglia, il branco
non avrebbe inseguito Rufus. Piuttosto, pensò Lugo facendo una smorfia,
Rufus poteva essere arrestato.
Lugo si mosse incontro al tumulto che avanzava e gli sembrava sempre
più vicino. Si spostava un po' più velocemente di chi cercava guai, ma non
abbastanza da attirare l'attenzione. Il cappuccio gli copriva il viso e lo na-
scondeva alla vista altrui: forse nessuno lo avrebbe notato. Dentro di sé re-
citava vecchi scongiuri contro il pericolo. Non permettere che la paura ti
colga, tieni i nervi sciolti e i sensi attenti, pronto in ogni momento a gettar-
ti nel turbine dell'azione. Resta calmo, vigile, e agile; calmo, vigile e agi-
le...
Raggiunse piazza Ercole quasi contemporaneamente all'uomo in fuga. Il
nome della piazza derivava da una statua consunta dell'eroe. Da essa si di-
partivano diverse strade. Arrivò di corsa un uomo tarchiato, con tratti gros-
solani coperti di lentiggini, i capelli sottili e una barba incolta di un insolito
color rossastro. La tunica che gli svolazzava contro le membra vigorose
era inzuppata e puzzava di sudore. Deve essere proprio Rufus, pensò Lugo,
visto che probabilmente "Rufus", che in latino significava rosso, era un so-
prannome.
Il fuggitivo aveva una costituzione forte, ma poco adatta alla velocità. I
suoi inseguitori gli erano alle calcagna. Erano circa una cinquantina, in a-
biti grigiastri, proletari come i suoi, rammendati più volte. C'erano anche
delle donne, con riccioli selvaggi, come quelli di Medusa intorno alle facce
da menadi. Molti avevano con sé le armi che erano riusciti a prendere al
volo, un coltello, un martello, un bastone, una pietra. Tra i loro latrati ir-
rompevano gli insulti: «Stregone!... Infedele!... Satana!... a morte...» Fu
scagliata una pietra che colpì Rufus in mezzo alle spalle. Barcollò per un
attimo e poi si allontanò velocemente. Aveva la bocca tirata, il petto che si
sollevava, gli occhi sbarrati come se fosse cieco.
Lo sguardo di Lugo ebbe un guizzo. Qualche volta non poteva aspettare
di vedere come andavano le cose, doveva prendere una decisione imme-
diata. Calcolò la posizione, le distanze, la velocità e il carattere della folla.
In mezzo alle loro urla di odio serpeggiava il terrore. Valeva la pena fare
un tentativo di salvataggio. Se avesse fallito, sarebbe riuscito a fuggire
senza rimanere ferito in modo grave; e le ferite sarebbero guarite in fretta.
«Vieni con me, Rufus!» gridò. Poi si rivolse alla folla: «Fermi! State
lontani, cani delinquenti!»
L'uomo che li capeggiava lo guardò ringhiando. Lugo sollevò il bastone
tra le mani. Era di quercia. Ne aveva perforato le estremità e le aveva
riempite di piombo. Fece roteare il bastone e assestò un colpo. L'uomo
lanciò un grido. E annaspò. Probabilmente gli aveva rotto una costola. Con
la sua arma Lugo ne colpì un altro sotto lo sterno. L'aria gli schizzò fuori
dai polmoni. Poi colpì un terzo uomo sulla rotula. L'uomo urlò di dolore e
crollò addosso ad altri due uomini che gli erano alle spalle. Allora una
donna avanzò brandendo una scopa. Lugo gliela strappò di mano e la colpì
sulle mani. Forse rompendole un paio d'ossa.
La folla indietreggiò, accalcandosi, farfugliante e lamentosa. Lugo, da
dietro il bastone, che roteava così rapidamente da essere quasi invisibile,
digrignò i denti verso la folla e verso gli altri attaccabrighe che si stavano
aggiungendo. «Andatevene a casa» gridò. «Credete di avere la legge di
Cesare nelle vostre mani? Andatevene!»
Qualcuno tirò un sasso. Ma mancò l'obiettivo. Lugo menò un colpo con-
tro la testa più vicina. Stava tenendo la propria forza sotto controllo. La si-
tuazione era già abbastanza brutta e non c'era alcun bisogno di causare dei
morti; che immediatamente avrebbero provocato reazioni ufficiali. Ciono-
nostante la ferita che aveva provocato si mise a sanguinare in modo appa-
riscente, e il rosso brillante del sangue immediatamente ricoprì la pelle e il
lastricato, scioccando gli spettatori.
Rufus respirava affannosamente. «Andiamocene» mormorò Lugo.
«Cammina lento e tranquillo. Se ci mettiamo a correre, ci inseguiranno di
nuovo.» Indietreggiò, continuando a far roteare il bastone, e continuando a
esibire il suo ghigno più selvaggio. Con la coda dell'occhio vide che Rufus
si metteva alla sua destra. Bene. Aveva deciso di usare il buon senso.
Le belve emettevano borbottii indistinti, con la bocca spalancata per lo
stupore. I feriti ululavano. Lugo s'infilò nella strada stretta che aveva scel-
to. La strada curvava dietro un agglomerato di baracche, ed Ercole sparì
dalla sua vista. «Adesso sbrighiamoci» disse rapidamente, guardandosi in-
torno. «No, sei pazzo» disse afferrando Rufus per la manica. «Non correre.
Cammina.»
Qualcuno tra quelli che avevano assistito alla scena lì guardò con diffi-
denza ma non si intromise. Lugo si tuffò nel primo vicolo che sbucava in
un'altra strada. Quando furono soli nel mezzo di quella strada puzzolente,
disse: «Fermati». Si mise il bastone sottobraccio e sciolse la fibula che as-
sicurava il cappuccio al mantello. «Copriti con questo.» Prima di coprire i
capelli ben riconoscibili del suo compagno, sistemò la fodera dentro il
cappuccio. «Perfetto. Siamo due uomini che se ne vanno tranquillamente
per i fatti loro. Hai capito?»
L'artigiano lo guardò di sottecchi da sotto il cappuccio. Il sudore lucci-
cava nella poca luce rimasta. «Chi, chi sei?» La voce gli tremava molto.
«Che cosa vuoi?»
«Vorrei salvarti la vita» rispose Lugo freddamente. «Ma non ho nessuna
intenzione di rischiare la mia. Fa' ciò che ti dico e presto saremo al sicuro».
Ma vedendo che l'altro aveva ancora un'espressione confusa e dubbiosa,
Lugo aggiunse: «Rivolgiti pure alle autorità se preferisci. Vacci immedia-
tamente, prima che i tuoi affezionati vicini riprendano coraggio e vengano
a cercarti. Racconta al prefetto che ti accusano di stregoneria. Tanto lo
scoprirà comunque. Così quando verrai interrogato sotto tortura, avrai il
tempo di pensare a come provare la tua innocenza. La stregoneria è un rea-
to per cui è prevista la pena capitale, dovresti saperlo».
«Ma tu...»
«Io non sono più colpevole di quanto lo sia tu. Penso che possiamo aiu-
tarci l'un l'altro. Se non sei d'accordo, addio. Altrimenti, seguimi, e tieni la
bocca chiusa.»
La sua corporatura tarchiata era scossa dal fiato rantolante. Rufus si infi-
lò il mantello e s'incamminò. Man mano che procedevano, e non succede-
va nulla di avverso, il suo passo si alleggeriva. Si erano semplicemente
mescolati al viavai delle strade. «Forse a te sembra la fine del mondo» os-
servò Lugo a bassa voce. «Invece si è trattato di un semplice tafferuglio
locale. Nessun altro lo sa, e se lo sa non se ne preoccupa. Ho visto la gente
continuare a occuparsi dei propri affari mentre i nemici abbattevano le por-
te.»
Rufus gli diede un'occhiata, deglutì, e rimase zitto.
La casa di Lugo si trovava nel settore nord-est, lungo la strada dei sanda-
lai, una zona tranquilla. Era una casa semplice, piuttosto vecchia, con lo
stucco che si staccava qua e là dalle parti in muratura. Lugo bussò. Il suo
servo di fiducia venne ad aprire la porta. Teneva con sé solo pochi schiavi,
scelti attentamente e vagliati negli anni. «Quest'uomo e io abbiamo affari
confidenziali di cui discutere, Perseo» disse. «Forse resterà con noi per un
po'. Desidero che non venga disturbato in alcun modo.»
Il cretese annuì e fece un sorriso ammiccante. «Ho capito, padrone» ri-
spose. «Informerò gli altri.»
«Possiamo fidarci di loro» disse Lugo rivolgendosi a Rufus. «Sanno di
trovarsi in una situazione comoda.» Poi disse a Perseo: «Come puoi vede-
re, e sentire, il mio amico si è trovato in una situazione difficile. Lo allog-
geremo nella Camera Bassa. Prepara immediatamente dei rinfreschi; e por-
ta dell'acqua, non appena riuscirai a riscaldarne una quantità decente, con
spugne e asciugamani; e abiti puliti. Il letto è pronto?»
«È sempre pronto, padrone.» Lo schiavo sembrava un po' offeso. Rima-
se un attimo pensieroso. «Per quanto riguarda i vestiti, i vostri, padrone,
non sono della misura giusta. Li prenderò in prestito da Durig. O preferite
che ne acquisti di nuovi?»
«Di questo ci occuperemo più avanti» decise Lugo. Aveva bisogno di
tutto il contante possibile in caso di problemi. Escludendo le monetine di
scarso valore, che occupavano troppo spazio, mentre un solidus di oro e-
quivaleva a circa quattordicimila monete. «Durig è il nostro factotum»
spiegò a Rufus. «Per il resto abbiamo una cuoca di talento e un paio di
giovani serve. È una famiglia modesta.» Qualche dettaglio casalingo pote-
va rilassarlo. E lui voleva che Rufus fosse disposto a rispondere alle sue
domande il più presto possibile.
Dall'entrata si spostarono nell'atrio. Era una stanza graziosa, ugualmente
semplice, illuminata dalla luce del sole che attraverso le finestre piombate
diventava verdastra. Al centro del pavimento c'era un mosaico che mostra-
va una pantera circondata da pavoni. Sulle pareti erano incastonati dei
pannelli di legno che rappresentavano i temi consueti, c'era il Pesce e Chi
Rho tra i fiori, e un Buon Pastore dagli occhi misericordiosi. A partire dal
regno di Costantino il Grande, era stato un espediente sempre più diffuso
per professare la Cristianità, soprattutto quella cattolica. Lugo continuava a
essere un catecumeno; il battesimo l'avrebbe gravato di doveri poco con-
venienti. La maggior parte dei credenti si faceva battezzare solo dopo aver
raggiunto un'età avanzata.
Sua moglie l'aveva sentito arrivare e gli venne incontro. «Benvenuto, ca-
ro» disse allegramente. «Sei tornato presto.» Lo sguardo le cadde su Rufus
e l'espressione le si fece preoccupata.
«Quest'uomo e io abbiamo degli affari urgenti» le disse Lugo. «Si tratta
di questioni molto confidenziali. Hai capito?»
Lei sentì un nodo in gola, ma annuì. «Ti saluto e ti do il benvenuto» dis-
se salutandolo con voce sommessa.
È una donna in gamba, pensò Lugo. Era difficile toglierle gli occhi di
dosso. Cordelia aveva diciannove anni, era piccola ma armoniosa, aveva i
lineamenti delicati e teneva le labbra sempre leggermente socchiuse sotto
una massa di lucidi capelli castani. Erano sposati da quattro anni e lei gli
aveva dato due bambini fino a quel momento, tutti e due ancora vivi. Con
il matrimonio lui aveva acquisito alcuni contatti utili, visto che il padre di
lei era un curiale, anche se non si era nemmeno parlato di una dote, perché
la classe curiale era schiacciata da tasse e dazi municipali. Ma la cosa più
importante per la coppia era che erano stati attratti l'uno dall'altra, così il
matrimonio era diventato un piacere ancora maggiore.
«Marcus, ti presento mia moglie, Cordelia» disse Lugo. Quello era un
nome di sicurezza che utilizzava di frequente. Rufus fece un breve inchino
e borbottò qualcosa. Poi Lugo si rivolse a lei: «Ci metteremo immediata-
mente al lavoro. Perseo si occuperà di tutto ciò che è necessario. Ti rag-
giungerò non appena mi sarà possibile».
Lei li accompagnò con lo sguardo mentre Lugo conduceva via il suo
compagno. Che si fosse accorto dei suoi sospiri? Fu presa da un panico
improvviso. Lui se ne era andato pieno di speranza, una speranza così pri-
mitiva che aveva dovuto cercare di negarla, di rimproverarsi per averla.
Adesso si rendeva conto a cosa avrebbe potuto portare la realtà.
Non voleva pensarci. Non subito almeno. Un passo, due passi, prima il
piede sinistro, poi il piede destro, era questo il modo di marciare nel tem-
po.
La Camera Bassa era al piano di sotto, faceva parte del sotterraneo che
Lugo aveva dovuto mettere a posto dopo avere comprato la casa. Era un
nascondiglio abbastanza comune da non dare nell'occhio. Spesso i posti di
quel genere erano utilizzati per pregare e per cerimonie private. Nei pro-
getti di Lugo, gli era risultato chiaro che poteva essere usato come luogo
lontano dalle indiscrezioni. La cella, di pianta quadrata, era larga circa tre
metri e alta due. Tre piccole finestre proprio sotto al soffitto si affacciava-
no all'altezza del suolo sul giardino peristilio. Il vetro era così spesso e on-
dulato da impedire la vista, ma la luce che filtrava all'interno si rifletteva
su pareti di un bianco immacolato, ravvivando l'oscurità di quel momento.
Accanto a una pietra focaia, c'erano delle candele di sego poggiate su un
ripiano, un acciarino e dello stoppaccio infiammabile. L'arredamento era
costituito da un letto, uno sgabello, e un vaso da notte poggiato sul pavi-
mento di terriccio.
«Siediti» lo invitò Lugo. «Riposati. Sei salvo, amico mio, salvo.»
Rufus si sedette sullo sgabello. Si tolse il cappuccio ma tenne stretto il
mantello intorno alla tunica; quel posto era gelido. Sollevò la testa rossa
con un gesto di provocazione disperata. «Ma chi diavolo sei?» disse con
un grugnito.
Il suo ospite si appoggiò al muro e sorrise. «Flavius Lugo» disse. «E
credo che tu invece sia un carpentiere disoccupato del cantiere navale, che
si fa chiamare Rufus. Qual è il tuo vero nome?»
Pronunciò un'oscenità, poi aggiunse: «Che te ne frega?»
Lugo alzò le spalle. «Poco o niente. Credo. Potresti essere più gentile
con me. Quella marmaglia avrebbe potuto ucciderti.»
«E tu cosa centri in tutto questo?» La replica fu rabbiosa. «Perché ti ci
sei immischiato? Ascolta, non sono uno stregone. Non ho mai voluto avere
niente a che fare con la magia o col mondo pagano. Io sono un buon cri-
stiano, un cittadino romano libero.»
Lugo sollevò un sopracciglio. «Non ti è mai capitato di fare un'offerta in
qualche altro posto che non fosse una chiesa?» mormorò.
«Ma, ehm, be'... a Epona, quando mia moglie era in fin di vita...» Rufus
fece il gesto di alzarsi. Lui assunse un'espressione cattiva. «Sporco Cerun-
no! Tu sei uno stregone?»
Lugo sollevò una mano. Poi con la mano sinistra fece una mossa con il
bastone, un gesto piccolo ma significativo. «No. E non sono nemmeno ca-
pace di leggerti il pensiero. In ogni caso, le vecchie abitudini sono dure a
morire, anche nelle città; inoltre in campagna la maggioranza della popo-
lazione è pagana e a giudicare dal tuo aspetto e dal tuo modo di parlare, di-
rei che la tua famiglia una o due generazioni fa appartenesse ai Cadurci
delle colline sopra la valle del Duranio.»
Rufus si rimise seduto. Per un minuto il respiro gli si fece affannoso. In-
fine, lentamente, cominciò a rilassarsi. Poi fece una specie di sorriso in ri-
sposta a quello di Lugo. «I miei genitori appartengono a quella razza» bor-
bottò. «Il mio vero nome è Cotuadun, ehm, comunque tutti mi chiamano
Rufus. Sei un tipo perspicace.»
«È il modo in cui mi guadagno da vivere.»
«Ma nemmeno tu sei un Gallo. Chiunque può avere il nome di Flavius,
ma Lugo? Da dove vieni?»
«Mi sono stabilito a Burdigala un po' di anni fa.» Un colpo sulla porta di
legno arrivò a proposito. «Ah, ecco che arriva l'eccellente Perseo con i rin-
freschi che ho ordinato. Credo che tu ne abbia un po' più bisogno di me.»
Il servo portò un vassoio su cui c'erano delle caraffe con vino e acqua,
tazze, pane, formaggio, e una ciotola di olive. Lo poggiò sul pavimento, e
a un cenno di Lugo uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
Lugo si sdraiò sul letto, stese la mano verso le vettovaglie, versò da bere,
e offrì a Rufus una bevanda non molto diluita. La sua invece la diluì bene
con l'acqua.
«Alla tua salute» brindò. «Oggi stavi quasi per perderla.»
Rufus ingollò un lungo sorso. «Ahhh! Che mi venga un colpo se non mi
farà sentire meglio». Diede una rapida occhiata nell'oscurità al suo salvato-
re. «Perché l'hai fatto? Che cosa sono per te?»
«Mah, forse perché quella gentaglia non aveva alcun diritto di ucciderti.
Questo è un compito dello stato, una volta provato che sei colpevole, cosa
che non credo tu sia. Ho dovuto sostenere la legge.»
«Tu mi conoscevi già.»
Lugo bevette un sorso. Il vino era falerniano, di gusto dolce per il palato.
«So qualche cosa di te» disse. «Voci che mi sono giunte all'orecchio. È na-
turale. Mi tengo informato su ciò che accade. Ho i miei agenti. Nulla che
debba spaventarti, non si tratta di agenti segreti. Ma di ragazzi di strada,
per esempio, che si guadagnano una moneta venendomi a riferire qualun-
que cosa sia degna d'interesse. Ho deciso di venirti a cercare e di saperne
di più. È stata una bella fortuna per te che sia successo nel momento e nel
luogo giusto per poterti strappare dalle mani di quei brutti ceffi.»
Una domanda gli percorse le membra come un brivido: quante occasioni
aveva perso in tutti quegli anni, e a causa di quali insignificanti circostan-
ze? Non condivideva la diffusa fede nell'astrologia di quei tempi. Preferiva
pensare che fosse la pura e semplice casualità a far girare il mondo. Forse
oggi i dadi avrebbero fatto il suo gioco.
Se c'era un gioco. Se esisteva qualcuno come lui, o era mai esistito, da
qualche parte sotto il cielo.
Rufus spostò in avanti la testa dalle stanche spalle. «Perché l'hai fatto?»
chiese seccamente. «Che diavolo vai cercando?»
Adesso bisognava che si calmasse. Lugo considerò l'impazienza che
provava lui stesso, che per metà era paura. «Bevi il tuo vino» disse «e a-
scoltami, ti spiegherò tutto. Forse questa casa ti ha fatto pensare che io sia
un curiale, o un bottegaio piuttosto ricco, o qualcosa del genere. Non è co-
sì.» Non lo era più da un bel po'. Il decreto di Diocleziano aveva congelato
tutti nello status di nascita, incluse le classi intermedie. Ma piuttosto che
essere prosciugati, goccia dopo goccia, da tasse ingenti, circolazioni mone-
tarie prive di valore, e da scambi moribondi, un numero sempre maggiore
stava fuggendo. Se ne andavano, cambiavano il proprio nome, diventavano
servi o direttamente schiavi, lavoratori itineranti illegali e saltimbanchi;
qualcuno si univa al Bacaude le cui bande di malviventi terrorizzavano le
zone rurali, altri addirittura seguivano i barbari. Lugo aveva scelto una
strada migliore per se stesso, che andava ben oltre la pura necessità. Aveva
imparato a guardarsi intorno.
«Attualmente sono al servizio di un certo Aureliano, senatore di questa
città» continuò.
Rufus lanciò lampi di ostilità. «Ho sentito parlare di lui.»
Lugo alzò le spalle un'altra volta. «Sì, ha fatto strada nel suo ordine ge-
rarchico, ed è anche più corrotto dei suoi colleghi. E allora? È un uomo a-
stuto e sa che gli conviene essere leale nei confronti di chi lavora per lui.
Ai senatori non è permesso intraprendere dei commerci, dovresti saperlo,
ma lui ha molti interessi. Così ha bisogno di intermediari che non siano
semplici figure di facciata. Io vado in giro per lui, avanti e indietro, fiutan-
do i pericoli e le possibilità, porto messaggi, eseguo incarichi che richie-
dono discrezione, e offro consigli quando è necessario. Ci sono modi peg-
giori di guadagnarsi la vita. Già, ce ne sono di molto meno onorabili.»
«Che cosa vuole da me questo Aureliano?» domandò Rufus a disagio.
«Niente. Lui non ha mai sentito parlare di te. E se Dio vuole non ne sen-
tirà mai parlare. Sono venuto a cercarti per me. Noi potremmo essere di
grande vantaggio l'uno per l'altro.» Lugo inasprì il tono di voce. «Non fac-
cio nessuna minaccia. Se non sarà possibile lavorare insieme, ma se tu a-
vrai fatto del tuo meglio per cooperare con me, io come minimo potrò farti
scappare da Burdigala verso qualche posto in cui potrai ricominciare. Ri-
cordati, tu mi devi la vita. Se ti abbandono sei un uomo morto.»
Assunse un atteggiamento cupo. «Verranno a sapere che mi nascondi
qui.»
«Ma sì, sarò io stesso a dirglielo» dichiarò Lugo freddamente. «Sono un
serio cittadino, non desidero che tu venga trucidato illegalmente, infatti ho
ritenuto mio dovere interrogarti in privato, tirarti fuori, sostenerti!» Mentre
parlava aveva poggiato la tazza per terra, aspettandosi che Rufus provasse
a colpirlo. A quel punto afferrò il bastone con tutte e due le mani. «Resta
fermo su quello sgabello, ragazzo. Sei forte, ma hai già visto cosa sono ca-
pace di fare con questo.»
Rufus si rannicchiò.
Lugo scoppiò a ridere. «Così va meglio. Non essere così dannatamente
irascibile. Io non voglio assolutamente farti niente di male. Lascia che te lo
ripeta, se sarai sincero con me e farai ciò che ti dico, la cosa peggiore che
potrà succederti sarà di lasciare di nascosto Burdigala. Aureliano possiede
un enorme latifondo; dove senza alcun dubbio un lavoratore in più può es-
sere utile, basta che io ci metta una buona parola, e il senatore coprirà
qualsiasi irregolarità per me. Nella migliore delle ipotesi... Be', non lo so
ancora, e comunque non voglio promettere nulla, ma potrebbe essere me-
ravigliosa, al di là dei voli pindarici che hai sognato da bambino, Rufus.»
Le sue parole e il tono suadente funzionarono. Anche il vino cominciava
a fare effetto. Rufus rimase seduto tranquillamente per un attimo, poi an-
nuì, sorrise, vuotò la coppa e sollevò una mano. «Alla salute, d'accordo?»
proclamò.
Lugo afferrò la mano ruvida. Era un gesto piuttosto insolito in Gallia,
forse l'aveva imparato dagli immigrati germani. «Splendido» disse. «Par-
liamoci in modo chiaro e diretto. So che non sarà facile, ma ricordati che
ho le mie ragioni. Voglio comportarmi bene con te, per quanto Dio mi
permette.»
Riempì le coppe vuote. Sotto la sua espressione gioviale, la tensione cre-
sceva sempre più.
Rufus bevette. Barcollò. «Cosa vuoi sapere?» domandò.
«Per prima cosa, come hai fatto a finire nei guai.»
Il buon umore di Rufus appassì. Guardò torvamente il suo interlocutore.
«A causa della morte di mia moglie» borbottò. «È stata la goccia che ha
fatto traboccare il vaso.»
«Molti uomini sono vedovi» disse Lugo, mentre il ricordo lo feriva co-
me una spada piantata nel cuore.
La mano grande si strinse intorno alla coppa finché le nocche non diven-
tarono bianche. «La mia Livia era vecchia. Aveva i capelli bianchi, le ru-
ghe, ed era senza denti. Abbiamo avuto due figli, che sono cresciuti, un
maschio e una femmina. Si sono sposati, e hanno avuto figli a loro volta. E
poi sono invecchiati anche loro.»
«Credo che sia possibile» mormorò Lugo, non in latino. «Oh Ashto-
reth...»
Poi aggiunse ad alta voce usando la lingua corrente: «Le voci che mi so-
no giunte dicevano la stessa cosa. È per questo che sono venuto a cercarti.
Quando sei nato, Rufus?»
«Come diamine faccio a saperlo?» fu la risposta sgarbata. «Sono stron-
zate! I poveri non tengono il conto degli anni come fate voi ricconi. Non
saprei dirti nemmeno chi è console quest'anno. Ma la mia Livia era giova-
ne come me quando ci siamo sposati, aveva quattordici o quindici anni.
Era una donna forte, lo era davvero, ha spremuto la sua giovinezza come il
succo da un melone, solo per fare crescere i due figli. Non è crollata subito
come tante mogli.»
«Anche tu dovresti essere sulla settantina, allora, se non oltre» disse Lu-
go con un tono più gentile. «Ma non sembra che tu abbia più di venticin-
que anni. Sei mai stato malato?»
«No, se non conti un paio di volte in cui sono rimasto ferito. Erano brut-
te ferite, ma sono perfettamente guarite in qualche giorno, senza nemmeno
lasciare cicatrici. Non ho mai avuto mal di denti. Una volta ho perso tre
denti in una zuffa, e mi sono ricresciuti.» L'arroganza si era avvizzita. «La
gente ha cominciato a guardarmi in modo sempre più sospettoso. La morte
di Livia è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso» grugnì Rufus.
«Hanno cominciato a dire che dovevo avere fatto un patto con il diavolo.
Lei mi diceva quello che sentiva dire. Ma che diavolo potevo fare? Dio mi
ha dato un corpo forte. Lei ci credeva.»
«Anche io, Rufus.»
«Quando lei cadde ammalata nessuno volle più parlarmi. Per strada mi
schivavano, facevano gli scongiuri, si picchiavano sul petto. Così andai da
un prete. Anche lui ebbe paura di me, me ne accorsi. Mi disse che sarei
dovuto andare dal vescovo, ma il bastardo non mi ci portava mai. Poi Livia
morì.
