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Diritto costituzionale comparato delle minoranze linguistiche.

Capitolo 1.

La sfida del costituzionalismo è stata per secoli ed è tuttora la lotta per l’uguaglianza, intesa non più
semplicemente come posizione egalitaria di fronte alla legge, ma come necessità di riconoscere a categorie
omogenee discipline omogenee, a categorie disomogenee discipline ragionevolmente differenziate (Appunti
Costituzionale). In democrazia, il diritto è frutto della volontà della maggioranza, ma non sempre il
paradigma maggioritario è sempre in grado di spiegare e decidere tutto. Se, da un lato, democrazia significa
decisione della maggioranza, dall’altra, una democrazia in cui la maggioranza decidesse tutto non sarebbe
una democrazia. Il pluralismo delle società contemporanee, la moltiplicazione delle fonti, la loro interazione,
l’influenza del diritto internazionale, sovranazionale e straniero fanno sì che il principio per cui “la
maggioranza vince” non sia più adatto a rispondere a tutte le sfide dell’epoca contemporanea.
Esistono strumenti per bilanciare il principio maggioritario? Le regole poste a presidio e garanzia delle
minoranze sono deroghe al principio di uguaglianza o rappresentano un’attuazione giuridicamente obbligata?
Le minoranze sono gruppi in relazione ai quali gli strumenti del diritto della diversità si sono gradualmente
sviluppati. Dall’inizio dello stato moderno si sono posti problemi in riferimento a gruppi minoritari, che
tradizionalmente sono stati identificati in base ai criteri linguistici, religiosi, culturali. Trattasi tuttavia di
minoranze classiche che non esauriscono più il fenomeno del trattamento giuridico della diversità, esteso a
molti altri gruppi minoritari in base al genere, idee filosofiche, identificabili per stile di vita, età, abilità
fisiche ecc. Inoltre, non sempre un gruppo è identificabile in chiave minoritaria: pensiamo alle donne che
sono più degli uomini ma rappresentano una minoranza o gruppo che richiede regole differenziate in
alcuni settori della vita sociale. Il pluralismo della società moderna obbliga a guardare non più solo al
diritto delle minoranze, ma più in generale al diritto delle differenze, di cui il diritto delle minoranze
costituisce la parte quantitativamente e storicamente più importante.

Non esiste una definizione di minoranza che possa abbracciare tutti i significati e non esistono criteri
oggettivi di identificazione delle stessa, nonostante le apprezzabili indagini svolte dalla sociologia,
dalla scienza politica, dalla storia e dall’economia. Il diritto si limita a prendere atto dell’assenza di criteri
universalmente validi e si occupa non di cosa induca ad identificare le minoranze ma di come esse
sono identificate, degli strumenti che derivano da tale riconoscimento, dei limiti del loro
utilizzo, del bilanciamento tra diritti dei identificati come minoranze e quelli della maggioranza.
Perché non possiamo considerare una minoranza gli alpinisti, gli astronauti o i velisti, atteso che la loro
attività è disciplinata da norme specifiche che li identificano come gruppo, attribuendo loro determinate
posizioni giuridiche particolari. Mancano, in questi casi, la rilevanza pubblica, la coscienza e l’interesse
dello stesso gruppo all’identificazione come minoranza. L’estensione del diritto delle differenze a nuovi
gruppi è sempre un processo lungo e complesso che richiede non solo un’evoluzione normativa ma anche un
mutamento nella considerazione sociale. Le tappe principali: a) dalla repressione alla mera non
discriminazione, b) diritto della diversità mediante misure positive.

Assai numerosi sono stati i tentativi di definire giuridicamente una minoranza: ricordiamo, ad esempio,
la definizione di Francesco Capotorti, secondo il quale una minoranza è un gruppo numericamente inferiore
al resto della popolazione di uno Stato, in posizione non dominante, i cui membri, essendo di nazionalità
dello Stato, possiedono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche che differiscono da quelle del
resto della popolazione, e mostrano un senso di solidarietà diretta a preservare la loro cultura, tradizioni,
religione o lingua. Questa definizione è stata ripresa anche dalle Nazioni Unite e dall’Assemblea
parlamentare del Consiglio d’Europa. Tale definizione appare tuttavia accettabile soltanto per le minoranze
“classiche”, poiché non tiene conto della presenza di nuovi criteri (genere, stili di vita), della perdita della
potestà esclusiva dello Stato in materia, nonché della condizione relazionale di minoranza che può non avere
nulla a che vedere con i numeri. Ad esempio, nel Sudafrica dell’apartheid i neri erano numericamente
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maggioritari, ma non per questo li si poteva considerare maggioranza; lo stesso vale per le donne in
determinati settori come la vita politica. La cittadinanza non può nemmeno considerarsi un elemento
indispensabile per l’attribuzione dello status di minoranza in un determinato Stato (Commissione 2006).
Le definizioni formulate dal diritto internazionale non possiedono alcuna forza vincolante per gli Stati, ma si
pongono come punti di riferimento utili per l’orientamento e per la riflessione. Il problema definitorio
diventa più pressante quando si tratti di definizioni normative date dagli Stati nelle rispettive legislazioni sul
punto: pensiamo ad alcuni ordinamenti che hanno recentemente adottato legislazioni che definiscono le
minoranze etnico-nazionali nel rispettivo ordinamento, con la conseguenza di identificare in modo
prescrittivo i gruppi ammessi alla tutela

