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casa lettrice malicuvata

via vizzani, 41 – 40138 bologna


malicuvata@gmail.com
malicuvata.it

progetto grafico: dogonreview.org


impaginazione: giangi cavezzi
illustrazioni: antonio tirelli

unica edizione: maggio 2010


licenza creative commons: attribuzione-non commerciale-non opere derivate 2.5 Italia.
Gruppo Opìfice

Racconti di periferie
e altri racconti (di periferie)

copia n. /200

Casa Lettrice Malicuvata


[introduzione]
Dario Falconi
Porco odio

C’erano tutti. Mi scrutavano torvi saettando improperi dai loro sguardi severi.
C’era chi pontificava tra quello che la scuola doveva essere e non era più; c’era chi
blaterava improbabili avvisaglie giudiziarie e c’era, come poteva non esserci, chi
smaniava per andarsene. La preside, dopo aver placato il tumulto con la sola impo-
sizione delle mani, s’avvicinò alla mia seggiola d’imputato con fare ancheggiante.
«Professore. Le chiedo per l’ultima volta: lei conferma quello che sostiene?» m’in-
timò in capriole di sopraccigli. «Anche» balbettai distratto pensando a voce alta un
pensiero inadeguato. «Anche. Fianchi. Pressappoco significano la medesima cosa.
Il vocabolario potrebbe annoverare una parola nuova: le fianche! Non male vero?!»
Cercai condivisione ma trovai collerica animosità. Ero per tutti un fiancheggiatore.

«Professore, adesso basta!» ribadirono con fiero piglio un paio di fiere. E via, giù,
con una serie di rocamboleschi luoghi comuni col fare dignitoso dei minestroni
delle pubbliche distruzioni. La scuola è così. La scuola è questo. La scuola è tutta-
via. La scuola è giustappunto. La scuola è ma lei sa cos’è la scuola.

Rigore.

Disciplina.

Autorità.

Non riuscivo più ad intravedere il collega di matematica ma avrei giurato che da


un momento all’altro mi si sarebbe parato innanzi con la versione originale della
Magna Charta.

«Lei è disposto a fare una dichiarazione scritta di quello che va sostenendo?» il co-
siddetto dirigente scolastico sollecitò una mia ammissione di colpevolezza. Lezzo
di golpe.

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«Certo che sì» sostenni vivamente, «non vedo motivo di rimangiarmi la parola.
Solo una volta mi rimangiai la parola: quando l’alfabeto morse!» deflagrai in una
risata irriverente che non trovò complicità ma solo accessi d’ira.
«Lei» ancora la fiancheggiante ingonnellata. «Persevera, quindi, col sostenere
che Giannitti non bestemmia ma, altresì, suole esclamare spesso…» S’interruppe
concedendomi la gloria della citazione: «Porco odio.»

Non volevo prendermi gioco di nessuno né tantomeno promuovere azioni de-


latorie contro la rispettabile istituzione ma io non udivo blasfemia dalla bocca
fanciulla di quel ragazzino ma solo modalità alternative d’imprecare aiuto. Sen-
za padre e con una madre depressa in una cella d’appartamento d’una provincia
arida, la sua era esistenza rabbiosamente tediosa. Altro non poteva che inventar-
si adulto che per lui, emarginato e senza riferimenti nobilitanti, significava essere
cattivo.

Boati di beoni ululavano la sciocchezza vile del tutti vanno trattati alla stessa
maniera. E che la scuola è un ammortizzatore sociale?
Quante volte mi si era riproposto il vomito maleodorante di questa scempiag-
gine spacciata per sacrosanta verità. Cazzate. A problemi complessi ci vogliono
risoluzioni complesse. I ragazzini di oggi non sono quelli dell’ottocento, eppure
tra poco qualche ministro tornerà a rimpiangere le scudisciate degli alteri maestri
del secolo decimo nono.
Cazzate. Se io, insegnante di nuoto, ho due ragazzi di cui uno si regge a gal-
la e l’altro no, dovrò necessariamente avvinghiarmi al secondo per evitare che
affoghi. Tutti hanno il diritto d’imparare a nuotare. Ci si mette lì e si lavora di
quadricipiti e polpacci, ma, porca puttana, si rimane in superficie. Perché se vai a
fondo è finita e per riemergere non ti resta altro che aggrapparti agli altri. E allora
si è perduti. Vinti. Schiavi arresi al desiderio di respirare autonomamente. Solo
le piovre hanno tante braccia da offrire. E così, per il resto della vita, sarà sempre
un percorso a tentacoli.
Si trattava di sospendere Giannitti per la quarta volta e liberarsene definitiva-
mente come proclamò inorgoglita la pettoruta professoressa di chimica.

Liberarsene definitivamente.

Quelli come Giannitti sono il cancro e vanno eliminati perché non sono un buon
esempio per i compagni di classe. Perché ci devono pensare le famiglie, mica sono la ma-
dre io! Perché è colpa soprattutto delle medie! Perché basta con questo assistenzialismo.

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Io e Giannitti avevamo un rapporto poco ortodosso. Io sapevo che non era in
grado di restare più di trenta minuti seduto al proprio banco; lui sapeva che, suo
malgrado, avrei dovuto fare lezione. Avevamo raggiunto un compromesso ra-
tificato ufficialmente insieme con la classe e ribattezzato pomposamente con il
velleitario nome di Banco di prova, suggellato dalle foto di rito e da strette distratte
di mani dimenate. Lui, Giannitti, aveva il diritto ogni quarto d’ora d’alzarsi in-
disturbato ma senza recare fastidio al normale svolgimento della lezione. Ogni
tanto s’inveleniva emanando il suo proverbiale Porco Odio ma subito rompeva le
righe in un rogo dirotto d’autentiche scuse. Nei suoi temi sgrammaticati urlava
tutto il suo disappunto d’esistere, i suoi ingrati quattordici anni che non sapeva
come spendere. Le sue storie abbarbicate ad un muretto d’amicizie deluse e d’ap-
procci sessuali troppo precoci da lasciarlo interdetto, fugaci ombre di gioia in un
ginepraio mortificante. Scriveva male, certo. Ma aveva qualcosa da scrivere: della
madre che venerava perché lo aveva cresciuto e che doveva proteggere da «quello
stronzo infame che se la vuole porta’ via»; del padre, morto giovane, e delle sue
fotografie da bel calciatore e che lui «un giorno l’avrei emulato (come è stato con-
tento quando ha scoperto il significato del verbo emulare) perché professo’ io so
forte a gioca’ a pallone; c’ha presente Goran Pandev?!»
Gli mettevo la sufficienza. Mai per accondiscendenza fasulla, né per patetica com-
miserazione. Semplicemente perché la meritava. E lui soleva venirmi incontro in-
credulo a biascicarmi, tra varie volgarità e porchi odii, uno sfuggevole grazie. Lo
riconosco, quel Grazie era il mio trionfo. Dentro di me stuole di bellissime balleri-
ne brasiliane danzavano un samba tumultuoso.
Poco tempo fa una giovane maestrina d’italiano era precipitata, quasi invasata,
nell’aula professori con occhi sgranati di miracolata indulgendo in un ossessio-
nante: «Oddio, questi non sanno sillabare!» Gli avrei dato una capocciata all’istan-
te. E poi gli avrei chiesto: «Sillabami la parola Ca-poc-cia-ta!»
Ovunque deresponsabilizzazione e acquiescenza di chierichetti docili, apostoli
malfidi, cospiranti Pilati impalati, destinati, loro malgrado, allo sberleffo tragico-
mico d’una insopportabilmente frugale Penultima cena.

«Ma perché dobbiamo costringere uno che non vuole venire a scuola, a venirci per
forza?» vecchio ammonimento da docente lindo e punto e accapo senza macchia,
e piccato.
«Perché è civiltà» evasi in un bignami di socratica sapienza. «Non assecondare
le volontà d’un ragazzino ma bensì esaltare con ostinazione la propria acquisita
maturità. È civiltà non essere arrendevoli di fronte a chi è arreso; non essere vili
di fronte a chi è vigliacco; non essere arroganti di fronte a chi è arrogante. È civiltà
dimenticare il nostro miseramente egocentrico amor proprio e vivere ogni gior-

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no per tramutare gli insulti di oggi nella riconoscenza di domani. Se allo sputo
si risponde allo sputo s’inaugura un codice comportamentale che accredita quel
gesto. Non solo: lo sublima. Incoraggio colui che è debole di valori ad abbracciare
valori deboli. È così che la società si sta frantumando. Ingannevoli dispute tra
cattivi allievi e cattivi maestri. Di-sputare, non se ne può più.»
La concione d’inadeguata eloquenza oratoria sortì l’effetto d’ammutolire tutti. Per
qualche prezioso istante presupposi d’assaporare la fragranza aerea del famige-
rato settimo cielo, senonché, a blandire il fatale incantesimo, s’alzò il cenno d’una
vate vigorosa, irosa, in voga di vaticinii. «Ci sono regole che vanno rispettate. Ad
un comportamento scorretto corrisponde una ragionevole punizione. Non c’è da
dissertare ma solo da applicare una norma!»
«Se noi gli togliamo la scuola» mi sorpresi ad urlare «a chi, al di fuori di essa, non
ha niente, siamo complici del suo isolamento, della sua perdizione. Noi tutti sa-
remo corresponsabili del male che egli ineluttabilmente stabilirà di fare agli altri
e a se stesso!»
Sibilò un passaparola di feroce contrarietà che s’esalò asfissiante dalla gola biliosa
della burocrate sovrintendente al presidio scolastico.
«D’accordo professore. Finiamola! Si metta a verbale che Giannitti verrà sospeso
per quindici giorni con un solo voto contrario, quello del professore. Le va bene
così?» Mi rivolse un’occhiata melliflua.
Annuii. Dentro di me uno sbraitante coro gregoriano la stava mandando affancu-
lo in latino.
Una suggestione linguistica affascinò un riverbero di delirante corrispondenza.
Frantumare e crepare. Crepare è sinonimo di morire ed è sempre subordinato
all’azione di chi frantuma. Tutto va in frantumi e si fanno le crepe. Se qualcosa
crepa il decorso della frantumazione non può essere interrotto. La morte è fine
a se stessa. Questo l’assioma conclusivo della mia silloge di sillogismi. Quasi per
forza d’inerzia detonò nella mente una celebre poesia d’Ungaretti.

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto

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Ma nel cuore
nessuna croce manca

È il mio cuore
il paese più straziato

Questo era il mio stato d’animo eppure m’avevano raccontato che il nostro fosse
tempo di pace. Qualcosa non torna?

Giannitti non torna. È crepato. S’è frantumato per sempre. Il solito motorino senza
casco. Una parentesi di cronaca d’un qualsiasi telegiornale dopo i servizi della po-
litica e prima del meteo. Cose che accadono. Disgrazie. Fatalità. Nuove generazio-
ni. Dolore. Gli amici dicono di lui. Dopo il marito anche il figlio, povera signora.
Non è colpa di nessuno. No, non è vero. La colpa è soprattutto delle medie e di
questo assistenzialismo esasperato. E che cosa è diventata la scuola? Un ammor-
tizzatore sociale?

Porco Odio. È colpa mia.

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Marco Mazzucchelli
La mattina prima di andare a lavorare

Evado. Dalle non-stelle. Dall’era dei parcheggi dei Bennet come sconfinati
Ground Zero di provincia. Bagliori radioattivi, albe perenni. Ci prendono per
il culo, i campagnoli, per i nostri cieli arancioni. Evado dalla mattina di tredici
giorni fa, quando uscendo per andare al lavoro ho guardato mia moglie dormire,
il viso voltato vero l’armadio. Il suo zigomo pronunciato asiatico nascondeva la
cavità oculare, e la fronte, col disegno dei capelli, assecondava l’impressione che
quella fosse la mezza faccia di un non-essere. Non riconoscevo quella testa, ne
mancava un pezzo. Avevo paura che quella cosa si girasse rivelandosi.
Evado da quella vita, dove sulla gente grava un tendone che trattiene tutta la
merda che può riversarsi sulle nostre esistenze. Ho sempre visto un sacco di
gente andare in giro sporca di merda, ma io no, sono sempre stato molto attento
a tenere separata la mia vita e la merda che ci incombeva sopra. Poi ho avuto
una ragazza, mi ha sposato, e queste due cose assieme hanno preso un coltello e
hanno squarciato il tendone.
La vita di merda è l’omologazione. È lo stampino che le città moderne spin-
gono verso le nostre teste, verso la settimanale colazione di sabato mattina
all’Auchan, seduti vicino all’entrata del supermercato che incalza, vicini a esseri
osceni, brutture, i cui figli ne erediteranno le colpe genetiche. Guardavo ciò che
pensavo essere la donna della mia vita, addentava croissant con uno sfondo
fuori-fuoco di peli lanosi intricati nelle maglie di catenine, smorfie disgustose
delle bocche, denti incatramati, pori saturi di sebo, e arroganza, e ignoranza,
il mix letale, l’infezione che rende marcescente il suolo che calpestiamo e acco-
glie le fondamenta delle nostre case. La vita di merda è dover iniziare con gli
aperitivi alle dieci di mattina di sabato all’Auchan [mi serviva], è stare in coda
in autostrada per andare all’outlet di Serravalle fumando erba, rigorosamente
[mi serviva], è chiudere gli occhi e congelare la mente in coda all’ufficio postale
mentre chi è allo sportello strilla contro chi ci siede dietro, ancora [mi serviva].
Non potevo far altro che girare per questi grumi di cisti che sono le città, in un
perenne stato confusionale.

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Quella mattina che sono quasi morto di paura davanti a mia moglie che dormiva,
ho aspettato che andasse al mare dai miei suoceri per il weekend, ho presentato
dimissioni consegnando le chiavi dello studio e chiesto e ricevuto metà dei soldi
che mi spettavano. Ho prelevato e prelevato e prelevato. I soldi che erano di mia
moglie e che avrebbero dovuto essere per nostro figlio. Non visto, ho venduto
l’oro. Ho ammazzato il gatto, poi l’ho cucinato e mangiato, perché letteralmente
mi straziava l’idea di separarmene. Ho salvato su una memoria flash i miei video
porno preferiti. Ho pensato se fosse il caso di salutare mia madre e la sua malattia
degenerativa. Ho deciso che no, non era il caso, così mentre dormiva le ho solo
rubato i soldi dal portafogli.
Ecco la rivelazione. Ecco come in queste ultime ore non ho fatto altro che annien-
tarmi, rigettare la parte peggiore di me, mostrarmi. Da giovane non ero niente
male, forse fin troppo corretto, e ora eccomi corrotto. Siete stati voi a trasformar-
mi così, siete stati tu e tu. Mi avete reso vecchio, reso brutto. Ricordo che per voi
volevo diventare una persona migliore e ora mi rendo conto che la costrizione
del vivere assieme era lì, dove se mi affacciavo per vedere le stelle vedevo solo
un enorme sacchetto di plastica arancione che qualcuno mi aveva legato al collo.
Avete scalfito la corazza delle mie buone intenzioni, avete limato e assottigliato,
ma questo non è stato un lavoro che ha impreziosito, perché non lucidava, non
smerigliava niente. Mano a mano apparivano in superficie il marcio, le croste,
poi i tendini sfilacciati, i tessuti morti. Scotennandomi avevate trovato il vero me
stesso, nella scala evolutiva ero l’uomo che regredisce, e regredendo si dirigeva a
est. Nella fattispecie, l’uomo regredito ha guidato verso l’Ungheria, per bagnarsi
nel lago Balaton, rinascere nella palude del lago dove le ragazze dopo mezzora
che sono fuori di casa hanno già l’alito che sa di cazzo. Ero fermo in coda da cin-
que ore in autostrada e mi ripetevo che quelle erano le ultime ore della mia vita di
merda. Ero sobrio, avevo buttato l’erba dal finestrino.
Ma fatemi solo raccontare del pomeriggio che vi sono arrivato, così è giustificato
tutto quello che ho fatto. Fatemi solo dire del guidare sulla strada costiera, dei
villaggi che si susseguono come perle lungo una collana, i negozi di articoli per
mare, i pochi vacanzieri sulle strisce pedonali, i teli mare appesi fuori dalle case a
due piani, le visioni rapide del lago tra gli scorci, le vele dei windsurf, ragazze sor-
ridenti che escono di casa. Lasciatemi dire della natura madida di questo posto, i
canneti che iniziano a divorare le spiagge e i villaggi, e dopo, la palude. La natura
che si rivela, marcescenze e parassiti abitano le nostre essenze più vere e lì, tutti,
siamo diretti. Il mio arrivo alla parte più nascosta del lago, prima di Keszthely,
camminare in questa natura slava, fendere i canneti con le mani giunte, lungo la
passerella di legno verso l’acqua stagnante, scoprire il lago a mollo nell’arancione
e verde oliva e ocra dei tramonti d’estate. Lasciatemi dire del gulasch per cena

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e delle voci provenienti da una lontana festa di paese, le sento, voci di ragazze
appena uscite di casa. Del mio camminare rasente la strada, nel buio deserto e
pesto e pesto e pesto della notte transdanubiana, dell’esserci nulla che illumini
oltre il lattiginare dei miliardi di stelle. Non avevo mai visto niente pulsare così. E
la boscaglia palpita anch’essa, con le sue cicale e gli effluvi di clorofilla. Rieccomi
primigenio, ululante verso il cielo, è giunta l’ora che apra gli occhi di nuovo. Sa-
pete cosa vuol dire, riaprire gli occhi?

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Marco Visinoni
Paradise now

Ho dormito ventidue giorni questo mese.


Ventidue.
Cinquecentoventotto ore di sonno ininterrotto, senza sogni. Mi sveglio alla clini-
ca, l’infermiera che mi ha accompagnato qui ventidue giorni fa mi osserva a lun-
go, indica i vestiti che ho lasciato su una sedia. Devono avere un aspetto migliore
del mio, da come ci squadra a turno. Mi offre una sigaretta di saluto, mi tossisco
addosso. È facile disimparare.
Nel tragitto verso casa non parlo, la gola cerca di risollevarsi dal torpore e nes-
suno sull’autobus fa caso a me. Attraversiamo i tre cerchi che mi portano a casa.
Sono ancora addormentato, non vedo nulla.
Leila, nell’angolo, è immersa nella luce bianca, non si volta nemmeno alla chiusu-
ra del portone. Fuma anche lei, le gambe scoperte ricolme di piaghe. Mi avvicino
alle sue spalle senza toccarla, le faccio sentire la mia presenza senza parlare ed è
peggio che prenderla a schiaffi, peggio che mangiarsi l’un l’altro.
Farei una doccia, l’acqua è scomparsa dal quartiere. In camera la polvere ha spro-
fondato il materasso nel granito più di quanto ricordassi. Forse ricordo male. È
colpa mia, penso.
Nel bagno lo specchio ha una Y centrale che lo divide in tre parti, i due trapezi se-
parano le mie guance ma per un riflesso del vetro mi appaio estraneo, sbilanciato,
sofferente sotto la mia fronte che nel triangolo mostra capelli bianchi e sottili, più
sottili della barba che il sonno ha impedito di tagliare. Raccolgo un vecchio rasoio
da una sacca abbandonata sotto il lavandino, è doloroso farlo così.
Mezz’ora dopo sono al lavoro. Raccolgo gli scarti del supermercato e a seconda
della legge di riciclo mensile restituisco il cibo non eccessivamente masticato ai
suoi scaffali. Questo dice la legge di riciclo mensile. La primavera è il periodo più
tollerante, recupero tutto ciò che aprendosi sia privo di vermi e sostanze mucose.
Lavoro sedici ore al giorno.
Ne vorrei di più, il supermercato non è disposto a pagarmi tanto. A fine giornata
torno da Leila, la trovo nel buio proprio come stamattina l’ho trovata immersa

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nella luce bianca. Resto dietro di lei per qualche minuto, vado allo specchio e sono
stanco nonostante tutto, nonostante le 528 ore di silenzio e quiete che mi hanno
portato fino a oggi.
Il giorno dopo incontro il capo. Non gli stringo la mano, lui non me la porge. Lun-
go le mie dita una melma informe di yogurt e frutta marcia. Il capo non ha espres-
sione, ha due occhiali nei quali rifletto le mie pupille e mi vedo stantio, provengo
anch’io dal cassonetto che sto toccando. Il capo come ogni mese ha un calendario
scritto a mano sul coperchio di un cartone per la pizza. È l’unica occasione in cui
ne vedo uno, nella testa scelgo sempre il nome di un ristorante e sono felice quan-
do scopro di aver indovinato.
Mi chiama per nome, da quanto tempo nessuno mi chiama per nome.
Dice che non era in programma che fossi qui oggi, dice che la giornata non mi sarà
retribuita. Retribuita, così parla il capo. Mentre si allontana scopro di non aver
indovinato il nome sul coperchio. Raggiungo gli altri alla mensa, l’altoparlante
gracchia e tutti insieme stringiamo i denti mentre il segnale si assesta su una fra-
se pubblicitaria. Mi piace la pubblicità. Dice che la clinica è aperta anche questo
mese e che il sonno non costa niente, il sonno fa risparmiare. Dormendo non puoi
comprare, non puoi mangiare, dormendo.
Torno al cassonetto e proseguo per altre cinque ore. Ogni tanto dal fondo del ga-
rage compare il capo, la giornata non pagata è un trucco per scoprire chi tiene al
suo lavoro. A fine mese non sarò pagato, ma il capo saprà che si può fidare di me.
Torno a casa, è buio profondo e dall’autobus vedo lupi in giro per la città, si cibano
dei cavaderi abbandonati. Molti morti sono stretti l’uno all’altro, sono morti di
freddo mentre erano addormentati. Mentre io ero addormentato, penso.
A casa Leila è seduta davanti alla finestra, senza toccarla le dico che non sarò
pagato per oggi e lei non ha reazioni, i suoi occhi sono chiusi. Vedo che non si è
alzata neanche per andare in bagno. L’odore nella stanza non è insopportabile, ma
è brutto e lascio la stanza premendomi il naso. La Y ritaglia il buio del vetro e non
mi vedo più, solo le crepe emettono riflessi di luce. Dormo in terra, addosso alla
sacca con il rasoio e le coperte per l’inverno. Ho sete, ma non fa più così freddo,
penso.
Il giorno dopo l’autobus sbanda davanti a me, rischia di travolgermi ma l’esplo-
sione di una ruota lo fa sterzare e spegnersi contro una vecchia stazione di benzi-
na, dall’altro lato della strada. Vent’anni fa si sarebbe incendiato. Ora si limita a un
rumore di metallo contorto che muore in fretta. Mi muovo nel vento stringendomi
con le braccia quanto posso, per fortuna i lupi dormono di giorno. Stasera ci sa-
ranno un altro autobus e un funerale collettivo per la strada.
Arrivo dieci minuti in ritardo, il capo mi guarda lavorare da lontano per due ore,
poi si avvicina. Mi dice di lavorare oggi, dice che non mi farà più lavorare per il

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resto del mese. Salto il pranzo, nelle ore successive conto i soldi che i due giorni
mi hanno portato.
Passo da casa, Leila è alla finestra, dorme. Senza svegliarla lascio le banconote e
raccolgo una coperta da portare con me. Leila pagherà la stanza, mangerà quello
che il supermercato spedisce a noi raccoglitori come contributo per il nostro lavo-
ro, i resti recuperati dall’immondizia e non riacquistati. Non comprerà un vestito
per il funerale in strada. Non comprerà sigarette, non riceverà una pizza in un
contenitore di cartone. Non verrà alla clinica a controllare che tutto vada bene.
Alla clinica tutto andrà bene. Ventotto giorni e sarò fuori. Ventotto giorni.
672 ore di sonno, senza sogni.
Ventotto, e sarò
di nuovo
fuori.