«Un sollievo» Lugo non riuscì a trattenersi dal dire.
«Be', me ne rimasi in un bordello per molto tempo» rispose Rufus con-
cretamente. Era infuriato. «Ma poi le puttane mi dissero che dovevo an-
darmene e non tornare mai più. Persi la testa, e scatenai un putiferio. La
gente sentì e circondò la casa. Quando uscii, quei bavosi cominciarono a
gridarmi dietro. Colpii quello che urlava più forte. La cosa successiva che
ricordo è che mi stavano addosso. Riuscii a liberarmi e a fuggire. Mi inse-
guivano, ed erano sempre di più.»
«E saresti morto, schiacciato sotto i loro piedi» disse Lugo. «Oppure in
poco tempo le voci avrebbero raggiunto il prefetto. Un uomo che non in-
vecchia mai e che chiaramente non è un santo deve per forza essere in
combutta con il diavolo. Saresti stato arrestato, interrogato sotto tortura, e
sicuramente decapitato. Sono brutti tempi questi. Non si sa che cosa ci si
può aspettare. Prevarranno i Barbari? Avremo un'altra guerra civile? Sa-
remo distrutti dalla peste, dalla carestia o da un totale collasso dell'econo-
mia? Gli eretici e gli stregoni sono capri espiatori per allontanare la pau-
ra.»
«Io non sono nulla del genere!»
«Non ho detto che tu lo sia. Penso che tu sia un uomo come tutti gli altri,
come tutti quelli che ho incontrato in ogni luogo. Ma dimmi, hai mai cono-
sciuto o sentito parlare di qualcun altro come te, sul quale il tempo non la-
scia il segno? Un parente, magari?»
Rufus scosse la testa.
Lugo sospirò. «Nemmeno io.» Si fece risoluto e andò avanti. «E ho a-
spettato e provato, cercato e sopportato, da quando ho cominciato a capi-
re».
«Eh?» Il vino traboccò dalla coppa di Rufus.
Lugo bevette un sorso dalla sua, cercando quel poco di conforto che po-
teva dargli. «Quanti anni pensi che io abbia?» domandò.
Rufus lo scrutò da vicino prima di rispondere. «Dovresti avere venticin-
que anni.»
Un sorriso increspò il lato sinistro della bocca di Lugo. «Come te, nean-
che io conosco con esattezza la mia età» disse lentamente. «Ma Hiram era
re di Tiro quando nacqui lì. Le cronache che sono stato in grado di studiare
e capire dicono che si tratta di circa dodici secoli fa.»
Rufus spalancò la bocca. Le efelidi sembravano sporcizia tanto il viso si
era fatto pallido. Con la mano libera si fece il segno della croce.
«Non avere paura» insisteva Lugo. «Io non ho fatto nessun patto con le
potenze della notte. Né con il cielo, per questo, o per qualsiasi potere, o a-
nima. Sono semplicemente fatto della tua stessa carne, qualsiasi cosa signi-
fichi. Sono solo rimasto più a lungo nel mondo. È una condizione solitaria.
Tu hai avuto solo in parte la percezione di quanto sia solitario.»
Si alzò, lasciando il bastone e la coppa, e si mise a passeggiare con le
mani dietro la schiena per lo spazio ristretto del pavimento. «Non sono na-
to con il nome di Flavius Lugo, naturalmente» disse. «Questo è solo l'ulti-
mo nome che ho assunto... ho perso il conto di quanti ne ho cambiati. Il
primo è stato... non importa. Un nome fenicio. Ero un mercante finché gli
anni non mi misero nei guai proprio come te oggi. Allora per molto tempo
sono stato un marinaio, o guardia delle carovane, soldato mercenario, poe-
ta errante, e tutto quell'insieme di mestieri in cui un uomo può andare e
venire senza essere notato troppo. Ho imparato da una scuola dura. Sono
stato spesso sul punto di morire a causa delle ferite e dei naufragi, per la
fame, la sete e una dozzina di pericoli diversi. Qualche volta avrei potuto
morire se non fosse stato per lo straordinario vigore di questo corpo. Un
pericolo più lento, ma che mi spaventò molto di più, fu quando cominciai
ad accorgermi semplicemente che rischiavo di affogare nei ricordi, fino a
perdere la ragione. Per un po' ho usato poco la mia intelligenza. In modo
misericordioso, smussando la sofferenza dovuta alla perdita di chiunque
mi fosse caro, uomini e donne e la perdita, ah, dei bambini... Pian piano
imparai l'arte della memoria. Adesso ho ricordi chiari, sono come una bi-
blioteca ambulante di Alessandria...» Ridacchiò tra sé e sé. «Faccio degli
errori. Ma conosco l'arte di immagazzinare ciò che so, per poi richiamarlo
alla mente quando serve. Conosco l'arte di controllare il dolore. Cono-
sco...»
Osservò lo sguardo timoroso di Rufus e smise di parlare. «Milleduecen-
to anni?» sussurrò l'artigiano. «Hai visto il Salvatore?»
Lugo si sforzò di sorridere. «No, mi dispiace, non l'ho visto. Se, come si
racconta, è nato sotto il regno di Augusto, allora è accaduto, mmh, circa tre
o quattrocento anni fa, e a quei tempi mi trovavo in Britannia. Roma non
l'aveva ancora conquistata, ma l'attività commerciale era intensa e le genti
del sud ne erano influenzate culturalmente. C'erano molti meno intriganti.
Che è sempre stata una caratteristica enormemente desiderabile per un
luogo. Dannatamente difficile da trovare di questi tempi, che in breve fini-
ranno dominati dai feroci Germani o Scoti o quali che siano. E anche lo-
ro...
«Un'altra tecnica che ho sviluppato è quella di invecchiare il mio aspet-
to. La cipria sui capelli e le tinture sono rimedi scomodi e poco realistici.
Lascio parlare di quanto continui a sembrare giovanile il mio aspetto.
Qualcuno lo fa, comunque. Ma gradualmente comincio a curvarmi un po',
a trascinarmi, a tossire, a fingere d'essere diventato duro d'orecchi, a la-
gnarmi di malesseri e dolori, e dell'insolenza della gioventù moderna. Fun-
ziona solo fino a un certo punto, naturalmente. Alla fine devo scomparire e
ricominciare una nuova vita da qualche altra parte sotto un nuovo nome.
Cerco di mettere le cose in modo che risulti ragionevole supporre che mi
sia smarrito e mi sia accaduta una disgrazia, forse perché ero diventato
vecchio e svagato. Inoltre di regola mi tengo pronto allo spostamento. Ac-
cumulando un mucchio d'oro, scegliendo la mia nuova casa, e qualche vol-
ta recandomici e stabilendovi la mia nuova identità...»
Un po' della stanchezza dei secoli gli cadde addosso. «Dettagli, detta-
gli.» Si fermò e guardò attraverso una delle finestre oscurate. «Sto diven-
tando senile? Di solito non parlo a vanvera in questo modo. Bene, sei il
primo come me che ho incontrato, Rufus, proprio il primo. E mi lascia spe-
rare che tu non sia l'ultimo.»
«Sai qualcosa di, uhm, altri?» tentò la voce alle sue spalle.
Lugo scosse la testa. «Ti ho detto di no. Come avrei potuto? Qualche
volta ho creduto di avere trovato una traccia, ma o scompariva o si dimo-
strava falsa. Forse una volta. Ma non ne sono certo.»
«Di che si trattava, amico? Vuoi raccontarmelo?»
«Sì. È accaduto a Siracusa, dove mi fermai per molti anni per via dei
suoi legami con Cartagine. Una città davvero graziosa. Una donna, si
chiamava Altea, era bella e vivace, nel modo in cui lo erano le donne negli
ultimi anni delle colonie greche; conobbi lei e suo marito. Lui era un ma-
gnate navale, io capitanavo una nave da carico. Erano sposati da circa tren-
t'anni, lui era diventato calvo e panciuto, lei gli aveva dato una dozzina di
figli e il più vecchio aveva già i capelli grigi, ma lei sembrava ancora una
fanciulla.»
Lugo rimase un po' in silenzio prima di finire, con voce piatta: «I Roma-
ni catturarono la città. La saccheggiarono. Io ero assente. Bisogna sempre
inventarsi una scusa per andarsene quando stanno per accadere cose di
questo tipo. Quando tornai, feci qualche domanda. Forse poteva essere sta-
ta fatta schiava, e avrei potuto trovarla e comprare la sua libertà. Invece no,
quando scovai qualcuno che sapeva qualcosa, ed era talmente insignifican-
te da essere rimasto illeso, seppi che era morta. Stuprata fino alla morte, mi
disse. Non so se fosse vero o no. Le storie si ingigantiscono man mano che
vengono raccontate. Non importa. È accaduto tanto tempo fa.»
«È terribile. Avresti dovuto tornare prima». Lugo s'irrigidì. «Oh, scusa-
mi, amico» disse Rufus. «Non mi sembra che, uhm, che odi Roma.»
«Perché dovrei? È sempre la stessa storia che si ripete, guerra, tirannia,
massacri, schiavitù. Anche io vi ho preso parte. Adesso Roma si avvicina
alla fine.»
«Che cosa?» Rufus era sorpreso. «Non è possibile! Roma è eterna!»
«Come preferisci» Lugo si voltò a guardarlo. «A giudicare dalle appa-
renze ho trovato un compagno immortale. Finalmente c'è qualcuno che
posso proteggere, guardare, e seguirei. Dovrebbero bastare venti o tren-
t'anni. Anche se già adesso non ho dubbi.»
Prese fiato. «Ti rendi conto di ciò che significa? No, è improbabile che
tu lo capisca. Non hai avuto abbastanza tempo per pensarci su.» Osservò
attentamente il viso tirato, la fronte bassa, lo sgomento che scivolava in un
sorriso. Non mi aspetto che tu te ne renda conto, pensò. Sei un artigiano
moderatamente bravo, e nulla più. E io sono stato abbastanza fortunato a
trovarti. A meno che Altea... Ma lei mi è scivolata tra le dita, ed è morta.
«Significa che non sono unico» disse Lugo. «Se ci sono due di noi, de-
vono essercene di più. Molti di più, anche se molto rari. Non è qualcosa
che si trasmette in linea di sangue, come l'altezza o il colore della pelle o
quelle deformità che ho visto tramandarsi all'interno delle famiglie. Qua-
lunque sia la ragione, si verifica accidentalmente. O per volontà divina, se
preferisci, anche se penso che Dio non agisca per capriccio. Inoltre sicu-
ramente qualche assurda disavventura toglie di mezzo molti giovani im-
mortali, esattamente come accade per gli uomini le donne e i bambini
normali. Possiamo sfuggire la malattia, ma non la spada o un cavallo in
fuga o un'alluvione o il fuoco o la carestia, o qualcos'altro. Ci può capitare
di morire per mano di vicini convinti che dobbiamo essere per forza dei
demoni, maghi o mostri.»
Rufus si raggomitolò su se stesso. «Mi gira la testa» si lamentò.
«Hai ragione, hai passato un brutto momento. Anche gli immortali han-
no bisogno di riposarsi. Dormi pure se lo desideri.» Rufus aveva uno
sguardo vitreo. «Perché non possiamo dire di essere, che so, santi? Ange-
li?»
«Dove credi che riusciresti ad arrivare?» disse Lugo deridendolo. «Sa-
rebbe concepibile per un uomo nato re, ma non credo che accada mai, è
improbabile tanto quanto lo è la nostra razza. No, quando riusciamo a so-
pravvivere, impariamo in fretta a tenere la testa bassa.»
«Ma allora come faremo a riconoscerci tra di noi?» disse Rufus tra un
singhiozzo e una scoreggia.
IN PUNTO DI MORTE
di Ben Bova e A.J. Austin
PROLOGO
La stasi fu il prezzo pagato dai Cento Mondi per mantenere nei secoli la
pace e la stabilità. L'Imperatore fu l'unico tra i potenti di allora a rendersi
conto che il suo regno era in crisi, ma non riuscì a escogitare nessun mo-
do per rivitalizzare l'Impero.
Alla fine un disastro gliene offrì l'opportunità.
Il Sole della Terra stava per entrare in una fase di instabilità. Non sa-
rebbe esploso come una Nova, ma avrebbe emesso fiammate gigantesche e
protuberanze che avrebbero fatto evaporare l'atmosfera e gli oceani della
Terra, mondo che aveva dato origine alla specie umana.
Alla corte dell'Imperatore l'opinione comune era che la Terra dovesse
essere abbandonata a se stessa. Era diventata poco più che acqua sta-
gnante per i Cento Mondi; la sua irrisoria popolazione poteva essere ri-
collocata al sicuro su altri pianeti.
L'Imperatore, che secondo la tradizione corrente era terrestre di nasci-
ta, la pensava diversamente. Trovò una scienziata, una giovane donna po-
co stimata dal Consiglio Imperiale degli Accademici, la quale elaborò un
progetto per salvare il Sole che avrebbe impiegato un'intera generazione
per essere realizzato.
Naturalmente tutti derisero il suo ambizioso progetto. Tutti tranne l'Im-
peratore. Lui l'appoggiò, contro le resistenze e l'ovvia ostilità degli acca-
demici. Spostò la Corte Imperiale dal pianeta Corinto alla Luna della Ter-
ra, proprio per sostenere il suo desiderio di salvare il Sole, e allo stesso
tempo per dare nuova forza all'Impero.
Ma l'Imperatore era vecchio, vicino alla morte. Molti pensavano che sa-
rebbe stato un bene per l'Impero affrettarne la fine. Tutto dipendeva dal
successore al trono, il Principe Ereditario Javas.
E dalla categorica volontà del vecchio Imperatore.
1. L'Arrivo
Dall'altra parte di Armelin City, il Principe Javas era nella sua sala d'a-
spetto privata vicino alla pista d'atterraggio dello shuttle, con un'espressio-
ne piuttosto scocciata.
«Mi dispiace, sire» ripeteva la voce sintetizzata dell'unità di comunica-
zione «ma il circuito è ancora occupato. È stato inserito un codice di bloc-
caggio. Desidera che effettui una sovrapposizione?»
Naturalmente, aveva il potere di sabotare il codice di bloccaggio di Bo-
meer. Una sola parola dall'Imperatore reggente non solo avrebbe sbloccato
il circuito in meno di un millesimo di secondo, avrebbe anche potuto sop-
primere i comandi bloccati, e dopo averli elaborati e registrati, spedirli a
uno qualunque dei tecnico che aveva installato il sistema nell'appartamento
dell'accademico.
Ma non ce n'era alcun bisogno; sapere che Bomeer era ancora in casa era
l'unica informazione di cui al momento aveva bisogno.
«No. Comunque continua a tenere il circuito sotto controllo e informami
quando si sarà liberato, per favore.»
L'unità rispose con uno stridio di conferma, e lo schermo blu si spense
immediatamente.
Il Principe si concesse un attimo di piacere sadico, domandandosi cosa
stesse progettando di fare quell'uomo. Era certo di avere colto di sorpresa
Bomeer e il suo gruppo di accademici, insistendo per fare atterrare lo shut-
tle in anticipo. Il comandante Fain aveva protestato, naturalmente, come
d'altronde avevano fatto la maggior parte degli attendenti di corte del pa-
dre, quando quel mattino l'aveva proposto in una oloconferenza. Ma per-
ché l'ordine fosse eseguito era bastato un suo cenno un po' insistente e u-
n'occhiata perspicace dell'Imperatore.
Com'è buffo, pensò pigramente. Sembrerebbe che ci siamo avvicinati
molto; e che pensiamo in modo simile. Era davvero possibile che gli anni
di lontananza avessero cambiato tanto il suo modo di pensare? O era stata
l'esperienza acquisita negli ultimi dodici anni come Imperatore Reggente?
Negli ultimi mesi, mentre la nave del padre si avvicinava sempre più alla
Terra, le consultazioni e le chiacchierate tra loro due si erano fatte sempre
più frequenti. Javas sorrise tra sé e sé, rendendosi conto che il padre era ar-
rivato a conoscerlo meglio in quelle ultime settimane, nonostante fossero
lontani milioni di chilometri, che non negli anni in cui avevano vissuto in-
sieme su Corinto.
All'improvviso capì di cosa si trattava: la fiducia. Il semplice suggeri-
mento di anticipare l'atterraggio di un'ora, detto nel modo giusto, aveva
comunicato al padre: la responsabilità qui è mia. Era bastato questo al-
l'Imperatore per dare immediatamente ordine a Fain di cambiare pro-
gramma.
Una segnalazione effettuata dal sistema interruppe momentaneamente i
suoi pensieri. «Messaggio in arrivo, sire. L'Autorità portuale riferisce che
l'Imperatore arriverà tra cinque minuti.»
«Grazie.» Javas prese la giacca dallo schienale della sedia e la infilò,
chiudendo velocemente i bottoni d'oro mentre si avvicinava a un gruppo di
poltrone felpate rivolte verso la parete di fronte. «Sistema» ordinò, seden-
dosi in una poltrona in fondo a sinistra.
«Sire?»
«Apri la stanza di ricevimento. Desidero assistere all'atterraggio. Voglio
che le luci interne rimangano spente per tutta la sua durata.»
Le luci della stanza si spensero e si produsse un bagliore qualche centi-
metro più in alto rispetto all'intera superficie della parete, mentre lo scher-
mo protettivo si alzava. Un sottile raggio di luce si irradiò nella stanza lun-
go la linea di confine tra la parete e il soffitto, poi si allargò mentre la pare-
te scivolava silenziosamente verso il pavimento, mettendo in mostra l'e-
norme pista d'atterraggio. Sporgendosi in avanti, Javas guardò la sezione
privata di osservazione che si trovava proprio sotto la sua stanza, e che era
riservata ai membri della corte e agli ospiti. Quasi tutte le sedie erano oc-
cupate. Tutte eccetto quelle che si trovavano nella fila davanti, che era ri-
servata a Bomeer e ai membri dell'Accademia della Scienza. Ridacchiò tra
sé e sé, compiaciuto di come fosse stato semplice fare lo sgambetto agli
accademici. Scivolò con lo sguardo oltre il pavimento della stanza, a non
meno di cento metri sotto di lui, dove centinaia di tecnici si affrettavano
impegnati in Dio solo sa quali mansioni per garantire un atterraggio sicuro
allo shuttle.
Il Principe Javas scosse lentamente la testa per lo sgomento di fronte a
quello spettacolo straordinario, e lasciò che gli angoli della bocca gli si
sollevassero in un sorriso fanciullesco.
«Non mi stancherò mai di questo» mormorò, lasciandosi andare all'in-
dietro nella confortevole poltrona. Poi disse ad alta voce: «Sistema, mettiti
in contatto audio con il comandante Fain sullo shuttle in avvicinamento, e
informami quando è in linea».
2: Riunione
3: Alleanze
«Non mi piace» disse l'uomo con i capelli grigi. «Non mi piace per nien-
te. Affatto.» Si appoggiò all'indietro, sprofondando nella comoda fodera
imbottita del sofà, ma a dispetto dei suoi sforzi sembrava tutt'altro che co-
modo.
«E credi che a me piaccia?» rispose Bomeer. Passeggiava avanti e indie-
tro davanti all'enorme finestra, guardando ogni tanto nervosamente la sca-
tola appoggiata sul tavolo basso tra il sofà e le due poltrone identiche che
gli stavano di fronte. Vedendo che l'estremità superiore del piccolo cubo
era illuminata da una luce verde, rassicurato dal fatto che il blocco-audio
funzionava alla perfezione, continuò: «I nativi della Terra mi piacciono
anche meno di quanto mi fidi di loro, ma guardiamo in faccia la realtà: a-
desso che Javas intende dare il suo pieno appoggio al folle progetto del
vecchio, e addirittura portarlo avanti lui stesso quando diventerà imperato-
re, non possiamo permetterci di andare troppo per il sottile sugli aiuti da
accettare». Si spostava di continuo, lanciando ogni tanto qualche occhiata
al terminale di comunicazione per controllare l'ora.
«Accademico! Mi fai il favore di sederti?»
Bomeer si blocco a metà di un passo e guardò il suo compagno. Con uno
sguardo confuso si diresse verso una delle poltrone che erano di fronte al
sofà e ci si lasciò cadere pesantemente.
«Hai ragione, Wynne» disse guardando di nuovo l'ora. «Ti faccio le mie
scuse.» Bomeer prese un bicchiere dallo stesso ripiano in cui aveva pog-
giato il cubo, ma un debole squillo alla porta lo fermò. Si rivolse concisa-
mente al sistema di comunicazione. «Identificazione.» Lo schermo si acce-
se immediatamente, e una videocamera esterna mostrò un uomo alto e ma-
gro davanti all'entrata dell'appartamento.
«È lui?» Domandò Wynne, piegandosi in avanti per osservare lo scher-
mo più da vicino.
«Sì.» Tutti e due gli uomini si alzarono, e Bomeer si diresse frettolosa-
mente verso l'entrata.
«C'è una cosa da dire dei terrestri: sono puntuali.» Disse sottovoce al-
l'accademico, poi, a voce alta aggiunse: «Ammesso».
Non appena la porta si aprì, Bomeer si rese conto che il terrestre era alto;
in modo sorprendente. La videocamera esterna di sicurezza non aveva dato
un'impressione realistica della vera statura dell'uomo né un'idea chiara del-
la complessità dei suoi tratti somatici. Nonostante fossero nascosti da una
folta barba, i suoi tratti sembravano per lo più nordamericani o europei; ma
Bomeer intuì una traccia di appartenenza al ceppo asiatico in qualche pun-
to dell'albero genealogico dell'uomo. Indossava un abito pulito ma infor-
male, dominato dalle tonalità del marrone che si intonavano con il colore
dei capelli e della barba. Bomeer notò che la giacca era di pelle finemente
pettinata. Senza aspettare di essere invitato a entrare, piombò nella stanza
con decisione non appena la porta si fu completamente spalancata.
«A nome dei colleghi dell'Accademia» disse Bomeer rivolto alle spalle
dell'uomo «sono onorato che abbia accettato di...»
L'uomo si girò di scatto, zittendo subito l'accademico con la ferocia dei
suoi occhi scuri. Poi si voltò di nuovo e si spostò bruscamente verso il di-
vano che era al centro della stanza. Ignorando del tutto Wynne, esaminò
frettolosamente la zona circostante e tirò fuori dalla tasca della giacca un
piccolo cilindro, che a Bomeer sembrò simile a una penna o a uno stilo, ne
fece ruotare la punta in senso orario, e poi lo bloccò nel piccolo risvolto
della giacca. La punta dell'oggetto si mise a lampeggiare debolmente e uni-
formemente. Si girò a guardare Bomeer, e la pelle della giacca scricchiolò
leggermente mentre con disinvoltura intrecciava le mani dietro la schiena e
concedeva un sorriso educato.
«Bene, allora. Cosa stavi dicendo?»
Aveva una voce profonda e vibrante apparentemente calma, che stonava
con l'immagine rude che dava di sé.
Bomeer increspò le labbra e si sforzò di contenere l'irritazione che pro-
vava per il visitatore, ma alla fine lasciò perdere, pensando che le sue ma-
niere forse erano normali per un terrestre. Intrecciando anche lui le mani
dietro la schiena si diresse nella zona occupata dal divano e si mise di fron-
te al nuovo arrivato. I due uomini si guardarono in faccia per qualche se-
condo, senza fare il benché minimo tentativo di stringersi la mano. Il collo
di Bomeer cominciò a irrigidirsi quando si trovò di fronte alla statura gi-
gantesca dell'uomo, e subito si pentì di avere cercato di imitarne i gesti.
«Il suo bloccaggio non era necessario» disse finalmente Bomeer, indi-
cando l'oggetto che lampeggiava dalla giacca del terrestre. «Abbiamo già
preso tutte le precauzioni opportune.»
«Davvero?» La mano dell'uomo in un lampo si infilò nel soprabito, e
prima che i due accademici potessero rendersi conto di quello che stava
succedendo, avvicinò alla faccia di Bomeer un minuscolo laser. «Certo
non mi riuscirebbe facile ucciderti con quest'aggeggio, Bomeer, ma di si-
curo potrei accecarti in due secondi» disse, facendo scattare l'arma avanti e
indietro diverse volte a qualche centimetro dagli occhi di Bomeer per ri-
marcare la sua osservazione. Un sorriso sgradevole gli increspò le labbra
quando aggiunse: «Naturalmente, con uno dei miei piedi piantato salda-
mente sul tuo petto, e quindici o venti secondi di lavoro, riuscirei senz'altro
ad aprirti la gola». Abbassò la mano all'altezza del collo di Bomeer sussur-
rando, mentre gli passava vicino: «Zip. Zip. Zip».
Bomeer era paralizzato, e sentiva goccioline umide scivolargli sul collo
e lungo la schiena; le ascelle gli bruciavano, ma nello stesso tempo lo colse
un assurdo accesso di sudore freddo. Mosse le labbra diverse volte per par-
lare, ma non riuscì a emettere alcun suono. Guardò in cerca d'aiuto Wynne,
che era ancora in piedi davanti al sofà, ma si rese conto che il vecchio ac-
cademico era ancora più terrorizzato di lui per quanto stava succedendo.
La cosa continuò ancora per qualche lungo minuto d'agonia, prima che
l'uomo con la barba scoppiasse a ridere fragorosamente e si allontanasse,
riponendo immediatamente il laser nel soprabito, e poi andasse a sedersi
con disinvoltura su una delle poltrone di fronte al sofà.
«Non credi che sia il caso di rivedere quello che chiami "precauzioni",
Bomeer?»
Bomeer si sistemò la tunica, cercando nervosamente di recuperare la pa-
dronanza di sé, poi andò a sedersi su un lato del sofà. Guardò Wynne, che
era ancora senza parole, e provò a liberarsi della propria agitazione con-
centrandosi sullo spavento dell'altro. Si schiarì la gola una volta, e un'altra
ancora.
«Wynne, per favore siediti» disse utilizzando tutta la forza di volontà
che aveva in modo che le sue parole suonassero calme e controllate.
Osservò attentamente il suo ospite mentre Wynne si sedeva, cercando di
farsi un'idea di quello straniero terrestre, e contemporaneamente di sfrutta-
re al massimo ogni attimo di silenzio in più per tranquillizzarsi.
«Come stavo dicendo» iniziò, avendo ripreso in gran parte il controllo di
sé «mi fa piacere che lei abbia chiesto di incontrarci questo pomeriggio.
