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INDICE
EDITORIALE
NOTE
COSTRUTTORI DI INFINITO
di Kevin J. Anderson & Doug Beason
La minaccia nanotecnologica
è in agguato sul lato oscuro della Luna...
PROLOGO
Cratere Dedalo: l'altra parte della Luna
Il cratere Dedalo era, a tutti gli effetti pratici, il luogo più remoto del Si-
stema solare. Situato a centottanta gradi dalla faccia della Luna che guarda
alla Terra e solo quattro gradi sotto l'equatore lunare, Dedalo non aveva
mai visto né sentito la Terra, né mai ricevuto onde radio disperse che, dif-
frangendosi sull'orizzonte lunare, avrebbero potuto rovinare le delicate mi-
surazioni astronomiche.
Protetto dall'ombra orbitale, il cratere Dedalo era il luogo perfetto dove
collocare una stazione "Very Low Frequency" allo scopo di studiare le
bassissime frequenze delle porzioni del radiospettro che finivano sulla Ter-
ra. Enormi antenne a dipolo si estendevano per chilometri sul fondo piatto
disponendosi a Y, dando al luogo l'aspetto di un gigantesco simbolo della
Mercedes Benz circondato dalle pareti del cratere.
Essendo così remota, la stazione VLF doveva essere autosufficiente.
Tutta la strumentazione era stata progettata in modo da funzionare da sola;
ispezionata da aeromobili riparatori telepresenti, era in grado di riparare
autonomamente i propri guasti con pezzi di ricambio modulari. Data la na-
tura immutabile della Luna, la VLF avrebbe dovuto rimanere operativa per
decenni senza interventi Umani.
Fino al giorno in cui tutto non cominciò ad andare per il verso sbagliato.
Trevor Waite "l'Impaziente" aspirò l'aria viziata dell'angusta cabina
mentre la cavalletta lunare si avvicinava alla stazione. La cavalletta era sta-
ta inviata dalla base lunare Columbus per indagare ed effettuare le ripara-
zioni, e Waite non vedeva l'ora di uscire per dare un'occhiata di persona.
Gli scienziati sulla Terra non facevano che lamentarsi per l'interruzione dei
loro dati VLF, e Waite l'Impaziente era il miglior tecnico riparatore che ci
fosse sulla base.
La cavalletta era automatizzata al novantacinque per cento, ma sfortuna-
tamente vecchie norme di sicurezza imponevano ancora che ci fosse un
equipaggio di tre persone, di cui una doveva rimanere a bordo del veicolo
mentre le altre due erano impiegate per attività esterne. Waite avrebbe po-
tuto risolvere il problema da solo in un'ora, ed era convinto che la cautela
di Sig Lasserman e le insicurezze da neofita di Becky Snow avrebbero tri-
plicato il tempo necessario.
La cavalletta iniziò a scendere presso il margine superiore del cratere
Dedalo. Era difficile vedere qualcosa nella notte lunare. «La sto facendo
scendere lentamente» disse Siegfried Lasserman con un secco accento te-
desco mentre metteva in funzione gli strumenti di controllo per l'atterrag-
gio.
«Vedo, vedo» borbottò Waite. Controllò la tuta, ansioso di uscire ad ag-
giustare le antenne malfunzionanti. Si dia inizio allo spettacolo!
Waite odiava l'idea di sprecare tempo mandando un essere umano a fare
il lavoro di un robot, ma tutti i sensori automatici della VLF erano impaz-
ziti, e tutte le routine di mantenimento avevano fallito lo scopo. Nessuno
riusciva nemmeno a capire a quale ramo dell'immenso albero di dispersio-
ne fosse da imputare il danno. Due delle antenne a dipolo della stazione si
erano spente a un'ora di distanza una dall'altra; una terza si era fermata do-
po meno di un giorno. Le tre unità difettose erano in fila, il che faceva
pensare che il danno si stesse espandendo sequenzialmente. Cosa ancor
peggiore, gli aeromobili riparatori non davano segni di vita.
La base lunare Columbus non riusciva nemmeno ad avere un'immagine
della stazione Dedalo. Waite si chiese se non fosse successo qualcosa di
grosso, se per esempio non fosse caduto un meteorite su una parte della
stazione distruggendola; ma tutti i sensori sismici erano rimasti silenziosi
come fossili.
«Perché ci sta facendo scendere qui?» chiese Becky Snow, interrompen-
do i pensieri di Waite. «Non ci avevano avvertito nell'incontro di prepara-
zione al volo.» I suoi occhioni neri erano più grandi di quanto avrebbero
dovuto essere, e la sua pelle color ebano luccicava di sudore.
Lasserman parlò con voce secca e professionale, senza distogliere l'at-
tenzione dai comandi. «Per proteggere la stazione dalla polvere che po-
trebbe sollevare la cavalletta. Nella parte superiore del bordo del cratere c'è
una strada di accesso che scende sul fondo. Qui saremo vicini a sufficien-
za.»
«La stazione sarà visibile anche al buio, non appena scenderete lungo la
strada di accesso» disse Waite. Becky Snow non era mai stata sul Lato O-
scuro prima di allora, ed era sulla Luna da sole cinque settimane. Waite
odiava insegnare il mestiere a qualcuno proprio quando c'era una missione
in corso.
Lasserman fece atterrare la cavalletta sulla superficie piatta dell'area di
atterraggio che era stata creata dietro il bordo del cratere. Poi passò a un
altro gruppo di comandi e spense i motori a metano, mentre Waite e Becky
Snow si giravano i pollici aspettando di iniziare il loro lavoro. Indossavano
già le tute per le attività esterne nonostante la cabina della cavalletta fosse
completamente pressurizzata. Waite si sentiva claustrofobico dentro la ca-
valletta, anche con la visiera alzata. Voleva uscire.
Lasserman era rannicchiato vicino al pannello di controllo della cavallet-
ta; la sua tuta era collegata a dei computer che proiettavano i dati su un
guizzante schermo olografico posto di fronte a lui. «Continuo a ricevere ri-
sonanze elettromagnetiche anomale. Sembra che ci sia qualcos'altro di arti-
ficiale e di grande là fuori, oltre alla VLF. E il livello degli infrarossi non
ha senso, è troppo alto. Sono dieci giorni ormai che è tutto buio qui, do-
vrebbe fare molto freddo.»
«Forse i segnali sono disturbati dalla polvere che abbiamo sollevato.»
Waite abbassò la visiera e accese la trasmittente della tuta, impaziente di
risolvere il problema. Che senso aveva continuare a parlarne dopo che a-
vevano fatto tutta quella strada per lavorarci di persona?
Lasserman esitò. «La polvere dovrebbe essersi posata ormai.» La sua
voce arrivò per radio. «Non può essere questa la spiegazione.»
Waite finì di controllare la tuta e si spostò verso il portellone. «Be', non
appena Becky è pronta, usciamo fuori a darci un'occhiata noi. Se andasse
tutto bene, non saremmo certo arrivati fin qui.» Se proprio non volevate
correre nessun rischio, perché mai siete venuti sulla Luna?
Spaventata, Becky iniziò ad armeggiare con la sua tuta. Waite la osser-
vava con la coda dell'occhio per assicurarsi che facesse tutti i controlli del
caso.
Lasserman annuì verso i suoi comandi, aggiustandosi il microfono che
portava al collo. «Informo Dvorak che siamo arrivati e che riceviamo an-
cora segnali anomali. Ora predispongo le cose in modo che sia possibile
osservare la missione in tempo reale.»
«Bene» disse Waite. Come se il comandante della base lunare non aves-
se altro da fare. O forse era proprio così. Jason Dvorak aveva assunto il
comando di Columbus soltanto da poche settimane, e la sua promozione
aveva sorpreso tutti, lui stesso compreso, ma soprattutto Bernard Chu, il
comandante precedente. Forse Dvorak voleva davvero assistere alle ripa-
razioni.
«Pronta» disse Becky.
«Ricevuto. Stiamo uscendo. Prepara il veicolo lunare.» Waite sigillò la
camera stagna e lanciò uno sguardo ai massicci pulsanti sul pannello di
controllo. Vide la scritta READY che lampeggiava mandando bagliori di
verde. Spinse il pollice coperto dalla tuta spaziale contro il pannello, e
immediatamente sentì che la tuta si irrigidiva mentre l'aria usciva lenta-
mente dalla camera stagna. Un soffio d'aria calda si insinuò attraverso la
tuta quando scattò l'impianto di riscaldamento interno. Di fianco a lui nello
stretto cubicolo, Becky Snow rimaneva completamente immobile.
«Metteremo tutto a posto in un attimo» disse a beneficio di chi stava se-
guendo la trasmissione dalla base lunare, e senza dubbio anche degli ha-
cker che dalla Terra si divertivano ad ascoltare le noiosissime conversa-
zioni delle basi lunari. Il canale Select della United Space Agency aveva
ormai smesso da tempo di trasmettere notizie sulle missioni di routine.
Quando la porta esterna della cavalletta lasciò andare la pressione, Waite
scese all'esterno della camera stagna. Tese una mano a Becky per aiutarla a
scendere dalla scaletta, ma lei si tenne in equilibrio da sola.
Waite si girò, fermandosi un attimo per calcolare la distanza dalla VLF.
Il veicolo avrebbe sollevato un po' di polvere, ma non abbastanza da cau-
sare problemi alle antenne a dipolo. Anche al buio, attraverso uno spacco
nella parete del cratere, riusciva a vedere la strada di accesso ampia e dis-
sestata rimasta da quando era stata costruita la stazione cinque anni prima.
Non ci sarebbe voluto molto per scendere laggiù.
«Non stare lì ad ammirare il paesaggio» disse a Becky. Si voltò per ve-
dere se aveva già iniziato a sganciare il veicolo lunare da sotto la cavallet-
ta. Lasserman aveva predisposto tutto mentre èrano ancora nella camera
stagna. Il veicolo fece un rimbalzo sulla regolite e iniziò a dispiegarsi.
«Tutto pronto» rispose lei, e aspettò che Waite salisse sul veicolo.
«Stiamo partendo, Sig» disse Waite.
«D'accordo. Ricevo i dati dalle telecamere delle vostre tute. State tra-
smettendo direttamente a L-2.»
«Fantastico il tempo reale, no?» Sperava solo che dalla base lunare non
si mettessero a incasinargli il lavoro. Era lui a essere lì sul Lato Oscuro, e
avrebbe preso lui le decisioni. Lasserman avrebbe preferito stare lì ad a-
spettare che Dvorak o qualcun altro gli dicesse cosa fare, o addirittura che
Celeste McConnell mandasse ordini dalla Terra. Ma Waite l'Impaziente sa-
rebbe morto se avesse dovuto aspettare che scegliessero "le misure più op-
portune da prendersi".
Waite si fermò un attimo aspettando che uscisse lo sterzo, poi si sedette
a bordo del veicolo. I fari emersero dall'interno proiettando un fascio di lu-
ce.
La Luna di notte era piena di ombre, ma le luci delle stelle, non filtrate
da nessuna atmosfera, giungevano scintillanti come aghi di ghiaccio. Non
appena sorpassarono il limite del cratere, sobbalzando lungo la strada di
accesso sugli enormi pneumatici del veicolo lunare, Waite capì immedia-
tamente perché la VLF aveva smesso di funzionare. «Sta succedendo qual-
cosa di molto strano qui» annunciò al microfono, tenendo la voce ferma.
«Lo vedo. Incredibile!» gli fece eco Lasserman. «L'ho già comunicato a
Columbus. Qualcuno è già andato a cercare Dvorak.»
A Waite sembrava che questo non avesse alcuna importanza. Fece scen-
dere lo sguardo lungo le pareti di Dedalo. Dietro di loro la scia lasciata di
fresco dagli pneumatici del veicolo risaliva a serpentina fino alla cavallet-
ta.
Di fianco a lui, Becky si sporse in avanti. «Nessuna delle foto di archi-
vio assomiglia a questa roba.»
«Quelle foto sono state fatte due anni fa. Vai pure avanti e stupisciti
quanto vuoi.»
Alla luce delle stelle, due dei bracci della Y apparivano intatti, ma il ter-
zo sembrava fosse stato staccato con un morso. Proprio di fianco alla pare-
te del cratere un buco grande come un gigantesco pozzo minerario spro-
fondava verso il basso, tre chilometri almeno di diametro. Sembrava la
bocca di un gigante che sbadigliava, inghiottendo il terreno, la stazione
VLF e ogni segno di presenza umana. Waite non riusciva a vederne il fon-
do.
Da quel pozzo usciva una struttura filamentosa, come un tessuto di linee
luccicanti che si espandeva in archi quasi invisibili, uno sbiadito ma com-
plicato disegno architettonico di fili argentei semicancellato.
Becky Snow sussurrò: «Sembra la tana di un ragno in una galleria. Sai,
con il ragno che aspetta nel buco e la ragnatela che si estende in tutte le di-
rezioni».
I sensori della tuta si illuminarono avvertendolo che la pressione sangui-
gna e la velocità di respirazione erano improvvisamente aumentate. Gli a-
sciugatori automatici presero ad andare a doppia velocità per contrastare la
grande quantità di sudore che d'un tratto si era riversata fuori dal suo cor-
po. Waite andò a sbattere contro il microfono posto sul mento, sorpreso di
sentire che la voce ancora non gli tremava.
«Sig, lo vedi anche tu?»
«Solo quello che trasmetti tu. Dalla cavalletta non si vede.»
«È perché sei troppo in alto, dall'altra parte della parete del cratere. È
meglio che ti accerti che a Columbus stiano ricevendo la trasmissione.»
«Ricevuto. I tuoi circuiti sono ancora collegati con L-2. Adesso...»
Waite lo interruppe. «Continuo a seguire la strada di accesso per un po',
voglio spostarmi più avanti per avere un'altra prospettiva.»
«Stai molto attento» disse Lasserman.
«Ci puoi scommettere» rispose Becky per Waite.
Waite fece scendere lentamente il veicolo lungo la china, portandosi così
ancora più lontano sia dalla cavalletta che dalla struttura. Si bagnò le lab-
bra e guardò ancora verso il basso per esplorare il buco. Era un totale mi-
stero. Sapeva che non s'era mai visto niente del genere nelle foto scattate
negli anni precedenti dalle sonde orbitali. La Luna era geologicamente
morta, si pensava che fosse assolutamente inutile continuare ad aggiornare
la mappa della sua superficie.
«Come è possibile scavare un buco come quello senza far oscillare i si-
smografi per giorni interi?» chiese Becky.
«Non si può. È impossibile. I geologi avrebbero dovuto essere in grado
di individuare la fonte con uno scarto di pochi metri. Sono dei gran rompi-
palle, ma non sono così incompetenti.» Dopo aver parlato si ricordò che
aveva il microfono acceso, e che alla base lunare sentivano tutto quel che
diceva. Oh, poco male.
Mentre il veicolo continuava la discesa, Waite concentrò l'attenzione
sulle parti della stazione, erette dall'uomo solo pochi anni prima. Le "ra-
gnatele" si estendevano fino alla quarta antenna a dipolo della stazione,
coprendo il dipolo come drappi.
La voce di Lasserman gli esplose ancora nelle orecchie. «Columbus vi
consiglia di non avvicinarvi troppo al pozzo.»
Waite era aggressivo, ma non era stupido. «Tranquilli.»
Girò intorno ad alcuni massi grandi come camion e tentò di tenersi alla
larga dalle zone più dense di ombra. Con tutte quelle stranezze che stavano
capitando, non c'era modo di sapere se gli sarebbe saltato addosso qualcosa
all'improvviso. I fari irradiavano luce per un buon tratto, richiamando
troppa attenzione sul veicolo lunare. Si sentiva come un intruso in un posto
pericoloso.
«Sto iniziando a perderti sugli infrarossi» disse Lasserman. «Il livello di
calore è abbastanza alto in tutta l'area, di parecchio oltre il normale.»
«Come è possibile che sia caldo?» disse Waite fra sé e sé. Di notte sulla
Luna era così freddo che i progettisti di tute spaziali ci avevano messo anni
per studiare dei sistemi che fossero in grado di reggerlo. Molto tempo pri-
ma che si potesse parlare di colonie, la NASA, l'ESA e la United Space
Agency avevano dovuto escogitare nuovi sistemi per difendersi dal freddo.
Ma la bassa temperatura notturna non aveva niente a che vedere con i
brividi che correvano lungo la schiena di Waite. Fece correre lo sguardo
lungo il cratere all'enorme pozzo. Gli ricordava una miniera a cielo aperto
apparsa da un giorno all'altro, senza segno di lavori, tracce sismiche o de-
triti. Tentando ancora di convincersi che doveva esserci qualche segno di
un impatto, andò alla ricerca di materia espulsa, di fenditure, di un rigon-
fiamento lungo il bordo. Ma il buco era profondo e nero, il bordo affilato
come un coltello, e non c'era nessun indizio di cosa l'aveva provocato. Era
semplicemente... là... Ma chi l'aveva fatto? E nel giro di qualche anno al
massimo?
I filamenti a forma di diamante si estendevano giù nel buco a perdita
d'occhio, poi riemergevano nel vuoto lunare formando archi simmetrici at-
torno all'orifizio. Solo due dei nove archi erano completi, e si congiunge-
vano un buon chilometro sopra la superficie, simili ai petali di un gigante-
sco fiore di vetro. Gli spazi tra le linee sembravano riempiti da una sottile
pellicola di materiale filamentoso. Il resto degli archi sembrava ancora in
costruzione.
«Trevor.» Una voce nuova uscì dalla radio della tuta, proveniente dalla
base lunare. «Sono Lon Newellen. In questo momento sto cercando di rin-
tracciare Dvorak. È meglio che non ti avvicini oltre a quella cosa.»
«Per noi va bene, Big Daddy. Pensi che andremo in onda sul canale Se-
lect?» scherzò Waite, cercando di soffocare il suo crescente disagio. Nes-
suno più guardava i programmi televisivi sulle routine quotidiane delle ba-
si lunari. «Ho addosso la tuta spaziale buona.»
Newellen non fece nemmeno caso a quel tentativo di fare dello humour.
«A che distanza sei?»
Waite si guardò attorno e provò a indovinare. «A circa mezzo chilome-
tro dal bordo di quella cosa.»
«Va bene, ora cerco di venirne fuori. Dato che non trovo Jason devo
contattare la Terra. La McConnell dovrebbe sapere di questa cosa. La-
sciamole prendere la decisione finale. Nel frattempo, perché non ve ne
tornate alla cavalletta? Non correte altri rischi.»
Waite non si mise a discutere, borbottò solo qualcosa su chi doveva
prendere le decisioni che riguardavano lui. Trovò un ampio spazio sulla
strada di accesso, e fece manovra finché non riuscì a girare il veicolo.
Becky Snow continuava a guardare la struttura sotto di loro.
Waite spinse il veicolo a tutta velocità, facendo rotolare le grosse ruote
verso Lasserman e la cavalletta che li aspettavano ora a cinque chilometri
di distanza. La strada di accesso era ripida e tortuosa, ma allontanarsi dal
fondo del cratere per avvicinarsi alla cavalletta gli infondeva sicurezza.
Quando dieci minuti più tardi spuntarono oltre il bordo del cratere, la vista
della cavalletta gli allentò la tensione.
«Ah, Trevor? Columbus?» disse Lasserman. «Sto ricevendo un mucchio
di dati strani qui... c'è qualcosa non va. I miei sensori stanno impazzen-
do!»
«Che tipo di...»
«Oh mio Dio! Si stanno aprendo delle microfalle dappertutto! Da dove
vengono?»
Waite aumentò la velocità del veicolo, come se potesse servire a qualco-
sa. Newellen dalla base lunare si rimise in comunicazione, chiedendo a
Lasserman di confermare i dati. Che stupido!
«La pressione nella cabina sta crollando!» La voce di Lasserman tre-
mava dal panico. «Lo scafo sta perdendo... si sta tutto... disintegrando!
Sono senza casco!»
«Sig!» gridò Waite nel microfono proprio mentre Lasserman urlava.
La cavalletta andò in pezzi sotto ai loro occhi. Waite e Becky videro che
si riempiva di brina bianca mentre l'atmosfera sgorgava all'esterno ed e-
splodeva. Oscillando sotto la forza dell'esplosione, la cavalletta barcollò
sulle gambe lunghe e sottili. Lo scafo si sbriciolò, come se il metallo si
fosse trasformato in polvere. Il corpo principale cedette e crollò.
Becky stava urlando. Waite gridò cercando di superare l'agitazione.
«Columbus! Big Daddy, avete visto?» Da qualche parte del suo cervello -
quella parte non tramortita dallo shock - Waite continuava a pensare: Co-
me faremo a tornare? Siamo soli qui sul Lato Oscuro dalla Luna. Quanto
tempo gli ci vorrà per mandare un'altra cavalletta? Quanta aria ci è rima-
sta ancora?
Controllò tremando l'antenna parabolica del veicolo lunare. Il telescopio
per le comunicazioni laser era ancora puntato verso il satellite ripetitore L-
2 che vegliava sopra di loro. «Columbus. Base Columbus. Mayday, ma-
yday!»
Becky continuava a urlare, ma non era terrore immotivato. «Trevor, c'è
un buco da qualche parte. La mia tuta ha delle perdite! Sto perdendo pres-
sione.» Diede dei colpi alla tuta.
Waite vide le spie rosse nel pacchetto di controllo esterno. Tutti i sistemi
della tuta di Becky funzionavano male. Becky era in piedi sul veicolo, agi-
tando le braccia, grattando il pacchetto di controllo sul petto con le mani
rivestite dagli spessi guanti. «Trevor! Mio Dio, aiutami!»
Waite non riusciva a reagire abbastanza velocemente. Com'era possibile
che andasse tutto storto così all'improvviso? Poi notò la superficie metalli-
ca della tuta di Becky che ribolliva. Si trattenne dal toccarla.
Becky emise un suono strozzato per radio, poi improvvisamente uno
spruzzo di sangue le schizzò la visiera. La decompressione esplosiva la uc-
cise quando il vuoto le strappò la tuta, facendo scendere la pressione così
in basso da farle scoppiare la testa. Senza vita, afflosciandosi, si accasciò
su un fianco del veicolo.
«Becky?» La voce di Waite si spezzò. L'orrore gli gelò le budella. Do-
vette fare uno sforzo cosciente per sbattere le palpebre, per continuare a
respirare. Mio Dio, pensò. Non poteva essere vero. Tutto intorno a lui era
perfettamente calmo e immobile.
Riusciva solo a sentire il rumore del proprio respiro; da qualche parte in
un angolo del suo cervello qualcuno gli stava urlando qualcosa alla radio.
La cavalletta non c'era più. Lasserman non c'era più. Becky non c'era più.
Una struttura impossibile era apparsa nel Cratere Dedalo e non c'era nes-
sun indizio della sua provenienza. Becky l'aveva paragonato a un ragno
che aspettava nella sua tana.
Poi cinque spie rosse lampeggiarono sul pannello interno, immergendo-
gli la faccia in un bagliore come di sangue. Betsy-la-Lagna, il microcircui-
to programmato in voce, strillò: «Attenzione! La protezione esterna è stata
lacerata. La tuta sta subendo infiltrazioni alla velocità di...» Posò lo sguar-
do sulle maniche. Sembrava che qualcuno avesse versato dell'acido sul ri-
vestimento argenteo impermeabile. Migliaia di minuscole fenditure si sta-
vano aprendo sulla tuta, allargandosi sempre di più. Il suo sistema interno
di impermeabilizzazione fece un eroico sforzo, ma l'intera tuta sembrava
andare in pezzi. Qualcuno stava urlando alla radio...
L'aria gli soffiò sulle orecchie, e in un istante gli esplosero i timpani. Il
petto gli si contrasse mentre il vuoto gli strappava il respiro dai polmoni.
Waite aprì la bocca e uno strato di ghiaccio sottile e schizzi di sangue co-
prirono l'interno del casco. Tentò di gridare ma la visiera si dissolse.
Non riuscì nemmeno a vedersi mentre cadeva sulla superficie lunare.
1.
Base lunare Columbus
2.
United Space Agency
Washington D.C.
Celeste guidò Pritchard oltre i volti impassibili delle due guardie poste
all'ingresso del Controllo Missioni della United Space Agency. Le due gio-
vani guardie, un uomo e una donna giapponesi, scrutarono il distintivo di
Celeste, sebbene l'avessero già vista mille volte, perché le recenti minacce
terroristiche del gruppo PRIMA LA TERRA! avevano reso necessarie
maggiori misure di sicurezza. Prima che una delle due guardie potesse o-
biettare alla presenza del generale, Celeste alzò la mano e disse: «È tutto a
posto. Garantisco io per lui».
Pritchard cominciò a guardarsi attorno ancor prima che la porta rifletten-
te della cabina si richiudesse dietro di lui. Celeste lo vide spalancare gli
occhi dallo stupore. Il Controllo Missioni locale aveva dimensioni drasti-
camente ridotte rispetto ai centri Controllo Missioni dei tempi delle vec-
chie missioni Shuttle. Grazie ai progressi compiuti nel campo delle reti
neurali e dei sistemi di elaborazione distribuiti, nonché all'aumentata po-
tenza dei computer, la United Space Agency non aveva più bisogno di uno
stanzone grande come la platea di un teatro e di un personale nutrito come
un esercito per eseguire le varie missioni. Bastavano una manciata di tec-
nici e una spaziosa sala riunioni.
Mentre Pritchard si guardava attorno instupidito, Albert Fukumitsu, il
caposervizio di turno, la chiamò. «Direttrice, è da un bel po' che cerchiamo
di rintracciarla.» Si asciugò la fronte dal sudore. Aveva i capelli neri e i-
spidi raccolti all'indietro da una fascia. «Jason Dvorak ha cercato più volte
di mettersi in contatto con lei.»
«Avevo il beeper spento» rispose Celeste. Si era goduta quei pochi mo-
menti di pace abbastanza da sopportare le seccature che ne derivavano.
«Jason deve smetterla di farsi prendere dal panico. Deve imparare a cavar-
sela un po' più da solo.»
Fukumitsu la guardò con un'espressione scettica di disappunto. «Si tratta
di una circostanza abbastanza insolita.»
«D'accordo. Ha lanciato la sonda telepresente all'orario previsto?»
«Sì, un'ora fa.» Indicò con la mano gli schermi alla parete. Uno dei tec-
nici che aveva colto la loro conversazione aprì un file che mostrava la se-
quenza della cavalletta che si sollevava fra sbuffi di metano. «ETA su De-
dalo fra dieci minuti.»
«Nel frattempo mettiamoci in contatto con Jason.» Celeste prese una se-
dia lasciata libera da un tecnico fuori servizio e si sedette di fianco a Fu-
kumitsu. «Deve essere là che scalpita come un padre fuori dalla sala parto
alla nascita del primo figlio.»
Pensò divertita a quanto poco plausibile dovesse sembrare a Jason il suo
nuovo ruolo. Non era in grado di spiegargli le ragioni che l'avevano spinta
a decidere improvvisamente di porlo al comando della base.
Dvorak era un architetto innovativo, che aveva vinto molti premi; dopo
aver progettato l'impossibile per una decina di volte, si era stufato del ba-
nale lavoro sulla Terra. Così aveva usato le sue conoscenze per farsi rice-
vere dalla direttrice della United Space Agency. Quando si era seduto di
fronte alla sua scrivania, Celeste non aveva assolutamente idea del perché
volesse parlare con lei. Ma quando aveva cominciato a spiattellarle la sua
idea di riparare e ristrutturare la vecchia base lunare per prepararla alla
successiva ondata di insediamenti, Dvorak l'aveva convinta. «Sono i nostri
pionieri» aveva detto lui. «Al momento vivono nelle tende. Diamogli al-
meno delle capanne di legno.»
Lei aveva approvato il suo addestramento e la sua nomina e, dopo aver
passato quasi un anno alla base a soppesare le varie possibilità e a ristruttu-
rare alcuni quartieri residenziali, Jason Dvorak aveva già lasciato un segno
nella vita quotidiana del luogo. Senza dargli alcun preavviso, Celeste ave-
va spostato il comandante precedente della base, Bernard Chu, alla stazio-
ne di transito Collins su L-1. Quanto alla comandante della Collins, Eileen
Dannon, l'aveva fatta ritornare sulla Terra, dove i suoi frequenti disaccordi
con Celeste potevano essere coperti più facilmente.
All'inizio, Dvorak si era goduto l'avverarsi del suo sogno, ma in momen-
ti come quello si stava rivelando troppo un bravo ragazzo per riuscire a
prendere decisioni difficili sotto stress. Forse Bernard Chu se la sarebbe
cavata meglio, almeno provvisoriamente... dai tempi del disastro della
Grissom, sette anni prima, aveva acconsentito a tutto quello che lei gli
chiedeva. Ma no, dopo tutto Dvorak era al comando della base solo da due
settimane. Meritava più fiducia.
«Mi faccia vedere le immagini di Waite» disse Celeste. Fukumitsu fece
un cenno a uno dei tecnici, che si diede da fare per mandarle in onda.
Il generale Pritchard le si avvicinò, rilassato nella sua uniforme dell'Ae-
ronautica. «Dedalo, dov'è stazionata parte della vostra strumentazione a-
stronomica dall'altra parte della Luna...»
«Esatto.»
Sullo schermo apparve l'immagine del cratere, visto dal punto di osser-
vazione di Trevor Waite. «Zoom in avanti» ordinò Fukumitsu.
Le immagini dell'anomalia di Dedalo si definirono su un'ampia finestra
che sbocciò al centro della parete. Ma a differenza della computer graphics
del generale, quelle immagini erano vere. Celeste sentì accapponarsi la
pelle allo strano presentimento di cosa era in serbo per il mondo non appe-
na fossero riusciti a capire cosa stava succedendo sulla Luna. Aveva avuto
degli incubi a proposito.
«Stiamo ancora analizzando la situazione» disse Celeste a Pritchard «ma
spero che fra pochi minuti sapremo qualcosa di nuovo.»
Sullo schermo videro dei primi piani di Dedalo, con il fondo del cratere
dominato da segmenti della stazione VLF e il pozzo dalle pareti lisce co-
perto dall'intelaiatura semitrasparente della struttura principale. Le linee
bianche ricordavano lo schizzo di un architetto, una cianografia tridimen-
sionale che aveva misteriosamente fatto la sua comparsa senza lasciare
macerie, impronte sismiche o indizi evidenti della sua origine.
Il generale parve capire che si trattava di una cosa molto più strana di
quello che si era immaginato. «Che cos'è? Da dov'è venuta?»
In quel momento la porzione principale dello schermo venne invasa da
un'immagine troppo ravvicinata di Jason Dvorak. I suoi occhi castani era-
no lucidi dalla fatica, i capelli scuri e ricciuti erano tutti scompigliati, ma le
labbra perennemente curvate all'insù davano sempre l'impressione che fos-
se lì lì per sorridere. Fece un passo indietro per essere più a fuoco.
«Direttrice, stavo cominciando a chiedermi se sarebbe stata presente alla
sonda.»
Celeste si lisciò il lindo abito d'affari e avanzò in primo piano. Benché
fosse minuta, aveva una presenza imponente. I suoi occhi erano così scuri
da sembrare smaltati di nero. Sulle newsnets continuavano a chiamarla "la
signora di ghiaccio". Parlò a voce bassa, facendo trapelare un tono di rim-
provero, non così forte tuttavia da mettere in pericolo il suo buon rapporto
con Dvorak.
«Jason, avevo detto che sarei stata presente, ma non avevo promesso di
venire in anticipo.» Dopo un attimo di silenzio, proseguì. «Ti presento il
generale Simon Pritchard. È qui per darci il suo contributo. Forse assieme
riusciremo a capire questa cosa.»
Pritchard annuì sorpreso, ma recuperò in fretta. Una conversazione dalla
Terra alla Luna con la conseguente sfasatura della trasmissione assomi-
gliava un po' alla camminata di un ubriaco: due passi avanti, poi una sosta
per orientarsi, e di nuovo altri due passi avanti.
Dvorak guardò fuori dallo schermo. Fece un cenno col capo, poi disse:
«Passiamo alle telecamere situate sulla cavalletta». L'immagine si allargò
per comprendere un gruppo di persone raccolte attorno a lui.
Un omone vicino a Dvorak chiamò a sé un pannello di controllo ologra-
fico sospeso per aria. Altri tecnici nell'affollato centro di controllo gridaro-
no alcuni numeri e inviarono sulla Terra delle letture di dati. La finestra
che mostrava Dvorak si spostò sull'angolo a sinistra in alto, mentre si apri-
vano nuove finestre che mostravano la telemetria, un'animazione CAD che
illustrava l'assetto della cavalletta, e un globo lunare roteante che disegna-
va traiettorie, con la croce di un bersaglio posto in corrispondenza del cra-
tere Dedalo, sulla parte notturna della Luna. Poi sullo schermo a parete si
aprì la finestra più grande, su cui apparve Dedalo ingrandendosi di secon-
do in secondo. Si poteva già vedere la misteriosa struttura filamentosa del-
l'anomalia.
Quando la cavalletta ci volò sopra, Dvorak si trattenne dal far commenti,
cosa che Celeste apprezzò. D'altra parte nessuno era in grado di dire cosa
stesse succedendo là.
Pritchard stette col fiato sospeso mentre la telecamera a media definizio-
ne della cavalletta mostrava gli archi che si levavano dalla polvere, la
struttura simile a quella di uno stadio enorme, impossibili travi di pizzo
che sembravano poggiare sul nulla. Sembrava che un essere gigantesco si
fosse divertito a tendere dei fili giocando a ripiglino nel bel mezzo del cra-
tere.
«Va bene, stanno arrivando dei dati» disse Dvorak. «Il diffusore retro-
grado a raggi x indica che i materiali sono estremamente duri e leggeri,
non molto densi. Come un aerogel, ma fatto di fibre di diamante. Forse è
come la schiuma di diamante che stanno cercando di fabbricare nei labora-
tori orbitali.»
Celeste annuì. Poi la voce di Dvorak suonò lievemente allarmata. «Non
vedo traccia del mio equipaggio. Niente. Ci dovrebbero essere un veicolo
lunare e una cavalletta. Per non parlare di tre corpi, tre tute. Dove cavolo
sono?»
«Di che cosa sta parlando?» chiese Pritchard. Bisbigliando in fretta dal-
l'angolo della bocca, Celeste gli disse di Waite, Lasserman e Becky Snow.
«Ma come è arrivata lì?» esclamò Pritchard senza togliere gli occhi dallo
schermo. «Guardi quel pozzo! Per scavarlo ci vorrebbero alcuni megatoni
di energia!»
Celeste aveva dimenticato che Pritchard aveva un passato di scienziato.
«Lo so. Ma non abbiamo trovato nulla. Posso mostrarle tutte le tracce. La
Luna è un milione di volte meno attiva della Terra, e avremmo dovuto tro-
vare almeno qualcosa. Ma non c'è attività sismica vicino a Dedalo.»
La cavalletta autopilotata volò sopra l'ampio pozzo. Un'operazione mi-
neraria clandestina sulla Luna? Pirati dell'estrazione? Il pensiero era così
assurdo che Celeste fu contenta di non avere detto niente a voce alta. Sotto
la fioca illuminazione della parte notturna, le profondità del pozzo erano
nere come catrame. Se c'era qualcuno che stava lavorando laggiù, di certo
non aveva bisogno della luce.
«È possibile che abbiano...» Il generale si interruppe, accentuando la pa-
rola "abbiano" come se avesse paura di suggerire quello a cui poteva star
pensando; Celeste aveva già cominciato a litigare con se stessa per il me-
desimo motivo. «Cioè, è possibile che la vostra rete di rilevazione sismica
sia stata in qualche modo manomessa? Che siano state cancellate le trac-
ce?»
«Forse» disse. «Oppure hanno trovato un modo per scavare quel pozzo e
hanno eretto quelle strutture senza provocare neanche un tremolio.»
«Impossibile, no?»
«Generale, tutta questa storia è impossibile!»