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Simone Rossi
Abbandono Oblio Deserto

Abbandono
La prima volta che trovo una stanza a Bologna è appena iniziato gennaio: mio non-
no è ancora vivo.
Costa poco, è singola, c’è internet: basta. La tipa è gentile. Fricchettona, ma gentile.
È vestita come il suo cane, letteralmente: lei ha i pantaloni verdi della tuta e una
felpa rosa, e il suo cane pure. Rosa è anche il nome del cane. Le faccio notare questa
cosa dei vestiti uguali (lei non se n’era accorta).
Ah, guarda! È vero! Non ci avevo fatto caso! Rosa, hai visto? Sei vestita come la
mamma!
Rosa è nera. È un mastino napoletano.
Non c’è problema, penso.
Il cane non è mio, dice lei.
Non c’è nessun problema, penso.
È del mio ragazzo, dice lei. Lui ha avuto qualche casino e allora l’ha lasciato a me.
Il tuo ragazzo è un punkabbestia, penso. Adesso probabilmente è in galera, e in
galera i cani non ce li fanno entrare. Non c’è problema. Non c’è davvero nessun
problema. Smetto di pensare, parliamo. Sparo subito i colpi migliori: suono, scrivo,
tiro su la tavoletta del cesso, la ritiro giù. Beviamo un tè, lei fuma una sigaretta,
Rosa dorme.
Torna la settimana prossima, dice lei. Ti faccio conoscere la mia coinquilina.

Un week end di metà gennaio muore Tonino Gamberini detto Bartulò, di anni 82.
Sua moglie se l’aspettava, ma non se lo sarebbe mai aspettato. Sua figlia si ritrova a
pensare che forse questa è una liberazione. Io mi ritrovo con mio nonno in una bara
e il mio nome su una corona di fiori, e posso farci veramente poco.
Però penso a una scena: la scena del nipote che chiama la nonna da un appartamen-
to al sesto piano alla Bolognina, con i cani neri vestiti di rosa e la Verde Dorata Vir-
ginia, il Pratello monello e i muri con il pennarello, il cappuccio tirato su, la postura
sbagliata e le notti a far finta di avere una macchina da scrivere, no, non ce la faccio.

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Come stai, nonna? Io sono a Bolo! La strada vede tutto, nascita e lutto! Ah, la scena
culturale bolognese! Non puoi proprio capire, guarda!
Come vuoi che stia, idiota di un nipote, tuo nonno è morto l’altro ieri e tu vai a sput-
tanarti i soldi che non hai vivendo in una casa che non ti serve insieme a Rosa e alla
padrona di Rosa, che il cane non è nemmeno suo ma del suo moroso punkabbestia.
Infatti no, scusami nonna, non ci vado. Rimango qua.
Rimango a Forlì. Anzi, no: in provincia di Forlì.
Mando un messaggio alla fricchettona: Scusa, è successa una cosa brutta. Non ci vengo
più a Bologna. Scusa. Dai pure la stanza a qualcun altro. Scusa. Ciao.
La fricchettona non mi risponde. Chissà se ho scritto bene il numero.

Oblio
Un pomeriggio di metà marzo prendo un sasso bianco dal vaso di fiori e me lo met-
to in tasca. Mi siedo sul cemento, guardo la sua faccia da capo indiano incastonata
nel marmo. Cimitero di campagna alle due di pomeriggio di un martedì, il niente
pieno di uccellini.
Nonno, mi sembra di stare dentro a quel racconto che non ho mai scritto, quello
della tipa che va a piangere sulla tomba del suo insegnante di pianoforte, però se la
guardi bene non sta piangendo.
Nonno, ti volevo dire che vado a Bologna. Ho trovato questa stanza, un’altra, non
quella del cane. Sono due mesi che mi faccio invitare a pranzo dalla nonna, mi alzo
alle nove e non faccio colazione, così mi viene fame a mezzogiorno: passatelli in
brodo, cotolette, pomodori in gratè, pesche sciroppate, susine sciroppate, una fetta
di panettone che mi è rimasto lì da Natale. Caffè, divano, Famiglia Cristiana.
La nonna mangia a testa bassa, poi mi dice: Andiamo di là, devo misurarti un paio
di pantaloni.
Un paio di pantaloni tuoi.
Cucinare e cucire: Ada Ricci vedova Gamberini non conosce altri modi per tenere
insieme i pezzi. Cucinare, cucire e andare alla Messa. E venirti a trovare a orari im-
probabili, così non incontro nessuno che tanto non ho voglia di incontrare nessuno.

Nonno, quando vengo a mangiare da voi mi siedo sempre al tuo posto: me l’ha
chiesto lei.

Deserto
La seconda volta che trovo una stanza a Bologna è metà marzo, la settimana scorsa.
Prezzo un po’ più alto, ma basso abbastanza, Fastweb, una finestra che dà sul muro
della casa di fronte.
Bellissima, la prendo.

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Le coinquiline sono pulite, troppo pulite, pulitissime. Sono altoatesine. Sul frigo-
rifero c’è un foglio con sopra i nomi degli aspiranti coinquilini. Di fianco a ogni
nome c’è il numero di cellulare e due righe di giudizio. Numero dodici, simone
rossi: Simpatico. Ride sempre. Suona un sacco di strumenti. Potrebbe insegnare a suonare
la chitarra a Sonja.
Le altoatesine sembrano conquistate. Mi sceglieranno, sono sicuro.
Non mi scelgono.
Mi chiama Sonja l’altro ieri e mi dice: Guarda, avremmo scelto te.
Però usi il condizionale, dico io.
Lei non capisce.
Cosa?
No, dico: usi il condizionale. Vuol dire che c’è qualcosa che non va.
Ah, sì, il condizionale. Sì, c’è qualcosa che non va: il padrone di casa vuole un
universitario, perché ha la convenzione con il Comune e può prendere solo degli
universitari. Se dovessi venire tu, lui sarebbe costretto ad aumentarci l’affitto.
Ancora il condizionale. Ma non si può dire che sono uno studente anche se non è
vero? Il badge ce l’ho ancora.
No, dice Sonja: non si può.
Ma lui non lo deve mica sapere, dico io.
Ormai gliel’abbiamo detto.
Gli unici studenti universitari onesti di tutta Bologna sono due studentesse univer-
sitarie altoatesine.
Affanculo voi e i vostri canederli, penso.
Allora ci sentiamo, dice Sonja.
No che non ci sentiamo, Sonja. Non ci sentiremo più. Checcazzomifrega di sentirti.
La mia vita ha incrociato la tua perché avevi una stanza a poco prezzo da affittarmi,
non me la affitti e allora ciao, addio, adesso cancello il tuo numero dalla rubrica,
devo liberare un posto.

La terza volta che trovo una stanza a Bologna non c’è stata, è luglio sbricioluglio
e mia nonna firma ancora i biglietti d’auguri al plurale. I miei amici continuano a
fare figli, io no.

29
Silvia Ancordi
Gli undici giganti

Parcheggio sul piazzale sterrato e l’auto nera si copre di polvere, entro nel negozio
e prendo una bottiglia d’acqua dal frigo vicino alla cassa.
«C’è nessuno?»
«Arrivo!» sento dire da una donna anziana che cammina, lenta, aiutandosi col
bastone; mi si avvicina al viso tanto da farmi sentire il profumo di acqua di rose e
sorridendo dice: «Finalmente sei arrivata.»
Deve avermi scambiata per un’altra.
Non so se spiegarle che sono la figlia del falegname che si era incatenato a Geolo,
l’abete rosso secolare.

Trent’anni prima, credendo alla promessa di una cittadella ricca e moderna, la


gente aveva ceduto i piccoli campi e le case in mezzo al verde; mio padre lottò per
impedire che il bosco venisse abbattuto, ma l’inizio dei lavori lo obbligò a partire;
ci trasferimmo lontano con i pochi soldi che gli diedero per casa e bottega, mentre
Tina e il marito aprirono questo alimentari.

Pago, e intanto che apro la porta per uscire, sento la sua voce: «Sissi, son quasi
cieca e mezza sorda, ma l’olfatto è rimasto buono. Il profumo del bosco resta im-
presso nelle nostre anime.» E sorride nostalgicamente.
«Qui non c’è più nessuno» aggiunge.
Le prendo la mano grinzosa, piena di piccole macchie brune; la aiuto a mettersi
seduta in poltrona dietro al bancone e gli unici rumori che sento sono il clacson
dell’auto e il rombo di un aereo che vira dopo il decollo.
«Per favore, vai dai giganti; se potessi ti accompagnerei» dice muovendo il basto-
ne per aria. Si scosta appena dallo schienale per farsi abbracciare e chiede: «Passi
a salutarmi dopo?»

«Hai scavato il pozzo?» chiede Emma, mia sorella, mentre sgranocchia patatine.
«Ho visto Tina!»

33
«L’ho vista una volta con papà almeno dieci anni fa» dice allungando la mano per
prendere la bottiglietta d’acqua. Accendo la radio e una sigaretta, poi ripartiamo
percorrendo la strada principale costeggiata da negozi con scritto Cedesi attività su
cartelli scoloriti dal sole.
«Fermati!»
Inchiodo e le gomme stridono sull’asfalto: «Guarda!» dice indicando una piccola
stele di marmo bianco.
Scendiamo dall’auto e leggiamo all’unisono: «Ricciolo, il castagno.»
«Ti ricordi la mattina in cui papà ci aveva lasciate qui in mezzo al bosco e si era
allontanato per andare a funghi?»

«Bimbe, restate qui e non muovetevi, scendo verso la strada e torno.»


Nell’attesa, guardavamo la luce filtrare tra le fronde degli alberi e illuminare le
foglie a terra; cercavamo qualche riccio di castagno ancora chiuso ed Emma, con
sguardo incantato, controllava il sottobosco nella speranza di vedere qualche sco-
iattolo o di trovare un gatto randagio come Tigre, il tricolore appena portato a
casa; io annusavo l’aria che sapeva di resina, muschio e terra umida.
Di tanto in tanto Emma urlava: «Papà, dove sei?»
Lui batteva il bastone sulla pianta più vicina e diceva con tono pacato: «Sono qui.»
Una lieve eco ci confondeva: l’avevamo visto scendere a valle, verso la strada e
ora, stranamente, rispondeva a monte, sopra le nostre teste.
Dopo circa un’ora tornava mostrando un cestino vuoto: «Ha piovuto poco.»
L’olfatto di Emma, quel giorno, compensò la mancata pioggia: sul sentiero di ri-
torno, annusando l’aria, ripeteva: «Sento odore di porcini.» In effetti, sembrava
che il suo naso fosse programmato solo per quelli, come un segugio per i tartufi.
Sotto un tronco bianco piegato da qualche temporale, trovò un enorme fungo
porcino: quella divenne la nostra macchia di raccolta.

«Ehi, abbiamo altri dieci alberi da visitare.»


Mi ha chiesto di accompagnarla in questa via crucis da fare in auto, per superare
muri e terrazzamenti che sostituiscono il vecchio sentiero, perché la leggenda –
secondo me inventata per non fare abbattere il bosco – vuole che ogni desiderio
chiesto agli undici secolari venga esaudito. Emma, ad ogni lapide, fa il gioco che
faceva da piccola con le piante, in attesa che papà tornasse: un giro attorno in
senso orario, uno in senso antiorario, e con gli occhi a percorrere il tronco che non
c’è più fino al cielo.
Mi limito a fumare e ripenso ai giganti secolari che nella mia mente di bambina
erano i pilastri delle case di piccoli elfi e magiche fate. Credo di aver fumato undi-
ci sigarette in due ore, una per ogni albero.

34
Finalmente siamo alla lapide dell’ultimo secolare.
«Ho finito» dice Emma soddisfatta e sorridente.

È passato mezzogiorno ma il campanile della chiesa non ha suonato perché anche


il parroco si è trovato senza fedeli – visto che qui non c’è possibilità di fare pecca-
to – e se n’è andato. Torniamo all’alimentari e Tina è ancora sulla poltrona con un
foglio in mano, gli occhi chiusi con il volto sorridente, una coperta di cotone sulle
gambe, che prima non aveva, e il suo bastone è poggiato a terra. La figlia compare
dal retrobottega in lacrime.
«Tu devi essere Sissi, mi ha detto che ti aspettava.»
«Sì, cosa è successo? L’ho vista circa due ore fa e stava bene» dico esitando.
«Una lettera del comune per l’esproprio del negozio: vogliono ripiantare gli alberi
per via dell’inquinamento della città nuova.»
Resto in silenzio.
«Ha detto “Finalmente”, e ha fatto un lungo sospiro. Scusate, chiamo mio marito»
dice uscendo asciugandosi il viso.
Emma si volta verso Tina e piangendo sussurra: «Scusa.»
Mi abbraccia e aggiunge: «Ho chiesto che lo spirito del bosco tornasse in vita.»
Ricordando credo di averlo chiesto anch’io.

35
Gianfranco Franchi
αλήθεια

Una volta ho sognato di correre in una maratona. La maratona si teneva in un


bosco. Ai nastri di partenza eravamo in tanti, ciascuno con la sua pettorina, di-
versi con lo sguardo spiritato. Poi c’era stato il pronti, partenza, via, e io avevo
cominciato a galoppare. Man mano, avevo guadagnato la testa della corsa, e non
avevo nessuna voglia di voltarmi indietro. Soltanto, correvo. Correvo. Fino a un
certo punto, avevo incontrato dei cartelli, nel bosco. Indicavano, semplicemente,
la direzione. Avevo rispettato i cartelli, ero convinto di non aver cambiato strada.
E poi, a un tratto, avevo smesso di sentire il respiro degli altri corridori. Nessuno
sbuffava, nessuno ansimava. Niente sospiri, nessuna parola. Pensavo: fantastico,
sono come l’Airone nella tappa delle Alpi, me ne sono andato in fuga. Pensavo:
vincerò con un distacco pazzesco. Pensavo: non credevo di essere così in forma.
Pensavo: è stupendo essere solo, davanti a tutti, e correre. Avanzavo. Ma non c’era
più traccia di cartelli. Non c’era più traccia di indicazioni. Il sentiero, nel bosco,
era sempre più sottile, e la vegetazione sempre più fitta. Correvo tra i rovi, i rovi
mi scorticavano i polpacci, le braccia. Mi graffiavano tutto, ma io non rallentavo.
Sanguinavo, e correvo. Correvo.
E poi, mi sono fermato in una sorta di spiazzo sterrato. Mi sono messo le mani
sui fianchi, mi sono guardato indietro. Sto correndo nel niente, ho detto ad alta
voce. Qui non c’è più nessuno. Ho chiamato aiuto. Ho gridato dove siete?, dove
siete. Ho gridato sono qui!, e ho sbuffato. Poi, come fossi un bambino, mi sono
messo a piangere. Di botto. Come quando mi sono perso sulla spiaggia, avevo cin-
que anni. Ma piangere a cinque anni ha senso. Soprattutto in mezzo agli estranei.
Qualcuno se ne accorge, di solito una mamma, e si comporta come fosse mamma
tua, e senza che tu possa capire come, in men che non si dica qualcuno ti viene a
prendere. Piangere a trentacinque anni, in un bosco, perché sei un maratoneta in
fuga e nessuno ti sta più dietro, e pure il sentiero è cambiato, non serve a niente.
Ti chiedi: sto piangendo davvero? A che serve piangere se nessuno ti guarda? Da
quanto non piangevo? E intanto piangi. Piangi come uno scemo, piangi e basta.

39
Ricominci a correre, ma è un automatismo. Fai duecento passi, non c’è nessuno,
non si vede niente. Niente. Verde. Terra. Neanche due bestie. Nessun corvo e nes-
sun pettirosso, and no bird sings. Niente. Siamo – nel sogno, eravamo – io e il mio
respiro soltanto.
Allora mi sono strappato la pettorina, e mi sono tolto le scarpe. Mi sono tolto i
calzini, mi sono tolto la maglia. Mi sono tolto i pantaloncini, mi sono tolto le mu-
tande. Nudo mi sono immerso nel bosco, senza dire una parola, senza pensare più
a niente. Ho deciso che correre non aveva più senso. Ho capito che non avevo più
nessuna voglia di gareggiare con nessuno. Ho capito che stavo cercando qualcosa
di diverso: una posizione, un senso, un ruolo. Una condizione, uno stato d’animo.
Qualcosa che fosse immobile, che perdurasse, che non potesse essere trasformato,
che non potesse cambiare.

Perché correre, dico, quando in ogni caso non te ne deriva niente? E vincere, vin-
cere cosa significa? Significa innescare meccanismi malati, rivalità, competizione,
invidia. La partecipazione diventa una scatola cinese di odio, di antipatia, di osti-
lità. Di male. No, non me ne frega niente.

Ho camminato per il bosco, spoglio di vita, e ho camminato nel bosco perché


non volevo più niente. L’eredità del mio passato era una catenina d’argento, al
collo. Ho cominciato a disegnare con le mani forme nel vuoto: un piccolo sole,
una falce di luna, le efelidi della mia donna, il muso del mio gatto. Il vuoto asso-
migliava al mio simbolismo semplice, all’allegoria della mia essenza – all’aspetto
della mia minima, normale appartenenza. E poi, mentre forse m’ero illuso che
stesse nascendo qualcosa di diverso; che fossi, forse, finalmente approdato a una
dimensione altra: e che tra non molto, in ogni caso, qualcosa sarebbe successo,
qualcuno mi sarebbe apparso, allora... allora sono caduto. Sono caduto nella terra:
la terra s’è spalancata, come le cosce di una donna, e mi ha ingoiato. Aveva fame
di me. Sono caduto, e precipitando pensavo: non è successo niente. Sono caduto,
e rotolando nel vuoto pensavo: se cado di schiena mi faccio male. Sono caduto, e
sbattendo contro le pareti della terra pensavo: ho un neo che non mi devo graffia-
re, quel neo è delicato. Sono caduto, e la caduta non conosceva fine. Quando cadi
per tre secondi, non è niente. Quando cadi per dieci, ti comincia a pesare. Quando
cadi per quindici, ti senti il cuore che esplode, ti fanno male le orecchie, senti fred-
do sotto i piedi, diventi rigido. Sono caduto, e poi non ho più sentito niente. Mi
sono lasciato andare.
Cancellati i pensieri, perduta l’alterità, svanita ogni forma di umanità, ho visto il
mio futuro, e l’ho scelto. L’ho incarnato. Mi è sembrato divertente. So di averlo
scelto.

40
C’è un bosco in cui nessun vivo mette piede. In questo bosco c’è un grande spiaz-
zo, e nel bel mezzo c’è una fontana. L’acqua di questa fontana è la conoscenza – è
la memoria della trascorsa vita. Io però stavolta non mi volevo fermare a bere.
Non volevo rinascere. Volevo restare a guardare. Volevo restare a guardare, vo-
levo aspettare. Volevo aspettare che qualcuno – non qualcosa – capitasse. E così,
ho domandato a dio di plasmarmi come una statua. Io, uomo di marmo, ero la
scultura della fontana: la fontana dell’acqua del ricordo. Non avrei più gareggia-
to, non avrei più partecipato a nessuna corsa, non avrei più scritto o detto niente.
Niente rivali, niente pettorine, niente strade da rispettare. Niente arbitri, nien-
te spettatori, nessuna donna da conquistare. Soltanto: come pietra, innamorarsi
dell’acqua. Intanto: come pietra, sbirciare le persone, quando finiscono di vivere e
decidono di dimenticare quel che sono state. Infine: come pietra, vagare nei sogni
in cerca di una pietra simile. Ecco. Come nuda pietra, non avere più faccia, e non
avere nome. Non dissolversi: annullarsi. Non respirare affatto.

Goccia adesso la fontana. Per ogni stilla d’acqua, un ricordo che non brucia. Per
ogni stilla d’acqua, io, pietra, scintillo di gioia. Non posso bere, e non più voglio.

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Fabio Medda
La parte del manico

È la storia di una donna.


Una storia dura, con il suo continuo basculare tra cinismo e tenerezza, ingenuità e calcolo.
Una storia sporca. Una donna obbligata a essere coraggiosa, che va anche oltre.
Ma non chiamatelo lieto fine. Facendo finta per un attimo di cadere nel tranello di questa
pessima traduzione di happy end, si può dire che se il fine giustifica i mezzi, qui il fine è
lieto quanto lo sono stati i mezzi.

Egregio Presidente,
sono una impiegata dell’impresa di pulizie che Lei ritiene essere sovradimensio-
nata per le esigenze della sua società e, per questo motivo, ha deciso di mettere da
parte.
So bene come andranno a finire le cose. Il sindacato ribatterà che si devono garanti-
re i livelli occupazionali, Lei insisterà sulla necessità di ridurre drasticamente il ser-
vizio e si arriverà al compromesso che si lavorerà meno, per lavorare tutte, oppure
si salveranno soltanto la metà delle attuali dipendenti, ma con l’orario immutato.
Qualcuna sarà prepensionata (non è il mio caso), qualcun’altra verrà collocata in
cassa integrazione, magari a zero ore, altre ancora troveranno lavoro in imprese
collegate. Chissà dove, chissà per quanto.
Sicuramente molte di noi dovranno rivedere il bilancio familiare, perché non si
potranno più permettere il lusso di contare su 800 euri al mese.
Ecco, io potrei essere una di queste. Non mi spaventa, sono cresciuta dovendo
quotidianamente affrontare mille difficoltà.
Sa Presidente, alle privazioni ci si abitua. Sin da ragazzina ho dovuto tirare la cin-
ghia anche se, a dire il vero, una cinghia nemmeno ce l’avevo. Abitavo con mia
madre e mia sorella più piccola in un quartiere fiorente e gonfio di speranze e
promesse soltanto per due mesi ogni cinque anni, durante le campagne elettorali.
Trenta metri quadri in tre. Mio padre lo ricordo appena, morì che avevo pochi anni.

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Si viveva della sua pensione di operaio, a cui si aggiungevano pochi spiccioli per
l’accompagnamento di mia madre, non vedente. Spesso stavamo al buio, per ri-
sparmiare e perché mia madre della luce non sapeva che farsene. Io e mia sorella
studiavamo a lume di candela.
Siamo sempre andate d’accordo. La sera, mentre mia madre ascoltava la radio per
addormentarsi, giocavamo al gioco dell’oca o a battaglia navale.
Sono cresciuta senza PlayStation eppure ero felice. La TV arrivò in casa nostra
quando un lontano zio si comprò un nuovo televisore a colori e ci regalò il suo
vecchio 14 pollici in bianco e nero, con i canali che saltavano spesso e l’audio
velato.
Per noi l’arrivo della TV fu un evento emozionante, di cui ingenuamente ci van-
tammo anche a scuola. Ma fu anche l’inizio di un periodo molto doloroso.
Allora avevo diciassette anni, mia sorella due in meno.
Lo zio di cui ho parlato venne a portarci la nostra piccola TV una domenica mat-
tina. Non dovette suonare il campanello perché proprio in quel momento mia so-
rella teneva la porta di casa aperta per poggiare sul pianerottolo il sacchetto delle
immondizie. Lui salutò ed entrò.
Io in quel momento stavo facendo il bagno nella vasca piena di acqua calda e sali
profumati. Me lo potevo permettere soltanto la domenica e volevo gustarmelo
fino in fondo. Lui non era mai stato a casa nostra. Passò davanti al bagno proprio
mentre io uscivo dalla vasca. La porta era aperta, come sempre. Quando si vive
con una non vedente non si fa tanto caso a certi pudori. Io e mia sorella talvolta
giravamo seminude per casa, senza alcuna malizia.
Mio zio mi fissò per alcuni secondi, prima che riuscissi a prendere l’accappatoio
e chiudere la porta.
Qualche giorno dopo squillò il telefono. Rispose mia sorella. Era lui.
Non ci girò molto intorno. Mi disse che molte mie coetanee potevano fare una vita
più agiata della mia perché ogni tanto facevano compagnia a persone anziane e
bisognose di intimità.
Si lavorava poco e si guadagnava bene. Lui controllava e faceva in modo che non
succedesse niente a nessuno e che gli incontri si svolgessero nella massima riser-
vatezza e pulizia.
Lo mandai a cagare. Non ero neanche sicura fosse davvero mio zio.
Poche settimane dopo arrivò Natale. Un triste, tristissimo Natale. Anche mia ma-
dre era morta, i primi giorni di dicembre. L’unico reddito per me e mia sorella era
ormai la pensione di mio padre. O meglio, quello che ne restava. Le prospettive
dell’immediato futuro erano poco felici.
Il giorno dell’Epifania lo zio chiamò ancora e, dopo le condoglianze, mi chiese se
ero ancora arrabbiata con lui. Questa volta non gli sbattei il telefono in faccia.