Lui è Plantir Wynne, condirettore dell'Accademia Imperiale della Scien-
za.» Fece un cenno in direzione di Wynne, che sembrava ancora più a di-
sagio di quanto non fosse già stato prima dell'arrivo del terrestre. Wynne
gli tese una mano tremante.
L'uomo con la barba guardò Wynne con disprezzo, e anche Bomeer fu
costretto ad ammettere, anche se solo tra sé e sé, che l'uomo aveva un a-
spetto davvero disgustoso. «La prego, mi chiami Johnson durante questa e
qualsiasi altra transazione che avremo» disse, decidendosi finalmente a
stringergli la mano.
«Sarò franco» continuò Bomeer, ansioso di cominciare te discussione e
di finirla il più presto possibile «sono rimasto un po' sorpreso nel ricevere
il suo messaggio. Non mi è chiaro ciò di cui dovremmo discutere.»
Johnson era di fronte a lui, con un mezzo sorriso che si intravedeva sotto
la barba. «È molto semplice. Lei vuole fermare il piano per la salvezza del
Sole. Tutta l'"Accademia della Scienza", come lei la chiama, ha fatto del
suo meglio per opporsi al progetto fin dall'inizio, ma voi due siete quelli
che hanno espresso più apertamente il proprio disaccordo, giusto?»
E cos'altro sai? Si domandò Bomeer. «Sono stato fedele all'Imperatore
per tutta la vita» disse «ma non ho nascosto la mia sensazione che questo
progetto indebolirebbe seriamente l'Impero, e che potenzialmente lo man-
derebbe in rovina. Ho convinto alcuni amici della corte imperiale a stare
dalla mia parte, ma nascondere i miei sentimenti sarebbe un danno.»
«Capisco» disse Johnson annuendo pensieroso, poi si girò verso Wynne
e gli chiese in modo pungente: «E lei? Condivide ogni pensiero del suo
collega, o ha qualcosa di personale da dire?»
Wynne sembrava aver ripreso un po' di autocontrollo. Si voltò verso il
terrestre lanciandogli un'occhiata accigliata. «L'Imperatore è stato un buon
capo per molti anni» disse senza esitazione, sorprendendo Bomeer per l'i-
naspettata sicurezza della voce. «Ma questo piano distruggerà la struttura
portante dell'Impero.»
«Capisco» disse nuovamente Johnson. Poi si alzò dalla poltrona, si di-
resse verso la finestra e rimase per un momento a osservare con serietà il
paesaggio lunare prima di girarsi di nuovo a guardare in faccia gli altri
due. «Io e quelli che rappresento non potremmo preoccuparci di meno per
la cosiddetta "struttura dell'Impero".» Per la prima volta da quando era en-
trato nella stanza, il terrestre lasciò che un'emozione genuina si mostrasse
nella sua voce, anche se Bomeer non sarebbe stato in grado di dire se la
cosa era accaduta intenzionalmente oppure no.
«Noi ce ne freghiamo del vostro Impero» continuò con la voce piena di
disprezzo. «I vostri obiettivi non sono i nostri. I vostri valori, le vostre
formule governative, il vostro modo di vivere ispira orrore a quelli che tra
di noi cercano di liberarsi dalla vostra influenza.»
«Ma avete accettato ben volentieri i benefici che derivano dall'essere
membri dei Cento Mondi, o no?» obiettò Bomeer, sentendo che la rabbia
cominciava a montargli dentro. «C'è un pizzico di ipocrisia in voi puri e
limpidi terrestri, eh?»
«Sì, è stato un compromesso che ci ha dato dei benefici!» Johnson ebbe
un'esitazione, poi ritornò alla sua poltrona e si sedette con le gambe incro-
ciate, recuperando l'atteggiamento disinvolto che aveva mostrato prima.
Quando ricominciò a parlare ogni traccia di emozione era scomparsa dalla
sua voce.
«Non siamo dei poveri deficienti primitivi, come sembra si creda larga-
mente nei Mondi. A noi piace la nostra vita così com'è, e accettiamo dal-
l'Impero i benefici che riteniamo opportuni. L'accordo con l'Impero in tutti
questi secoli è stato considerato necessario per mantenere il nostro stile di
vita.»
«Il sistema solare è un sistema armonioso. Quei terrestri che non voglio-
no essere parte del sistema di vita dell'Impero dei Mondi sono liberi di de-
cidere altrimenti, e molti di risistemarsi qui sulla Luna, o nelle Orbite. Al-
cuni si sono riuniti con il progetto di reclamare per sé Venere o si sono
stabiliti sulle lune dei giganti gassosi; altri ancora hanno accettato il siste-
ma di vita imperiale, o hanno scelto una vita dura su uno dei Mondi di
Frontiera. Lo fanno con la nostra benedizione, lasciando i nostri valori, e i
loro, assolutamente intatti. È così difficile da capire per te?» Bomeer guar-
dò prima Johnson poi Wynne con fermezza. «Quello che mi sembra di ca-
pire» disse alzandosi dal sofà «è che a giudicare dalle apparenze non c'è
nessuna ragione per proseguire la discussione.» Stava per prendere il cubo
dal tavolo quando Johnson gli afferrò il polso con la mano. Aveva una
stretta incredibilmente forte. Bomeer fissò la mano del terrestre, invidioso
della forza nascosta in dita apparentemente tanto delicate, e notò un brac-
cialetto d'oro che gli circondava il polso. Eccetto che per l'incisione di un
uccello avvolto dalle fiamme sulla superficie liscia e scintillante del metal-
lo, il braccialetto era semplice e disadorno. Bomeer alzò gli occhi e si ri-
trovò a guardare dritto in faccia Johnson. A quella distanza, notò che l'uo-
mo aveva addosso un profumo di muschio gradevolmente mescolato all'o-
dore della sua giacca di pelle. Inoltre, vide qualcosa nello sguardo di Jo-
hnson, mentre si piegava verso di lui, che mise Bomeer nella disposizione
di ascoltare qualcosa che gli diceva di fidarsi di quell'uomo.
«Cerchiamo di capirci, allora: tu e io siamo persone diverse, e abbiamo
filosofie diverse.» Disse ai due accademici lasciando andare il braccio di
Bomeer e tornando a sedere rigidamente. «Ma in questo momento condi-
vidiamo lo stesso obiettivo. Voi volete fermare il progetto. E anche noi.
Sono solo le motivazioni a essere diverse.»
Bomeer si massaggiò il polso indolenzito. Ma quali sono esattamente le
vostre motivazioni? si domandò.
Rihana era seduta al tavolo della toilette della sua camera privata, a os-
servare la propria immagine riflessa nello specchio mentre si spazzolava
lentamente i lunghi capelli ramati. Non le dispiaceva affatto quello che ve-
deva. Prima di lasciare Corinto aveva dato per scontato il fatto di doversi
sottoporre al ringiovanimento una volta arrivata nel sistema solare, invece
un sorriso le increspò le labbra nel verificare quanto poco aveva influito il
lungo viaggio sul suo aspetto.
Ci fu un tocco leggero ed educato alla porta. «Padrona Valtane?»
Lei si fermò, a metà di un colpo di spazzola, ma finì di pettinarsi e ripo-
se la spazzola sul tavolo prima di rispondere.
«Sì, cosa c'è Linn?» Non fece nemmeno lo sforzo di girarsi per guardare
in faccia la sua cameriera quando entrò, invece concentrandosi invece sulla
sua immagine riflessa nello specchio per cercare di decidere quale gioiello
avrebbe esaltato meglio l'abbigliamento scelto per l'incontro.
«Il segretario dell'ambasciatore è qui, padrona. Sta aspettando nella sala
di ricevimento.»
A quelle parole Rihana si girò. «Il segretario? Non l'ambasciatore in per-
sona?» Dal momento che era stato l'ambasciatore a chiedere quell'incontro,
rimase sorpresa dalla notizia. «Molto bene» disse. «Arrivo immediatamen-
te.»
La cameriera annuì, e lasciò subito la stanza. Rihana si spostò davanti a
uno specchio a figura intera, che si trovava vicino a uno dei tanti armadi
della stanza. Aveva scelto il suo abbigliamento pensando in modo specifi-
co all'ambasciatore, facendo bene attenzione a scegliere gradazioni di colo-
ri visibili all'alieno. Si svestì in fretta, lanciando con noncuranza la costosa
tunica su una sedia, e scelse un completo con pantaloni di raso luccicante.
Anche se si trattava di un abito un po' meno costoso di quello che adesso
giaceva abbandonato sulla sedia, era molto più comodo.
Lui era già in piedi quando la donna entrò, e stava guardando pigramen-
te il via vai della piccola struttura d'atterraggio vicina alla sala di ricevi-
mento. Lei intravide oltre le sue spalle lo shuttle di Sarpan parcheggiato, di
cui si stavano occupando i membri della sua squadra. L'uomo indossava
una ampia camicia bianca con il colletto slacciato, le maniche corte, e dei
pantaloni in tinta di stoffa leggera, e sembrava più un uomo in vacanza che
l'emissario ufficiale di una razza aliena. Rihana riconobbe in lui lo stesso
uomo che l'aveva contattata, per accordarsi sull'incontro, il giorno prece-
dente.
«Padrona Valtane» disse con un educato cenno del capo che era quasi un
inchino formale. «A nome dell'ambasciatore Press, la ringrazio di avermi
ricevuto.»
«La prego, si metta comodo» disse lei guidandolo verso un divano circo-
lare situato in un angolo della stanza e prima di continuare aspettò che si
fosse seduto, e che avesse appoggiato in grembo una piccola cartella. «De-
vo ammettere signor... Carrigan, no?... che sono un po' sorpresa. Quando
ieri ci siamo parlati, avevo avuto l'impressione che l'ambasciatore in per-
sona desiderasse parlarmi.»
Carrigan si schiarì la voce, ma se era nervoso o insicuro non lo diede a
vedere. «Mi dispiace che ci sia stato un malinteso, Padrona Valtane, ma
l'ambasciatore non incontra mai nessuno di persona, nemmeno i membri
della sua stessa razza, durante ciò che chiamano "Primo contatto". È con-
suetudine dei membri importanti del regno di Sarpan che l'incontro ini-
zialmente avvenga tramite un intermediario, anche quando ci si incontra
nella stessa stanza, e hanno esteso questa consuetudine anche ai membri
dei Cento Mondi. Mi scuso, ma credevo che lei ne fosse al corrente.»
«Primo contatto» ripeté lei quasi a se stessa, e poi gli tese la mano.
«Molto bene, allora.»
Lui prese la mano che lei gli offriva. «L'ambasciatore Press porge i suoi
saluti e i suoi migliori auguri alla Casa dei Valtane.»
Lei fece un cenno di ringraziamento e Carrigan cominciò a sciogliere la
stretta, ma Rihana trattenne la mano ancora un po' prima di lasciarla anda-
re, per studiare le sue reazioni. E anche in quel caso lui sembrò assoluta-
mente padrone dei propri gesti.
«Allora» domandò lei abbandonandosi sulla poltrona «potrei sapere qual
è lo scopo di questo incontro?»
«Dal momento che è ampiamente risaputo che la Casa dei Valtane non è
più unita a quella dell'Imperatore, l'ambasciatore è curioso di sapere a cosa
si deve la vostra presenza sulla Luna» rispose lui senza alcuna esitazione.
«Può porle qualche domanda sui suoi scopi?»
Rihana sorrise tra sé e sé. Così arrivi subito al punto, eh? pensò. Perché
no? «Sì, può.»
«Benissimo. Prima di incontrarlo mi permetta di illustrarle alcuni punti
del protocollo.»
Rihana fu colta di sorpresa. «Lui è qui?»
«Sì: è sullo shuttle con cui sono arrivato. Credevo di essermi spiegato.»
***
4: Decisione
Gesù, pensò Adela mentre si avvicinava al suo ufficio, che altro c'è, an-
cora? Mancavano meno di due ore all'inizio del Consiglio Planetario dei
Cento Mondi, e l'ultima cosa di cui aveva bisogno era un visitatore. Si era
seduto ad aspettare su una delle poltrone vicine al banco di ricezione e alla
base dei terminali fuori dal suo ufficio. Il suo segretario la raggiunse non
appena la vide arrivare. «Mi dispiace, dottore» balbettò «ma hanno insisti-
to che volevano aspettare...»
Adela lo liquidò con un sorriso di comprensione e scosse la testa. «Non
preoccuparti, Stase» disse. «Perché non ti prendi una pausa.» Lui annuì
con entusiasmo, e non perse tempo dileguandosi in direzione della Hall.
Adela si girò verso il visitatore. «Sì? Posso esserle utile?»
L'uomo si alzò dalla poltrona, tenendo le mani intrecciate con noncuran-
za davanti a sé. Nonostante indossasse un elegante abito da uomo d'affari,
qualcosa nei suoi modi rendeva ovvio il fatto che era al servizio di qualcu-
no. «Mi chiamo Poser, e sono un servitore di Casa Valtane. La Padrona
Rihana Valtane desidera parlarle.»
«Temo che questo non sia il momento opportuno...»
«Desidera parlarle in privato» continuò come se lei non avesse detto nul-
la, sfoderando uno dei suoi migliori sorrisi di plastica. «Mi sono preso la
libertà di organizzare il colloquio nel suo ufficio.»
«Nel mio... capisco.» L'uomo attese pazientemente, sorridendo senza al-
cuna esitazione. Sembrava determinato a non spostarsi di un millimetro;
conoscendo l'ex moglie di Javas, probabilmente temeva che avrebbe messo
in pericolo la propria vita se avesse desistito.
«D'accordo.»
Il sorriso di lui si allargò più che poteva, e l'uomo bussò alla porta ener-
gicamente. Un altro servitore aprì la porta dall'interno. «Il dottor Montgar-
de è qui» disse quello rimasto sulla porta quando si fu aperta del tutto.
Fece segno ad Adela di seguirlo e poi prese posizione a lato della porta,
annunciandola formalmente mentre la faceva entrare. «Il dottor Adela de
Montgarde, la Padrona Rihana della Famiglia Valtane.»
Nonostante Adela fosse molto arrabbiata per l'insistenza della sua visita-
trice che l'aveva interrotta per ottenere un "colloquio", non poté fare a me-
no di rimanere intimorita da ciò che vide. Rihana era ancora più sorpren-
dente di quanto Adela ricordasse dalla prima volta che aveva incontrato su
Corinto la donna, una decina d'anni prima a cena dall'Imperatore, a fianco
del Principe Javas. Indossava un abito lungo aderente, blu cobalto, che
luccicava a ogni minimo movimento. Intorno al collo aveva una collana di
zaffiri, ricavata presumibilmente da un'unica gemma, che con gli identici
gioielli che portava alle orecchie e al polso creava un contrasto perfetto
con la massa selvaggia di capelli ramati sciolti sulle spalle.
Adela s'inchinò automaticamente in modo rispettoso. «Principessa Riha-
na...»
Uno sguardo di ghiaccio bloccò Adela prima che potesse finire. «Dottor
Montgarde, sono assolutamente sicura che si rende conto che il titolo di
principessa non è più opportuno. "Padrona" andrà benissimo.»
Adela sentì un impeto di collera ma lo soffocò e chinò lievemente la te-
sta un'altra volta. «Come preferisce, Padrona. Cosa posso...»
«Grazie Poser, Dennie.» Disse Rihana bruscamente, interrompendo
Adela un'altra volta. «È tutto per adesso»
I due annuirono educatamente, e uscirono, chiudendo la porta dall'ester-
no. Adela sentì un leggero clic e si rese conto che uno dei servitori di Ri-
hana si era preso la libertà di chiudere a chiave.
«Che cosa l'ha condotta qui, Padrona?» Domandò Adela cercando di u-
sare un tono di voce il più possibile amichevole. «A dire la verità, non sa-
pevo nemmeno che si trovasse sulla Luna.»
Rihana la guardò per un attimo pensierosamente, poi disse. «Posso se-
dermi?» Fece un cenno in direzione di un sofà che si trovava dall'altro lato
della stanza accanto alla scrivania di Adela, e senza aspettare risposta vi si
diresse.
Adela la seguì impressionata alla vista dell'abito della donna che scintil-
lava mentre camminava, e si sedette su una poltrona di fronte alla sua ospi-
te.
«Come le ho chiesto prima, che cosa l'ha condotta qui?»
Rihana prese dalla scrivania una piccola statuetta, ricavata da un pezzo
di roccia grisiana, e la osservò, rigirandola tra le mani delicate mentre par-
lava. «Credo che ciascuna di noi due abbia qualcosa da offrire all'altra»
disse senza preamboli. «La mia Famiglia potrebbe essere interessata a of-
frire, a un certo prezzo, ovviamente, appoggio per il raggiungimento della
sua, em, meta.» Sollevò un sopracciglio in segno d'intesa e aggiunse un
leggero sorriso alle parole. «La Famiglia Valtane ha un'influenza conside-
revole su alcuni dei Mondi di Frontiera, un'influenza che potrebbe essere
necessaria per portare il progetto a compimento.» Poggiò la statuetta sulla
cima di un mucchio di moduli che erano sulla scrivania di Adela, e non fe-
ce nemmeno il gesto di rimetterla in piedi quando rotolò giù.
«Ma a che proposito mi parla dei mondi di frontiera?»
Le domandò di rimando Adela, senza fare alcun tentativo, a quel punto,
di nascondere il disprezzo che provava per la sua ospite. «Lei, Padrona, è
al corrente di qualche problema laggiù?»
Gli occhi di Rihana scintillarono, e per un momento perse la calma, ma
la recuperò immediatamente. «Vediamo di essere oneste l'una con l'altra,
d'accordo? Senza il totale appoggio di ognuno dei pianeti dei Cento Mon-
di, non può certo sperare di portare a buon fine il suo progetto.»
«Capisco.» Adela sollevò a sua volta un sopracciglio. «Lei adesso am-
mette che la mia idea ha dei pregi?»
L'ex principessa inclinò leggermente la testa rendendosi conto che la
donna con cui stava patteggiando era un avversario forte.
«Mi lasci dire una cosa: la mia gente ha fatto delle ricerche sulle sue teo-
rie, e le ha trovate valide. Tecnicamente valide, ecco tutto.» Si appoggiò al
sofà e incrociò le lunghe gambe. Adela notò che il vestito lungo era scivo-
lato di lato, e mostrava le grazie della donna.
«Comunque, personalmente, continuo a credere che questo tentativo sia
il folle sogno di un pazzo, che cerca di lasciare un ultimo memorabile ri-
cordo di sé. Ma non ha nessuna importanza; posso ottenerne grandi van-
taggi per la mia Famiglia. E cosa c'è di tanto spaventoso in questo?»
Che cos'è esattamente che vuoi, si domandò Adela. E quale sarebbe il
tuo prezzo? «Ecco la risposta alla sua richiesta, allora: non c'è niente di
sbagliato in questo, Padrona. E io devo accettare tutto l'aiuto che posso ri-
cevere. L'appoggio della Famiglia Valtane sarà assolutamente gradito».
Apparentemente soddisfatta dal fatto che l'incontro stava per concluder-
si, Rihana si alzò e si diresse verso la porta.
«Grazie per avermi concesso il suo tempo, dottore» disse lasciando un'o-
locarta da visita sul tavolo di servizio. La fragile carta svolazzò senza ade-
rire alla superficie del tavolo e poi cadde per terra. «Può contattarmi con
questa per mettere a posto ogni questione riguardante il nostro reciproco
vantaggio.» Sorrise educatamente e fece un mezzo inchino, più d'intesa
che di rispetto, poi bussò alla porta chiusa. Uno dei suoi servitori la aprì
immediatamente dall'esterno.
Prima di uscire Rihana si girò per un attimo, quasi come se le fosse ve-
nuto in mente qualcosa all'improvviso. «Per questo progetto... ci vorranno
diverse generazioni, o mi sbaglio?»
«È così» rispose lei, alzandosi. «Avrò bisogno di anni di sonno criogeno
e di processi di ringiovanimento per poterlo vedere realizzato.»
Rihana annuì, e un sorriso sadico le apparve sulle labbra. «Allora lo per-
derà, questo è certo, come l'ho perso io.» Si girò brutalmente e uscì senza
dire altro.
Naturalmente Adela lo sapeva, ma si era rifiutata di pensarci: una volta
che Javas fosse salito sul trono, secondo la legge imperiale, non avrebbe
più potuto sottoporsi alle terapie di ringiovanimento. Lei l'avrebbe visto
invecchiare e morire.
Chiuse la porta, e recuperò la olocarta da visita, notando che il rettango-
lo color rame era apparentemente vuota e trasparente. Ma sollevandolo alla
luce dalla giusta angolazione, si accorse che l'insegna della Famiglia Val-
tane brillava di un acceso blu cobalto.
5: Conclusioni
Il Principe Javas si trovava in quel momento da solo in un lato del palco.
Tutti gli altri, i funzionari imperiali, gli aiutanti, i membri della corte, e tut-
ti quelli che erano coinvolti nella presentazione, si aggiravano lì intorno
bisbigliando e sussurrando senza tregua. Dall'altro lato del palco c'erano
diversi gruppi di persone. Con facilità riconobbe Bomeer e il suo seguito, e
riuscì addirittura a scorgere nella penombra l'espressione torva che l'uomo
aveva sul viso. Poco più in là, c'era il comandante Fain che dava ad alcuni
dei suoi uomini gli ultimi ordini. Davanti a una delle entrate posteriori c'e-
ra Adela circondata dai membri della sua squadra di laboratorio. Mentre la
guardava, si accorse che tutti gli scienziati andavano a scambiare con lei
qualche parola, le stringevano la mano o le davano un breve abbraccio,
prima che si girasse e passasse attraverso il controllo di sicurezza. Natu-
ralmente capiva perfettamente la necessità delle misure di sicurezza, ma si
sentì a disagio vedendo che era lei a esservi sottoposta. Allontanando lo
sguardo, vide Glenney che si spostava da un punto all'altro vigilando atten-
tamente, controllando qua e là, apparentemente soddisfatto del funziona-
mento delle misure di sicurezza. Soltanto un'ora prima si era sentito in uno
stato di forte eccitazione, di inquietudine, e aveva goduto di quegli ultimi
minuti di trambusto che precedevano il passaggio dagli anni di lavoro pre-
paratorio per il progetto del padre all'inizio del progetto stesso. Ma il modo
di fare di alcune delle persone chiave che aveva intorno, insieme al costan-
te mormorio di impazienza che arrivava dai rappresentanti dei Cento Mon-
di stipati nell'auditorium, lo avevano molto influenzato in quegli ultimi
minuti che precedevano la presentazione. La naturale punta di eccitazione
che c'era nell'aria lo aveva contagiato nel modo peggiore, e ora era presa
da puro e semplice nervosismo.
Era una sensazione che non gli piaceva.
Il retroscena dell'auditorium era enorme, grande quasi quanto tutta l'area
occupata dai posti a sedere, e Javas si sentiva scomparire dietro la massic-
cia tenda di velluto che si stava aprendo in quel momento, mentre veniva-
no approntati i dettagli dell'ultimo minuto. Fissava l'andirivieni che si
svolgeva davanti a lui, notando che gli uomini scelti di Glenney restavano
ai loro posti sulle passerelle, in mezzo alle parti già ben sistemate delle
scenografie e dell'impianto luci. Sorrise osservando il groviglio di cose che
succedevano nel retroscena, cose che normalmente erano invisibili al me-
cenate di un teatro, ma necessarie a uno svolgimento senza intoppi della
produzione. Proprio come nella vita, pensò divertito.
Javas si avvicinò al sipario e diede uno sguardo al palcoscenico, come
aveva già fatto almeno un centinaio di volte, verificando, se ce ne fosse
ancora bisogno, che lo schermo protettivo era al suo posto sul bordo del
proscenio. Fino all'inizio della presentazione lo schermo avrebbe mantenu-
to il modulo opaco. La folla che si trovava dall'altro lato non riusciva a ve-
dere la retrostante zona in penombra, ma la forte illuminazione della sala
permetteva a Javas di intravedere qualche occasionale spostamento del
pubblico. La vista delle silhouette di una dozzina di guardie imperiali ar-
mate, dall'altra parte dello schermo, con le spalle voltate per controllare la
folla, lo sollevò un po' dalla tensione.
«Sire?»
Il principe sobbalzò per l'improvvisa intrusione nei suoi pensieri, e si
voltò bruscamente verso il suo aiutante personale. «Sì» disse arrabbiato.
«Che cosa c'è?»
L'aiutante si inchino con rispetto. «Sire, l'Imperatore sta per giungere al-
l'auditorium.»
«Molto bene. Informa il comandante Fain che inizieremo non appena
mio padre arriverà.»
L'uomo si girò e rapidamente si diresse dall'altra parte del palcoscenico.
Javas stava per andare a raggiungere Fain, quando fu bloccato da una ma-
no che gli tirava delicatamente la manica dell'uniforme.
Adela era splendida con indosso un abito lungo svolazzante, blu oltre-
mare, che le cadeva in modo squisito, e ne accentuava la bellezza. I capelli
scuri, che normalmente portava raccolti o tirati indietro, le cadevano sciolti
sulle spalle. Una pietra levigata pendeva da una semplice catena d'argento
che aveva intorno al collo, e si era messa tra i capelli un fiore del fuoco.
Sorrise e senza parlare si diresse proprio nel punto in cui il Principe Javas
si trovava qualche minuto prima, dietro il sipario.
Javas la seguì. A qualche metro di distanza davanti alla parete c'era una
guardia in uniforme imperiale. Dimenticando che era proibito lasciare la
posizione assegnatagli, l'uomo fece il gesto di ispezionare la passerella da-
vanti a lui. Javas lesse il cartellino con il nome che aveva sull'uniforme e
ne prese mentalmente nota.
Poi prese la ragazza sotto braccio e inebriato dal modo in cui il profumo
di lei sì mescolava gradevolmente con quello naturale del fiore che aveva
tra i capelli, la baciò.
Si separarono e Adela, che era rimasta tra le sue braccia, gli appoggiò la
testa contro il petto. «Non riesco a credere che finalmente ci siamo» disse
alla fine.
Javas le prese delicatamente il mento tra le dita e la guardò profonda-
mente negli occhi. «Non ho mai dubitato che sarebbe accaduto.» Conti-
nuando e tenerle il mento con la mano, la baciò di nuovo, questa volta con
più tenerezza.