La legge ungherese riconosce come minoranza tutti i gruppi etnici che hanno vissuto nel territorio da almeno un secolo, che
rappresentano numericamente una minoranza all’interno della popolazione dello Stato, ma anche cittadini ungheresi che hanno
lingua, cultura e tradizioni differenti, manifestando una coscienza di appartenervi rivolta alla conservazione di tutto ciò.
La legge esclude profughi, immigrati e residenti stranieri o apolidi che non rientrano nell’ambito di applicazione di tale definizione.
La legge austriaca definisce gruppi etnici (nazionali) gruppi di cittadini austriaci di lingua non tedesca e di nazionalità propria, nati o
residenti nel territorio federale. La legge quadro italiano per la tutela delle minoranze linguistiche storiche contiene un elenco di
minoranze riconosciute, da cui sono tuttavia esclusi i Sinti e i Rom.

Le ormai numerose definizioni del concetto di minoranza contengono tutti riferimenti sia a criteri oggettivi
di appartenenza (residenza, cittadinanza, inferiorità numerica, posizione non-dominante, lingua, religione,
cultura ecc.) sia a criteri soggettivi (volontà di conservare un’identità e i tratti distintivi, solidarietà di
gruppo, volontà di appartenere ad un gruppo). E’ dunque necessario che tale appartenenza sia riconosciuta e
voluta da chi intende appartenere al gruppo o già vi appartiene ed, infine, dall’ordinamento giuridico.
Tornano all’esempio degli alpinisti, astronauti e velisti, mancano sia l’elemento dell’identificazione
che quello oggettivo. All’auto-identificazione corrisponde una etero-identificazione da parte del gruppo.

Minoranze autoctone e nuove minoranze: la mancata coincidenza tra criteri soggettivi e oggettivi è una
delle cause principali della distinzione normativa che l’ordinamento compie tra minoranze autoctone e nuove
minoranze. Le prime (nazionali, linguistiche, religiose ecc.) chiedono di poter gestire e determinare i loro
affari politici, culturali e socio-culturali, e di rappresentare le loro particolari esigenze nei confronti della
società complessiva, le seconde (gruppi di immigrati) aspirano invece all’integrazione economica e sociale
nella società ospitante, pur senza voler rinunciare a determinate caratteristiche culturali. Mentre le nuove
minoranze richiedono tendenzialmente delle misure volte a facilitare la loro integrazione nella società e a
diventare uguali, le minoranze autoctone chiedono di poter decidere il loro destino autonomamente e
separatamente dalla società maggioritaria, rivendicando i diritti e le risorse necessari per la realizzazione
di questa, mantenendo la loro diversità. Altro fattore di differenziazione tra vecchie e nuove minoranze è il
criterio di collegamento per l’azionabilità di diritti speciali: la cittadinanza dello stato di insediamento è
ancor oggi il criterio oggettivo determinante ai fini della definizione di minoranze autoctone distinte per
questo dalle c.d. nuove minoranze, ossia dagli immigrati.