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Gli incontri si svolgevano in un monolocale della costa, appartato, decoroso, ab-
bastanza pulito ma con un forte odore di umido, arredato con gusto dozzinale e,
date le circostanze, equivoco. I primi tempi lavoravo un paio d’ore una volta alla
settimana, ben presto i giorni diventarono una decina al mese.
Molti pensionati, qualche agente di commercio, turnisti, dipendenti in trasferta e
militari. Si agitavano sul mio corpo acerbo per pochi minuti, dopo avermi toccato
dappertutto rudemente, senza il minimo sentimento. Ricordo ancora l’alito puz-
zolente di tanti corpi sfatti, gli occhi impregnati di vino, le loro unghie sporche
su di me. Ho visto tante cicatrici, tanti nei. Ho respirato tanto sudore e fumo di
sigaretta. Alcuni clienti erano evidentemente abituati a certi incontri, altri invece
recitavano un ruolo che non gli si addiceva, con frasi forzatamente volgari per
darsi un tono. Magari a casa li stava spettando una figlia della mia età.
La mia discesa all’inferno durò sei mesi. Un pomeriggio si presentarono in due,
pieni di tatuaggi e di proposte insostenibili. Io, con la scusa di andare in bagno
a lavarmi, scappai dalla finestra e corsi fino a sentire il cuore scoppiarmi in gola.
Tornai a casa molto tardi, in autostop.
Dopo due giorni lui mi telefonò. Mi riempì di insulti e, con mia grande sorpresa,
mi disse che aveva già in mente di scaricarmi perché ero ormai maggiorenne, ma
che un giorno l’avrei cercato io e mi avrebbe ripreso soltanto alle sue condizioni.
Stavolta fu lui a sbattermi il telefono in faccia. Non l’ho più sentito né visto.
Qualche mese più tardi risposi ad un’inserzione sul giornale. Si trattava di un
posto part-time di segretaria presso un’associazione di artigiani. Compenso da
fame, tutto in nero, nessun contributo previdenziale, orari pesanti. Un ricatto per
disperati, ma io ero disperata e accettai.
La sede sociale era uno stanzino al piano terra di uno stabile fatiscente appena
fuori città.
Mi comprai un paio di pantaloni e un maglioncino dai cinesi sotto casa per assu-
mere un aspetto dignitoso. Con un vasetto di fiori e due quadretti provai anche a
rendere più grazioso ed accogliente l’ufficio così spoglio, striminzito e sperduto
ma per me così importante.
Il mio lavoro consisteva nel rispondere al telefono, spedire la corrispondenza e
verbalizzare durante le riunioni. Per arrotondare la paga non affrancavo le lettere
destinate ai soci e le consegnavo a mano. I soldi per i francobolli, tolte le spese per
i biglietti del pullman, restavano a me. Fu proprio in occasione di una di queste
consegne che conobbi, l’anno scorso, il proprietario dell’impresa di pulizie dove
ho lavorato fino a oggi. Cercava nuovo personale e mi propose di fare un periodo
di prova di tre mesi. Il resto della storia lo può intuire, Presidente.
Adesso Lei si starà chiedendo come mai Le ho raccontato tutte queste cose. Non si
preoccupi, non intendo elemosinare una raccomandazione o chiedere la carità di

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una proroga dell’impiego. Il mio destino è affidato al gioco delle parti, ho un de-
stino precario. Ricominciare non mi spaventa più. Ma ho una sorella più piccola
ed ho promesso a mia madre, quando era in punto di morte, di vigilare su di lei.
Questo pensiero mi ha sempre dato la forza di sopportare tutte le umiliazioni che
ho dovuto subire e di maturare la convinzione di risparmiarle almeno a lei.
Non ho altre pretese che proteggere la sua dignità.
Ma lo sa che la settimana scorsa stavo pulendo la barca del titolare dell’impresa
di pulizia ormeggiata al porticciolo e all’improvviso dall’imbarcazione accanto è
uscito Lei con la sigaretta in bocca e un fascio di quotidiani sotto il braccio? Aveva
un bel paio di occhiali da sole, pantaloncini e ciabatte. Non mi ha vista e per non
metterLa in imbarazzo anche io ho fatto finta di niente.
Vede Presidente, da quel giorno mi sono chiesta spesso dove avevo già visto la
cicatrice che Lei ha sotto lo stomaco. Stanotte mi sono ricordata.
Io e la sua cicatrice ci siamo conosciuti nel monolocale sulla costa. Lei non può
ricordarsi di me, io invece fatico a non pensarci. Ma con un po’ di buona volontà
potrei dimenticare. Perché esistono anche cicatrici che possono scegliere di non
sanguinare.
Con deferenza.

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Angelo Zabaglio e Andrea Coffami
Pianterei

Dovrei semplicemente rincorrere il mio passato, guardarlo negli occhi e dirgli: «Come stai
grande capo?» E lui magari mi sorriderebbe pure, mentre cerca d’intimorirmi come fosse
un albero secolare.

Stanotte andrò a ballare robba acida. Musica che una pasticca non basta, che tre
canne non bastano, che sei rum e pera non bastano. Sarò in uno di quei locali dove
entri in bagno sano ed esci con il raffreddore. E lui ballerà con me, bello come una
divo naturale, con le vesti leggere che gli copriranno indecentemente le spalle e la
schiena. E finiremo con il fare sesso, con il baciarci le labbra, con lo sfiorarci le dita,
con il salutarci, con l’allontanarci.

Mi telefona il mio socio mentre mastico del vino che serve da lubrificante per i
pensieri. Gli parlo e mi rendo conto che il filtro tra cervello e lingua ha due gran-
di buchi che lasciano scivolare parole tipo “troia” e “cazzo” senza un vero ed
essenziale motivo. La telefonata termina e vado a farmi una doccia, sperando di
levarmi di dosso la puzza di lavoro che mi atrofizza il cervello. Lo vedo il mio cer-
vello: è grigio con tre chiazze nere come fosse un cavolo marcio. Puzza di vecchio
e pulsa gli ultimi minuti. Devo curarlo con della musica e metto su il cd con le
strumentali. Nudo sotto la doccia. Il getto d’acqua mi riscalda le spalle ed i capelli,
scende per la schiena ed arriva ai piedi.
La sensazione che provo è priva di emozioni. Sto diventando lentamente un uomo
di sola carne. Dovrei resistere ma è troppo difficile e sinceramente non sarei pron-
to ad affrontare nuove emozioni, ora, in questo istante, in questo preciso periodo
della mia vita. Molto più semplice bere, ascoltare musica e lavorare vivendo il
43% della mia esistenza in un ufficio con pareti chiare.

Nelle ultime settimane i miei vecchi amici si sono rivelati dei simpatici burloni
che amavano solo la mia anima, una volta andata a puttane non mi considerano
più. Ho voglia di fumare erba, con Giuliana. La chiamo. Il numero è occupato. La

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chiamo di nuovo. Devo resistere a questa tentazione, dovrei capire che il telefono
non è stato creato da Dio, non è un segno vitale che ci porterà alla morte. È solo un
oggetto che vibra voci. È Giuliana. Risponde e revisiono la mia teoria. «Ho voglia
di fumare con te» le dico. E lei: «Solo fumare.» Ed io: «Certo, magari nudi sotto
il piumone.» Lei ride e poi: «Arrivo.» Mi rullo una sigaretta. La saliva abbonda,
lascia filamenti che partono dalla colla della cartina fino alle labbra. Non ho resi-
stito. Avrei dovuto dirle: «No, meglio di no» anzi non avrei dovuto chiamarla per
nulla.

Qui piove che Dio si sta proprio sfogando alla grande da due ore. Noi due sotto
le coperte che fumiamo nudi. Fumiamo e basta. Giuliana si addormenta ed io le
cicco sui capelli, le è sempre piaciuto. Sento che sta arrivando il bisogno di alcool,
non è visibile ancora, non riesco a vederne bene le mani e gli occhi, è ancora lon-
tano. Devo resistere. Come palliativo potrei usare del the, pare funzioni. Il bere
alcolici è un continuo di onde con alte e basse maree. Possono esserci delle pause
ritmate o dei buchi imbarazzanti, come in una prima teatrale ma il succo della
questione è che non si smette mai di bere.

La sera scorsa su rete4 davano Renzo Arbore intervistato da Sbirulino. Non potete
mettere Sbirulino alle quattro di notte di un giovedì italiano. È qualcosa di alta-
mente reazionario ed allucinogeno. Nel forno ci sono sei pezzi di pizza avanzati
da un giorno, ne prendo un paio. Li addento e l’ingoio, già so che riusciranno
da dove sono entrati. Non resisto ed afferro un terzo quadrato di margherita. Mi
rimetto a tavola con gli occhi su Sbirulino che ora canta la canzone della sigla.
“Cavallo, cavallo se fossi un coccodrillo, se fossi più tranquillo.” Termino l’intera
teglia e corro in bagno a menarmi le dita in gola per dormire a pancia vuota.

Al mattino sveglia alle 6 e mezza, non ho mal di testa per fortuna. C’è un freddo
boia, chi cazzo non ha acceso il riscaldamento? Sollevo la coperta e mi butto sotto
la doccia. Giuliana è andata via senza salutarmi. O forse è nascosta in un cassetto
della scrivania. Imparo a credere che sia nascosta nella mia stanza. La solitudine
e l’abbandono non fanno per me. Ho una mezz’oretta buona per lavarmi, cagare,
preparare il caffè e buttarlo giù tutto d’un sorso come fosse una medicina. Esco di
casa ed arrivo alla stazione dove bestemmio vedendo passare l’autobus davanti
ai miei occhi. Sbraito tentando di impietosire il conducente, che con un sorriso
gentile rallenta ed apre la porta per farmi salire. Non si è poi così soli, penso. Lo
ringrazio e lui nemmeno mi risponde, si sente superiore il tizio. Ha il coltello dalla
parte del manico, può permetterselo. Mi vado a sedere nelle ultime file. La puzza
di piscio inizia lentamente ad entrami nei vestiti, nella pelle e nel sangue. Arrivo

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in ufficio. A lavoro non si beve, al massimo una birra. Diventerebbe tutto più com-
plicato, farei troppi errori, più di quanti già ne faccio da sobrio. Devo resistere fino
alle quattro, poi sarò libero di dormire un po’, di scrivere e pensare al mio amore
che non c’è più. La sua morte mi arrivò improvvisa ed inaspettata. Una telefonata.
Una semplice telefonata che mi trasformò in stazione ferroviaria deserta. Merda
vacca ho finito il tabacco e fuori diluvia grandine tosta.

Quel pomeriggio avrei dovuto avere un lavoro nuovo, una nuova esperienza. Ma
con che faccia potevo recarmi dal tizio che mi avrebbe pagato per fare qualcosa
che, sinceramente, non volevo fare. Con il pensiero della morte di lei in testa. Era
inconcepibile. Non mi presentai all’appuntamento. Rimasi nascosto in un cassetto
della scrivania, vicino ai calzini rossi.

Il giorno dopo mi chiama il capo e mi sbraita al telefono per dieci minuti. È fatto
così, bisogna capirlo, è stressato e scopa poco. Mi dice che se faccio un’altra cazza-
ta mi licenzia. Per fortuna non ho un contratto, gli rispondo. Hai appena fatto la
cazzata, penso. Invece no. Il lavoro prosegue e presi a considerarlo come un pesce
spada da uccidere e mangiare a tranci. Senza rimorsi.

Mia zia mi raccontava sempre questa storia: Nino era un bambino povero e triste.
Un giorno, mentre rovistava nella spazzatura vide una moneta d’oro. Nino non sapeva
che quella moneta era magica: se immersa nell’acqua di fiume, avrebbe potuto esaudire
qualsiasi desiderio. Nino raggiunse il padre che stava pescando poco distante. Per l’ansia
di dare la bella notizia, il piccolo cadde in terra battendo la testa. La moneta finì in acqua
ma Nino non dava più segni di vita. Al padre venne istintivo gridare: «Non morire.» Ed
il figlio aprì gli occhi subito, all’istante, come nulla fosse accaduto.

Ecco… ora non mi sento né il piccolo Nino, né il padre, tanto meno la moneta ma-
gica. Oggi mi sento fiume… e non devo resistere a nulla. Anzi, oggi sono il pesce
di fiume che ha scampato l’amo.

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Erwin de Greef
La mela caramellata

Noi tutti bevevamo sulla soglia del locale di Malachìa che si affacciava su una sca-
linata rivestita di pasta frolla e divideva il mondo in due parti. Una era per quelli
che se ne fregano e camminano col naso in su. L’altra era per chi s’interessa a tutto
e cammina col naso verso terra.
Noi eravamo in mezzo e scorrevano fiumi d’alcool. Io bevevo birra perché il mio
fegato se n’era andato a farsi un giro. Edith beveva gin tonic perché il suo cervello
voleva farsi un giro. Con noi c’era Addy che mi guardava, mi dava a parlare e
credo proprio che volesse farmi il filo.
Ruffo con un cappellaccio di paglia in testa e i piedi scalzi suonava il flauto di
traverso nell’angolo della strada e richiamandomi con un gesto mi sussurrò: «Ti
presento Kirsten, la mia donna.»
Fu allora che mi accorsi che gli occhi di Edith si erano fatti meno chiari e la vidi
mandare giù il gin tonic d’un fiato. Lei mi sorrise ed entrò nel locale per uscirne
subito dopo con un altro. Cleto mi disse: «Ma così si fa male.»
«No», gli risposi io. «Questo è quello che vuole lei.»
Dentro il locale, la musica era suonata ad alto volume e doveva piacere a un sacco
di gente perché ballavano, saltavano e battevano il ritmo sui tavolini di strudel
farcito con mele cotogne e uva secca.
All’angolo della strada, dov’era Geppo che fotografava Viola dai capelli biondi e
corti, c’era anche Fermo, vestito con abiti di pelle di capra, che stava vomitando.
Le persone che camminavano col naso in giù lo scrutavano dall’alto verso il basso
e preoccupate gli domandavano: «Ma cosa c’è?»
Lui rispondeva: «Vomito quello di cui non avevo bisogno. È molto buono. Ne vo-
lete anche voi?» Per qualche istante lo guardavano perplessi e poi se ne andavano
da quella parte di mondo dove tutti camminano col naso verso giù.
Le campane suonarono a morto e subito Malachia abbassò il volume della musica
perché, come lui stesso ci spiegò: «Non è giusto per il morto.» Noi fummo d’ac-
cordo e decidemmo di abbassare anche il tono della voce e fare meno tin tin con
i bicchieri.

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Andammo nel retro del locale ricoperto con mollica di pane. Vestimmo abiti di
corteccia dipinta di nero, accendemmo i ceri e, portandoci un bicchiere di quello
che ci andava di bere, uscimmo all’aria aperta.
Silenziosi seguimmo la processione che s’ingrossava ogni momento di più. C’era-
no tante altre file che si univano alla nostra e per ognuna c’era una persona che
suonava una campana a morto.
La processione si fermò. Noi tutti ci disponemmo in cerchio, intorno alla bara e
dovevamo stare attenti a non cascarci dentro. In quel caso, chi ci avrebbe tirato
fuori?
Dei signori incappucciati accesero le fiaccole e fu allora che s’illuminò una piazza
grande, delimitata da palazzi antichi e nobiliari costruiti con croccante di mandor-
le tostate e zucchero cotto. Al suo centro c’era una statua equestre di budino alla
vaniglia. Rimanemmo immobili, immersi in quella luce.
La bara era scoperchiata e dentro c’era un signore che dormiva. Era elegante, ve-
stito con abiti di cioccolato bianco e la faccia di frutta martorana. Sembrava dor-
mire e non morire ogni attimo di più.
Il signore incappucciato si fece il segno della croce e strappò un lembo del morto.
Lo mangiò con gusto. Ne strappò altri e ce ne offrì. Noi li mangiammo. Fu gentile
e ci versò anche del buon vino.
Qualcuno – anche lui con la faccia di martorana – lodò il morto e la sua vita esem-
plare. Noi tutti applaudimmo nella speranza di poter essere al suo posto in un
futuro molto lontano. Poi le fiaccole furono spente, e capimmo che il funerale era
finito.
Ci dividemmo così come c’eravamo aggregati. Ci dividemmo per tornare ai nostri
misteri. Malachìa fece un gesto con la mano e noi, che all’andata avevamo fatto
strada con lui, lo seguimmo cantando in coro.
Appena dentro il locale pieno di luci e bottiglie colorate, risuonò la musica di un
violino e in quel preciso istante, si alzò un vento che trasportava ghirlande, mar-
gherite e petali di rose gialle.
Il locale di Malachìa divenne una sala da ballo con i mattoni di wafer dipinti nero
e bianco. Pieni d’entusiasmo noi tutti andammo nel retro per cambiarci d’abito.
Vestimmo foglie colorate e danzammo come nessuno avrebbe saputo fare sulle
corolle dei fiori e i petali delle rose.
Un po’ alla volta le sigarette finirono e andai a comprarne delle altre. Attraversai
quella parte del mondo in cui le persone camminano con il naso rivolto verso l’al-
to e nessuno si accorse che ero tra loro. Nessuno vide che bevevo birra in bottiglia.
Nessuno capì che andavo mendicando un bacio senza speranza.
Ritornai al locale. Edith mi afferrò per mano portandomi nel retrobottega, non
quello in cui c’eravamo cambiati d’abito per andare al funerale e poi ballare. Era

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un altro, grande e accogliente quanto il primo. La luce soffusa e rossa sagomava
gli incensi profumati al sandalo e al gelsomino. Lo stereo suonava un vecchio
motivo di sottofondo.
Al centro della stanza di panettone con frutta candita c’era un letto a due piazze,
comodo, di pandoro arricchito con gocce di rum con sopra una coperta di zucche-
ro soffiato, leggera e molto colorata.
Edith si tolse le scarpe di bambù e le mise di lato. Si tolse anche il vestito di foglie
verdi intrecciate e ricamate. Io feci lo stesso. Poi tenendoci per mano ci abbando-
nammo sul letto fresco e soffice.
Sognammo di una serata passata in un locale, che era una mela caramellata rico-
perta di crema gialla. Sognammo di Malachìa, che ci offriva cocktail e vino rosso.
Sognammo che Ruffo suonava il flauto di traverso mentre Fermo vomitava all’an-
golo della strada. Sognammo di un funerale e di una festa. Sognammo di una
strada che divideva il mondo in due. Da una parte c’erano quelli col naso in su,
dall’altra quelli col naso verso giù. Infine, dormimmo sodo e per quella notte non
ci svegliammo più.

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Gianluca Morozzi
Matrioske

Camminavo per le strade di New York dopo aver messo un oceano tra me e chi
voleva cavarmi gli occhi, e a volermi cavare gli occhi erano mio padre e mia madre.
Il motivo era risibile, roba da niente. Avevo solo contratto un debito con un tipo
chiamato Cane Idrofobo, per pagare il debito avevo clonato i bancomat e le carte
di credito dei miei genitori, e avevo prosciugato i loro conti un po’ alla volta. Poi,
davanti a quei soldi, mi ero detto: perché dare questo ben di dio a uno che si fa
chiamare Cane Idrofobo?
Con quei soldi ci avevo attraversato l’oceano, appunto. Fino a New York.
I miei genitori volevano cavarmi gli occhi, Cane Idrofobo tagliarmi la gola. Bene,
avevo pensato sotto l’arco di Washington Square. Trovatemi qui, se ci riuscite.
Così camminavo per Manhattan, in una bella giornata di giugno, con una manciata
di dollari in tasca. Tra il volo, il cibo e qualche cd raro, il mio patrimonio si era poco
a poco assottigliato. L’idea di cercarsi un lavoro rientrava tra le soluzioni estreme.
Mi facevo largo tra i turisti che scattavano foto, lanciando occhiate latine alle ragaz-
ze che leccavano il gelato ai bordi della fontana, prima di sdraiarmi tra l’erba e gli
scoiattoli. Poco lontano suonava un’orchestrina jazz.
A mezzogiorno avevo deciso di investire un dollaro in un hot dog. Stavo per uscire
dal parco, quando un nero enorme mi si era parato davanti.
«Sei pronto, amico?» aveva urlato. Avevo cercato di scansarlo, quello aveva conti-
nuato a urlare «Sei pronto, amico?» indicando qualcosa alle sue spalle.
Stavo per dire che non volevo droghe, solo un hot dog, ma poi avevo guardato
meglio. Sotto gli alberi c’erano dei lunghi tavoli. Sui tavoli, delle scacchiere.
Mi stava sfidando. A scacchi.
Dentro la matrioska che ero diventato, molti strati sotto l’involucro esterno, una
delle matrioske più interne aveva trascorso mille sabati adolescenti tra i silenzi
ovattati del circolo degli scacchi. Una matrioska piccola e interna che non rubava
bancomat e non clonava carte di credito, che faceva il chierichetto, che mai e poi
mai avrebbe frequentato gente chiamata Cane Idrofobo. La matrioska più grande
aveva sorriso. Sapeva di poter contare su quella più piccola.