La guardia che era lì accanto tossì e Javas la respinse dolcemente, con ri-
luttanza. La guardia fece un segno in direzione del palco e Javas si girò,
con le mani intrecciate dietro la schiena, poi vide Fain che si avvicinava.
«Comandante?»
Fain fece un veloce inchino ad Adela, poi si rivolse al Principe. «Sire,
vostro padre è arrivato.»
«Grazie.»
Fain si inchinò di nuovo, e poi si affrettò verso l'entrata posteriore, e Ja-
vas vide che adesso era circondata da tutti e due i lati da membri della cor-
te. Cercò la guardia con gli occhi e gli fece un cenno di ringraziamento,
poi si incamminò lungo il palcoscenico tenendo Adela sottobraccio.
Erano seduti nelle due file riservate del proscenio, qualche metro dietro
lo schermo protettivo, che adesso si incurvava, invisibile e trasparente, in-
torno al limite del palco. C'erano cinque posti nella prima fila: l'Imperatore
era seduto sul trono al centro del palcoscenico, affiancato a destra dal
Principe, che in quel momento si stava rivolgendo alla folla con qualche
frase introduttiva, e dal dottor Montgarde. Alla sinistra dell'Imperatore c'e-
ra il posto di Fain, e poi il suo, proprio accanto a quello di Fain.
Bomeer prestava poca attenzione sia a ciò che il Principe stava dicendo
sia alla dozzina di persone sedute nella fila dietro di loro. Stava dando u-
n'occhiata alle persone sedute nella seconda fila di poltrone proprio di
fronte alla tenda di velluto abbassata. Lì c'erano Plantir Wynne e la balia
dell'Imperatore, Brendan. C'era anche qualcuno della squadra scientifica, e
diversi altri membri della corte.
Bomeer tornò a guardare l'assemblea, disturbato dalla magnificenza di
ciò che vedeva. L'auditorium era quasi completamente pieno di rappresen-
tanti dei Cento Mondi e dei loro ospiti, cosa che Bomeer non si aspettava.
Ed eccetto una piccola sezione sul retro della sala in cui alcuni rappresen-
tanti vi stavano assistendo olograficamente, quasi tutti gli spettatori aveva-
no sostenuto un lungo viaggio per vedere coi propri occhi l'Imperatore che
presentava il suo folle progetto.
Anche se il momento della discussione nel Consiglio non sarebbe inizia-
to se non dopo tutte le presentazioni, le discrete indagini di Bomeer lo a-
vevano già messo al corrente del fatto che il sostegno per il progetto era
forte da parte dei Mondi. Aveva anche incontrato un certo numero di rap-
presentanti che si opponevano apertamente a quell'impresa rischiosa, ma
non era certo che avrebbero costituito un'opposizione sufficiente a ostaco-
larla.
Mentre il Principe parlava delle opportunità, dell'avanzamento tecnolo-
gico e dei benefici che ci sarebbero stati per tutti i membri dell'Impero,
Bomeer diede un'occhiata al pubblico dei rappresentanti, che stavano a-
scoltando rapiti il discorso di Javas.
«... Sarà un'epoca di espansione, l'epoca della scienza» stava dicendo il
Principe Javas. «Ciascuno dei Mondi, contribuendo con le proprie risorse e
con le proprie prerogative, crescerà in proporzione al contributo offerto.
Forse vi state domandando: ma in che modo possono contribuire quei
mondi che hanno un livello tecnologico inferiore? E i Mondi di Frontiera e
le colonie appena fondate, che potrebbero avere minori competenze da of-
frire, dal momento che stanno lavorando per ideare e costruire le loro stes-
se case?» Javas fece scivolare lo sguardo lentamente sul pubblico, mentre
cominciavano a diffondersi brusii e mormorii di assenso tra alcuni dei rap-
presentanti che, a giudicare dalle apparenze, sembravano pensarla allo
stesso modo.
«Anche quei Mondi prenderanno parte a quest'impresa. Infatti i Mondi
di Frontiera, anche se qualche volta poveri di tecnologie, sono ricchi delle
materie prime fondamentali per la completa riuscita della più importante
impresa che i Cento Mondi abbiano mai tentato. Quei Mondi, in cambio
delle materie prime e della manodopera, possono aspettarsi di ricevere un
aiuto maggiore per fondare una patria di quello che hanno ricevuto tutti gli
altri Mondi dall'inizio dell'Impero...»
Non c'è da meravigliarsi se la risposta dei Mondi è così positiva, pensò
Bomeer, è facile ottenere cooperazione quando si paga per riceverla.
L'accademico tornò di nuovo a guardare gli spettatori, cercando di desin-
tonizzarsi dal discorso del Principe, ma fu ancora una volta impressionato
dall'immensità dell'assemblea. Bomeer si rese conto che le poltrone dei
rappresentanti erano state predisposte sulla base della distanza del loro
pianeta natio dalla Terra. Ognuna delle delegazioni si distingueva per un
piccolo stendardo, che mostrava l'insegna o la bandiera di quel pianeta. I
rappresentanti dei Mondi più vicini alla Terra erano seduti nelle file davan-
ti, e quelli dei Mondi più lontani nella parte più alta dell'auditorium. I rap-
presentanti della Terra, della Luna, e delle loro orbite erano seduti in prima
fila.
Bomeer osservò la delegazione terrestre, e quasi gli si fermò il cuore
quando vide seduto in mezzo al gruppo un uomo alto con la barba. Cristo,
che cosa ci fa qui?
Proprio mentre lo stava guardando, Johnson si girò di scatto e il suo
sguardo incrociò inaspettatamente quello di Bomeer. Gli occhi feroci del
terrestre, simili a quelli di un lupo, lo misero a fuoco immediatamente e...
l'uomo gli stava forse sorridendo?
6: Gli inizi
Come era accaduto già numerose volte dalla morte del padre, avvenuta
circa tre settimane prima, Javas era in riunione con i due amici e consiglie-
ri più cari all'Imperatore, in quello che era stato lo studio di suo padre. C'e-
ra molto da fare, ora che il Consiglio Planetario aveva approvato, con un
margine schiacciante di voti, il progetto del dottor Montgarde, e Javas si
era già consultato numerose volte con Fain e Bomeer. Il comandante, a-
vendo realizzato i vantaggi che il progetto offriva alla Flotta Imperiale, si
era dimostrato uno dei sostenitori più fedeli. E anche Bomeer, pur conti-
nuando a sottolineare ogni pecca o aspetto negativo del piano, sembrava
che alla fine avesse ammorbidito la sua linea d'opposizione.
Il comandante Fain si avvicinò a passi lenti verso lo schermo. «Pallatin è
stato una spina nel fianco per l'Impero fin dalla sua colonizzazione tre se-
coli fa» disse Fain con voce roca per il troppo parlare. «Hanno concluso
solo qualche piccolo trattato con gli altri Mondi, e ancor meno scambi, e a
parte la rappresentanza minima che hanno nel Consiglio Planetario, prefe-
riscono vivere senza assistenza imperiale. Non sembrano affatto preoccu-
pati del loro corredo genetico che va alla deriva, e non dimostrano alcun
interesse nel preservare una linea di base genetica. Non mi sorprende che
Pallatin sia stato tra quelli dei Cento Mondi che hanno rifiutato apertamen-
te di cooperare.»
Fain attraversò la stanza, riprendendo il suo posto vicino a Bomeer.
«Sfortunatamente» continuò «possiedono più materie prime necessarie alla
costruzione delle navi di qualsiasi altro Mondo. Senza contare che le loro
attrezzature tecniche sono le più precise dell'Impero.»
«Ma loro sono membri dell'Impero, anche se solo formalmente» conclu-
se al suo posto Javas. «E in quanto tali, non possono, anzi non devono ri-
fiutare, in nessun caso, le necessità dell'Impero.»
Fain alzò le spalle. Il capo delle Forze Militari Imperiali aveva sostenuto
per tutta la sua carriera che con i Mondi di Frontiera era necessaria mag-
giore fermezza, e che se anche non esultava all'eventualità di usare la for-
za, in caso di bisogno, era pronto a utilizzarla.
«Abbiamo bisogno della cooperazione di Pallatin in questo progetto»
disse Javas con fermezza. «Fa' pure tutto ciò che è necessario, comandan-
te.»
Fain fece un cenno di assenso; la leggera punta di soddisfazione eviden-
te nel suo atteggiamento fece capire a Javas che aveva gradito la sua deci-
sione.
Questo incontro, come molti altri, durava da ore. Javas si sfregò il viso
con le mani, cercando di rianimarsi, e una sensazione improvvisa di fru-
strazione lo travolse, costringendolo a interrompere la discussione. Dopo
essere rimasto a occhi chiusi per scacciare la stanchezza, li riaprì e vagò
con lo sguardo per lo studio, fermandosi sullo schermo, poi sulla lavora-
zione artigianale dell'armadietto in legno, e infine sulla massiccia scrivania
sempre di legno su cui erano poggiate le sue dita. Aveva progettato perso-
nalmente la stanza e tutto ciò che conteneva per l'Imperatore, l'aveva equi-
paggiata con tutti i lussi, con ogni comodità che il padre potesse desidera-
re. Javas era rimasto sorpreso, quando con riluttanza aveva preso per sé lo
studio, di fronte all'estrema comodità di quella stanza, che gli si "adattava"
perfettamente. Era una sensazione che lo disturbava.
«Perché lo ha fatto? Perché ha perdonato il suo assassino?» Esplose Ja-
vas colpendo con il pugno la scrivania, e facendo sobbalzare i due uomini
che gli sedevano di fronte. Poi si piegò in avanti e si prese il mento tra le
dita aguzze, guardando fisso negli occhi i due. «Tu lo conoscevi meglio di
chiunque altro, Fain. Perché?»
«Non posso rispondere a questa domanda, Sire.» Fain era rigidamente
seduto sulla sua sedia, un po' distratto, e rispose allo sguardo del nuovo
Imperatore. C'era forza in quegli occhi, ma c'era anche dolore e frustrazio-
ne.
«Nemmeno io posso rispondere» aggiunse Bomeer intono sommesso.
Fece scorrere una mano tra i folti capelli in modo più irrequieto del solito.
«Sire, nessuno avrebbe potuto accorgersi dell'enormità della minaccia che
l'infermiere personale di vostro padre rappresentava per la sua salute. Nes-
suno.» Abbassò gli occhi verso il pavimento mentre sceglieva le parole,
poi guardò Javas seriamente, ma con attenzione. «Sire ho servito vostro
padre per tutta la mia vita, e se anche qualche volta mi sono opposto a lui,
l'ho sempre amato come un fratello. Gli ho parlato onestamente di ciò che
pensavo su ogni argomento, anche quando le mie posizioni erano in con-
trasto con le sue, come è accaduto per il progetto. È vero che la brutalità
delle mie osservazioni qualche volta l'ha fatto arrabbiare, ma i miei consi-
gli sono sempre stati considerati degni d'importanza. Posso permettermi di
essere così sfrontato da parlare brutalmente?»
Fain si mosse un po' sulla sedia, inarcando quasi impercettibilmente il
sopracciglio.
«Se c'è una cosa che ho imparato da mio padre, è quella di cercare i con-
sigli degli altri e di prenderli in considerazione. Parla liberamente.»
Bomeer si schiarì la gola, e senza ulteriori esitazioni, disse: «Sire, vi sta-
te rimproverando per la morte di vostro padre».
«È così, Accademico?» Javas sentiva la rabbia crescergli nella voce. «E
voi, comandante? Siete d'accordo?»
La risposta di Fain fu immediata. «Sì.» Si fermò, poi, quasi come se vo-
lesse valutare ulteriormente il suo nuovo Imperatore prima di continuare;
infine disse. «E posso parlare anch'io con franchezza, Sire?»
Javas annuì.
«Il partito d'opposizione è stato battuto, e la stessa morte di vostro padre
farà confluire i Cento Mondi intorno al progetto. C'è molto da fare, ma è
mia opinione ponderata che qualsiasi preoccupazione relativa alla sua mor-
te potrà servire soltanto a tenerci lontani dal raggiungere le mete che vo-
stro padre si prefiggeva.»
Javas aprì la bocca per ribattere a quell'affermazione, ma invece annuì
lentamente comprendendo che i due uomini condividevano il suo senso di
colpa. Osservando prima uno poi l'altro, si accorse che tutti e due sembra-
vano stanchi tanto quanto lo era lui, ed era certo che un'occhiata allo spec-
chio avrebbe mostrato che aveva intorno agli occhi gli stessi cerchi che
vedeva intorno a quelli dei suoi compagni. Si allontanò dalla scrivania e si
avvicinò silenziosamente allo schermo situato sulla parete opposta. Con le
braccia intorno al petto, guardò pigramente la rappresentazione grafica del
sistema di Pallatin, di cui Fain aveva discusso.
Hanno ragione, pensò, rimanendo davanti allo schermo. Stiamo accu-
sando noi stessi. Sospirò profondamente, e ritornò alla scrivania.
«Vi ringrazio per la vostra onestà» disse allora l'Imperatore dei Cento
Mondi.
«Comandante, quando sarai pronto a partire per Pallatin?»
Erano distesi l'uno accanto all'altro, con le gambe ancora avvolte nelle
lenzuola di raso dell'enorme letto, e guardavano tranquillamente i rami de-
gli alberi che ondeggiavano dolcemente sopra di loro. Ogni tanto i rami si
spostavano abbastanza da rivelare a Javas una manciata di stelle che gli era
sconosciuta quanto quella che si vedeva dalla Luna. Si appoggiò sui gomiti
e sorrise di come l'effetto della foresta olografica fosse aumentato dal pro-
fumo delle foglie e dei fiori, e di come il canto di un uccello notturno, in
lontananza, sembrasse un richiamo rivolto alle lune gemelle che si stavano
alzando in quel momento tra un radura di alberi. Ritornò a guardarla, e ri-
mase incantato dal modo in cui i capelli si drappeggiavano intorno alle sue
spalle bianche, e di come il petto le si sollevava e si riabbassava mentre re-
spirava. Lei spostò il viso per guardare le lune che si alzavano, così lui non
fu più in grado di decifrare la sua espressione. Avevano fatto l'amore in
modo appassionato, pur sapendo che lei sarebbe partita.
Nonostante l'impressione di spazio aperto suggerita dalla foresta ologra-
fica, la stanza era diventata calda, e quando Javas accarezzò il morbido
ventre piatto di Adela con la mano sinistra, la punta delle dita gli scivolò
leggermente su un sottile rivolo di sudore. Corrugò la fronte concentrando-
si, e mentalmente ordinò un abbassamento della temperatura di qualche
grado. Con un ulteriore sforzo di concentrazione si produsse un alito d'aria,
che avvolse la camera da letto quasi come una brezza, dando l'impressione
di arrivare dalla "foresta" più che dal sistema di raffreddamento della stan-
za. Anche se ancora non si era abituato all'integratore, e non aveva ancora
imparato a usarlo con la stessa naturale facilità che aveva mostrato suo pa-
dre, tuttavia stava già cominciando ad apprezzare certe raffinate possibilità
che offriva.
La respirazione di Adela si era normalizzata, e il suo respiro era quasi
impercettibile, quando prese la mano di lui tra le sue e se la portò alle lab-
bra, coprendolo poi con le lenzuola che si erano ammucchiate nel mezzo.
Strinse Javas a sé e lo avvolse in un lungo bacio appassionato, ma prima
che lui potesse ricambiarlo, si allontanò spostando le gambe dal proprio la-
to del letto. Senza una parola si alzò, dirigendosi verso un piccolo sofà che
delimitava la stanza, e si fermò lì di spalle, in controluce rispetto alla luna,
ad ammirare la vista che la circondava.
«Grazie» disse teneramente «per questa visione del mio pianeta, mi
mancava talmente.»
«L'avevo fatta programmare un po' di tempo fa» rispose lui, rimanendo
appoggiato su un gomito. «Volevo farti un regalo.» È così esile, pensò,
guardando la luna che attraverso gli alberi andava a riflettersi sulle curve
aggraziate del suo corpo. «Anche se non l'avevo considerato un regalo di
addio.»
Naturalmente era giusto che lei partisse. Se c'era qualcuno che poteva
convincere quelli di Pallatin della necessità della loro cooperazione, era
proprio Adela. Non era stata forse lei, dopo tutto, a convincere anche lo
stesso Javas? Almeno, se alla fine Fain fosse stato costretto a usare la for-
za, non sarebbe certo accaduto perché erano venute a mancare le sue capa-
cità di persuasione. Poi c'era il fattore tempo. Tutti e due avevano dovuto
fare i conti con il fatto che lei avrebbe seguito il progetto fino alla sua con-
clusione, e questo richiedeva lunghi periodi di sonno criogeno o di viaggio
alla velocità della luce, se non tutte e due le cose. Il viaggio sarebbe durato
circa quarant'anni di tempo reale, anche se lei sarebbe invecchiata sola-
mente di qualche anno. Scosse la testa al pensiero di quanto sarebbe stato
vecchio al suo ritorno, adesso che il ringiovanimento gli era proibito.
Un uccello le svolazzò talmente vicino da farla sobbalzare, ma subito
dopo scoppiò a ridere pensando a quanto era stata sciocca a farsi prendere
in giro da qualcosa che non esisteva veramente. Amo i tuoi modi da bam-
bina, e come le cose semplici ti rendano piena di gioia, pensò lui, quando
la risata gli giunse alle orecchie. Sto per perdere queste cose. Quel pensie-
ro gli fece venire in mente un'altra ragione, molto più importante, per cui
non aveva ostacolato la decisione di partire di Adela: la sua sicurezza per-
sonale. Fino a quando non avesse saputo tutta la verità sulla morte del pa-
dre, preferiva che lei si trovasse da qualche altra parte.
Ci fu un lieve cicalio, così leggero che non l'avrebbero udito se non ci
fosse stata tutta quella tranquillità intorno a loro.
«Capito.» Javas si infilò qualcosa addosso e poi si avvicinò ad Adela,
che non si era mossa dal sofà. Rimanendo alle sue spalle le circondò la vita
con le forti braccia e la baciò sul collo.
«E ora di andare, vero?» mormorò lei.
«Sì.»
Senza parlare Adela accese la luce, prese una tunica lunga fino al ginoc-
chio e se la infilò, sistemandosela addosso con l'aiuto delle mani, prima di
stringerla all'altezza della vita.
«Devo andare.»
Javas annuì, e dopo avere dato un ultimo sguardo alla tranquilla foresta
grisiana, si rivolse al sistema computerizzato della casa. «Cancella e ripri-
stina.» Istantaneamente la scena scomparve rimpiazzata dalla sua camera
da letto.
Avrebbe voluto trattenerla, chiederle, anzi ordinarle di restare, ma sape-
va che era meglio non farlo. Invece le prese il viso tra le mani e la baciò
ancora una volta.
«Addio» disse semplicemente.
Adela sorrise e avvicinandosi al suo viso gli carezzò le guance. Si solle-
vò sulla punta dei piedi e lo baciò, poi si girò e uscì tranquillamente dalla
camera da letto.
E anche dalla sua vita, per i successivi quarant'anni.
Titolo originale:
He Who Must Die
Analog SF/Fact, January 1992
LA GEROCRAZIA
di John Brunner e Er*c Fr*nk R*ss*ll
Dopo poco più di un'ora raggiunsero una città piuttosto grande, cinta da
mura in stile medievale. Furono lasciati passare attraverso dei portoni di
legno massiccio sorvegliati da sentinelle assonnate, evidentemente del tur-
no di notte, che a loro volta si produssero nel rituale del saluto con le dita.
Dall'altra parte delle mura si apriva un dedalo di strade strette, con un
acuto odore di fumo, come se gli abitanti avessero acceso dei fuochi per
proteggersi dal nuovo giorno. C'era già un po' di gente in giro; alcune per-
sone, dal volto arcigno, coperte da mantelli grigiastri con il cappuccio, lan-
ciarono delle occhiate prive di curiosità agli stranieri e poi ripresero la
propria strada.
Tutti gli edifici avevano tetti bassi, eccetto un'alta torre quadrata nel cen-
tro della città, che si rivelò essere la loro destinazione. Era una torre d'a-
spetto curioso, con la cima tagliata a quarantacinque gradi. La parte più al-
ta terminava parallela a uno dei lati, mentre quella più bassa sporgeva al-
l'esterno. La sua forma aveva un aspetto familiare, ma nonostante facesse
del suo meglio, Jerry non riuscì a identificarla.
Il poliziotto disse qualcosa, e Hannah tradusse.
«Dice che dovremmo ritenerci onorati. I custodi non hanno l'abitudine di
alzarsi così presto al mattino, eppure sono già tutti in piedi ad aspettarci.»
«Cattive notizie, allora» sospirò Jerry.
«Che vuoi dire?»
«Ti piacciono le persone che ti tirano giù dal letto prima del tempo?»
«Capisco.»
Era una città diversa da quella in cui erano entrati pochi giorni prima.
Quasi tutte le pareti erano imbrattate con slogan riferiti al Libro, tra i quali
emergeva sempre il numero 340. La gente aveva lasciato da parte le solite
faccende di tutti i giorni e se ne stava per le strade a discutere, gridare, a
tratti anche a lottare. I bambini che non erano andati a scuola saltellavano
qua e là intorno agli ufficiali svogliati, che, essendo essi stessi schiavi co-
me aveva spiegato Thull, facevano un tentativo solo formale di cercare di
portarli dentro. Davanti alla casa dei custodi si era assemblata la folla, con
dei cartelli approntati in fretta e furia che dicevano LASCIATECI
LEGGERE LA PAGINA DEL SALTO e UNO O DUE? DECIDETEVI!
«Sono pronta a scommettere» disse Hannah tranquillamente «che i cu-
stodi sono capaci di inventarsi qualsiasi ragione logica per giustificare che
la somma che risulta dal libro adesso è due. Molto probabilmente afferme-
ranno che è cresciuto. Alcuni potrebbero anche correre il rischio di profe-
tizzare che tra un secolo o poco più ci sarà un ulteriore aumento, fino ad
arrivare a tre.»
Thull fece una smorfia.
«Quello che hai detto conferma un punto su cui Fee e io abbiamo di-
scusso spesso quando eravamo a Gleege. Laggiù affermano che si possono
inventare associazioni tra qualsiasi tipo di idiozia e continuare a presentare
delle giustificazioni pseudologiche.»
«Quindi non bisognerebbe prendere sul serio queste cose?»
«Esatto.»
Avanzavano sempre più lentamente. Stavano per raggiungere la Torre
della figura uno, che era circondata da una folla sospettosa e potenzialmen-
te irascibile. Infine si immobilizzarono, proprio mentre una ragazza alta
con voce stridula costringeva un uomo che era vicino a lei a fare di tutto
per approntare un palco da cui parlare. Da lì si mise a gridare: «Non hanno
ancora finito di contare?»
«Non credo che possano!» gridò un uomo da venti metri di distanza.
«Non vi rendete conto che vogliono impedire alle persone di entrare a leg-
gere il precetto di oggi?»
Dalla folla si alzò un sospiro collettivo. Qualcuno gridò: «Non può esse-
re!»
Una voce burbera risuonò. «È la verità! Stamattina ero assegnato a tene-
re i conti. C'era una bambina a cui mancava solo una pagina, e il suo tem-
po scade oggi, ma loro mi hanno ordinato di chiuderle il cancello in fac-
cia!»
Un boato d'orrore attraversò l'assemblea, come il rumore del vento tra la
boscaglia.
«Il nuovo conteggio sarà di sicuro una bugia!» dichiarò una voce stridu-
la. «Ci hanno mentito prima e non ci hanno mai permesso di controllarlo!
È la prova che hanno mentito!»
Per quanto la logica fosse traballante, quello era il segnale che la folla
stava aspettando. Anche le guardie che proteggevano il palazzo dei custodi
erano schiavi. Non avevano alcun interesse a proteggerlo, e se abbandona-
vano il loro compito in quel momento, avrebbero avuto una discreta possi-
bilità di andare incontro a un futuro migliore. Per una volta (e in seguito
Jerry si ricordò che era un avvenimento raro) fu possibile vedere degli es-
seri umani che si comportavano in modo razionale per massimizzare i loro
benefici collettivi, piuttosto che lasciarsi influenzare dalla demagogia o la-
sciarsi intimorire da un tiranno.
Così le guardie, con intelligenza, aiutarono la folla a forzare i cancelli
del palazzo dei custodi. Dopo averli catturati e portati fuori tutti e nove, li
trascinarono nel luogo in cui era custodito il Libro. Thull, con i pugni stret-
ti, saltava da tutte le parti. «Preghiamo che non abbiano un altro asso nella
manica!» si lamentò. «Se le persone che sono state a contare per tutta la
notte hanno trovato un altro modo per ottenere come totale l'uno, questi
preti schifosi ricominceranno a pretendere di avere sempre avuto ragio-
ne...»
«Se ci proveranno» lo interruppe Hannah «segui il consiglio di Jerry e
chiedigli se trattengono anche la base otto.»
«La base che?»
«Non ti preoccupare. Non dovrebbe essere necessario... guarda! Avevo
ragione più di quanto credessi!»
La folla che circondava l'entrata della sala in cui era tenuto il Libro si
stava facendo da parte per lasciare passare uno sparuto gruppetto di anzia-
ni, imbrattati d'inchiostro fino ai gomiti, con gli occhi spalancati e arrossa-
ti, che parlavano con voce roca e dicevano frasi confuse.
«Sono queste le persone che hanno passato tutta la notte a contare il Li-
bro?» domandò Jerry.
«Credo di sì» rispose Thull.
«Che cosa stanno dicendo?»
«Che il libro ha come somma totale tre, o due, o otto, o cinque, o...»
Una delle persone in questione gridò con tutta la voce che aveva.
«Dice che c'è stata una magia. Che c'è una maledizione su di loro. Lui
personalmente ha contato una delle sezioni due volte, e la prima volta il ri-
sultato è stato otto e la seconda nove, anche se non c'era nessuna differenza
in quello che c'era scritto!»
In ritardo Jerry ebbe l'illuminazione. Si chinò verso Hannah.
«Dimmi, a cosa ti serve l'altro orecchino?»
«Be', devo avere sempre con me i miei campioni.»
«Il campionario per il tuo lavoro?»
«Che altro?»
«Vuoi dire che il Libro non raggiungerà mai più lo stesso risultato due
volte di seguito.»
«Pensi che sia una gran perdita?»
«Niente affatto.»