INTEGRAZIONE: Poniamo una prima distinzione tra Stato multinazionale e Stato polietnico: il primo (Belgio e Svizzera)
presuppone che in quel dato Stato in tempi remoti si sia comunque raggiunta una stabile fusione tra culture diverse; il secondo nasce
a seguito di una progressiva crescita dei flussi migratori, non realizzando tuttavia una fusione tra diverse culture.
Nel tipo multinazionale, la diversità culturale trae origine dall’assorbimento, (a seguito di processi di colonizzazione, conquista o
confederazione), all’interno di un unico Stato, di culture territorialmente concentrate, che in precedenza si governavano da sole.
Queste culture assorbite costituiscono minoranze nazionali autoctone, che intendono rimanere società distinte accanto alla cultura
maggioritaria e richiedono forme di autonomia, di autogoverno, propri tribunali, proprie scuole, un proprio esercito.
Il Belgio e la Svizzera possono considerarsi Stati multinazionali, avendo riguardo alla pluralità di culture e alla compresenza di una
comunità fiamminga e di una comunità vallona. Nel tipo polietnico, gli immigrati si raccolgono in associazione nel nuovo Stato e
certamente desiderano integrarsi nella società dominante ed esservi accettati quali membri a pieno titolo, sollecitando tuttavia un
maggior riconoscimento della loro identità etnica. Beninteso, scopo di tali gruppi non è tanto dar vita ad una nazione separata e
autonoma, bensì modificare le istituzioni e le leggi della società ospitante al fine di renderle più indulgenti nei confronti delle loro
differenze culturali. I gruppi etnici di immigrati aspirano così alla conservazione di alcune loro caratteristiche culturali con il previo
adattamento delle istituzioni e delle leggi dello Stato di accoglienza, rendendo più agevole la loro partecipazione alla vita pubblica.
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È il caso della Francia e della Germania. Naturalmente uno Stato può essere sia polietnico che multinazionale: si pensi al Canada.
La distinzione tra società multinazionale e polietnica è fondamentale ad inquadrare correttamente due peculiari fenomeni di
pluralismo culturale, aventi origini e caratteristiche diverse tra loro, ponendo inevitabilmente una serie di problematiche altrettanto
diverse nel diritto penale. Nei confronti delle minoranze nazionali autoctone, gli Stati multiculturali sono tendenzialmente più
propensi a concedere un trattamento anche notevolmente differenziato in virtù della loro diversità culturale, forse anche per una sorta
di latente senso di colpa rispetto a queste minoranze. Nei confronti invece dei gruppi etnici di immigrati, gli Stati multiculturali di
tipo polietnico sono disposti a fare solo concessioni più modeste. Questo diverso atteggiamento degli Stati nei confronti delle
minoranze nazionali autoctone e dei gruppi etnici di immigrati non può non riverberarsi anche sul terreno del diritto penale.
Ad esempio, si è dato riconoscimento ufficiale in Canada, Nuove Zelanda e Australia agli ordinamenti consuetudinari di
tipo sanzionatorio-conciliativo diffusi presso le locali minoranze nazionali autoctone.

Minoranze e popoli indigeni: trattasi di popoli da tempo immemorabile stanziati in determinati territori,
posti in condizioni di minorità (se non addirittura sterminati) in seguito all’espansione di altri popoli che
hanno occupato i loro territori: pensiamo alle first nations americane e canadesi, ai popoli andini del
Sudamerica, agli aborigeni australiani, ai Sami del circolo polare artico. L’elemento distintivo più
caratteristico e problematico degli indigeni l’incompatibilità del loro stile di vita con quello della
maggioranza. Con l’occupazione delle terre da parte dei bianchi lo stile di vita dei popoli preesistenti è
risultato irrimediabilmente compromesso: in America, ad esempio, l’economia basata sulla caccia al bisonte
è divenuta impossibile da mantenere quando gli spazi si sono ridotti. Solo in tempi recenti si è diffusa la
consapevolezza della necessità di tutelare adeguatamente queste popolazioni attraverso strumenti specifici.
Punto di partenza è il necessario superamento della teoria della terra nullius che per secoli ha determinato
l’approccio delle popolazioni occupanti nei confronti dei popoli indigeni. Secondo questa teoria, la terra dei
nuovi continenti non era di proprietà delle popolazioni che vi abitavano, ma era terra di nessuno, potendo
essere dunque legittimamente occupata. Tale teoria risulta superata da una serie di pronunce
giurisprudenziali come quella della Corte Suprema australiana del 1992 (Mabo vs Queensland) che ha
riconosciuto che la sovranità della Corona su alcune isole dello Stato del Queensland, abitate da popolazioni
aborigeni, non possa prescindere dal riconoscimento di diritti sulla terra del popolo Meriam, basati su
tradizioni locali, avendo abitato quelle terre prima della conquista bianca. Il superamento della terra nullius
ha comportato la previsione di indennizzi e compensazioni, che in diverse parti del mondo vengono
progressivamente riconosciuti. Nel 2007 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato la
Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni che prevede un ampio catalogo di diritti individuali e collettivi
adatti specificamente alle esigenze di questi popoli, dal diritto alla propria cultura e identità all’istruzione,
dall’uso della lingua all’accesso al lavoro, incoraggiando relazioni cooperative tra gli Stati e i popoli
indigeni. La Dichiarazione non ha ottenuto però il consenso di alcuni Stati in cui sono insediati consistenti
gruppi indigeni.