Dvorak li interruppe. L'animazione CAD stava mostrando la cavalletta
che si allontanava dal pozzo. Avevano scelto di utilizzare tutto il carburan-
te per effettuare una ricognizione completa del luogo, facendo a meno del
viaggio di ritorno. «Il carburante di manovra sta scarseggiando. Non pos-
siamo andare oltre con la ricognizione aerea se vogliamo garantirci un at-
terraggio sicuro.»
«Fa' scendere la cavalletta» ordinò Celeste.
«Si sposti su una di quelle torri» suggerì Pritchard.
Mentre la cavalletta si posava su un tratto pianeggiante di regolite, Cele-
ste vide le impronte nitide dei battistrada dei veicoli lunari che avevano
costruito la stazione VLF tre anni prima. La base di una torre si ergeva
spettralmente dal suolo senza alcuna linea di giunzione con il terreno, ta-
gliando a metà l'orma lasciata da un costruttore. La polvere sollevata dal-
l'atterraggio della cavalletta offuscava il cielo buio.
Dei fari illuminarono le ragnatele di archi. Nell'angolo superiore sinistro
dello schermo a parete, Lon Newellen azionò i comandi del pannello di te-
lepresenza. La sonda dispiegò i propri strumenti.
«Non registro nessun movimento. Neanche un tremito, un battito, solo
alcune vibrazioni rimaste dall'atterraggio. Questo posto è immobile come
una statua.»
Per qualche motivo l'immagine ricordò a Celeste le grandi piramidi egi-
zie, o la sfinge, o un tempio abbandonato da secoli eretto agli albori della
storia. Ma queste non erano antichità. Si sforzò di tenerlo presente.
I dati degli scandagli elettromagnetici, degli spettrometri di rilevazione,
dei sensori chimici, mineralogici, topografici e gravitazionali iniziarono a
scorrere nelle rispettive finestre sulla parte bassa dello schermo, seguiti dai
commenti di Dvorak. «Non si vede nessuna radiazione, nessuna fluttua-
zione di energia, ma la temperatura dell'area è di sette gradi più alta del
normale. Continuo a ottenere segnali di ritorno ultratransienti sui rilevatori
a raggi gamma. Troppo brevi per contenere informazioni. Tenderei a dire
che si tratta di un problema tecnico, ma sono concentrati in una gamma di
frequenze molto definita. È veramente strano...»
L'immagine sullo schermo si offuscò per una scarica di elettricità statica,
poi tornò a fuoco. Ci fu un'altra scarica, più forte questa volta, e l'immagi-
ne non si riaggiustò del tutto. Rimase distorta e granulosa. Poi la telecame-
ra oscillò fortemente di lato, come se qualcuno avesse urtato l'intera sonda.
«Non sono stato io!» esclamò Newellen, mettendo le mani in alto come
per dimostrare la sua innocenza.
Parecchi strumenti situati sulla sonda cominciarono a stridere, emetten-
do messaggi di errore. Due non diedero più segni di vita.
«Gira la telecamera in direzione del terreno» ordinò Celeste.
Le sue parole si sovrapposero alla risposta di Newellen. «L'elettronica è
tutta incasinata. Ci sono guasti dappertutto.» L'immagine sobbalzò, come
se fosse partito qualche pezzo. Ma Newellen riuscì a ruotare la telecamera,
zoomando in avanti sul sostegno sottile della sonda.
La superficie dorata cominciò a coprirsi di buchi. Mentre era intenta a
osservare, Celeste vide che si dissolveva come schiuma.
«Si sta disintegrando tutto!» gridò Dvorak.
La cavalletta si inclinò, poi si capovolse sul fianco. L'immagine sbandò
terribilmente per poi posarsi sulle silenziose torri di ragnatela slanciate
verso le stelle. Tutte le finestre dello schermo a parete furono invase da un
terremoto di scariche, finché Fukumitsu le chiuse riportando l'immagine di
Dvorak in posizione centrale.
«Non so cos'altro possiamo fare» disse Dvorak. «Non ci sono aumenti di
radiazioni, non ci sono fluttuazioni di energia. Non vedo niente che possa
aver causato tutto questo!»
«Va bene.» Celeste cercò di parlare con calma per non accrescere lo
spavento di Dvorak. «Voglio che provi ancora. Se sta irradiando negli in-
frarossi, voglio un'ispezione IR. Metti un altro pacchetto di sensori in quel-
le sonde perforatrici che hai usato per prelevare quei campioni del sotto-
suolo per i geologi. La prossima volta, organizza una spedizione per prele-
vare dei campioni.»
«Abbiamo bisogno di dare un'occhiata più da vicino» disse il generale.
«Non ho intenzione di mandarci nessuno là. Ho già perso tre persone, e
ora questa sonda» disse Jason.
Celeste tacque per vagliare le alternative possibili. «No, possiamo tele-
comandarla. C'è qualcosa in quel posto che pare faccia disintegrare le no-
stre macchine. Dobbiamo riuscire a impossessarci di un pezzo di quella re-
golite, poi fare ritorno alla base. Ma non voglio rischiare di contaminare
Columbus se ci fosse qualcosa nel terreno. Potresti mettere su un laborato-
rio isolato sul modulo di Simul-Marte. Dovrebbe essere abbastanza lonta-
no dalla base lunare da non causarvi pericoli.»
Dvorak parlò ancora, stavolta in tono formale. «Non credo di avere gli
strumenti per fare granché, direttrice. Non siamo una stazione di ricerca
vera e propria, lo sa.»
Lei sospirò. «Raccoglierò un'équipe di esperti per aiutarti, Jason. Li spe-
diremo anche su se sarà necessario, ma prima di sceglierli abbiamo biso-
gno di saperne un po' di più.»
Dvorak annuì, con la faccia ancora stravolta, ma leggermente sollevato.
«Va bene. Penso però che sia ora di rendere pubblico quanto è avvenuto.
Waite, Lasserman e la Snow si meritano almeno questo.»
«Sono d'accordo. Non ho nessuna intenzione di tenerlo segreto» rispose
Celeste. «Ripeto: nessuna.»
Dopo che Dvorak ebbe chiuso la comunicazione, il generale Pritchard
rimase scuro in volto. Celeste gli mise una mano sulla spalla, cosa che lo
fece trasalire. La sua uniforme era ruvida e sgradevole al tatto. «Be', gene-
rale, com'è questa come minaccia dallo spazio? Non credo che abbia biso-
gno di continuare le sue congetture su Icaro. Cosa ne dice, crede che riu-
sciremo a suscitare un po' di interesse adesso?»
3.
Antartide: Laboratorio Isolato di Nanotecnologia
I raggi bassi del sole battevano sui pannelli solari del Laboratorio Isolato
di Nanotecnologia. Il dottor Jordan Parvu sorrise fra sé e sé guardando le
immagini dei suoi quattro nipotini. Si stropicciavano gli occhi e lo saluta-
vano. Parvu si era scordato che era il cuore della notte quando aveva chia-
mato suo figlio, ma Timothy era corso lo stesso a svegliare i bambini. In-
daffarato com'era con il lavoro e immerso nel perenne giorno antartico,
Parvu a volte si dimenticava dei ritmi naturali delle altre persone.
In teoria i collegamenti ottici e il grande schermo visivo del LIN dove-
vano servire per teleconferenze, trasferimento di dati e occasionali esperi-
menti telecomandati da ricercatori di nanotecnologia sparsi in tutto il mon-
do. Ma nessuno gli avrebbe rinfacciato una chiamata personale una volta
ogni tanto. E poi la sua assistente, Erika Trace, usava raramente la sua por-
zione.
Timothy pareva non trovare le parole e non sapeva come continuare la
conversazione. Parvu stesso non aveva molto da dire; la sola vista della
sua famiglia gli infondeva un senso di calore.
Nel volto del figlio Parvu vedeva l'immagine di se stesso: il naso affila-
to, i capelli folti che presto sarebbero diventati di un grigio ferro uniforme,
le sopracciglia cespugliose, gli occhi scuri circondati da un ventaglio di
rughe di espressione, la pelle molto scura, e denti smaglianti in un sorriso
perfetto.
Erika Trace irruppe nella sala delle teleconferenze. «Jordan, scusi, dottor
Parvu» si corresse in fretta, vedendolo parlare con la sua famiglia. «Siamo
pronti per installare i nuovi prototipi di nanomacchine. Ho preparato il
contenitore e il nanonucleo.» Aveva i capelli biondi, lunghi e lisci, tagliati
in modo funzionale senza particolare attenzione allo stile. Gli occhi erano
sul verde, e con la luce bassa parevano più scuri.
«Ah, un attimo...» Si girò di nuovo verso Timothy e fu sorpreso di scor-
gere sul volto del figlio un'espressione di disapprovazione. Ma Erika non
aveva mai mostrato nessun tipo di attrazione nei suoi confronti - grazie al
cielo! La passione per il suo lavoro la consumava. Quel tipo di ossessione
dovrebbe comparire solo più avanti, pensò Parvu, dopo che uno si era go-
duto la vita. Sperava che Erika lo capisse prima di sprecare la sua giovi-
nezza.
«Devo andare ora, caro figlio, cari nipoti...»
«Salutate il nonno adesso» disse Timothy. All'unisono, i quattro bambini
sventolarono le mani ridendo. Parvu chiuse la comunicazione. Lo schermo
vuoto lo deprimeva.
Parvu e Erika uscirono attraverso la serie di doppie porte di pressurizza-
zione. Mentre superava la seconda porta, Parvu sentì la corrente d'aria pas-
sargli accanto. La pressione dell'aria aumentava del 20 per cento a ogni
porta per eliminare qualsiasi possibilità di contaminazione o migrazione
nanotecnologica.
Entrò nella cupola del LIN. La cornice più esterna conteneva la sala del-
le teleconferenze con i computer principali, i generatori di corrente, gli
schedari, un piccolo cubicolo con gli animali per i test, i terminali e le aree
di lavoro. Al di là di un muro spesso e doppiamente isolato, c'era la princi-
pale area sterilizzata di assemblaggio.
Parvu si sfregò le mani; la voglia di analizzare i nuovi esemplari lo face-
va scalpitare. Avevano aspettato intere settimane. Voleva sentire Maia
Compton-Reasor e la sua équipe di Stanford, e poi mettersi in contatto con
quella di Maurice Taylor al MIT. Assieme, avrebbero cominciato le prime
analisi. I loro ricercatori avevano lavorato congiuntamente per mesi per
sviluppare questi nuovi esemplari, ma l'attivazione degli automi poteva
avvenire solo lì, nello spazio sicuro del LIN.
Indossata l'uniforme sterilizzata, Erika preparò il contenitore nero vicino
alla colonna del nanonucleo, che sì ergeva fino al soffitto. Aveva già con-
trollato tutto innumerevoli volte e richiesto il collegamento ottico con
Stanford e con il MIT. Parvu stesso avrebbe effettuato il trasferimento dei
campioni.
Entrando dalla seconda serie di porte pressurizzate, Parvu si era fermato
per indossare un copricapo di plastica, un camice anti-pulviscolo e delle
soprascarpe. Sulle mani sudate si era infilato dei sottili guanti di gomma,
poi, prima di varcare la soglia del laboratorio vero e proprio, si era pulito
le suole su una stuoia grigia di materiale adesivo.
Erika era tutta indaffarata. Era sempre così piena di sollecitudine per lui
e per i suoi progetti. Quando la conobbe, Erika era una degli studenti di
Taylor al MIT, dove studiava fisica e tecniche di fabbricazione dei circuiti
integrati. In lei, Parvu scoprì un'anima affine; lavoravano bene insieme.
Quando lasciò il MIT per andare a lavorare per il Centro per i Materiali ad
Alta Tecnologia di Albuquerque, Erika lo pregò di portarla con lui. Si
chiedeva cosa avesse fatto per meritarsi una discepola così devota.
«Ho preparato tutto. Taylor non è reperibile, probabilmente sarà per
strada diretto al campus. Hanno convocato la dottoressa Compton-Reasor.
Credo che stesse dormendo, ma aveva lasciato detto di chiamarla in qua-
lunque momento ci fossimo messi in contatto.»
«Avremo bisogno del codice di Taylor per attivare i campioni» disse lui.
«Sta arrivando.» Abbassò la voce. «Riesce sempre a essere in ritardo, in
qualsiasi situazione.»
«È vero» disse Parvu, e si mise ad aiutarla.
Erika aveva sistemato il contenitore dei campioni sul portellone d'acces-
so della colonna trasparente del nanonucleo. I sigilli erano bloccati; tutti i
contatti di sicurezza intrinseca erano scattati automaticamente. Se qualcu-
no avesse manomesso i sigilli del contenitore, l'interno sarebbe stato steri-
lizzato da una scarica inceneritrice. I campioni nanotecnologici erano inat-
tivi, lasciati volutamente incompleti. Il codice di Maia Compton-Reasor li
avrebbe inizializzati; un secondo codice, quello di Taylor, li avrebbe atti-
vati. Solo Parvu, infine, avrebbe potuto aprire i sigilli per far entrare i pro-
totipi nel nanonucleo.
Il nanonucleo trasparente giungeva fino allo scudo di uranio impoverito
posto sul soffitto della cupola del LIN, ed era colmo di una soluzione. Al-
l'interno del nucleo c'erano dei microwaldo, dei laser di precisione, dei mi-
croscopi elettronici e a raggi x, e un raggio di particelle collimate a bassa
energia. Una forte corrente elettrostatica scorreva lungo una pellicola con-
duttrice che rivestiva internamente le pareti del nanonucleo, bloccando la
fuoriuscita delle nanomacchine.
Ma la protezione principale contro la fuga dei campioni era rappresenta-
ta dalle batterie di condensatori poste sotto la cupola; esse fornivano cor-
rente al conduttore coassiale che scorreva attraverso il nanonucleo fino alla
camera di bombardamento posta sul tetto. Come ultima risorsa, se gli au-
tomi avessero infranto tutte le barriere, le batterie dei condensatori avreb-
bero scaricato, inviando attraverso il conduttore centrale un anello di pla-
sma magnetizzato, che sarebbe poi andato a sbattere contro lo scudo di u-
ranio. Un'immensa pioggia di raggi x avrebbe sommerso l'intero LIN, ste-
rilizzando tutto... e uccidendo tutti quelli che c'erano dentro.
Prima di accettare di dirigere il lavoro del LIN, Parvu aveva insistito sul-
le misure di sicurezza. Sapeva come potessero essere pericolose le fughe di
automi autoreplicanti, e come lui tutti gli altri ricercatori di nanotecnologia
in ogni parte del mondo. La maggior parte della gente non capiva - il che a
Parvu andava benissimo - ma non voleva correre rischi. I sistemi di sicu-
rezza del LIN, e il fatto che fosse isolato là nell'Antartide, gli consentivano
di lavorare con tranquillità.
Stranamente Parvu non aveva mai pensato che l'appoggio maggiore gli
sarebbe giunto dalla United Space Agency, ma quando Celeste McConnell
gli aveva lanciato l'incredibile proposta di terraformare Marte, la sua im-
maginazione si era scatenata. Aveva immaginato generazioni di automi au-
toreplicanti disseminati sulla superficie glaciale di Marte, che si propaga-
vano sulla sua crosta sabbiosa e ricca di ferro.
Programmarli sarebbe stato semplice: il loro unico compito sarebbe stato
quello di liberare molecole d'ossigeno nella roccia e interrompere la loro
attività quando la pressione parziale avesse raggiunto un livello predefini-
to. Un codice di terminazione del programma, trasmesso via satellite, a-
vrebbe potuto arrestare la produzione di ossigeno in qualsiasi momento, se
gli uomini preposti ai controlli avessero deciso in tal senso.
Data la velocità con cui i nanominatori di ossigeno potevano riprodursi,
Marte avrebbe potuto essere dotato di un'atmosfera respirabile nel giro di
una settimana. Una settimana! Parvu sapeva che c'era un altro laboratorio,
quasi identico al LIN, sulla superficie della Luna, pronto a partire se loro
avessero avuto successo... ma ci sarebbero voluti altri due anni prima che
diventasse operativo.
Lo schermo delle teleconferenze si accese e apparve un'immagine di
Maia Compton-Reasor. Era un'afroamericana tarchiata, con occhi sonno-
lenti e capelli rasati che sembravano feltro. «Dottor Parvu? Dottor Parvu,
siete lì?»
Erika aveva disattivato il comando di invio, e Parvu lo reinserì. «Ci sia-
mo. Abbiamo appena ricevuto i campioni. Ci scusiamo per averla sveglia-
ta.»
Lei fece cenno che non importava. «Posso dormire in un altro momento.
Siete pronti?»
«Quasi. Stiamo ancora aspettando la risposta di Taylor.»
Maia Compton-Reasor fece una smorfia. «Dobbiamo sempre aspettare
lui.»
Erika non riusciva a star ferma. Parvu notò che si era spostata di lato,
fuori dal campo visivo dello schermo. Era così, non voleva mai prendersi il
credito che le era dovuto. Era lui a dover insistere perché si comportasse
da collaboratrice alla pari, anziché da assistente. Se lo meritava, che lo vo-
lesse o no. A sua insaputa, Parvu l'aveva già fatta figurare come prima au-
trice su una serie di articoli che avevano scritto assieme.
«Vedrà che sono le nanomacchine più promettenti prodotte finora» disse
la Compton-Reasor. «Se tutto va come previsto, si apriranno degli sviluppi
completamente nuovi.»
Per decenni i ricercatori avevano cercato di mettere a punto una serie di
tecniche: quella dei microscopi scanning-tunnelling per costruire nano-
strutture; la microscopia balistica a emissione di elettroni, per incidere pia-
strine adattabili su circuiti ancora più piccoli; e infine l'uso dei raggi colli-
mati di neutroni per cesellare barre e ingranaggi larghi meno di un milio-
nesimo di metro. Altri ricercatori avevano lavorato sull'ingegneria delle
proteine, cercando di programmare macchine organiche.
Al lavoro svolto a Stanford e al MIT, si era aggiunto quello dei ricerca-
tori di Cambridge, di Tokyo, e di un consorzio europeo con base in Belgio.
Per determinati periodi tutti costoro avevano affittato le attrezzature del
LIN. Parvu spesso si sentiva come il custode di un telescopio di importan-
za internazionale mentre gli astronomi provenienti da ogni parte del mon-
do litigavano per i tempi di osservazione.
L'équipe di Stanford aveva progettato un nuovo prototipo organico e
meccanico, assemblato in parte con l'ingegneria delle proteine e in parte
con parti micromeccaniche. Lavorando in tandem, l'équipe di Taylor aveva
elaborato un software che trasformava queste macchine in miracolosi
strumenti analitici, teoricamente capaci di smontare un campione, di ana-
lizzarlo, e di ritrasmettere i dati dettagliati a livello molecolare ai computer
riceventi.
Con i nuovi prototipi finalmente a disposizione, Parvu tremava al pen-
siero di dover passare un'ora a parlare del più e del meno con Maia Com-
pton-Reasor in attesa che Taylor si facesse vivo. Ma prima ancora che co-
minciassero a scambiarsi dei convenevoli, Taylor rispose. Lo schermo ri-
cevente si divise in due per mostrare da un lato la faccia arrossata di Mau-
rice Taylor, più simile a quella di un giocatore di football che a quella di
uno scienziato di fama.
Taylor non perse tempo. «Scusate il ritardo. Non avevamo idea che sa-
rebbe arrivato il pacchetto» disse pastrocchiando su una tastiera fuori dallo
schermo. «Erika, lieto di rivederla. Jordan, è pronto? Posso trasmettere.»
Maia Compton-Reasor stava per rispondere bruscamente, ma Parvu oc-
cupò la sua metà dello schermo e annuì cortesemente. «Proceda pure. Tut-
to il resto è pronto.»
Erika andò al nanonucleo. Parvu attese finché Taylor ebbe inviato la sua
parte del codice di attivazione. Una luce verde incorporata, fino ad allora
nascosta, si accese sul lato liscio del contenitore nero.
«Benissimo, aprirò ora l'ambiente al nanonucleo.» Premette la sequenza
criptata di tasti per eseguire l'autodistruzione dei sigilli. Il contenitore fece
uno scatto sordo. Parvu sapeva che le macchine inerti erano state immesse
nel nucleo completamente isolato. Risigillò il contenitore vuoto e lo stac-
cò. L'avrebbe poi sottoposto a un bagno di raggi x per purificarlo dalle sco-
rie.
«A posto. Ora, dottoressa Compton-Reasor, vuole fare gli onori di casa?
La seconda metà del codice di attivazione.»
Erika si avvicinò per scrutare all'interno della parete curva e trasparente
del nanonucleo. Parvu sapeva dagli indicatori di stabilizzazione che i mi-
crowaldo stavano fluttuando a causa della leggera corrente prodotta dal-
l'immissione dei nuovi campioni.
«Inviato» rispose la Compton-Reasor. «Il processo è stato messo in mo-
to.»
Tutto stava avvenendo senza particolari emozioni. I nuovi campioni -
così piccoli che decine di milioni tutti in fila non avrebbero superato il
centimetro di lunghezza - non erano visibili all'interno della soluzione.
Passati alcuni giorni, lui e Erika avrebbero potuto cogliere un certo offu-
scamento del fluido, causato dalla grande quantità di piccoli corpi in so-
spensione.
«Congratulazioni a tutti voi» disse la Compton-Reasor. «Spero che lei e
la dottoressa Trace abbiate dello champagne lì per festeggiare.»
«Faremo con quel che c'è» rispose Parvu sorridendo.
«Controllerò come procede» annunciò Erika.
«Bene, allora tornerò a letto» disse. Salutò con la mano e chiuse il con-
tatto.
«Fateci sapere se succedesse qualcosa» disse Taylor, poi la sua immagi-
ne svanì.
Il Laboratorio Isolato di Nanotecnologia rimase completamente silenzio-
so. Parvu credette di poter udire il respiro di Erika. Stavano entrambi sor-
ridendo. C'era qualcosa in questi nuovi prototipi che sembrava promettere
bene. Parvu sperava molto nel progetto, e nella terraformazione di Marte.
All'interno del nanonucleo, i piccoli prototipi, appena risvegliati, inizia-
rono ad autoreplicarsi, utilizzando i materiali grezzi della soluzione in cui
erano immersi. Presto avrebbero cominciato il loro lavoro.
4.
Base lunare Columbus
La parte notturna della Luna era così fredda che sette gradi in più attorno
a Dedalo brillavano come un riflettore negli infrarossi. La traccia IR era un
cerchio perfetto di un rosso incandescente.
Con l'epicentro situato proprio sulla bocca del pozzo, il calore residuo
del terreno si estendeva per un raggio di tre chilometri. L'oloschermo mo-
strava i punti dove Lasserman aveva fatto atterrare la sua cavalletta, dove
Waite aveva condotto il suo veicolo lunare e dove era atterrata la cavalletta
telepresente. Tutti rientravano al centro del cerchio rosso «Abbiamo biso-
gno di prendere un campione di regolite da quella zona calda, ma tutto
quello che spediamo là si disintegra» disse Jason. Sollevò lo sguardo verso
le altre persone che erano là nel centro di controllo. «Qualcuno ha delle i-
dee?»
Lanciò un'occhiata a Big Daddy Newellen. L'omone scosse il capo; die-
tro di lui, Cyndi Salito guardava fisso nell'oloscopio. Tutti evitarono lo
sguardo di Jason. «Andiamo, gente!»
«Be'» disse Newellen, tormentandosi il labbro inferiore con le dita «di-
pende tutto dalla risposta che diamo a un'altra domanda. Cos'è che sta suc-
cedendo veramente? C'è un raggio disintegratore laggiù, che fa fuori tutto
quello che entra nella zona? O è la regolite stessa che è impregnata di aci-
do o infestata da un qualche tipo di microbi che distruggono la nostra ro-
ba? Comunque sia, come facciamo a procurarci un esemplare da esamina-
re?»
«Come si fa a prendere un pezzo di un solvente universale?» chiese
Cyndi Salito.
Jason li zittì con un gesto della mano. «Va bene, abbiamo già guardato i
dati relativi alle due cavallette. Non c'è nessun segno di fluttuazione di e-
nergia. Nessun raggio disintegratore.»
«Per lo meno niente che noi siamo riusciti a rilevare» commentò Cyndi
Salito.
«Abbiamo bisogno di un campione di regolite, proprio come ci ha detto
la McConnell.» Newellen assunse un'espressione distratta. «E se lo mettes-
simo in una capsula magnetica? In quel modo il campione non toccherebbe
nulla.»
«Un pezzo di terra?» disse Cyndi. «Starai scherzando. La regolite non è
influenzata dai campi magnetici.»
«Ma il ferro sì» replicò Big Daddy Newellen. «E la regolite contiene il-
menite, che a sua volta contiene ferro. Se avessimo un campo B sufficien-
temente alto, potremmo riuscire a isolare un campione di regolite. Po-
tremmo mettere una capsula magnetica sul contenitore. Le sonde perfora-
trici penetreranno nel suolo, ne afferreranno un pezzo, poi rilanceranno il
contenitore nel punto dov'è stato effettuato il prelievo, abbandonando il
guscio esterno. Se facciamo tutto in fretta e riusciamo a prendere un picco-
lo campione, forse potremo conservare l'esemplare abbastanza a lungo da
farlo arrivare a Simul-Marte, e usare il loro laboratorio isolato.»
Jason provò un sollievo enorme a sentire finalmente qualcosa di ragio-
nevole. Costruita nel corso dei tre anni precedenti, la postazione di Simul-
Marte distava 50 chilometri dalla base Columbus e fungeva da struttura di
esercitazione finale per le prove generali della progettata missione su Mar-
te. I laboratori autonomi di Simul-Marte sarebbero stati il posto perfetto
per studiare a distanza la regolite della faccia nascosta della Luna.
«Be'... direi che possiamo iniziare a pensare ai dettagli dell'operazione»
disse Jason.
Nell'aria viziata della sala di controllo, Jason chiuse gli occhi e cercò di
respirare più lentamente. La sonda perforatrice sembrava metterci un'eter-
nità a raggiungere l'altro lato della Luna e fare ritorno. In quel momento
avrebbe voluto andarsene per un'ora sulle piste da jogging della base, dove
spesso riusciva a pensare meglio.
Prima, la sua carriera sulla Terra era stata facile; progettare strutture
stravaganti utilizzando le nuove leghe e le nuove fibre rese possibili dal-
l'ingegneria microgravitazionale, giocherellare con i sistemi CAD e sfrut-
tare le proprietà dei nuovi materiali al limite delle loro possibilità.
Gli risuonavano ancora nelle orecchie le parole che gli aveva detto Mar-
garet quando aveva lasciato la Terra: che aveva più lavoro di quello che
riuscisse a fare, che avrebbe dovuto restare a casa con lei. «Cos'altro
vuoi?» gli aveva detto. «Abbiamo già più soldi di quanti ne riusciamo a
spendere.»
Margaret non lo aveva mai capito.
Jason si inumidì le labbra. L'aria artificiale della base era così secca da
provocargli spesso una tosse fastidiosa, e labbra screpolate. Ruotò nuova-
mente la sedia verso il gruppo riunito nel centro di controllo. Le luci rosse
e verdi dei pannelli si riflettevano sulla patina di sudore che copriva i loro
volti. L'aria della sala di controllo era appesantita dall'odore dei corpi am-
mucchiati nello spazio troppo limitato.
Stavano tutti aspettando che la sonda perforatrice terminasse la sua mis-
sione. Era atterrata, aveva afferrato un minuscolo campione con la capsula
magnetica, e aveva già rimandato indietro il contenitore verso Simul-
Marte, a cinquanta chilometri di distanza da Columbus.
«È proprio una missione stile "impronta e bandiera"» aveva detto Big
Daddy, aspettando di avere qualcosa da fare con i suoi comandi.
Dovevano solo vedere se la sonda sarebbe rimasta intatta sufficiente-
mente a lungo da raggiungere il suo obiettivo, o se il pezzo di regolite a-
vrebbe corroso il contenitore dall'interno.
«Big Daddy, manda un veicolo lunare telecomandato a Simul-Marte»
disse Jason dopo essersi schiarito la gola. «Lo useremo per maneggiare il
campione nel laboratorio automatizzato.»
«Vuol dire toglierne uno da Disney World, Jase. Pensa a come piange-
ranno i bambini.»
Jason continuava a dimenticare così tante cose, così tanti particolari.
Come aveva fatto Bernard Chu a ricordarsi tutto quando era comandante
della base? «Mi pare che questo sia un po' più importante.»
«Cattivone.»
Jason ignorò il commento. Alzò lo sguardo verso gli orologi digitali che
indicavano l'ora su vari punti della Terra: WASHINGTON D.C.,
JOHNSON SPACE CENTER, STAR CITY, PARIGI, TOKYO, HONG
KONG. Ma al di là di quello che segnavano gli orologi, non erano passate
più di ventiquattro ore da quando la cavalletta telecomandata si era dissolta
su Dedalo, e non più di due giorni da quando la costruzione aliena era stata
scoperta... e da quando tre dei suoi erano morti.
«Attenzione» disse Newellen. «Il campione sta arrivando.» Sorrise. «In-
tatto.»
Lon Newellen scosse il capo. Il sudore gli colava dalla fronte, e i suoi
capelli scuri erano fradici. Dannazione! Ci voleva un po' di pratica per riu-
scire a manipolare i waldo, ma non era mai stato così maldestro.
«Vuoi che ti sostituisca io, Big Daddy?» chiese Cyndi Salito.
«Chiudi il becco.»
Newellen incurvò i suoi waldo telepresenti provando nuovamente a
"toccare" il campione blindato. L'espressione "mani di pasta frolla" gli bal-
zò in mente per la quinta volta.
«Sei sicura che la direttrice stia guardando tutto?» chiese.
«Sì che sono sicura» replicò Cyndi.
«Non farò errori allora.»
Newellen spinse in avanti la mano e cercò di usare i campi per pizzicare
il pezzo più grande del campione, ma questo scivolò ancora dalla sua pre-
sa. Dannazione e dannazione! Lì vicino giaceva il guscio esterno del con-
tenitore, aperto in due parti.
Si ripassò sulla fronte la mano sudata e fissò la roccia tenendo gli occhi
socchiusi. La cosa sembrava che si stesse rimpicciolendo. E come poteva
essere così scivolosa? Anche le pareti metalliche del contenitore pareva
che si stessero sciogliendo.
«Ehi, la temperatura dentro la camera blindata si sta alzando!» disse
Cyndi. «Molto di più di quanto si spieghi con la pioggia di raggi x.»
Newellen grugnì. «Fammi mettere le mani su questo coso maledetto.»
Aveva già completato un terzo della Procedura Standard per l'Esame degli
Oggetti Extraterrestri. A parte il problema di tenere stretto il campione,
tutto era proceduto normalmente.
La roccia gli cadde per la terza volta. Attorno a lui si stavano affollando
troppe persone.
Cyndi Salito si sporse dentro l'ologramma ad alta definizione, offuscan-
done i contorni. «Dì, cos'hai rovesciato su quel campione?»
«Niente.» Newellen stava considerando di staccarle la testa dal collo, ma
probabilmente Jason avrebbe avuto qualcosa da obiettare.
«No, veramente. Da' un'occhiata.» Cyndi scansò il gomito di Newellen e
ficcò un dito nell'ologramma. «Qui. Sembra una specie di poltiglia.»
«Poltiglia? Sposta la testa, accidenti!» Newellen non riusciva a vedere
con tutta quella gente in mezzo. «Che mi venga un colpo... c'è qualcosa su
quella roccia. Fammi rivedere meglio.» Si staccò dai waldo e batté con
forza sui tasti del registratore. L'oloscopio brillò a intermittenza, poi iniziò
a mostrare all'indietro i tentativi di Newellen di afferrare il campione.
Rivedendo l'immagine al contrario, la poltiglia spariva e la roccia si in-
grandiva di nuovo.
Newellen fermò il playback. La superficie del campione schiumava e ri-
bolliva. «Mi sa che ci siamo portati dietro qualcosa di veramente poco ca-
rino.»
5.
Controllo Missioni,
Washington D.C.
6.
Antartide: Laboratorio Isolato di Nanotecnologia
Era lì in piedi, sola, vicino alle rocce altissime e alle lastre di ghiaccio di
McMurdo Sound. Avviluppata in una giacca a vento della Marina, guanti
di pelliccia sintetica e uno strato di gel riscaldante, Erika si coprì la faccia
con la sciarpa, cercando di proteggersi dal freddo che le mordeva le guan-
ce. Le rocce alte e l'oceano grigio-blu facevano pensare alle porte degli In-
feri, e lei stava per entrarvi.
I banchi di ghiaccio che si estendevano nell'acqua erano soffusi di un blu
fosforescente, provocato dalle bolle di ossigeno intrappolate sotto. Il mare
si muoveva impercettibilmente, come se l'oceano stesse tremando. Sopra
di lei, albatros enormi volavano in cerchio come deltaplani dall'apertura
alare di tre metri e mezzo. Su una serie di isolette situate di fronte all'in-
stallazione di McMurdo, colonie pigiate di pinguini riempivano l'aria di un
rumore e di un odore incredibili. Era un paesaggio stordente, tetro e pitto-
resco allo stesso tempo.
Anni prima, aveva lasciato le foreste rigogliose della Carolina del Sud
per recarsi a Boston, poi ad Albuquerque nel deserto del Nuovo Messico.
Aveva creduto che l'Antartide fosse il posto più desolato che avrebbe mai
visto; ma ora, si trovava in partenza per la Luna, con una fermata frettolosa
a Star City per un addestramento astronautico accelerato e le relative certi-
ficazioni.
E poi, dove l'avrebbero sbattuta? Perché non la lasciavano in pace?
Troppe volte la gente aveva agito "per il suo bene".
Udì a distanza un jet. Strizzando gli occhi, riuscì a intravedere la sagoma
dello Starlifter C-141 che arrivava per riportarla alla civiltà per alcuni
giorni.
Erika sentì sul viso gli schizzi pungenti dell'acqua sferzata dal vento.
Mentre l'aeroplano si avvicinava, si sentì rodere dentro dal terrore - non
per paura dei viaggi spaziali, o della vita su una spartana base lunare, e
nemmeno per la responsabilità di essere la prima persona a studiare la na-
notecnologia aliena. Quello che terrorizzava Erika era la prospettiva di es-
sere, per la prima volta in dieci anni, separata dal suo mentore.
PARTE II
7.
Verso la luna
Erika non aveva ancora compiuto tre rivoluzioni orbitali quando avven-
ne il rendez-vous tra il suo aeroveicolo spaziale alimentato da un autoreat-
tore supersonico e la navetta-rimorchiatrice Lagrange. La Terra ruotò so-
pra di lei come se stesse per caderle sulla testa, ed Erika si sentì cogliere
dalle vertigini. Il rimorchiatore lungo ed esile che emergeva dall'oscura
profondità spaziale le ricordava un modellino giocattolo che aveva costrui-
to lei da piccola. Suo fratello Dick l'aveva rotto.
Dopo l'aggancio l'equipaggio la sistemò velocemente sul rimorchiatore
di costruzione giapponese. Sembrava che tutti avessero una gran fretta, da
quando aveva lasciato Star City fino al lancio dell'aeroveicolo spaziale che
l'aveva portata sull'orbita inferiore della Terra. Se avesse fatto il percorso
consueto, il viaggio sulla Luna avrebbe richiesto un tempo dieci volte su-
periore. Ma l'agenzia aveva fretta di metterla al lavoro.
La combinazione di tecnologia aerospaziale e di rimorchiatori elettroso-
lari costituiva una possibilità efficace e relativamente economica per viag-
gi frequenti sulla Luna. Ma per giungere dall'orbita inferiore della Terra a
L-1, la zona di attestamento del Lagrange sulla superficie lunare, era ne-
cessario seguire una traiettoria a spirale che richiedeva un mese di tempo.
La direttrice McConnell alla United Space Agency non poteva permettersi
di aspettare tanto. Già erano state necessarie due settimane perché Erika
ottenesse la preparazione di base necessaria per il suo incarico.