«Bene. Adesso tutto ciò che dobbiamo fare è aspettare l'invasione dei
gleegeriani, che sarà la prima dopo cinquant'anni e non incontrerà alcuna
resistenza, in parte perché tutti gli schiavi si metteranno immediatamente
dalla parte dei gleegeriani e in parte perché...»
Fece un gesto. La folla stava trascinando Wulgo fuori di casa, insensibi-
le alle sue urla, e lo stava riempiendo di insulti.
Thull si era messo ad applaudire insieme a tutti gli altri. Improvvisamen-
te fu come se avesse registrato piuttosto che sentito l'ultimo scambio di
battute che c'era stato tra Jerry e Hannah, e che solo allora si fosse reso
conto della loro importanza. Si girò verso di loro, sbattendo le palpebre ri-
petutamente.
«Hannah, sei stata tu a farlo?»
«A fare cosa?»
«Non so! Ma hanno provato a contare il libro e...!» Fece un gesto di ras-
segnazione.
«Sì, e non avranno più fortuna, se lo rifaranno.»
«Ma come hai fatto? Come?»
«Se te lo dico, ci guiderai nel luogo più vicino in cui possiamo unirci al-
l'esercito del re Nolon? Abbiamo bisogno di un ricevitore...»
«Per mettervi in contatto con il radiofaro di quella stella! Lo so! Va be-
ne!»
«D'accordo» disse Hannah con un sorriso. «Io commercio in microcon-
gegni. Sono talmente piccoli che potrei infilartene mille nell'occhio e non
li toglieresti mai più. Tengo la mia provvista qui» disse toccandosi l'orec-
chino. «Non c'è stato alcun problema a rieditare il Libro sotto la direzione
del computer che c'è in questa clip dell'altro orecchino. Sono collegati an-
che con il mio cervello. Tutto sommato è stato piuttosto divertente.»
«Rieditare?» Ripeté Thull confuso, mentre Jerry fissava Hannah come se
non l'avesse mai vista prima.
«Fare dei cambiamenti. Che cosa diceva la pagina di ieri?»
«Che cosa c'era ieri?... Ah... era quello sull'obbedire ai superiori natura-
li!»
«E la sua somma era...?»
«Sei, naturalmente!»
«Durante la notte» disse Hannah con modestia, tenendo gli occhi bassi.
«Ci sono stati risultati totali di quattro, nove e sette.»
«Cosa?»
«I vostri antenati erano talmente disperati alla fine per cercare di fare
funzionare le cose come volevano loro, che avevano fatto ricorso ad am-
massare alcuni casi speciali come eccezioni su forme alternative. Ci sono o
no quindici segni che hanno come valore uno?»
«Ah... sì!»
«E c'è qualcuno di loro che attualmente è pronunciato?»
«No!» disse Thull stringendo i pugni.
«Perché?»
«Perché il numero sacro è riservato...»
Sopprimendo l'impulso di sollevare il dito nel simbolismo del numero
sacro, si lasciò cadere le braccia lungo i fianchi.
«Avrei dovuto rendermene conto quando ero a Gleege, non è vero?»
«Sì» rispose Hannah con calma. «È stato l'unico periodo della tua vita,
in cui hai goduto di qualche libertà. Comunque, spesso le persone come te
non sanno come avvantaggiarsi dalla libertà quando hanno la possibilità di
averla. Pensi che Wulgo ne sarà capace?»
«Di godersi la libertà?»
«Be', è stato deposto dal suo ruolo di custode, così l'unica cosa che anco-
ra lo può ostacolare è il Libro, e per quanto riguarda il Libro...»
Scartò il pensiero, scrollando le spalle. Wulgo, lamentandosi, si avvicinò
barcollando, poi li oltrepassò inseguito da un gruppo di ragazzini gioiosi
incitati dalle loro madri.
«Mi sbaglio, o conosco alcuni di quei ragazzini?» mormorò Jerry.
«Sì.»
«Allora sei davvero un buon maestro, non è vero Thull?»
«Non è esattamente nel nostro stile invadere il territorio degli altri» disse
re Nolon di Gleege, accarezzandosi la barba color bronzo. «D'altro canto, è
l'unica cosa che possiamo fare per evitare entrate abusive nel nostro terri-
torio...» Sorrise, guardando affettuosamente sua figlia.
«Bene, ecco il vostro ricevitore» continuò. «È stato trasportato come a-
vevate richiesto sulla cima di una collina per puntarlo verso Chlorosis
Kappa, ed è stato esposto alla giusta frequenza. Voi ci avete messo in un
mare di guai, lo sapete, anche se credo che sarà un cambiamento giusto.»
Esitò un attimo. «Ciò che soprattutto vorrei sapere è questo. Se tu, Hannah,
indossavi degli orecchini che da un lato contengono un intero computer e
dall'altra milioni di microcongegni, perché Jerry non indossava qualcosa
come un braccialetto che contenesse tutti i dati di navigazione di cui pote-
va avere bisogno, nel caso in cui fosse saltata la memoria del computer?»
Jerry scosse le spalle.
«Anche voi avete la burocrazia. Noi abbiamo visto la versione di Yubble
in atto... o meglio l'inattività di Yubble.»
Stava facendo dei buoni progressi con la lingua locale, anche se un po' in
ritardo, nonostante sperasse con tutto se stesso di non dovere mai più aver-
ne bisogno, ma quel gioco di parole non gli riuscì. Fee disse con tono stu-
pito: «C'è dappertutto, non è vero?»
«La burocrazia? Sì.»
«E allora?»
«La burocrazia vecchia di seimila anni?»
«Oh.»
«Sì, voi potete rimanere terribilmente fossilizzati in quest'epoca... guar-
da, dobbiamo sbrigarci. La fiera di Wytabit comincia domani, e Hannah ha
bisogno di organizzarsi.»
«Ma volevamo preparare un banchetto in vostro onore! Non potete fer-
marvi?»
«Lasciamo che i pensieri diano spazio all'azione. Se non fosse così cosa
ne sarebbe delle ipotesi scientifiche? Arrivederci e grazie!»
Titolo originale:
The Numbers Racket
Analog Science Fiction and Fact,
January 1993
IL SALTO
di Stephen L. Burns
Padre Tim Shannon finì di pettinarsi i radi capelli rossi, appoggiò il pet-
tinino d'acciaio, e si guardò a lungo nello specchio. Per quanto fosse orgo-
glioso delle sue origini irlandesi, era felice di non essere più un giovincel-
lo. I due bicchieri di soda che si era tracannato avevano sedato il peggio
della rivolta che c'era nel suo stomaco. Il Neoval e il G-Right, con cui ave-
va innaffiato il primo non lo avevano danneggiato molto, proprio come un
paio di Ave Maria in più, per penitenza.
«Ammettilo, Tim» disse alla sua immagine riflessa. «Non eri tagliato per
i viaggi spaziali.» Fatto che, comunque, lasciava irrisolta la questione di
ciò per cui era tagliato.
Per quello, no di sicuro. Quando Aloisio X O'Malley, presidente del
Consorzio per lo Sviluppo di Venere, aveva chiesto che venisse mandato a
sue spese per un breve viaggio sulle stazioni di Venere un prete provenien-
te dalla diocesi a cui apparteneva la sua famiglia, Tim aveva chiesto al ve-
scovo Pastorelli di inviare lui, considerando l'incarico un modo per lasciar-
si alle spalle tutti i problemi terrestri.
All'epoca gli era sembrata una buona idea.
Sapeva che il motivo principale per cui il vescovo Pastorelli aveva scelto
lui tra gli altri candidati era la speranza che un cambiamento radicale po-
tesse scuoterlo dallo stato in cui era caduto. Anche Tim l'aveva creduto
possibile, ma come gli succedeva per molte altre cose, non senza avanzare
qualche dubbio.
La fede di Tim aveva rischiato di barcollare come una chiesa costruita
sul solco di una faglia attiva, ma la caduta libera l'aveva progressivamente
convinto dell'esistenza del diavolo. Nessun altro avrebbe potuto concepire
un tormento del genere.
Aveva ricevuto un primo terrificante assaggio di questo specifico infer-
no sul Soarliner, che lo aveva trasportato dalla Terra nella cilindrica città
orbitale di Newtonia. Il lungo viaggio da lì fino ad Adone, l'enorme stazio-
necilindro che fungeva da base operativa del Consorzio Venusiano, si era
esaurito in un quasi impercettibile batter d'occhio.
La vita su Adone era simile a quella sulla Terra, i battesimi, le confes-
sioni e i matrimoni che aveva celebrato lì, non erano più complicati di
quelli che aveva celebrato a Boston. Poteva recitare le preghiere e sembra-
re sincero senza rivelare che aveva finito per considerare fasulla la sua pro-
fessione di fede.
L'apparecchio su cui viaggiava adesso era una piccola combinazione a
sedici posti, a metà tra una navetta e un rimorchiatore. Il distributore di
bevande e il bagno erano le sue uniche attrattive. Se sentivi la mancanza
della forza di gravità, bastava pensare a quanto era insignificante, se para-
gonata al nulla abissale intorno e ai pianeti ostili.
La chiave per riuscire in quell'impresa era la pazienza. Non doveva fare
altro che tornarsene prudentemente al suo posto e stare attento a non vomi-
tare il pranzo durante il resto del viaggio fino alla piccola e ordinaria sta-
zione di ricerca Anteros, passarci un paio di giorni a svolgere le proprie
funzioni di sacerdote, e poi iniziare il viaggio di ritorno verso la Terra, con
la sua superficie solida e la sua affidabile forza di gravità.
Sistemò il colletto un'ultima volta. Averlo sempre indosso gli dava il
conforto di un buon travestimento. Era la prima cosa che le persone vede-
vano e di rado andavano oltre, così elaboravano le loro supposizioni su chi
e che cosa fosse, sulla base di ciò che aveva intorno al collo piuttosto che
negli occhi.
Provò a fare un sorriso. Non era molto convincente, ma sapeva che tutti
quelli che si trovavano nel compartimento principale l'avrebbero sempli-
cemente interpretato come il viso di un uomo che cerca di farsi coraggio di
fronte al mal di spazio. Una verità da Pilato.
«Sei un imbroglione» disse alla sua faccia nello specchio, poi si rigirò
nel piccolo bagno e cercò la maniglia della porta.
Mezzo secondo prima che le sue dita sfiorassero la maniglia, si ricordò
di avere lasciato il pettine sulla mensola. Era un regalo d'addio che aveva
ricevuto da un suo vecchio amico, padre Hiro Ryuku, e non voleva perder-
lo. Sul manico, incisa in caratteri onciali, c'era una preghiera in latino per
la resurrezione dei suoi capelli, il tipo di regalo scherzoso da prete per un
uomo già mezzo calvo. Ma come succedeva sempre con Hiro, c'era un sot-
tile sottinteso nel regalo; una piccola parabola sulla fede e la speranza.
Proprio mentre si girava per prenderlo, il piccolo compartimento fu
sommerso da un suono così aspro e assordante che dovette mettersi le ma-
ni sulle orecchie per non sentirlo. Barcollò come un ubriaco mentre il ri-
morchiatore oscillava da un lato all'altro. Improvvisamente il pavimento
gli sfuggì da sotto i piedi. Le orecchie stavano per scoppiargli. La sensa-
zione del proprio peso era scomparsa in fretta com'era arrivata, perché lo
spostamento aveva fatto staccare i ganci magnetici delle suole delle scarpe
dal rivestimento metallico del pavimento.
Lo slancio lo scagliò di lato, e si ritrovò con la mensola che gli sfregava
contro il ginocchio. Con la coda dell'occhio si rese conto che lo specchio
sopra di essa stava per cadergli addosso e cercò di sollevare le braccia per
proteggersi dall'impatto, ma il lucente metallo di cui era fatto lo specchio
lo colpì sulla testa con una violenza tale da farlo sanguinare.
Si rese conto che stava rimbalzando, e nello stesso tempo si stava allon-
tanando dalla mensola. Muovendo una mano a tentoni riuscì a trovare il
rubinetto del lavandino sotto la coscia, e lo afferrò per tenersi. Poi strinse
l'altra mano intorno allo spigolo dello scaffale, e riuscì a fermarsi. Cercan-
do di riprendere fiato, scosse la testa per schiarirsi le idee, domandandosi
che diavolo fosse successo. Le luci del compartimento tremolarono, get-
tandolo per alcuni minuti in una terribile oscurità, poi si rimisero a posto.
Sussultò quando una voce arrivata dal nulla si mise a gridare contempo-
raneamente in inglese e in giapponese.
«Attenzione! Perdita di pressione nel compartimento principale!» Urla-
va in brusco tono di comando. «Tutti i passeggeri indossino immediata-
mente le tutte pressurizzate di emergenza! Attenzione...»
Perdita di pressione? Pensò Tim, mentre la confusione si trasformava in
panico. Si guardò intorno come un pazzo, e fece un balzo all'indietro alla
vista di una luce rossa che gli cadeva addosso alla sua sinistra, trasforman-
dosi davanti ai suoi occhi in una figura che se ne stava in piedi lì nel bagno
a fissarlo con un bambino sottobraccio.
Un attimo dopo il suo cervello inceppato si rese conto di ciò che stava
vedendo. Era una tuta pressurizzata di emergenza, arancione brillante, che
era sbucata fuori da un comparto in alto. Il bambino era in realtà una tuta
di piccola taglia infilata sotto il braccio.
Deglutì, e sentì il sapore del sangue nel punto in cui si era morso la lin-
gua. «Tranquillo, Tim» disse a se stesso, riuscendo solo a malapena a sen-
tire la sua voce tra quella doppia del computer e il ronzio che aveva nelle
orecchie. «Stai calmo. Ricordati le istruzioni. Infila la tuta e tutto andrà
bene.»
Mordendosi le labbra, si spostò da sotto lo scaffale e fece leva sulle
gambe tremanti. I magneti delle scarpe aderirono al pavimento in modo
rassicurante. Prese la tuta e la liberò dal gancio. I grandi e pesanti stivali
magnetizzati caddero sul pavimento con un tonfo, e rimasero in piedi. La
voce del computer si bloccò nel bel mezzo di una frase.
Nel silenzio che seguì, cominciò a sentire un suono diverso. Si girò per
cercarne la fonte.
«Oh, Signore» mormorò, sbarrando gli occhi mentre il viso gli si faceva
talmente pallido che sembrava fosse stato prosciugato di tutto il sangue. La
porta del bagno si stava incurvando verso l'esterno, piegandosi letteralmen-
te a causa della pressione cui era sottoposta. Il suono che sentiva era il
ronzio e il fischio dell'aria che fuoriusciva. Fissò la porta paralizzato dal
terrore, rendendosi conto che se si fosse staccata, qualche secondo più tar-
di avrebbe visto in faccia il Creatore.
Distolse lo sguardo e fissò la tuta che aveva tra le mani. Se non si infila-
va quell'affare, e in fretta anche, sarebbe morto.
«Mantieni la calma, adesso» mormorò tra sé e sé, cercando di scacciare
dalla mente l'immagine residua di quella porta pronta a volare via, e di ri-
cordarsi almeno una delle tre o quattro dimostrazioni su come indossare le
tute d'emergenza a cui aveva assistito. Gli scorrevano tutte insieme nella
mente, come rivoli in un canale di scolo per l'acqua; torbide, turbinanti,
caotiche, ingarbugliate. Si sfregò la fronte sperando di districarle.
Gli sembrò una cosa utile. «Prima le gambe.» La chiusura scattò. Con le
mani sudate e tremanti, gettò via la tuta da bambino, aprì quella da adulto
sul davanti, e infilò prima un piede e poi l'altro. Nonostante avesse le scar-
pe, i giganteschi stivali erano troppo grandi per lui. Subito dopo infilò le
braccia nelle maniche, le mani sudate scivolarono fino ai guanti. Poi si mi-
se sulla testa la rigida bolla di plastica trasparente e sistemò sulle spalle il
collare inflessibile. Il fischio dall'aria che fuoriusciva si smorzò.
«Chiusura frontale.» Ansimando, afferrò l'anello che stava esattamente
sotto l'ombelico e lo tirò su, chiudendo il davanti dell'enorme tuta. Adesso
era tutto a posto. E dopo? «Regolala.» C'era una scatola chiusa attaccata su
un fianco. Cercò a tentoni di aprirla, poi schiacciò il grande bottone rosso
all'interno.
Quando la tuta si restrinse per adattarglisi, con le fibre che si contraeva-
no e si irrigidivano, sentì uno strano formicolio. Le camere d'aria degli sti-
vali si gonfiarono, facendoli aderire ai piedi. Il colletto si strinse intorno al-
la gola, e una chiusura attivata con un congegno elettronico si sigillò erme-
ticamente. Seguirono un sibilo e un fruscio, quando l'unità di sopravviven-
za del piccolo zaino entrò in funzione.
Tim si assestò dentro la tuta, tirando un sospiro di sollievo. Adesso era
salvo. Cercò di asciugare le gocce di sudore che aveva sul viso, ma le mani
inguantate andarono a cozzare contro il bernoccolo che aveva sulla testa.
«Bene, e adesso?» domandò. La sua voce aveva un suono stranamente
sordo dentro l'elmetto.
Ma conosceva già la risposta. Con la tuta le cose si facevano un po' più
facili. Anche se la rigidezza del tessuto gli dava la sensazione di trovarsi in
una tuta corazzata.
Si girò verso la porta. Non ne era sicuro, eppure gli sembrava che non si
stesse più incurvando verso l'esterno con la forza di prima. Ma con quel
bozzo sulla testa non era in grado di sentire se c'era ancora il fischio. Provò
a considerare la situazione in cui si trovava. Indubbiamente era successo
qualcosa di grave. Anzi, di molto grave. Forse il rimorchiatore aveva col-
pito qualcosa. Ma non riusciva a immaginare cosa. Tutto ciò che sapeva
con certezza era che se c'era stato un incidente gli altri passeggeri potevano
essere rimasti feriti e avere bisogno d'aiuto. Loro erano fuori e lui era den-
tro. Stava per aprire la porta, ma all'ultimo minuto si bloccò, lasciando le
dita inguantate poggiate sulla maniglia.
La porta si incurvava verso l'esterno. Quindi, dentro c'era pressione... e
fuori... il vuoto?
Fissò la porta, mordendosi le labbra. Che cosa sarebbe successo se l'a-
vesse aperta? Non sarebbe per caso fuoriuscita tutta l'aria che c'era lì den-
tro? Magari trascinandoselo dietro?
Riabbassò la mano, ridacchiando al pensiero di quanto era stato vicino
all'eventualità, piuttosto probabile, di commettere un errore fatale. Si tro-
vava in un ambiente ostile e doveva considerare con attenzione ogni gesto.
Ma allora che cosa doveva fare? Aggrottò la fronte. Forse era proprio una
di quelle eventualità di cui parlavano nei due seminari informativi per chi
lasciava la Terra, ma tutto ciò che sapeva di questo genere di situazioni a-
vrebbe potuto stare sulla capocchia di uno spillo e sarebbe rimasto abba-
stanza spazio da farci danzare gli angeli.
Anche se le sue nozioni di fisica erano piuttosto confuse, cercò di utiliz-
zarle. L'aria stava uscendo attraverso l'intelaiatura della porta. Prima o poi
sarebbe uscita tutta, e a quel punto lui avrebbe potuto andarsene senza cor-
rere rischi. Quanto tempo ci sarebbe voluto? Non ne aveva idea. Ma aveva
qualche conoscenza di pronto soccorso, e durante tutto il tempo in cui lui
sarebbe rimasto ad aspettare là dentro, le persone che erano dall'altro lato
della porta sarebbero potute morire per la mancanza di soccorsi.
Così, ciò che doveva fare era escogitare un modo per fare uscire l'aria
più in fretta. Diede un'occhiata alla piccola stanza in cui si trovava, cer-
cando qualcosa che potesse servire allo scopo. Sfortunatamente era un ba-
gno, e non un ripostiglio per attrezzi.
Improvvisamente un bagliore metallico catturò il suo sguardo. Sul pavi-
mento c'era il pettinino che gli aveva regalato padre Ryuku.
Padre Tim si accovacciò per terra vicino alla porta. «La pazienza è una
virtù» ricordò a se stesso, infilando attentamente il pettine nella parte più
larga della fessura della porta. «Vai lento e tranquillo». Parlare da solo a
voce alta lo faceva sentire matto, ma gli era di conforto.
Quando ebbe infilato una delle estremità del pettine abbastanza in fondo,
tirò l'altra estremità delicatamente, usandola come fosse una levetta. L'a-
pertura si allargò un po' e sentì sia la porta che il pettine vibrare tra le mani
inguantate.
Gli venne in mente la sgradevole eventualità che l'operazione potesse es-
sere inutile, se per caso c'era un sistema che spediva dell'altra aria nel
compartimento man mano che lui la faceva uscire. Scacciò via quel pensie-
ro. Poteva solo sperare che non fosse così.
Proprio mentre cominciava a pensare che i muscoli della schiena e delle
braccia stessero per cedere, si rese conto che il pettine non stava più vi-
brando come un diapason. Forse significava che aveva funzionato, e che
gran parte dell'aria era fuoriuscita. Ritirò il pettine e posò il palmo della
mano sulla porta. Con il guanto era difficile dirlo con certezza, ma sem-
brava che non ci fossero più vibrazioni.
Gli scricchiolarono le ginocchia quando si rimise in posizione eretta.
C'era una tasca di stoffa all'altezza del petto. Ci infilò dentro il pettine. Poi
strinse la mano intorno alla maniglia, fece un respiro profondo, e la girò.
La porta si spalancò con violenza per la spinta dell'aria rimasta nel com-
partimento, facendogli sfuggire di mano la maniglia. La pressione dell'aria
lo catapultò in avanti piegandolo a quarantacinque gradi, ma gli stivali
mantennero la presa sul pavimento, e così riuscì ad aggrapparsi con l'altra
mano all'intelaiatura della porta. Si tirò indietro, soffocando un urlo. La
caduta libera e la tensione avevano portato al limite il suo stomaco. Ciò
che vide nel compartimento principale lo fece quasi vomitare.
«Gesù Cristo onnipotente» mormorò, cercando disperatamente di man-
dare giù il malloppo acido che gli saliva su per la gola.
Il bagno era situato tra il compartimento principale da una parte e la ca-
mera d'equilibrio dall'altra. Prima che si alzasse dal suo posto per andare in
bagno c'era un corridoio nel mezzo, con quattro file di sedili a due posti su
ciascun lato. Alla fine del corridoio, in posizione centrale, con una paratia
a ogni lato, c'era la poltrona del pilota con lo schienale alto, circondata da
una consolle di controllo a ferro di cavallo. All'altezza degli occhi c'era
una vetrata lunga e stretta, e sopra di essa un altro pannello curvo di stru-
menti e apparecchiature di controllo.
Quattordici delle sedici sedie erano occupate quasi tutte da residenti del-
la stazione di Anteros che probabilmente consideravano la caduta libera
abbastanza confortevole. Alcuni di loro avevano scherzato con lui lamen-
tandosi del proprio battesimo nel vuoto per aiutarlo a distrarsi dal disagio
che provava.
L'illuminazione della cabina era saltata. Adesso c'era un bagliore duro e
sulfureo, che copriva tutto di una luce fredda e lugubre.
La luce arrivava dal punto in cui prima c'era il corridoio centrale.
Gran parte del pavimento era distrutto. Tutto ciò che era rimasto consi-
steva in un larga lacerazione, bordata di metallo ritorto e di cavi stracciati.
La voragine iniziava proprio sotto la sedia del pilota e si estendeva verso
di lui, fermandosi a pochi passi dalla porta del bagno. Sotto non c'era altro
che un orribile e sconfinato nulla, che alla fine cedeva il passo alla nuda
faccia di Venere. La cosa peggiore era che il buco era grande all'incirca
quanto l'intera cabina. Non solo mancava quasi tutto il rivestimento del
pavimento, ma anche i sedili interni di tutti e due i lati. Quelli esterni erano
parzialmente piegati verso l'interno, quasi volessero offrire ai loro occu-
panti una vista migliore del disastro.
A tenere insieme i sedili esterni era rimasto poco più che una striscia di
metallo stretta e storta, che scorreva all'esterno della cabina. Pezzi di me-
tallo impossibili da identificare erano conficcati nelle pareti e nel soffitto
della cabina.
Tute pressurizzate inutilizzate erano appese dappertutto, simili a tronchi
contorti, con gli stivali attaccati alla superficie di metallo più vicina. Tim si
aggrappò all'intelaiatura della porta, cercando disperatamente di trattenere
il vomito, mentre in stato di shock spostava lo sguardo da un orrore all'al-
tro. Il sedile sulla sinistra proprio di fronte a lui era vuoto, la cintura di si-
curezza fluttuava libera. Nel sedile successivo c'era una donna con la cin-
tura ancora allacciata, aveva gli occhi ciechi sbarrati e la bocca spalancata
in un grido d'agonia. Teneva stretta tra le mani una scarpa da bambino.
«No» disse Tim con voce rotta, scuotendo la testa da un lato all'altro. Si
chiamava Jenny: lei e suo marito lavoravano su Anteros. Occupava il sedi-
le vicino a quello di Tim, e lui aveva chiacchierato con lei proprio fino a
quando non si era scusato per andare in bagno. Nel sedile accanto, dal lato
del corridoio, era seduto il suo bambino di cinque anni. Un diavoletto pie-
no d'energia con gli occhi verdi e i capelli castani, che aveva il sopranno-
me di Sparky.
Allontanò lo sguardo dal viso angosciato della donna. Il posto era pro-
prio quello lì accanto. Il posto che aveva lasciato per andare in bagno a
svuotarsi dei due bicchieri di soda che gli avevano salvato la vita. Subito
dopo quel sedile c'era il primo posto della fila. Un esile ragazzo di colore
era inchiodato lì da una specie di stanga di ferro conficcata nel petto. Ave-
va tutte e due le mani intorno alla cosa che lo aveva impalato, e la fissava
con uno sguardo di cieca sorpresa, dietro gli occhiali storti.
Gli occhi di Tim si accesero di speranza alla vista della poltrona del pi-
lota. Se c'era qualcuno che sapeva cosa fare, era proprio lei. Lo schienale
della poltrona era aperto in due, ma la donna che c'era seduta poteva essere
ancora tutta intera. Cristo, sperava che fosse così.
L'unico modo per saperlo era spostarsi nella parte anteriore della cabina
e verificarlo. Per farlo, doveva riuscire in qualche modo a girare intorno al-
l'orribile buco che c'era al posto del pavimento. Evitando accuratamente di
guardare in basso, esaminò la situazione. La sponda sinistra sembrava leg-
germente più larga di quella destra. Ma la camera d'equilibrio bloccava il
passaggio. Così rimaneva un unico percorso possibile da seguire.