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Il nero somigliava in modo impressionante ad Apollo Creed, l’avversario di Rocky.
Avevo ripensato a quei lontani pomeriggi al cinema, a fare il tifo per Rocky contro
Ivan Drago o Mr T, troppo giovane per avere il senso del ridicolo. In piedi tra le
poltrone con gli altri tredicenni, tutti ormai sepolti sotto strati e strati, dentro la
matrioska che ognuno si è scelto, la matrioska che ognuno di noi è diventato.
«Cento dollari» aveva fissato come posta Apollo. Avevo accettato. Bluffando.
In tasca, di dollari, ne avevo ventotto. Avevo studiato con la coda dell’occhio le vie
di fuga più vicine. In caso di sconfitta, sarei scappato nel Village alla velocità del
fulmine.
In quell’angolo del parco non c’erano orchestrine jazz, o turisti che scattavano foto.
Solo ciclopici guardiani neri che sorvegliavano l’andamento delle partite, pronti a
placcare lo stupido italiano senza un soldo in fuga verso il Village. Le panchine, in
quell’angolo di parco, erano legate agli alberi con una catenella.
Mi ero grattato la testa, accettando uno scambio di pedoni. Forse non era stata una
buona idea bluffare con gente avvezza a rubare panchine.
La matrioska clonatrice di bancomat poteva aver sepolto le tecniche scacchistiche
sotto la spessa patina del tempo, ma quella piccola aveva il senso degli scacchi an-
cora puro e intatto. Gli enormi rubapanchine erano tanto inquietanti quanto onesti.
Avevano preso in giro Apollo e mi avevano messo cento dollari nel palmo.
Ero uscito da Washington Square galleggiando felice nell’aria. Mi ero infilato nel
Village per mangiare qualcosa, avevo trovato posto in un baretto messicano e mi
ero ingozzato di burritos con tequila. Alla quarta tequila, ero uscito dal baret-
to completamente ubriaco. Ero rimasto un po’ a guardare una partita di basket
di strada, ripensando a un bellissimo cofanetto dei Rolling Stones adocchiato a
St.Marks Place. Potevo permettermi un albergo o il cofanetto. Non tutti e due.
Rinunciare al letto o al cofanetto? mi ero chiesto. E perché rinunciare a qualcosa?
mi ero risposto, sbronzo marcio di tequila. Dieci minuti dopo ero di nuovo a Wa-
shington Square, a puntare altri cento dollari contro Apollo Creed.
A volte faccio cose così stupide che persino io provo vergogna. La piccola matrio-
ska ghiotta di tequila si era addormentata. Goffo e annebbiato, avevo accettato uno
scambio da dilettante in avvio di partita. Da lì in poi era stato tutto un arrancare
contro il terreno perduto e il cervello pieno d’alcool. Un’ora dopo il sole calava die-
tro l’arco, io consegnavo i soldi del letto e del cofanetto nelle mani di un sorridente
Apollo. I rubapanchine, intorno a noi, sghignazzavano.
Avevo lasciato Washington Square col mal di testa da doposbronza, due dollari e
un gettone della metropolitana. Avrei potuto vendere il gettone, e valutare i pro e i
contro di una notte in strada. Invece avevo camminato occhi a terra e mani in tasca,
ero saltato sul primo treno diretto a Downtown.
Ero sceso all’imbarco dei traghetti, avevo investito metà dei soldi in una ciambella,

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e mi ero mischiato ai pendolari che tornavano a casa dopo una giornata a Wall
Street o nei tribunali. Il traghetto gratuito andava avanti e indietro tutta la notte da
Manhattan a Staten Island. Avrei fatto venire giorno così. Molto meglio che dormi-
re in un vicolo. Poi, all’alba, avrei pensato a come rivincere i miei soldi a scacchi.
In bocca avevo il sapore della ciambella misto a quello della tequila. Avevo scel-
to un posto tra i pendolari assonnati, avevo guardato il sole tramontare dietro lo
skyline. Volevo cogliere il momento sublime in cui le luci dei grattacieli si accende-
vano tutte insieme. Invece, avevo incrociato lo sguardo di una donna. Sui quaran-
ta, grassoccia. Niente fede al dito. Mi sorrideva.
Le avevo sorriso anch’io. Avevo risolto il problema di dove dormire.

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Gianluca Liguori
Tempo di passaggio

Notte. Luca, disteso sul suo letto, non riesce a prender sonno. Oggi è stata per lui una
gran giornata, così dicono. Oggi Luca si è laureato dottore. Ma Luca non riesce ad
addormentarsi, stanotte.

Pensieri. Scorrono. Veloci, impazziti. Sono anni che ci pensa ma ancora non l’ha capito:
cosa fare della sua vita.
Luca è sveglio, non è per niente stanco, non ha per niente sonno. Pensa.
Forse dovrebbe trovare un lavoro qualunque, il primo che capita, e sposare Manuela.
Di questi tempi bisogna accontentarsi. I sogni, a volte, bisogna lasciarli solamente alla
notte.
Non si addormenta Luca, sogna, sogna forte, ma i suoi occhi sono aperti, è sveglio,
sveglissimo.
Partire. Andare lontano. Forse un viaggio, potrebbe essere un’idea. Messico, India,
Africa: Luca cerca un sogno distante, Luca cerca se stesso, quella parte che non riesce
a raggiungere.

Stelle. Luca si alza e va alla finestra. Accende una sigaretta. Guarda le stelle e si perde
oltre i suoi stessi pensieri. Ci sono limiti invalicabili per questo piccolo essere chiamato
uomo. Il suo tempo è inezia rispetto a qualsiasi stella che scruta nell’immensità infi-
nita della notte. L’umanità si è complicata la vita. Il breve tempo che abbiamo, troppo
spesso, viene dissipato.

Cuscino. Luca spegne la sigaretta e va a distendersi sul letto. Abbraccia il cuscino, im-
maginando Manuela. Sogna ad occhi chiusi, ma è sveglio. Immagina. Lui e lei. Pas-
seggiano sulla spiaggia di un luogo conosciuto anche se non ben identificato. Ridono,
scherzano. Si abbracciano, si baciano. Si baciano. Continuano a baciarsi. Si amano.

Sabbia. L’acqua bagna la spiaggia, poi si ritira. Luca disegna una stella, che lentamente
svanisce. Manuela gli sorride. Lo bacia sulla fronte. Luca ha la fronte sudata. Non ri-

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esce a dormire. Si gira e si rigira sul letto. Le belle speranze nascono e spariscono
come stelle disegnate sulla sabbia.

Gesso. Luca è a scuola, alla lavagna. Nella mano sinistra ha un pezzo di gesso bian-
co. Il vecchio professore incute timore. Non è mai stato bravo in matematica. Non
sa, non sa cosa scrivere. Il rigore dell’austera figura lo blocca, non riesce a pensare.
Suda. Trema. Il prof lo manderà a sedere, prenderà nota. Impreparato. Nella sua
cameretta l’avrebbe risolta quell’equazione, era semplice.

Orecchini. Gli orecchini di sua madre li ricorda bene. Ha portato lo stesso paio
per quasi vent’anni. Sua madre che lo rimproverava quando a scuola non andava
bene. Sua madre che stamattina ha pianto, perché lui si è laureato.

Carta. Un pezzo di carta dove c’è scritto che Luca è dottore. Non ha imparato nulla.
Le difficoltà vere iniziano adesso. Nessuno gli ha spiegato niente sinora a propo-
sito di lavoro. Ha studiato tante cose, ma si rende conto di non essere in grado di
far nulla. Tutto è inutile. Quella carta è stato un albero. Quanti alberi sono stati
abbattuti per far laureare tutti questi dottori?

Vento. Fuori c’è vento. Ne sente il suono, Luca. Sembra un lamento. Sembra il suo
lamento. Interiore. Tum-tum-tum. Batte il cuore. Forte. C’è vento e ha caldo. Suda.
Pensa a quella volta che ha fatto sega a scuola con Picone, un suo compagno di
classe. Luca non ha idea di che fine abbia fatto. Probabilmente sarà finito in galera
per furto, spaccio o ricettazione. Ma quel giorno, a far sega con Picone, si era pro-
prio divertito.

Acqua. Luca ricorda la spiaggia dove andava da bambino. C’era una scogliera
dove se ne andava con maschera, pinne e boccaglio. Guardava i pesci, la vita sotto
la superficie dell’acqua. In acqua si sentiva vivo, dimenticava ogni pensiero, c’era
il momento, quel momento esatto, che ora stava ricordando.
Ovunque andava, da bambino, c’era sempre una ragazzina che gli piaceva. Qual-
cuna la ricorda, altre le ha dimenticate.

Fuoco. Luca ricorda suo nonno che gli raccontava le storie della guerra davanti al
camino acceso, cuocendo patate, castagne, uova o mele. Il nonno di Luca era un
partigiano. Un socialista, fedele al partito fino alla metà degli anni ottanta, fino a
Craxi. Suo nonno morì il 9 novembre del 1989 mentre il mondo si apprestava a
cambiare.

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Terra. Quella volta, Nicola detto il Siciliano, gliela fece vedere sporca. I primi due pu-
gni, come colpi sordi, lo avevano messo ko. Steso al suolo, sanguinante, un rivolo che
dalla bocca finiva sulla terra secca. Luca era chiuso a riccio, il Siciliano continuava a
prenderlo a calci. Gliele diede di santa ragione. Quella terra, mista al suo sangue, gli
finì in bocca. Aveva sapore amaro.

Aria. Respira. Inspira, espira. Cerca la calma che non trova. Si agita ulteriormente. Un
brivido gli percuote la schiena. Ha paura. Non riesce, non riesce a mantenere il control-
lo. Vorrebbe urlare. Tace.
Sono ore che prova a prender sonno, Luca. I ricordi più nascosti tornano a galla, im-
provvisamente ed inaspettatamente. Si alternano davanti al suo sguardo.
Oggi per lui è stato un gran giorno. Tante cose non sarebbero più state come prima: la
vita universitaria era terminata. Non c’era un secondo da perdere, tutto da costruire.
Da dove cominciare? Avrebbe voluto dormire.
Rumori esterni. Il camion della nettezza urbana. Quasi mattina.
Nella notte che da ieri accompagna all’oggi, si era compiuta una strage. Un’età era fini-
ta. Egli aveva dinanzi a sé una pagina bianca sulla quale poter scrivere qualsiasi cosa.

Sogno. La luce del mattino penetra nella stanza di Luca, che non ha dormito stanotte.
Gli uccellini cinguettano. Sbadiglia, Luca. Sente rumori di stoviglie provenire dalla
cucina, qualcuno che chiude la porta e scende le scale.
Poi si addormenta.

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Tommaso Chimenti
La panchina

C’era una panchina me la ricordo. Era messa là. In legno. Con le scritte sopra.
Dediche, pezzi di canzone, qualche numero di telefono, offese. Qualche cazzo
qua e là, disegnato male, col pennarello nero ed i peli neri come baffi di gatto.
Non ci stavamo a sedere. Mettevamo i piedi sulla seduta. Eravamo più in alto. I
capelli sugli occhi, le spalle curve in avanti. Un cane gironzolava senza collare,
senza meta, trotterellava con le gambette da bastardino, ci guardava, continuava
il suo giro che sembrava fatto di appuntamenti fissi. Annusava gli alberi secchi
con poche foglie ancora attaccate. Dei fuscelli piantati là in mezzo che facevano
tristezza e tenerezza in ogni stagione.
Davanti alla panchina c’era un piazzale immenso di cotto rosso, messo insieme
da piccole piastrelle che se frenavi con la bicicletta slittavi e cadevi. Nessuno
parlava. Stavamo lì. Fermi ad aspettare. Non passava mai nessuno.
Il cane pisciava ogni pomeriggio su tutti gli alberi. L’odore era il suo. Marca il
territorio, diceva sempre qualcuno di noi. Alle nostre spalle c’era un palazzo alto
quindici piani che un tempo doveva essere stato bianco. Adesso aveva più crepe
che un castello assediato, più buchi di una casa di Sarajevo. Si staccava a listelli,
si sfaldava a pezzi di gomma. Non era intonaco, sembravano scaglie di deter-
sivo. Sotto c’era del catrame nero che con il caldo restava appiccicato alle dita.
Le sterpaglie tra il palazzone e la panchina erano secche. Bruciate dal sole. Una
volta all’anno venivano quelli del Comune a raderle al suolo, a tagliarle con il
tosaerba elettrico con quell’odore fresco che si spandeva in aria che ti dava il
senso della primavera, del cambiamento. Vedrai, diceva qualcuno. Ho visto. E
non ho visto niente di nuovo. Né di buono.
Palazzo, piazzale, panchina. Il sole perpendicolare. In casa faceva un caldo sof-
focante. Avevamo le pale attaccate al soffitto che emettevano un ronzio asfissian-
te e continuo ma che ci facevano sudare lo stesso. Non aprivamo le finestre per
non far entrare le zanzare. Le pale arrugginite rintontivano, facevano perdere la
bussola. Non riuscivamo nemmeno a capirci; se avessimo parlato, in casa mia,
non ci saremmo capiti.

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Mio padre e mia madre non facevano l’amore da molti anni. Si vedeva nei loro
occhi spenti, nelle loro occhiaie, nelle notti che mio padre passava alla televi-
sione, allucinato da quei colori che si spandevano sui muri bianchi del piccolo
salotto. Non c’era un quadro, una stampa, una fotografia. Nemmeno un tappeto
per terra. Tutti a piedi scalzi, anche d’inverno. Ci si incrociava per le stanze, nei
piccoli corridoi e ci grugnivamo saluti contro.
Aprivamo il frigo, facevamo colazione ognuno per conto proprio. Nessuno che
abbia mai detto all’altro un buongiorno, anche stiracchiato, anche grinzoso o a
mezza voce. Spettinati, annoiati dall’inizio di un’altra giornata. I pantaloni ca-
lanti sulle mutande. La passata sulla testa di mia madre a tenere fermi quei suoi
capelli grigi e crespi. Il grembiule sfatto sullo schienale della sedia.
Volevo solamente uscire. Prendere aria. Fuori non c’era niente, ma era un niente
che potevo disprezzare, offendere, scarnificare, prendere a calci. Era uno schifo
che potevo dipingere e colorare, scriverci sopra e sputarci contro. Di mio avevo
soltanto quei due in casa che con la loro presenza mi ricordavano che ero figlio
loro, che venivo da quel buco, da quel tugurio, e che tanto lontano non sarei
potuto andare. Avevo il loro cognome, non potevo andare lontano.
All’angolo del palazzo ogni tanto si trovavano, nelle sterpaglie alte, dei giornali
porno con le pagine appiccicaticce. Li prendevamo con i guanti. Erano guanti
gialli di pelle con le scritte stampate sopra in rosso. Li avevamo tutti. Li mette-
vamo per andare in motorino. D’estate ce li infilavamo nella tasca posteriore
dei jeans. Li sfogliavamo tenendoli con l’indice ed il pollice. Sapevamo tutte le
pagine a memoria già prima di cominciare a voltarle.
La scuola era finita e mancavano tre mesi prima che ricominciasse. Saremmo
stati lì ad ammuffire. Senza un nemico sul quale sfogarci eravamo persi. Senza
i compagni di classe con i quali litigare, senza i professori da fronteggiare, ci
sentivamo vuoti, persi, svuotati, perduti. E stavamo lì appollaiati ad ascoltare il
treno e a voltare la testa in direzione della ferrovia ogni volta che passavano una
serie di vagoni che tiravano dritto senza fermarsi nella nostra stazione. Sembra-
va che il macchinista accelerasse quando vedeva il nome del nostro paese.
Alzavamo le teste come galline che aspettano il becchime. Conoscevamo gli orari
a memoria. Quello va a Roma, diceva sempre qualcuno di noi. Se andava verso
sinistra. Quello va a Milano, se andava verso destra. Esistevano soltanto Roma
e Milano. E noi stavamo nel mezzo, con la possibilità di raggiungere entram-
bi ma con un’innata masochistica impossibilità di farlo. Sembravamo legati da
corde invisibili, da giorni tutti uguali, come se dovessimo timbrare il cartellino
su quella panchina, come se lasciarla per un giorno, una settimana, o un’estate
volesse dire perdere noi stessi.
Un giorno ho preso un treno. Quella città è troppo grande, ha detto qualcuno. Ti

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perderai, hanno aggiunto. Mia madre ha pianto. Mio padre è rimasto a guardare
la televisione. In fondo erano tutti contenti che almeno uno non fosse più su
quella panchina a veder passare gli altri.

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Cristina Serci
L’ombra del tempo

Si aggirava per le strade disegnando ombre di sogni ad ogni passo cadenzato sul
selciato notturno: un rumore metallico ed elastico al tempo stesso, rompeva il si-
lenzio. Quel silenzio era un colore: tutte le sensazioni nella sua mente si definiva-
no come colori, in una memoria astrusa, fatta di flash, di emozioni lanciate come
spruzzi di un caleidoscopio.
Quella sera era il bianco del silenzio: un bianco abbacinante che si sovrapponeva
al buio della notte, appena per un attimo, nell’istante in cui la scarpa colpiva la
pietra, una frazione di secondo, bang, rumore secco, metallico: il bianco veniva
ingoiato dal buio e poi ancora, all’infinito, se fino all’infinito avesse potuto cam-
minare alla ricerca di sé.
Si chiese dove fosse: si guardò intorno, osservò palazzi sconosciuti, negozi ignoti,
saracinesche abbassate, serrate come occhi che neghino la realtà, i tanti occhi chiu-
si che incontrava ogni giorno per strada, sull’autobus, in ufficio; occhi che guarda-
no il mondo senza vedere, senza coglierne il senso più intimo, l’essenza alchemica
al termine della lunga notte. Ma nell’attimo stesso in cui avrebbe potuto definirlo
con concetti misurabili con formule, già non c’era più. L’avrebbe voluto fermare,
quel tempo disgraziato che fuggiva tra meandri disperati di eternità perdendosi
per sempre. Sapeva che quanto gli capitava (stato di grazia o di disgrazia?) sareb-
be giunto, un eone dopo, ad un altro solitario che s’aggirasse nella notte, un’altra
notte, in altro spazio e in altro tempo: era questa illusione a muovere i suoi fili.
Tentava di trattenerla tra le mani, come si fa con l’acqua, e il tempo lo incuriosiva,
fin da quando, bambino, aveva compreso che sarebbe stato inutile cercare di fer-
marlo in fiammanti orefiori – così come è impossibile imprigionare l’ombra.
Sollevò lo sguardo e vide l’albero, la chioma spalancata esattamente su di lui, i
rami stesi verso l’alto, le foglie lucide e immobili che si lasciavano semplicemen-
te esistere per un diritto innato. Guardò l’albero negli occhi. Questo ricambiò lo
sguardo. L’uomo abbassò il suo verso terra e si disse: «È la terra che mi inghiotte,
con i suoi enigmi, per mostrarmi la mia appartenenza all’argilla dai tempi della
maieutica divina. E il cielo mi ignora. Ogni notte lo invoco, bramo la fredda sco-

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stante distanza delle stelle, il brillìo tremulo nel buio assoluto.»
Fece vagare lo sguardo per la volta celeste, per l’emisfero che lo sovrastava come
se egli fosse stato un omino di creta in un paesaggio inventato, racchiuso in una
palla di vetro. Avvertiva la propria estraneità al mondo e, al contempo, il proprio
diritto di farne parte. Si sentiva carico di slancio verso la vita e gli altri e, nello stes-
so istante, alieno a tutto. Era imbarazzante essere due e tentare disperatamente di
apparire uno agli occhi, seppure disattenti, degli altri. Questo non era il cosmo,
era un piccolo mondo spesso insignificante a misura di palazzo, di ufficio, di città
angusta, provinciale e piena di bisbigli. Il piccolo mondo fatto di percorsi sempre
uguali – fino al tedio e all’angoscia – che conduceva da casa agli squallidi corridoi
del lavoro, dove incrociava colleghi che lo salutavano con un gesto composto del
capo o un ciao inudibile, quasi si dovesse osservare un silenzio imperturbabile e
disumano.
Si soffermò sul proprio nome, masticando la parola che avrebbe dovuto identi-
ficarlo, tentando di assaporarla alla ricerca di una chiarezza del proprio esistere.
Si chiese se quel nome in qualche modo gli corrispondesse; ed improvvisamente
seppe che no, lui e il proprio nome erano ben distinti, forse contrapposti. Ora esi-
steva solo quella consapevolezza, la statica realtà di quella scoperta. La domanda,
la ragione del proprio esistere era sempre la stessa: Perché sono qui? E si era reso
conto che il solo pensare di definire qualcosa era un grande inganno. Come ten-
tare di incorniciare un film: nell’attimo in cui appariva un fotogramma già se ne
svelava un altro in un’epifania in divenire, come cercare di fermare l’inizio o la
fine di un cerchio già chiuso.
Giunse ad una piazza. La osservò stranito, certo di non esserci mai stato prima,
come se, per errore, fosse entrato nella vita di un altro. Si osservava muoversi,
dall’alto. L’aria era limpida – cosa inconcepibile durante il giorno – e il cielo aveva
la trasparenza di un sorriso. La piccola falce di luna brillava pacata, quasi dondo-
lando. Nell’ombra, però, era facile scorgere il resto del satellite e l’uomo si chiese
chi avrebbe potuto osservarlo da lì, non visto, giudicando la sua pochezza. O
la sua grandezza. O, perché no, il suo essere semplicemente così, né piccolo né
grande, un medio uomo ordinario in una grande piazza notturna con un obelisco
al centro. Un essere umano felice e compiuto del proprio essere, appunto, quello
che era. Qualsiasi cosa fosse.
La piazza, vuota, era circondata da pallidi palazzi tardo-ottocenteschi con tetti
spigolosi scuri sormontati da abbaini. Quei tetti lo rassicuravano facendolo sen-
tire protetto. A grande distanza dall’obelisco, nella luce metafisica e quasi onirica
dell’alba che si approssimava, stavano alcune panchine, nude nei loro scheletri
metallici lucidi dell’umidità della notte. In un angolo una fontanella, di quelle che
non si vedono quasi più, giacché qualcuno ha deciso per noi che sono antigienici

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ricettacoli di ogni sorta di virus, alimentando le nostre più riposte fobie.
«Che stronzata!» esclamò ad alta voce. Si riscosse, colpito da quel suono definitivo
che rimbalzò nel silenzio. Si aspettava quasi che l’eco o qualche sconosciuto abi-
tante dei palazzi gli rispondesse oltraggiato. Tenne il fiato sospeso, in apnea, per
lunghi istanti, ma non ebbe nessuna risposta. Protetto dall’invisibilità di quella
solitudine, rise forte e ripeté a voce più alta: «Che stronzata!»
Il suono risonò secco come una frustata. E ancora ripeté, ancora più forte, stupito
del volume e del timbro della propria voce, riappropriandosi di qualcosa che non
si era mai reso conto di avere. E si sentì felice, pienamente e stupidamente felice.
Solo al mondo ma felice. Senza il peso di alcun giudizio, senza il fardello di alcun
passato, senza neppure avere la necessità di sapere dove realmente si trovasse.
Finalmente libero.
Consapevole di questa scoperta e della propria nuova grandezza, si mosse verso
una panchina, stavolta con passo fermo. Vi si sedette, allungò le gambe con un
sospiro, incrociò i piedi uno sull’altro, si stirò appena e chiuse gli occhi.

77
Barbara Gozzi
Vattene

Vattene.

Sentiva.
Il corpo si faceva pesante, inutile e il cervello lo seguiva, disperato e confuso. Af-
fannati tutti senza una direzione precisa.
Poi a casa, nel tepore di odori familiari, alla penombra di tapparelle in fessura –
là – tra i suoi cimeli, trofei di memorie e solitudini, rinunce e chiusure – là – una
frattura ha ghiacciato l’aria.
Il battito accelerato, e quel rombo delizioso tra le orecchie.

La cornetta ormai mi cadeva dalle mani e quelle parole improvvise, desiderate:


«Domani» ho sentito, ricordo. «Domani sera ci sarà.»
Vuoto.

Vattene.

Un battito. Un altro. Il sangue che dal cervello rullava e scendeva, affluiva in tutto
il corpo, riscaldandolo.
In quel preciso momento, con la cornetta ancora stretta tra le dita tremanti, ha visto
i programmi sbriciolarsi, le porte chiuse sciogliersi, la voglia di rintanarsi evapo-
rarle in faccia.

Lui ci sarà.
E già volevo ballare, correre, vestirmi e truccarmi.
Poi.

Si è guardata attorno, ruotando su se stessa nella semioscurità. I mobili erano al


solito posto, la gatta sui piedi ronfava curiosa.
Non era cambiato niente. Guardava. Insisteva.