Al solo scopo di farle raggiungere la Luna nel minor tempo possibile era
stato quindi portato in servizio su L-1 un rimorchiatore giapponese apposi-
tamente equipaggiato. Dotato di propulsione termonucleare relativamente
inefficiente ma veloce, il rimorchiatore avrebbe portato Erika su L-1 entro
settantadue ore.
Stordita dal turbinio di eventi, Erika non aveva fatto altro che seguire le
istruzioni, lasciando che la sballottassero da una persona all'altra, la allac-
ciassero alla poltroncina e facessero i controlli di sicurezza. Era stata trop-
po occupata per sentire la paura, ma sapeva che l'avrebbe provata prima o
poi durante i tre giorni di viaggio durante i quali non avrebbe avuto nulla
da fare. A malincuore aveva lasciato che la sua inquietudine per essersi al-
lontanata da Parvu si dissolvesse facendo posto a un crescente entusiasmo
per la sfida che l'attendeva.
Di tutte quelle sedute di addestramento a Star City conservava un ricor-
do caotico - un miscuglio di dimostrazioni di sicurezza, prove per la tuta
spaziale, tecniche di sopravvivenza, esercizi di respirazione, lezioni sulla
gravità zero e sull'igiene a bassa gravità. Un corso accelerato di sopravvi-
venza al posto di un addestramento completo per la certificazione astro-
nautica. Era stato come fare una bevuta da un idrante.
Le mancavano la pace e l'isolamento dell'Antartide, dove ora Jordan
Parvu aveva il LIN tutto per sé. Era così che lo desiderava? Erika pensava
di no. Non aveva dubbi che avrebbe ancora avuto bisogno dell'aiuto di
Parvu per capirci qualcosa sull'infestazione di nanomacchine. Una buona
occasione per verificare se era vero lo slogan "non c'è nulla di meglio della
comunicazione a lunga distanza se non potete essere là di persona", pensò.
Erika trascorse i tre giorni di viaggio studiando le registrazioni degli av-
venimenti di Dedalo. Gli avvenimenti, non le morti. Non riusciva a capaci-
tarsi che della gente fosse morta solamente per essersi avvicinata troppo a
quella costruzione. Se si fosse lasciata troppo coinvolgere dalle persone,
dalle perdite, non avrebbe potuto condurre i suoi studi con la dovuta ogget-
tività. Non poteva lasciarsi prendere dal rancore verso quelle piccole mac-
chine.
Non doveva pensare a Waite, Lasserman e alla Snow come esseri umani,
carne viva con un passato, degli affetti, un futuro in mente. Tutto il chiasso
fatto sulle newsnets non aveva aiutato molto, le interviste con le persone
che i tre avevano lasciato dietro di sé, i funerali cittadini, le aule scolasti-
che decorate con poster fatti a pennarello che li ritraevano come eroi.
No. Erano semplicemente dati, W, L e S, organismi complessi che erano
stati disassemblati, proprio come era successo al campione di regolite. Eri-
ka aveva sempre saputo che la nanotecnologia era pericolosa, era questo il
motivo di tutte le incredibili precauzioni per la sterilizzazione prese da
Parvu al LIN. Ma queste nanomacchine superavano di gran lunga qualsiasi
cosa lei o Parvu avessero mai fatto. O immaginato.
Si sentiva come un collezionista di farfalle che aveva sempre studiato
esemplari morti e incorniciati e che ora si trovava improvvisamente scara-
ventato nel mezzo di una giungla fitta e inesplorata.
Avviluppata nel suo sedile dentro la piccola cabina, Erika richiamò i dati
immagazzinati nel suo computer portatile. Con gli occhi fissi sullo scher-
mo virtuale, rallentò le immagini del processo di disassemblaggio della re-
golite nella camera blindata di Simul-Marte. Fotogramma dopo fotogram-
ma osservò la sequenza, zoomando su ogni pixel in 3-D fino a farlo scom-
parire alla vista.
Visionò nuovamente l'ultima trasmissione di Waite. Vide le immagini
della cavalletta telepresente che veniva disassemblata su Dedalo. Sembra-
va che ci fosse abbastanza da studiare, ma non abbastanza da tenerle la
mente completamente occupata. Capiva il bisogno della direttrice di placa-
re gli animi di milioni di abitanti della Terra. Quando a qualcuno serviva
una risposta in fretta, il modo più facile era quello di gettarsi sull'esperto di
turno e continuare a fare pressione finché non veniva trovata una soluzio-
ne. Erika era stata fatta piombare in pieno nel mezzo del problema. Si sen-
tiva come se avesse messo il piede su un grosso mucchio di sterco di ca-
vallo.
Ora dopo ora meditò attentamente sugli eventi. Per tre giorni. Gli altri
membri dell'equipaggio, impegnati nei loro compiti, l'avevano lasciata da
sola. Erika non desiderava altro.
Ritornò con il pensiero a Parvu. Perché non era voluto venire sulla Lu-
na? Se davvero desiderava così tanto studiare la nanotecnologia funziona-
le, perché non aveva colto l'occasione al volo? Non riusciva a credere che
non volesse correre il rischio. Dopotutto, l'Antartide era forse il posto me-
no civilizzato che fosse rimasto sulla Terra. E il laboratorio isolato di Si-
mul-Marte non poteva essere meno sicuro del LIN.
No, doveva esserci qualcos'altro. Jordan non voleva essere al centro del-
l'attenzione, voleva che fosse lei sotto i riflettori. Parlava sempre di quanto
voleva che lei riuscisse.
Provò un caldo nodo alla gola e le si inumidirono gli occhi. Questo era il
vero motivo. Ne era sicura. Ora lei aveva soddisfatto le sue aspettative.
Non era come venire incontro alle richieste di sua madre - voleva che Jor-
dan sprizzasse orgoglio per i suoi successi. Ma non per questo sentiva di
meno la monumentale pressione a cui era sottoposta.
8.
Springfield, Virginia
9.
Base lunare Columbus
«Che cos'è?» Erika si strinse nella parte anteriore del Winnebago. Guar-
dò in basso verso lo schermo, non fuori dal parabrezza.
Guidata da un radar Doppler e da un telesensore euristico, il veicolo si
dirigeva verso Simul-Marte. Lon Newellen se ne stava seduto a guardarlo
trovare la sua strada nel paesaggio lunare e mangiucchiava da un sacchet-
to. Puntò una mela disidratata verso lo schermo televisivo ad alta defini-
zione incassato nel pannello di controllo. «Sono tutte le registrazioni dei
voli di ricognizione a raggi infrarossi. Se vuoi posso farti vedere un mon-
taggio in dissolvenza lenta di quelle della scorsa settimana.»
«Buon'idea.» Guardando le immagini, giorno dopo giorno, dell'alone
rosso che luccicava intorno alla costruzione di Dedalo, vide dei punti più
intensi che fluttuavano attorno ad alcune parti della grande struttura, ma
niente si muoveva oltre un diametro di tre chilometri. Quando la giornata
lunare di due settimane sparse il calore del sole sull'area, la definizione
della variazione di infrarossi diminuì drasticamente.
A molta distanza, invisibile nella notte lunare, stava Simul-Marte, co-
struito in preparazione alla missione simulata finale su Marte. Nessuno a-
vrebbe mai immaginato che sarebbe stato usato per studiare nanotecnolo-
gia aliena prima che avesse inizio la missione di addestramento.
Newellen parlò con la bocca piena di frammenti di mela secca. «Per
quanto mi riguarda non mi fido molto di quell'irradiazione di raggi x. Cioè,
non ci metterei la mano sul fuoco. Non c'è modo di avere la certezza che
quella cosa compatta toroidale produca abbastanza radiazioni da uccidere
qualunque cosa possa aver contaminato il laboratorio. E poi queste nano-
bestiole sono sopravvissute chissà quanti anni nello spazio, esposte a ogni
tipo di radiazioni che si possa immaginare. Voglio dire, come è possibile
che quella misera spruzzatina che gli abbiamo dato faccia tutto questo
danno?» Fece per portarsi alla bocca un altro pezzetto di mela raggrinzita e
si girò verso di lei. La bocca di Erika era serrata, e non uscì una parola.
Newellen alzò le spalle e buttò il pezzo di mela in aria. Volteggiò nella
bassa gravità e scese dolcemente verso la sua bocca. Lui restò fermo sotto
e la inghiottì. «Ma non importa cosa penso io, vero? Sei tu quella che va lì.
Da sola.»
«Sì» disse Erika. «Lo so.»
Erika piegò i milliwaldo, che penetrarono nelle viscere della camera ste-
rilizzata. Guardò le minuscole estensioni multi-digitate che seguivano i
suoi movimenti nella colonna olografica ad alta definizione posta di fronte
a lei. Nonostante i milliwaldo fossero circa mille volte più piccoli della sua
mano, erano in grado di duplicare i suoi movimenti con esattezza. E poi
non voleva correre il rischio di contaminare anche una sola cellula delle
sue mani in un ambiente che conteneva le nanobestiole aliene.
Le faceva già male la testa. Erano cinque ore che lavorava con il cam-
pione "morto" portato lì dalla prima sonda perforatrice geologica, quello
che era stato studiato in telepresenza dalla base lunare Columbus. Sfortu-
natamente il bombardamento con raggi x ad alta energia aveva cancellato
quasi tutte le tracce di nanomacchine, lasciando solo pezzetti di scorie mi-
croscopiche. Pochi tra gli involucri morti erano rimasti intatti. Era riuscita
a raccogliere qualche informazione in più solo guardando le registrazioni
in rapida successione.
No, aveva bisogno di un nuovo campione. Di un campione vivo.
Si mise immediatamente in contatto con Columbus. Jason Dvorak fu
d'accordo nel procurargliene immediatamente uno, e inviò un'altra sonda
perforatrice sul Lato Oscuro.
Mentre aspettava gli esemplari vivi, Erika ispezionò la strumentazione
che aveva a disposizione a Simul-Marte. Praticamente ogni strumento a
cui si potesse pensare per analisi extraterrestri era ammassato nel laborato-
rio, in attesa di essere usato dagli astronauti di Marte per i loro studi esau-
stivi del quarto pianeta. Nonostante molti fossero diventati scettici nell'ul-
timo mezzo secolo dopo che il Viking era atterrato su Marte, una parte im-
portante delle attività della missione su Marte riguardava la ricerca dell'e-
sistenza di microrganismi in quell'ambiente ostile.
Condusse dei test sulle nanobestiole morte, osservandole con microscopi
a trasmissione di elettroni, microscopi a scansione ottica, e utilizzando poi
elettroni secondari, elettroni a dispersione retrograda, raggi x per caratteri-
stiche ed elettroni a bassa perdita. Ebbe dei buoni risultati con uno spettro-
scopio Auger/ESCA a elettroni, poi altri ancora migliori con un microsco-
pio a scansione ottica a raggi x. Alterando il livello di potenza del bombar-
damento con raggi x, aveva raffinato il metodo, quando il robot a quattro
braccia si diresse verso la piattaforma esterna di Simul-Marte per ricevere
il secondo involucro dalla sonda proveniente dal Lato Oscuro...
Ora i suoi milliwaldo erano sospesi a circa cinquanta micron sopra il
nuovo pezzo di regolite. L'intera apparecchiatura analitica era collocata in
un ambiente foderato di uranio impoverito, e il contenitore stesso era
schermato da uno strato di piombo. Con l'immagine tridimensionale tra-
smessa ai suoi occhiali virtuali lungo una coppia di cavi a fibre ottiche, E-
rika lavorava con la sensazione di avere veramente sotto gli occhi un mon-
do in scala infinitamente piccola.
Una voce giunse dall'altoparlante posto sul pannello di controllo. Pur
trovandosi a dieci chilometri di distanza dal laboratorio isolato - distanza
di sicurezza, come l'aveva chiamata Dvorak - sembrava che Lon Newellen
fosse nella stanza accanto. «Il collegamento video ci dà ancora dei pro-
blemi, Erika. Sei sicura di avere attivato tutti i canali?»
Erika si voltò per controllare la video camera tridimensionale, sistemata
alle sue spalle in modo da riprendere l'intera analisi dei campioni. Una luce
verde intermittente indicava che la registrazione era in corso, ma due file
più in basso, su un visualizzatore a cristalli liquidi si leggeva ERRORE
TRASMISSIONE PARITÀ: RESET. Erika sorrise tra sé e sé. «Mmh, qui
sembra tutto a posto, Big Daddy. Dice che sta registrando.»
«Perché non provi a fare un reset del controllo parità?»
Erika fece il gesto di spingere il comando che aveva disattivato, ma si
fermò prima di toccarlo; rivedendo la registrazione in uh secondo tempo,
nessuno sarebbe stato in grado di dire se avesse o no pigiato il pulsante.
«Sembra che non funzioni.»
Newellen rimase in silenzio per un momento. «Potrei venire lì e siste-
martelo.»
«Senti, io devo continuare a lavorare» disse Erika con un filo di nervosi-
smo. «Non sappiamo quanto tempo ho ancora. Queste attrezzature sono
nuove, ricordi. È naturale che ci sia qualcosa che non va. Non preoccupar-
ti. Chiamerò non appena trovo qualcosa.»
«Oh, d'accordo.» Probabilmente era stanco di stare lì a girarsi i pollici
senza ricevere nessuna immagine.
Già era abbastanza essere costretta a registrare tutto quello che faceva, in
modo da lasciare una documentazione permanente dell'analisi nanotecno-
logica. Ma Erika non avrebbe mai potuto lavorare con mezza dozzina di
persone che guardavano da sopra le spalle. Sarebbe stato come avere qual-
cuno nel sedile posteriore che le dicesse come guidare, in tempo reale. A-
veva bisogno di prendere le sue decisioni da sola, di stabilire il suo ritmo.
«Dovremo accontentarci del contatto in voce per la prima parte delle o-
perazioni» disse Dvorak attraverso l'altoparlante.
«Sto iniziando ora a ingrandire, partendo dal basso e andando verso l'al-
to.» Erika aveva già portato i milliwaldo sulla superficie del campione.
L'ingrandimento scattò non appena si attivò il microscopio a luce polariz-
zata. L'immagine sembrava strana nell'ingrandimento computerizzato, con
la colorazione artificiale aggiunta alla topografia tridimensionale.
Erika parlava a voce alta a beneficio degli altri, cosa che le andava be-
nissimo dato che normalmente parlava da sola o con Parvu nel laboratorio.
«Non vedo niente di strano in questo ingrandimento. La superficie del
campione sembra vischiosa però, come se fosse liquida. Forse è solo moto
browniano. Forse no.»
Controllò un messaggio diagnostico nell'angolo inferiore basso dei suoi
occhiali virtuali. «Ne escono un bel po' di radiazioni di calore, però. Molte
di più di quante ce se ne potrebbe aspettare da una roccia ambientale. Il
campione non è radioattivo, e non riesco a individuare nessun processo
chimico. Probabilmente calore residuale generato dalle nanobestiole.»
Ecco, aveva adottato la terminologia di Newellen per quelle apparec-
chiature microscopiche. Non c'era dubbio che sarebbe rimasta non appena
le newsnets l'avessero raccolta.
«Un ingrandimento maggiore?» chiese Dvorak dall'altoparlante.
Erika parlò con un tono duro. «Sto ancora facendo un'analisi generale di
questo pezzo. Chiamo io gli ingrandimenti, d'accordo Jase?» Usò il dimi-
nutivo di proposito.
«Scusa. Starò zitto.»
Erika eseguì i macro-esami standard, controllando le proprietà meccani-
che della regolite, la conduttività del colore, la malleabilità e la frangibili-
tà. Raschiò il bordo con la punta del milliwaldo, sperando di riuscire a
grattare via la superficie degli esemplari, ma sembrava scivolosa.
Riportò i milliwaldo alla base, una sottilissima sezione di ceramica. Su-
bito a destra del suo campo visivo c'erano i waldo di precisione dieci volte
più grandi, da utilizzare per le operazioni macroscopiche.
Alla sinistra della sottile pellicola di ceramica apparve un puntino appe-
na visibile. Mosse lentamente le mani sui controlli virtuali verso il puntino;
mentre si avvicinava aumentò di un grado l'ingrandimento.
I dettagli sfocarono in strisce di aberrazione cromatica, ma Erika riuscì a
manipolare il puntino con dei waldo ancora più piccoli, in grado di ma-
neggiare oggetti di un milionesimo di metro di diametro. Lasciò sospeso il
milliwaldo, che ora sembrava enorme, e mise in azione un paio di micro-
waldo.
«Va bene» disse nei microfoni. «Sto portando con me i micro sul punto
del campione con il grado di temperatura più alta.» Guidò il milliwaldo
verso la fonte di calore, e insieme a quello un gruppo di piccoli microwal-
do. «Diamoci un'occhiata.»
Una volta sul posto, guidò il gigantesco milliwaldo a posizionare il mi-
cro nella posizione esatta. Prese i comandi di quest'ultimo e ne fece flettere
le estremità. Ci fu una zoomata di tre ordini di grandezza; nell'oloscopio
sembrò che tutto le precipitasse contro. Ora vedeva il campione di regolite
con un ingrandimento cento volte maggiore di prima, attraverso gli occhi
di un microscopio Auger/ESCA.
«Wow!» A quella vista trattenne il fiato.
Posizionato appena sopra il campione di regolite, i sensori del micro-
waldo restituirono una visione stereoscopica: oggetti sfaccettati correvano
precipitosamente lungo il campione come formiche attorno a un formicaio
smosso. Erika aveva visto le immagini in telepresenza del primo campio-
ne, ma ora le nanobestiole sembravano proprio di fronte ai suoi occhi, in
una moltitudine di forme e misure.
Era protetta solamente da un muro di piombo e da uno schermo di ura-
nio impoverito che le nanomacchine avrebbero probabilmente potuto di-
sassemblare in qualsiasi momento avessero voluto. Le passarono dinanzi le
immagini di Waite l'Impaziente e di Becky Snow con le tute che ribolliva-
no e si disintegravano, ma Erika strizzò gli occhi e le allontanò, portandosi
con la faccia più vicino all'oloscopio per cogliere altri dettagli.
Dopo aver aggiunto il microscopio a raggi x, raggiunse la definizione
massima. Nessuno aveva mai previsto di dover osservare qualcosa nella
scala di un miliardesimo di metro. Con quell'ingrandimento, un virus sa-
rebbe sembrato grande come una casa. Ma gli alieni erano stati capaci di
mettere assieme delle macchine un centinaio di volte più piccole.
Erika non aveva mai visto niente del genere. Al loro confronto, i malde-
stri prototipi nanotecnologici del LIN erano come delle barche a remi pa-
ragonate a una nave spaziale. I prototipi di Parvu erano pezzi di macchine
radunati assieme finché non fossero andati a posto da soli. Le nanomac-
chine aliene, invece, sembravano scolpite, progettate con intuito artistico
in cinque o sei varietà diverse; ogni sottosistema era stato assemblato con
la precisione con cui un modellista avrebbe costruito una nave nella botti-
glia. Era incredibile.
«Ehi, Erika? Sei ancora lì?» Era Lon Newellen. «Vuoi che venga a recu-
perarti?»
«No! Aspetta un attimo.» Portò le mani verso la superficie olografica di
fronte ai suoi occhi. I microwaldo imitarono i suoi movimenti.
Erika sentì il cuore che le batteva più forte. «Queste creature sono così
piccole che faccio perfino fatica a capire la loro morfologia.» Più si faceva
prendere dall'eccitazione e più parlava in fretta, ricadendo nel suo accento
del sud. «Non capisco nemmeno come facciano a funzionare, non sono più
grandi di molecole, disposte in un modo che non ho mai visto. Qual è la
loro fonte di energia? Immagino che distruggano i legami chimici dentro le
materie prime che le circondano. Devo esaminarle ancora però. Siete anco-
ra in ascolto?»
«Vorrei tanto poterle vedere!» disse Dvorak.
«Oh, va bene!» disse Erika addolcendosi. Appoggiò i waldo sospenden-
do le analisi. «Adesso provo la procedura di riparazione d'emergenza nu-
mero due.» Ostruendo la visuale della telecamera con la spalla, fece un
reset della parità, dando così il via alla trasmissione. Poi fece una gran
scena per far vedere che maneggiava il pannello di controllo con il palmo
della mano. «Funziona adesso?»
«Abbiamo il video!» gridò Newellen dal veicolo lunare.
«Bene, adesso lasciatemi lavorare.»
Sfrecciando con le dita sul pannello, Erika immise un codice dinamico-
molecolare. Il codice inizializzò una serie di processori paralleli incorpora-
ti nella matrice di un cubo allo stato solido; il programma avrebbe iniziato
una decomposizione perturbativa delle orbite molecolari per ricostruire le
macchine che aveva esaminato.
«Sembra che ce ne siano cinque o sei specie diverse. Alcune assemblano
la regolite allo stato puro, altre lo elaborano, e altre ancora diverse che si
agitano in mezzo. Coordinatori? Supervisori? Riprogrammatori? Non sa-
prei dire. E poi ce n'è un altro tipo che sembra stare fermo senza far niente.
Ha una forma completamente diversa. In mezzo a tutti questi esemplari,
vedo delle isole più grandi, come se fossero delle città di nanobestiole.
Stazioni di controllo centrali? Ragazzi, qui si possono fare un sacco di ipo-
tesi.»
«Erika, hai capito quanto ci vorrà prima che queste cose finiscano di
mangiarsi tutto il campione e inizino ad attaccare le pareti della camera
blindata?» Era Big Daddy, che parlava ancora dai suoi dieci chilometri di
distanza.
Dvorak si intromise prima ancora che Erika potesse aprire bocca. «Eri-
ka, non affidare niente al caso. Dobbiamo distruggere il campione prima
che anche una sola di quelle cose riesca ad uscire. Gli ordini che abbiamo
ricevuto dalla direttrice sono di stare sul campione per un massimo di quat-
tro ore, e di sterilizzarlo subito dopo.»
Erika guardò lo schermo. «Il tasso di riproduzione è sotto la soglia criti-
ca. Forse la loro fase di autoreplicazione è finita. Oppure, più probabil-
mente hanno bisogno di trovare degli elementi diversi per autoreplicarsi, e
in quel pezzettino di suolo lunare non ce ne sono più. Forse è per questo
che non hanno ancora distrutto il campione, per il momento non sanno an-
cora dove andare.»
Dvorak diede voce a quello che lei stava pensando: «A meno che non
decidano di cercare un terreno più fertile al di fuori del contenitore».
Erika deglutì. «In tal caso, non avrò molto tempo per uscire di qui.»
10.
Antartide: Laboratorio Isolato di Nanotecnologia
11.
Stazione di transito Collins, L-1
12.
Base lunare Columbus
Anche dopo aver corso per tre ore, Jason Dvorak non si sentiva per nien-
te stanco. Il sudore che impregnava la sua tuta da ginnastica filtrò nello
strato di carbonio del tessuto. Aveva fatto centotrentasei giri del percorso
sotterraneo di otto chilometri, ma i piedi erano troppo leggeri, le gambe
troppo potenti nella bassa gravità. Dopo undici mesi non riusciva ancora
ad abituarsi.
Delle fibre ottiche spargevano la luce solare lungo il percorso, bagnando
l'area per gli esercizi di un freddo colore bianco-giallo. Mentre correva in-
torno al percorso di regolite compattata, pensò che doveva sembrare un
ballerino di danza classica; ogni passo risultava delicato e aggraziato e lo
teneva in aria fin troppo a lungo. Dvorak ansimava attraverso la mascheri-
na, ascoltando il suo respiro soffocato. Si rischiava di prendere una bron-
chite se si respirava troppa di quella onnipresente polvere lunare.
A Jason piaceva fare esercizio e distogliere la mente dalle altre preoccu-
pazioni. Sulla Terra andava spesso a correre quando si bloccava su un pro-
getto; gli serviva per rimescolare i pensieri. Era come se il suo cervello
tentasse di tenere il passo con gli esercizi del suo corpo.
Tutti alla base sapevano dove trovarlo in momenti come quello, anche se
pochi altri usavano la pista in quel periodo. Avrebbe dovuto far presente
che non potevano schivare gli esercizi obbligatori solo perché erano affa-
scinati dagli studi di Erika sulle "nanobestiole". Due uomini stavano fa-
cendo i pesi, un sistema di tiranti controbilanciato dalle rocce lunari; una
donna pedalava sulla cyclette canticchiando assieme al CD che stava ascol-
tando in cuffia.
Jason uscì dalla pista e si diresse verso gli armadietti. Aveva bisogno di
una doccia, ma per il momento decise di strofinarsi soltanto con un asciu-
gamano. L'acqua carbonata per la pulizia personale era razionata, ma le
cose sarebbero cambiate una volta che la macchina mineraria di Cyndi Sa-
lito avesse raggiunto la piena potenza. Avrebbe avuto ancora più bisogno
di una doccia fredda dopo la conversazione che lo attendeva.
Era arrivato nuovamente il momento del colloquio settimanale. Aveva
corso per diciassette chilometri, ma non poteva scappare da tutto.
Jason era in piedi nella cabina di conversazione privata con la porta
chiusa e le finestre opache. Ogni membro della squadra aveva diritto a una
chiamata a casa alla settimana, secondo un ruolino stabilito rigidamente
dalla United Space Agency. Erano scoppiate delle risse perché qualcuno
aveva tentato di usufruire di chiamate già in programma, quindi le regole
non permettevano nessuna flessibilità tranne casi di eccezionale emergen-
za.
Sfortunatamente per Jason, l'agenzia disapprovava altrettanto che qual-
cuno saltasse le chiamate in programma. I membri di una squadra doveva-
no tenere alto il morale della gente sulla Terra, così come di quella che era
lì sulla Luna.
Jason deglutì mentre guardava il segnalatore di chiamata sul fondo dello
schermo. Lampeggiò cinque volte prima che Margaret si prendesse la bri-
ga di rispondere al telefono.
Jason sapeva cosa aspettarsi, ma aveva sempre una ridicola e ingenua
speranza che lei sarebbe apparsa felice di vederlo, e che avrebbe iniziato la
conversazione con un sorriso e un "Ciao Jason!" Immaginava che così fos-
sero la maggior parte delle conversazioni con la Terra, anche se sapeva che
molte relazioni a distanza erano estremamente tese. Molti matrimoni erano
già saltati, compreso il suo.
Margaret aveva un'espressione corrucciata quando il suo volto fu messo
a fuoco sullo schermo. Conosceva gli orari di chiamata altrettanto bene
quanto lui, ma non era ancora riuscita a trovare il coraggio di non rispon-
dere. L'avrebbe trovato presto.
«Posso parlare solo per un minuto» disse.
I figli di Jason non erano entro l'emisfero focale. Margaret avrebbe do-
vuto averli lì, pronti a salutare il padre. Ora probabilmente gli avrebbe fat-
to perdere parte del tempo a disposizione per radunarli. «Non riesci pro-
prio a cominciare con un saluto, eh?»
Margaret fece un saluto sforzato.
Bene, stava rendendo il tutto difficile. Jason decise di non stare al gioco
e di non arrabbiarsi con lei. «Dove sono i bambini?»
Pausa. «Fuori.»
«Posso almeno vedere i miei figli?»
Pausa. «Vado a prenderli.»
Le discussioni fra la Terra e la Luna avevano un equilibrio tutto loro,
pieno di esitazioni e di pause obbligate in cui se non altro si poteva tirare il
respiro o raffreddare esclamazioni troppo irritate. L'immagine di Margaret
si allontanò dallo schermo, lasciando Jason a contemplare l'ampio salotto
interrato che aveva progettato personalmente. Aveva trascorso anni a pro-
gettare lentamente una perfetta architettura per la sua casa. Era stata una
specie di santuario per lui, anche se Margaret aveva cambiato molte delle
sue cose preferite.
Si chiese se avrebbe mai rimesso piede a casa sua.
Margaret aveva fatto domanda di divorzio. Sarebbe stata definitiva il
giorno in cui lui sarebbe tornato sulla Terra. Il giudice le avrebbe proba-
bilmente concesso la casa e gli alimenti, in quantità sufficiente a mantene-
re un piccolo paese del Terzo Mondo. A volte la Luna non era proprio ab-
bastanza lontana.
La prima volta che aveva incontrato Margaret era stato durante un'inau-
gurazione molto chic di un nuovo palazzo a New York. Il successo e i sol-
di costringevano Jason a passare molto tempo a occuparsi di occasioni
mondane di cui spesso avrebbe volentieri fatto a meno. Margaret, che pro-
veniva da una famiglia borghese e ricca della città, ammirava il suo lavoro
e la sua posizione sociale. Lei era stata abbastanza fredda, ma ciò nondi-
meno Jason si era innamorato di lei. Margaret aveva insistito per fare un
matrimonio imponente, avrebbe dovuto essere "l'evento sociale dell'anno",
e ci era riuscita. Jason non si era mai preoccupato del prezzo delle cose, e
aveva pensato che l'avrebbe resa felice, che sarebbe iniziato tutto con il
piede giusto.
Jason era sempre stato un lavoratore a oltranza, Margaret lo sapeva e lui
aveva sperato che Margaret sapesse cosa l'attendeva. Dava così tanta im-
portanza al suo stile di vita alto borghese che Jason non aveva mai pensato
che gli avrebbe rimproverato il tempo che impiegava per guadagnare uno
stipendio adeguato. Forse era stato stupido a ignorare quella possibilità.
Margaret non sembrava mai soddisfatta, neanche con una bambinaia che
accudiva i bambini. Le aveva offerto ogni possibilità di fare quello che vo-
leva, andare dove voleva, fare del volontariato, trovarsi un lavoro, frequen-
tare corsi e riunioni. Tutto quello che voleva. Ma Margaret non sapeva mai
quello che voleva, l'unica cosa di cui forse era certa era che voleva a tutti
costi che lui la deludesse.
Sentì le voci dei bambini che arrivavano, e Margaret li spinse nel campo
visivo. Gli aveva fatto perdere due minuti dei cinque a sua disposizione.
Bel lavoro, Peggy! Margaret odiava che la chiamassero Peggy quanto lui
odiava che lo chiamassero Jase.
Lacy afferrò il braccio di sua madre, mentre Lawrence teneva il muso; il
ragazzo aveva un'espressione dura e protettiva. I gemelli avevano solo una
vaga idea di chi fosse quell'uomo che li chiamava ogni settimana. I bambi-
ni dimenticano in fretta. Per loro non esisteva nessun papà.
«Dite ciao a papà» disse Margaret facendogli cenno col capo.
«Ciao» disse Lacy, poi distolse lo sguardo.
Jason si ricordava di quando erano neonati e in ospedale li teneva in
braccio, incredulo. Sono i miei bambini! Sono il loro papà! Li abbiamo fat-
ti completamente da soli? Ma non era un padre particolarmente bravo, e lo
sapeva. Sempre via, sempre indaffarato, e da più di un anno era a un quar-
to di milione di miglia lontano da loro.
Lawrence tirò la manica di sua madre. «Viene oggi Perry?»
«Sì, tesoro. Vi porterà al parco.»
Jason provò un colpo al petto, non per la sorpresa, ma perché era così
palese. Una strana assenza di intonazione nella voce di Lawrence gli fece
sospettare che Margaret avesse istruito il bambino a recitare esattamente
quelle parole. Era il suo modo di rigirare il coltello nella piaga attraverso
lo spazio.
«Perry, eh?» Jason si stupì della freddezza della sua voce. «Bene. Perry
e Peggy, suona proprio bene. O è soltanto un passatempo per tenerti occu-
pata durante queste giornate lunghe e noiose in cui non hai voglia di fare
nient'altro?»
Margaret gli rivolse uno sguardo d'odio e spinse i bambini fuori dal suo
sguardo. «Stai zitto, Jase! Come osi dare dei giudizi! Dopo quello che hai
fatto alla mia vita, a me? Non sono una vedova, e sono dannatamente stufa
di vivere come se lo fossi.»
Nel ritardo di trasmissione iniziò a parlare prima che lei finisse la frase.
«Dopo quello che ti ho fatto? Di che diavolo stai parlando?» Ora davvero
era sorpreso. A cosa mai stava pensando Margaret? Come poteva rigirare
la frittata e fare apparire le proprie debolezze come se lui ne fosse la cau-
sa? Non avrebbero dovuto dividere la buona e la cattiva sorte?
Fuori campo, Lacy iniziò a piangere. Jason avrebbe voluto protendersi
attraverso lo spazio e stringere a sé la sua bambina. Ma il tempo lo separa-
va ormai quanto la distanza.
Il campanello della porta di Margaret risuonò a distanza. Jason aveva
progettato il sistema in modo che il suono fioco del campanello si potesse
udire da qualsiasi parte della casa. Adesso gli si rivoltava contro. Prima
che Margaret potesse dire qualsiasi cosa contro di lui, il riquadro rosso ini-
ziò ad apparire nella finestra di trasmissione, mentre i secondi rimanenti
del tempo di trasmissione personale assegnatigli scadevano.
«Devo andare» disse lei.
Jason decise che evidentemente si era accordata con Perry in modo che
lui arrivasse proprio mentre lui chiamava, per punzecchiarlo ancora di più.
Non poteva essere casuale una sincronia così perfetta.
Margaret si passò una mano sui capelli. «Su questo non c'è da discutere.
Puoi riscrivere la storia nel tuo cervello quanto ti pare. Per me non fa alcu-
na differenza.» Si girò verso Lacy e Lawrence. «Salutate.» Poi si protese
in avanti per spegnere il ricevitore, prima che i bambini riuscissero a pro-
nunciare qualsiasi parola. Rimasto solo nella cabina, Jason sentì che stava
tremando.
13.
Simul-Marte
Due ore prima dell'arrivo del Rising Sun, che doveva prelevare Erika e
altra merce per portarli sulla Terra, Bernard Chu la chiamò nell'infermeria,
da sola. Erika fu turbata dal vedere quanto era invecchiato, l'aveva visto
l'ultima volta due ore prima.
Chu chiuse ermeticamente la porta dietro di lei.
«Dottor Chu?»
Sembrò che passasse un minuto prima che Chu si girasse verso di lei.
«Erika... volevo che fosse la prima a vedere, io... spero solo di avere male
interpretato una cosa. Ma non vedo come.»
Un brivido corse lungo la schiena di Erika. Non era questo il modo in
cui i medici dicevano ai pazienti che stavano morendo di una malattia in-
curabile? Confusa, scosse la testa. «Di cosa sta parlando?»
Chu sembrava rassegnato al fallimento. Le spalle erano e il volto sem-
brava grigio cenere. Allungò debolmente il braccio verso lo stereomicro-
scopio. «Là. Vada, dia un'occhiata. Per lei non dovrebbero essere necessa-
rie spiegazioni.»
Erika aggrottò le sopracciglia. Fluttuò lentamente verso il microscopio
binoculare. Era abituata a lavorare con i microwaldo, a vedere i campioni
con l'aiuto di un'olocisterna, e sperava di riuscire a scorgere quello che vo-
leva farle vedere Chu.
Diede una rapida occhiata nel microscopio. Immediatamente riconobbe
le cellule bianche e rosse del sangue, che si urtavano le une con le altre nel
video. Iniziò a ritrarsi quando qualcosa colpì la sua attenzione ai limiti del
campo visivo. Ingrandì al massimo e guardò intensamente...
Nel campo visivo c'erano i segni inconfondibili di quello che aveva os-
servato sulla Luna, quello che aveva guardato per ore e ore, finché non a-
veva deciso di desistere e di ritornare sulla Terra in cerca di rinforzi...
Mischiate al campione di sangue c'erano migliaia e migliaia di nano-
macchine, gli stessi automi alieni che stavano innalzando una gigantesca
costruzione sul Lato Oscuro della Luna.
E stavano nuotando dentro del sangue umano.
Si ritrasse inorridita. Chu scosse lentamente la testa. «Mi dispiace. Mi...
dispiace davvero. Non so che cosa fare.»