Doveva solo fare in modo che i suoi piedi si muovessero.
Deglutì, staccò un piede dal pavimento e fece un passo verso il bordo.
Appena il primo stivale trovò un punto d'appoggio su ciò che era rimasto
del pavimento, lo fece seguire dall'altro, trasferendo la presa dall'intelaiatu-
ra della porta ai braccioli della prima poltrona della fila.
Il sedile era vuoto. Per depurare il cervello da un po' della paura che ne
intasava ogni singola sinapsi, cercò di ricordare chi aveva occupato quel
posto.
Un vecchio signore con la barba alla Van Dyke e uno yarmulka sulla te-
sta. Probabilmente non era cattolico, pensò, trattenendo a stento una risata
isterica. Comunque, liberò una mano dalla presa per farsi il segno della
croce, e sussurrò una breve preghiera per l'anima dell'uomo. Le parole del-
la preghiera avevano sapore di cenere, ma l'atto gli impegnò la mente in
qualcosa di diverso da ciò che stava facendo e dal motivo che lo spingeva
a farlo.
Oltrepassare la poltrona era un affare rischioso. Doveva afferrarsi al se-
dile con le gambe. La sponda non bastava a contenere nemmeno uno stiva-
le e i talloni erano rimasti sospesi nel vuoto. Ma la presa sembrava abba-
stanza forte e i braccioli della sedia gli offrivano un appiglio. Quando fu
riuscito ad aggrapparsi con tutti e due piedi al sedile, allungò una mano
verso il bracciolo della poltrona successiva. Tenendosi con tutte le sue for-
ze si spostò in avanti. Si ritrovò di fronte alla donna con la scarpina da
bambino tra le mani. Di nuovo pronunciò qualche parola per raccomandare
la sua anima e quella del bambino al paradiso. Evitando accuratamente di
guardare in basso, diede un'occhiata al di sopra delle proprie spalle al sedi-
le che si trovava dall'altro lato della cabina rispetto a lei.
Ci stava seduto un uomo. Aveva i capelli grigi, la mascella larga e un'a-
ria militare. Anche da morto era seduto rigidamente sull'attenti, con il viso
impassibile e gli occhi fissi. Spostando lo sguardo da lui alla donna orien-
tale che si trovava nella sedia di fronte, Tim per l'ennesima volta rischiò di
vomitare nell'elmetto.
Un pezzo di metallo piatto era conficcato nella parete accanto a lei. A-
veva strappato via quasi completamente la testa della donna. Penzolava at-
taccata al moncone nero del collo come un macabro palloncino, trattenuta
solo da una striscia di carne annerita, non più grande del suo polso sottile.
La testa era girata verso di lui, con gli occhi fissi in uno sguardo interroga-
tivo.
Tim chiuse gli occhi e disse qualche parola strozzata per tutti e due, reci-
tandola come un mantra che stava tra lui e la follia. Fatto questo, si fece
strada intorno al corpo della madre morta, cercando di non guardarla in
faccia. Girò intorno alla propria poltrona vuota notando, con un distacco
intorpidito, che c'erano diversi fori sullo schienale, e che da alcuni di essi
sporgevano delle schegge di metallo simili a coltelli.
Mormorò le preghiere per l'uomo di colore con il pezzo di metallo infil-
zato nel petto. Aggirarlo fu un po' più facile, perché la sponda era legger-
mente più larga. Con le mani aggrappate allo schienale della sedile del-
l'uomo, si guardò intorno per cercare la poltrona del pilota, con la punta
dei piedi sull'orlo della voragine.
Lo schienale della poltrona si trovava a circa un metro e mezzo di di-
stanza da lui, ma tra di loro c'era il nulla assoluto. Si spinse in avanti, la
mano mancò la presa per un pelo. Stringendo i denti si piegò di più, e con
la punta delle dita si agganciò a mala pena al bracciolo della sedia che a-
veva accanto.
Ma non riuscì lo stesso a raggiungere il pilota.
Si tirò indietro e si guardò intorno impotente, cercando un altro modo
per avvicinarsi, ma senza successo.
Con la mascella serrata per contenere il piagnucolio che sentiva traboc-
care dentro di sé, fece scivolare il piede sinistro più avanti che poteva, la-
sciandolo appoggiato solo per metà ai resti deformati del pavimento. Poi
lentamente, con cautela, lasciò andare la presa della poltrona e fece scivo-
lare il piede destro accanto a quello sinistro.
Così si ritrovò esattamente nel centro del nulla; alla sua destra irrag-
giungibile c'era la poltrona del passeggero, e alla sua sinistra, altrettanto ir-
raggiungibile, la poltrona del pilota. Riuscì a tenere gli occhi lontani dal
freddo vuoto che aveva sotto i piedi, ma non riuscì ad allontanarlo dalla
mente. Le orecchie cominciarono a fischiargli e la testa a girare, scuri lam-
pi gli danzavano davanti agli occhi. Sentì che stava per cadere. Non è nien-
te, si disse disperatamente, ma la logica non riuscì a convincere il suo cor-
po.
Fu preso da un attacco di panico, e si lanciò accanto alla poltrona del pi-
lota in un impeto di terrore, ma la forza che fu costretto a usare per stacca-
re gli stivali magnetizzati dal pavimento gli fece perdere la mira. Mentre le
sue braccia annaspavano inutilmente, con la coda dell'occhio vide Venere
che si sollevava per risucchiarlo.
Quando le sue spalle andarono a sbattere contro il sostegno metallico
della poltrona, si gettò con le braccia intorno a esso, come un uomo che sta
annegando si afferra a una fune. Le gambe scalciavano freneticamente
man mano che scivolavano trascinandosi dietro il resto del corpo.
Ma il suo braccio era avvinghiato alla struttura metallica con una stretta
mortale. Finì per rimanere appeso lì, attaccato al sostegno per salvarsi l'a-
mata vita, mentre il resto del corpo ciondolava fuori dalla nave danneggia-
ta. Rimase così per quasi un minuto, cercando di prendere fiato con gli oc-
chi serrati. Gli sembrò che il cuore fosse sul punto di balzargli fuori dal
petto.
Finalmente il terrore si stabilizzò a un livello tale da permettergli di pro-
vare a tirarsi fuori dal buco. Fece oscillare le gambe finché uno degli stiva-
li non trovò un punto d'appoggio, poi cominciò a spingersi verso la parte
anteriore della poltrona. Pian piano, muovendosi come un uomo che si tira
su da una tomba scoperchiata, riuscì a issare il corpo sul pavimento davan-
ti al sedile.
Non appena ebbe il terreno solido sotto i piedi si sentì talmente bene che
avrebbe potuto anche baciarlo. Mezzo ansimante, e con le membra treman-
ti per l'adrenalina che aveva nel sangue, afferrò lo spigolo della consolle e
si avvicinò per dare un'occhiata al pilota.
Bastò una semplice occhiata e le sue deboli speranze sul fatto che lei
stesse bene e potesse tirarli fuori da quel pasticcio si spensero come una
candela votiva con un secchio d'acqua gelata.
La donna aveva lo sguardo fisso su di lui, e il bianco degli occhi castani
era diventato rosso a causa dei vasi sanguigni bruciati.
Pur sapendo che era tempo perso, si avvicinò titubante per sentire le pul-
sazioni sul collo.
La testa le ciondolò in avanti. Una sbarra sporgeva fino al cranio tra le
ciocche dei capelli neri come un rigido ricciolo metallico. Dietro la sua
poltrona c'era un altro buco.
«Gesù misericordioso» sussurrò Tim, quando la cruda verità della situa-
zione gli crollò addosso come un set di porte d'acciaio. Erano tutti morti
eccetto lui, e senza nessuno capace di pilotare quell'aggeggio era esatta-
mente come se anche lui fosse già morto.
Non sarebbe stato in grado di dire quanto tempo era rimasto lì come uno
zombie a fissare il pilota privo di vita mentre la sua mente girava a vuoto,
cercando di trovare un modo che gli permettesse di credere che si trattava
solo di un brutto sogno, la terribile origine di tutti gli incubi.
Ma non ci fu nessun risveglio nel letto bagnato fradicio di sudore. Nulla
che gli potesse far giurare che per tutta la vita non avrebbe più fatto uno
spuntino di mezzanotte con una pizza fredda o con le sardine. Questa volta
era vero. Anche troppo vero.
Distolse lo sguardo dalla faccia della donna e fece un respiro profondo,
cercando di mantenere un briciolo di autocontrollo. «Stai calmo adesso»
disse tra sé e sé. Per l'ennesima volta provò ad asciugarsi il sudore dalla
fronte, e le sue mani dentro i guanti urtarono contro il casco di plastica.
Devi riflettere.
Era più facile a dirsi che a farsi. L'unica cosa che gli venne in mente fu
di dare l'estrema unzione al pilota. Lo fece, recitando le preghiere con un
mormorio distratto, mentre la sua mente cercava disperatamente la propria
salvezza, e non quella di lei.
«E adesso che faccio?» Era una domanda da cui non poteva sfuggire.
Non aveva nemmeno un'idea. Aveva bisogno d'aiuto, ne aveva un enorme
bisogno.
Trovare aiuto.
Fu quasi sul punto di sorridere. Doveva esserci su quell'affare una radio
o qualcosa del genere, no?
Doveva esserci qualcuno da qualche parte, che poteva dirgli cosa doveva
fare. Si girò a guardare la consolle di controllo, ma le sue speranze si tra-
sformarono di nuovo in panico, di fronte alla sbalorditiva complessità di
quei congegni. C'erano letteralmente dozzine di quadranti numerici e di
schermi, innumerevoli interruttori e indicatori, di cui molti fuori uso o ac-
cesi di un rosso snervante.
Come diavolo posso riuscire a capire qualcosa in questa confusione? A
casa era stato sempre costretto a chiedere aiuto per fare funzionare un
semplice sistema PA che usava per giocare a bingo. Chiuse gli occhi. For-
se il pilota poteva far funzionare quel pasticcio, ma lui non aveva nemme-
no un dannato straccio di possibilità. Gli venne in mente la faccia della
donna, quasi a ricordargli quale sarebbe stata ben presto la sua fine.
Tim spalancò gli occhi e si girò a guardarla. Questa volta invece di con-
centrarsi sul viso, fissò la cuffia e il microfono che aveva indosso.
Con quello la donna poteva comunicare con le basi di controllo del traf-
fico aereo, o con qualsiasi altra maledetta cosa ci fosse all'esterno.
«Scusami» disse sfilandole dalla testa l'apparecchio. Si infilò la cuffia
sull'elmetto. Gli sembrò di sentire un confuso ronzio, ma non ne era certo.
Che fosse rotto? Forse si era staccato. Seguì la traccia del filo fino a una
cavità che c'era nel bracciolo della poltrona. Sembrava a posto.
Poi si ricordò. Le onde sonore non viaggiano nel vuoto. Che cosa aveva
detto di fare, il dimostratore delle tute d'emergenza, quando si voleva co-
municare con qualcuno?
Toccare il casco. Ma non funzionò. Si spremette le meningi affaticate.
C'era qualcos'altro. Qualcosa...
Poi gli venne in mente. Nel collare della tuta erano installati un microfo-
no e un fonorivelatore, che potevano essere inseriti nel sistema di comuni-
cazione in circostanze come quella. Il filo era collocato in un riquadro ri-
gido che si trovava all'altezza della vita.
Tim si diede da fare freneticamente con il coperchio del riquadro, riu-
scendo alla fine ad aprirlo. Tirò fuori il filo metallico, staccò la cuffia auri-
colare, e infilò il suo cavo nell'attacco. Non appena fu realizzata la connes-
sione ci fu una scarica statica, poi sentì il suono più bello che avesse mai
udito in tutta la sua vita. Un suono che gli fece venir voglia di gridare alle-
luia.
Era il suono di una voce umana.
«...Vettore Alfa Due Uno Cinque, rispondete prego. Qual è la vostra si-
tuazione? Ripeto, qual è la vostra situazione?» Era una voce femminile,
secca, calma e controllata, ma con una evidente punta di apprensione.
Oh Cristo, aiutami! singhiozzò Tim. «Ti prego, devi aiutarmi!»
Ci fu un attimo di pausa, poi sentì di nuovo la voce della donna, e gli
sembrò una luce nell'oscurità.
«Ti sento. Sei tu, Sherry?»
Padre Tim lottò per mantenersi calmo. Speranza, terrore, sollievo; gli
sembrava di essere sul punto di esplodere. Prese fiato. «Io... io sono Tim
Shannon.» Balbettò. «Io... sono l'unico sopravvissuto qui. Tutti gli altri so-
no m-morti».
Seguì un altro momento di silenzio. Poi la voce della donna ritornò,
calma e rassicurante. «Va bene, Tim. Spiegami lentamente e con calma.
Stai dicendo che Sherry, il pilota, è morta?»
«Sì, signora.» Deglutì faticosamente. «E anche tutti gli altri. Tutti eccet-
to me». Ripeterlo ad alta voce faceva sembrare la cosa ancora più reale.
Tutto il resto non contava. E poi c'era la consapevolezza di quanto era so-
lo, più solo di quanto avrebbe mai potuto essere sulla Terra.
«Sai dirmi che cosa è successo, Tim?»
«Non lo so» piagnucolò «ero nel bagno. C'è stata un'esplosione. Che ha
scosso la nave da cima a fondo. Mi sono infilato una tuta pressurizzata.
Dopo avere fatto uscire tutta l'aria dal bagno sono tornato qui. A quel pun-
to ho trovato... trovato...»
«Stai tranquillo, Tim» disse lei gentilmente. «Sei con me. Mi hai detto
che hai dovuto fare uscire tutta l'aria dal bagno. Quindi non c'è più aria nel
compartimento principale?»
«No» rispose lui dando un'occhiata raggelata allo stato di distruzione che
aveva alle spalle.
«Non c'è più nessun maledetto pavimento! È andato, e insieme a lui me-
tà dei sedili, e io sono solo e...» La sua voce si alzava di volume a ogni pa-
rola, portandolo a un punto in cui gli rimaneva solo di urlare.
«Tim!» il tono di secco comando lo bloccò a metà di una parola.
«Devi rimanere calmo. Non sei solo. Io sono qui.»
«E io sono qua!» sibilò, mentre in un attimo la paura si trasformava in
rabbia di fronte all'ingiustizia di quanto accaduto.
La donna ridacchiò. Ci fu qualcosa nel suono della risata che scosse
Tim, e lo riportò in uno stato di strana calma. «Credimi, Tim» disse lei
«non sono in una situazione migliore di quella in cui ti trovi tu.»
«Mi... mi risulta piuttosto difficile crederci» disse con una risatina isteri-
ca.
Seguì di nuovo una lunga pausa. Tim sapeva che lei era nella posizione
di chi sta cercando di parlare con una persona sul punto di precipitare in un
burrone, e che lui si trovava dannatamente vicino all'orlo.
Per mantenersi calmo, provò a immaginare che aspetto avesse. Sui cin-
quantacinque anni, forse. Un viso forte e paziente, asciutto, segnato dal
sorriso e da rughe d'espressione. Occhi nocciola chiaro. Capelli scuri ta-
gliati in modo non privo di stile...
Gli si strinse il cuore nel petto. Se la stava immaginando simile a Be-
verly. Proprio come...
«Va bene, Tim» disse lei, facendo deragliare i suoi pensieri dal binario
morto in cui si stavano infilando. «Credo che sia meglio, per il momento,
mettere da parte questo argomento. Vale la stessa cosa riguardo a ciò che è
successo. Prima di tutto occupiamoci delle cose fondamentali. Suppongo
che tu non sia capace di guidare una nave spaziale.»
«Io non ho mai guidato nemmeno un'automobile» ammise lui con deso-
lazione.
«Quindi posso dedurre che non hai nessuna brutta abitudine che dob-
biamo vincere» disse, cercando di sembrare soddisfatta della sua incompe-
tenza. Tim sorrise stancamente. Se lei riusciva a rimanere così calma e po-
teva addirittura scherzare, forse stava andando tutto bene. «Sherry è ancora
seduta nella poltrona di pilotaggio?»
Annuì: «Uh huh.»
«Bene. La prima cosa che devi fare è spostarla per sederti tu al suo po-
sto. Puoi farlo?»
«Io... credo di sì.»
«Questo è lo stato d'animo giusto. Provaci.»
«Va bene.» Si spinse più vicino per cercare la cintura di sicurezza che
tratteneva il corpo della donna sulla poltrona. C'erano delle cinghie che
scendevano dalle spalle, e finivano in una chiusura dall'aspetto complicato
che tratteneva anche una larga fascia all'altezza della vita.
«Dai un mezzo giro alla manovella che c'è sulla chiusura» disse la donna
proprio mentre Tim stava per toccarla.
«Grazie, ehm...»
«Lilith. Ma puoi chiamarmi Lil. Tutti i miei amici mi chiamano così.»
La serratura scattò facilmente. Le fibbie si slacciarono. «Lilith, uhm. Lil
forse va meglio per me. Sono un prete cattolico, e la tua omonima non è
uno dei personaggi preferiti dalla Chiesa».
Lil sbuffò. «La Chiesa calunnia il suo nome. In qualche cerchia lei è
considerata la prima eroina femminista. La sua unica colpa è stata di rifiu-
tarsi di essere la schiava di Adamo, e di dire a Dio che non c'è nessun sen-
so nell'avere il libero arbitrio, se non puoi usarlo.»
Il libero arbitrio era un concetto che aveva dato a Tim parecchi proble-
mi, così lasciò passare il commento di lei senza contestarlo. A quel punto
era pronto ad accettare l'aiuto anche di qualcuno che si chiamasse Belzebù.
Tolse l'ultima cinghia. «Adesso è libera dall'imbracatura. Che cosa devo
fare con lei?»
«Puoi spostarla in un altro sedile?»
Si girò a guardare l'apertura del buco che avrebbe dovuto superare per
raggiungere il sedile vuoto più vicino, lo stomaco gli si contrasse per l'an-
sia. «Non credo.»
«Allora lasciala semplicemente andare.»
«Ma potrebbe cadere giù!» C'era qualcosa che lo terrorizzava all'idea
che il buco potesse inghiottire qualcun altro. Sarebbe stato come spingere
qualcuno oltre la porta dell'inferno. Si guardò intorno, cercando un'alterna-
tiva. Poi vide la cuffia auricolare. «C'è un po' di filo metallico.» Lo prese
in mano. «Credo che ce ne sia abbastanza per legarla allo schienale della
poltrona.»
«Ottima idea, Tim» disse Lil con tono di approvazione. «Fallo. Ma sbri-
gati.»
Tim si domandò che fretta c'era, ma non le chiese nulla. Puntò i piedi,
afferrò il cadavere della donna da sotto le ascelle e lo sollevò. Per un atti-
mo sentì resistenza, poi il corpo si staccò dalla sedia. E cominciò ad allon-
tanarsi.
«Dannazione, no!» disse affannosamente, non appena si accorse che il
cadavere lo stava trascinando con sé. Resistette con tutte le sue forze, poi
all'improvviso sentì che uno degli stivali si stava staccando dal pavimento.
Lasciò andare il corpo prima che i piedi perdessero completamente la pre-
sa.
«Qualche problema?» domandò Lil tranquillamente.»
«Io... lei...» Il corpo andò a sbattere contro il soffitto, ricadde, e comin-
ciò a ritornare verso di lui. «Aspetta un momento...» L'afferrò per la tuta,
cercando di dirigere il corpo, che aveva ricominciato a spostarsi, accanto
alla poltrona. Stava quasi per perdere la presa, nel tentativo di bloccare il
movimento della donna, ma riuscì a mantenerla.
Non appena ebbe appiccicato il corpo allo schienale della poltrona gli
avvolse intorno il filo metallico e lo annodò frettolosamente.
«Fatto» disse con un respiro di sollievo.
«Perfetto, Tim. Adesso siediti e mettiti la cintura di sicurezza.»
Fece come lei gli aveva detto, infilandosi goffamente le cinghie e allac-
ciando la chiusura. Non appena ebbe terminato si sentì protetto e molto più
sicuro. Una vocina nella testa gli ricordò che non era stata di grande utilità
per il precedente occupante della poltrona, ma fece finta di niente.
«Ho allacciato tutto.»
«Eccellente. Adesso guarda all'estremità del bracciolo destro, c'è un
pannello chiuso. Lo vedi?»
Abbassò gli occhi. «Sì».
«Togli il coperchio. C'è una fila di bottoni dentro. Premi quello blu.»
Tim tolse il coperchio e guardò attentamente ciò che c'era sotto. «Mmm,
sono tutti scuri, Lil.»
«Maledizione» disse lei senza nessuna particolare enfasi. «Va bene,
premi quello più lontano sulla sinistra, poi il secondo a partire da te sulla
destra».
«Perfetto». Fece come gli aveva detto. Non era in grado di capire se era
successo qualcosa.
«Per quanto riguarda il piano A basta così» disse lei tranquillamente.
«Serviva alla spinta telemetrica e a ripristinare il pilota automatico. Ma
nessuno dei due ha funzionato. Adesso guarda il tabellone di controllo che
c'è alla tua destra. C'è uno schermo quadrato nel mezzo, grande circa due
volte la tua mano. È acceso?»
«Sì che lo è!» Si era già fatto un quadro mentale di Lil come di qualcuno
che non si arrende facilmente. Era riuscita a fargli fare delle cose, e presto
o tardi avrebbero funzionato. Dovevano funzionare.
«Bene. All'estremità del pannello che hai individuato c'è una leva di
scambio. Tirala verso il basso, e poi a destra. Appena lo farai, vedrai uno
schema dall'alto dei motori della nave. Dimmi quante luci verdi vedi, e do-
ve si trovano.»
«Tirare in basso, e poi a destra» mormorò, ripetendo le istruzioni mentre
le eseguiva. «Vedo soltanto delle luci rosse. Sono cinque.»
«Dannazione. Prova la posizione intermedia».
Faceva quello che lei gli diceva di fare, e la sua apprensione aumentava
di fronte a ciò che appariva sul piccolo schermo. «Ce ne sono quattro ros-
se, e nemmeno una verde. È un brutto segno, vero?»
«Potrebbe andare meglio» rispose lei con tono asciutto. «Prova l'ultima
posizione.»
Ma anche così, nient'altro che luci rosse.
Glielo disse con un filo di voce.
Lil rimase in silenzio per qualche secondo.
«Va bene, Tim» disse, e per la prima volta la sua calma suonò forzata e
falsa. «Stai andando benissimo. Guarda in basso sul lato sinistro della
consolle. Ci sono due piccole uscite digitali, una sopra l'altra. Riesci a leg-
gere ciò che dicono?»
Tim si girò a guardare.
«Quella che c'è in cima dice 4733. Quella in basso, 1397.»
«Va bene, questa è la conferma di ciò che leggo in telemetria. Adesso
possiamo provare ancora un paio di cose, Tim. Ma prima devo staccarmi
dal circuito per un minuto o due. Tu rimani seduto immobile. Sarò di ritor-
no prima che te ne possa accorgere. Va bene?»
Il pensiero di rimanere solo un'altra volta riaccese la miccia del panico
dentro di lui. Ma riuscì a contenere la voce quando le rispose: «Sarò qui,
Lil».
«Sarà meglio. Io conto su di te.»
Tim rimase seduto da solo, con il silenzio sconfinato che gli fischiava
nelle orecchie e l'odore acido del suo stesso sudore. Era buffo che non ci
avesse fatto caso fino a quel momento.
Aveva la vaga sensazione che Lil gli stesse nascondendo qualcosa. Che
la situazione fosse anche peggiore di come sembrava dal posto in cui era
seduto, che oltre tutto era già abbastanza brutta, grazie tante. Quanto era
peggiore? Non c'era alcun modo di saperlo prima che lei glielo dicesse, e
lui non era esattamente incline a chiedere.
Piegò le mani all'interno dei guanti. Le sentiva umide e appiccicose.
L'impulso di usarle in qualche modo lo portò a cercare il rosario nella tasca
della giacca. Ma le mani inguantate scivolarono sul tessuto liscio della tuta
pressurizzata. Rimase a guardare in basso colto da un attimo di confusione,
poi realizzò che il rosario poteva anche essere rimasto nella sua stanza di
Boston, per quello che gliene importava in quel momento.
Un sorriso sarcastico gli attraversò il viso. Parlare di vecchie abitudini
dure a morire...o essere vicino a morire portandosi dietro le vecchie abitu-
dini. Era da un pezzo che non aveva più una vera fede nella preghiera. Ne-
gli ultimi quattro anni aveva pregato con fervore per trovare la forza e una
guida, con l'unico risultato di affondare sempre più in una palude di confu-
sione e di dubbi. Gli ultimi due erano stati gli anni peggiori.
«Sì, sei dannatamente in mezzo ai Beati, Tim» mormorò tra sé e sé. La
Riorganizzazione del 2003 e del 2021 aveva portato alla istituzione della
Trinità Sacerdotale; che consisteva in tre sovraordini separati. C'erano i
Pastori: uomini e donne sacerdoti, che potevano sposarsi, anche tra perso-
ne dello stesso sesso, e avere dei bambini. Poi c'erano i Pescatori: si tratta-
va di unioni consacrate tra sacerdoti, il cui matrimonio era dedicato al la-
voro missionario e a diffondere e sostenere la fede. E infine c'erano i Beati,
che erano rimasti fedeli alle vecchie e severe regole tradizionali; le donne
erano monache e gli uomini preti, votati all'ascetismo e al celibato.
Tim aveva preso i voti di Beato a vent'anni, e dopo avere trascorso circa
quindici anni di zelante servizio, la sua fede aveva cominciato a sgretolar-
si. Ma avrebbe anche potuto mettere una pezza su quei due anni se non a-
vesse incontrato Beverly.
Gli tornò in mente. Come era quando l'aveva incontrata per la prima vol-
ta, una figura linda e padrona di sé, con un mucchio di libri sottobraccio,
che l'aveva costretto a fermarsi e a fissarla come se l'avesse riconosciuta.
Non come l'aveva vista l'ultima volta, in uno scatola foderata di rosa, con il
viso pallido, così bianco...
«Tim, sei ancora lì?»