79
Era lei.
Lei.
La maledetta tiranna di se stessa.

Io.
Sempre e solo io.
Facevo il bello e il cattivo tempo di me, corpo e mente, tutto dipendeva da me.
Da quello che volevo, credevo, pensavo, imponevo.
Maledetta!

Vattene.

Si è fermata al centro della stanza e avrebbe voluto urlare, sbattere da qualche


parte per il gusto di sentire quel dolore che già dentro la corrodeva, veleno
invisibile.
La gatta continuava a strusciarsi, morbida, sensuale.
L’adrenalina in circolo non se ne voleva andare.
Era. Stava. Non realizzava.
Allora una doccia veloce, trucco leggero, appena una striscia di fondotinta
liquido e una passata di lucidalabbra rosato. La solita carezza alla gatta per
trattenerla mentre le lasciava due pugni di croccantini nella ciotola. Borsetta
di finta pelle nera, chiavi e cellulare.

Non te l’avrei lasciato fare.


No.
Non ti avrei restituito quel potere che invece vedevo nitidamente ritornarti.
No.
Non avresti più deciso per me. Attraverso. Me. Deciso di imbruttirmi e rinta-
narmi, vecchia dentro, secca e vuota.
Ma neanche il contrario.
Ti avrei combattuto. Ne avevo bisogno, ormai lo vedevo nitidamente nella
fatica, ne avevo più bisogno di. Di.

Consapevole, tremante, questo era. Cos’avrebbe fatto domani neanche poteva


pensarlo, ragionarci era assurdo. Ma in quel momento aveva deciso.
Sarebbe uscita.
Di corsa.
Senza.
Lui.

80
Lei e lei – sola – così com’era. Occhi enormi, capelli arruffati dalla piega fretto-
losa, jeans e tacchi.

Vattene.

Avrei dovuto capirlo, avrei dovuto decidermi prima di finire ridotta in quel
modo, relitto di me stessa, ombra di un’illusione. Eppure avevo galleggiato per
molti giorni, settimane. Avevo smesso di sentirmi, galleggiando. Forse sempli-
cemente mi rifiutavo. Era più facile non attribuire colpe e persistere nell’apatia
bulimica, nuotare in quel dolore costante e demotivante. Avere paura di tutto
e cedere all’insoddisfazione latente. Era più facile qualsiasi cosa che non fosse
ascoltare e abbracciare quel male potente e insopportabile che mi paralizzava.

Era lui, e ormai l’evidenza la schiacciava a una strada chiusa, non c’erano vie
d’uscite.
Era lui che decideva nell’ombra, dove e come farla pendere. Lui si imponeva,
attraverso lei. Il solo saperlo nei paraggi l’aveva mutata strappandole pelle e
organi inutili.
Non sarebbe stato sempre così, però. Ormai se lo rivedeva in un loop infinito
proiettato nello schermo della sua mente. Non sarebbero arrivate altre telefo-
nate. Lui non ci sarebbe stato nel suo domani, le serate non sarebbero tornate
loro.

Vattene.

Dovevo – dovevo. Maledizione: dovevo convincermi.


Toglierti lo scettro, il telecomando, riprendermi la forza di essere, senza.
Essere.
Senza.
Non avere bisogno.
Smettere di aspettare.
Accettare il vuoto.
Fissare l’assenza – la tua – e averne paura liberamente.

Ha chiuso la porta di casa con uno scatto.


Mentre guidava tra il vago traffico notturno, qualche crampo allo stomaco le
ha fatto mordere le labbra. Scendendo ha annusato l’aria fresca, sapeva di qual-
cosa che non aveva un nome preciso ma sembrava buono. Poi qualche fitta tra la
gente, in mezzo a parole e risate, le solite strizzate in un non luogo che dentro la

81
abitava. La serata è scivolata così. Ne è uscita diverse ore dopo guardandosi allo
specchio del suo bagno ancora leggermente truccata, si è vista sola. Sola. Ma.

Mi sarebbe mancato comunque, lo sapevo.


Non c’era più, per me. E mi bruciava tutto.
Sapevo anche che mi sarebbe rimasto, da qualche parte, chissà.
Il potere di decidere, però, quello – quello - lo rivolevo. Subito.

Vattene.
Lo stava dicendo a se stessa. All’immagine di un volto fisso, stupito.
Vattene!

È difficile lottare contro qualcuno che non si può cancellare. Se stessi. È difficile
vincere, se la battaglia non si vede e probabilmente la vittoria è inesistente per
necessità. È difficile qualsiasi cosa, da soli.

Vattene.

Restavo io.
Mi restavo e dovevo resistere.
Dovevo smettere di aspettarlo, di cercarlo in silenzio, evitare di vivere dentro i
ritmi che prima ci legavano.

Lentamente, tra onde anomale, sperava che sarebbe sbiadito ai suoi occhi, gli
stessi che vedeva riflessi nello specchio e piangevano senza lacrime. Doveva
andarsene, per permetterle di riprendersi quella stessa anima lacerata eppure
(Maledetta!) annegata nell’affetto. Ancora. Ma in procinto di salire su un treno
pieno di fischi, sobbalzi e rallentamenti. Disamore, recitava la fiancata scrostata.
Il deserto lasciato, creato dall’abbandono, chiedeva solo di essere curato, culla-
to. Di mutare ancora, e ancora. Solo che ora lo vedeva, se lo sentiva tra le dita
dei piedi, dentro i polmoni, tra le gengive arrossate.

Vattene, si stava urlando.


(L’intensità cresceva, esponente imperfetto.)
Vattene e restituiscimi.
(Ancora più forte. Rimbombo. Eco feroce e lacerante.)
Vattene.
(Pausa.)
È ora.

82
altri racconti di periferie

di abbandono
di oblio
desertiche
Alessandro Romeo
Quanta scena per niente

Lui, piegato sulle ginocchia, sta mangiando un pomodoro a morsi grandi e lenti.
Tiene il pomodoro in una mano e un bastone nell’altra. Ai suoi piedi c’è un alveare
grande quanto la testa di un cane. Lei è qualche metro più in là. «Vieni» gli dice.
Hanno scelto un bel posto, pieno di alberi e con una bella vista: il prato su cui
hanno steso la tovaglia termina su un salto di una ventina di metri, un burrone
abbastanza ripido e costellato di sassi.

Lancia quel che resta del pomodoro nell’erba e ritorna da lei. Le dà un bacio sulla
fronte e si siede sulla tovaglia.
Lei gli allunga un panino con la frittata.
«Una volta sono stata punta sotto l’occhio» gli dice.
«Basta stare fermi» dice lui masticando.
«In che senso?»
«Basta stare fermi e non ti succede niente.»
Appoggia il panino e si mette a trafficare con una bottiglia.
«Mia mamma aveva il terrore delle api» dice lei. «Una volta è stata inseguita da
uno sciame.»
Lui stappa la bottiglia e annusa il tappo. «Non credo succeda veramente» dice.
«A mia mamma è successo.»
«Tua mamma ingigantisce le cose. È fatta così.»
Prende un sorso di vino prima di passarle la bottiglia. «Non ti dà fastidio se penso
questo di tua madre, vero?»

In quel momento arriva un uomo con un piatto avvolto nella carta argentata. È
sbucato dal bosco e si avvicina sorridendo. Quando è a pochi metri da loro li sa-
luta.
«Vi volevo fare assaggiare una cosa» dice l’uomo. «L’ha fatta mia moglie.»
Si inginocchia e scarta il piatto. C’è una torta salata, già divisa a fette.
«Grazie» fa lui. Ne prende un pezzo e lo passa a lei, poi ne prende un altro per sé.

85
«Mia moglie fa da mangiare benissimo» dice l’uomo.
Lui accenna un sorriso. Lei conferma con un movimento della testa.
«Mi chiamo Mario» dice l’uomo.
«Stefano» fa lui. «E lei è Anna, la mia ragazza.»
«Avete la faccia simpatica» dice Mario.
Rimangono in silenzio per qualche istante, mentre finiscono di masticare la tor-
ta.
«Chiami sua moglie» fa Anna. «Mangiate con noi.»

Dopo due minuti è già di ritorno, con un borsone a tracolla e una borsa-frigo in
mano. Con lui ci sono sua moglie Lucia e suo figlio Giorgio: se ne sta abbracciato
alla gamba della madre e ha lo sguardo completamente assente.
«È un po’ timido» dice Mario. Poi si accuccia vicino al bambino e lo strappa
dalla gamba della madre.
«Cosa ti ho insegnato?» gli dice. «Da’ la mano ai ragazzi.»
Il bambino si afferra un polso con l’altra mano e ci gioca come fos-
se un elastico. Poi si lancia sulla tovaglia e comincia a rotolare, ridendo.
Qualche istante dopo sono tutti seduti che si passano le cose da mangiare. Anna
mangia poco come sempre. Stefano si attacca alla bottiglia: Mario ha stappato
una di quelle buone, dietro ne ha altre tre, le imbottiglia un suo amico contadi-
no. Giorgio mangia solo se imboccato. Sua madre compie il gesto con disinvol-
tura, come se stesse mettendo lo zucchero nel caffè. Parlano del più e del meno,
soprattutto di vacanze.
«In fondo non è che cambi poi tanto» dice Mario.
Lucia sorride abbassando gli occhi. Restano tutti in silenzio.
Stefano si guarda un po’ attorno. «Quanti anni ha?» chiede.
«Otto il mese prossimo» fa Lucia.
Il vento si è un po’ alzato. Il sole del pomeriggio, coperto da alcune nuvole
grosse, cambia il colore alle cose. In pochi minuti tutto sembra essere diventato
immobile e antico.

«Abbiamo il pallone» dice Mario.


Stefano scatta in piedi, apre il borsone di Mario e tira fuori il Supertele. «C’è
vento» dice. «I Supertele vanno dappertutto anche con un vento così…»
«Passamelo» dice Mario.
Stefano ci palleggia un po’ e glielo fa arrivare dritto tra le mani con un colpo
di testa. Mario si mette seduto tenendo la palla alta sulla testa. «Giorgio!» dice.
Giorgio si alza in piedi e si mette a saltellare. «Sei pronto?» urla. «Lo prendi?»

86
Anna e Lucia continuano a parlare. Mario si è disteso vicino a loro.
«Di cosa parlate voi donne?» chiede.
«Cosa ti interessa?» fa Lucia con aria furbetta.
«Siete sempre così entusiaste quando parlate tra di voi…»
Anna lo guarda con una punta di fastidio. Vorrebbe dire qualcosa di ironico, ma
non le viene in mente nulla.
Mario si alza in piedi e si sgranchisce la schiena. Chiede a Stefano di ripassargli la
palla, poi dà alcune indicazioni a Giorgio.
«Ecco» dice. «Parala!»
Prende la rincorsa e lancia una saetta di controbalzo che passa a dieci centimetri
dalle teste di Lucia, supera Giorgio e arriva a pochi passi dal burrone.
Giorgio, caduto a terra nel tentativo di prendere la palla, si rialza e comincia a
correre verso il burrone. Corre come un ubriaco, barcollando a destra e a sinistra:
ha della gambe fragili, piene di sbucciature. Stefano comincia ad allarmarsi solo
dopo che Lucia si è lanciata all’inseguimento di Giorgio. Anna si alza sulle gi-
nocchia, con un’espressione ebete stampata in faccia: lancia un’occhiata a Stefano
come per dire “fai qualcosa”, ma si limita a chiudere e riaprire la bocca: sembra
un pesce in una boccia di vetro.
Quando Giorgio si avventa sul Supertele, Lucia è ancora distante. Si rialza con la
palla stretta tra le mani e la solleva in alto, come un trofeo. A quel punto Lucia
gli è addosso. Lo strappa da terra e lo porta a sé, poi si accascia tenendolo stretto.
A pochi passi da Stefano, Mario è rimasto fermo con le braccia piantate nei fianchi:
«Quanta scena per niente» mormora, aprendosi l’ultimo bottone della camicia.

87
Ugo Coppari
In fondo alla valle

Un ragazzo se ne sta seduto su una panchina al centro di un prato verdissimo. La


panchina è di legno e il cielo completamente azzurro. Non ci sono nuvole ad osta-
colare i pensieri, né anima viva che possa deviarne la via. Questo prato ricopre la
cima di un’alta montagna, posta al centro di una catena montuosa.
Questo ragazzo è venuto fin qui per non pensare ai problemi che lo assillano in
città. Peraltro, negli ultimi tempi, è entrata nella sua vita anche una ragazza, a cui
non riesce a non pensare. Mentre si fa la doccia, mentre va a fare la spesa, o quan-
do è in fila alle poste, il viso di questa ragazza ricompare davanti ai suoi occhi.

Un giorno questo ragazzo decise di lanciarsi da un aereo col paracadute, per sug-
gellare la fine del corso di studi. Aveva ottenuto il massimo dei voti, e quindi era
giusto premiarsi con un gesto che avrebbe fissato nella memoria quel momento
così importante per la sua carriera professionale. Aveva cercato la compagnia di
paracadutisti più esperta nella zona, e una volta recatosi presso la loro sede li
aveva estenuati con una serie di domande circa la garanzia che nessun pericolo
potesse arrischiare la sua incolumità fisica.
Una volta arrivato il bel giorno, questo ragazzo decide di svegliarsi di buon matti-
no e di raggiungere a piedi il luogo da cui sarebbe partito l’aereo. Lungo il cammi-
no un uomo seduto su una panchina sta contando una manciata di monetine, rac-
colte sul palmo di una mano. Non appena gli passa a fianco, l’uomo alza lo sguar-
do verso di lui e gli sorride, per poi chiedergli di avvicinarsi. In un primo istante
il ragazzo rimane impietrito, poi convinto dall’affabilità di quel signore decide di
accostarsi. L’uomo chiede di avvicinarsi ancora di più, e di avvicinare il suo orec-
chio alle sue labbra. Il ragazzo ascolta con attenzione le parole che quell’uomo gli
sussurra all’orecchio. Lungo la strada su cui si affaccia quella panchina, si era fer-
mato un autobus, il cui rumoroso arresto aveva coperto il suono di quella voce. Il
signore lascia cadere le monetine a terra, e il ragazzo si accascia premurosamente
per raccoglierle e restituirle al proprietario. Quando alza lo sguardo, quell’uomo
non c’è più. L’autobus è appena ripartito.

89
Lungo il tragitto che porta al luogo del lancio il ragazzo continua a pensare a
quelle parole, di cui ricorda soltanto alcuni brandelli, stralci che la memoria non
riesce a riannodare. Una volta arrivato sulla pista di lancio, il ragazzo saluta con
la mano due signori appoggiati alle reti metalliche che recintano il piccolo aero-
porto. Uno dei due signori ha uno stuzzicadenti infilato tra i denti, e un cagnolino
che gli ronza tra le gambe. L’altro indossa un cappellino rosso della Cgil, con su
scritto “Uniti si può”.
L’aereo prende quota, il ragazzo scherza con gli istruttori. Confida loro di essere
un po’ agitato, e chiede loro di comunicare ai suoi genitori che gli ha voluto bene,
nel caso in cui qualcosa non vada per il verso giusto. Gli istruttori annuiscono con
un sorriso, per poi voltarsi e guardare dall’oblò il cielo tutt’attorno.
Il pilota comunica alla compagnia che il velivolo ha raggiunto i 4000 metri. Il
ragazzo comincia ad agitarsi, le gambe gli tremano. Così gli ritornano in mente
le parole che quel signore gli aveva sussurrato all’orecchio poche ore prima. Una
serie di parole di cui ricorda ben poco, ma che riescono a sedare la sua paura.
L’istruttore decide che è ora di lanciarsi. I due saranno legati da una serie di cin-
ture di protezione, e il ragazzo non dovrà far altro che rimanere fermo ed evitare
di agitarsi. I due si lanciano, è ora. Il primo impatto con l’atmosfera è terribile, il
vento è talmente forte lassù che i due vengono sbattuti di qua e di là, perdendo il
controllo della situazione. L’istruttore sembra essere nel panico, non si aspettava
queste correnti così forti. Il ragazzo a sua volta non sa come reagire, respira forte
e cerca di non perdere i sensi. D’un tratto una cintura che teneva uniti i due si
trancia di netto, senza una spiegazione plausibile. Anche l’altra fune che li teneva
agganciati alla vita viene sfibrata dalle tensioni a cui viene sottoposta. L’istruttore
vola via e il ragazzo senza paracadute si ritrova da solo in caduta libera.
Il ragazzo viene trasportato dal vento, che lo porta verso la costa. Il ragazzo non
riesce a tenere gli occhi aperti. Sente il vento strappargli la pelle. Il ragazzo come
un proiettile fionda verso il basso, fino ad infilarsi sulla superficie del mare.
Una volta caduto in mare il ragazzo crede di essere morto, ma in realtà sta sol-
tanto scendendo nelle profondità degli abissi, sospinto da un’accelerazione gra-
vitazionale che l’ha visto cadere dal cielo. Durante la discesa nelle profondità del
mare il ragazzo ha ancora gli occhi chiusi, finché il suo corpo si arresta ad una
profondità indefinita e il suo paracadute si apre alle sue spalle.
Il ragazzo riapre gli occhi e attorno a sé vede soltanto il grande biancore del pa-
racadute, una grande medusa di tela che lo avvolge senza lasciargli possibilità di
fuga. D’un tratto una figura femminile, i cui seni traspaiono dalla fitta trama del
tessuto, si avvicina a lui. Il ragazzo, inebetito, vede quel corpo accostarsi al suo e
d’un tratto sente due braccia avvinghiarlo e stringerlo con dolcezza. Il viso diafa-
no di quella ragazza gli arriva in trasparenza, deformato dal paracadute.

90
Il giorno dopo il ragazzo si ritrova disteso su un lettino ospedaliero, il giorno
successivo verrà dimesso, e quando una folta schiera di giornalisti gli si fionda ad-
dosso all’uscita dell’ospedale, lui non sa cosa dire. Gli chiedono come abbia fatto
a sopravvivere a quella sciagura. Il ragazzo non ricorda nulla di cosa sia successo,
nonostante quel viso rimanga indelebile nella sua memoria, come il vuoto lasciato
sul muro da un quadro appena rubato.

Cala la notte e il ragazzo è ancora seduto su quella panchina. Un lupo ulula in


fondo alla valle e i ricordi volano via senza paracadute.

91
Chìo Dùpia
Terapia

La radio. La radio suona. La radio. La radio canta. L rad. Suo. Cant. La radi. Rmor.
La radio suona. La radio. Acc. La radio è sul tavolo. Tra me e il suo lettino bianco.
La radio è accesa. Dentro c’è una cassetta che gira. Gira. Il nastro magnetico canta.
Canzoni. A volte voci. Sono seduta. Ascolto. La musica.
Le prendo la mano. E chiudo gli occhi.

Mia cugina è in coma. Da nove mesi. Sì, funziona. La terapia forse funziona. La
radio intona motivi familiari. Ritornare alla luce a volte è possibile, attraverso i
suoni che già conosce. Suoni familiari. A volte solo voci. Magari la mia. Parlo con
lei. E talvolta, lei, si muove. Mia cugina è in coma. Da otto mesi.

Per prima cosa i suoni, ancora nel grembo, e l’esterno piomba addosso alle nostre
orecchie. È perché sentiamo che abbiamo i timpani. Solo dopo si viene alla luce.
E, seconda cosa, respiriamo. In luminosa catarsi. Il sacrificio primo. Piangiamo.
L’aria conduce il suono. Il suono è solo uno spostamento d’aria. Le cose gli fanno
da membrana. Il nostro corpo è una membrana sonora. Di lunghe attese. Di lun-
ghe pennellate. Di lunghe incomprensioni.
La porta a vetri vibra quando qualcuno entra o esce dalla porta principale, nel
corridoio. È irritante, ma perlomeno dà la sensazione di non essere soli.
Infermieri con pillole sul palmo della mano, dottori dal passo deciso con cartelle
di analisi, ricette di Sereupin e cure per una pronta guarigione in mano. A volte
antimonio. Entrano ed escono dalla porta principale. Fanno vibrare la porta a ve-
tri. Lo spostamento d’aria è costante. Mia cugina è in coma da sette mesi.

Ogni sera schiaccio play. Le prendo la mano e chiudo gli occhi. La sua mano è
calda. Gioco con le sue dita, la sua mano e più calda della mia, forse lei non prova
la mia stessa tensione, forse lei ora sta bene o forse, ascoltando vecchie canzoni,
non vede l’ora di tornare. All’inizio non credevo potesse funzionare. La sperimen-
tazione provocherà sofferenza e frustrazione. Un errore. Stacchiamo le macchine.

95
Facciamola finita. È morta. O no. Forse.
Di sicuro è in coma da sei mesi. Non è così grave.

I suoi capelli sono biondo cenere. Un grigio dai riflessi gialli. I dottori continua-
no a camminare, ad entrare e uscire dalla porta principale. Portano le medicine.
Si chiamano speranza, desiderio, illusione, poi di nuovo desiderio. L’infermiera
cambia la flebo ogni due giorni. Goccia dopo goccia i sui capelli si allungano.
Una volta al mese il barbiere in camice bianco viene e senza dire una parola se ne
va con la sua busta di plastica colma di capelli. Li ho conservati tutti.

Mi hanno dato un lettino, per la notte. Alla sera mi svesto e in posizione oriz-
zontale ascolto il mio sangue scorrere: è più rumoroso ultimamente, sembra qua-
si più pesante o forse è solo più amaro. Passa l’emicrania, il panico, la noia, il
nervosismo. Ascolto il mio sangue, risoluto, completamente rilassato. La musica
finisce, apro gli occhi nel buio. L’attesa è un bisturi che taglia il dolore e intreccia
con ago e filo paura e follia. Piena la carne di vita.
Mia cugina è in coma da cinque mesi. Sbatto gli occhi sull’azzurro del neon, in
alto, proprio di fronte a me, sul soffitto. Una coppia allunga il viso oltre la porta.
Lui che le tiene la mano. Lei assente. Andiamo via. Torniamo domani. Nemmeno
ciao.

Faccio dalla sedia al lettino. Dal lettino alla sedia. Poi un sorso d’acqua, mi man-
gio l’unghia dell’anulare sinistro e un altro sorso d’acqua. E poi dalla sedia al
lettino.
La fisioterapista entra due volte a settimana per gli esercizi motori, a volte penso
che servano solo a lei quegli esercizi, alla fisioterapista.
Mia cugina è in coma da quattro mesi. È difficile.

Sono stata a guardarla per ore in questi tre mesi. Accendo la radio. Il volume
basso per non disturbare, per non disturbare chi? Crescono tutti ingessati dal
sonno. Sognano una vita. Ma dormono. Svegli, ma dormono. Freud dice che la
nostra vita è una continua ricerca della morte. La stasi assoluta. L’immobilità. La
narcosi eterna. Io penso che mia cugina sia tra le poche che siano riuscite a vivere.
Finalmente. Forse è proprio così. Non vuole svegliarsi. Non vuole svegliarsi più.
Non ne ha bisogno. Ascolta la musica. In pace. Le piace.

Mia cugina è in coma da due mesi. La riempiono di farmaci con periodicità cre-
scente. Filtri magici per spezzare la prigionia della sua mente. Alcool sull’epider-
mide e l’ago che entra per una puntura intramuscolare. L’appuntamento di ogni

96
mattina. È necessario, ne ha bisogno. Soprattutto del tuo amore. Tienile la mano
ogni tanto, dicono. Ogni tanto vedrai, si muoverà. Ho scelto di stare qui. Per tutto
il tempo necessario. Fino a quando.