Gli occhi di Erika si allargarono. «Questo... è il mio sangue?»
Chu alzò il capo e sussurrò: «No. Per questo le ho chiesto di verificare
quello che avevo trovato».
Si lasciò andare come se volesse buttarsi pesantemente a sedere, ma la
microgravità continuò a farlo fluttuare. Erika notò che gli tremavano le
mani. Chu la guardò e parlò.
«Vede, questo è il mio sangue. Un nuovo campione, prelevato alcuni
minuti fa.» Deglutì con forza. «Il suo sangue ha lo stesso aspetto. E se ho
ragione, tutti sulla Collins hanno queste cose aliene dentro le vene.»
14.
Washington D.C.
15.
Stazione di transito Collins, L-1
16.
Base lunare Columbus
Jason Dvorak osservò l'ultimo evacuato della Collins che con difficoltà
attraversava la camera di pressurizzazione della base lunare. Sebbene la
gravità lunare fosse solo un sedicesimo di quella terrestre, risultava oppri-
mente per i membri dell'equipaggio, che avevano trascorso i quattro mesi
precedenti in gravità zero. Normalmente il personale veniva riabituato gra-
dualmente alla condizione di gravità, ma l'infestazione nanotecnologica
non lo aveva reso possibile.
Nell'area di ricezione di Columbus, i diciassette evacuati stavano pas-
sando attraverso l'unità elettrostatica di soppressione del pulviscolo, prima
di fare il loro ingresso nella base. C'era un mucchio di pulviscolo lunare
sospeso nell'aria, e il sistema di filtraggio non riusciva a pulire l'ambiente
abbastanza in fretta. Non appena furono senza casco, tutti quanti iniziarono
a tossire. Fra i primi a subire il trattamento, Bernard Chu si ritrovò di fron-
te a Jason come un eroe vittorioso ritornato per reclamare la terra che gli
spettava di diritto.
Ma era soprattutto la questione di Erika Trace che riempiva Jason di
rancore. La giovane donna dai capelli biondo cenere aveva ravvivato Co-
lumbus quando vi era sbarcata la prima volta... quando, due settimane pri-
ma? Era apparsa così inesperta, così nervosa, così fuori posto tra gli altri
membri dell'equipaggio. La sua giovinezza e la sua ingenuità avevano ri-
cordato a tutti la vita normale sulla Terra. Qualcosa di Erika faceva pensa-
re ai turisti e agli avventurieri che sarebbero arrivati sulla base quando
questa fosse diventata una postazione spaziale a pieno titolo. Il suo atteg-
giamento aveva rappresentato una piacevole novità rispetto all'arida pro-
fessionalità che permeava Columbus. Ma questa donna dalla faccia pulita
aveva portato la terribile infestazione nanotecnologica direttamente a casa
loro. Con la sua incompetenza aveva precluso loro qualsiasi possibilità di
fare ritorno sulla Terra.
A causa del suo errore sarebbero probabilmente morti tutti nel giro di
pochi giorni. Jason non avrebbe mai più rivisto i suoi bambini. Non avreb-
be mai saputo cosa significasse la costruzione di Dedalo. Si sentiva come
una lepre su una strada di notte, impietrita dai fari di una macchina.
Quanti secoli ci avevano messo gli esseri umani per arrivare sulla Luna?
Per creare un appoggio precario su un pezzo di roccia lunare, che ancora
esigeva una combinazione delle tecnologie più avanzate per garantire la
sopravvivenza minima? E tutti questi sforzi - miliardi di dollari, trilioni di
rubli e di yen - erano ora andati sprecati per un'infezione aliena provocata
sicuramente da un momento di disattenzione di quella donna.
Osservando Erika che lottava per uscire dalla sua tuta spaziale, Jason si
sentì riempire di rabbia. Gli piaceva moltissimo, ma ora la sua vista gli fa-
ceva istintivamente contrarre le mascelle. Era stata lei a rovinargli tutto.
Ma poi... cosa avevano da guadagnare linciando Erika Trace?
Nel profondo del suo cuore, Jason sapeva che non era colpa sua. Non
aveva fatto niente che non le fosse stato chiesto da Celeste McConnell. E-
rika si era trovata nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Non voleva
nemmeno venirci, tanto per dirne una. Ma Jason non riusciva ancora a di-
scolparla interamente. Aveva bisogno di un capro espiatorio, di qualcuno
su cui puntare il dito, vero o no? Per una catastrofe del genere...
Anche tutti gli altri si sentivano così, dai mugugni che aveva orecchiato
in giro. Si chiese chi per primo avrebbe avuto il sopravvento su Erika, se le
nanomacchine aliene o gli irati abitanti della base.
L'ultima evacuata entrò vacillando nella camera pressurizzata. Dopo es-
sersi tolta il casco, la donna si piegò in avanti e cominciò a tossire per il
pulviscolo. Newellen si intrufolò dietro di lei. Con lo scudo anti-pulviscolo
attorno alla bocca, Newellen sembrava un enorme clown, ma almeno non
tossiva come gli altri. La voce gli uscì attutita dal filtro. «Hai sentito le vo-
ci dalla Terra? Non abbiamo sentito le ultime notizie sulle sommosse.»
«Sommosse?» chiese Jason alzando un sopracciglio. Con quello che sta-
va succedendo, a chi sarebbe venuto in mente di sintonizzarsi sui canali
terrestri? «Ci siamo tenuti in contatto solo con l'agenzia negli ultimi gior-
ni, e non hanno menzionato niente del genere.»
Newellen alzò gli occhi al cielo esclamando: «C'è poco da stupirsi!»
«Cos'è successo, Big Daddy?» chiese Chu. Jason si chiese se Celeste
McConnell avrebbe ridato il comando della base a Chu... e se gliene fre-
gasse veramente qualcosa.
Newellen si stropicciò le mani sulla tuta da lavoro, sbuffando per la pol-
vere che non se ne andava. Guardò Jason, e poi Chu. «Be', visto che non
c'è rimasto più niente della Collins, ho spostato l'antenna direzionale sulla
Terra, e ho captato i programmi delle newsnets trasmesse ai satelliti geo-
sincronici. Il segnale era un po' debole, ma sono sicuro che potremmo riu-
scire a ricevere i lobi laterali...»
«Le notizie, Big Daddy» lo interruppe Jason esasperato. «Cos'è succes-
so?»
«Vuoi dire le sommosse?»
«Sì, Lon.»
«Potevi dirlo subito. Sembra che la Terra sia un casino totale; manifesta-
zioni, sommosse, proteste, e via dicendo.»
Jason si rivolse a Chu. «Hai sentito niente del genere prima di abbando-
nare la Collins?»
Chu scrollò le spalle. «Avevamo una linea aperta con l'Agenzia Spazia-
le, ma non ci hanno riferito niente di preoccupante. Del resto non si sono
nemmeno preoccupati di consultarmi prima di fare esplodere la mia sta-
zione. "Non possiamo permetterci che qualcuno rimetta piede alla Collins"
ha detto. E così si è tolta il problema, quella stronza.»
Jason si guardò attorno. Gli evacuati erano stati spediti in infermeria per
i controlli. Non sapeva come avrebbero fatto a far stare altre diciassette
persone in quello spazio limitato; l'affollamento avrebbe acuito ancor più
la tensione, ma sicuramente sarebbero nate delle grandi amicizie prima che
tutto fosse finito. Sempre che fossero sopravvissuti.
Chu ammiccò in direzione del centro di controllo. Il volto era teso, e la
pelle degli zigomi tirata come quella di un tamburo. «Cerchiamo di scopri-
re cosa sta succedendo. Se Celeste è sottoposta a un mucchio di pressioni,
potrebbe essere tentata di prendere decisioni... drastiche.»
Si avviarono verso il centro di controllo. All'inizio Chu dovette sorreg-
gersi al muro per non cadere, ma poi sembrò recuperare il passo. Si inol-
trarono nei moduli sotterranei passando attraverso due camere pressurizza-
te e una serie di tunnel comunicanti, fatti di una lamina gonfiabile di me-
tallo, resa rigida da un rivestimento stabilizzante.
Giunti nella cupola del centro di controllo, Jason interpellò Cyndi Salito,
seduta alla sua stazione di servizio. «Niente di insolito nel collegamento
con l'Agenzia?»
«No, tutto normale» rispose lei. Il programma di rotazione dei membri
dell'equipaggio prevedeva che Cyndi fosse fra i prossimi a far ritorno sulla
Terra; ora era confinata a Columbus come tutti gli altri.
«Nessuna notizia flash su turbamenti dell'ordine pubblico?»
«Dovrebbero essercene?»
Chu si avvicinò. «Ha controllato nient'altro oltre ai canali dell'agenzia?»
«Ho guardato solo il Select.» Il Select era un canale semi-ufficiale che
trasmetteva notizie, storie di vita vissuta, e alcuni dei programmi più popo-
lari sulle imprese della United Space Agency. Jason sapeva che i membri
dell'equipaggio non avevano né tempo né voglia di guardare i canali a pa-
gamento, e quelli del Select erano solitamente bravissimi a distillare il me-
glio dalle centinaia di sciocchezze che circolavano sulle newsnets. E co-
munque, le reti commerciali si captavano con risoluzione troppo bassa
perché valesse la pena guardarle.
«Proviamo qualche altra frequenza. Si sintonizzi su uno dei canali com-
merciali» le suggerì Chu.
Jason era imbarazzato di essere stato colto così alla sprovvista di fronte
al suo predecessore. Non aveva mai pensato che il Select potesse essere un
veicolo di propaganda.
Qualche attimo dopo nell'oloscopio apparve un cubo con il mezzobusto
di una delle reti commerciali, percorso dai lampi grigi e color porpora del-
le scariche elettrostatiche. «Preso!» esclamò Newellen. In piedi accanto al-
la stazione di Cyndi Salito, Newellen stava sbocconcellando un panino,
probabilmente recuperato da un nascondiglio del centro di controllo.
«... Dalle sconvolgenti riprese degli astronauti dissoltisi sul Lato Oscuro
della Luna e della scoperta sul luogo di un'enorme struttura aliena in co-
struzione. La United Space Agency nega ancora con forza che il fenomeno
si sia diffuso oltre la superficie lunare.»
L'immagine tridimensionale dell'annunciatore svanì per mostrare le ri-
prese dall'alto della costruzione di Dedalo, simile a una ninfea gigante gal-
leggiante sul fondo del cratere.
«Sentiamo ora Julia Falbring, la nostra corrispondente scientifica, che si
trova con la dottoressa Maia Compton-Reasor, famosa ricercatrice di nano-
tecnologia della Stanford University in California. Julia?»
«Grazie Tom.» Era una bionda tutta curve. A parte l'abbigliamento ridot-
to al minimo, la pelle, i capelli, e perfino la voce di Julia Falbring erano di
una perfezione tale che Jason pensò fosse una simul-persona generata al
computer, esistente solo in qualche cybermondo.
«Qui a Stanford, la dottoressa Compton-Reasor guida un gruppo di ri-
cercatori impegnati in uno dei campi più avanzati della tecnologia.» Una
donna nera tarchiata apparve dietro di lei; aveva un paio di occhiali dalla
montatura rossa abbassati sul naso.
Jason si sorprese a vagare con la mente mentre nell'oloscopio appariva
una rappresentazione fantasiosa di una piccola struttura molecolare. Si
guardò in giro. Nonostante la maggior parte dell'equipaggio della Collins
fosse ancora in infermeria per sottoporsi ai controlli, il centro di controllo
era affollato più del normale.
Erika non poteva risentire troppo del cambiamento di gravità, eppure
non era fra quelli affluiti al centro di controllo. Si domandò se si sarebbe
ancora confinata nel laboratorio di Simul-Marte, per continuare a lavorare
sugli esemplari di nanomacchine. Jason pensò di chiamarla ma poi cambiò
idea. Se fosse stata sua la responsabilità di avere infettato l'equipaggio, an-
che lui si sarebbe voluto nascondere. Jason tornò a guardare il giornalista.
«... E con questo, Tom, credo che abbiamo tutti qualcosa su cui riflette-
re.»
«Grazie, Julia.» Il giornalista roteò sulla sedia mentre la telecamera lo
riprendeva da un'altra angolazione. «E infine, abbiamo qui in diretta dal
nostro studio il generale Simon Pritchard, assistente speciale della direttri-
ce della United Space Agency. Generale?»
«La ringrazio.» La telecamera arretrò per inquadrare anche il generale.
Era seduto con la schiena appoggiata allo schienale, rilassato, con le gam-
be accavallate. La sua uniforme da aviatore era immacolata, semplice, blu,
non sovraccarica di medaglie e di emblemi come le uniformi degli altri
corpi. Jason si ricordava di Pritchard come dell'uomo che si trovava con
Celeste McConnell quando Columbus aveva fatto la prima esplorazione te-
lecomandata di Dedalo.
«Generale, ci dica: non è che la United Space Agency stia sottovalutando
la pericolosità della tecnologia aliena? Abbiamo appena visto grazie ai no-
stri effetti speciali come un intero pianeta possa venire completamente di-
vorato se si lascia che la nanotecnologia dilaghi incontrollata. Cos'è che si
può fare?»
«Be', innanzitutto non siamo sicuri che si tratti di nanotecnologia aliena.
Ci stiamo ancora muovendo a livello di ipotesi, anche se è vero che sono
macchine microscopiche quelle che stanno costruendo l'artefatto di Deda-
lo. Non abbiamo ancora idea di cosa diventerà questa costruzione o di
quando sarà finita. L'ambiente che circonda il sito è estremamente perico-
loso e quindi non possiamo nemmeno inviare veicoli telecomandati per e-
splorarlo direttamente. Stiamo lavorando disponendo di pochissimi dati.»
Pritchard incrociò le mani in grembo. «Stiamo cercando di proteggere tutte
le nostre basi. Un'équipe di eminenti specialisti delle scienze organiche
stanziati alla stazione di transito Collins sono stati inviati sulla Luna per
collaborare allo studio del fenomeno. Hanno anche raccomandato di di-
struggere la Collins per escludere ogni possibilità di infestazione...»
«Cosa?» esclamò Newellen. Si guardò attorno nella stanza. Chu era ri-
masto in silenzio; Jason guardava torvo lo schermo.
«... Se si trattasse effettivamente di nanotecnologia sfuggita al controllo,
tutti gli esperti concordano che la Luna intera sarebbe stata disassemblata
già da diversi giorni. Quindi il pericolo è sicuramente stato gonfiato. Si è
parlato molto dello sfortunato incidente capitato a Trevor Waite e ai suoi
due compagni, ma ci sono elementi che suggeriscono che tutti e tre sono
stati vittima di una massiccia micropuntura, causata probabilmente da una
pioggia anomala di meteoriti. E, sì, la distruzione della Collins è costata
cara... ma mostra fino a che punto siano disposti ad arrivare i nostri astro-
nauti per garantire la sicurezza della Terra.»
«Non ci posso credere!» Il centro di controllo di Columbus si levò in un
uragano di proteste.
«Zitti!» urlò Jason. «Sta cercando di confezionare qualcosa per i media.
Aspettiamo di vedere dove diavolo va a parare.»
Newellen brontolò e alzò il volume.
Il giornalista annuì con aria saggia. «Ma supponiamo che si tratti di
qualcosa di fantascientifico... se la stirpe di Andromeda esistesse veramen-
te, se ci fosse veramente un virus robotico alieno in grado di spazzare via il
nostro mondo? Cosa faremmo in quel caso?»
La faccia di Pritchard si raggelò. Jason credette addirittura di sentire un
abbassamento della temperatura. «Be', è per questo che la United Space
Agency mi ha nominato suo delegato militare. Se mai si verificasse qualco-
sa che potesse danneggiare i paesi firmatari della United Space Agency,
siamo pronti a farvi fronte con assoluta rapidità e fermezza. Il vecchio ri-
corso alle procedure convenzionali non funzionerebbe affatto contro un
pericolo di tale gravità. Siamo quindi pronti a fare tutto quello che è in no-
stro potere, se si rivelasse necessario.»
Il video mostrò un primo piano del generale. Jason vide i muscoli che gli
fremevano nella mascella.
«Assoluta rapidità e fermezza?» chiese il giornalista. «Cos'è precisamen-
te che possiamo fare per impedire che questa cosa raggiunga la Terra? Do-
po tutto, sulla Luna abbiamo solo un equipaggio di una trentina di persone,
comprese quelle provenienti dalla Collins...»
Pritchard attese un secondo prima di rispondere. «Mi consenta di fare
assoluta chiarezza su questo punto. L'esercito può ricorrere a diverse misu-
re per impedire la contaminazione della Terra. Speriamo di non dover
prendere quelle più dure.»
«A cosa si riferisce esattamente, generale?»
«Speriamo di non arrivare mai a questo punto» rispose Pritchard in ma-
niera tagliente. «Deve tenere presente che tutti sulla base lunare Columbus
sono consapevoli delle conseguenze e dei rischi che hanno accettato di
correre quando sono andati lassù. Non possiamo rischiare di contaminare
la Terra. È questo il nostro obiettivo prioritario.»
Newellen gridò al di sopra del brusio che aveva cominciato a sollevarsi
nel centro di controllo. «Di che diavolo sta parlando? Sta decretando la no-
stra fine, o cosa?»
«Rimetti su Select» disse Jason con calma.
«Cosa?»
«Ho detto di ritornare su Select.» Pochi protestarono quando nel cubo si
inserì un'altra immagine, che si andò ad affiancare a quella dell'intervista a
Pritchard. Era un vecchio video su una navetta spaziale. La voce sommes-
sa di un narratore raccontava quanto fosse terribile rimanere nello spazio
per lunghi periodi di tempo.
«Non stanno nemmeno parlando della conferenza stampa.»
Chu sbuffò. «Stanno intervistando il delegato di Celeste McConnell che
parla di lasciarsi crepare sulla base, e Select fa vedere delle repliche.»
Jason rifletté un attimo prima di parlare. «Questo vi dice niente su quan-
to gliene importi alla McConnell di quello che ci succede quassù?»
Nella sua mente Jason vide un'immagine della Collins abbandonata che
si autodistruggeva in una meteora infuocata. «Cos'è che ci sta preparan-
do?»
17.
Simul-Marte
18.
Simul-Marte
«Passami quel milli, per favore» gli disse senza guardarlo. Dvorak non
rispose. «Il guanto del milliwaldo, là» gli ripeté Erika accennando alla fila
di guanti appesi vicino al banco degli esperimenti.
«Subito.» I guanti erano allineati in ordine decrescente, distinti dal colo-
re e da una scritta in rilievo: DECA, MILLI, MICRO. Collegato a distanza
ai waldo, ciascun guanto controllava ogni movimento delle piccolissime
attrezzature. Dvorak staccò un guanto giallo e lo porse a Erika.
«Grazie» borbottò lei. Sembrava sinceramente disposto ad aiutarla, a so-
stenerla e a offrire qualsiasi assistenza fosse in grado di offrire.
Erika usò il guanto per guidare una fila di milliwaldo l'uno contro l'altro,
sovrapponendo le loro dita piatte in modo da formare uno spazio chiuso.
Li manovrò uno a uno finché non ebbe ottenuto una sorta di gabbia non
più grande di un millimetro. Le chele dei milliwaldo formarono una barrie-
ra così fitta da non far passare nemmeno una nanobestiola. Una carica elet-
trostatica ad alto voltaggio disposta sulla superficie impediva che le nano-
macchine disassemblassero l'attrezzatura stessa. Assicuratasi che la sua
trappola fosse sigillata e a prova di evasione, Erika dilatò l'immagine olo-
grafica di tre ordini di grandezza. La minuscola gabbia sembrava ora un
muro impenetrabile.
Tenendo ferma la gabbia con il guanto dei milliwaldo, Erika indossò sul-
l'altra mano quello dei microwaldo per radunare gli Assemblatori che ave-
va precedentemente bombardato con radiazioni ad alta energia. Sembrava-
no uno sciame di zanzare impazzite. Li spinse dentro la gabbia, dopo in-
trodusse un granello di regolite, e sigillò il tutto con un altro milliwaldo.
Rimise a posto i sensori, e si scostò dall'apparecchiatura con un sospiro.
Dvorak era lì di fianco a lei, irrequieto. «E adesso?» le chiese con impa-
zienza dopo qualche minuto.
Erika sollevò lo sguardo. Dvorak aspettava, senza insistere oltre. Erika
non gli aveva spiegato la sua idea, pensando che vedendola agire avrebbe
capito tutto. Ma poi si ricordò che Jason era un architetto, non un microin-
gegnere. Una persona non esperta di metodi di ricerca avrebbe potuto pen-
sare di assistere a un rito stregonesco.
«Non riusciamo a trovare un modo veloce per purgarci da tutte quelle
nanobestiole che hanno invaso i nostri corpi. Almeno io non ci riesco.
Dobbiamo affrontare il problema in un altro modo. Dobbiamo inventarci
una nuova arma» disse Erika indicando sull'oloscopio l'immensa distesa di
milliwaldo.
Dvorak rifletté, aggrottando la fronte. «Allora perché chiudere quelle
cose in una gabbia?»
Erika sorrise. «Queste macchine nanotecnologiche non sono stupide. Ma
non sono nemmeno così sveglie. Non hanno intuizione. Hanno un'intelli-
genza, se vogliamo chiamarla così, limitata, e una programmazione com-
plessa e sofisticata. Pensa alla costruzione su Dedalo: ogni substazione dei
Controllori contiene un piano completo dell'intera struttura! Quindi, spero
che siano abbastanza sveglie da raccogliere un suggerimento, se riesco a
darglielo in modo chiaro.»
«E quale sarebbe il suggerimento?»
«Le ho incasinate bombardandole di particelle ad alta energia. Forse
questo metterà fuori uso alcuni dei loro vecchi programmi e le renderà a-
perte a quello che gli suggeriamo. Sto cercando di insegnargli un compor-
tamento diverso.»
Erika inserì un dito nella gabbia dei milliwaldo. «Il mio ragionamento è
questo: sappiamo che gli Assemblatori si caricano con l'energia dei legami
chimici che spezzano, ma sembra che abbiano il divieto di usare molecole
organiche. Perlomeno finora. È per questo che non ci hanno fatto fuori. Ma
se non possono spezzare un certo numero di molecole al minuto, vanno in
letargo.»
Dvorak annuì e sorrise. Ma era evidente che non aveva afferrato.
«Così ho intrappolato un bel po' di quei rompiscatole in questa gabbia
qua. Non possono scappare perché ho creato una barriera elettrostatica.
Ho aggiunto un granello di regolite per tenerli calmi per un po'. Ma una
volta che l'hanno finito, non essendoci materiale organico che li faccia di-
sattivare, inizieranno ad avere fame.»
«E adesso che facciamo?»
«Ci sediamo e aspettiamo.»
«Aspettiamo cosa?»
Vedendo che Dvorak ancora non capiva Erika aggiunse esasperata:
«Immagina di chiudere un campione di topi in una scatola con un pezzo di
formaggio. Se non c'è abbastanza formaggio, i topi impareranno un nuovo
schema comportamentale: quando la fame raggiungerà un certo livello, i-
nizieranno a divorarsi l'un l'altro».
Dvorak cominciò a camminare in su e in giù, come se stesse digerendo
l'informazione. Ora che aveva mostrato un genuino interesse nel suo lavo-
ro, Erika lo vedeva in una luce diversa. Prima, Dvorak si era comportato
da sapientone, insistendo perché gli fornisse delle risposte. Ma date le cir-
costanze - le pressioni improvvise e la relativa novità del suo incarico, più
lei che era giunta alla base richiedendo un trattamento speciale - era facile
capire la sua reazione.
Sembrava anche più giovane di quello che le era parso all'inizio. A parte
i capelli radi in cima alla testa, i riccioli scuri e il viso magro gli davano un
aspetto da ragazzo. Le labbra perennemente girate all'insù davano l'im-
pressione che fosse sempre sul punto di sorridere. Persino le rughe sottili
attorno ai suoi occhi scuri non le incutevano più timore...
Jason disse piano «Così stai cercando di addestrarli a uccidersi l'un l'al-
tro?»
«Be', possiamo usarli per attaccare gli Assemblatori che abbiamo dentro
di noi. Se la teoria della sicurezza intrinseca proposta da Parvu è corretta,
non potranno fare nulla alla materia organica presente nel nostro corpo, e
come unica fonte di energia avranno gli altri Assemblatori.»
Jason sbuffò. «Non avevo mai pensato che sarei stato salvato da dei
cannibali.»
Erika non menzionò l'altra possibilità, la paura incombente che le aveva
fatto quasi bloccare completamente l'esperimento: era possibile che le na-
nobestiole imparassero proprio a divorare materiale organico. Non le re-
stava che sperare che questa restrizione fosse una parte fondamentale della
loro programmazione e che non potesse essere superata così facilmente. In
caso contrario, per la base lunare sarebbe stata inevitabilmente la fine.
Fece andare il test per un'ora in più di quello che aveva originariamente
previsto. Più tempo significava più possibilità che si creassero complica-
zioni, e la possibilità di stilare un rapporto completo dei procedimenti che
aveva seguito per creare i Distruttori modificati.
Le piaceva il soprannome "nanocannibali", ma vicino a quello di "nano-
bestiole" i suoi colleghi terrestri avrebbero pensato che faceva troppo la
spiritosa di fronte a un problema così grave. Era meglio evitare questi at-
teggiamenti poco professionali.
Jason l'osservò attentamente da dietro mentre lei preparava la soluzione
di nanocannibali e visualizzava i risultati. «Allora?»
«Guarda tu stesso. Ha funzionato. Questi scemi sono spariti tutti.»
«Vuoi dire le nanomacchine nel mio sangue?»
«Quelle nel tuo campione. E non sembrano aver danneggiato neanche un
globulo.»
Jason si illuminò in volto per il sollievo, poi fu colto da un dubbio. «E
l'ultimo nanocannibale? Si sono mangiati a vicenda, giusto? Così il re della
giungla deve essere ancora lì.»
Erika rifletté per un momento. «È morto di fame. Non c'era più niente da
mangiare, e aveva il divieto di spezzare la materia organica. Almeno spe-
riamo.»
Jason accennò col capo alle pareti del laboratorio. «Ancora non capisco
perché non abbiano attaccato tutto il materiale non organico qui attorno.»
«E perché avrebbero dovuto? Avevamo modificato il loro comportamen-
to così che dessero la caccia ad altri Distruttori, l'unico altro "cibo" che a-
vevano. Abbiamo eliminato tutti gli altri. Quello che conta è che ha fun-
zionato. Ora devo provarlo su qualcosa di decisivo. Dobbiamo vedere se
funziona nel corpo umano.»
«Non è il caso di fare qualche altra analisi? Di vedere se ci sono effetti
collaterali, di fare un controllo incrociato della procedura...»
Erika scrollò i capelli all'indietro e corrugò la fronte. «Ascolta, dentro
ciascuno di noi c'è una bomba a orologeria. E se i Controllori decidessero
di aggirare il divieto sul materiale organico? Gli Assemblatori sono ancora
lì... potrebbero decidere di alterare il nostro DNA. Non ho intenzione di
stare lì ad aspettare che succeda, soprattutto adesso che ho trovato qualco-
sa che potrebbe funzionare.»
«Obiezione accolta.» Jason fece per arrotolarsi di nuovo la manica.
«Non ho niente da perdere. Diamoci una mossa.»
Erika scosse il capo tenendo d'occhio la siringa ipodermica, contenente
la seconda generazione di nanocannibali. A occhio nudo, la soluzione ap-
pariva assolutamente limpida, ma pullulava di Distruttori riprogrammati,
che si stavano già divorando a vicenda. «Tu sei troppo importante, Jason.
Sei il comandante della base. Io ho già fatto tutto quello che posso.»
«Non fare la stupida. Puoi sempre provare con qualcos'altro. Nessuno ha
la tua esperienza. Non puoi arrenderti.»
«Non mi sto arrendendo. Voglio solamente essere pratica.»
Vedendo Jason che veniva verso di lei, Erika pensò per un attimo di di-
fendersi con la siringa, ma il pensiero la fece ridere. Pensò a tutte le scene
in quei vecchi film sulle epidemie, dove il medico brillante scopre un vac-
cino rischioso contro la malattia e decide di provarlo prima su se stesso.
Erika aveva sempre trovato ridicole quelle scene. Ma quando Jason le
porse la mano, lei si afferrò velocemente il braccio e vi conficcò la siringa.
«Ahi!»
Non importava se aveva colpito un'arteria o solo il muscolo. Le nanobe-
stiole erano già dentro di lei. Avrebbe potuto anche spalmarsi la soluzione
sulla pelle.
Sentì il braccio di Jason che le circondava le spalle. «Siediti, idiota.»
L'aiutò a sedersi.
«Almeno sono un'idiota con un'istruzione universitaria» replicò. Seduta,
si sentì improvvisamente intontita. «Qualunque cosa stia succedendo, è
molto più veloce di quel che dovrebbe.»
«Come ti senti?» A intervalli, il volto di Jason le appariva sfocato. Le
mise una mano sulla fronte. «Sei fredda, ma stai sudando.»
«Fantastico. È come se fossero appena stati liberati per andarsi ad abbuf-
fare gratis. Dio mio, cosa sta succedendo?»
Erika lottò per non svenire. Si sentiva girare la testa. Il suo campo visivo
sembrava restringersi sempre più, come se stesse precipitando in un tunnel
scuro. La voce di Jason svanì in un brusio sempre più assordante, coperta
dallo stridore dei milioni di nanocannibali che si facevano voracemente
strada nel suo corpo.
19.
Base lunare Columbus
Non aveva nemmeno firmato di suo pugno. Sul fondo del biglietto era
scribacchiato un "Ci dispiace. Resistete ragazzi!", ovviamente aggiunto
dall'equipaggio che aveva sigillato la navicella.
Chu si sporse in avanti e, dopo aver cercato per un po', azionò ripetuta-
mente l'interruttore della pompa. Il LED passò dall'ambra al verde, poi
mandò un guizzo rosso vivo. Subito sopra l'indicatore della pompa, un'al-
tra fila di LED segnavano rosso.
«Stronza.» Chu sbatté con forza la mano sul pannello. Quasi non lo sentì
attraverso lo spessore del guanto.
Che bella fregatura. Naturalmente Celeste McConnell non aveva voluto
rischiare di mandare una navetta che potesse far ritorno sulla Terra: era
troppo alta la probabilità che qualcuno di quelli di Columbus sfidasse i
suoi ordini e cercasse di tornare. Proprio come Chu stava meditando di fa-
re. E senza carburante per la navetta di L-1 rimanevano solo le lente caval-
lette a metano, che avevano a malapena la spinta sufficiente per raggiunge-
re l'orbita lunare, per non parlare della velocità delta richiesta per raggiun-
gere la Terra.
Dal punto di vista di chi era sulla Terra era stata la cosa più logica. Ma il
fatto che Celeste dimostrasse di non fidarsi di loro - proprio di lui, Bernard
Chu, che l'aveva sempre appoggiata! - lo faceva ribollire dentro.
Si ricordò delle precauzioni prese prima del lancio dell'Apollo 10. Tom
Stafford, uno di quegli astronauti impulsivi degli anni Sessanta, era stato
incaricato di pilotare un modulo lunare fino a nove chilometri dalla super-
ficie della Luna. Viaggiare nello spazio dalla Terra alla Luna per doversi
fermare solo nove chilometri prima poteva far venire strane tentazioni, o
almeno così pensavano i dirigenti. Come potevano essere sicuri che Staf-
ford non incontrasse "difficoltà di trasmissione", e non allunasse "per ca-
so", divenendo così il primo essere umano a mettere piede sulla Luna?
Così, prima del lancio, sapendo che faccia tosta avessero alcuni astro-
nauti, gli ufficiali della NASA avevano portato Stafford presso la ditta ap-
paltatrice che aveva costruito il modulo. Là gli avevano mostrato quanto
pesava il modulo, e quanto carburante poteva contenere. Gli avevano illu-
strato passo per passo tutti i calcoli che dimostravano come il modulo pe-
sasse mezza tonnellata di troppo per riuscire a decollare dalla superficie
lunare nel caso che egli infrangesse gli ordini e facesse allunare la navicel-
la. Per quanto forte fosse la sua voglia di arrivare sulla Luna, Stafford ave-
va ben chiaro in testa che se lo avesse fatto ci sarebbe anche rimasto.
Chu si sentiva allo stesso modo. Accarezzò l'idea di provare a estrarre il
serbatoio, rappezzarlo e far rotta sulla Terra, alla faccia dell'agenzia, ma
nemmeno lui era uno stupido.
Chu strappò il biglietto dal pannello di controllo. La gente confinata sul-
la Luna era già amareggiata, e questo sarebbe stato un altro schiaffo. Vede-
te cosa pensano adesso sulla Terra di voi? Si ficcò il biglietto in tasca
prima di aprire le porte che davano sulla stiva.
Almeno avevano viveri in abbondanza.
20.
Base lunare Columbus
21.
Washington D.C.
In confronto a questo, una guerra sarebbe stata uno scherzo, pensò Pri-
tchard.
Con la faccia tirata, Pritchard guardò al di là della finestra del suo ufficio
verso il Museo dell'Aeronautica Spaziale. In momenti come quelli, Pri-
tchard invidiava i suoi colleghi dell'esercito, ancora in servizio attivo al
Pentagono a nemmeno tre miglia di distanza. I tipi del Pentagono doveva-
no preoccuparsi solo di stroncare tutti quelli che il Presidente ordinava di
stroncare - un lavoro rapido e pulito. Ed erano anni che un Presidente non
dava un ordine del genere.
Pritchard, invece, doveva combattere un nemico senza avere nemmeno
una certezza. Niente che riguardasse la costruzione aliena poteva esser da-
to per certo. Ma si trattava veramente di un nemico?
Nell'ufficio c'era un vecchio televisore a schermo piatto, con il volume
abbassato. Seguendo con la coda dell'occhio la Cable NewsNet, Pritchard
era intento a osservare il complesso dello Smithsonian Institute dall'altra
parte della strada. Il Museo dell'Aeronautica Spaziale conteneva testimo-
nianze di come l'uomo nel passato avesse trovato soluzioni a problemi ap-
parentemente insormontabili. Forse un giorno avrebbe ospitato anche un
modellino della costruzione di Dedalo. Sempre che il genere umano fosse
sopravvissuto.
L'anno precedente, usando Pritchard come intermediario, il Museo del-
l'Aeronautica Spaziale aveva condotto trattative con la United Space A-
gency per ottenere nuovo materiale da esposizione: cavallette lunari fuori
servizio, prototipi a forma di stegosauro che erano serviti per scavare l'e-
lio-3, gli schizzi fatti da Jason Dvorak per la ristrutturazione di Columbus.
Entro sei mesi era prevista l'apertura di una nuova ala del museo, dedicata
interamente al progetto Luna-Marte.
Per quella data, pensò Pritchard, non era nemmeno detto che ci fosse an-
cora una colonia lunare! La costruzione sul Lato Oscuro aveva messo tutto
in discussione. Come poteva l'agenzia correre il rischio di portare avanti i
suoi progetti senza conoscere la natura precisa della razza aliena che stava
dietro alle nanomacchine?
Mente indugiava con lo sguardo sugli edifici di marmo bianco, Pritchard
udì alla tv il rumore di una folla che cantava. Ruotò con la sedia in dire-
zione dell'apparecchio. La telecamera stava facendo una panoramica su
migliaia di persone. Alcuni reggevano cartelli, altri agitavano i pugni tesi.
Tutti stavano cantando qualcosa che Pritchard non riuscì a distinguere.
«Dove sono?» esclamò.
Sullo schermo apparve una scritta: STANFORD UNIVERSITY.
La voce del giornalista si sovrappose al rumore. «Le stime della polizia
parlano di più di trentamila persone, quelle degli organizzatori di centomi-
la. La gente è molto preoccupata dalla minaccia nanotecnologica, sia che
provenga dal Lato Oscuro della Luna, sia che si trovi molto più vicino a
casa, qui in California. I ricercatori di Stanford si sono rifiutati di uscire a
parlare con i dimostranti...»