Padre Tim cercò di scrollarsi di dosso la sensazione di tristezza sconfi-
nata che lo aveva colto. Così dolce da viva e poi morta in modo così tre-
mendo. «Sì» disse con voce incerta «sono ancora qui.» Le era caduto un
libro quel primo giorno, Le lettere dalla Terra di Mark Twain.
«La pausa è finita. Possiamo provare ancora una cosa prima di ricorrere
a una alternativa. Va bene?»
«Certo.» Lui l'aveva raccolto, quel libro, e si era presentato. Ma con
quell'atto innocente aveva cominciato a precipitare nel profondo e buio
crepaccio che divideva due mondi.
«Tutto bene?»
Fece un respiro profondo, nel tentativo di spazzar via le polverose ragna-
tele della memoria. Doveva concentrarsi. Forse la vita non era stata il mas-
simo negli ultimi tempi, ma non era ancora pronto a morire. «Sto bene.
Cosa vuoi che faccia?»
«Apri il pannello che sta sul bracciolo sinistro della poltrona. Sulla cima
c'è un interruttore con la chiave. Spingilo e giralo a destra.»
«Sto togliendo la copertura. Vedo l'interruttore. È stato già girato.»
«Questo vuol dire che la nave è in modalità di controllo via cavo. La-
sciami guardare...» Seguì una lunga pausa. «Niente da fare. Giralo tutto a
sinistra.»
Girò nervosamente la chiave dall'altro lato. «Fatto.»
«Bene. Sembra che tutti i computer della nave siano fuori uso. A questo
punto dobbiamo spostare il controllo della nave in modalità manuale. Fac-
ciamo un tentativo nel caso in cui ci siano ancora un motore o due funzio-
nanti.»
«I motori erano quelle piccole luci rosse che ho visto sullo schermo?» Il
rosso significa morte. Come tutto ciò che c'è qui. Compreso me.
«Esatto. C'è un grande schermo sopra quello dei motori. Dovrebbe mo-
strare due cerchi collegati. Nel centro di uno di loro c'è una scatola rossa,
con una serie di fili intrecciati nel mezzo. Dovrebbe esserci una luce verde
lampeggiante in mezzo all'altro cerchio. Se in questo display qualcosa
cambia voglio che tu me lo dica immediatamente.»
Lui annuì. «Va bene. C'è anche una luce rosa lampeggiante a un lato e-
sterno, e una linea che parte da lì e si infila in una delle sbarre di fili incro-
ciati.»
«Lo so. Ignorala. Adesso sono sicura che hai notato le leve di comando
che ci sono su tutti e due i braccioli. Afferra quella destra e muovila in a-
vanti.»
«Stai attento, allievo pilota» scherzò debolmente Tim avvicinando la
mano alla sbarra. Mordendosi le labbra per l'attesa snervante, la spinse in
avanti.
«Non mi pare che sia successo nulla» le riferì con voce priva d'emozio-
ne.
«Temo che tu abbia ragione. Senza il computer a mediare il flusso del
carburante, saresti stato sbattuto contro lo schienale della sedia con violen-
za spaventosa. Le tue telemetrie sono tutte in disordine, ma riesco a legge-
re abbastanza.» Esitò un secondo.
«Rischiamo il tutto per tutto. Prova le altre posizioni.»
«Il tutto per tutto, eh?» cominciò a spostare la leva con la mano destra.
«A destra. In basso. A sinistra.»
«Niente. Prova con l'altra leva, prima in avanti.»
«Avanti. Destra. Sinistra. In basso.»
Passarono diversi secondi prima che Lil parlasse di nuovo. Quando lo
fece la sua voce era apparentemente calma, ma era impossibile non accor-
gersi della tensione che nascondeva. «Be', amico mio, abbiamo un proble-
ma.»
Questo era ormai terribilmente ovvio. «La nave è completamente fuori
controllo, eh?» disse lui con un filo di voce.
«Sì, Tim, è così.»
«Sto per schiantarmi su Venere.» La luce sinistra che riempiva la cabina
sembrò farsi più intensa, come se stesse preparando qualcosa. Poteva quasi
sentirla lì sotto di lui, mentre pazientemente aspettava di risucchiarlo.
«No» disse lei tranquillamente. «La perdita di pressione ha spostato la
nave dal suo percorso originario. Sia Sherry che il pilota automatico hanno
cercato di compensare lo spostamento, ma senza molto successo. Se il ri-
morchiatore mantiene la direzione che sta seguendo adesso, tra circa venti
minuti si schianterà nel bel mezzo della stazione Anteros.»
Tim rimase scioccato. «Tu stai... stai...» Prese fiato a fatica, aveva la
bocca secca come la polvere. Su quella stazione vivevano e lavoravano
circa un centinaio di persone. Al suo arrivo avrebbe trovato ad attenderlo
un battesimo, un matrimonio, e nove confessioni. Gli venne in mente che
adesso il suo arrivo avrebbe scatenato la distruzione delle persone di cui
avrebbe dovuto essere il ministro.
Recuperò la voce. Era un roco brontolio. «Non puoi... la stazione non
può essere spostata?».
«Non in tempo» rispose lei gentilmente. «I propulsori che la mantengo-
no in orbita sono controllati completamente dal computer. Ci vorrebbero
almeno tre ore in più per approntare qualsiasi tipo di controllo manuale. Il
nostro rimorchiatore potrebbe spostarlo in tempo dal percorso, ma sfortu-
natamente ci sei tu lì dentro.»
«Allora... era questo che intendevi quando hai detto che non ti trovavi in
una situazione migliore della mia» disse con voce incerta. Come aveva fat-
to a rimanere così calma pur avendolo saputo sin dall'inizio... Non c'era da
meravigliarsi se non glielo aveva detto, aveva paura che si spiaccicasse
come un uovo sotto un colpo di martello.
Aveva fatto bene a tacere. Era già abbastanza tremendo il pensiero di
morire, ma l'idea di uccidere così tante persone era più di quanto potesse
sostenere. La fragile calma che aveva mantenuto fino a quel momento co-
minciava ad andare in pezzi. Aveva voglia di imprecare, di piangere, di
strapparsi i capelli e gridare, gli sembrava che fossero stati tutti i suoi dub-
bi e la mancanza di fede a metterlo in quella situazione spaventosa; Dio lo
stava punendo facendolo diventare l'assassino di un mucchio di persone
innocenti.
«E questa è solo una parte della cosa, Tim.» Sentì che faceva un respiro
profondo, le parole di lei gli ronzavano minacciose nelle orecchie. Cosa
poteva esserci di peggio? Aspettò che dicesse ciò che doveva dire, abban-
donato nella poltrona a fissare le proprie mani inutili.
«Mi stai ascoltando, Tim?»
«Uhuuh.»
«Non voglio mentirti. Al momento non c'è nulla che né tu né io possia-
mo fare per salvarti. Mi dispiace, ma è così che stanno le cose. Ma forse
c'è ancora qualcosa che puoi fare per evitare di uccidere chiunque si trovi
su quella stazione.»
Forse era caduto in stato di shock. Forse aveva già cominciato a morire
dentro di sé. Perché improvvisamente non sentì più nulla. Niente di niente.
Solo il rumore bianco di un'indifferenza apatica.
«È così?» Disse con voce monotona e robotica. Lei era buona, ma non
aveva nessuna importanza. Anche Beverly era buona, ma era finita spiac-
cicata come una cimice sotto il paraurti di un autobus.
«Sì, è così, Tim. Prima proveremo il modo più semplice, anche se le tue
telemetrie mi fanno dubitare che funzioni. Se non funzionerà, dovrò chie-
derti di fare qualcosa di molto difficile.»
Venti minuti. Anche meno. Fino a quel momento non aveva funzionato
nulla. E non avrebbe funzionato nulla. Dio aveva deciso di usarlo per ucci-
dere quelle persone e non c'era niente che lui potesse fare per evitarlo. C'e-
ra in azione il libero arbitrio...
... Si rivide incapace di decidere se abbandonarsi alla sua vocazione, o
rinunciarvi per impegnarsi con la donna di cui si era innamorato. Si rivide
unirsi a lei mentre continuava a esercitare la sua funzione di prete per
quasi diciotto mesi, senza darsi veramente a nessuna delle due cose. E si
rivide seduto in una stanza buia della canonica, consapevole del fatto che
lei si stava domandando come mai non era andato all'appuntamento, co-
sciente del fatto che stava spingendo troppo oltre la sua pazienza e che lei
gli avrebbe posto una domanda a cui non poteva rispondere. Si rivide ri-
spondere al telefono e venire a sapere che lei era stata investita e uccisa
da un autobus mentre ritornava a casa da sola, dal ristorante in cui a-
vrebbero dovuto incontrarsi per cenare...
«Tim?»
«Uh huh.» Dio avrebbe potuto perdonarlo se lui avesse scelto di abban-
donare l'Ordine dei Beati per stare con lei. Lei avrebbe potuto perdonarlo
se lui avesse scelto di mantenere i voti. Oh, i peccati di omissione procura-
no le macchie più profonde, le più indelebili nel tessuto dell'anima...
«Ci proverai?»
Fece spallucce dentro la tuta. Che utilità c'era nel provare? Il rosso signi-
fica morte. La vita è una barzelletta e la morte il suo punto culminante.
«Ti prego, Tim.»
C'è un fondo alla disperazione. E lui lo aveva toccato abbastanza in fret-
ta, perché gli era già successo molte altre volte. Era un luogo in cui fer-
marsi. O accucciarsi. Forse addirittura genuflettersi.
«Lo so che è difficile.»
No, non è vero, è la cosa più facile del mondo fingere di fare qualcosa.
Io dovrei saperlo.
«Cosa vuoi che faccia?» disse con voce totalmente priva di emozione.
Parlò in fretta, come se avesse capito di averlo scosso. «All'estrema sini-
stra della consolle, esattamente sopra i numeri che hai letto prima, ci sono
due chiavi sotto una copertura trasparente. Girale a destra, per favore.»
«A cosa dovrebbero servire?» domandò mentre le cercava. Non a cosa
servono, né a cosa serviranno.
«Sono gli scarichi d'emergenza di carburante e ossigeno. I serbatoi sono
all'esterno, sopra il compartimento principale. La pressione rilasciata do-
vrebbe modificare la rotta abbastanza da evitare Anteros.» Si piegò a cer-
carle, anche se sapeva che non sarebbe successo nulla, solo per compiacer-
la.
«Ho tolto la copertura. Ne sto girando una a destra. Adesso quella sulla
sinistra. Basta così, no?»
Passarono diversi secondi prima che lei rispondesse. «Non è successo
niente alle chiavi, ma credo che sia successo qualcos'altro.»
«Cosa?»
«Ci hai rinunciato.»
Lui non disse nulla, rimase a fissare fuori dal lungo e stretto portello tra
la consolle in alto e quella in basso. Vi vide riflessa la propria immagine
spettrale, un viso pallido intrappolato dentro una bolla di plastica, come un
pesce gatto albino allevato nelle grotte e infilato in una vasca per pesci
rossi. Intrappolato e fuori luogo. Senza via di scampo.
«Non è così?»
Lui abbassò gli occhi, e allargò le mani. «Forse è così, Lil» Non si trat-
tava di una ammissione ma semplicemente di una constatazione. «Forse
Dio mi sta punendo, e io ho solo deciso di accettare il mio destino. O forse
non c'è nessun Dio, ed è così che finiscono quelli che seguono qualcosa
che non esiste»
«Credevo che fossi un prete.»
«Lo ero, una volta. Ho ancora addosso il colletto, ma non significa nulla.
Un prete fallito può fingere di avere fede proprio come una moglie ubbi-
diente finge l'orgasmo. Non è difficile. Le persone vedono ciò che voglio-
no vedere, comunque.»
«Io non credo in Dio» disse Lil sovrappensiero. «Suppongo che ciò in
cui credo sia la gente.»
Una smorfia che poteva essere un sorriso abortito gli attraversò il viso.
«Significa andare a cercare una vita di disillusioni.»
«Forse è così. Sono stata delusa un mucchio di volte, esattamente come
chiunque altro. Ma nemmeno le persone più devote si aspettano una rispo-
sta a tutte le proprie preghiere, no? Il fatto è che se ciò in cui credi si dimo-
stra vera abbastanza spesso, e soprattutto quando ne hai più bisogno, allora
cominci ad aver fede. Lascia che ti dica una cosa, Tim. Ho trascorso diver-
si spaventosi minuti a parlare in un microfono muto, cercando di mettermi
in contatto con qualcuno su questo rimorchiatore, sapendo sin dal primo
momento che si stava dirigendo dritto dritto su Anteros. Mi illudevo che se
qualcuno fosse sopravvissuto, allora poteva esserci una possibilità di evita-
re il disastro. Una persona è sopravvissuta.»
«Esatto. Io. Un prete senza fede.»
«Mi hai detto che sono tutti morti sulla navicella. Hai detto qualche pre-
ghiera per loro?»
«Sì» ammise.
«In poche parole hai fatto ciò che potevi. Anche se non faceva nessuna
differenza, hai fatto tutto ciò che potevi. Ed è questo che voglio che tu fac-
cia adesso.»
Tim sospirò. «Certo. Perché no?» Si lasciò andare in una risata sepolcra-
le e beffarda. «Non credo di avere nulla da fare nei prossimi cinque minu-
ti.»
«Così va bene». Il suo tono di voce divenne immediatamente frettoloso,
efficiente. «Vediamo, tu hai addosso una tuta d'emergenza, giusto?»
«Uh uhu.»
«Bene. Proprio di fronte a te nel punto più basso della consolle c'è una
maniglia nera con una sbarra striata di rosso. Spingi la sbarra e gira la ma-
niglia.»
Fece ciò che gli aveva detto. «È venuta fuori una cosa lunga e nera.»
Sperò che fosse previsto, ma era difficile immaginare che la nave si potes-
se scassare ancora di più.
«Era previsto. C'è una sacca all'altezza della tua coscia sinistra. Infilala
dentro. Adesso all'estrema destra, all'altezza del ginocchio, c'è un compar-
to con delle strisce gialle e nere intorno, inserito in fondo alla consolle. Gi-
ra la maniglia e aprilo.»
Tim infilò l'oggetto nero nella tasca e chiuse il coperchio di veltro. Si
piegò in avanti tanto quanto gli permise l'imbracatura, trovò il comparto e
lo aprì. Il portello si abbassò, e all'interno si accese una luce.
«L'ho aperto.»
«Bene, ci sono alcuni microcircuiti quadrati inseriti nel portello. Alcuni
sono gialli, e altri rossi. Prendine uno giallo. Si adatta all'attacco del com-
parto di comunicazione della tuta. È un comando di frequenza a distanza.
Non appena l'avrai inserito non avrai più bisogno del filo elettrico per par-
lare con me.»
Tim eseguì gli ordini. «Lo sto inserendo... adesso tolgo la connessione
elettrica. Mi senti?»
«Come se sentissi la voce degli angeli. Ci sono fasci di oggetti gialli si-
mili a cinghie dentro il comparto. Prendine un paio più grande, assomi-
gliano a delle toppe per le ginocchia, agganciale intorno alle ginocchia, poi
infila un paio delle più piccole in modo che ti coprano il palmo delle ma-
ni.»
Le vagliò e cominciò a infilarsele. Cominciò dalle gambe. Le morbide
coppe scivolarono sulle ginocchia e le fibbie di lato. La prima scivolò sul
ginocchio e si allacciò facilmente, nonostante i guanti voluminosi. «Che
cosa sono?»
«Ginocchiere. Sono fatte con fibre magnetiche che si attaccano alle su-
perfici metalliche. Stai per provare l'ebbrezza del volo.»
«In che senso?» Sistemò la seconda fibbia e cominciò a infilarsi le fasce
elastiche sulla mano.
«In questo modo sarai in grado di muoverti sul tetto della nave e aprire
le valvole manuali di scarico.»
L'intorpidimento di apatia amniotica che aveva colto Tim si sgretolò in
un centinaio di pezzettini tremolanti, non appena gli fu chiaro il significato
delle sue parole. Rimase raggelato, con la seconda fascia a metà. «Tu... co-
sa vuoi che faccia?»
«C'è un portello di emergenza proprio sopra la tua testa, Tim. Voglio che
tu vada fuori sullo scafo, e che poi raggiunga il montante verticale e spinga
le leve di scarico manuali.» La faceva sembrare la cosa più semplice del
mondo. Sollevò il collo per guardare cosa c'era sopra la sua testa. Certo,
c'era un portello circolare. E sotto...
... il nulla.
«Io... io non posso...» sussurrò sconvolto. Solo il pensiero gli raggelava
il sangue e gli scombussolava lo stomaco.
«Devi farlo. Se non lo fai c'è un'ottima probabilità che ciascun individuo
che si trova su Anteros muoia.» Aveva un tono di voce assolutamente piat-
to; era un freddo e indiscutibile dato di fatto.
Tim cercò di nascondersi la faccia tra le mani, ma riuscì soltanto a tocca-
re con i guanti il casco di plastica. Non c'era nessun posto in cui nascon-
dersi, e nel silenzio si sentiva il ticchettio implacabile dell'orologio.
Oh Signore, perché proprio io? Chiese a se stesso, guardando fisso i
comandi inutili. È perché ti ho deluso? È perché sono fuggito e ho cercato
di nascondermi? O è perché hai voluto mettermi qui dove non ho nessun
modo di nascondermi dal tuo esame e dal tuo giudizio? Alzò un'altra volta
gli occhi verso il portello. Gli cadde lo sguardo su qualcosa che fino a quel
momento non aveva visto.
Era uno specchio, posizionato in modo tale che il pilota potesse vedere i
passeggeri. Proprio come in un autobus.
Se ne era dimenticato. Prima di prendere posto e allacciarsi la cintura
aveva guardato avanti, e aveva visto riflesso nello specchio il viso abbron-
zato e tranquillo del pilota. Gli era sembrata così rilassata, così tranquilla.
Gli aveva sorriso e gli aveva strizzato l'occhio, e in quel momento un po'
della sua ansia relativa al fatto di essere incastrato in quella piccola nave, a
galleggiare su milioni di chilometri di puro nulla, si era dileguata.
Adesso lui era al suo posto, e se guardava dietro di sé l'unica cosa che
vedeva era la morte. La donna che teneva tra le mani la scarpa del bambi-
no attirava lo sguardo con il cupo e irresistibile magnetismo delle grandi
tragedie. Si ritrovò a immaginare gli ultimi secondi della vita di quella
donna. L'inaspettato, orribile suono, il pavimento che si squarciava in una
piaga mortale, la linfa vitale dell'aria portata via in un attimo, il tentativo di
salvare il bambino; l'urlo che era rimasto raggelato sul suo viso mentre fa-
ceva il disperato tentativo, condannato in partenza, di tenere il figlio, e i
suoi ultimi secondi di orrore e di rifiuto mescolato al dolore più tremendo
che una madre possa provare.
Padre Tim chiuse gli occhi per scacciare quell'immagine, con il risultato
di vederla replicata su Anteros un centinaio di volte in più, mentre il ri-
morchiatore ci si schiantava come un missile mortale spedito dalle profon-
dità dell'inferno.
Chinò la testa, con le urla di morte che gli risuonavano nelle orecchie.
«Dimmi cosa vuoi che faccia» sussurrò.
Due minuti più tardi era in piedi sui braccioli della poltrona del pilota e
si apprestava ad aprire il portello. Dal momento che da entrambi i lati c'era
il vuoto, tutto ciò che doveva fare era girare la barra di chiusura e aprirlo.
Come se dovendo camminare sull'acqua l'unico problema consistesse nel
fare il primo passo...
Cominciò a dirsi che fuori dal portello non c'era nulla che non fosse già
là dentro, ma aprirlo si rivelò lo stesso piuttosto difficile.
«Bene, Tim» disse Lil incoraggiante. «Metti una mano sulla barretta rin-
forzata e apri lo sportello con l'altra. È facile come bere un bicchier d'ac-
qua.»
«Uh huh.» Afferrò saldamente la sbarra e poi in fretta, prima di cambia-
re idea, spostò di lato la leva di bloccaggio e la spinse.
Il portello si aprì subito, ritraendosi così velocemente che se non fosse
stato aggrappato con tutte le sue forze, sarebbe volato fuori come un pove-
ro pupazzo a molla. «Si è aperto.»
«Ottimo. Adesso sollevati in modo da fare passare attraverso il portello
la parte superiore del corpo.»
L'assenza di pressione gli facilitò abbastanza il compito di sollevarsi,
almeno in senso fisico. Non appena la testa e le spalle riuscirono a passare
attraverso l'apertura, si aggrappò alla sbarra di sostegno con una mano, fa-
cendo scivolare l'altra sul rivestimento esterno dell'apparecchio. Gli adeso-
ri magnetici che aveva sulle mani aderirono immediatamente. Mantenne lo
sguardo fisso verso il basso, sul buco in cui si trovava piuttosto che sulla
scoraggiante eternità che lo circondava e aspettava di ingoiarlo.
«Bene, Lil» disse con voce stridula. «E adesso?»
«C'è un pannello dal lato del portello che guarda a poppa, verso la parte
posteriore, è a strisce nere e gialle. Non appena lo aprirai vedrai all'interno
delle cinture di sicurezza rosse. Infilatene una.»
Tenendosi con una mano alla sbarra di sostegno che c'era sotto, aprì il
pannello e prese una delle cinture. Ne venne fuori un sottile filo argentato.
Era questo che avrebbe dovuto sostenerlo?
«Ne ho presa una. C'è una specie di piccola luce verde sulla fibbia.»
«Significa che il sistema di bloccaggio è in funzione. Esce dal suo stesso
alimentatore in caso d'emergenza.»
«Scommetto che ne abbiamo uno proprio qui» disse lui con una risata
penosa. «Forse due. Come credi che possa riuscire a infilarmi questo dan-
nato aggeggio, e contemporaneamente rimanere attaccato alla sbarra?»
«Dovrai usare tutte e due le mani per infilare la cintura. Punta le ginoc-
chia contro il bordo interno del portello. Gli adesori ti terranno ben fermo.
Il filo metallico della cintura e la fibbia vanno sul davanti.»
Sollevò le ginocchia e le premette contro la sponda del portello, i ma-
gneti si attaccarono al metallo. Lasciare andare la presa della sbarra di so-
stegno era dura, ma lo fece.
«Come fai a sapere con esattezza dove si trova ogni cosa e come funzio-
na?» Domandò armeggiando con la cintura intorno al petto. Dentro i guan-
ti aveva le mani scivolose dal sudore. Doveva continuare a parlare per al-
lontanare dalla mente il pensiero di ciò che avrebbe dovuto fare dopo. Se
solo ci avesse pensato lontanamente, sarebbe tornato dentro, chiudendosi il
portello alle spalle, e avrebbe contato i minuti che mancavano prima di di-
ventare un assassino di innocenti.
«L'ho manovrata io stessa diverse volte. Sono responsabile della stazio-
ne di Anteros, e devo conoscere ogni pezzo di equipaggiamento sia all'in-
terno che all'esterno.»
«Se riuscirai a fare deviare questo affare, signora, credo che dovrai con-
cederti un buon aumento.» Sentì che rideva, e quasi sorrise anche lui. «A-
desso ho indosso la cintura.»
«Bene. I tuoi stivali magnetici sono abbastanza aderenti da permetterti di
camminare sullo scafo. Ma finché non ti sarai abituato all'EVA, forse ti
sentirai più sicuro camminando carponi. Gli adesori magnetici ti facilite-
ranno il compito, e anche se dovessi staccarti dallo scafo, le fibbie ti trat-
terranno.» Le si abbassò la voce.
«La cabina raggiunge solo metà dell'estensione del rimorchiatore. Il
montante verticale si trova a poppa della cabina. Il fatto è che non abbiamo
molto tempo. Secondo le simulazioni dovresti far scattare le leve di scarico
nei prossimi sei minuti per essere certi che funzionino.»
Solo il riferimento al fatto di stare in piedi sullo scafo gli aveva fatto gi-
rare la testa e contorcere le budella. Deglutì. «Credo... credo che sia me-
glio che vada carponi piuttosto che diritto.»
«Va benissimo, Tim. Non devi andare molto lontano. Ma è meglio che
cominci a muoverti.»
Lui respirò profondamente, dicendosi che poteva farcela, che doveva
farcela. «Bene. Si parte.»
Poggiò i due palmi delle mani contro lo scafo, e gli adesori magnetici si
attaccarono perfettamente. Poi con cautela tirò fuori un ginocchio e lo ap-
poggiò contro la superficie metallica della nave. Sia le toppe magnetiche
che aveva sulle ginocchia che le suole magnetizzate degli stivali fecero
presa. Lottando contro uno strisciante senso di vertigine, e tenendo lo
sguardo fisso sulla superficie bianca liscia e consumata che aveva tra le
mani, sollevò lentamente l'altra gamba.
«Sono... sono fuori. Adesso mi dirigo verso la porta posteriore.»
«Stai andando benissimo, Tim» disse Lil, come se lo pensasse veramen-
te. «Mi rendo conto di quanto ti faccia paura.»
Avanzò con una mano di qualche centimetro. Un ginocchio in avanti.
Poi l'altra mano. E l'altro ginocchio. «Oh?» disse con voce tremante. «Rie-
sci a sentire attraverso la radio la pipì che mi scivola lungo le ginocchia?»
Lei ridacchiò. «Mi stai inondando.»
Si spinse avanti ancora di una quindicina di centimetri. Quanto poteva
essere la distanza in metri? Chi diavolo se ne fregava? «Vuoi sentire qual-
cosa di divertente?» Parlava sommessamente, come se il suono della sua
voce potesse in qualche modo distrarlo.
«Potrebbe essere un cambiamento simpatico.»
«Sto commettendo un peccato mortale.»
«Che vuoi dire?»
«Suicidio. Io non sono un esperto di missilistica, ma so che cosa succe-
derà se riuscirò a scaricare quelle cisterne. Si trovano in cima alla nave.
Venere è proprio lì sotto. Mi ci dirigerò volontariamente contro.»
Lil rimase in silenzio per qualche secondo. «Pensi davvero che ciò che
stai per fare sia sbagliato?»
Considerò la domanda prima di rispondere. «No, non lo penso sul serio.
Sterzare il volante dell'automobile per evitare di uccidere un bambino e
spiaccicarsi contro un appoggio di cemento non è un suicidio. Ed è proprio
ciò che sto facendo qui. Una deviazione.»
«Stai facendo molto di più, Tim. Stai dimostrando coraggio. E fede.»