Mia cugina è in coma da un mese. Qualcuno fa funzionare il tosaerba sul prato


dell’ospedale. Lo vedo dalla finestra. Curano qualsiasi malattia qui. Anche l’erba
che cresce. I parenti possono entrare a gruppi di cinque, a volte sei. Vengono a
trovare parenti e amici con enorme stanchezza. Silenzio per favore. Senza spe-
ranza. Il coma non è una malattia come la celiachia o la varicella, la febbre il
cancro il morbillo la distrofia. Il coma è un appuntamento con la speranza. Un
handicap temporaneo. Molto elevato però. Quasi totale. Incurabile. O forse è un
assaggio d’eternità. Una piccola rivelazione che capita solo a pochi fortunati. O
forse solo a pochi fortunati capita di poter godere del risveglio.

Oggi ho portato la radio. Dentro ho messo una cassetta. C’è registrato il mare,
poi alcuni frammenti di Existenz, canzoni a lei care e rumori di città. L’ho visto
fare molte volte. Ora è capitato a me e tutto mi sembra meno stupido: quando è
la speranza a muovere le azioni tutto è meno stupido. La musica come terapia.
Uscire dall’ingorgo, col nervosismo addosso, l’ansia di non fare in tempo. I nostri
ragazzi si sarebbero molto arrabbiati. La festa era per noi. Nate nello stesso gior-
no, lo stesso mese dello stesso anno. Uguali. Solo che lei è bionda, poi ha il naso
un po’ più piccolo e gli occhi più grandi dei miei. Il mento è uguale. La bimba che
era, era come me. Le foto le confondiamo.

Cerca di stare calma! Ci arriviamo. Ho detto che ce la facciamo. Quindi ce la fac-


ciamo. Ti ho mai mentito? No. Ecco la differenza tra e me te. Io non mento. Sono
sempre sincera. Adesso smettila. Ti ho detto che per le nove saremo state alla
festa, e per le nove saremo alla festa! Ora facciamo una cosa. Per un po’ guidi tu.
Sono stanca. Abbss. SAbbsa. La radio. Abbassa. L rdo. Non sento nulla. Bell’ini-
zio, complimenti. In clausura mi sarei divertita di più. Funziona la radio? Accen-
dila. Inghiottite dalla voragine del traffico, tentavamo di uscire. Lascia questa.
Questa mi piace. M pce. A me no. E leva quella mano dai! A m n. Lev. Man dai!
Che ridere. Eravamo già alla festa. Ci divertiamo così. Due aurore che solleticano
radiazioni.
Un crash, attrito, la macchina che gira, gira, su se stessa. La radio che canta. La
radio. La radio suona. La radio. La radio canta. L rad. Suo. Cant. La radi. Rmor.
La radio suona. La radio. È accesa. Acc.

97
Gianni Usai
La legge dei grandi numeri

«Di cosa si meravigliano? Dopotutto io l’ho sempre saputo che non sarei morto
miserabile come sono nato. Fin dai tempi del liceo non facevo altro che pensare
al modo col quale avrei cavato la mia vita dall’anonimo canale della semplice
sopravvivenza e qualcosa dentro di me mi diceva che ci sarei riuscito. Sapevo
di avere quello che gli altri solo si sognavano, la scintilla, quella che ti porta ad
avere l’idea giusta, semplice e geniale allo stesso tempo, quella che fa la diffe-
renza. Non parlo di intelligenza, con quella diventi ingegnere nucleare o mana-
ger di una grande azienda, ma di quella luce che ti permette di addormentarti
una notte da commesso venditore di arredi per bagni e riaprire gli occhi su un
futuro da milionario proprietario di un brevetto conteso a suon di quattrini da
venti multinazionali. Hanno riso i primi ai quali ho mostrato gli schizzi del mio
progetto. All’inizio era un semplice profilo in alluminio da incassare tra le mat-
tonelle alle pareti del bagno e nel quale fare scorrere gli accessori, i portasapone,
i sostegni per gli asciugamani e ogni altra cazzata ti salti in mente di appendere
nel gabinetto. Non hanno riso però le aziende alle quali ho proposto l’idea, in-
tuendo l’infinita serie di varianti possibili: finiture oro, argento, cromo, satinate;
versioni in ottone e acciaio inossidabile. Senza contare l’enorme numero di arti-
coli correlati. Avevo trovato una miniera d’oro. Così ho cominciato la mia nuova
vita, la vera vita, quella che mia moglie non ha capito e voluto accettare. Lei non
ha mai saputo come funziona il mondo. Quando non sei nessuno passi la vita da
spettatore; se vuoi lasciare il segno, devi contare qualcosa e per contare servono
i quattrini. Chi si illude del contrario è un povero sprovveduto. Una volta che
sei entrato nell’ingranaggio poi non puoi più tirarti indietro. Non è roba per
anime pie. Devi giocare sporco quanto loro e più di loro, se puoi. E sai cosa ho
scoperto? Ho scoperto che il gioco sporco mi piace, è fatto apposta per me. A
mia moglie questo non andava giù, lei non ha sufficiente apertura mentale per
certe cose. Fissava la sua attenzione su inutili questioni di principio, io invece
non avevo tempo da perdere con lei e le sue remore morali. Così un giorno,
una mattina di giugno calda come la roccia fusa, ha preso nostro figlio e se n’è

101
andata per la sua strada. Dice che preferisce essere una morta di fame piuttosto
che stare con un senza valori come me. Ma che cazzo vuol dire? Quando arriva
l’occasione devi saperla cogliere, io ho colto la mia. Fanculo i valori, i principi, la
morale e i perbenisti frustrati del cazzo! Se c’era da concludere un affare, facevo
tutto il necessario per concluderlo. Se un importante manager aveva bisogno di
chiarirsi le idee in un night con una signorina carina e poco vestita seduta sulle
ginocchia, io lo mettevo nelle condizioni di chiarirsi le idee. Se poi gli serviva
ancora un po’ di tempo, mi assicuravo che la signorina lo seguisse nella sua ca-
mera d’albergo. Qualche volta, per evitare che il mio ospite si sentisse a disagio,
dovevo fare gli onori di casa, ma per quanto fosse piacevole si trattava sempre
di lavoro. Le faceva schifo, eppure i soldi che le passo ogni mese pare non su-
scitino in lei altrettanto ribrezzo. È l’ipocrisia che ci fotte, anche sapersi turare il
naso quando serve è una dote che può fare la differenza. Mia moglie non ce l’ha.
Nemmeno i miei amici la possiedono. Non facevano altro che sparare giudizi,
ma forse nel loro caso si trattava solo di invidia. Avrebbero fatto molto di peggio
pur di essere al mio posto, io lo so. E comunque, quando sono usciti dalla mia
vita, non ho perso granché. Quando vai in giro col portafogli pieno di soldi e
hai un budget di spesa illimitato trascinarti dietro degli spiantati diventa presto
spiacevole per te e per loro. I soldi fanno la ricchezza di chi li possiede, mai
quella di chi sta alla sua ombra. Il resto sono cazzate. Non credere a chi ti dice
che il denaro non è tutto. Due anni fa una col tuo culo l’avrei vista passare per
strada senza poter fare altro che stropicciarmi gli occhi e deglutire l’eccesso di
salivazione. Poi ho imparato che per tutto c’è un prezzo, devi solo saperlo con-
trattare e poterlo pagare. Tu, per esempio, hai delle tette niente male, una faccia
da copertina, io però ho un debole per queste due fossette sopra i tuoi glutei,
proprio qui. Mentre ti scopo non faccio che pensare a loro. Cinquecento euro per
fossetta, mica male! Un affare per te, soldi spesi bene per me. È la legge del mer-
cato, io e te non siamo molto diversi, abbiamo entrambi qualcosa che il mercato
richiede, dobbiamo solo fare in modo che frutti il più possibile perché non dure-
rà per sempre. Il tuo è un bene altamente deteriorabile, il tempo gioca contro te
e le tue fossette. Anche la mia invenzione è destinata a perdere di valore, ma io
posso lavorarci sopra per fare in modo che resti al passo con i tempi, a te invece
non rimane che mettere da parte tutto quello che puoi, fino al giorno in cui ti
accorgerai di essere fuori mercato. Adesso capisci dove sta la vera genialità della
mia creazione? È una fonte di guadagno potenzialmente molto longeva, almeno
molto più longeva delle fossette sul bel culo di una prostituta. Anche se al gior-
no d’oggi la chirurgia plastica può aiutare una come te a mantenersi accettabile
fino ai quaranta o anche oltre, se si rivolge a uno bravo. Quei figli di puttana,
con tutto il rispetto, sono capaci di fare dei veri miracoli. Per la cifra giusta fic-

102
cherebbero le mani sotto la pelle di un’ottantenne e le riporterebbero tette e culo
in quota di crociera… Perché ti rivesti? Torna a letto, ti porto da bere.»
«Devi pagarmi, si è fatto molto tardi.»
«Potrai avere tutto il denaro che vuoi, se resti qui. Fai tu il prezzo. Ci chiudiamo
in casa e facciamo passare questi due giorni di merda. Non vuoi sapere come
vive una regina?»
«Le regine lo prendono tra le cosce per il gusto di farlo, non per quattro soldi
come me. Smettila di dire cazzate, devo prendere il treno delle sei, i miei mi
aspettano per il pranzo di natale.»
«Non sapevo che anche le puttane festeggiassero il natale.»
«Pensa un po’ che sorpresa, signor genio dei gabinetti. Persino le puttane hanno
qualcuno che le aspetta a casa. Benvenuto tra gli esseri umani, dove ogni cosa
ha un prezzo ma non tutto può essere comprato.»
«Questa è bella, ti metti a dare lezioni di vita adesso? Allora aggiungi questo al
tuo libro della saggezza: il fatto che ogni cosa abbia un prezzo non significa che
tutto debba avere un valore. Vuoi sapere cosa vale meno di niente? La vita di
una troia. Dovresti tenerne conto prima di aprire la bocca. Ricordati che posso
pagare il tuo culo e anche qualcuno che lo faccia sparire dopo che ti avrò spez-
zato il collo.»
La pressione di quella mano appena sotto la nuca le ha cristallizzato il sangue
nelle vene, ne ha arrestato il circolo. Eppure il cuore batte ancora, lo sente pul-
sare in corrispondenza dei punti in cui le dita premono sul suo collo. Lo spinge
via provando a mascherare di fastidio quella che non è altro che nuda paura.
Per la prima volta da quando fa questa vita. Chiuso il cappotto raccoglie i soldi
che lui ha buttato con disprezzo sul parquet, li infila nella borsa e se ne va verso
l’uscita, conosce bene la strada.
L’aria delle tre del mattino in quella periferia residenziale è una sferzata di re-
altà, dissolve le nebbie della mente mettendo a nudo terminazioni nervose che
trasportano pugni nello stomaco. I pochi passi necessari per raggiungere la mac-
china sono sufficienti per rivelare l’irritazione sotto la sua gonna, solo l’orgoglio
le impedisce di assumere un’andatura goffa e scomposta per lenire il fastidio.
Ci penserà più tardi l’acqua calda della doccia a spegnere il fuoco e lavare via le
scorie di superficie, solo quelle, quanto basta per guardarsi allo specchio mentre
asciuga i capelli prima di mandare giù le due pasticche che le permetteranno di
dormire fino al pomeriggio del giorno dopo. Le forze per ricominciare da capo
arriveranno per inerzia, come in qualunque altro domani uguale a qualunque
altro disgraziato ieri.
Strani concetti ieri e domani per chi non dorme che poche ore a notte, magari
strappate allo scomodo abbraccio di una poltrona davanti alla tivù o con la fac-

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cia sulla tastiera del portatile. Passato e futuro si fondono in un lungo presen-
te senza soluzione di continuità i cui ritmi sono scanditi dal buon odore della
camicia pulita la mattina e dalle suonerie del telefono cellulare. Il percorso lo
tracciano a turno ambizione e noia; questo è il momento della noia.
Tre ore di sesso non sono servite a placare la sua smania e il Valium che ha in-
goiato è andato giù senza produrre effetti esattamente come i bicchieri di gin
che l’hanno seguito. Il dito sul telecomando non vuole saperne di fermarsi, ci
saranno venti canali a luci rosse su quella maledetta televisione e in nessuno c’è
niente che somigli a quelle due splendide, enigmatiche, impertinenti fossette
che l’ossessionano, niente su cui valga la pena masturbarsi fino allo sfinimento.
Vuota un altro bicchiere, liscio, senza intermediari liquidi o in cubetti e si avvici-
na alla parete in fondo alla sala, quella col grande arazzo in bella mostra, regalo
dell’emiro che gli spalancò le porte per l’affare più importante della sua vita.
Grande mossa non vendere il brevetto della sua creazione. Trovare i fondi per
avviare la produzione gli era costato il matrimonio, ma oggi nei bagni di una di-
screta parte delle ville di Dubai ci sono i suoi prodotti. Ecco in cosa ha sbagliato
quella puttana, non ha saputo calcolare il valore della propria merce. Una così
l’avrebbe anche potuta sposare una volta ottenuto il divorzio, se non si fosse
venduta per quattro soldi. Le sarebbe bastato recitare la parte della ragazza per
bene, sventolare un po’ quel suo culo da favola e lui ci sarebbe cascato come un
coglione. Invece una misera strenna è bastata per impedirle la visione di tutto il
bottino. Come al solito la prospettiva d’insieme si dimostra sfuggente alle menti
ordinarie quali certamente sono la sua quasi ex moglie, la puttana col fantastico
fondoschiena e tutti quelli che ha conosciuto nei suoi anni da miserabile.
Scosta un lembo dell’arazzo per accedere alla piccola cassaforte che nasconde,
come combinazione ha impostato la data del giorno in cui festeggiò il suo primo
milione. Ne estrae una vecchia pistola a tamburo, una rivoltella già passata da
suo nonno a suo padre e ora in suo possesso da ultimo retaggio della vecchia
vita. Passa per la bottiglia del gin e torna a sedersi col bicchiere nella sinistra
e la pistola nella destra. Solleva e abbassa il cane concentrandosi sul rumore
meccanico, sulla sequenza di clic che accompagna quel breve movimento. Sente
i nervi distendersi: andasse da sé, quel suono ipnotico, e continuasse per quel
che rimane della notte, potrebbe finalmente dormire un po’.
Il tamburo non è vuoto, contiene sempre quell’unica cartuccia caricata tempo fa,
in una notte come questa. Adesso la sta guardando, si conoscono bene loro due,
non è il loro primo faccia a faccia, ma portata la canna alla tempia gli è sempre
mancato il coraggio per premere il grilletto. Una sola possibilità su otto, dal
punto di vista statistico non un grande rischio. L’uomo che racconta di essere
non dovrebbe lasciarsi fermare da così poco, lui dovrebbe sapere come liberarsi

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di quelle ridicole ossessioni. Premere il grilletto, sentire il clic propagarsi libera-
torio fino al centro del cervello e godersi la scossa dei nervi pervasi dall’adrena-
lina. Questo sì annienterebbe la noia. Una sola possibilità su otto, non un grande
rischio. Una sola possibilità su otto... Bang!

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Aventino Loi
Lisa ha gli occhi viola

Io so cos’è il bosco. Dov’è. So chi lo vive. Di sicuro c’è Lisa. Da almeno tre anni.
O meglio: lo so da tre anni. In realtà credo ci sia da quando, guardandosi intorno,
rifiutò il caos delle cose. Delle nostre cose.
Non sapevo se per lei il bosco fosse una cosa buona. Spesso la immaginavo avvin-
ghiata da rovi che le legavano il collo, levandole il respiro tanto da impedirle di
parlare. La sognavo così. Finché un immane sforzo di uscire da quell’incubo mi
svegliava di soprassalto.
Sudato…
Restavo così a chiedermi cos’era stato. Se solo un incubo… e giù dal letto. In fret-
ta ma in silenzio… correvo. Correvo dove lei ancora dormiva. Sognava. Magari
dei nostri giochi. La guardavo dormire. La bocca aperta sui suoi cinque anni. Le
accarezzavo i capelli chiari. Guardavo gli occhi chiusi. Le ciglia lunghe. La pelle
tesa… e piangevo. Nel vuoto della notte piangevo i suoi silenzi e le parole che
l’indomani non avrebbe detto.
A volte uscivamo presto la mattina. Soli. Anche quel giorno. Una passeggiata ai
giardini. Come sempre la tenevo per mano. Come sempre lei tirava rischiando di
farmi cadere e io la tenevo forte. Voleva correre. Tra le auto lente. Fuggire. Frenavo
il suo braccio. Il suo camminare. La guardavo. Lei solo di sbieco e mai negli occhi,
ma rideva. Allegramente mi strattonava, giocava. Rideva ancora. Così arrivammo
ai giardini e non so, un attimo di distrazione per lo squillo del telefono. Una chia-
mata, forse solo un messaggio.
La persi.
Sparita.
Non c’era più.
Mi prese il panico. Poteva farsi del male, tanto male da non permettermi di ripara-
re a quella distrazione. Potevo non ritrovarla più. La cercai sudando con la paura
in gola finché non intravidi il suo viso oltre gli arbusti di una grande aiuola.
«Vieni fuori, Lisa! Fuori… ti sporchi…» dissi.
Niente. La sentivo ridere.

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«Ti ho detto di venire fuori, ora. Basta!»
Niente. Lei continuava a ridere. Fui costretto ad affacciarmi. Scostai gli arbusti, al-
lungai una mano verso la sua per portarla via e invece, con forza, mi portò dentro
verso di lei. L’assecondai per non farle male, per non piegare il suo braccino, ed
entrai superando altri arbusti dentro quella macchia fino a ritrovarmi al centro di
un ampio spazio. Tutto sembrava diverso ora. Non immaginavo ci fosse il bosco.
Non pensavo che Lisa mi stesse portando dentro l’incubo di più notti, fatto di
rovi e di spine, e che ora mi si presentava assolutamente diverso: uno splendido e
immenso giardino. L’avevo già visto quel luogo. Da bambino. Avevo l’età di Lisa.
Era di un’anziana donna che viveva sola in una grande casa… ma il giardino…
era immenso, un parco grandioso fatto di alberi e di arbusti in fiore. Colori e pro-
fumi mai sentiti prima. Inusuali. Essenze intense che si facevano visibili, quasi
come un vapore che si levasse da quei forti colori e dall’erba che si perdeva ben
oltre l’infittirsi della vegetazione più alta, dove il bosco, pensavo, si faceva una
massa unica imperscrutabile. E Lisa? «Bello» disse.
Solo Bello…
Parlava? Quello sarebbe già stato un buon motivo per non chiedermi perché fossi
lì, con lei, in quella domenica d’autunno. Mi bastava che parlasse.
«Bello» aveva detto. Forse si sarebbe rivolta a me come mai avevo sentito prima e
finalmente avrei colto dalla sua voce una parola per me. Qualcosa che mi desse la
misura dell’amore che ero certo lei aveva per suo padre e che finalmente sarebbe
stata in grado di esprimere così. In una parola. Mi misi accanto a lei e ci avviam-
mo. Mano nella mano. Senza chiedermi se mai sarei uscito da quel luogo. Se mai
saremmo tornati come prima.

Camminavamo da poco. Il viale si era fatto ombroso. Coperto da alberi dal fusto
imponente. Intravedevo qualcuno venirci incontro. Due bambini. «Ciao» disse-
ro fermandosi. Entrambi indossavano maglietta e pantaloni bianchi. Scalzi. Lisa
rispose al saluto, io no. C’era qualcosa di assolutamente raccapricciante in loro:
non avevano la bocca. Avevano tratti regolari, ma dove avrebbero dovuto avere
labbra, denti e gengive… nulla. Perfettamente lisci.
«Tuo padre ci guarda con sospetto» disse uno di loro guardando Lisa. Sorrideva
con gli occhi.
«Scusate…» dissi, e feci per tirare innanzi con Lisa.
«No, non c’è bisogno» riprese quello. «È per la bocca. Lo so…»
Mi chiedevo da dove venisse la voce. «La voce viene da dentro» mi disse risolven-
do il quesito. Nulla. Non dissi nulla. Presi Lisa per mano e ci allontanammo. Lei si
voltò per salutare, con un gesto. La guardai. Non aveva più la bocca. Anche lei. Mi
prese un vago senso di confusione. «Come faremo a dirlo a tua madre?» farfugliai.

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Mi sembrava l’unico problema. «E come reagirà…» ormai deliravo.
«Di qua.» disse lei senza ascoltarmi, facendomi deviare dal percorso principa-
le. Sapeva dove andare. Arrivammo in breve in un grande spiazzo. Al centro un
piccolo stagno. Su grandi massi erano seduti tre bambini. Lanciavano sassi. Gio-
cavano a farli saltare sul pelo dell’acqua. Ci avvicinammo. Erano biondi. Tutti.
Raccolsi anch’io un sasso come stava facendo Lisa. Lo lanciai e fece cinque salti.
«Bravo!» esclamò uno dei bimbi. «Ora provo io.» Era davanti a me. Piccolo. Tese
il braccio e lanciò. Restò con la mano per aria. Aperta. La mano… una mano piut-
tosto strana. Aveva il pollice, ma al posto delle quattro dita un unico lembo di
carne che articolava come se le dita fossero palmate. Ma non vi era alcun segno
delle falangi. Presto mi accorsi che anche gli altri bambini erano così. Intanto Lisa
gareggiava con loro a lanciare i sassi sull’acqua. Ridevano e giocavano. Presi Lisa,
la caricai sulle spalle e via. Di corsa. Mi fermai quando mi sembrò di essere abba-
stanza lontano. Posai Lisa che era rimasta tutto il tempo tranquilla. Non si preoc-
cupava di avere le mani come piccole palette.
«Ma che ti succede?» dissi prendendole la testa tra le mani. Sollevò lo sguardo
oltre le mie spalle, come se vi fosse qualcuno dietro. Avevo paura di voltarmi.
Quando lo feci mi trovai di fronte una donna. Pallida. Magra. «La bambina non
ha nulla…» disse.
Quasi fosse il gesto più naturale, Lisa le si avvicinò e carezzò una guancia della
sconosciuta che la prese in braccio. L’abbracciò cingendole il collo come faceva
con me quando aveva sonno o chiedeva le coccole.
«Qui non vi accadrà nulla di male» disse la donna.
Di quali altre trasformazioni sarebbe stata vittima, Lisa? Quella donna sembrava
del tutto normale… a parte gli occhi. Viola. D’un intenso colore di ametista. Lisa si
staccò da lei e mi guardò. I suoi occhi, ora, erano dello stesso colore di quelli della
donna: «Ma che state facendo alla mia bambina?» urlai.
«Sst» fece Lisa. «Sst» ripeté la donna. Risero.
Avrei voluto capire. Avrei dovuto capire…
Chiusi gli occhi e allungai una mano verso Lisa. Sentii la guancia, il naso e anche
le labbra. Le aveva di nuovo. Mi baciò piano la mano. Era di nuovo normale. Lo
era sempre stata.
Mi chinai su di lei, la presi tra le braccia e andammo via così. Piano. Cercando
un’uscita. Camminai con lei sulle spalle, dormiva. Superai la vegetazione più fit-
ta, percorsi sentieri ripidi finché il bosco diradandosi mi fece intravedere la città.
La periferia. Le strade trascurate e buie. La parte che mi teneva lontano da lei, dai
luoghi più ospitali. Superai cataste di immondizie mentre qua e là piccoli fuochi
bruciavano residui organici indefiniti. Auto depredate di tutto erano abbandonate
sui marciapiedi. Bisognava attraversare tutto per tornare alla partenza.