La scena fu sostituita da un'immagine della costruzione di Dedalo, u-
n'immagine vecchia di due settimane, notò Pritchard. Le newsnets avevano
trasmesso storie simili due o tre volte per sera durante tutto il mese prece-
dente. Dopo la distruzione della Collins, fra la gente la preoccupazione e il
panico erano saliti alle stelle.
Improvvisamente la loro vita era stata sconvolta da un pericolo scono-
sciuto. La sicurezza di cui avevano goduto in tutti quegli anni di pace va-
cillava, si tingeva di paranoia. INVASIONE ALIENA! strillavano i gior-
nali.
Osservando la folla che protestava, Pritchard pensò che il pericolo nano-
tecnologico appariva ancora più minaccioso di quello "radioattivo", che
per generazioni aveva generato un irragionevole panico fra la gente ostina-
ta e poco istruita. Almeno la radioattività poteva essere spiegata, contro di
essa si potevano prendere precauzioni. Ma il pericolo delle macchine auto-
replicanti era qualcosa che nessuno sapeva come controllare.
Il giorno precedente, alcuni avevano accolto con entusiasmo il tentativo
di Bernard Chu di far saltare in aria la costruzione, mentre altri avevano
gridato al massacro, lo avevano visto come una provocazione nei confronti
della presenza aliena, come un messaggio sbagliato inviato a un'altra civil-
tà tecnologica. Pritchard sapeva che si era trattato di un atto da sbruffone
da parte di Chu, dettato più dalla voglia di indispettire Celeste che dal de-
siderio di proteggere la base, e non approvava questi colpi di testa. Tutta-
via, il fatto che la costruzione di Dedalo avesse subito una battuta d'arresto
avrebbe dovuto calmare un po' gli animi. Ora gli abitanti della Terra pote-
vano riprendere un po' di respiro.
Ma l'opinione pubblica non si rassicurava così facilmente.
Pritchard distolse lo sguardo dalle immagini di folle manifestanti tra-
smesse dalla CNN, e vagò con lo sguardo sul centro di Washington. Tutto
pareva così tranquillo, l'aria umida, i turisti, gli zampilli delle fontane. Il
quartier generale dell'agenzia non era stato ancora al centro di molte prote-
ste, ma i laboratori di nanotecnologia sarebbero stati il primo luogo a esse-
re colpito.
Le manifestazioni contro la guerra avevano scaricato la loro rabbia sulle
ditte di appalti militari, sui laboratori che producevano le armi, perfino sui
soldati stessi. Ma dopo un po' si erano scagliate contro i responsabili poli-
tici. Era solo questione di tempo.
Se fosse riuscito a trovare il modo di rassicurarli fino a quando l'agenzia
avesse trovato la soluzione vera e propria... Se fosse riuscito a dimostrare
all'opinione pubblica che il problema veniva affrontato con decisione, a
cullarli in un senso illusorio di sicurezza...
Pritchard si sporse sulla scrivania e premette il citofono. «Jeff?»
Il suo aiutante gli rispose dopo pochi secondi. «Sì, signore?»
«Ho bisogno che mi procuri al più presto delle informazioni. La com-
missione di sorveglianza dell'International Verification Initiative, cosa rie-
sce a trovarmi al proposito? Di quali armamenti dispongono, e come posso
avervi accesso? Rientra nelle mie facoltà?»
Ci fu una pausa, poi Jeff rispose: «Ho spedito il servo elettronico attra-
verso le nostre banche dati combinate. Dovrebbero arrivarle tutte le infor-
mazioni sul terminale fra pochi minuti. Ha la facoltà di contattare diretta-
mente la International Verification Initiative a livello del Sottosegretario.
Per ragioni di protocollo diplomatico, nemmeno la direttrice può interpel-
lare i livelli superiori. Devo prendere io i contatti per lei?»
Pritchard rifletté rapidamente. Avere a che fare con un'agenzia esterna al
governo degli Stati Uniti era una cosa delicata. In teoria, la United Space
Agency poteva aggirare le barriere, essendo essa stessa un'agenzia "inter-
nazionale". Ma dato che la sede, il personale e gran parte dei finanziamenti
erano americani, le sue credenziali diplomatiche erano solo nominali. La
Verification Initiative, invece, era una commissione internazionale vera e
propria, ed era da lì che Pritchard doveva passare per realizzare quello che
aveva in mente.
«Prima ho bisogno di parlare con la Direttrice. C'è in questo momento?»
Jeff controllò, poi riferì: «È in Campidoglio. Vuole che mi metta in con-
tatto con lei?»
Pritchard considerò brevemente la situazione. Non era più un bambino, e
le cose stavano evolvendosi troppo in fretta per pensare ogni volta a come
pararsi il culo. Nessuno fino a quel momento aveva avuto un'idea migliore.
Respirò a fondo, e decise di andare avanti con la sua decisione.
«No, ma voglio indire una conferenza stampa. Aspetti... facciamo invece
una dichiarazione televisiva. La distribuiremo alle newsnets e rispondere-
mo alle domande dei giornalisti un'altra volta.» Buttò un occhio alle im-
magini di Stanford che mostravano la folla in tumulto, poi guardò l'orolo-
gio. «Controlli che lo studio sia aperto. Voglio andare in onda fra un'ora.»
«Benissimo, generale. Sarò pronto fra tre quarti d'ora.»
Dopo che il suo aiutante ebbe chiuso la comunicazione, Pritchard pensò:
Spero solo di sapere bene cosa sto facendo.
22.
Simul-Marte
Per la seconda volta nella sua vita, Jason Dvorak capì cosa volesse dire
essere travolti da un camion in corsa.
La prima volta era stato quando Margaret aveva chiesto il divorzio. Ora
provava la stessa sensazione di impotenza. Lo avevano deposto da una po-
sizione di comando che non desiderava, eppure la ferita gli bruciava; a-
vrebbe voluto fare qualcosa invece di lasciare che la burocrazia e le circo-
stanze avessero la meglio su di lui.
Jason non se ne era particolarmente avuto a male quando Celeste
McConnell aveva restituito il comando a Bernard Chu - quell'uomo era si-
curamente più adatto al compito sotto tutti i punti di vista. Ma stare a
guardare il bombardamento idiota di Chu alla costruzione di Dedalo gli
aveva fatto venire voglia di sbattere la testa contro le pareti curve di Si-
mul-Marte. Era stata un'idea assurda.
Chu era un biochimico, non un architetto. Non si era preoccupato di
scoprire il modo migliore di ottenere il maggior danno possibile con gli
armamenti convenzionali. Per Dio, le rilevazioni avevano mostrato che
quell'affare era fatto di fibra e schiuma diamantifera, che non era una ca-
panna di paglia che si potesse buttare giù con un soffio.
Sì, l'esplosione aveva abbattuto la maggior parte delle fondamenta, ave-
va distrutto e sbriciolato delle poderose gallerie sotterranee - cunicoli di
lava forse? - rendendo instabile la costruzione aliena. Ma nessuno prima
aveva mai sospettato l'esistenza delle gallerie. Che esistessero altri scavi
nanotecnologia? Quanto della costruzione aliena rimaneva invisibile, na-
scosto nel sottosuolo? Tanto più che l'esplosione voluta da Chu aveva dis-
seminato le nanobestiole su un'area vastissima.
Guardando in seguito la registrazione a raggi infrarossi, Jason aveva a-
vuto la dolorosa certezza che per riparare il danno le nanobestiole avevano
triplicato l'attività. L'area surriscaldata si era visibilmente ristretta nel giro
di un'ora, indicando che le nanobestiole si erano concentrate di nuovo nel
cantiere.
Jason si sentiva al sicuro nel modulo di laboratorio di Simul-Marte con
Erika, ma non si fidava del suo umore con il nuovo comandante in giro.
Girò la schiena all'oloscopio principale. Erika sedeva sullo sgabello accan-
to al suo, e aveva un'espressione esausta. Jason sbottò. «Bene, ne ho abba-
stanza. Adesso che facciamo?»
«Cosa?» chiese Erika sollevando lo sguardo. Sembrava distrutta, come
se niente le importasse più.
Jason lasciò cadere la mani lungo i fianchi. «Voglio dire, cos'altro pos-
sono aspettarsi da noi?»
I capelli color sabbia di Erika si appiccicarono alla sua fronte sudata.
«Adesso che qualcuno ha deciso che la cosa migliore da fare è distruggere
quella costruzione, Chu stava appunto tentando di sbarazzarsene...»
«Nessuno l'ha deciso! Chu voleva solamente far vedere quanto è bravo.
Poteva anche lasciare perdere quel maledetto coso! Guarda solo qual è sta-
to il risultato dell'esplosione!» Gesticolò in direzione dell'immagine a in-
frarossi di Dedalo, sullo schermo olografico alle sue spalle. Anche se la
struttura aliena era in rovina, si vedevano chiaramente dei punti caldi di at-
tività, con la struttura che si stava ricostruendo fra le macerie.
«E se avessimo fatto incazzare il capocantiere che comanda le tue nano-
bestiole? Cosa faranno adesso? Magari torneranno qui alla base e la di-
struggeranno fino all'ultimo pezzettino di metallo...»
Erika scosse il capo. «Queste sono macchine che operano in modo pro-
grammato, in base a uno schema già impostato. Sono macchine program-
mate, Jase. Non serbano rancori, non cercano la vendetta. L'esplosione po-
trebbe essere stata causata dall'impatto di un meteorite, per quel che ne
sanno loro. Sono macchine, non pensano a lavare l'onta col sangue...»
«L'onda?»
«L'onta... non importa.» Si alzò e andò verso l'oloscopio. «Sono ritornate
a una fase precedente del loro programma di costruzione, e assemblano
come previsto tranne che vanno a ritmo accelerato per recuperare il tempo
perduto. Tra un po' della nostra bomba fatta in casa non resterà nemmeno
un graffio.» Erika sospirò. «Non so cosa fare.»
«Uniamo i nostri cervelli, allora» disse Jason facendole un sorriso sfor-
zato. «Una nuova sfida! Già hai trovato il modo di curarci. Adesso che ci
penso, non potremmo mandare là un po' dei tuoi nanocannibali per arresta-
re il processo di ricostruzione?»
Erika spalancò gli occhi raggiante. «Jase - Dio mio, avevamo la soluzio-
ne pronta! Perché non ci abbiamo pensato prima?»
«Pensavo che funzionasse solo con il corpo umano.»
«Se funziona con quello, perché non dovrebbe funzionare sul Lato O-
scuro! Sarà come vaccinare tutta la zona della costruzione!»
Erika era già lì che parlava con il sistema di controllo dell'oloscopio.
«Computer, mettimi immediatamente in contatto con Bernard Chu alla ba-
se lunare Columbus! Priorità uno, o come cavolo si chiama la categoria
urgente...»
«Priorità A» le suggerì Jason.
«Priorità A!»
Jason le venne più vicino. Erika si era già messa al lavoro al banco degli
esperimenti, e stava preparando il crogiolo in cui rinchiudere i nuovi cam-
pioni di nanobestiole. Afferrò Jason per le orecchie per attirare il suo viso
vicino al suo e dargli un bacetto frettoloso sulle labbra.
«Dovrò fare una nuova covata di Distruttori» disse. «Quando avremo
fermato il pericolo immediato rappresentato da quella costruzione - sempre
che si tratti di un pericolo - avremo tutto il tempo che vogliamo per scopri-
re cosa fa andare queste nanobestiole.»
Chu apparve sullo schermo con gli occhi appannati. Erika rise. Quello
che gli stava per dire l'avrebbe svegliato di sicuro.
23.
Base Alfa,
Base dell'Aeronautica di Wendover,
Utah
«Ha trovato la nostra posizione, generale?»
«Non sento nulla.» Simon Pritchard portò la mano all'orecchio e si chinò
per sentire meglio il giovane maggiore seduto a suo fianco. Nell'elicottero,
il vento rendeva difficile ogni discorso. La pilota, davanti, non disse nulla
mentre l'elicottero volteggiava nello spazio aereo ad accesso limitato.
«Le ho chiesto se sapeva dove eravamo, signore» gridò il maggiore Fe-
lowmate.
«Non so di preciso. È la prima volta che vengo alla base Alfa.»
Il maggiore indicò fuori con il braccio. «Stiamo andando in direzione
ovest; il confine dello Stato di Nevada è a davanti a noi a quattro chilome-
tri di distanza. La statale I-80 è quaranta chilometri a nord, e Wendover è
alle nostre spalle. In questo preciso momento stiamo sorvolando la base
Alfa.»
«Il viaggio è stato un lampo!» gridò Pritchard. Guardando verso il basso,
vide la bocca del cratere su cui si trovava la base. Si vedevano i bunker che
sbucavano da terra, sparsi lungo la pareti del cratere come capanne disse-
minate sopra una cava. «Perché non atterriamo?»
«Dobbiamo attendere l'autorizzazione, signore. Siamo in uno spazio ae-
reo ad accesso limitato, priorità uno. Se a bordo non avessimo il trasmetti-
tore elettronico che ci identifica come "velivolo amico", questi ci avrebbe-
ro già abbattuti.»
Pritchard sbuffò e si sistemò sul sedile a espulsione. Essendo uno scien-
ziato, aveva avuto poco a che fare con i militari operativi.
La pilota indicò qualcosa al di là del vetro della cabina e Felowmate si
girò verso di lei. Si rivolse di nuovo a Pritchard. «Abbiamo ricevuto l'auto-
rizzazione per l'atterraggio.»
Pritchard annuì e di nuovo guardò verso il basso. Il deserto si estendeva
a entrambe i lati, interrotto solo dai tre recinti a filo spinato che circonda-
vano la base. A ovest si vedevano le catene montuose del Nevada. Sulla
sinistra c'era la base aeronautica di Wendover; si vedeva ancora la lunga
pista sulla quale, venti minuti prima, era atterrato l'aereo dell'agenzia che
l'aveva trasportato fin qui.
La base Alfa era stata costruita quarant'anni prima come deposito per
armi nucleari e ospitava la maggior quantità delle testate nucleari ancora in
mano agli Stati Uniti. La maggior parte era stata smantellata, ma alcuni dei
dispositivi "più sicuri" erano rimasti lì, protetti da un nutrito gruppo di o-
peratori che facevano capo alla International Verification Initiative.
Mentre l'elicottero atterrava, il maggiore Felowmate chinò la testa e sal-
tò giù dall'elicottero, facendo segno a Pritchard di fare altrettanto. La pilota
rimase ai controlli e salutò Pritchard mentre quest'ultimo scendeva.
L'aria lo investì, calda e secca come se uscisse da un altoforno, e la pol-
vere sollevata dalle eliche gli fece lacrimare gli occhi mentre si allontana-
vano dall'elicottero Blackhawk dirigendosi verso un convoglio di auto-
mezzi in attesa.
Le guardie in divisa di fianco al primo veicolo si misero sull'attenti con
movimento brusco. Erano armate di fucili automatici. Dal veicolo scese
una donna con un vestito bianco. Con i capelli biondi raccolti a chignon e
le calze bianche, in quella terra deserta e incolta, la donna, con una mano
sulla crocchia di capelli mentre con l'altra si proteggeva gli occhi, sembra-
va il prodotto di un'allucinazione bizzarra.
Pritchard udì il rombo dell'elicottero che ripartiva per tornare alla base di
Wendover. Dopo qualche secondo, per la prima volta dopo il suo arrivo in
Utah, i rumori assordanti si erano attenuati sufficientemente per permetter-
gli di sentire e di pensare con un minimo di chiarezza e di lucidità.
Il maggiore Felowmate fece le presentazioni mentre si avvicinavano al
convoglio. «Generale, le presento Francine Helschmidt. È l'ufficiale di col-
legamento dell'IVI a Salt Lake City.»
«Generale.» La stretta di mano era decisa e gli occhi duri come pietra
vulcanica. «Sono a sua completa disposizione.»
«Grazie.» Pritchard esaminò il resto del convoglio. Ora che la polvere
sollevata dall'elicottero si era dispersa, vide che le jeep avevano il colore
blu dell'Aeronautica. Ciascuno dei mezzi aveva il proprio conducente e
ospitava molti passeggeri civili, in più ospitava quella che sembrava una
guardia armata. «Osservatori dell'IVI, immagino» disse Pritchard. La voce
gli rimbombava in testa dopo il viaggio in elicottero.
«Sì, generale.» Francine Helschmidt gli allungò un elenco di nomi. «Le
loro identità sono state controllate attraverso i canali consueti. Hanno avu-
to la nostra parola che una volta rotti i sigilli dei bunker potranno seguirla
ovunque e controllare ogni suo movimento e ogni suo gesto. Dobbiamo
garantire che lei riceva solo le testate autorizzate.»
A Pritchard non piaceva il tono freddo che aveva assunto la Helschmidt.
Le lanciò un'occhiata interrogativa. «Lei si riferisce ai dispositivi nucleari,
è così? Non ho intenzione di utilizzarli come testate. Questa non è una
guerra. Si tratta solo di una misura di difesa contro un pericolo extraterre-
stre.»
«Parliamoci chiaro, generale» replicò la Helschmidt, ritta a piedi larghi e
con le mani sui fianchi. «Questi congegni sono stati prodotti esclusivamen-
te per uso bellico.»
«Ah sì?» Pritchard serrò le labbra. Aveva già incontrato persone come
lei, e a volte si divertiva a provocarle scoprendone i punti deboli. Ih quel
momento però non aveva tempo per giochi del genere.
«Sì, generale» rispose la Helschmidt. «Ma sembrano esserci dubbi al ri-
guardo, vero? Che si tratti di testate o meno, lei ha ottenuto l'autorizzazio-
ne e noi abbiamo ricevuto istruzioni secondo le quali non devono uscire
dai bunker più di sei "congegni". Ho già studiato il vostro piano di sicurez-
za per il trasporto, e credo che potrebbe essere efficace, a patto che non si
verifichino degli imprevisti.»
Pritchard decise di non reagire a questi commenti. Aveva discusso il
piano con esperti provenienti dalle task force antisabotaggio e aveva lan-
ciato una sfida a tutti i partecipanti affinché questi formulassero un piano
d'attacco in base al quale sarebbe stato possibile intercettare le armi prima
che venissero consegnate nel luogo convenuto. Ora aveva capito con chi
aveva a che fare. La Helschmidt non sapeva di che cavolo stesse parlando,
e voleva solo dare l'impressione di essere una persona importante. Pri-
tchard si chiese come avesse fatto a raggiungere l'incarico che ricopriva.
«La ringrazio per la premura, signora Helschmidt. Ma ora vorrei prende-
re in consegna il materiale.» Pritchard si rivolse al maggiore Felowmate
che indicò con un cenno della testa l'automezzo in testa al convoglio. Pri-
tchard aprì lo sportello e invitò la Helschmidt a salire. «Si accomodi.»
«Salgo dietro, generale.»
«No, la prego.»
La Helschmidt salì. Pritchard chiuse lo sportello anteriore e salì dietro
prendendo posto a fianco di Felowmate.
Non appena Pritchard ebbe allacciato la cintura di sicurezza, il convo-
glio di automezzi partì con movimento incerto per la strada sterrata, co-
sparsa di buche, ramoscelli e sterpaglie.
La Helschmidt si rivolse a Felowmate: «Maggiore, lei ha la chiave olo-
grafica secondaria, immagino».
«Certo» rispose il maggiore portandosi la mano sul petto. Spiegò la pro-
cedura a Pritchard. «Per aprire i bunker, servono due chiavi olografiche.
Assieme producono la corretta configurazione di interferenza. Una delle
chiavi è sotto la responsabilità dell'IVI, e l'altra è custodita qui alla base.
Sono necessarie tutte e due per aprire i bunker.»
Pritchard aveva sentito parlare di queste chiavi. Con i laser era possibile
produrre un numero quasi infinito di configurazioni di interferenza. Senza
l'esatta sequenza di frequenze spaziali era impossibile decifrare il codice
necessario per aprire i bunker.
Il veicolo procedette sobbalzando, mentre l'autista cercava di mantenerlo
sulla parte meno accidentata della strada. Pritchard esaminò il paesaggio
per qualche istante prima di parlare. «Da quanto tempo lavora per l'IVI, si-
gnora Helschmidt?»
Lei si aggiustò i capelli. «Questo è il mio secondo anno. L'amministra-
zione mi offrì questo incarico dopo le elezioni.»
«Immagino che si sia occupata di disarmo prima...»
«Veramente no. Avevo una piccola società di pubbliche relazioni a Wa-
shington. Ho lavorato per la campagna elettorale. Per un anno e mezzo so-
no stata quasi sempre in giro a preparare il terreno per le visite del presi-
dente.»
Pritchard si trattenne dal fare commenti. Durante la sua rapida carriera
nell'Aeronautica aveva imparato a sopportare le interferenze dei politici e
la loro maledetta capacità di complicare sempre le cose. Ma la maggior
parte dei suoi incarichi, Pritchard se li era guadagnati trovandosi nel posto
giusto al momento giusto. Pensò alla carriera di Celeste McConnell. Sì, era
stata davvero fortunata, pensò - sopravvissuta alla distruzione della Gris-
som fino a diventare direttrice dell'agenzia.
Il maggior Felowmate indicò all'autista una serie di bunker di cemento
verniciati di bianco. «Eccoli, sono questi.»
Dietro di loro, il convoglio formò un semicerchio. I tre bunker erano uno
di fronte all'altro, distanziati di centoventi gradi; erano alti circa sette me-
tri, larghi circa una ventina e lunghi trenta, ed erano ricoperti da una ban-
china di terra. Nel cratere c'erano almeno cinquecento bunker, tutti dotati
di fari metallici sul tetto, con il simbolo internazionale a tre eliche, rosso e
giallo, della radioattività.
Felowmate indicò il bunker più vicino. «Eccoci qua, generale.»
Pritchard raggiunse Francine Helschmidt sul cortile di cemento davanti
al bunker più vicino. Cercava di tenere a bada la gonna, ma il vento conti-
nuava a tirarla all'altezza del ginocchio. Pritchard alzò lo sguardo e vide
che sopra la base si aggiravano, a varie altezze, sei elicotteri, modello Si-
korsky modificato. Cani da guardia. Si rivolse a Felowmate: «Ci pensano
loro a difenderci?»
«E anche a difendere noi da voi» ribatté Francine Helschmidt. «Nel caso
dovessero verificarsi degli imprevisti.»
Felowmate rispose a Pritchard. «Tre sono per la sicurezza e gli altri tre
atterreranno per trasportare sia lei che i congegni fino a Wendover, dove li
potrà caricare sull'aereo da trasporto.»
«Perché tre elicotteri per portare solo sei congegni? Ho richiesto dei
missili nucleari tattici. Non ci vogliono delle gru.»
«Gli altri due elicotteri fanno da esca» spiegò il maggiore. «Non vo-
gliamo che nessuno sappia qual è l'elicottero col carico se non all'ultimis-
simo momento. Per i terroristi, capisce.»
Scortati da un gruppo di guardie di sicurezza, tre uomini gli si avvicina-
vano staccandosi dagli altri veicoli. In testa camminava un uomo in so-
vrappeso che portava la giacca su un braccio; si asciugò il viso con un faz-
zoletto e sotto le ascelle si notarono macchie scure di sudore. Accanto a lui
c'era un uomo piccolo che sudava anche lui, ma sembrava intento a non
farlo vedere più del dovuto. Il suo completo sembrava che fosse di due ta-
glie più grande di lui. Il terzo uomo indossava una camicia larga a maniche
corte. Era scuro di carnagione, di corporatura normale, e appariva a suo a-
gio nel deserto. Solo lui sorrise a Pritchard. Gli tese la mano e gli parlò con
accento britannico. «Generale Pritchard, lieto di conoscerla. Francine ci ha
informato della procedura. Sarò lieto di portare a termine l'operazione.»
«Grazie» disse Pritchard e guardò gli altri due, che si limitarono a fare
un cenno con la testa.
«Generale» disse la Helschmidt. «Ecco i colleghi dell'équipe locale della
IVI. Siamo pronti?»
«Muoviamoci.»
Il maggiore Felowmate si avvicinò al portone del bunker, sbottonò il
colletto della camicia color cachi ed estrasse dalla catena che portava al
collo un cilindro corto simile a una piccola torcia elettrica, con la base
punteggiata di piccole protuberanze. «Signora Helschmidt?» La Hel-
schmidt fece altrettanto con la sua catena, estraendo un cilindro apparen-
temente identico.
Il maggiore fece segno alle guardie di scostarsi. Le guardie si erano di-
sposte a semicerchio attorno al bunker, con le armi pronte e puntate verso
l'esterno. Pritchard percorse il deserto con lo sguardo, cercando un qualche
segno di pericolo.
Quelle precauzioni gli parevano assurde lì nel cuore della base, in una
zona protetta da quattro recinti di filo spinato e da decine di altre misure di
sicurezza che impedivano l'ingresso agli estranei. Forse volevano fare im-
pressione su di lui o sull'équipe dell'IVI.
Il maggiore Felowmate accompagnò Francine Helschmidt e Pritchard
sul lato del bunker. All'altezza delle spalle, sporgeva un pannello grande
come una scatola da scarpe. Felowmate indicò a Pritchard di indietreggia-
re. «Stia al di qua della linea rossa, signore. Qui si aprono gli sportelli del
bunker.» Il semicerchio rosso era poco visibile sul pavimento di cemento
coperto di sabbia.
Felowmate spolverò il quadro e controllò il numero inciso sulla superfi-
cie. «SK-3452» disse. Controllò il numero su un biglietto che aveva in ta-
sca. «Tutto a posto. Controllato due volte.» Sia lui che la Helschmidt co-
minciarono ad armeggiare con le chiavi.
Pritchard stava sulle spine lì sotto il sole del deserto. Avrebbe dovuto
delegare questo compito noioso a qualcun altro, ma voleva seguire l'opera-
zione passo per passo.
«Ho registrato il numero del bunker» disse la Helschmidt.
«Ha mai fatto quest'operazione?» le chiese Felowmate.
La Helschmidt esitò. «No.» Sembrava imbarazzata ma Felowmate non
volle farci caso. «Vado io per primo. Avrà dieci secondi per inserire la sua
chiave. Se no, ogni allarme sulla base scatterà. Pronti? Via.»
Felowmate inserì il cilindro nella scatola. Accanto a lui la Helschmidt
inserì la propria chiave olografica in un contenitore vicino. All'interno del-
la scatola blindata, i laser registrarono le configurazioni di frequenza. Una
luce verde si accese sulla parte inferiore della scatola.
«Bisogna aspettare finché le porte non si aprono del tutto» disse Felo-
wmate mentre lentamente gli enormi sportelli si spalancavano; sembrava
l'entrata di un'antica tomba.
«Ciascuno di questi sportelli di acciaio pesa circa venti tonnellate» spie-
gò Felowmate. «Hanno uno spessore di dodici centimetri e sono costruiti
in modo da poter resistere a una bomba da diecimila chili che scoppia nelle
immediate vicinanze.»
Quando le porte si furono fermate, sembrarono le mascelle di un animale
enorme pronto a ingoiare qualsiasi cosa che si avvicinasse. «Generale... si-
gnora Helschmidt...» Felowmate fece loro cenno di entrare, poi si rivolse
alle guardie di sicurezza. «Smitty, tu, Witz e Dardanelle seguiteci. Cono-
scete la procedura.»
«Sissignore» risposero immediatamente puntando le armi verso di loro.
«Hanno l'ordine di sparare, generale» aggiunse Felowmate. «Se succe-
desse qualcosa di irregolare.»
Pritchard sorrise tra sé e sé. «Non si preoccupi per quanto mi riguarda,
maggiore.»
«Siamo in attesa» disse la Helschmidt rimanendo vicina all'entrata in-
sieme agli altri tre membri dell'équipe di verifica.
Entrando nel buio del bunker si avvertiva un'aria lievemente fredda e
stantia. L'uomo piccolo dal completo troppo grande tirò fuori un'agenda
elettronica e vi scrisse qualcosa. La luce delle plafoniere creava sul pavi-
mento ombre taglienti. Sulle superficie grezza di cemento erano state di-
pinte delle righe gialle.
Felowmate ne indicò una. «Seguitela e non allontanatevi dal tracciato.»
«I congegni sono disposti a una certa distanza l'uno dall'altro» continuò
rivolgendosi a Pritchard. «Una concentrazione troppo alta farebbe aumen-
tare le probabilità di fissione spontanea. Ci sono troppi neutroni vaganti
nell'aria.»
Quando gli occhi di Pritchard si furono abituati alla luce, vide diversi
corridoi che si dipartivano in varie direzioni. Dopo aver superato due bivi,
Felowmate si fermò e tese il braccio verso destra. «Questa è la camera che
ci serve. Signora Helschmidt?»
Si avvicinarono a un altro portone di acciaio. Nel muro era stato fissato
un pannello delle stesse dimensioni di quello precedente. Felowmate e-
strasse la chiave olografica. «Stessa procedura.»
Dopo avere inserito le chiavi sia lui che Francine Helschmidt fecero un
passo indietro e il portone si spalancò. «Eccoci, generale. I suoi congegni
sono qui.»
Se la costruzione aliena sulla Luna fosse stata veramente un pericolo
imminente e Pritchard fosse dovuto passare attraverso tutti quei controlli e
tutte quelle porte prima di arrivare ai mezzi di difesa, tanto valeva rinun-
ciare a qualsiasi piano di difesa. Doveva parlare con Celeste perché snel-
lissero le procedure.
Pritchard attese che il maggiore entrasse nella camera. Quando nessuno
si mosse per accompagnarlo, anche Pritchard entrò. Vide dieci barattoli
metallici grandi come barili di petrolio, ciascuno collocato all'interno del
proprio cerchio giallo.
«I contenitori di stoccaggio, signore» disse Felowmate. «Sono dotati di
un dispositivo in grado di disattivare i congegni in caso di furto. C'è tutta
un'altra serie di elementi piuttosto antipatici in questi contenitori, pronti a
scattare nel caso qualcuno volesse manometterli, ma di questi non posso
parlare.»
La Helschmidt, insieme ai colleghi dell'équipe, entrò nella camera. Dopo
aver controllato che le testate fossero collocate in maniera regolare, ne in-
dicò sei. «Sono suoi, generale.»
Pritchard annuì. «Se le nanomacchine degli alieni si rivelassero un peri-
colo, queste armi potrebbero rappresentare la nostra ultima speranza. Se
devo lottare con la burocrazia per creare un cordone sanitario attorno alle
testate, lo farò.»
«Buona fortuna, generale» disse Felowmate.
«Quelli che stanno sulla Luna in questo momento ne hanno bisogno più
di me.»
Felowmate fece un cenno con la testa alle guardie di sicurezza appostate
ancora all'entrata. «Smitty, chiama gli uomini per trasferire il materiale. Il
generale Pritchard vi darà le istruzioni necessarie.»
Francine Helschmidt si chinò verso Pritchard e gli disse a voce bassa:
«Non ci faccia pentire di quello che stiamo facendo, generale».
24.
Cratere Dedalo, Lato Oscuro della Luna
Bryan Z. starebbe proprio bene con un filo d'erba in bocca, pensò Jason.
Anche in tuta spaziale, il pilota aveva l'aria di un ragazzo di campagna,
persino quando si avventurava da solo in missione sul desolato Lato Oscu-
ro della Luna. Non era un tipo grezzo, ma era talmente onesto e schietto da
rasentare il ridicolo.
Dopo che Zimmerman si fu sdraiato sul fondo del veicolo lunare per non
farsi vedere, questo si avviò velocemente. Il Controllo Missioni dell'agen-
zia e tutti gli spettatori delle newsnets credevano che si trattasse di un vei-
colo telepresente di ispezione requisito da Newellen. Ma Zimmerman si
era offerto volontario per mettere in atto un'idea che era solo sua. Era un
tentativo disperato, naturalmente, ma quelli di Columbus non avevano al-
tre idee. E non avevano niente da perdere.
Jason si trovava con Big Daddy Newellen e Cyndi Salito in cima a una
collinetta a dieci chilometri di distanza da Dedalo. Da lì Jason poteva an-
cora scorgere alcuni particolari della costruzione, simile a una tela di ra-
gno, a una scultura di vetro filato all'estremità della stazione VLF. La strut-
tura centrale a forma di fiore - un'antenna parabolica? - scintillava sotto la
luce tagliente del sole assieme alle forme convesse delle strutture di sup-
porto. Il complesso ora appariva opaco e con una forma solida e ben defi-
nita.
«La cosa ormai sembra quasi finita» disse Newellen nella trasmittente
della tuta. «E pensare che l'abbiamo scoperta solo sei settimane fa.»
Da quella posizione potevano anche vedere agevolmente dove sarebbe
atterrata la navetta dell'agenzia, con a bordo le sei testate nucleari che a-
vrebbero dovuto collocare attorno alla costruzione aliena. E che avrebbero
dovuto far esplodere, se le cose fossero si fossero messe male.
Non era per questo che sono venuto sulla Luna, pensò Jason. Diede uno
sguardo al cronometro proiettato sulla visiera. «Mancano cinque minuti»
annunciò.
«Perfettamente in orario, spero solamente che atterrino nel posto giu-
sto.»
Newellen sbuffò dentro la sua trasmittente. «Non voglio nemmeno pen-
sare a cosa farebbero sei testate nucleari se mancassero il bersaglio e ci ca-
dessero in testa.»
«Peggio per voi. Io me la caverei» rispose Zimmerman dal veicolo luna-
re. Jason si chiese se c'era una traccia di umorismo nel messaggio.
«Non sono innestate» disse Cyndi. «Tocca a noi attivare una procedura
di azione concordata quando seppelliamo le testate.»
«Zitti tutti» disse Jason. «Stiamo per andare in diretta. Non vogliamo
che sentano la voce di Cyndi.» La Salito indossava la tuta di Zimmerman
nel caso una telecamera avesse captato la targhetta.
Jason sentì un clic nella cuffia e poi la voce filtrata di Bernard Chu. «Ja-
son, qui Columbus. Mostriamo che il collegamento con L-2 è stato stabili-
to. Abbiamo un nuovo vettore sulla navetta. Dovrebbero atterrare all'ora
prevista.»
Chu sembrava ancora nervoso sulla questione della collocazione delle
testate. Dopo che la sua bomba rudimentale non aveva provocato il danno
sperato e che il piano di Erika era fallito, Chu aveva cambiato completa-
mente atteggiamento. Jason lo capiva: e se le nanomacchine avessero sca-
tenato una rappresaglia? Avevano subito già abbastanza provocazioni. O
forse Chu ce l'aveva con Celeste, che dava ordini del genere standosene
comodamente sulla Terra, al riparo da ogni pericolo.
Jason si accese il microfono posto sul mento. La sua voce, per raggiun-
gere il satellite ripetitore L-2, arrivare da lì alla Terra e tornare a Colum-
bus, impiegava tre secondi. «Qui siamo pronti, Columbus. Se l'atterraggio
fallisce lo saprete voi prima di noi. Per voi lo spettacolo durerà più a lun-
go.»
Jason si ricordava di aver letto di catastrofi verificatesi nel trasporto di
testate nucleari durante la Guerra Fredda: bombardieri che si schiantavano
durante il decollo, testate sganciate per errore, scontri in volo dopo i quali
si veniva a sapere che alcune testate erano andate perse...
Jason sapeva benissimo che la frequenza di tali incidenti era ben supe-
riore a quanto potessero prevedere le leggi statistiche, e mentre aspettava
l'astronave telepilotata che trasportava più di venti milioni di tonnellate di
esplosivo e che doveva atterrare un chilometro più in là, aveva il cuore in
gola.
Né lo confortava che il pericolo nanotecnologico fosse lì a dieci chilo-
metri di distanza.
Non capiva come Zimmerman avesse trovato il coraggio di stare là dove
sarebbe atterrata la navetta, proprio lui che non si fidava dei sistemi auto-
pilotati.
«Manca un minuto» disse Chu.