Minoranze nazionali, etniche, linguistiche, religiose, di genere: una prima distinzione da tenere a mente è
quella tra popolo e minoranza. In base alla dogmatica tradizionale solo un popolo è titolare del diritto
all’autodeterminazione sotto il profilo del diritto internazionale e, dunque, legittimato alla formazione di un
proprio Stato (il popolo è infatti uno dei tre elementi costitutivi dello Stato accanto al territorio e al suo
effettivo controllo). Tutti gli altri gruppi rimangono principalmente esclusi da questo diritto, ma non
necessariamente da ogni forma di tutela. Il concetto di popolo nella prassi risulta assolutamente impreciso ed
opinabile. In chiave comparata la maggiore chiarezza sul punto è venuta dalla Corte Suprema canadese,
secondo la quale al popolo del Quebec non è applicabile il diritto all’autodeterminazione in senso classico,
perché questo vale solo per popoli colonizzati o oppressi.

Ammettendo la distinzione tra popolo e minoranza, restano da definire le diverse tipologie di minoranza.
La distinzione più ricorrente è quella tra minoranze nazionali ed etniche. Le prime hanno uno Stato
nazionale di riferimento, una madrepatria, mentre quelle etniche ne sono prive. Il gruppo di lingua tedesca
della provincia di Bolzano è una minoranza nazionale (austriaca in Italia), mentre i ladini non lo sono perché
non esiste uno Stato ladino. Estremamente delicato risulta il concetto di etnia: in tradizioni costituzionali

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fondate sulla concezione “etnica” del popolo (quella tedesca e centro-europea), l’etnia è un concetto
giuridicamente rilevante e va inteso come un minus rispetto alla razza e un quid pluris rispetto alla cultura.
Per contro, in tradizioni costituzionali fondate su una concezione civica del popolo, l’aggettivo etnico non ha
un significato giuridico: in Italia le minoranze non sono definite etniche. Assai più semplice è
l’identificazione delle minoranze in base a criteri oggettivi come la lingua, la religione, il genere, la cultura.
In definitiva, l’identificazione di una minoranza non può essere un’operazione prevedibile a priori, ma è il
frutto di un processo sociale che solo successivamente si trasfonde in norme giuridiche.

Capitolo 2.

Individuati i gruppi destinatari delle norme di tutela, resta il problema degli strumenti da utilizzare
in relazione al tipo di atteggiamento assunto da ciascun ordinamento nei confronti del principio di
uguaglianza. Gli ordinamenti che si basano sul paradigma dell’uguaglianza formale possono prevedere
regole differenziali, ma queste sono viste come eccezioni legittime alla regola generale che vuole il diritto
come disciplina indifferenziata da applicarsi alla generalità dei consociati. Per contro, gli ordinamenti che
ammettono in via di principio la soggettività giuridica dei gruppi e si fondano su una concezione
maggiormente collettivista della società tendono a vedere le regole differenziali per specifici gruppi come
uno strumento integrativo del principio di uguaglianza, volto a renderlo operativo nel concreto.
Nel primo caso le regole derogatorie non sono ammesso a meno che non risultino giustificate; nel secondo
caso sono ammesse in tanto in quanto risultino giustificate. Mentre fino a qualche decennio fa i diritti
delle minoranze erano generalmente considerate, nella prospettiva del legislatore, delle deroghe al principio
di uguaglianza formale, in tempi più recenti si tende a considerarli delle specificazioni di tale principio.
Gli strumenti giuridici per garantire la tutela delle diversità possono raggrupparsi in tre macrocategorie:
a) non discriminazione, b) diritti particolari, c) diritti all’autogoverno.

La non discriminazione è volta a garantire un trattamento uguale senza distinzioni, applicando


il principio di uguaglianza in senso formale. Tuttavia, il principio per cui “tutti sono uguali di fronte alla
legge” non sempre risulta sufficiente nei confronti di appartenenti a gruppi minoritari a causa della loro
posizione strutturalmente svantaggiata: ad esempio, garantire a tutti il diritto all’istruzione nella lingua dello
Stati non risolve il problema degli appartenenti alle minoranze linguistiche che riceveranno sì l’istruzione,
ma non nella propria madrelingua e, dunque, in condizioni diverse rispetto agli altri cittadini.
Si è soliti distinguere il divieto di discriminazione diretta, che porta all’esclusione di alcuni gruppi da certi
diritti (pensiamo al diritto di voto) dal divieto di discriminazione indiretta, che presuppone una norma uguale
per tutti i cui effetti impattano però in misura diversa sui diversi gruppi (pensiamo ai test linguistici previsti
per tutti, ma evidentemente volti a colpire determinati gruppi di popolazione). In definitiva, la non
discriminazione è essenzialmente uno strumento di uguaglianza formale, ma non è primariamente uno
strumento del diritto delle differenze.