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Camminai, camminai. Lisa dormiva. Finché cedetti. Stanco. Mi sdraiai su una
panchina con lei di fianco e mi addormentai.

Mi svegliai col sole che filtrava dalle persiane. Ero riposato. Mi alzai e andai a cer-
carla nel suo letto. Ancora dormiva. Le sue mani erano distese sul lenzuolo che la
copriva. Dormiva sempre con la bocca aperta. Le carezzai i capelli. Si svegliò. Aprì
gli occhi e sorrise. Il viola dei suoi occhi le illuminò il viso. Erano ormai sei mesi
che avevano assunto quel colore. Nessuno fu in grado di accertare se sarebbero
rimasti così. Non si poteva stabilire.
Ora Lisa ha gli occhi viola. Il colore del suo mondo. La luce con cui mi guarda ogni
giorno. A volte lontana, altre più vicina. Ma so che c’è uno spazio che divido con
lei quando smetto di guardarla o di inseguire i suoi silenzi. Con gli occhi chiusi
ascolto il respiro sui miei capelli farsi vento. Sento la sua pelle sul viso. Le mie dita
che incrociano le sue. Allora mi parla e capisco esattamente ciò che dice.

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Elena Marinelli
Caro Osvaldo

1. Tu sì che capisci le donne


Quando posso ritardo di mezz’ora – bastano anche solo venti minuti – e sorrido
perché c’è una signora coi capelli brizzolati e corti; sorride di riflesso e fa un cenno
con la testa, tutte le volte, a quelli che entrano e si girano attorno per cercare un po-
sto a sedere; ti guarda come se ti stesse aspettando. In metropolitana non incrocio lo
sguardo di nessuno: al lunedì mattina ci sono i pendolari, quelli che vanno a lavora-
re, gli studenti del Politecnico e non c’è posto per nient’altro.
La prima volta il posto vicino a lei è libero, mi siedo lì, sono ingombrante, lei sta fer-
ma. Mi guarda, mi sorride sempre e io pure continuo a sorriderle. Ha gli occhi color
nocciola, piccoli, che si fanno sottili a ogni movimento della bocca, labbra levigate,
da ragazza, gli occhi sembrano due noci, m’accompagna fino a Lambrate. La prossi-
ma volta, lo so, mi dirà un segreto.

Rita, dimmi che vuoi da mangiare.


Niente, non voglio niente.

Rita non mangia mai ed è grassissima. Non è un problema di cibo, è un problema di


mente, di polmoni, di tutto il resto: insomma è un problema di cuore. Da quando la
conosco la metto nella rivista in cui lavoro, nella posta del cuore che non risponde
alle debolezze, alle imperfezioni, alle persone, ma solo alle lettere dei lettori, lettrici
per lo più.
Io per mestiere scrivo una posta del cuore di una rivista e non mi sono mai doman-
dato perché, fino al giorno in cui l’ho incontrata. È un lavoro, ci devo vivere, mica
posso fare lo scrittore. In più sono maschio, mi chiamo Osvaldo, ma avere due sorel-
le mi aiuta molto. A volte chiedo direttamente a loro cosa rispondere, si divertono,
fanno ipotesi, mettono le virgole e io non ci penso più di tanto; scrivo, spengo il pc
e vado a casa.
La posta del cuore è una di quelle cose che resiste a ogni innovazione culturale e tec-
nologica. L’editoria morirà, i libri saranno digitali ma la posta del cuore la leggeran-

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no sempre tutti. Una signora una volta mi ha scritto “Cara Teresa, lei sì che capisce le
donne.” Sul giornale mi chiamo Teresa, come mia sorella. La lettrice era mia madre,
ma non le ho risposto: non ha ancora capito cosa faccio di mestiere. Si usano sempre
altri nomi per quelli che scrivono la posta del cuore, così si evita il coinvolgimento
emotivo, come nei film porno quando sono finti, si è più obiettivi, si dice. Sembra
facile, basta scrivere un consiglio, come a una mia amica, come a mia sorella, ma
invece queste donne ci credono sul serio a quello che scrivo. Responsabilità, sento
sempre responsabilità.

Rita lo ha capito benissimo invece che lavoro faccio: era il suo sogno avere una posta
del cuore.
Se qualcuno mi avesse detto una volta fai così e non così, forse chissà ora non abite-
rei questo seggiolino del metrò.

A Lambrate scendo in fretta, ma sugli ultimi gradini sono sempre lento, non sono
uno da ultimo minuto, durante l’ultimo minuto c’è sempre il pensiero sbagliato che
sceglie la direzione opposta; non sono un musicista, non so improvvisare e finisce
che mi perdo sempre.
Federica e Gianni litigano sullo spiazzale di cemento caldo anche stamattina. Vanno
avanti da quasi una settimana, forse si lasceranno tra un po’, non si baciano più ogni
mattina tra le nove e le nove e dieci, prima che arrivi il treno; da quando lavoro in
quella rivista noto molto più spesso come sono innamorate le persone, quello che
dicono del loro amore mi interessa sempre meno, sono sempre delle bugie, incasto-
nature dentro le righe, nella cornice delle e-mail, nel setaccio della vergogna di dire
le cose come stanno.
Il movimento degli innamorati non mente mai: lo scarto che si danno e gli sguardi
che si lanciano, le volte che puntuale arriva l’incrocio sulla stessa canzone, lo sguar-
do di sottecchi per tenersi d’occhio senza far vedere di essere gelosi, mano nella
mano quando non c’è nessuno, perché il segreto è il successo. I gesti sono la natura-
lezza e la seduzione dell’amore, l’ho letto da qualche parte, è una frase che ai miei
lettori piace molto: il detto indica, il non detto seduce.
Alle mie sorelle piacerebbero Federica e Gianni perché si perdono in parole, loro po-
trebbero ascoltarli come le soap opera in tv, tinti di giallo e verde, coi colori che fan-
no schifo perché l’importante è dire ti amo col tono che t’aspetti non con le reticenze.
Le reticenze non piacciono a nessuno. Le lettere che ricevo parlano solo di fare qual-
cosa per, mettersi in animo di, ma mai di stare zitti.
Eppure, dico io, se si riesce a star zitti in due senza specchio è fatta. Io la penso facile,
non so che farci. La penso così da quando ho iniziato a guardare le ragazze. La penso
che se ti metti a fare una dichiarazione sincera a una donna, lei non può non starci.

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Invece no.
Eh no.
Rita, t’ho fatto la frittata.
Ok, la frittata la mangio.

2. Tu sì che dici le cose come stanno


La prima volta in redazione mi arriva una lettera facile: fortunato. Lei ama ancora
lui e lui l’ha tradita. Facile: mollalo. Me la cavo in tre righe, scrivendo anche capisco
il tuo dolore, l’ho provato anche io e finendo con con affetto, Teresa.
Mi risponde, un po’ risentita:
Gentile Teresa, mi rendo conto che lei è nuova qui sul giornale, ma forse non ha capito bene
la mia storia. Gliela rispiego. Ho un marito che mi ha tradito ed io non so più se voglio conti-
nuare a stare con lui. Mi ha fatto soffrire, non credevo sarebbe mai successo, io non l’ho mai
fatto, e lui ha scelto un’altra. Non so nemmeno com’è fatta, ma ecco, è un’altra. Non sono le
mie parti del corpo. Lui mi ha chiesto scusa, mi ha detto che non succederà più, ma non so
se credergli. La questione è il corpo, gentile Teresa, la questione che mi strangola di notte è il
corpo. Il suo. Mi ha capito ora?
Basito. Avevo capito benissimo e secondo me avrebbe dovuto lasciarlo: se non sop-
porti la condivisione del corpo, lascialo. Sicuramente lo rifarà.

Male. Tu non sai consolare.


Rita, ma come? Dovevo dire una bugia?
No. Essere diplomatico.
Ma io dico le cose come stanno.
Male. A nessuno interessano le cose come stanno. Poi, chi ti ha detto che hai ragio-
ne?
I fatti.
Quali?
Un uomo che tradisce lo rifà. Può rifarlo.
Anche uno che non l’ha mai fatto.
C’è meno possibilità.
Non stiamo parlando di statistiche, qua.
La mangi ‘sta frittata o no?
Sì sì la mangio.

Rita a volte è meglio di mia sorella. Quando proprio sono in crisi, al mattino vado
due fermate più in là di Lambrate, mi faccio dire la sua opinione per bene: ho sco-
perto che le risposte articolate vincono sempre sul lettore. Ti rispondono sempre

115
grazie, davvero grazie. Sì, davvero: con virgole e punti e la parola davvero. E Rita,
volendo, può stare a parlare per ore: davvero.
Le sto simpatico per via della posta del cuore, me l’ha detto qualche volta, tra un
sorriso e l’altro. Un giorno addirittura ha appoggiato la testa sulla mia spalla di-
cendomi la tua giacca profuma di velluto. Ma era di lino ed era estate. Il profumo del
velluto è quando ci vuoi mettere dentro il naso, lo strusci e lo gratti e sei liscio tutto
il giorno. Il velluto ha il profumo del liscio e del pelo nelle narici e te lo tieni dentro
tutto il giorno così ti proteggi dal resto, non senti più niente dopo l’odore del vellu-
to, è per questo che lo mettono attorno alle chitarre.

Rita faceva la sarta. Il suo telaio lo teneva vicino alla finestra, c’era più luce e guar-
dava la gente passare così se non sapeva come fare un orlo, vedeva come erano fatti
quelli delle ragazzine che uscivano dal collegio, di fronte casa sua. Se non sapeva
come fare la piega a una gonna, guardava Rosa mentre andava in collegio a inse-
gnare italiano.
Non ho mai imparato per davvero. Guardavo e rifacevo tutto, mi ha detto una volta.
Com’è che hai smesso?
Toglie la guancia dalla mia spalla. Mi sorride.
Lambrate è passata da due fermate.

3. Tu non sai cos’è la nostalgia


Il segreto di Rita non è un vero segreto: lo dice a tutti, perché non può farne a meno.
È come il suo nome. Si presenta, Rita, piacere e poi aggiunge quasi sempre una volta
sono impazzita per amore. Pare non sia più guarita. E lo dice con un sospiro dopo il
nome, per un attimo impallidisce e diventa piccola, ma non abbassa lo sguardo.
Aveva un telaio e non sapeva a memoria gli orli, metteva i vestiti con le scollature
forti, rideva poco perché pensava di avere una brutta bocca e si copriva le orecchie
coi capelli lisci e lunghi, non li raccoglieva mai; odiava i foulard, mentre adesso ne
è piena, ne ha uno intorno al collo sempre e poi alcuni sulle dita, come sua madre,
quando se li legava al dito per ricordarsi le cose da fare. Il giorno del matrimonio di
sua figlia aveva un fiocco per ogni dito e un foulard intorno al collo.

Sono impazzita il giorno del mio matrimonio, non riuscivo a usare più le forbici.
Come sei impazzita? A me non pari mica pazza.
Sto bene solo sul metrò, devo muovermi, di notte vado in giro per tutta la città, sono
pazza davvero, sai. Devo muovermi per pensare e sto bene solo se penso perché
se penso ricordo e mi viene nostalgia. (E lo dice come se essere pazzi fosse avere i
capelli neri, al massimo una colica che spunta ogni tanto.)

116
Ma perché sei impazzita Rita?
Per colpa della nostalgia.

Alla nostalgia basta un ricordo solo, non serve un album intero. A me basta un ricor-
do, un suono, anche solo una nota, ripetuta e ricorsiva, e lei arriva, mi fa cadere, cer-
care la canzone mentre guardo fuori, non so nemmeno io dove, anche se ho freddo,
mi fa aprire le tende anche se entra il sole delle tre dritto sulla mia nuca. Un ricordo
solo, nemmeno eccellente, nemmeno troppo importante: c’è, anche fermo e immobi-
le, sono io che gli vado incontro.

Allora per una volta mi sono rassegnata alla nostalgia e sono impazzita.
Ma poi finisce la nostalgia a un certo punto, no?
No, non finisce. Tu non sai cos’è la nostalgia. La nostalgia è cronica.

Rita mangia sempre le stesse cose, è la sua nostalgia: schiava delle mosse e delle rea-
zioni che le si strofinano sul corpo, della previsione esatta di quello che deve capitare
alla prima nota di quella maledetta canzone, ogni volta che dalla finestra vede la luce
spegnersi tra le undici e mezzanotte e inizia a camminare.
Con gli occhi di fuori e crepati di sangue, di tristezza e d’amore Rita fa sempre lo
stesso percorso, calpesta un prato a un certo punto della notte per sentire l’erba che
scrocchia sotto le suole, come fossero ossa, o affonda nel fango se piove; si siede su
uno scalino di una casa disabitata, a fatica, guarda il solito punto, sul marciapiede,
dieci metri a destra, la mattonella dove stavano i suoi tacchi, riascolta tutte le parole
e vorrebbe diventassero corpi, di nuovo, aria che esce dalla bocca a forma di nuvole
bucate.
Vorrebbe che quel ricordo durasse per sempre, è l’unica cosa che ho dice, è l’unica cosa
che mi rimane, è l’unica cosa che posso vivere. Vive la nostalgia, ci passa dentro ogni volta
che può, si rialza e se ne va, continua a camminare, poi si appoggia a una staccionata
di legno, nel mezzo, si tiene la bocca con l’altra mano e piange, con singhiozzi afoni.

Tutto questo? Ogni notte?


Quando mi prende la nostalgia, e mi prende spesso, quasi ogni notte. E meno male
che mi prende, rifaccio tutto, meno male che mi prende.
Rita...
Scendi, siamo a Lambrate, ci vediamo domani.

Corro via, aspetto che il treno si chiuda e riparta, la guardo dalla linea gialla: si è
alzata e si tiene al poggiamani, cammina in senso contrario per sedersi da un’altra
parte vicino a un posto vuoto, voltandomi le spalle.

117
Luisanna Gerace
Francesca non esiste

Stamattina mentre andavo a lezione di filologia romanza ho messo il piede in una


pozzanghera. Posso sforzarmi di pensare che Francesca non esista, ma non che
non esistano le pozzanghere. Quelle esistono e ti lasciano i piedi umidi per tutta
la giornata. Credo che Francesca abbia fatto pallavolo da bambina, ha il culo di
una pallavolista dilettante, ne sono sicura, è un’illuminazione da pausa sigaretta.
Quasi mai prendo abbagli durante la pausa sigaretta.
Francesca tutte le sere, tornando da lezione, si ferma nel baretto di Maurizio,
un’accolita di artistoidi che sognano un ultimo tango e le soffitte polverose alla
Rimbaud. Io ci passo di fronte, mi affaccio appena per vedere se è già arrivata e
poi di filato riprendo la mia strada, rossa e con il cuore che fa tum tum perché tutti
si sono girati. Scappo come una ladra, goffa e impaurita. Non ho il maglioncino
giusto per entrarci, non porto treccine vezzose sotto un basco, né calzini buffoneg-
gianti. Mi vergogno con i miei sottaceti nel cassetto della scrivania.
Francesca ride poi infila le lunghe dita nell’olio torbido e tira fuori le melanzane
gocciolanti. Le ingoia veloce e le sue labbra scintillano di unto.
Io di Firenze conosco solo il campus e le vie centrali.
Firenze è tutta gialla e marrone e nell’umido di Pontevecchio sbrilluccicano co-
ralli dalle vetrine. Sono arrivata qui con le valigie piene di sciarpe e scarponcini,
come Totò a Milano, e mi trascino dietro una sfilza di otto sui temi di italiano che
la professoressa Lorenzi segnava in blu con due pallini ravvicinati. Mi diceva, col
suo rossetto rosso pompeiano, che ero troppo aggettivata. Me la prendevo, me la
prendevo tanto. Poi si schiariva la voce e mentre scorreva la penna sul registro
modulava un Veniant da far tremare i polsi.
Adesso mi sento troppo pulita e troppo classica per questo posto. Troppo verde
in viso per Francesca che ha le guance color Biancaneve, sangue sulla luna. Mi
porto dietro questo desiderio come mani macchiate di marmellata, appiccicosa e
invisibile, che tento di nascondere dietro la schiena.
Quando sono partita mia nonna mi ha dato un rosario che profuma di rosa e una
coperta fatta a mano per coprirmi le gambe sul divano. Qui non abbiamo un di-

119
vano, in questa stanzetta da campus ci sono due letti, due scrivanie e un cucinino
striminzito; ci sono i miei libri su una mensola e le tele senza telaio di Francesca.
«Mi fai dipingere le tue mani?» mi chiede insistentemente.
Ma le mie mani sono brutte, sembrano porcellini impauriti, sono cicciotte e corte
e poi sono sporche di marmellata… le dico di no, chiudo i pugni e scappo in un
libro di Joyce.
Quando leggo mi tormenta il rumore del mare, penso che chi vive a due passi da
una riva riesca meglio a credere ai miracoli, è il fatto di non vedere mai i confini.
Penso che conosca la strana sensazione dell’attesa, l’arte di tessere la tela aspet-
tando il messaggio nella bottiglia. Il mio messaggio nella bottiglia si chiama Fran-
cesca. Il mio temporale si chiama Francesca e come ogni temporale fa paura con
quel bubbolìo che picchia i vetri e nasconde il ritmo del cuore.
Da un po’ di tempo Francesca gira con un ragazzo biondo che porta sempre il
cappuccio delle sue felpe in testa. Lui entra in camera e non saluta, si butta sonno-
lente sul letto e sfoglia giornali che parlano di concerti. Francesca, invece, lancia
calzini in aria e cerca scarpe colorate sotto il letto. Ha sempre fretta di andare, di
tornare, non risponde al telefono e segna sul calendario il suo ciclo irregolare.
Sembra non sapere cos’è la noia. Io invece la noia la conosco. E non è che sia poi
così male. Nella noia c’è la pausa, il rifiatare, c’è un non so che di possibilità, una
sorta di potenzialità, l’inespresso. A volte questa sospensione mi serve.
Di Francesca quello che adoro di più sono i suoi polsi. Sono leggeri e sottili e
quando muovono il pennello sembrano ballerine di antiche danze popolari, come
pizziche o saltarelli. Anche i polsi sono color Biancaneve.
Una sera rientro in camera, mi chiudo dietro la porta e la trovo a piangere su un
romanzo. Lei cerca di nascondere il libro, ma io intravedo il titolo, Pomodori Verdi
Fritti al caffè di Whistle Stop. Si volta tirando su col naso e poi dice: «Che cazzata
di libro!»
Rimango ferma, cerco di capire qualcosa, mi appoggio e le calze si attaccano al
muro elettrizzate. Lascio la borsa sulla sedia, ma non dico niente.
«Tu lo sai cos’è l’amore?» dice.
Oddio, cosa posso risponderle? Non lo so, non lo so cos’è l’amore. Ma di certo
assomiglia a me che faccio finta di dormire quando lei rientra tardi col sapore
di vino dolce in bocca o alla sua gamba piegata sotto il sedere sulla sedia blu di
camera nostra. Rispondo di no e lei fa un sospiro, poi riapre il libro e continua:
«Penso che sia Dorothy sui mattoni gialli sulla via per Smeraldo… tanto lo sai, no,
che il Mago di Oz non è quello che pensavi.»
Le si muovono gli occhi velocemente, quel color nocciola lucido e molle è instan-
cabile. Lancia il libro, si alza, s’infila in bagno e urla tra lo scroscio dell’acqua
corrente: «Stasera esco con Mat.» Raramente m’informa sulle sue serate, specie se

120
queste prevedono una coperta sotto cui nascondersi.
Ogni tanto spero che mi guardi come guarda Mat e mi contagi di bellezza e dina-
mismo, del rossetto che non le si sbava mai. Ogni tanto spero di essere io quella
coperta.

Guardo Francesca da lontano, accanto alla facoltà. Tra pochi minuti ho una lezio-
ne, ma mi avvicino lo stesso all’edicola.
I giornali dicono che ha il cervello bollito dalla cocaina, sarà, ma nessuno parla
come lei. Quel modo morbido di dire parole vive, piene di ritmo. Francesca ha
ancora i capelli lucidi e sembrano soffici come quella sera sotto il quadro del Bron-
zino. E le sue parole ripartono, non hanno paura. Le mie parole sono morte, ma
io le amo come se fosse sempre il primo giorno. Cerco di spiegare come si trasfor-
mano e come si trasformeranno ancora. Spero di dare, di far anche solo scorgere
appena a ragazzi di 20 anni – tutti quegli occhi aggrovigliati e frettolosi – quanta
vita esista in una lingua morta; dal primo suono di un mantra antico, la sillaba di
Dio, come da un aum stentato, nascano gli uomini e le idee, come diventino storia.
Ci provo, se necessario sbatto i pugni sul tavolo, non mi interessa che capiscano,
mi interessa che sentano. Dalla punta della lingua fino alle vene, perchè alfabeti
sepolti sanno ancora far scendere desideri dalle stelle. Nulla è per caso: «Dē – ve-
nir giù – sidĕris – stella», ripeto ogni volta che sento qualcuno che si allontana e si
perde avvilito.
Non sono segnali, reazioni, formicolii da sputacchiare fuori in fretta, le parole
sono intrecci irrevocabili, tamburi da percuotere, evocano, suonano, tracciano
strade.
Alle volte però sono stanca e arriva come una frenesia strana, una sorta di shock
anafilattico, mi prende la fretta di passare oltre, andare, andare. Mi prende la vo-
glia del sole e di cose fosforescenti che non hanno passati da rintracciare, di maio-
nese, di riempirmi la bocca di gomme da masticare. Mi viene da sbattergli contro
le radici, i suffissi, gli affissi, le crasi e imbrattarmi le mani di marmellata…
Altre volte sono vicina, sospetto tra quegli occhi agitati un lampo che mi somiglia,
un fuggitivo raccogliere. Qualcuno ogni tanto leva l’ancora e infila il mare, lo
aspetta un’infinita lotta. La stessa sete, lo stupore, il panico di sapere. E lì ho vinto,
ci sarà un altro aum che spiegherà il mondo. Mi fermo, mi basta così. Appoggio
di nuovo gli occhi su una labiale, sui suoni lunghi, su una sillaba che tintinna, mi
viene una ridarella comica, non sto nella pelle. Ce l’ho fatta, Firenze finalmente è
mia!

A Firenze quando piove succede che le foglie si impastano. E il fiume s’ingrossa.


E il tempo si mischia perfettamente agli imperativi e alle cioccolate calde. Tengo

121
sempre la scrivania davanti alla finestra, anche lì al campus lo facevo. Ma adesso
ho una ruga e una stanza tutta per me. Adesso apro la finestra quando piove,
adesso tra i corpora e Calvino e con le bacchettine di incenso che spengo di corsa al
primo odore di pioggia prima che piova, so raddrizzarmi le spalle che ho creduto
piegate senza rimedio.
Adesso è un’acquerugiola stanca, un salmodiare atono che non spande paure,
adesso non sono io quel silenzio e non è lei il mio schiamazzo, il frusciare di sot-
tofondo. Non è le porte che sbattono, tonfi di dizionari che si chiudono esausti,
non è Degas appeso al muro. Adesso, Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, nessun
rumore le assomiglia ormai. Adesso che porto anelli alle dita e i capelli biondi,
adesso so spiegare i batticuori, le nuvole, il vento dell’est. E distinguo un pioppo
da un faggio, una peonia da un ranuncolo. Adesso che il mio mare è giallo di
spighe di grano mature, ho le mani pulite di un amore sereno, che piega la testa
di sera per una carezza e che con ossa pesanti e robuste stufa verdure e pazienza,
riscalda di polvere e di argilla.
Adesso vivo. Di fonemi e grammatiche. Dei polsi di Francesca e del sorriso largo,
dell’odore di sapone e latte, di un fiato accennato, sfiorato appena e una penna tra
i suoi capelli, di ricordi, ricordo, circondata di memoria, solo la tenerezza di non
sentirmi intera e non saperlo. Solo di una perduta carezza.
Adesso vivo. In campagna con una donna androgina e seria che si occupa dei no-
stri animali e scrive poesie sugli uccelli. Io la prendo in giro, le dico che questa è
invidia del pene, lei se la prende un po’ e sbuffa sempre le stesse cose: «mi incanta
lo sguardo rapace, volitivo e intuitivo di questi animali.» Ogni volta mi dice così
e ogni volta io penso a Francesca, lo sguardo rapace, volitivo e intuitivo, anche se
lei non esiste.