Jason voltò le spalle a Dedalo e guardò in alto. Scrutò il cielo avaro di
stelle. Il sole era ancora alto e illuminava il paesaggio anche se c'era buio
per l'assenza di atmosfera che diffondesse la luce. Mancavano tre giorni
prima che il sole tramontasse per due settimane. La voce Cyndi Salito in-
terruppe il silenzio. «Eccola» disse per radio. Poi si fermò ricordandosi che
non avrebbe dovuto dire nulla. Tese il braccio in direzione di Dedalo, ver-
so nord, a trenta gradi dall'orizzonte.
Jason vide un gruppo di stelle che combattevano il bagliore del sole.
Captò un movimento con la coda dell'occhio. Là, appena al di sotto della
Corona Boreale c'era una luce che diveniva sempre più intensa con il pas-
sare dei secondi. La nave aveva già superato il punto L-1 e discendeva per
mezzo di una rapida orbita polare attorno alla Luna. Nel silenzio più totale,
l'enorme costruzione aliena si ergeva immobile al di sopra del fondo del
cratere.
Sul canale Select dell'agenzia e sugli altri canali a cui la base lunare Co-
lumbus aveva accesso si stava svolgendo il drammatico dibattito sullo sco-
po della struttura. Era una specie di antenna per la comunicazione? Un a-
nalizzatore dei raggi cosmici? Un'opera d'arte come la torre di Alexandre
Eiffel sulla Terra?
Queste domande infastidivano Jason ora più che mai. Lui stesso stava
contribuendo alla distruzione della struttura a prescindere dalle ragioni del-
la sua esistenza. Come architetto, la sua sensibilità era offesa dall'idea di
abbattere un oggetto così spettacolare solo a causa di paranoie. Ma come
residente della base lunare Columbus, la cosa lo terrorizzava.
La macchia di luce della navetta stava aumentando e ora Jason era in
grado di distinguere qualche dettaglio. Cosa succede se va oltre il luogo di
atterraggio e colpisce la stessa struttura? E cosa succede se le nanomac-
chine raggiungono le testate prima ancora che qualcuno possa farle detona-
re? Sicuramente, per i Disassemblatori disinnescare le testate sarebbe stato
un lavoro di pochi minuti. Forse Celeste McConnell aveva innescato le te-
state in modo che fossero pronte per la detonazione immediata a distanza
in modo da evitare che ciò avvenisse.
Si ricordò dello scetticismo della McConnell riguardo la totale elimina-
zione delle nanobestiole dai corpi dei residenti della base lunare. Forse vo-
leva far detonare le testate già da principio; distruggere la struttura, e la
maggior parte dei suoi problemi, e far credere che si trattasse di un errore?
Jason cominciò a sudare forte e i meccanismi compensativi della tuta
spaziale si attivarono. La prospettiva gli sembrava così ragionevole che
non aveva modo di togliersela dalla testa. Jason cominciò a formulare in
parole i propri dubbi, poi decise di non esprimerli apertamente. Ebbe a ma-
lapena il tempo di scorgere le gambe lunghe e sottili della navicella che at-
terrava nel luogo stabilito in perfetto orario.
Jason chiuse gli occhi e sollevato sospirò silenziosamente.
«Un altro atterraggio perfetto» disse Newellen alzando il braccio. «Sia
lodato il pilota automatico.» Il movimento della tuta a volume costante
spinse indietro l'altro braccio.
Per radio si sentì un verso, probabilmente proveniente da Zimmerman.
Jason attivò il microfono sul mento. «Contatto visivo dell'atterraggio,
Columbus. Presto il veicolo lunare sarà là per lo scarico delle testate.»
Proprio in quel momento, vide il veicolo avanzare sobbalzante verso il sito
dell'atterraggio.
Dovevano ancora scaricare le testate e collocarle attorno a Dedalo, ap-
pena al di fuori della zona calda. Sei testate, ciascuna equivalente a più di
tre milioni di tonnellate di TNT. Se con questo non era in grado di venire a
capo della "gigaminaccia nanotecnologica" nient'altro lo sarebbe stato.
Una volta posizionato l'anello difensivo, la mossa successiva spettava al-
la struttura aliena.
Lon Newellen era seduto e piegato sopra i controlli del veicolo lunare te-
lerobotico. «Con calma» mormorò Cyndi alle sue spalle.
Sul viso paffuto di Newellen si era formato uno strato sottile e lucente di
sudore. Non spostò gli occhi dai controlli. «Scherzi?»
Jason li raggiunse nel retro della cavalletta che li aveva trasportati fino
all'altro lato della Luna. Tutti e tre avevano le visiere sollevate per respira-
re liberamente all'interno della cabina sigillata.
«Scusa.» Cyndi fece un passo indietro e lanciò a Jason un sorriso nervo-
so. Jason annuì e non disse nulla. Newellen stava facendo un ottimo lavo-
ro.
Newellen usava le braccia robotiche del veicolo lunare per penetrare nel-
la navetta. Zimmerman non era nel campo visivo ristretto del veicolo, il
che era conforme al piano.
Lo sportello della navetta si aprì. È possibile che l'agenzia abbia instal-
lato una trappola esplosiva? Jason pensava alla lettera modello "A chi di
competenza" che Chu aveva trovata nell'ultima navetta di rifornimento.
Avrebbero fatto la stessa cosa anche questa volta?
Le sei testate erano nei contenitori bianchi di Base Alfa. Tutti avevano
visto il nastro in cui il generale Pritchard dirigeva le operazioni di carico
delle testate nucleari sul razzo di trasferimento da Cape Canaveral. Tutti
sapevano che le testate dovevano rimanere innocue finché non fossero sta-
te innescate da una PAC, ma Jason era ancora nervoso. Non poteva imma-
ginare che sentimenti provasse Zimmerman mentre cercava di tenersi fuori
visuale.
Newellen operò con le braccia robotiche. Una volta sistemato il primo
contenitore sul pianale basso del veicolo lunare, passò subito al secondo.
Stava imparando come funzionava.
Con la coda dell'occhio, a un certo punto scorse il riflesso di una tuta
bianca: Bryan Z. che cercava di tenersi in disparte. Ma Newellen manovrò
rapidamente la telecamera del robot e si concentrò al trasferimento dalla
carlinga delle testate rimanenti.
Newellen ritirò le mani dal controlli virtuali e si asciugò la fronte.
«Cyndi, portami un sacchetto di mele liofilizzate dalla cassetta di riserva e
poi sarò pronto per la consegna.»
Masticando, riprese il controllo. Davanti a lui sulla mappa dell'area vide-
ro il segnale del veicolo lunare che si allontanava dal punto di atterraggio
della navetta. In colori brillanti, la mappa segnava i confini della zona cal-
da di Dedalo con punti più luminosi dove dovevano essere collocate le te-
state. «Ci vorrà un'ora prima che vengano scaricati tutti e sei.»
«Zimmerman avrà tutto il tempo che gli serve» disse Jason.
Newellen seguiva la rotta predeterminata attorno a Dedalo, fermandosi
nei punti designati. Sembrava molto meno nervoso ora e si fermava solo
per pochi attimi depositando i contenitori bianchi sul terreno lunare con il
braccio robotico. Non c'era bisogno di grande precisione nei movimenti.
Dato che l'esplosione dell'anello nucleare sarebbe stata comandata dalla
Terra, pochi metri di regolite polverosa sparsi più in qua o più in là non
avevano alcuna importanza. Jason rimase teso per tutta la durata dell'ope-
razione. Non avevano sentito nulla da Zimmerman e non si aspettava alcu-
na notizia per altri quindici minuti.
Una alla volta, Newellen scaricò tutte e sei le testate. «Mi sono meritato
una pizza per quando rientriamo alla base» disse.
L'operazione era finalmente terminata; aveva fatto l'intero giro della zo-
na di pericolo di Dedalo, larga tre chilometri, ed era tornato alla navetta.
Zittì la Salito con un gesto e si rivolse all'intercom. «Columbus, missione
compiuta, e siamo pronti per tornare con il veicolo lunare.»
«Ricevuto. Avete sistemato tutto?» chiese Bernard Chu. Sapevano tutti a
che cosa si riferiva veramente.
«Quasi. Stacchiamo il collegamento con L-2 mentre ripariamo a distanza
il veicolo lunare. Presto saremo di ritorno.»
«Buona fortuna.»
Nello stesso istante in cui tacque la voce di Chu, Newellen staccò il col-
legamento. Lanciò un'occhiata a Cyndi. «Tutto bene?»
Maneggiava gli attrezzi in maniera nervosa. «Ora sto cercando una vi-
suale diretta.»
Jason si piegò in avanti verso i controlli. Newellen tamburellava con le
dita sul pannello. «Sbrigati» borbottò. Diede un'occhiata all'orologio.
«Cominceranno a sospettare qualcosa se stiamo fuori contatto per più di
qualche minuto.»
La Salito alzò la testa. «Eccolo.» Passò la mano sopra un assortimento di
luci. La voce di Bryan arrivò attraverso il nuovo collegamento radiofonico.
«Lasciamo stare. I bastardi ci hanno fregato ancora una volta.»
Jason si avvicinò all'intercom. «Hanno sabotato il serbatoio del carbu-
rante?»
«Sì, ma anche di peggio. Hanno sistemato un casino di esplosivo ai co-
mandi. Potrei disinnescarlo in non molte ore, ma chissà quando si decide-
ranno a farlo saltare. Immagino che abbiano pensato che se avessimo tro-
vato un modo di rimediare al sabotaggio del serbatoio tanto vale far saltare
l'intera baracca.»
Jason si sentì mancare e inspirò. «Va bene Bryan. Torna qui. Sali sul ve-
livolo e vieni a bordo prima che si insospettiscano da Terra.»
«Ricevuto» rispose Bryan.
Jason si lasciò andare contro lo schienale della sedia. Volevano andarse-
ne con la navetta dopo avere scaricato le testate. Una volta a Columbus, e
con un po' di tempo a disposizione avrebbero trovato il modo di tornare
sulla Terra. Almeno avrebbero potuto tentare.
Ma chi poteva immaginare che ancora Celeste McConnell non si fidava
di loro?
25.
Base lunare Columbus
26.
Washington D.C.
27.
Cratere Dedalo
29.
La costruzione di Dedalo
Il pendio era erto, con un'inclinazione di circa quindici gradi. Jason do-
vette chinarsi all'indietro per non cadere a causa dell'enorme carico di sen-
sori che potava con sé. Più sopra, vicino all'entrata, avevano dovuto ab-
bandonare il veicolo alla prima curva stretta delle catacombe.
Peggio ancora, Jason aveva scoperto che potevano trasmettere segnali
attraverso il filo di fibre ottiche ma non potevano riceverli. Quando torna-
rono in superficie discussero il problema con la base Columbus.
«La cavità deve essere una membrana unidirezionale per le onde radio-
foniche» speculò Newellen. Dopo una breve discussione, Chu gli diede
l'ordine di continuare a trasmettere il viaggio attraverso il collegamento su
fibre ottiche.
Erika accese un gruppo di fari per illuminare il corridoio. La galleria era
inclinata, alta e stretta, e dava una sensazione di claustrofobia.
«Sembrano le rampe di un garage pubblico» disse Erika, dirigendo la vi-
deocamera di fronte a lei. Il segnale correva lungo le fibre ottiche fino alla
piccola parabolica, e Erika sperava che Columbus potesse ancora riceverli.
Jason rise. «Scommetto che la Disney Corporation sta progettando un
nuovo veicolo lunare fornito di fibre ottiche in modo che la gente possa
venire qui per esplorare questa struttura. Vedrai quanto costerà il bigliet-
to.»
«E la pubblicità.»
Erika illuminò le pareti del corridoio che scendeva a spirale. Le pareti
erano cosparse di piccoli punti neri ed emanavano una debolissima lumi-
nosità color blu. I fili della materia di costruzione, anche qui, si intreccia-
vano l'uno coll'altro. A parte questo gioco d'intreccio non c'era alcuna indi-
cazione, nessun segnale di pericolo e nemmeno indicazioni.
«Le tue nanobestiole pare non abbiano una gran fantasia per quando ri-
guarda la decorazione d'interni» disse Jason mentre seguiva Erika.
Erika esitò. «Forse non gliene frega niente. Non dobbiamo pensare che
abbiano una mentalità simile alla nostra.»
Presto, Jason perse il conteggio del numero dei giri che avevano fatto
nella discesa. Aveva abbandonato ogni pretesa di sapere in quale direzione
fossero diretti; il suo senso d'orientamento era ormai inservibile. Davanti a
lui vedeva solo la luce di Erika che si rifletteva sulle strane configurazioni
della superficie della parete.
Erika registrava tutto sugli stereochip. I raggi foravano il buio. Si vede-
vano alcuni corridoi più larghi che da questo punto si irradiavano in varie
direzioni. Erika guardò verso destra, dove la spirale si interrompeva e si
congiungeva al pavimento. «Sembra che la discesa sia finita.»
«Finalmente» disse Jason, e lentamente pose il pacco di sensori sul pa-
vimento piegando le ginocchia. «Mi sembra che il pacco si sia appesanti-
to.»
Erika lottò con la tuta ingombrante e, piegandosi, accese i sensori ese-
guendo le operazioni di autocalibrazione. «Non respirare così forte, Jason.
Stai disturbando i sensori sismografici.»
Jason spostò la luce lasciando Erika al buio e si guardò attorno. La mag-
gior parte dei raggi venivano assorbiti o dispersi dalla materia aliena e il ri-
flesso era quasi insufficiente per vedere le pareti del vano grande in cui si
trovavano.
Sembrava che tutto avesse un'indistinta luminosità bluastra, e che si sa-
rebbero viste meglio le pareti senza l'illuminazione di Jason. Restituì la
torcia a Erika, ancora inginocchiata davanti ai sensori diagnostici.
«L'hai fatto urtare contro qualcosa mentre scendevamo?»
«No. Perché?»
Jason guardò la scatola sul pavimento. Il pannello esterno era composto
quasi interamente da LED, comandi a pressione tattile e alcuni interruttori.
Erika si alzò. «Alcuni dei dati che provengono dalla strumentazione so-
no anomali. Più che anomali. I fotoni UV sono a cento watt per metro qua-
dro. Senza la tuta, già ci saremmo abbronzati un bel po'. Il secondo dato
numerico riguarda il flusso dei neutrini. È veramente troppo alto.»
Jason era perplesso. Neutrini? Era difficilissimo captarli con gli stru-
menti. Ci voleva qualcosa come cento anni luce di cavo per captarne uno. I
nuovi sensori superconduttivi erano molto meglio ma ancora non comple-
tamente affidabili. «Le misurazioni di neutrini non sono mai precise» os-
servò.
«Non si tratta di essere precisi in termini di punti decimali. Guarda quel-
l'esponente! Cinque ordini di grandezza superiore alla misurazione raccolta
prima di entrare qui. Il sensore non può fare un errore di questa portata.»
Erika stette un attimo a pensare, poi lentamente, a causa dei guanti che
le impacciavano i movimenti, digitò una richiesta. «È un flusso di neutrini
che assomiglia a quello che si troverebbe in un reattore nucleare.»
Jason scrutò la parete cercando una qualsiasi indicazione della presenza
di macchinari.
«Ma non ci sono neutroni» aggiunse Erika. «Nessuna particella carica.
Solo un flusso UV.» Si alzò di nuovo. «Non chiedermi cosa significa.
Dobbiamo andare avanti?»
«Non sappiamo ancora nulla di questo posto» disse Jason. Si ricordava
quando si trovava davanti all'oloscopio mentre Eiffel lo guardava. Aveva
meditato sulla struttura delle arcate, le strutture secondarie. Cercava una
qualche idea sui costruttori alieni, un'indicazione riguardante la loro forma
mentis, il loro scopo, il loro mondo.
«Senti. Forse quel flusso UV ci dà un'indicazione sia pure vaga. Può
darsi che questo sia il modo in cui illuminano il proprio ambiente. Questo
potrebbe essere la loro versione di luce visibile, la frequenza che adopera-
no per vedere. Se la loro stella irradia raggi a UV, allora i conti tornerebbe-
ro.»
Jason puntò i fari nella direzione in cui il complesso si apriva, ancora più
profondamente sotto la superficie lunare. Restituì le luci a Erika. Sollevò
con fatica l'enorme unità di sensori. «Mi sembra di essere un mulo da so-
ma.» Con cautela, nel buio, seguì i passi di Erika, senza sapere di preciso
dove stavano andando.
«Segui il tuo naso» disse Erika.
«Non c'è nient'altro qui che si possa seguire.»
Passo dopo passo, il buio sembrava allargarsi per formare un cerchio che
si espandeva. Erika faceva luce in tutte le direzioni. Jason, lo sguardo ri-
volto in basso, non vedeva altro che le spie dei sensori. Sembrava che le
pareti, il pavimento, il soffitto stessero assorbendo i fotoni e che altro non
doveva rimanere che lo scuro color porpora della debole luminosità ema-
nata da quello strano intreccio di fili di cui era costituito il materiale di co-
struzione del complesso.
Proseguirono in silenzio, ma sempre più tesi, come se si aspettassero di
essere attaccati da un momento all'altro. A Jason sembrava di essere più
leggero a ogni passo, anche se la cosa non aveva molto senso.
«È come uno dei giochi al luna park, dove i sensi si confondono con le
illusioni ottiche.»
Erika puntò il faro sul soffitto. «Anche il soffitto si sta allontanando.
Ogni cosa sembra andare nella direzione del punto da dove inizia la spira-
le.»
Il vuoto attorno a loro si allargava progressivamente. La pendenza si ac-
centuava di nuovo. Jason passò davanti a Erika. Si sentiva come uno che
avanza verso la bocca di qualcosa di terribile.
«Accidenti!» Jason sentì che stava iniziando a scivolare. Non trovava
più niente sotto i piedi. Non c'era più il pavimento; era sparito improvvi-
samente. La gravità lo trascinava verso il basso. «Sto cadendo!»
Agitò le braccia e cercò di mantenere l'equilibrio; si liberò del pacco di
strumenti. Ogni secondo sembrava un'eternità. Mentre precipitava verso il
basso Jason cercò di girarsi su se stesso e di proteggere il casco dall'impat-
to contro il duro pavimento. Continuava a muovere le braccia. Una luce
indefinibile lo circondava mentre cadeva. Proveniva da un faro che si era
allentato e che ora oscillava violentemente, creando attorno a lui un caos
vorticoso di strane configurazioni.
Sentiva le grida di Erika ma non riusciva a capire cosa dicesse a causa
delle sue stesse grida.
Anche attraverso la tuta imbottita e anche se la gravità non era fortissi-
ma, l'impatto gli tolse il fiato. L'urto fu tamponato dall'unità di riscalda-
mento e dell'ossigeno che aveva sulla schiena. Un dolore intenso lo per-
cosse e cercò di riprendere fiato. Sentì una voce nella radio. Era una voce
distante. Lo chiamava...
Il cuore gli batteva forte. Cercava di rallentare il respiro per evitare l'i-
perventilazione. Non sentiva il fischio di una fuga d'aria. Controllò i para-
metri dei sistemi di mantenimento e capì che la pressione all'interno della
tuta era stabile.
Sentì un forte gemito. Cercava di reggersi su un gomito. La parte poste-
riore della tuta gli impediva di piegarsi in avanti. Spinse con la mano sul
pavimento finché non riuscì a raddrizzarsi. Pensò, certo le tute spaziali
non sono state costruite per cadere avendole addosso. «Erika?»
«Sì, sono qui.» La voce era debole.
La luce era da un lato. Jason procedeva a tentoni per raggiungerla, al-
lungando le braccia per non andare a sbattere contro qualcosa. «Stai be-
ne?»
«Sì. Non mi sono mossa ma ti ho seguito lo stesso nella caduta.» Prese
fiato e aggiunse: «Cos'è successo?»
«A parte la caduta? Non lo so.» Jason si chinò per riprendere la torcia
che era caduta. Erika giaceva ancora sul pavimento non lontano da dove
era caduto lui. «Controlla la pressione all'interno della tuta.»
Dopo qualche istante Erika rispose: «A posto. Stabile». Allungò la mano
dietro la schiena. «E la fibra ottica è ancora attaccata. Credi che stiamo an-
cora trasmettendo?»
«Non lo sapevamo neanche prima.»
Si avvicinò a lei lentamente. Le pareti della materia aliena li racchiude-
vano e ancora emanavano quella luce bluastra ma quasi invisibile. Non
riusciva a vedere di quanto erano caduti, o cosa era successo al buco che
avevano attraversato.
«Jase» disse Erika. Si era alzata a fatica. «Laggiù. Forse è solo la mia
immaginazione, ma mi sembra di vedere un corridoio là in fondo.»
All'inizio Jason non riusciva a vedere altro che quella materia aliena, poi
intravide una macchia più scura. «Hai ragione.» Girò la luce verso di lei.
«Come hai fatto a vederlo?»
«Non c'era il riflesso bluastro. Tu eri abbagliato dalla torcia.»
Jason si fermò per pensare. «Voglio provare qualcosa. Non ti muovere.»
Spense la luce. Il buio era pressoché totale.
Ci volle un minuto, ma presto Jason riuscì a distinguere i vaghi contorni
di alcune entrate di forma quadrata. I quadrati erano neri e si distinguevano
dalla luce blu che emanava dalle pareti e dal pavimento intorno. Sentì che
gli occhi si abituavano al buio man mano che si avvicinava all'estremità
dello spettro visivo. Forse ad altri occhi il luogo sarebbe potuto sembrare
risplendente di luce.
«Questo posto sembra una stazione ferroviaria. Vedo sette, no, otto gal-
lerie.»
«Nove» osservò Erika. «Pensa, nove arcate fuori, nove sentieri, ora nove
gallerie.» Jason guardò mentre Erika misurava le entrate a tutte le gallerie
e la camera in cui si trovavano.
«Sembra che abbiano una predilezione per i nove, o per i tre.» Jason re-
spirò forte e sentì il cuore riprendere il suo normale ritmo. «Allora. Pro-
viamo a uscire da qui? Saranno tutti preoccupati. O proseguiamo?»
«Proseguiamo, naturalmente.» Non l'aveva mai sentita così decisa. «For-
se non avremo mai modo di tornarci, se qualcuno decide di far saltare tutto
in aria. Finora, non abbiamo visto altro che gallerie. Ci deve essere qualco-
s'altro.»
Jason deglutì di nuovo. Sapeva che aveva ragione. «Allora troviamolo.»
Riaccese la luce brillante e ruppe l'incanto. «Quale scegliamo?»
«Fai tu» disse Erika. «Scegli una galleria, non importa quale.»
Esitò per un momento e poi si diresse verso il primo corridoio. Sollevò il
pesante pacco degli strumenti diagnostici sperando che ancora potesse es-
sere utile. Avanzarono silenziosamente lungo il pavimento.
Dopo molti minuti si fermarono. La luce di Erika colpì qualcosa davanti
a loro. Era grande. Jason riusciva appena a intravedere i contorni di un
fabbricato composto da pannelli disposti ad angolo l'uno contro l'altro.
Sembrava uscito dall'incubo di un architetto. La struttura era di un colore
diverso dal pavimento e dalle pareti. Sembrava fatta di un altro materiale.
Alcuni dei pannelli erano decorati con cerchi concentrici paralleli disposti
ordinatamente in direzione della galleria.
«A che stai pensando?» chiese Erika.
Jason si bagnò le labbra con la lingua. L'aria riciclata gli sembrava più
secca del normale. «Non so.» Non riusciva a comunicare le proprie idee.
La struttura era troppo bizzarra anche per il suo intuito in campo architet-
tonico. Sembrava che un bambino autistico avesse cercato di costruire
qualcosa e che qualche pezzo gli fosse avanzato. Sottili pannelli, cunei a
ogni angolo: una fotografia che riusciva a fermare un castello di carte men-
tre cadeva. La struttura non sembrava in grado di reggersi da sola.
Erika si avvicinò al fabbricato esotico. Teneva la luce puntata sui pan-
nelli decorati di cerchi concentrici. Era tutto in prospettiva, come se stesse-
ro entrando in un dipinto. Da qualunque angolo guardassero, i cerchi sem-
bravano indicare la galleria.
Era come se la struttura volesse dirgli qualcosa.
30.
Base lunare Columbus
Big Daddy Newellen si mise al pannello virtuale del centro di controllo
della base lunare. Ci volle un po' prima che riuscisse a mettere insieme ab-
bastanza parole per parlare. Era un'idea piuttosto bizzarra ma i dati comba-
ciavano. Tutti.
Bernard Chu e gli altri membri dell'equipaggio stavano guardando le
immagini trasmesse da Jason e Erika da Dedalo. Ogni tanto le immagini
provenienti dal cavo di fibre ottiche posato da Erika erano disturbate da
scariche di energia statica, ma non si perdeva molto.
Una veduta dell'esterno veniva mandata da Cyndi Salito e Bryan Z. che
attendevano nella cavalletta. Almeno con loro era possibile parlare e rice-
vere messaggi ed erano ansiosi di far qualcosa. Tre volte Cyndi aveva ri-
chiesto l'autorizzazione di andare a cercare Jason e Erika, ma Bernard Chu
gliel'aveva fermamente negata.
Zimmerman non era riuscito a disinnescare le testate. Newellen era del-
l'idea che Celeste McConnell non avrebbe mai dato l'ordine di far detonare
le testate ora che c'era della gente all'interno della struttura, ma dalla Terra,
misteriosamente, non proveniva alcun messaggio. Non ricevevano più
nemmeno le insistenti domande di Fukumitsu. Chu ne era contento: qual-
che distrazione in meno. Ma il fatto turbava Newellen.
Questa sua nuova idea lo agitava ancora di più.
«Bernard, ho qualcosa da farti vedere.»
Sorpreso, Chu si girò verso di lui; «Cosa?»
Newellen fece un cenno con la mano. «Vieni qui. Non mi crederai se
non vedi anche tu i calcoli.»
Chu sospirò e si diresse verso la workstation di Newellen, ma con gli
occhi sempre puntati sulle immagini bidimensionali dello schermo ologra-
fico trasmesse da Jason e Erika. «Buone o cattive notizie?»
«Dipende. Buone, nel senso che forse sono riuscito a dare una spiega-
zione per la maggiore parte della struttura. Cattive, nel senso che tutti e
quattro i nostri a Dedalo sono nella cacca fino al collo.»
«Dimmi tutto» disse Chu. Newellen notò la sua faccia sofferta.
«Bene. Poniamo che la struttura che assomiglia a un fiore sia una specie
di antenna parabolica. Deve avere qualche funzione, e questa sembra la più
probabile. Se serve per trasmettere delle onde elettromagnetiche allora de-
ve esserci un modo in cui le onde elettromagnetiche arrivano all'antenna.
Questa è una banalità.»
«Va bene» rispose Chu. «Ma io sono un biochimico.»
«In breve, ho fatto qualche calcolo per la progettazione di antenne e cre-
do che la galleria dove stavano Erika e Jason sia una specie di gigantesco
convertitore di modalità.»
Newellen si aspettava una qualche reazione di incredulità ma Chu era
solo perplesso «Un che?»
Newellen sospirò. «I convertitori di modalità prendono l'energia elet-
tromagnetica in una data forma spaziale e la convertono in un'altra. Nor-
malmente è meglio produrre le onde elettromagnetiche in un'unica modali-
tà ma per trasmettere il segnale è necessario convertirle in un'altra modali-
tà, o configurazione. Sono abbastanza convinto che le catacombe che ab-
biamo visto servano per la conversione di modalità.»
«Ma per quale motivo?»
«Potrebbe essere un modo di poter eseguire una modulazione fasica del-
le onde di frequenza, se sono coerenti.» Si fermò. «Forse Jason e Erika so-
no all'interno di un enorme amplificatore radiofonico. Se ci pensi, quella
membrana unidirezionale per le onde radiofoniche ha una sua ragione d'es-
sere: le frequenze radiofoniche possono uscire, ma non entrare. Dal mo-
mento che non ci sono frequenze in entrata le perdite all'interno della cavi-
tà vengono ridotte. È un vero amplificatore a diffrazione limitata.»
Chu ascoltava attento. Ancora non capiva, ma era preoccupato. «E se
l'accendono mentre sono ancora lì?»
Ora stava capendo finalmente! «Dipende dall'intensità. C'è una buona
probabilità che finirebbero arrostiti. Le tute offrono un certo grado di pro-
tezione ma le frequenze radiofoniche comunque si legano con il corpo u-
mano. Non è certo un luogo molto sicuro.»
Chu respirò a fondo. Si diede un'occhiata attorno, come se cercasse
qualche idea.
Newellen continuava a illustrare la sua teoria. Improvvisamente Chu
cominciò a sentire la fame. «Da quello che sono riuscito a capire in base
alle ultime immagini, quei cerchi costituiscono una sorta di congegno allo
stato solido, probabilmente utilizzato per creare le onde elettromagnetiche.
Si tratta solo di coniugare le fasi, e le misurazioni confermano l'ipotesi.»
Scrollò le spalle. «Ma è solo una teoria, naturalmente.»
«Naturalmente» disse Chu, aggrottando le ciglia pensando che era una
teoria di cui informare il Centro Controllo Missioni sulla Terra - che però
li aveva tagliati fuori senza alcuna spiegazione. «C'è qualcosa d'altro che
dovrei sapere?»
Newellen pigiò sulla tastiera con le dita grosse e apparve un altro insie-
me di calcoli. «Be', non riuscivo a capire da dove veniva l'energia per quel-
l'affare. Prima di tutto pensavo che, dato che il flusso neutrinico era così
alto, doveva esserci una specie di reattore a fusione all'interno. I sensori
neutrinici sono strumenti piuttosto balordi ma non fino a questo punto. I
dati registrati da Erika erano mille volte superiori al livello normale per un
reattore a fusione, oltre ogni margine di errore.»
Chu diede un'occhiata alle file di numeri ma, naturalmente, non avevano
alcun significato per lui. «E allora?»
«L'unica fonte di energia di cui ho conoscenza che potrebbe produrre un
flusso neutrinico di queste proporzioni è un reattore materia-antimateria.»
Qualcuno del centro di controllo fece un fischio. «Ma non è impossibi-
le?» chiese Chu.
«Anche la nanotecnologia sulla Luna è una cosa impossibile» rispose
Newellen.
Chu cercava di mantenere un atteggiamento di calma. «Quindi, proba-
bilmente, il congegno che abbiamo trovato sarebbe un reattore materia-
antimateria?»
In quel momento, Newellen ebbe un nuovo pensiero. «Se ciascuno delle
gallerie dovrebbe essere una guida per le frequenze, allora ci saranno altri
otto reattori come questo. Il segnale darà una botta come non se ne sono
mai sentite.»
Bernard Chu assunse l'espressione di qualcuno che deve ingoiare qual-
cosa di estremamente sgradevole. «Quindi Dvorak e la dottoressa Trace si
trovano nel bel mezzo di un enorme forno a microonde alieno?»
«Più o meno» rispose Newellen. «E non lo sanno nemmeno. E la cosa
peggiore è che le nanobestiole hanno terminato il loro lavoro e il trasmetti-
tore potrebbe accendersi da un momento all'altro.»
31.
Washington D.C. - Centro Controllo Missioni
Il generale Simon Pritchard sentì il sudore sulla mano che reggeva la pi-
stola d'ordinanza. Tutto era fermo e la tensione si tagliava col coltello.
Nel Centro Controllo Missioni l'attenzione dei presenti si alternava tra
lui, le immagini di Dvorak e di Erika Trace che esploravano le catacombe
di Dedalo e Celeste che riusciva a malapena a dissimulare il panico.
Celeste girò le spalle ad Albert Fukumitsu e si diresse verso uno dei
terminali a schermo piatto del Centro. Il tecnico che sedeva lì sembrava
pronto a scappare via.
«Iniziare la procedura per la detonazione dell'anello di testate» ordinò
Celeste. «Ho i codici di accesso. Non abbiamo alternative. Dobbiamo far
detonare le testate e finirla con quella cosa, una volta per sempre.»
Pritchard sentì un formicolio invadergli il corpo. Era stato stupido a non
capire che cosa aveva intenzione di fare e ora non sapeva come comportar-
si. Come poteva permetterle di fare una cosa del genere? La sua fiducia in
Celeste era implicita, o non era così?
Molti dei tecnici scattarono in piedi per protesta. «Aspettate un momen-
to» gridò Fukumitsu. Faceva fatica a trovare le parole. «Può dirci perché?
Sono qui dall'inizio della missione e fino a questo momento non è successo
nulla che si potrebbe definire una minaccia! Anzi, tutt'altro. Gli alieni a-
vrebbero potuto uccidere l'intero equipaggio a Columbus se avessero volu-
to farlo, con la loro infezione. Avrebbero potuto reagire quando Chu man-
dò la bomba improvvisata che aveva messo insieme. Ma non hanno fatto
alcuna mossa che si possa definire aggressiva. Nessuna.»
«Invece, ecco cos'hanno fatto.» Indicò lo schermo dove la Trace e Dvo-
rak stavano esaminando il reattore materia-antimateria. «Non abbiamo an-
cora la minima idea di che cosa si tratti e lei vuole schiacciare il bottone.»
Celeste gli gridò: «Perché lo so! Ho sempre saputo. Sapevo che fine a-
vrebbe fatto la Grissom, così come sapevo che ci sarebbe stato l'incidente
sulla Collins». Celeste si fermò prima di andare oltre. Pritchard la guardò
perplesso cercando di capire cosa volesse dire.
Celeste abbassò la voce. «Sta sbagliando, signor Fukumitsu. Non fa par-
te del suo lavoro mettere in dubbio i miei ordini. A partire da ora lei non è
più in servizio.»
Fukumitsu si alterò come se l'avesse colpito uno schiaffo, ma rifiutò di
muoversi. Celeste rivolse la propria rabbia contro il tecnico davanti a lei.
«Inserire la sequenza di comando, ho detto!» Lo cacciò dal posto e si se-
dette al pannello lavorando con l'interfaccia per chiamare una serie di me-
nù.
Pritchard si passò la pistola d'ordinanza da una mano all'altra e cercò di
rimanere immobile nonostante il conflitto che sentiva dentro di sé. Cosa
sta facendo? Ora che capiva un po' di più gli sembrava un'impresa insensa-
ta.
Si ricordò la notte della comunicazione di Bernard Chu dalla Collins, e
di come Celeste si fosse svegliata da una serie di incubi. Poi si ricordò la
strana storia di come lei da sola era riuscita a salvare l'equipaggio della
Collins perché, per qualche motivo, sapeva come portare tutti all'unico po-
sto sicuro nell'intera stazione. Una volta gli aveva detto che le sarebbe pia-
ciuto molto che lui le raccontasse i suoi sogni. Che intendesse "sogni" in
senso letterale?
Pritchard ebbe improvvisamente la spiacevole impressione che Celeste
McConnell, la potente direttrice della United Space Agency, prendesse le
più importanti, e spesso dubbie, decisioni in base ai propri sogni.
Pritchard si ricordò di quando avevano fatto l'amore quella stessa notte.
Celeste sembrava così disperata mentre si stringeva a lui. Era così piena di
energia erotica, come se fosse animata da fili carichi di elettricità. Ora vo-
leva usare sei testate per distruggere Dedalo ed eliminare ogni traccia della
struttura aliena.
Forse era intenzionata a farlo già dall'inizio. Dato che si trattava di testa-
te di antiquata concezione provenienti da riserve di sicurezza, non erano
stati adottati tutti i controlli e le pratiche burocratiche che avrebbero rallen-
tato la procedura. Ora non era più impossibile che qualcuno le facesse de-
tonare con una procedura d'emergenza nel caso che dalla costruzione alie-
na provenissero segnali che qualcosa di veramente disastroso stava per ac-
cadere.
Dato che le bombe sarebbero esplose non sulla Terra ma sul lato della
Luna opposto a quello dove si trovava la base Columbus, erano riusciti a
far approvare uno snellimento delle operazioni. Pritchard stesso vi aveva
contribuito.