Tim ridacchiò tra sé e sé, spostandosi ancora di qualche centimetro verso
la parte posteriore della nave. «Stai cercando di farmi recuperare la fede,
Lil? Vuoi aiutarmi a fare la pace con Dio prima di morire?»
«Perché sei ancora vivo, Tim?» Domandò tranquillamente.
Sbuffò. «Ho bevuto troppa soda per rimettere a posto lo stomaco e ho
dovuto liberarmi la vescica. La porta del bagno che avrebbe dovuto scardi-
narsi per qualche ragione ha tenuto.»
«Queste sono circostanze, non ragioni. Io penso che tu sia vivo per poter
fare esattamente ciò che stai facendo in questo momento.»
Tim rimuginò su questa osservazione, mentre continuava ad avanzare
carponi verso la parte posteriore della cabina. Passo dopo passo aveva fatto
un terzo del percorso. Era affiancato da due lunghi cilindri, uno a ogni lato,
su cui c'era scritto CARBURANTE, con lettere delle dimensioni delle sue
mani. All'interno c'erano due cilindri più piccoli disposti parallelamente, su
cui era scritto OSSIGENO. Quelli più grandi sarebbero stati all'altezza del-
le sue spalle se fosse stato abbastanza coraggioso da alzarsi in piedi, quelli
più vicini erano leggermente più alti delle sue spalle incurvate. Averli da
tutti e due i lati, come un doppio assortimento di ringhiere di sicurezza, lo
fece sentire molto più sicuro.
Avanzò più velocemente, tenendo le ginocchia e la punta dei piedi incol-
lati allo scafo. Il montante verticale doveva essere da qualche parte davanti
a lui, ma aveva paura di alzare lo sguardo dallo scafo.
«Vuoi dire... che Dio mi ha messo qui perché facessi questo?» disse an-
simando.
«Voglio dire che sei la persona giusta, nel posto giusto e nel momento
giusto. Qualcuno che crede in Dio potrebbe vederci la sua mano.»
Tim annuì. «Suppongo di sì. E tu? Che cosa ci vedi?»
«Vedo confermata la mia fede personale.»
«Credevo che avessi detto di essere atea.» A Tim non sfuggiva la singo-
larità della sua situazione. Era lì, che avanzava sulle mani e sulle ginocchia
come un penitente, su una nave spaziale sfuggita al controllo, con un pia-
neta chiamato con il nome di una divinità pagana sotto di lui, a discutere di
teologia con un'atea che sarebbe morta se lui avesse fallito. E il peggio era
che non sarebbe vissuto abbastanza per ripensarci e riderne.
«Lo sono. È in te che ho fede, Tim.» Parlava con profonda convinzione.
«Non me lo merito.» Dio, la Chiesa, i suoi confratelli, il vescovo Pasto-
relli, Beverly: li aveva delusi tutti. Debole nella carne e povero nello spiri-
to, con la futilità rimasta come unica fede.
«Alcuni dicono la stessa cosa dell'amore di Dio, no? Io non credo nei
santi e nella santità, ma credo negli eroi e nell'eroismo. E vedo che tu stai
facendo ciò che deve essere fatto, mettendo da parte i tuoi dubbi e le tue
paure, per riuscire a salvare la vita di altri.»
«Così, adesso stiamo parlando di salvezza. Poi tirerai fuori la redenzio-
ne. Sei sicura di non essere un'atea gesuit... ouch!»
«Cos'è successo?» Improvvisamente la voce di Lil si fece apprensiva.
Tim si lasciò andare in una risata incerta. «Tutto bene. Ero così preso
dalla nostra conversazione che stavo superando il montante verticale.» Da-
vanti a lui c'era un'intelaiatura di metallo con dei grossi tubi all'interno, e
con una specie di scatola bassa in cima.
«Grazie a Dio.»
«Questa battuta è mia. Adesso che cosa faccio, Lil?»
«Sposta verso l'alto le leve di scarico.»
«Verso l'alto.» Le fece eco tristemente. Significava che dopo tutto a-
vrebbe dovuto alzarsi in piedi. Gli bruciavano gli occhi per il sudore. Per
l'ennesima volta, il solo pensiero di alzarsi gli strinse le budella e gli fece
battere il cuore all'impazzata contro il torace. Ma era andato troppo avanti
per mollare adesso.
Si inumidì le labbra secche. «Va bene. Si comincia.»
C'erano delle maniglie a forma di U saldate all'intelaiatura. Si allungò
per afferrare quella più in basso prima con una mano e poi con l'altra, man-
tenendo per tutto il tempo gli occhi ben fissi sul metallo di fronte, assolu-
tamente certo che se si fosse permesso di guardare dove si trovava, sarebbe
rimasto paralizzato dalla paura come una statua di sale.
Si avvicinò carponi, poi con circospezione rinunciò agli adesori magne-
tici per mettersi in posizione rannicchiata. Le suole magnetiche degli stiva-
li aderirono saldamente rassicurandolo.
«Parlami» brontolò mentre alla cieca cercava di afferrare la seconda ma-
niglia.
«Amo essere qui fuori, nello spazio. È talmente bello. Sono vent'anni
che non torno sulla Terra.»
«Davvero? Io vorrei esserci adesso.» Aveva trovato il piolo successivo
della scala. Ci si afferrò, desiderando che le sue mani non fossero così su-
date.
«Come sei arrivato fin qui, Tim?»
«È una lunga storia. Ti basti solo sapere che stavo cercando di fuggire.»
La bocca gli si increspò in una mezza risata, quando si sollevò in posizione
eretta.
«E guarda dove sono finito. Sono in piedi adesso. Vedo le due leve con
scritto sopra SCARICO D'EMERGENZA.»
«Grande. Vedi come sono serrate?»
«Uh... hu.»
«Prima apri tutti e due i chiavistelli.»
«Va bene.» Tenendosi con una mano, aprì le serrature di sicurezza delle
due leve. «Fatto.»
«Bene. Voglio che per prima cosa scarichi il carburante, c'è una pressio-
ne minore. Quando girerai questa leva fuoriuscirà dalla cima qualcosa di
simile a un geyser. Ci sarà un'accelerazione, quindi tieniti forte. Sei pron-
to?»
«Pronto, come non mai.»
Si agganciò con il braccio intorno all'appiglio, stringendo saldamente le
dita sul lato metallico del piolo, poi poggiò l'altra mano sulla maniglia del-
la leva in cui c'era scritto CARBURANTE.
«Dio, dammi la forza» sussurrò quasi senza fiato, chiudendo gli occhi e
girando con forza la maniglia.
Non sentì nulla di preciso, ma la vibrazione si trasmise dal metallo alle
mani e ai piedi. La sensazione di stare per cadere lo colse, facendogli arri-
vare lo stomaco in gola. Digrignò i denti e si attaccò all'amata vita con tut-
te le sue forze.
Gli arrivò la voce di Lil, acuta per l'eccitazione. «Il tuo vettore sta co-
minciando a cambiare. Adesso aziona lo scarico d'ossigeno.»
Gli ci volle fino all'ultimo briciolo di coraggio per spostare la presa da
una leva all'altra. La spinse, inviando una seconda nuvola di fumo nella
notte sconfinata.
La sensazione di cadere si fece più forte, diventò quasi opprimente. L'in-
telaiatura vacillò tutta a causa della forza che le era stata trasmessa.
Sta cambiando diceva una voce lontana. Tim si aggrappò al montante,
piegò la testa e chiuse gli occhi. Sentì che qualcosa cresceva da una zona
nel profondo della sua anima, e cominciò a pregare. Era la preghiera più
autentica di tutta la sua vita.
Non era una preghiera per la propria sopravvivenza o salvezza. Pregava
affinché Anteros venisse salvata.
«Tim, mi senti?»
Tim scosse la testa per riprendersi. «Sì, ti sento». La sensazione di cade-
re era svanita. Tutto era tranquillo, anzi, regnava quasi la pace.
Sollevò la testa e aprì gli occhi.
Quando vide le stelle si sentì attraversare da un brivido di freddo. Erano
talmente limpide, luminose, e ce n'erano talmente tante! Spalancò la bocca
quasi come se volesse respirarle.
Rimase sgomento. Al posto del vuoto, trovava la pienezza; invece dell'o-
scurità, c'erano strati su strati di luce senza fine. Senza rendersi conto di
quello che faceva lasciò andare il montante metallico e fece un passo in-
dietro, piegando la testa confuso dal grandioso arco dell'eternità.
«Ha funzionato, Tim. Il rimorchiatore eviterà la stazione. Ci passerai
sotto tra circa tre minuti».
Lui annuì, poi si ricordò che lei non poteva vederlo. Anche prima che la
donna parlasse, lui si rese conto che le proprie preghiere erano state esau-
dite. «Sono felice. Lil?»
«Sì, Tim?»
Adesso riusciva a vedere la sagoma arrotondata di Venere, splendente
come una perla infuocata. Sentì che dagli occhi gli scivolavano lacrime di
commozione, si sforzava di trovare le parole. «È...è così bello» disse con
voce trasognata, rendendosi conto che stava avvilendo la grandezza di
quella visione con delle lodi inadeguate. Non era mai stato un gran citatore
della Bibbia, ma si mise a recitare i versi dei Salmi. "I cieli proclamano la
gloria di Dio e il firmamento mostra la sua opera". Era una declamazione
così intensa che anche un sordo come lui poteva sentirla.
«Sì, è vero. Ma sono convinta di sapere una cosa che ti sembrerà anche
più bella.»
«Che cos'è, Lil?» Già ciò che vedeva era sufficientemente bello. Si sen-
tiva appagato, completamente appagato. Come aveva potuto avere paura?
Le sue preghiere erano state esaudite, e in quel risveglio aveva riconquista-
to molto più che la sua fede perduta; aveva trovato la pace di Dio, la pace
che va oltre qualsiasi comprensione.
«Sono io, naturalmente. Guarda alla tua destra.»
Si girò per guardarsi intorno, senza nemmeno pensare due volte se i
grandi e goffi stivali l'avrebbero trattenuto. In lontananza, contro l'oscurità
spolverata di diamante, c'era una macchia di bianco azzurrato. Rimase fis-
so a guardarla, accigliato, aggrottando la fronte. «Sei tu? Credevo fossi
sulla stazione.»
«Lo so. In questo momento sto tornando indietro da una delle piattafor-
me immerse nell'atmosfera da cui è partito questo pasticcio. Mi trovo in un
piccolo carro satellite a due posti, e fin dall'inizio mi sono portata dietro
questo fardello. Se non fossimo riusciti a cambiare la traiettoria del rimor-
chiatore, mi sarei schiantata con violenza in meno di un minuto. Anteros
avrebbe potuto essere colpita lo stesso dai detriti, ma un venticinque per
cento di probabilità predetto dal computer sarebbe stato molto meno
drammatico del novantacinque per cento che potevamo aspettarci da un
impatto con il rimorchiatore.»
Passò quasi un minuto prima che Tim riuscisse a parlare. «Non c'è stato
un momento in cui tu l'abbia lasciato trapelare» disse con calma. «Eri
pronta a sacrificarti e non l'hai nemmeno accennato.» Aveva maturato un
considerevole rispetto nei confronti di quella donna calma e competente
nel breve lasso di tempo trascorso da quando l'aveva conosciuta. La stima
crebbe ulteriormente di fronte a quella rivelazione. Non c'era da meravi-
gliarsi che credesse negli eroi, lei era uno di loro.
«Ehi, il tuo piatto era già pieno. Ma quando mi sono resa conto che eri
vivo, ho capito che forse non sarei dovuta diventare una palla di cannone
umana. Ma non c'è niente di interessante adesso nel parlare di questo. Il
fatto è che ho cominciato a frenare proprio quando tu ti sei arrampicato
fuori dal portello. Da quel momento in poi ho cercato di starti dietro.»
Tim aveva girato la testa per guardare davanti al rimorchiatore. Lì in
lontananza c'era un diadema di luci che doveva essere Anteros. Aggrottò la
fronte pensosamente. «Non so molto di questo genere di cose, ma non vor-
rebbe dire che tu te ne sei fregata della possibilità di speronare il rimor-
chiatore?»
«È andata proprio così.»
Scosse la testa perplesso.
«Perché?»
«Sapevo che non ce n'era bisogno. Il computer mi aveva detto che se tu
avessi scaricato in tempo il carburante avresti scansato la stazione, e io sa-
pevo che ci saresti riuscito.»
Tim riusciva a credere a malapena alla velocità con cui si era avvicinato
alla stazione. Adesso sembrava quasi sopra la sua testa. Il tracciato di luci
lampeggiò una volta, due volte e poi rimase fisso. Lui sorrise e sollevò un
braccio in segno di saluto. In un attimo gli era accanto.
«Come facevi a essere sicura che non sarei precipitato?»
«Ho avuto fiducia in te, Tim.»
Lasciò ricadere il braccio, senza sapere se ridere o piangere, e si accorse
che la sua tranquillità traboccava sia di lacrime che di risate. «Sono felice
che tu non abbia dovuto ucciderti.» Si girò di nuovo a guardare verso il
punto in cui si trovava la donna. Adesso riusciva a vedere una specie di
massa all'interno del bagliore bluastro. «Sembra ancora piuttosto rischio-
so.»
«Forse è così, ma ho pensato che ne valesse la pena. Cominciando a fre-
nare inoltre sarei stata in grado di rallentare abbastanza da raccoglierti.»
Le sue parole arrivarono a Tim talmente inattese che inizialmente non
riuscì a capirne il senso. Raccoglierti?
«Tu... tu hai rischiato tutto per avere la possibilità di salvarmi?»
«Non è niente di più di quello che hai fatto tu, vecchio amico. Ma non
sarà esattamente facile, mi muoverò come minimo a trenta kliks all'ora in
rapporto a te, e posso avvicinarmi solo così. Dovrai saltare, e dovrai tenerti
forte quando toccherai. Ma che diavolo, tu sei padre Tim, l'uomo volante.»
L'idea che dopotutto non sarebbe morto era talmente strana che gli ci
volle un po' prima di accettarla. «Avevi detto che non c'era niente che po-
tessi fare per salvarmi.» Non che volesse discutere quella eventualità, ma
voleva capire.
«No, io ho detto che non c'era nulla che potessi fare in quel momento.
Questa era una possibilità e niente di più. Non faccio mai promesse se non
sono sicura di poterle mantenere. Ascolta, se salvarti le chiappe non fosse
già una ragione sufficiente per farlo, lo sarebbe quel modulo blu che vo-
glio che tu prenda, è il registratore di volo del rimorchiatore. Quanto è ve-
ro Iddio, voglio sapere che cosa ha causato l'esplosione».
Tim si mise a ridere fragorosamente. «Tieni tutto sotto controllo, eh
Lil?»
Si diede una pacca sulla coscia. Il modulo era ancora lì.
«Puoi scommetterci le chiappe, caro mio. È per questo che sono il boss.
Allora, hai intenzione di prendere questo apparecchio di controllo e salire
sul montante? Se lo farai, saremo ad Anteros in circa un paio d'ore. Tra un
paio di giorni potrai tornare su Adone, e metterti in viaggio per la Terra
prima della fine della settimana.»
Tim cominciò a togliere l'anello della cintura. Sorridendo tra sé e sé, dis-
se: «No».
Seguì qualche minuto di silenzio. Abbastanza per togliere la cintura e
avvolgerla intorno a uno degli appigli.
«Che cosa significa no? Hai deciso di essere il primo uomo a mettere
piede su Venere? Non preoccuparti, ti ridurrai come una patatina fritta,
morto stecchito non appena entrerai nell'atmosfera.»
Lui guardò verso la nave in cui si trovava la donna. Adesso riusciva a
vedere il veicolo chiaramente. Aveva l'aspetto di un assurdo assemblaggio
di montanti, serbatoi e rampini, con una bolla di plastica trasparente inseri-
ta nel mezzo. Dentro la bolla c'era una minuscola figura vestita di blu. I
razzi direzionali brillavano e pulsavano, mentre manovrava la nave per
portarla al loro appuntamento.
Poggiò le mani in cima alla colonna e si sollevò, ritrovandosi in ginoc-
chio lassù. Era la posizione adeguata al luogo.
«Non tornerò sulla Terra. Voglio un lavoro, Lil. Posso pulire i bagni, la-
vare i piatti se è necessario. Non mi importa ciò che mi farai fare, ma vo-
glio rimanere qui.»
Aspettò che lei ribattesse. Invece domandò: «Cos'è stato a farti prendere
questa decisione?»
Tim si alzò, guardò le stelle che lo circondavano e la faccia di Venere
sotto di sé. La paura era scomparsa, non ne era rimasto nemmeno l'eco. Si
sentiva sollevato, elevato. Si trovava abbastanza in alto da vedere chiara-
mente, e gli erano caduti tutti i veli dagli occhi. In lontananza c'era una
piccola capocchia di spillo blu che forse era la Terra.
Qui c'era abbastanza meraviglia e grandezza a sufficienza per mantenere
Dio vivo dentro di sé per tutta la vita. Qui si rivelava il volto del Creatore
in tutta la sua gloria.
«Forse Dio mi ha fatto finire qui perché potessi fare questa scoperta»
disse più a se stesso che a Lil «Forse il suo piano era anche più importante
di questo. Forse mi ha portato qui, vicino a lui, perché questo è il posto in
cui vuole che io rimanga per sempre.»
«La persona giusta nel posto giusto, al momento giusto» disse Lil dol-
cemente, con una tensione sotterranea nella voce, mentre continuava a ma-
novrare il rozzo apparecchio verso di lui. «Il tuo recupero è piuttosto stu-
pefacente, Tim. Diamine. Sei assunto.»
«Parleremo più tardi del salario e delle indennità, capo...» disse Tim ri-
dendo mentre si alzava in piedi sulla cima del montante. Lei a quel punto
era arrivata quasi sopra di lui.
«... Però voglio le domeniche libere.»
«Affare fatto. Bene, sto per cominciare a contare. Quando dirò Tre vo-
glio che salti con tutto lo slancio possibile. Sei pronto?»
«Assolutamente.» Lanciò uno sguardo alla nave danneggiata che aveva
sotto i piedi, e gli vennero in mente quelli che erano morti lì dentro. Chiuse
gli occhi e disse una preghiera per le loro anime. Questa volta le parole a-
vevano risonanza e senso. In qualche modo erano già in paradiso.
«Uno!»
Aprì di nuovo gli occhi. Uno dei manipolatori affusolati sulla facciata
dell'apparecchio era quasi esattamente sopra di lui. Stava davvero esau-
dendo un piano di Dio? O semplicemente stava per avere un'altra chance di
cominciare una nuova vita, e questa volta la stava cogliendo?
«Due!» Piegò le gambe e allargò le braccia come se stesse per volare.
L'apparecchio adesso era arrivato completamente sopra di lui, in mezzo
c'erano tre o quattro metri di nulla assoluto. Forse prima non era stato ca-
pace di scegliere perché non erano le scelte giuste. Il piano di Dio si era ri-
velato. Libero arbitrio, e la giusta decisione da prendere quando arriva il
momento. In fondo non è davvero importante quale sia. In tutti e due i casi
la richiesta è la stessa. Una decisione che Lil aveva preso quando aveva
creduto in lui. Una capacità che lui aveva perso, ma che Dio gli aveva re-
stituito in tutta la sua pienezza. Tutto ciò che ci voleva era...
«Tre!»
... un po' di fiducia.
Padre Tim Shannon ridendo si lanciò nel vuoto, spiccando il salto.
LE COSTANTI UNIVERSALI
di Charles Sheffield
«Devo ammettere che mi ha del tutto sorpreso che tu sia venuto qui»
disse Van Lyle amabilmente. «Bisogna davvero riconoscerlo alla direttri-
ce. Credimi, Anna Griss aveva previsto tutto, l'effetto che avrebbe avuto
l'annuncio, l'arrivo di McAndrews, e poi il tuo. Molto perspicace da parte
sua. D'altronde, non è per questo che lei fa l'amministratore, e noi no?»
Era davanti a un paio di enormi porte metalliche, e stava controllando la
tastiera inserita nell'intelaiatura. Dalla parte opposta erano disposte le va-
sche di lavorazione, dove ogni tipo di tessuto organico - muscoli, ossa, un-
ghia, pelle e capelli - veniva sciolto in biomolecole di base. C'erano segnali
di avvertimento disseminati per tutta la stanza, e sulle due porte:
ACCESSO CONTROLLATO, PERICOLO, LIQUIDI E GAS
CORROSIVI, VIETATO AGIRE SENZA TUTE PROTETTIVE, OLTRE
QUESTA ZONA L'ACCESSO È CONSENTITO SOLO AI
RAPPRESENTANTI DEL DIPARTIMENTO UFFICIALE.
Van Lyle si girò verso di me con espressione interrogativa. «È impres-
sionante, non trovi? Non fare la timida, comandante. Mi piacerebbe davve-
ro conoscere la tua opinione su tutto ciò.»
Roteai gli occhi verso di lui. Ero seduta rigidamente su una sedia a rotel-
le di metallo. Avevo polsi e gomiti legati ai braccioli della sedia con un
largo nastro adesivo di fibra, di quelli difficili da staccare e praticamente
impossibile da strappare. I miei polpacci erano fissati alla struttura metalli-
ca della sedia con identico materiale. Una larga striscia appiccicosa dello
stesso nastro mi copriva la faccia, da sotto il naso fino al mento.
«Ah, capisco» continuò Lyle. «Ma adesso sei disposta a parlare in modo
cortese, e a non fare storie?»
Feci un cenno affermativo con la testa, una delle poche libertà che pote-
vo permettermi.
Van Lyle mi fece un cenno di risposta. «Molto bene! Ma nel caso in cui
ti sentissi tentata a cambiare idea, permettimi di chiarirti che sarebbe com-
pletamente inutile. Questa parte dell'installazione è automatizzata. Non c'è
nessun altro qui, a parte noi due.»
Mi si avvicinò e toccò una delle estremità del nastro che mi copriva la
bocca. Ma invece di strapparlo via, si fermò e fece scorrere le dita prima su
un lato del naso poi dall'altro.
«Ma guarda che grazioso e proporzionato ornamento» disse. «Comple-
tamente diverso dal mio, non trovi? Prima di finire, dovremo occuparce-
ne.»
Fino a quel momento non mi ero resa conto di quanto mi odiasse. Il suo
naso era storto e leggermente schiacciato, una menomazione per la sua ru-
de e bionda bellezza. Le labbra sotto il naso storto si contorsero in una
smorfia di cattiveria quando mi strappò il nastro dalla bocca. Strinsi le lab-
bra l'una contro l'altra, tremando. Uno strato di pelle si era staccato insie-
me al nastro superadesivo, e si era portato dietro tutta la sottile peluria che
avevo sulla faccia. Sentii che un rivolo di sangue mi scivolava sul mento.
Era stata la discussione più breve sul naso che avessi avuto, ma anche la
migliore. Avevo spaccato quello di Van Lyle, a mezzo anno luce di distan-
za dal Sole, perché non voleva togliermi di dosso le sue mani lascive. Era
successo molto tempo prima, ma sfortunatamente non sembrava che aves-
se intenzione di dimenticarsene.
«Sai come è fatto McAndrew» dissi. «È bastata la parola giusta, ed ecco-
lo pronto a partire per la Terra. Non c'era nulla che potessi dire per fermar-
lo.»
«Capisco» annuì Lyle. «Ma tu, Jeanie, non dovresti essere un po' più
scaltra? Ero pronto a scommettere che non l'avresti seguito fin qui.»
Sentirmi chiamare Jeanie da Van Lyle mi fece accapponare la pelle, ma
aveva ragione. Io non avevo la scusa che aveva Mac, il canto della sirena,
la parolina magica che lo aveva lasciato privo di difese: una nuova costan-
te universale.
«Tu non capisci» dissi. «Ho trascorso metà della mia vita correndo die-
tro a Mac quando si metteva nei guai. Ormai è la mia seconda natura. Ma
di solito si tratta di andare in qualche luogo in mezzo alle stelle, non di un
viaggio all'interno della Terra.»
Non avevo nessun reale interesse nel raccontare queste cose a Van Lyle,
nonostante fossero vere. Stavo solo cercando di guadagnare tempo, e di
rimandare il momento in cui mi avrebbe di nuovo tappato la bocca per poi
condurmi al successivo stadio del programma. Avevo qualche incertezza
su quello che stava per succedere. Lyle non mi aveva trascinato in quel-
l'impianto di lavorazione, lontano dalla terra e a centinaia di metri sotto la
superficie del mare, solo per mostrarmi le tecnologie avanzate del Dipar-
timento Alimentare Terrestre.
Ed era davvero un brutto segno che avesse menzionato il nome di Anna
Griss. In passato si era sempre rifiutato di ammettere che lavorava per lei.
Mi domandavo che cosa stesse aspettando. In quel momento, e ciò di-
mostra fino a che punto ero disperata, mi auguravo addirittura che stesse
progettando un altro tentativo di stupro nei miei confronti. Gli avrei per-
messo di fare qualsiasi cosa, qualunque cosa potesse occupare un tempo
sufficiente a fare arrivare gli aiuti, o a offrirmi anche solo una piccola pos-
sibilità di opporre resistenza. Era meglio quello che rimanere legata alla
sedia a rotelle, capace solo di muovere la testa e il busto da un lato all'al-
tro.
Non avevo molte speranze. Quello non era il mio ambiente, ma il loro.
Avrei avuto una possibilità se mi fossi trovata nello spazio profondo, ma lì
sulla Terra, Van Lyle e Anna Griss giocavano in casa.
E di colpo non ebbi più alcuna speranza. Perché sentii che si aprivano le
porte d'acciaio nella parte posteriore della stanza, le stesse attraverso cui
ero stata trasportata all'interno. Ci fu lo stridio di un cuscinetto poco oliato,
e qualche secondo dopo una sedia a rotelle venne fatta scivolare accanto
alla mia. Ci stava seduto McAndrew, e aveva le gambe legate alla struttura
metallica della sedia con delle grosse corde intrecciate invece che con il
nastro adesivo. Non aveva la bocca coperta. Mi guardò dispiaciuto.
«Mi dispiace, Jeanie» disse. «Davvero. È tutta colpa mia, completamen-
te.»
Cercai di sorridergli, e sobbalzai per il dolore che mi procurava la ferita
sulla carne viva. Le labbra ricominciarono a sanguinare. «Non prendertela,
Mac» mormorai. «Se la colpa è tua, la responsabilità è mia.»
Titolo originale:
The Invariants of Nature
Analog Science Fiction and fact,
April 1993
DIRITTO D'ASILO
di James White
FINE