122
Ettore Malacarne
Un ricordo di me

Sono un bambino e piango. Il pianto è così improvviso e disperato che la madre


del mio amico di giochi si affaccia al balcone di casa e poi scende, per verificare
che non mi sia capitato qualcosa di brutto. Domanda a suo figlio cos’è successo
e questo le risponde che non sa. Si avvicina a me che resto seduto al bordo della
strada chiara per la sabbia di tufo. Mi chiede cos’ho e non riesco a risponderle per
i singulti che mi opprimono la gola.
Mia madre è a raccogliere pomodori in una campagna non lontana, mio padre in
Germania. Io piango sul ciglio di una strada di quartiere, vicino muri vecchi di
secoli, ricoperti da intonaci istoriati con licheni color ocra, muffe scure, crepe e
graffi.
Guardo attraverso la lente delle lacrime la luce abbagliante e la disperazione non
ha consolazione.
La madre del mio amico domanda ancora se non ho per caso sbattuto contro qual-
cosa, o una serpe mi ha morso. Alzo le braccia di bimbo verso di lei e poi le lascio
ricadere, mi piego a terra di lato con la fronte nell’erba secca e la sabbia mi si
attacca alla faccia. La donna si spaventa e si rivolge ad un’altra signora che si è
affacciata alla finestra di una casa che dà sulla strada. Si domandano se non sia il
caso di chiamare un dottore, o mandare qualcuno ad avvisare mia madre.
Arrivano altre donne. Anche un uomo che mi guarda restando a distanza, pensa
che sono cose da ragazzini e conclude che il mio amico mi avrà dato un pugno o
una botta e tra qualche minuto mi passerà, ma il mio amico nega, lui non mi ha
toccato, non mi ha spinto né colpito. Allora cosa mi è successo gli domandano?
Lui ripete che non sa.
Una ragazza mi solleva da terra e mi prende in braccio, mi bacia le guance e la
fronte, mi pettina i capelli con le dita e mi dice di calmarmi. Io l’abbraccio, mi ap-
poggio alla sua spalla e al suo seno adolescente. Mi culla con colpetti delle braccia,
e ripete: «Su. Su.»

123
La madre del mio amico, preoccupata che si scopra alla fine che suo figlio mi ha
fatto del male, insiste per sapere cosa stavamo facendo quando mi sono messo a
piangere e lui le risponde che stavamo giocando. A cosa giocavamo vuole sape-
re. Giocavamo a fare una fortezza con la terra e gli stecchini secchi che avevamo
raccolto sotto un albero di fico. Le fa vedere dove sono le torri, i ponti, le case, le
strade, il palazzo del re, della nostra città invincibile cinta da una tripla cornice di
mura.
La donna conclude che devo essere un bambino strano a piangere a quel modo,
per una ragione che non c’è. Tutta quella disperazione che non trova fine sarà forse
per mio padre che è andato via, o mia madre che mi ha lasciato solo per lavorare.
La ragazza non riesce più a reggermi in braccio e mi rimette giù ma mi tiene la
mano, si china e cerca di guardarmi negli occhi, che mi si sono gonfiati perché li
ho sfregati con le mani sporche di terra ed ancora li frego e piango. «Che c’è?» mi
domanda. «Che succede?»
La madre del mio amico riesce a sapere dal figlio che, mentre giocavamo, era arri-
vata una ragazzina a raccontarci che vicino alla fontana c’era un uomo che diceva
alla gente di pentirsi perché tutti saremmo morti. Nessuno sarebbe sopravvissuto,
era solo questione di tempo. Ogni cosa sarebbe sparita e del paese sarebbe rimasta
solo sabbia sulla sabbia. Io mi ero messo in silenzio senza più la gioia di costruire
con le forme di fango, avevo poi cominciato a piangere e non la finivo ancora.
Sentito questo qualche donna dice che sono cose da non credere che un bambino
così piccolo si faccia impressionare da un discorso come quello. Un bambino così
piccolo che cosa può capire della morte?
Io non ho più lacrime da versare ma continuo a singhiozzare e non riesco a dire le
frasi che penso. Vorrei pregare quelle donne di avvisare mia madre in campagna
che tra un po’ saremo tutti morti e di avvisare pure mio padre in Germania perché
io non so come fare. Saremo morti, soli e lontani uno dall’altro. Poi arriva mia ma-
dre sconvolta, di corsa, con la sua bicicletta dalla campagna, qualcuno ha avvisato
il padrone della terra che mi è successo qualcosa e che sto male. La ragazza che mi
tiene per mano mi dice che adesso passa tutto e mi porta verso di lei, che vedendo-
mi camminare e senza ferite si calma, e ancora di più quando la ragazza le dice che
ho avuto solo paura per un racconto che ho sentito.
Mia madre mi prende in braccio. Il suo vestito è sudato e con la faccia calda e umi-
da di lacrime mi bacia più volte sulla fronte e la testa dicendomi che tutto è passa-
to. Adesso mi escono le parole, anche se continuo a piangere, le dico che saremo
tutti morti e che un giorno non ci sarà più niente, sarà tutto scomparso. Mia madre
mi risponde che non è vero. Da dove li prendo certi pensieri?
Andremo a casa e mi darà fichi secchi, mandorle e pane, per merenda. Non devo
avere paura perché noi non moriremo.

124
[Gruppo Opìfice]

Il Gruppo Opìfice (Cagliari) nasce nel 2002 con l’obiettivo di coniugare pensiero
e azione nella pratica metapolitica. L’attività dei 6 opificisti (Simone Olla, Simone
Belfiori, Giovanni Curreli, Fabrizio Bolognesi, Alberto Carlo Dorsale, Joaquime
Oréz de La Piquerra) attraversa la filosofia e l’arte in ogni sua forma.
(Purtroppo non esiste un aneddoto leggendario sulla nascita del Gruppo Opìfice,
ma possiamo inventarlo. Il 24 Dicembre 2002 Joaquime Orez de la Piquerra sta
girando per la città alla ricerca degli ultimi regali di Natale; colto da disperazione
per non aver trovato gli oggetti adatti a soddisfare la sua brama consumistica, ha
una crisi mistica che lo porta a cominciare la sua personalissima rivolta contro la
società moderna. Tornando a casa, infatti, non oblitera il biglietto dell’autobus e
nota un giovane (Simone Olla) che come lui non ha timbrato; basta uno sguardo
e nasce l’Opìfice del biglietto - teatro senza spettacolo fino al capolinea. Alle fer-
mate successive salgono sull’autobus Simone Belfiori, Fabrizio Bolognesi, Gio-
vanni Curreli e Carlo Alberto Dorsale che, loro malgrado, si ritrovano coinvolti
in quest’atto di disobbedienza. Il toupé dell’obliteratrice in dosso a Joaquime farà
il resto.)
I componenti del Gruppo Opìfice hanno partecipato a vario titolo a numero-
se conferenze sui temi più diversi (Sessantotto, Fecondazione assistita, Diritti
dell’Uomo, Indipendentismo irlandese, Localismo, Decentramento, Americani-
smo, Destra/Sinistra).
Il portale di metapolitica opifice.it è in rete dal 2004 e da subito si impreziosisce
della collaborazione del filosofo francese Alain de Benoist e della casa editrice
Arianna di Bologna; l’instancabile attività on line si divide fra letteratura e musi-
ca, filosofia e cinema. Nel 2006 inizia l’avventura radiofonica con Filtro Letterario,
programma scritto e musicato dal Gruppo Opìfice per Radio Alzo Zero, mentre
nel 2007-08 l’avventura prosegue con La gabbia del disonore, programma dissa-
crante che non risparmia chiunque passi per i pensieri degli opificisti. Nel 2007
esce Tutti esplosi (Giulio Perrone editore), antologia di racconti con prefazione di
Massimo Carlotto; l’antologia dà il via ad un tour di presentazioni in varie città
dell’Italia e della Sardegna. Nel 2008, in collaborazione con l’Arterìa di Bologna,
il Gruppo Opìfice cura due rassegne letterarie: Salotto Post Litteram [segni in
forme diverse] e Rassegna Minima [rassegna letteraria di soli autori Minimum
Fax]. È del 2009 la prima edizione di Passaggi per il bosco, festival di lettere in
musiche di periferie.

127
[racconti di periferie :: autori e indice]

Dario Falconi | Porco odio | pag. 11


Nasce a Roma. Laureato in lettere moderne.
Professore, drammaturgo, apprendista scrittore.
Almeno questo dicono di lui. Il tutto è accaduto (se è accaduto) a sua insaputa.
Un gran numero di racconti compaiono indisturbati su antologie e riviste. Utopsia
(Di Salvo editore, 2008) è stata la sua prima fatica letteraria completa. La seconda
fatica letteraria completa è un romanzo e ha per titolo Patagonìa (Prospettiva edi-
trice - BrainGnu, 2010).

Marco Mazzucchelli | La mattina prima di andare a lavorare | pag. 17


Ovvero la nascita in provincia di Varese, una laurea in urbanistica al Politecnico di
Milano, un lavoro come architetto, la lontana collaborazione con la webzine “Mo-
vimenta”, la pubblicazione della raccolta di racconti Heartjob, l’apparizione sulla
rivista “Prospektiva” n°47, un romanzo cui manca poco per essere completato e,
infine, questo racconto.

Marco Visinoni | Paradise now | pag. 23


È nato a Iseo nel 1981. Il suo primo romanzo ha per titolo Macabre danze di sago-
me bianche (Miraviglia, 2007); nel 2009 è seguita la raccolta di racconti Apocalypse
Wow - Nove ballate dell’ultim’ora, selezionata da Unibook.com per la Fiera del libro
di Torino 2009.
Il suo sito internet è: marcovisinoni.it

Simone Rossi |Abbandono Oblio Deserto | pag. 27


Laureato in Semiotica a Bologna, è uno scrittore a cui piace suonare. Il suo primo
libro si chiama La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Il suo secondo libro si chia-
ma sbriciolu(na)glio e gliel’ha pubblicato suo cugino. Scrive su “Finzioni” fin dal
numero zero. Tuffa i biscotti nell’acqua.
Ha un sito, come tutti: simonerossi.tumblr.com

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Silvia Ancordi | Gli undici giganti | pag. 33
È nata a Lovere nel 1975. Ama scrivere di tematiche spirituali, extrasensoriali e
misteriche. Nonostante scriva da anni, solo da pochi mesi si muove nel mondo
delle pubblicazioni. Gli undici giganti è il secondo racconto pubblicato dopo Astra-
le terza a sinistra comparso nell’antologia Auroralia (Zona Editore, 2009).
Il suo sito internet è: nirbhiti.wordpress.com

Gianfranco Franchi | αλήθεια | pag. 39


“Lankelot” (Trieste, 1978), scrittore e scout editoriale, sanguemisto giuliano-ro-
mano. Laureato in Lettere Moderne a Roma III nel 2002. Ha pubblicato narrativa:
Disorder (Il Foglio Letterario, 2006), Pagano (Il Foglio Letterario, 2007), Monteverde
(Castelvecchi, 2009), poesia: L’inadempienza (Il Foglio Letterario, 2008) e saggistica:
Radiohead. A Kid. Testi commentati (Arcana, 2009). Ha curato la plaquette Lettere
alle tre amiche di Scipio Slataper (Alet, 2007) e l’audiolibro L’altro viaggio in Italia.
Dal Cinquecento al Duemila (Il Narratore, 2009). Come consulente, ha lavorato per
Castelvecchi, Alet, Arcana. Collabora con Radio Capodistria, Turismo Culturale e
il Secolo d’Italia. Ha collaborato con “Fahrenheit” di Radio 3.

Fabio Medda | La parte del manico | pag. 43


È nato a Cagliari nel 1964. Laureato in Giurisprudenza, è funzionario della Regio-
ne Sardegna. Ha collaborato con “L’Unione Sarda” e con il “Roxy Web” di Red
Ronnie. Ha pubblicato Il dio dell’orizzonte (Cagliari, 1996) e Virato seppia (Cagliari,
2000). Un suo racconto, Edo, è apparso nella raccolta di racconti Tutti esplosi – Le
trame di Opìfice (Giulio Perrone editore, 2007).
Il suo sito internet è: adagioquasiandante.blogspot.com

Angelo Zabaglio a.k.a. Andrea Coffami | Pianterei | pag. 49


Sceneggiatore e giullare di corte, ex-rapper ed ex-voto, poeta e performer, si esi-
bisce da oltre dieci anni in reading letterari e slam poetry miscelando classicismo
a futurismo, comicità a riflessione. Collabora attivamente con il collettivo romano
Scrittori precari e con quello milanese Folli tra fogli. In passato ha seguito con
interesse il collettivo pontino Anonima Scrittori.
Ha pubblicato la raccolta di racconti Lavorare stronca (Tespi, 2008) e la raccolta
di poesie Non tutti i dubbi sono di plastica (Arcipelago Edizioni, 2007), il CD Pene
(Nicola Pesce Editore, 2007) con le musiche di Marco Russo. Con Vertigo ha com-
posto i CD Maniscalco (2008) e Nonòflò (2009) entrambi scaricabili gratuitamente.
Di prossima uscita il libello umoristico Sovvertire il cinema (18:30 Edizioni).
Il suo sito internet è: write-soon.com/blogatuasorella

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Erwin de Greef | La mela caramellata | pag. 53
Giramondo per definizione e autentico bastardo mezzo sangue olandese, è nato
a Palermo nel 1968. Presente in diverse antologie, ha pubblicato la raccolta di
racconti Ritmi urbani (Gaefra editore, 1999) e i romanzi brevi Dio c’è e bacia benissi-
mo (Coniglio editore, 2006) e Per il resto chiedete a Pennac (Coniglio editore, 2008).
Laureato in Lingue e letterature straniere con più specializzazioni e un master in
editoria, da anni collabora con recensioni di letteratura e saggi brevi con numerosi
periodici e riviste. In editoria si è fatto le ossa lavorando a vario titolo con Gaefra
Editore, peQuod Edizioni e Giunti Editore, attualmente è editor e correttore di
bozze libero professionista.

Gianluca Morozzi | Matrioske | pag. 59


È nato a Bologna nel 1971. Ha pubblicato i romanzi Despero, Luglio, agosto settembre
nero, Dieci cose che ho fatto ma che non posso credere di aver fatto, però le ho fatte, Acce-
cati dalla luce, Blackout, L’era del porco, Le avventure di zio Savoldi, L’abisso, Colui che
gli dei vogliono distruggere, Cicatrici (in uscita), i saggi L’Emilia o la dura legge della
musica, Il rosso e il blu, Nato per rincorrere (in uscita), le graphic novel Pandemonio e
Il vangelo del coyote e la serie a fumetti in più volumi FactorY.

Gianluca Liguori | Tempo di passaggio | pag. 65


Nasce a Battipaglia nel 1982 e nel 2010 smette di bere perché il medico gli ha detto
che se no a 30 anni non ci arriva. A 22 anni scrive il suo primo romanzo, Dio è di-
stratto (Nicola Pesce editore, 2007). Nel 2008 pubblica Credo in un solo io (Tespi edi-
tore) una raccolta di testi giovanili, o meglio sbrodolate adolescenziali, spacciati
per poesie (tipo quelli di Vasco Rossi su Satisfiction, per intenderci), e una nuova
edizione di Dio è distratto con postfazione di Vincenzo Sparagna. Partecipa alle
due antologie di Scrittori Sommersi ed un suo racconto lungo apre E il cagnolino
rise (Tespi, 2009), omaggio a John Fante. Scriverà almeno un romanzo importante,
ma finora non ha scritto ancora niente all’altezza delle sue aspettative.
È fondatore, insieme a Simone Ghelli, del collettivo Scrittori precari, il cui sito
internet è: scrittoriprecari.wordpress.com

Tommaso Chimenti | La panchina | pag. 69


È nel mezzo del cammin di nostra vita. Ogni giorno si scorge un pelo bianco in più
nella barba. Finora ha deciso di tagliarli. È giornalista. Ha un maglioncino nuovo
appena comprato ed una giacca da smoking di velluto liscio verde acqua marina
della quale va orgoglioso. Fa il critico teatrale. Grafomane a strati, a tratti, a strap-
pi. Essere o fare è sempre stato il suo dilemma, come l’asino che, nell’incertezza
tra l’avena e il fieno, morì di fame.

131
Cristina Serci |L’ombra del tempo | pag. 75
Vive a Cagliari dove ha studiato Medicina e Chirurgia, naturopatia, omeopatia e
biopsicologia. Scrittrice e pittrice, ha vinto numerosi premi regionali, nazionali ed
internazionali per la pittura, la poesia e la narrativa. Ha pubblicato i romanzi Ga-
loppo con concerto di Brahms (Soter, 1998), Cinzia vuol mangiare la luna (Cocco, 2000),
Il posto vuoto di Alma (La Riflessione, 2004). Con la silloge poetica Le jacarande, ha
vinto il primo premio al concorso “Città di Cagliari”.

Barbara Gozzi | Vattene | pag. 79


Nasce a Modena nel 1978 ma vive ormai da anni nel bolognese. Editor, scrittrice,
collaboratrice di testate on line, cura progetti sociali e culturali. Attorno al corpo di
Eluana Englaro, dal 2010, è anche performance-rappresentazione. Alcune sue sto-
rie sono finite su carta. Altre, chissà. Nella rubrica (In)ter(per)culturando che cura
su AgoraVox vira tra storie, voci, angolazioni, sentire tra libri e società.

Antonio Tirelli |periferie illustrate | da pag. 5


Nasce a Napoli nel 1979. Laureato in scienze della comunicazione, vive a Bologna
lavorando in una libreria ed è fra i soci fondatori di Casa Lettrice Malicuvata. La
prima pubblicazione in cui appaiono i suoi disegni è l’antologia a fumetti Sherwo-
od Comix. Immagini che producono azioni (Nicola Pesce editore, 2009). Scrive recen-
sioni e articoli inerenti alla letteratura.
Le sue elucubrazioni su malicuvata.it e opifice.it

132
[altri racconti di periferie :: autori e indice]

Alessandro Romeo | Quanta scena per niente | pag. 85


Nasce a Venezia il 26 luglio 1985. Nel 2007, insieme a un gruppo di amici, ha fon-
dato “inutile. opuscolo letterario” (rivistainutile.it). Insieme a un altro gruppo di
amici ha organizzato Wimble.doc (wimbledoc.com), il primo torneo di racconti on
line. Ha vissuto a Mestre per vent’anni, a Parigi per un anno. Da due anni vive e
studia a Torino.

Ugo Coppari | In fondo alla valle | pag. 89


È nato a Jesi nel 1982. Nel 2005 si laurea in Comunicazione Internazionale presso
l’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi d’indagine sul fenomeno Ad-
busters e sulla strategia del culture jamming/détournement. Nel 2006 entra a far
parte del Comitato Artistico P-gruppe, con cui tuttora collabora. Presso Morlac-
chi Editore sono usciti Bim bum bam! (2006), Nove anoressiche (2007), Limbo mobile
(2009). Vive e lavora a Perugia.

Chìo Dùpia | Terapia | pag. 95


È nato nel 1989, di pomeriggio.
Ha capelli rossi ed occhi blu, pantaloni corti e uno strappo proprio lì. Amici nel
quartiere non ne ha, non saprebbe che farsene. Scrive, dorme e piglia pesci.

Gianni Usai | La legge dei grandi numeri | pag.101


È nato trentasei anni fa a Sinnai, in provincia di Cagliari, luogo dove attualmente
vive e lavora. Scrive per riempire gli spazi, per spendere energie, per allenare il
cervello e gli occhi a vedere e riconoscere ciò che spesso sfugge. Suoi racconti
sono stati pubblicati in rete su Frenulo a mano, Catrame, Opìfice, Malicuvata,
Isola Nera; in versione cartacea sul Giornale di Sardegna e sulla raccolta periodi-
ca Toilet. Ha scritto una raccolta di racconti intitolata Imperfetti nati e il romanzo
Controvento per noia, opere tuttora in cerca di editore. Attualmente sta lavorando
ad un nuovo romanzo.

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Aventino Loi | Lisa ha gli occhi viola | pag. 107
Poliedrico cinquantenne, alla voce professione potrebbe scrivere bancario o scrit-
tore. Ha infatti pubblicato articoli su riviste di organizzazione e psicologia del
lavoro oltre a poesie e racconti su riviste e antologie. Un suo racconto è presen-
te nella raccolta curata dal Gruppo Opìfice, Tutti esplosi (Giulio Perrone editore,
2007). Strettamente correlata al suo lavoro in banca la sua attività di formazione
degli adulti; tiene corsi di public speaking e comunicazine efficace. Si evince quin-
di la natura curiosa e ricca di sfaccettature dell’autore di “Lisa ha gli occhi viola”.

Elena Marinelli | Caro Osvaldo | pag. 113


Quando scrive è Osvaldo. O Teresa, dipende. Quando non scrive sta su internet
per lavoro. Quando non sta su internet per lavoro sta su internet per spasso. Poi
spegne il computer e legge un sacco di libri e va al cinema più che può e ascolta
la musica, ma quello anche davanti al computer. Strimpella col basso in casa sua
e suonerebbe il contrabbasso, ma il contrabbasso non riesce ad abbracciarlo (il
computer sì). Fa delle gran ciambelle ed è piuttosto brava a leggere ad alta voce,
ma non lo ammetterà mai (è maniaca perfezionista). In generale, vorrebbe essere
il quinto dei Radiohead (cit.). O degli Atoms for Peace, anche.
Il suo sito internet è: novelz.tumblr.com

Luisanna Gerace | Francesca non esiste | pag. 119


Generalmente lavora in un ufficio, ma generalmente anche legge. Scrive quasi
mai. Nel 2007 un suo racconto è stato pubblicato nell’antologia Parole in corsa V.
Ha un scatola piena di matite. Non fuma più, si abbarbica e pensa al mar Jonio.
Ah già, vive a Bologna, e ha 32 anni.
Il suo sito internet è: josmarch.blogspot.com

Ettore Malacarne | Un ricordo di me | pag. 123


È nato nel 1966. Collabora con la rivista letteraria “Satisfiction”. Ha pubblicato
La conquista dello spazio e altri racconti (Eumeswil, 2008). Dipinge con uno pseu-
donimo e ha opere presenti in note collezioni private, musei e fondazioni. Risie-
de sull’Appennino modenese dove possiede un’azienda agricola in cui si coltiva
l’Utopia.

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[quasi fine]
stampato per Casa Lettrice Malicuvata
presso UniversalBook S.r.l. - Rende (CS)

[fine]

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