Gli unici a possedere i codici d'accesso erano il Presidente degli Stati
Uniti e la direttrice della United Space Agency. Celeste aveva il diritto di
farle detonare, ma solo in caso di emergenza.
Ma era davvero un'emergenza?
La fronte di Pritchard era ricoperta di sudore. Non aveva capito l'enorme
portata della situazione. Era stato lusingato dalla gloria che improvvisa-
mente l'aveva investito, le conferenze stampa, le decisioni prese a livello
mondiale, l'improvviso prestigio dopo una vita dedicata alla carriera mili-
tare, un settore che in quell'epoca aveva poca importanza. Però, questo
momento non sembrava veramente l'apice di una carriera sfolgorante: di-
struggere il primo legame tra l'umanità e una razza aliena... a causa di un
brutto sogno.
Sullo schermo Dvorak e la Trace avanzavano all'interno della cavità me-
ravigliosa al di sotto della superficie lunare. Non avrebbe dovuto esserci
nessuno al momento dell'esplosione, pensò Pritchard. Ma ora due persone
erano là a esplorare la struttura; avevano osato fare quello che nessun altro
era disposto a fare. Bastava vedere quello che avevano già scoperto...
Come poteva permettere a Celeste di eliminarli a causa di un incubo?
Una macchia di senape, un frammento di patata non cotta a dovere: così si
sarebbe espresso Charles Dickens. E se Celeste aveva solo un vago presen-
timento di un disastro imminente, come poteva sapere che non sarebbe sta-
ta lei stessa a causarlo? E se gli incubi la stavano avvertendo di un pericolo
che con le testate non aveva niente a che fare? Forse Celeste non stava in-
terpretandoli nel modo giusto, ammesso che quei sogni significassero
qualcosa.
Poi Pritchard si ricordò di come Celeste si era svegliata urlando nel cuo-
re della notte, terrorizzata e bagnata di sudore. Sembrava veramente che
sapesse qualcosa. E sulla Grissom aveva avuto pienamente ragione...
Chinata sullo schermo, Celeste digitò la sequenza di detonazione. Il tec-
nico la guardava, il viso color cenere. Nessuno aveva voglia di contraddire
la direttrice, specialmente con il generale là con la pistola in mano.
«È l'unico modo. Ci salveremo» ripeteva Celeste sottovoce. «Credete-
mi.»
La seconda guardia tirò fuori la pistola e con tono formale ma intransi-
gente disse: «Mi dispiace, ma non posso permetterle di continuare, signora
McConnell. La prego di allontanarsi dal pannello. Immediatamente». Ce-
leste si girò verso la guardia lanciando uno sguardo gelido, con una smor-
fia di odio. Pritchard immaginò per un momento che Celeste si sarebbe
lanciata contro quella donna per disarmarla.
Sullo schermo davanti a Celeste, si vedeva un disegno schematico di
Dedalo con cerchi rossi che segnalavano le posizioni delle testate. Lam-
peggiavano delle lettere: era la richiesta di inserimento del codice di acces-
so. Il conto alla rovescia era stato fissato per un tempo di trenta secondi.
Pritchard puntò la pistola contro la guardia. Teneva gli occhi puntati su
di lei. «Sergente, le ordino di deporre la pistola. Ora.»
La guardia restò immobile. I suoi occhi incontrarono quelli di Pritchard
ma il generale non riuscì a decifrare nulla dallo sguardo di lei. Avrebbe
aperto il fuoco? Era convinta di quello che stava facendo? E lui?
Pritchard armò la pistola. «Sergente.»
Dopo una pausa agghiacciante, la guardia depose la pistola.
Celeste si rimise al lavoro e cominciò a inserire il complesso codice
d'accesso che avrebbe fatto detonare l'anello di testate.
Nell'oloschermo, Dvorak ed Erika erano fermi davanti a una struttura al-
ta e cristallina che emanava pulsazioni di luce colore blu scuro. Erika indi-
cava qualcosa con la mano.
Senza tradire alcuna emozione, Simon Pritchard si avvicinò al pannello
di Celeste e premette il grilletto, mirando ai controlli. Sparò tre volte.
Lo schermo scoppiò e frammenti di plastica, metallo e vetro volarono in
ogni direzione. Celeste barcollò indietro, con il viso e le braccia insangui-
nate.
«No!» gridò disperata. «Non capite!?» Gli occhi di Celeste incontrarono
quelli di Pritchard, colmi di rabbia incredula.
Poi, si udì un ronzio proveniente dagli altoparlanti di cui, tra gli echi de-
gli spari, nessuno si era accorto. Dopo qualche secondo divenne un rombo
assordante che spezzava i timpani.
«Sta arrivando su tutti i ricevitori!» gridò Fukumitsu.
Il segnale continuava a crescere di intensità come un temporale dentro
una bottiglia. Qualcosa di immensamente potente era stato trasmesso dai
grandi petali della costruzione di Dedalo.
«Tutti i canali bloccati» gridò un tecnico.
Pritchard esitò. Su uno degli oloschermi affissi sulla parete vide l'imma-
gine della struttura completa dell'antenna parabolica di Dedalo. Era un tra-
smettitore. L'enorme costruzione aveva il compito di mandare un messag-
gio attraverso l'intera Galassia, un messaggio indirizzato ai propri creatori
per informarli che i lavori erano stati ultimati. Era tutto pronto.
Ma per che cosa?
«È come un segnale di cessato allarme» disse Pritchard a se stesso. «Ora
dobbiamo aspettare la risposta.»
Tutti erano muti nel Centro Controllo Missioni. Pritchard trovò una se-
dia e si sedette. Poggiò la pistola su uno scaffale e chiuse gli occhi. Non
voleva guardare Celeste, non ora. Non l'avrebbe retto.
L'odore della polvere da sparo aleggiava nell'aria. Pritchard si chiese se
la storia l'avrebbe ricordato come un eroe o come un traditore. Tutto di-
pendeva dalla risposta che avrebbero dato gli alieni.
Celeste lo ignorava. Era caduta in ginocchio e perdeva sangue dalle lievi
ferite. Guardava il rosso del sangue che le copriva le mani ripetendo tra sé
e sé «Ora è troppo tardi, troppo tardi.»
32.
Base lunare Columbus
Bernard Chu aveva bloccato il canale di comunicazione con la Terra
mentre l'assordante rumore passava per gli altoparlanti del centro di con-
trollo. I tecnici rimasero al loro posto.
«Mettetemi in contatto con la cavalletta di Cyndi Salito sul Lato Oscuro!
Ora! Voglio una conferma che Cyndi e Zimmerman stanno bene.» Aveva
alzato la voce per sovrastare il mormorio del centro di controllo.
«Ah, Bernard» disse Newellen, cercando di interromperlo.
«Ho una risposta dalla Salito!» disse uno dei tecnici.
«Sentiamo! Voglio sapere che cosa è successo su Dedalo!»
«Bernard» disse di nuovo Newellen «Quel rumore non proviene dall'al-
tro lato. Il ripetitore L-2 l'ha preso come l'hanno preso anche i nostri stru-
menti, ma non viene da Dedalo.»
«Cosa vorresti dire, Lon?»
Si sentì la voce di Cyndi Salito. «Cosa diavolo è stato?»
«State bene?» chiese Chu. In quel momento, sembrava che tutti avessero
qualcosa da chiedergli e non sapeva rispondere a tutti.
«Qui tutto a posto. Non è successo niente. A parte quella trasmissione.»
«Bernard.» Era Newellen. «Ho localizzato la fonte. Quel segnale non
proviene da qui. Viene da Marte! È stato trasmesso da Marte!»
Chu non sapeva cosa dire, ma già si aprivano una serie di prospettive per
niente rassicuranti. Già, come si poteva pensare che il fenomeno fosse li-
mitato alla Luna? Se, come avevano suggerito Erika Trace e Jordan Parvu,
i costruttori alieni inviavano indiscriminatamente i loro automi attraverso
la Galassia alla ricerca di posti su cui atterrare e iniziare a costruire, non
era possibile che arrivassero solo sulla Luna. Perché non la stessa Terra?
La costruzione a Dedalo poteva benissimo essere solo un esemplare dei
monumenti in costruzione all'interno del Sistema solare né si poteva im-
maginare che fosse l'unica a essere completata.
Le nanomacchine di Dedalo avevano raddoppiato il ritmo per riparare il
danno causato dalla sua bomba di nitroglicerina e carburante per razzi. Ben
presto anche il trasmettitore di Dedalo avrebbe inviato il suo messaggio.
Pensò al paragone che Newellen aveva fatto con un enorme forno a micro-
onde. E poi si chiese se ora Celeste avrebbe schiacciato il bottone.
Chu batté le mani. «Bene, ora ascoltatemi. Dottoressa Salito, Zimmer-
man, portate quella cavalletta via da lì. Lasciate il cratere. Ora! Allontana-
tevi. Tenetevi a una distanza sicura.»
Arrivò improvvisamente la voce della Salito. «Ehi! Il sensore sismico.
Sta succedendo qualcosa qui.»
«Un Luna-moto?» chiese Bryan Zimmerman.
«Se non sbaglio, è l'antenna che si muove.»
Chu era impaziente. «Cyndi, Bryan, mi avete sentito? Muovetevi! Tene-
tevi a distanza di sicurezza.»
Gli operatori al centro di controllo si erano raggruppati attorno a Chu.
Alla fine, dopo una pausa che era durata anche troppo, sentirono la voce di
Cyndi.
«Non ci piace l'idea di lasciare Jason e Erika lì dentro. Sappiamo che so-
no ancora vivi.»
Chu incrociò le braccia magre sul petto. «Dottoressa Salito, se si trovas-
sero all'interno della cavità radiofonica quando inizieranno queste trasmis-
sioni rimarranno uccisi dall'energia irradiata. E farete la stessa fine anche
voi, se non sarete schermati. Bene che vada, tutta la strumentazione sulla
cavalletta sarà cortocircuitata dall'interferenza elettromagnetica. Non ab-
biamo un'altra cavalletta per venire a prendervi. Avete capito?»
La voce di Bryan Z. non lasciò trapelare alcuna emozione.
«Signore, non crede che dovremmo andare a prenderli?»
Maledizione, Chu era stanco di questo esasperato protagonismo. «No!
Quattro perdite insensate sono peggio di due. Andatevene da lì. È un ordi-
ne!»
«D'accordo» rispose infine Zimmerman.
Dopo qualche istante, la cavalletta decollò e quando puntò le telecamere
panoramiche sul complesso alieno nel cratere Dedalo, tutti videro che gli
enormi pannelli vitrei della parabolica stavano lentamente girando su se
stessi.
33.
Costruzione di Dedalo
34.
Costruzione di Dedalo
Jason quasi non riusciva a sentire la propria voce. «Erika?» Il suono era
attutito, come se provenisse da lontano, come se il casco fosse pieno di
vecchi calzini. La radio non trasmetteva altro che scariche elettrostatiche.
Nessuna risposta.
«Erika? Mi senti?» Pensò per un momento che il trasmettitore della tuta
si fosse rotto. Il monitor interno gli confermava che erano saltati due fusi-
bili ma che, risolto il problema, l'apparecchio avrebbe funzionato nuova-
mente. Ce n'era un altro di riserva, se occorreva. Perlomeno il sistema di
alimentazione non era stato compromesso dall'intensità del segnale alieno.
Ma Erika?
«Cos'è successo?» La voce di Erika sembrava filtrata da uno spesso stra-
to di cotone.
«Un segnale» rispose mentre cercava di stabilire il nuovo circuito, che
ora passava per i fusibili di riserva. «Una nuova base aliena che annuncia
che è completata. Pronta per l'uso.» Era l'unica tesi credibile.
«Mio Dio, che sarebbe successo se fossimo rimasti nella camera? Qui
almeno eravamo schermati...»
Jason mosse la mascella nel tentativo di schiudere le orecchie. «Il ripeti-
tore che abbiamo lasciato lassù ora sarà in orbita.»
«Chissà se Cyndi e Bryan stanno bene. Se erano là fuori ad aspettarci...»
Jason sentì salire l'angoscia. «Speriamo abbiano avuto qualche preavviso
e abbiano trovato riparo da qualche parte. Forse si staranno chiedendo la
stessa cosa di noi.»
Erika si guardò attorno puntando il faro sulla costruzione aliena. Esami-
nò l'edificio dal quale erano usciti. Nessuno dei due sapeva cosa dire.
Jason vide strane forme architettoniche che si innalzavano dal pavimen-
to. Nell'ombra, alcune sembravano grottesche. Altre sembravano fragili,
affusolate, come se fossero state progettate per un pianeta con una gravita-
zione ben più debole di quella terrestre.
«Non ci capisco ancora nulla» disse Jason finalmente. «Qui c'è un'intera
città e niente... adulti. Dove sono i costruttori? E da dove sono venuti que-
sti embrioni? Che ci sia un qualche tipo di astronave o di razzo che non
abbiamo ancora trovato?»
Dietro la visiera, Erika scosse la testa. «No, Jase. Nessun razzo di grandi
dimensioni. Se la teoria regge, i costruttori hanno sparato questi automi at-
traverso il cosmo come le pallottole di un fucile da caccia. Stormi di na-
nomacchine che possono essere accelerate fino alla velocità della luce.
Nessun razzo potrebbe raggiungere una tale velocità senza rimanere dan-
neggiato e senza portarsi dietro tonnellate di carburante. Non sembra il
modo di pensare dei costruttori alieni. Le nanobestiole hanno fatto tutto il
lavoro da qui.»
«E come hanno fatto gli embrioni ad arrivare sulla Luna?» chiese Jason.
«Da qualche parte sono pur dovuti arrivare. O pensi che le nanobestiole
abbiano creato anche loro?» Si fermò sorpreso dai suoi stessi pensieri. «Mi
sembra magia nera, Erika; nanotecnologia che costruisce delle cose a livel-
lo molecolare. Una cosa sono i ponti, i dischi parabolici, i generatori.
Dammi i materiali e gli strumenti e te lo faccio pure io. Ma organismi vi-
venti, che respirano, con cellule funzionanti? L'informazione nel DNA è
miliardi di volte più complicata.»
Jason vide Erika che agitava la luce attorno a sé. Da dietro non riusciva
a comprendere i gesti di lei dentro la tuta. Erika si allontanò dall'incubatri-
ce di qualche passo e si diresse verso una serie di torri.
Il pavimento del grande vano era cosparso di oggetti che non sembrava-
no avere né un ordine né una funzione particolare. Giardini con piante che
assomigliavano a ciuffi, alberi meccanici, arcate che invece di finire la pa-
rabola galleggiavano nel vuoto.
Camminarono intorno alle forme che sorgevano dal terreno. Triangoli
solidi inclinati di lato, grandi sfere in cima a sottili pali e pannelli che e-
mergevano dalle strutture principali ad angoli apparentemente casuali.
Erika si fermò infine davanti a un arco trapezoidale che risplendeva di
archi color porpora. Portava a un'altra galleria che sembrava infinita. Dopo
un momento di esitazione oltrepassò l'arco.
All'interno della galleria passarono a lato di un colonnato, fatto dello
stesso materiale duro come il diamante, che terminava oltre la portata dei
raggi di luce di Erika. Jason pensò all'antico Partenone.
Erika indicò le protuberanze sulla superficie di ogni colonna che sem-
bravano cubi-dati plurisfaccettati. Jason toccò uno degli oggetti delle di-
mensioni di un pugno chiuso. Lo staccò facilmente dalla colonna e lo girò
sopra il guantone. «Credo che sia "Buckminster Fullerene", un'enorme mo-
lecola di carbone. Le più grandi che siamo riusciti a produrre noi sono a
malapena visibili sotto ingrandimento. Questo affare è incredibile.» Jason
lo mise nella tasca per campioni della tuta. «Che serva per immagazzinare
informazioni? Mi chiedo se questo posto sia una biblioteca.»
Jason non sentiva più la paura che avevano provato appena prima della
trasmissione. C'era una specie di serenità ora... Sapeva che qualunque cosa
fosse successa non sarebbero stati sopraffatti dagli avvenimenti. Non dopo
tutto quello che avevano visto.
Esplorarono gli altri edifici, trovando sempre la stessa porta che si apriva
dilatandosi su una parete. In una struttura scoprirono una serie di oggetti
che sembravano attrezzi da palestra. Una sala per riunioni? Una scuola?
Alla fine Erika osservò: «Penso che non siamo in grado nemmeno di
provare a indovinare a che cosa dovrebbe servire ma ho l'impressione che,
quando crescono questi embrioni avranno già tutto pronto per affrontare la
vita».
Dietro il bordo del cratere Cyndi Salito sospirò mentre Bryan Z. sosti-
tuiva un altro fusibile. Stava litigando con Bernard Chu quando anche l'ul-
timo fusibile era saltato, ma ora sarebbe stato possibile rimettersi in contat-
to.
«Dottoressa Salito, mi sente?» La voce di Chu era disturbata. Zimmer-
man non aveva ancora ripristinato i circuiti del contatto video.
«Chu, mi ascolti. Ora andiamo a prenderli, e non importa quello che dice
lei. Giusto, Bryan?»
«Giusto.»
«Forse le conviene darci la sua benedizione. Se dobbiamo disubbidirle
davanti a tutti sarà lei che farà la figura del fesso, non le pare?»
Cyndi tamburellò le dita sul pannello di controllo. Quando Chu rispose
era come se vedesse davanti a lei il suo viso irato.
«Un'ora al massimo. Tenetevi costantemente in contatto. Uno di voi ri-
mane sulla cavalletta mentre l'altro scende. Seguite il cavo di fibre ottiche
fino a dove potete e fate attenzione che l'antenna non trasmetta una secon-
da volta.» Poi la voce si calmò. «Speriamo tutti che li troviate.»
«Va bene.» Cyndi si rivolse a Zimmerman «Allora chi va? Facciamo te-
sta o croce?»
Zimmerman grugnì. Cyndi sorrise. Qualsiasi altra risposta le avrebbe
fatto capire che c'era qualcosa che non andava.
EPILOGO
Jason era nella cabina trasmissioni della base lunare Columbus. Non riu-
sciva a evitare di sorridere. I suoi due figli, Lacy e Lawrence, cercavano in
tutti i modi di entrare nel campo visivo e ridevano. Entrambi avevano ca-
pelli neri e ricci. Margaret li aveva vestiti con due tute colorate identiche.
«Ti abbiamo visto sulle newsnets, papà» disse Lawrence agitatissimo.
Lacy provò a dire la frase più volte prima che le riuscisse bene. «Ma ci
sei andato davvero in quel posto? Non avevi paura?»
«Sì, ci sono andato, e sì avevo un po' di paura. Sarò lì a lavorare per un
bel po' ora. Ci sono molte cose che dobbiamo ancora vedere.»
«Salutate papà ora» disse Margaret mentre con fare protettivo appoggia-
va le mani sulle spalle dei figli. Lo salutarono e Margaret occupò il campo
visivo. Fissò Jason silenziosamente per un momento. Molto più a lungo di
quanto non richiedesse il ritardo di trasmissione.
Margaret gli sembrava una persona estranea. Si ricordava, ma con di-
stacco, che la trovava ancora molto attraente ma non riusciva a collegare
quella sensazione con i sentimenti che una volta provava per lei. Com'era
possibile passare dall'amore all'indifferenza in così breve tempo? Non riu-
sciva a capirlo nemmeno lui.
«Forse ti sembrerà poco, Jase... Jason, ma hai fatto un cosa molto impor-
tante lassù. L'ho capito, sai.» Fece una smorfia che la fece sembrare dieci
anni più anziana. «Mi dispiace che le tue priorità siano queste ora, e non
noi.»
Jason rimase inespressivo. Lei voleva questo, voleva scuoterlo almeno
un po'. Con Margaret non c'era modo di avere la meglio. Doveva accettar-
lo. La cosa migliore era non accettare la provocazione. Lasciare che cades-
se nel vuoto.
E così fece.
Erika seguiva da vicino Jason mentre facevano jogging sulla pista della
base Columbus. Cominciava a sentire la stanchezza e il sudore le faceva
aderire la tuta alla pelle. Non aveva ancora il fiatone nonostante avessero
già percorso venti chilometri.
Sembrava che stessero planando nella bassa gravità. Le si stringeva il
cuore quando pensava alle meraviglie ancora da scoprire su Dedalo. «A
volte è perfino troppo, quando ci penso.»
Erika diede un'occhiata a Jason per vedere che espressione aveva. Sape-
va che stava di nuovo pensando alla sua ex-moglie e non a Dedalo. Disse:
«Almeno i miei figli sono fieri di me».
«Anch'io lo sono» disse Erika. Accelerò e, sorprendendolo, lo raggiunse.
Ora toccava a Jason allungare il passo.
Jason continuò a parlare. A volte aveva bisogno di sfogarsi. «Non so co-
sa fare con Margaret, le ho provate tutte. Mi domando se ne vale la pena.»
Erika scrollò le spalle. «Ad alcune persone non piacciono le sfide. Ho
l'impressione che lei sia una di quelle. Ma io e te abbiamo una grossa sfida
dinanzi, su Dedalo.»
«E molto da aspettare» disse Jason.
«A me va bene. Ecco perché mi piacciono gli uomini più maturi.»
«Eh? Perché?»
Erika sorrise tra sé e sé. «Perché sono pazienti» gli disse superandolo.
Ridendo, si lanciarono insieme verso il traguardo.
Titolo originale:
Assemblers of Infinity
Analog Science Fiction and Fact,
September, October,
November, December 1992
GEORGIA ON MY MIND
di Charles Sheffield
Gli eventi si erano succeduti con un ritmo sempre più vorticoso, come se
tutto dovesse concludersi nel giro di poco tempo. Ma proprio nel momento
in cui io e Bill avremmo voluto accelerare al massimo, le cose iniziarono a
procedere con grande lentezza.
In retrospettiva, posso dire che si trattava solo di una nostra impressione.
Rispetto a quel che avviene normalmente, stavamo ottenendo risultati con
una rapidità spettacolare.
Per esempio Gene riuscì a trovare un algoritmo in meno di una settima-
na. Doveva ancora perfezionarlo, e soprattutto renderlo ottimale per l'ela-
borazione in parallelo, ma non aveva senso aspettare prima che iniziasse la
programmazione. Bill nel frattempo era arrivato dalla Nuova Zelanda, e
andammo entrambi nel Massachusetts. Nel giro di dieci giorni avevamo un
programma operativo, e la banca dati geografica era on-line.
Effettuammo il primo lancio sulla macchina di connessione quella sera
stessa. Fu un successo, se per "successo" intendiamo che non fu un fiasco,
ma non riuscì a produrre nessun massimo chiaramente definito.
Iniziò così la fase noiosa. Per i parametri di input che ritenevamo incerti,
dovevamo considerare tutti i domini accettabili, in tutte le loro possibili
variazioni. Naturalmente avevamo impostato il programma in modo che
eseguisse questa variazione parametrica automaticamente, e passasse al
caso successivo se la forma della soluzione non era soddisfacente. E natu-
ralmente non riuscivamo ad allontanarci dal computer. Volevamo vedere i
risultati di ogni lancio, essere presenti quando - o se - appariva finalmente
il risultato che cercavamo.
Per quattro lunghi giorni non emerse nulla di appena un po' incoraggian-
te. Tutti i massimi calcolati erano irrimediabilmente ampi e insufficiente-
mente definiti. Continuammo a stare attaccati al computer, sparendo solo
per brevi sonnellini e pasti frettolosi. Sembrava che fossimo tornati ai tem-
pi della nostra giovinezza, quando l'unico modo per aggiustare i program-
mi era intervenire manualmente. Mentre lavoravo nel cuore della notte a-
vevo l'impressione di essere a un incrocio strano fra diverse generazioni di
computer. Eravamo là, a lavorare come avevamo fatto tanti anni prima, ma
stavolta stavamo utilizzando la macchina più avanzata del momento in una
strana ricerca del suo primo antenato.
Dovevamo essere una gran seccatura per gli operatori, a forza di vederci
rimuginare sui dati in entrata e perdere la pazienza su quelli in uscita, ma
nessuno disse mai una parola scortese. Dovevano avere intuito, dalle voci
vaghe che circolavano, o direttamente dal nostro comportamento, che tutti
quei calcoli dovevano avere a che fare con qualcosa di molto importante.
Ci incoraggiavano a fare delle pause per mangiare e per dormire, e sem-
brava quasi inevitabile che quando dalla frenetica attività elettronica della
macchina di connessione sarebbe finalmente apparso il risultato che io e
Bill avevamo aspettato così a lungo, né io né lui saremmo stati lì a vederlo.
La telefonata giunse alle otto e mezza del mattino. Eravamo usciti un'ora
prima, e stavamo facendo colazione esausti al Royal Sonesta Motel, non
lontano dall'impianto.
«C'è qualcosa che vorrei mostrarti» disse con voce esitante l'operatore di
turno. Ci aveva visto demoralizzati un mucchio di volte dopo aver guarda-
to i risultati, e non voleva destare false speranze. «Uno dei lanci mostra un
picco. Veramente netto e definito.»
Avevano dedotto quello che stavamo cercando. «Stiamo arrivando» dis-
se Bill. Lasciammo la colazione a metà - cosa alquanto rara per noi due - e
facemmo il tragitto in macchina senza riuscire a spiccicare parola.
I risultati del lancio corrispondevano esattamente a quanto indicato dal-
l'operatore. La funzione bidimensionale di densità di probabilità consisteva
in un insieme di bellissime ellissi concentriche che circondavano un unico
punto della terraferma. Avremmo potuto controllare le coordinate sulla
banca dati geografica, ma avevamo troppa fretta. Bill si era portato dietro
da Auckland un atlante, e l'aveva piazzato nella stanza del computer. Ora
lo stava sfogliando rapidamente, cercando la latitudine e la longitudine de-
finite dall'output del lancio.
«Dio mio!» esclamò dopo qualche secondo. «È la Georgia del Sud.»
La Georgia del Sud! Com'era possibile che i Derwent avessero avuto
una meta così assurda, nel sud degli Stati Uniti? Dopo la mia prima rea-
zione di sconcerto, vidi dove Bill teneva il dito.
L'isola della Georgia Australe. L'avevo appena sentita nominare. Era una
strisciolina di terra nell'estremo sud dell'oceano Atlantico.
Bill naturalmente sapeva già un mucchio di cose su di essa. Mi era già
capitato di notare che, stranamente, la gente che vive a sud dell'equatore
conosce la geografia del proprio emisfero molto meglio di quanto noi co-
nosciamo quella del nostro. La spiegazione di Bill, secondo cui c'è molta
meno terra da conoscere, mi sembrò sensata ma non completamente con-
vincente.
Non importava molto, comunque, perché nel giro di quarantotto ore an-
ch'io sapevo sulla Georgia Australe tutto quello che c'era da sapere. Che
non era molto. Il Sacro Graal che io e Bill avevamo cercato così dispera-
tamente era un'isola desolata, lunga meno di duecento chilometri e larga
una quarantina. C'erano montagne altissime, che raggiungevano quasi i
tremila metri e si affacciavano sul mare in ammassi terrificanti di rocce e
di ghiacciai. Non sarebbe stato giusto dire che l'interno era privo di inte-
resse, poiché nessuno si era mai preso la briga di esplorarlo.
La Georgia Australe aveva conosciuto il suo breve momento di gloria al-
la fine del secolo scorso, quando aveva funzionato come base per i bale-
nieri dell'Antartide, ma persino allora solo la zona costiera era abitata. Nel
1916 Shackleton con un manipolo dei suoi uomini effettuò un disperato
ma riuscito attraversamento delle montagne dell'interno, allo scopo di cer-
care soccorsi per il resto dei membri della sua spedizione transantartica,
che si era arenata. L'operazione fu ripetuta solo nel 1955 da una squadra di
ricognizione inglese.
La storia dell'isola finiva qui. L'unica industria era quella baleniera. Con
il suo declino, le città di Husvik e Grytviken erano decadute fino a scom-
parire, e la Georgia Australe era tornata a essere quello che era prima, un
avamposto ai limiti della civiltà.
Non erano tuttavia questi i motivi che avevano spinto Bill Rigley a gri-
dare "Dio mio!" quando il suo dito si era fermato sulla Georgia Australe.
Era scioccato per la posizione. L'isola è situata nell'oceano Atlantico, a 54
gradi di latitudine sud. È distante undicimila chilometri dalla Nuova Ze-
landa, o dall'avamposto invernale degli Eteromorfi, sull'isola di Macquarie.
E non erano undicimila chilometri normali, con venti moderati e su facili
rotte mercantili.
«Pensa al dilemma che dovette affrontare Derwent» disse Bill. «O anda-
va verso ovest, a sud dell'Africa e attraverso il Capo di Buona Speranza. È
la via lunga, sedicimila o diciottomila chilometri, sempre contro venti for-
tissimi. Oppure poteva andare verso est. Questa rotta sarebbe stata più cor-
ta, forse solo undicimila chilometri, la maggior parte dei quali con il vento
a favore. Ma avrebbe dovuto attraversare il Pacifico meridionale, e poi
passare lo Stretto di Drake fra Capo Horn e l'Antartide.»
Capii meglio cosa intendeva Bill dopo che mi fui documentato un po'. I
mari del sud compresi fra il quarantesimo e il cinquantesimo grado di lati-
tudine oggi non fanno più paura, ma cento anni fa erano una leggenda fra i
navigatori, una regione di tempeste feroci, onde mostruose, venti fatali. Il
punto peggiore era lo Stretto di Drake. Eppure era proprio la terribile rotta
orientale che aveva scelto Luke Derwent. Era la più breve, e lui era un
uomo in gara contro il tempo.
Mentre io facevo le mie letture, Bill studiava piani di viaggio.
Saremmo andati nella Georgia Australe? Naturalmente sì, anche se qual-
siasi considerazione razionale mi portava a credere, più fortemente che
mai, che non avremmo trovato nulla là. Luke e Louisa Derwent non erano
mai giunti a destinazione. Erano morti, così come tanti prima di loro, nel
tentativo di superare quel terribile stretto a sud di Capo Horn.
Non c'era nulla da scoprire nella Georgia Australe, e lo sapevamo. U-
gualmente prosciugammo i nostri risparmi, e Bill mise a punto la spedizio-
ne. Saremmo andati in aereo fino a Buenos Aires, e di lì alle isole Fal-
kland. Gli ultimi millecinquecento chilometri fino alla Georgia Australe li
avremmo fatti per mare, trasportando il piccolo aereo da ricognizione bi-
posto il cui assemblaggio finale doveva essere effettuato sull'isola stessa.
Conoscevamo già le caratteristiche topografiche della Georgia Australe
a menadito. Avevo ordinato un paio di fotografie dell'isola effettuate da un
satellite, ottime immagini nitide, senza nuvole, con una risoluzione pari a
dieci metri. Le studiai accuratamente, segnando le anomalie che volevamo
indagare.
Bill fece lo stesso. Ma a quel punto, stranamente, le nostre priorità co-
minciarono a divergere. Il suo obiettivo era la macchina analitica, che era
al centro dei suoi pensieri da diversi mesi. Aveva scritto un rapporto com-
pleto e dettagliato della sequenza di eventi che avevano condotto alle sue
scoperte in Nuova Zelanda prima, e alle nostre ricerche assieme poi; in es-
so descriveva inoltre l'ubicazione e le caratteristiche di tutti i materiali ri-
trovati a Little House. Spedì copie di tutto, con tanto di data, firma e sigil-
lo, alla sua università, al British Museum, alla Library of Congress negli
Stati Uniti, e alla collezione Reed, contenente libri e manoscritti rari, situa-
ta presso la biblioteca pubblica di Dunedin. La scoperta della macchina
analitica - o anche solo di una parte di essa - avrebbe convalidato in manie-
ra inoppugnabile quanto documentato nel rapporto.
E io? Anch'io volevo trovare le prove della macchina analitica, e ancor
più quelle dell'esistenza degli Eteromorfi. Ma al di là di questo, i miei pen-
sieri correvano incessantemente a Luke Derwent, e alla sua ricerca del
"grande forse".
Aveva detto a Louisa che avrebbero intrapreso quel viaggio per portare
il Cristianesimo al popolo amante del freddo; ma io sapevo che le cose non
stavano così. Nel profondo del suo cuore aveva un'altra motivazione, più
egoistica. Molto più della conversione degli Eteromorfi, gli importava ave-
re accesso ai loro grandi poteri curativi. Perché altrimenti avrebbe portato
con sé, a scopo di scambio, il meraviglioso congegno di Louisa, "straordi-
nario per quest'epoca e per qualsiasi altra", un calcolatore che sembrava un
ammasso di ferraglia, per un popolo che possedeva macchine così piccole
e potenti da funzionare come traduttori portatili?
Potevo immaginare perfettamente cosa avesse provato Luke Derwent, in
quegli ultimi giorni prima di intraprendere il suo viaggio verso est. La
donna della sua vita stava per morire, e lui era disperato. Sarebbe stato di-
sposto a rischiare la morte nei tempestosi mari del sud per la speranza di
salvarla? Sarebbe stato disposto a sacrificare se stesso, tutto il suo equi-
paggio, e la sua stessa anima, per una probabilità su mille che lei guarisse?
Esiste qualcuno che sarebbe disposto a correre un rischio simile?
Ho una risposta a questi interrogativi. Chiunque correrebbe questo ri-
schio, e si considererebbe benedetto dagli dei per averne avuto la possibili-
tà.
Voglio trovare la macchina analitica nella Georgia Australe, e voglio
trovare gli Eteromorfi. Ma soprattutto voglio trovare le prove che Luke
Derwent riuscì nella sua ultima, temeraria impresa. Voglio trovare Louisa
Derwent, congelata ma viva nei ghiacciai perenni dell'isola, in attesa di es-
sere riportata in vita e guarita.
Ho l'opportunità di verificare quanto possa essere benevola la vita. Tra
appena due giorni, infatti, io e Bill partiremo per il sud alla ricerca di que-
ste prove, alla ricerca del nostro "grande forse".
Ma proprio ora, all'ultimo momento, quando tutto ormai è pronto, gli e-
venti hanno preso una piega più complicata. E non sono sicuro se quanto
sta accadendo ci sarà d'aiuto o d'intralcio.
Tornato a Christchurch, Bill si era preoccupato per quello che avrei detto
alla gente a cui chiedevamo aiuto negli Stati Uniti. Gli dissi che avrei rive-
lato il meno possibile, e mantenni la parola. A ciascuno raccontai solo una
piccola parte della storia, e i gruppi principali coinvolti in questa impresa
erano separati da un intero continente.
Ma le persone con cui avevamo a che fare erano fra le più intelligenti del
mondo. E la distanza fisica oggi non significa nulla; la gente comunica co-
stantemente attraverso le reti computerizzate. Da qualche parte, nelle pro-
fondità vorticose di GEnie, o attraverso la ragnatela invisibile di un'Ether-
net, qualcuno ha fatto il collegamento giusto. Da lì sono iniziate inevita-
bilmente le chiacchiere.
Bill ne è venuto a conoscenza quasi per caso, discutendo con un agente
di viaggio i voli per Buenos Aires. Da allora mi sono tenuto sistematica-
mente aggiornato.
Non siamo i soli a dirigerci verso la Georgia Australe. So dell'esistenza
di almeno altri tre gruppi, e scommetto che ce ne sono molti di più. Sem-
bra che metà del laboratorio di intelligenza artificiale del Massachusetts
Institute of Technology sia in partenza. Lo stesso si può dire di una frazio-
ne consistente del dipartimento di informatica di Stanford, con rinforzi da
Lawrence-Berkeley e Lawrence-Livermore. Ed è facile prevedere che nel
sud della California sia stato attivato un gruppo con base a Los Angeles.
Niven, Pournelle, Forward, Benford e Brin sono irreperibili. Una parte dei
membri del JPL sono misteriosamente scomparsi. Altri scienziati e scrittori
in ogni parte del paese non rispondono al telefono.
Cosa stanno facendo tutti quanti? Non è difficile indovinare. Stiamo par-
lando di individui dalla curiosità sconfinata, e che dispongono di notevoli
risorse finanziarie. Conoscendo il loro stile, non mi sorprenderei se rimet-
tessero a nuovo la Queen Mary, ancorata a Long Beach, per poi fare rotta
verso sud.
Ma anche loro, come tutti gli altri, avranno fretta e prenderanno l'aereo.
Nessuno vuole perdere quest'occasione. Stiamo parlando di quelli, non di-
mentichiamolo, che non hanno esitato a precipitarsi a Pasadena per vedere
le immagini dei pianeti riprese dal Voyager, o nelle Hawaii o in Messico
per assistere a un'eclissi totale di sole. Ci credete che si lascino sfuggire
l'opportunità di assistere alla scoperta più grande del secolo, anzi, della
storia? E non solo di assistervi, ma forse addirittura di prendervi parte?
Piomberanno sulla Georgia Australe a decine, a centinaia, con i loro poten-
ti computer portatili e i loro terminali GPS e i loro aerei privati e i loro a-
vanzatissimi strumenti di rilevazione?
La logica dirà loro, così come a me, che non troveremo proprio niente.
Luke e Louisa Derwent sono morti da un secolo, sepolti nel profondo delle
acque gelide dello Stretto di Drake. Con loro, se mai è esistita, giacciono i
resti arrugginiti della macchina analitica di Louisa. Gli Eteromorfi, se mai
vissero veramente nella Georgia Australe, se ne sono andati da un pezzo.
Tutto questo lo so, e lo sa anche Bill. Ma comunque vada, io e Bill parti-
remo. E così faranno gli altri.
E comunque vada, so un'altra cosa. Dopo che saremo passati noi, e l'orda
potente, curiosa, geniale e comprensiva che ha seguito le nostre tracce, la
Georgia Australe non sarà mai più la stessa.
Il suo schermo era leggermente sbilanciato sul verde. I rossi erano smor-
zati e la faccia del dottor Herrera sembrava striata di cioccolata. Ginnie E-
rickson rivolse lo sguardo verso il robot di vigilanza accovacciato di fianco
a lei e collegato alla sua workstation. «Fermala, per favore.» L'immagine si
fissò. Batté alcuni tasti finché il sangue non divenne di colore rosso vivo.
«Dimezza la velocità.» La testa di Herrera si mosse leggermente in avanti
come se stesse cercando di scrutare attraverso gli occhi strappati dalle or-
bite e cominciò a sprofondare sulla sedia. «Riduci a un quarto la velocità.»
Il punto di vista continuò a spostarsi convulsamente finché Ralph Herre-
ra non ebbe riempito lo schermo. La diagnosi - pressione sanguigna e pol-
so - scorreva sotto l'immagine dello scienziato agonizzante. Le misurazioni
venivano prese dal robot che si era temporaneamente trasformato in una
macchina cuore-polmone che, applicata al sistema circolatorio di Herrera,
gli ossigenava il sangue.
Troppo tardi. Il cervello era spappolato dallo stesso punteruolo da ghiac-
cio che gli aveva trafitto gli occhi. Il robot di vigilanza non era fornito di
EEG, cosa che gli avrebbe permesso di registrare la morte cerebrale del
suo paziente, risparmiandogli un bel po' di lavoro.
«Stop» disse Ginnie. Nella memoria del robot non vi era niente di parti-
colarmente interessante se non l'arrivo di Drobisch, il capo delle guardie di
sicurezza, giunto dieci minuti più tardi. Avrebbe potuto continuare con lo
scorrimento veloce, ma Drobisch era lì dietro di lei. Aveva già visto quella
parte. La registrazione digitale mostrava il suo arrivo precipitoso, camicia
fuori dai pantaloni e fucile in mano, poi lui che si chinava sul cadavere di-
cendo: «Cazzo, accidenti a te Herrera, se questo mi costerà il lavoro...»
Non le sembrava opportuno andare avanti fino a quel punto.
«Allora, cos'ha che non va questa stupida macchina?» domandò Dro-
bisch.
«Non lo so, mi lasci un po' di tempo.»
«Tempo? Tempo?» Ginnie sospettava che quell'uomo avesse delle cono-
scenze da qualche parte; era l'unica spiegazione possibile al fatto che un
cretino come lui avesse ottenuto quel posto.
«È una stupida, complicatissima macchina.» Poi si girò verso il robot.
«Sei una macchina complicata, vero?»
«Sì» disse il robot con quella sua gradevole voce proveniente da un alto-
parlante situato nel petto. Aveva conosciuto il ragazzo che aveva pro-
grammato il suo modulo vocale, diceva di averci impiegato una settimana,
ma ne era valsa la pena: era così piacevole all'orecchio che era uscita per
due mesi con il padrone di quella voce. L'unica cosa che la indispettiva era
che in sei anni di lavoro sui robot nessuno avesse mai pensato di proporre
la sua voce come modello.
«E allora la semplifichi» disse Drobisch. «Questa stupida macchina dice
che Herrera è entrato, si è seduto e improvvisamente si è trovato addosso
sangue e bulbi oculari. Non è altro che denaro buttato. La compagnia non
se ne fa niente finché non scopriamo cos'è che non funziona.»
«Sì, però il mio collo è già abbastanza caldo, grazie» disse Ginnie. Dro-
bisch la fissò. «Potrebbe smetterla di alitarci sopra per un po'? Comincia a
prudermi.»
«Va bene, ci starò attento.»
«Allora perché non mi dice come mai è la Compagnia che sta facendo le
indagini sul caso? Perché non lo lascia fare alla polizia?»
«Sono affari della Compagnia.»
«Ma su cosa diavolo stava lavorando? Perché gli avevano assegnato ad-
dirittura un robot di vigilanza?»
«Lasci perdere, signorinella, sono informazioni riservate.»
«Potrebbe servirmi a scoprire chi ce l'avesse con lui.»
«Non sono affari suoi. Il suo lavoro è capire cosa non funzioni in questo
stupido robot. Punto. Quindi si dia da fare.»
Fece scorrere in avanti la memoria del robot mentre mostrava il tentativo
totalmente inutile di tenere in vita Herrera. Drobisch, chiaramente imba-
razzato, se ne andò prima che arrivassero le immagini della sua entrata in
scena. Ginnie aveva di nuovo l'ufficio tutto per sé.
Si stiracchiò, sospirò e disse al robot: «Ricominciamo da capo. Venerdì
notte, ore undici».
Quattro ore più tardi non aveva ancora cavato un ragno dal buco. Le
domande fatte al robot e l'esame della sua memoria visiva avevano portato
a un unico risultato: un terribile mal di testa. Si appoggiò alla scrivania
flettendo i polsi indolenziti.
«A parte Herrera, quando è uscita dal laboratorio l'ultima persona?»
«Ore venti, quarantasei minuti e diciassette secondi» disse il robot.
«Era Jane Yonamura?»
«Sì.»
«Da quel momento fino all'arrivo di Drobisch, undici e ventisei, non c'è
stato nessun altro nel laboratorio, a parte il dottor Herrera?»
«Esatto.»
«Herrera sembrava nervoso?»
«Per favore definisci contestualmente il termine "nervoso".»
«Ha fatto qualcosa di insolito in quel lasso di tempo?»
«È morto.»
Ginnie sorrise: un programma che la prendeva alla lettera. Altri riusci-
vano ad antropomorfizzare il robot, nonostante la sua somiglianza con un
bidone dell'immondizia pieno di arti meccanici e altre protuberanze; lei era
consapevole di avere a che fare con un sofisticato programma per compu-
ter inserito in un meccanismo semovente. C'era ancora molta strada da
percorrere prima di arrivare a una vera intelligenza artificiale.
«Ha fatto qualcosa di insolito nel tempo in cui è rimasto solo, prima di
morire?»»
«Ha trascorso l'ottantasette per cento di quel tempo in bagno. Queste
percentuali rientrano nella normalità per quel che riguarda le attività not-
turne del dottor Herrera da quando sono stato assegnato alla sua sorve-
glianza.»
«Perché sei stato assegnato alla sua sorveglianza?»
«Questa informazione è riservata.»
«A che cosa stava lavorando?»
«Questa informazione è riservata.»
Ginnie scosse la testa e riguardò i suoi appunti. Yonamura esce,
20:46':17". Herrera va al cesso, 23:08':51". Herrera. torna, 23:15':02". Her-
rera è morto, 23:15':43". Arriva Drobisch, 23:26':25". Sembrava strano che
Herrera fosse stato ucciso proprio subito dopo esser tornato dal bagno, ma
questo non era un particolare di grande aiuto. E se qualcuno avesse appro-
fittato di quei sei minuti di assenza dello scienziato e del robot per intro-
dursi nel laboratorio? Possibile, ma non spiegava perché il robot non aveva
visto l'assassino uccidere lo scienziato, così, alla luce del sole.
Non si spiegava neppure come Herrera avesse potuto rimanere tranquil-
lamente seduto mentre qualcuno gli conficcava un punteruolo da ghiaccio
negli occhi. Le venivano i brividi solo a pensarci. E se lo avessero droga-
to? Ma dalle analisi del sangue non era risultato niente.
Il robot era stato istruito in modo che non potesse rivelarle niente sul ti-
po di lavoro svolto da Herrera, ma in quell'ora e mezza che seguì l'uscita
della sua assistente, lui non aveva fatto niente di riservato: non c'erano
vuoti in quello che le aveva detto. Anche se la memoria del robot fosse sta-
ta modificata da un programmatore, ogni cambiamento sarebbe stato regi-
strato in maniera indelebile. Aveva controllato, le sue memorie non erano
state toccate da almeno due mesi.
Le bruciavano gli occhi, forse per una specie di solidarietà con il morto,
o forse perché aveva lavorato troppo.
«Chiudi» disse al robot. Lo lasciò collegato al suo computer così avreb-
be potuto subito rimettersi al lavoro l'indomani mattina.
George sollevò gli occhi dal libro quando entrò Ginnie. «Giornata dura»
commentò. Ginnie fece un grugnito a sua sorella gemella, quella che por-
tava il nome dello stato da cui proveniva la madre. Il padre era della Virgi-
nia e in famiglia scherzando si diceva che Ginnie - Virginia - era la cocca
del papà, mentre George era la preferita della mamma. Il giochetto poi an-
dava oltre, visto che Ginnie lavorava sui computer come suo padre, e Ge-
orge era nel campo della ricerca medica come sua madre.
L'altra battuta classica in famiglia era sulla fortuna che avevano avuto
per il fatto che nessuno dei genitori fosse del New Jersey.
«E lo dici a me.» Ginnie appese la giacca nella sua parte dell'armadio.
«Ehi, questo ombrello è tuo, tienilo dalla tua parte!»
«Noiosetta, eh? Sei di ottimo umore stasera.» George era la sua copia:
fianchi larghi e vita sottile, con una massa indomabile di scurissimi capelli
ricci. Ogni volta che Ginnie la guardava le veniva l'istinto di pettinarsi.
«Il giorno in cui uno stronzo ti aliterà sul collo pretendendo l'impossibi-
le, ti sarà permesso di fare dei commenti.»
George abbozzò un sorriso. Lavorava nel laboratorio della madre e per
questo spesso rientrava tardi la sera, ultimamente però avevano portato a
termine un progetto molto importante e si erano prese un periodo di vacan-
za. «Che hai?»
«Senti questa: hai presente il tipo che è stato ucciso l'altro giorno? Il ro-
bot di vigilanza è andato in tilt e non ha registrato l'omicidio. Io ho il com-
pito di scoprire cosa non ha funzionato.» «Questo sì che è interessante.
Pensi di riuscire a trovare l'assassino?»
Ginnie entrò nel cucinotto dov'era sua sorella. «Non è affar mio, io devo
solo scoprire perché il robot del servizio di sicurezza si è incasinato.» Pre-
se una scodella e una scatola di cereali.
«Robot e computer: che noia. L'omicidio di Ralph Herrera, questo sì che
è interessante. Ehi, ma non aveva studiato alla CalTech? Dovresti trovare
il colpevole per vendicare l'onore della nostra alma mater. E non sarà un
invito a cena.»
Ginnie rimise il latte nel frigorifero. «Sarà dura. A proposito di cena,
perché non prepari qualcosa?»
«Se la signora vuole essere invitata a cena sarò ben contenta di scaldare
qualcosa nel microonde. Allora, l'omicidio. Chi l'ha fatto fuori?»
«Non lo so. È tutto così segreto. Drobisch - quell'idiota del servizio di
sicurezza che si sta davvero sudando il posto - non mi dirà il perché. Forse
nemmeno lui ne è al corrente, non lo so, non so su cosa stesse lavorando
Herrera, non so niente della sua vita sociale, non so se fosse in possesso di
negativi di Drobisch a letto con il suo pastore tedesco. Devo solo trovare
l'anomalia.» Si mise in bocca una bella cucchiaiata di cereali. «Certo che
aver speso tutti quei soldi per un droide di sicurezza che non è nemmeno
capace di individuare un assassino, è una ragione sufficiente. Comunque
hanno tenuto nascosto il robot alla polizia.»
«Non ti sopporto quando parli con la bocca piena. Mi fai vedere come
sarei io se non fossi una persona educata, e non è un bello spettacolo, sai.»
Ginnie continuò a sgranocchiare i suoi cereali.
«Arma del delitto, movente, circostanze» disse George. Ginnie si accor-
se in ritardo che la sorella stava leggendo un romanzo di Nero Wolf. «Per
fare ipotesi dobbiamo partire da qualcosa che sai.»
«Le circostanze non le capisco, del movente non ho alcuna idea, l'arma è
un punteruolo da ghiaccio ficcato dritto nel cervello e fatto ruotare leg-
germente.»
«Uh... si conosce la provenienza del punteruolo?»
«Questo è compito della polizia, però dubito che possa scoprirlo. Ho a-
nalizzato abbastanza bene la memoria visiva del robot. Era un normalissi-
mo punteruolo da ghiaccio, marca Sears.»
«Impronte digitali?»
«Per quel che so, solo qualche impronta confusa del palmo della mano.»
«Potrebbe averle lasciate lui stesso mentre tentava di toglierselo. Cosa ti
fa pensare che non sia stato il robot? Non ti fa paura lavorare con quell'ag-
geggio?»
Ginnie scosse la testa. «Ho già fatto domande su questa eventualità. C'e-
rano frammenti di cervello sul punteruolo, e di conseguenza ce ne doveva-
no essere anche sulle mani dell'assassino. Non c'era niente sugli arti pren-
sili che il robot avrebbe potuto usare per tenere l'arma, solo sangue e parte
del corpo vitreo degli occhi. E comunque nell'angolo dell'ingresso non a-
vrebbe potuto entrare un assassino della dimensione del robot. Solo un
umano avrebbe potuto farlo.»
George mise un segnalibro nel suo Nero Wolf e lo ripose. «Non sei suf-
ficientemente perspicace per scoprire le circostanze, l'arma è banale anche
se orribile. Dobbiamo concentrarci sul movente.»
Ginnie aggiunse altri cereali nella scodella. «Non ho bisogno di venire a
casa per farmi insultare, sai? Basta che torni al lavoro da Drobisch.»
«Io sono molto più brava.»
«Solo perché hai più esperienza e geni perfetti.»
«Il movente, il movente. Avevi avuto già occasione sul lavoro di cono-
scere quel tipo?»
«No, era uno di quelli che arrivava, lavorava senza sosta e se ne andava
a casa. Non si fermava mai a fare due chiacchiere in mensa. Dicono che
lavorasse a qualcosa di segreto.»
«Quindi potrebbe essere un caso di sabotaggio industriale.» George cor-
rugò la fronte. «Ma perché un sabotatore avrebbe dovuto ucciderlo in un
modo così disgustoso? Cavargli gli occhi... sembra una cosa personale.
Forse simbolica. Come... sì, gelosia: "Non guarderai mai più un'altra don-
na!"»
«Non mi sembra il tipo da avere un'amante-killer» disse Ginnie.
«Questo non significa che non possa essere andato tutto al contrario di
quel che sembra a te, giusto?»
«Era il tipo d'uomo che passava tutto il suo tempo in laboratorio.»
«Allora se la faceva con una del laboratorio. Era sposato?» Ginnie scos-
se la testa. «Allora andava con una del laboratorio, che poi si è ingelosita.
Forse non la tradiva nemmeno. Forse è una di quelle ricercatrici schizzate
che vanno giù di testa per mancanza di sonno.»
«Forse tu sei una di quelle» commentò Ginnie.
«Chi è l'ultima persona che l'ha visto vivo?»
«La sua assistente, Jane Yonamura.»
«Ah-ah!»
«Ma dai, non mi sembra proprio il tipo.»
«Non lo sembrano mai» replicò George. «Di cosa si occupa?»
«Questo lo so. Prima di essere affiancata a Herrera dirigeva il laborato-
rio di clonazione in cui lavoriamo.» Ginnie collaborava alla progettazione
di stazioni diagnostiche robotizzate traducendo le competenze dei medici
della BioInnovations in programmi capaci di riscontrare sintomi sempre
più impercettibili di malattie. Analizzavano decine di conigli, topi, scim-
mie tutti uguali per mettere alla prova i loro strumenti. Fino a quando non
le fu assegnato il compito di trovare un'anomalia in un robot alla cui pro-
grammazione non aveva messo mano, la parte più frustrante del lavoro di
Ginnie era stata quella di aspettare per mesi che un topo, geneticamente
predisposto a contrarre malattie cardiache, manifestasse sintomi riscontra-
bili nei suoi programmi.
«Sai cosa ti dico?» disse George «Herrera frequentava la Tech un po' di
anni prima di noi, ma scommetto che conosco qualcuno lì dentro che lo
conosceva. Chiederò in giro informazioni su di lui. Tu dovresti parlare con
la Yonamura. Potrebbe essere l'assassina, oppure potrebbe conoscere l'altra
donna che è l'assassina, oppure potrebbe sapere se è stato ucciso per qual-
cosa che riguardava il loro progetto.»
«Drobisch non la lascerà sicuramente parlare, e poi il mio compito non è
risolvere casi di omicidio.»
«Sei una guastafeste. Io, comunque, andrò in giro a fare un po' di do-
mande.»
Ginnie andò a prendere altro latte.
Jane Yonamura era minuta, più vecchia di Ginnie, anche se era difficile
dire di quanto lo fosse: avrà avuto trenta, trentacinque anni. Si sedette al
tavolo della mensa di fronte a Ginnie, senza incrociare il suo sguardo.
Ginnie ricordò che era un tipico gesto di cortesia dei giapponesi. Per il re-
sto sembrava abbastanza americana.
«Mi spiace per il dottor Herrera» disse Ginnie. «Lo conosceva da mol-
to?» Drobisch si piazzò nella sedia di fianco a lei. Potresti benissimo la-
sciar perdere la maledetta cortesia giapponese, pensò Ginnie. Chiunque a-
vrebbe fatto questa domanda.
«Abbiamo lavorato insieme per due anni» disse Jane. «Lo conoscevo
come di solito si conoscono le persone con cui si lavora. È difficile abi-
tuarsi alla sua assenza.»
«Mi dispiace molto» disse Ginnie.
Drobisch si schiarì la voce. La Yonamura restò in silenzio.
«Ha notato niente di strano nel robot quella sera?»
«Veramente non saprei dire, signorina Erickson. Non sono un'esperta di
queste cose. Il dottor Herrera ne sapeva molto di computer, era un uomo
molto intelligente. Io sono una semplice esperta di biologia cellulare, uso i
computer e i robot solo quando servono al mio lavoro.»
«È quello che dice sempre anche mia sorella, lei odia usare i computer.»
Drobisch guardò l'orologio con ostentazione. «Però poi li usa molto più
di quel che pensa. Per questo sono sicura che lei deve aver notato qualco-
sa.»
«Non mi viene in mente niente.»
«Be', avete lavorato fino a tardi.»
«Come succedeva spesso.»
Semplicemente lavorato? si domandò Ginnie. Probabilmente sì. Il robot
li controllava da varie settimane. «Il robot aveva il compito di assistervi in
tutto?» La macchina era stata programmata in modo che non potesse rive-
larle niente sul lavoro di Herrera e della sua assistente.
«No. Be', il dottor Herrera magari gli chiedeva di cronometrare alcuni
processi o di reggere uno strumento: solo cose molto semplici.»
«Bene. Ha avuto problemi nella comprensione delle istruzioni quella
notte?»
«No, mi ci lasci pensare. No, non credo, ma come le ho detto, non gli fa-
ceva mai fare granché. Non sono nemmeno sicura che quella sera gli abbia
parlato.»
Però si ricorderà di quel che fece Herrera la notte dell'omicidio, pensò
Ginnie. Sono passati solo cinque giorni, ed è stato sicuramente uno di quei
momenti che non si dimenticano. «Sarebbe uno spreco avere a disposizio-
ne un robot così all'avanguardia e non servirsene in nessun modo, dico be-
ne? Voglio dire che quelli dell'amministrazione avranno riflettuto prima di
assegnarvi una macchina così costosa. Immagino che il vostro lavoro do-
vesse essere molto importante.»
«Suppongo che qualcuno lo ritenesse tale» disse la Yonamura senza
scomporsi.
Ginnie sentiva il respiro pesante e rumoroso di Drobisch. Doveva aver
messo a punto una tecnica particolare per farsi notare.
«Nessuno di voi due ha parlato con il robot? Ha detto qualcosa?»
«Può essere, non ricordo.»
«Era per sapere se avesse avuto problemi di linguaggio, se balbettasse o
si ripetesse. Non si ricorda proprio se ha parlato?»
«No» disse la Yonamura.
«Provi a pensare ai movimenti, aveva problemi a spostarsi?»
«Non riesco proprio a ricordarlo. È una cosa a cui non ho mai prestato
attenzione.»
«Non sta ottenendo niente, Erickson» disse Drobisch. «E abbiamo tutti
un sacco di lavoro da fare.»
Su questo ha proprio ragione, pensò Ginnie. Jane Yonamura era stata
educata, ma era reticente, volutamente, Ginnie ne era sicura. Ciò poteva
dipendere dalla presenza di Drobisch. Forse.
«Grazie lo stesso» disse a Jane che sorrise leggermente mentre le strin-
geva la mano.
«Mi sta facendo impazzire» si sfogò con sua sorella. «Sono tre giorni
che vado avanti così e il robot non è più chiaro del solito, anzi, è chiaro
come sempre. E il suo software è talmente complesso che ci vorrebbero
cent'anni per controllarlo. Potrei cercare per tutta la vita.» Si stropicciò la
faccia e sbadigliò. «Se non fossero così paranoici potrebbero fare interve-
nire una squadra di programmatori. Il miglior modo per scovare un difetto
è avere punti di vista diversi, ma Drobisch è addirittura infastidito dalla
presenza di una sola persona accanto al robot.»
«Hai visto la Yonamura?» domandò George.
«Certo. È una causa persa. Quella donna non aprirà bocca.»
«Una passione soffocata?»
«Tutto soffocato. Non ho idea dei segreti che nasconde. O forse è solo
più rispettosa del segreto professionale di quanto non lo sia io.»
«Ehi, se non lo dici a una persona che ha il tuo stesso patrimonio geneti-
co, allora a chi lo puoi dire?» disse George. «Non ne farò parola con nes-
suno. Facciamo in modo che credano che io sia te.»
«Non passeresti il controllo di identificazione della retina che mi hanno
fatto fare quando ho firmato tutti quei moduli.»
«Non lascerò che guardino nel profondo dei miei occhi. Non controlle-
rebbero di sicuro, anche se pensassero che hai una sorella gemella. Il mon-
do è pieno di idioti che credono che i gemelli abbiano le stesse impronte
digitali e la stessa conformazione della retina.» Quando erano adolescenti
George e Ginnie avevano letto un sacco di libri di fantascienza sui cloni,
che non sono altro che gemelli creati tecnologicamente, i quali non solo
hanno identiche impronte digitali, ma addirittura la stessa personalità. O-
diavano tutto ciò. «Ecco qua il premio che ti spetta per avere una sorella
ficcanaso» disse, gettando sul tavolo della cucina un documento rilegato.
«Cos'è?»
«Oggi ho fatto un salto alla Tech per scoprire qualche vecchio pettego-
lezzo su Herrera. Niente. Aveva una ragazza che faceva il terzo anno al
City College, ma la cosa non è durata.» Ginnie sbuffò. Non aveva mai avu-
to molta stima dei ragazzi che dovevano cercarsi le ragazze fuori dal
campus. «Poi ho guardato la sua tesi di dottorato. Così, almeno, andare a
Pasadena non è stata una completa perdita di tempo.»
«Andare a Pasadena è sempre una perdita di tempo» disse Ginnie mec-
canicamente mentre prendeva il plico. «"Euristica indotta e apprendimento
dei comportamenti nei mammiferi"? Sembra proprio avvincente.»
«Sono sempre convinta che l'abbia fatto fuori la Yonamura, ma se non
avessero avuto una relazione e se si fosse trattato davvero di sabotaggio,
avremmo un indizio per sapere su cosa stavano lavorando.»
«È roba di dodici anni fa» disse Ginnie. «Potrebbe non aver niente a che
vedere con quello che stava facendo per la compagnia.» Scorse veloce-
mente le pagine. «Ed è anche scritta male. Vi fanno sempre fare le tesi in
questo modo? Per fortuna non ho fatto il dottorato.»
«Ho dato un'occhiata» disse George. «C'è una parte di teoria su come
trattare gente che ha perso alcune capacità a causa di lesioni o altri traumi
cerebrali.»
«Tipo punteruoli da ghiaccio?»
«Per esempio, uno che ha avuto una microlesione e non riesce più ad al-
lacciarsi le scarpe. Herrera pensa che nel cervello si possa eliminare l'inte-
ra subroutine per allacciarsi le scarpe.»
«Come?»
«Lo voglio rileggere. È un bel mattone, e non sono abituata a leggere
cose di neurologia. Per la maggior parte parla di topi bianchi e conigli, e
accenna all'uomo solo verso la fine.»
«Però è quella la parte interessante, vero?» disse Ginnie. Diede un'oc-
chiata a un groviglio di grafici riguardanti sostanze chimiche del cervello
che non aveva mai sentito nominare. «Programmare il cervello umano.
Pensa a quanto sbaverebbe un'organizzazione militare per una cosa del ge-
nere.»
«Ci sono» disse George. «Possiamo rimettere il sabotaggio industriale
nella lista dei moventi, e lo stesso vale per l'intrigo internazionale.»
«Fantastico» disse Ginnie. «Quasi preferisco la teoria dell'assistente af-
famata di sesso che gli cava gli occhi.»
«A ogni modo, poveraccio, chissà se l'aspettava.»
«Questo può spiegare perché la Yonamura è così tranquilla. Saperne
davvero qualcosa potrebbe essere molto pericoloso.»
«Se è collegato al lavoro che Herrera stava facendo alla BioInnovations»
disse George.
«Andrò in giro a fare altre domande, forse a qualcuno ha detto su cosa
stava lavorando.»
«Ascolta» disse Ginnie, pur sapendo che non poteva fermare sua sorella
se si era messa in testa di risolvere un enigma. Anche lei si era incuriosita
e si sentiva coinvolta, ma provava un certo senso di ansia e di disagio. Si
allungò sul tavolo e strinse la mano della sorella gemella: «Sta attenta».
George sorrise e le strizzò le dita.
***
«Non siamo qui per parlare di chi altro dividerà con me l'appartamento»
disse George seccamente. «Dobbiamo risolvere questo mistero.»
Ginnie era stesa sul divano, pensava abbracciando un cuscino. «Se do-
vessi andarmene da qui mamma vorrà che tu torni da lei.»
«Neanche per idea. Certo voglio bene alla mamma, ma ogni tanto ho bi-
sogno di una pausa. Non la sento da una settimana e sono contenta, tanto
per cambiare.»
«Non le hai ancora detto niente? Hai fatto bene. Si preoccuperebbe e ba-
sta. Hai scoperto qualcosa sulla Yonamura?»
«No.» George si morse le labbra. «Mi dispiace, oggi ho perso tempo. Se
avessi saputo che Drobisch stava facendo pressione su di te...»
«Ma non lo sapevi. Neanche per idea. Voglio bene alla mamma.»
«Sì, però se perdi il lavoro... Ho parlato di Herrera con qualcuno della
Lloyd House. Lo sai che anche lui ha vissuto lì, proprio come me?»
«Piccolo il mondo.» Un vecchio compagno di college di Ginnie, che si
era ritirato da fisica, aveva messo in piedi una piccola attività di importa-
zione su nell'Oregon. Magari poteva aver bisogno di un programmatore
per rendere più efficiente il settore spedizioni. Doveva solo abituarsi a vi-
vere tra i pini. Oppure avrebbe potuto trovare un lavoro all'imbarco merci
dell'approdo del porto. Si strinse forte il cuscino sulla guancia.
«Mi hanno raccontato un aneddoto su di un suo rompicapo della "Gior-
nata della Bigiata" che è entrato nella storia.» Alla CalTech durante la
"Giornata della Bigiata" degli studenti veterani, questi preparavano degli
enigmi, chiamati "trucchi", che i più giovani dovevano cercare di risolvere
per entrare nella loro stanza. Se, una volta entrati, ad attenderli non trova-
vano un premio - di solito patatine, dolcetti e schifezze varie - avevano il
diritto di fare un controtrucco, restituendo pan per focaccia.
Ginnie, preoccupata per gli estenuanti esami finali, aveva preparato solo
un piccolo quiz. Il gruppo che cercava di entrare nella sua stanza aveva ri-
sposto ad alcune domande banali sul suo computer e aveva risolto rapida-
mente quello che lei riteneva un difficile enigma di programmazione, il
computer aveva così svelato loro dove si trovasse la chiave della sua stan-
za. Aveva lasciato nella stanza un fusto di birra e tre etti di cioccolata, e al
ritorno dalla gita della "Giornata della Bigiata" a Disneyland, non aveva
trovato altro che carte di dolci avanzate dal premio.
Rimpiangeva ancora di non aver avuto tempo per inventare un rompica-
po più astuto, qualcosa che potesse far scervellare i giovani per tutto il
giorno, ma che poi, una volta entrati in possesso di tutti gli indizi e trovata
la soluzione si rivelasse banale.
«Andarono verso la sua stanza e trovarono un monitor e un joystick fuo-
ri della porta» continuò a raccontare George «e un biglietto che diceva solo
"prendi la chiave o scopri perché non si può fare".»
«Sembra carino» disse Ginnie interessata nonostante tutto.
«Quando accesero il video comparve l'interno della sua stanza, come se
la telecamera fosse di fianco alla porta. Tutto sembrava normale tranne il
fatto che il pavimento era completamente vuoto e nel mezzo si trovava la
chiave della stanza e un piccolo carrello con un braccio mobile davanti e
un'antenna in cima. Uno di loro prese il joystick e cominciò a muoverlo, e
il carrello si mosse di conseguenza. Un bottone del joystick alzava e ab-
bassava il braccio e l'altro faceva andare avanti e indietro il carrello. Sul
braccio c'era una calamita, mentre sulla chiave era legata una rondella me-
tallica, così che potesse essere presa con la calamita.»
«Troppo facile, ci dev'essere un trucco.»
«Ma certo. Sembrava che non ci fosse altro da fare che manovrare il car-
rello con la chiave fino alla porta e fare in modo che la facesse scivolare
sotto la porta. Ma non riuscivano a fare andare il carrellino come voleva-
no: cominciava ad andare in direzione della porta e, improvvisamente,
sterzava nella direzione sbagliata, oppure si fermava, o lasciava cadere la
chiave.»
«Come se ci fosse stato una sorta di "capriccio" nel programma di mo-
vimento del carrello.»
«Pensarono anche a quell'eventualità. Tracciarono tutti i movimenti in-
spiegabili per cercare uno schema. Per esempio, se giri di centottanta gradi
a destra, il carrello va indietro. Be', a volte funzionava e altre no.»
«Allora era stato programmato per fare errori casuali e per questo non
riuscivano a cavarne fuori niente?»
«Sì, ma come puoi "provarlo"? È un vero "trucco" da maestro: doveva
esserci qualcosa di grosso e illusoriamente ovvio da poter dimostrare op-
pure Herrera si era incasinato. Cominciavano a innervosirsi, potevano
chiaramente vedere la stanza, ma non c'era nessun premio all'interno. Al-
cuni studenti stavano pensando seriamente di saltare il "controtrucco" e
semplicemente saccheggiare la stanza una volta risolto il "trucco". Sem-
brava che sapesse già dall'inizio che fosse impossibile da risolvere, e non
era leale.»
«E poi cos'era?» domandò Ginnie.
«Prova a pensarci. Avevano in mano tre oggetti per risolvere il rompica-
po: il carrellino telecomandato, il joystick e il video con telecamera. Non
potevano disporre del carrellino se non maneggiando il joystick e guardan-
do attraverso il monitor.»
«Il joystick.»
«Lo presero da parte e lo esaminarono attentamente. Per quel che pote-
vano vedere non c'era niente di strano nel joystick.»
«Il monitor?»
«Era già sera quando una brillante matricola cominciò a domandarsi se il
monitor mostrava proprio tutto. Un pezzo grosso del terzo anno aveva il
joystick, ma alla fine lei lo convinse e se lo fece dare. Spostò il carrellino
sulla parete di fondo e cominciò a farlo andare avanti e indietro, contro il
muro, più veloce che potesse.»
«E con questo cosa provava?»
«Nel mezzo della stanza il carrellino scomparve per un attimo dal video.
Poi lo riportò indietro, e la metà era scomparsa. Poi riapparve di nuovo.»
«Non ti seguo.»
«Ti ricordi quando da piccole guardavamo le previsioni del tempo in tv?
Il presentatore portava una cravatta verde attraverso la quale a volte si ve-
deva la cartina geografica.»
«Ah! Sì, era un dispositivo a chiave cromatica!»
«Cominciò a battere i pugni sulla porta e a urlare "Apri, Ralph!" e Her-
rera aprì la porta dall'interno. Il muro di fondo della stanza era ricoperto di
verde, aveva dipinto anche il pavimento di verde e lui indossava una giac-
ca verde e una calzamaglia verde.»
«E così aveva trovato la spiegazione del perché non riuscivano a prende-
re la chiave. La telecamera era una di quelle ormai superate che elimina-
vano il verde dallo schermo, lo stesso tipo che usavano quando volevano
far sembrare che il meteorologo fosse in piedi di fronte a una cartina o un
tramonto o qualcos'altro.»
«Immagino che avesse trovato tutta l'attrezzatura nel campus» disse
Ginnie.
«A dire il vero penso che l'avesse recuperata da un centro che aveva ri-
modernato l'attrezzatura tecnologica. Come nelle previsioni del tempo:
quando la telecamera riprendeva qualcosa di colore verde, quello che si
vedeva era, in realtà, un'immagine del pavimento o della parete di fondo
registrata in precedenza. Per questo motivo Herrera, completamente vestito
di verde, risultava invisibile alla telecamera. In questo modo poteva segui-
re il carrellino e impedirne o scombinarne i movimenti senza essere ripreso
dalla telecamera.»
«Non male.»
«E in fondo alla stanza c'era un grosso mucchio, coperto da un telo ver-
de, e quando l'ha scoperto sono saltati fuori lo champagne ghiacciato, una
distesa di pasticcini e tutto il resto. In un certo senso aveva imbrogliato vi-
sto che non aveva bigiato nella "Giornata della Bigiata". Però, dopo tutto,
era un bravo ragazzo. È un vero peccato che sia morto.» George sospirò.
«Alla fine c'erano cannoli al cioccolato per tutti. Io non ho mai avuto can-
noli al cioccolato in premio dopo aver risolto un "trucco".»
«Eh, già!» Ginnie si sedette e appoggiò il cuscino. «Allora c'era un altro
elemento nel suo enigma oltre al carrellino, al joystick e al video con tele-
camera.»
«E sarebbe?»
«Lui. Herrera.»
FINE