Riconoscono diritti particolari quelle norme che valgono soltanto per alcuni e mirano a garantire un pieno
ed effettivo godimento dei diritti da parte di gruppi altrimenti strutturalmente discriminati. Da un lato,
abbiamo diritti di accesso a determinati servizi a parità di condizioni (pensiamo all’istruzione in
madrelingua, il diritto di usare la propria lingua nei confronti della pubblica amministrazione);
dall’altro, diritti riservati o preferenziali atti a superare ostacoli posti nella società (si pensi alle quote di
genere nelle liste elettorali); laddove questo porti all’attribuzione di maggiori diritti rispetto a quelli di cui
sono titolari i cittadini della popolazione di maggioranza, si parla di azioni positive. A mantenere l’equilibrio
tra il principio di uguaglianza e i diritti particolari interviene il principio di proporzionalità.

L’introduzione di quote per gruppi nella pubblica amministrazione in provincia di Bolzano è stata attuata in maniera graduale
attraverso l’inserimento di nuove persone assunte con il criterio della proporzionale linguistica in sostituzione dei funzionari che

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andava in pensione (applicazione del principio di proporzionalità). Diversamente, nel Paese basco, nella prima fase della c.d.
normalizzazione linguistica si sottoposero i funzionari già in servizio all’accertamento della conoscenza della lingua basca, e se
l’esame non veniva superato, il funzionario veniva sostituito (violazione del principio di proporzionalità).

Tra le altre azioni positive ricordiamo la distribuzione di fondi pubblici alle minoranze oppure l’impegno ad
insegnare nelle scuole pubbliche lo spirito di tolleranza e l’accettazione dell’altro. Il che dimostra che un
ulteriore elemento fondamentale di distinzione tra la semplice non discriminazione e i diritti particolari è
l’assenza di costi nel primo caso, e un intervento attivo di impatto economico nel secondo caso.
Si pensi alla differenza di costi tra un’amministrazione monolingue rispetto ad una plurilingue.

Una terza tipologia di strumenti differenziali è rappresentata dalle forme di autogoverno dei gruppi:
trattasi di una varietà di strumenti (dall’autonomia culturale a quella territoriale) che consente a determinati
gruppi di gestire autonomamente alcuni settori della vita organizzata di particolare interesse e rilevanza per il
mantenimento della propria differenza. Dalla semplice autorganizzazione attraverso comitati consultivi
si può giungere al riconoscimento un’autonomia territoriale molto sviluppate. Peculiarità di questi diritti è la
dimensione necessariamente collettiva e territoriale, atteso che i medesimi non sono attribuiti direttamente ai
singoli individui né a gruppi di persone, ma ad ambiti territoriali individuati in base a zone di insediamento
dei gruppi che si intendono tutelare. La modalità più diffusa è l’autonomia territoriale classica:
pensiamo al “federalismo etnico”, ossia ad un’organizzazione federale dello Stato basata su ambiti territoriali
quanto più possibile omogenei sotto il profilo etnico, linguistico, religioso (Belgio, Svizzera, Bosnia-
Erzegovina, Canada, Nigeria), o al “regionalismo differenziato” con alcuni territori dotati di maggiori
competenze rispetto ad altri all’interno dello stesso Stato, quasi sempre al fine di garantire ai gruppi
minoritari un maggiore autogoverno (le tre Regioni a statuto speciale nell’arco alpino in Italia, le nazionalità
storiche spagnole, Scozia, Galles e Irlanda del Nord nel Regno Unito). Oltre all’autonomia territoriale,
i diritti all’autogoverno si realizzano nei seguenti modi: a) autonomia personale (idea austro-marxista che
prevede forme di autogoverno a favore delle minoranze, specie se non compatte territorialmente e, dunque,
inadatte a raggiungere un’autonomia territoriale in alcuni ambiti di loro interesse (generalmente culturali).
Lo Stato si suddivide così in ambiti territoriali minori all’interno dei quali i singoli gruppi danno vita
ad istituzioni parallele rispetto a quelle territoriali classiche che gestiscono in proprio le materie loro
attribuite. Oggi l’esempio per eccellenza è quello ungherese, essendo prevista per le minoranze riconosciute
la possibilità di dar vita ad auto amministrazioni coincidenti con i livelli di governo (comunale, provinciale e
nazionale, vedi capitolo 7). Altre forme di diritti di autogoverno sono i c.d. comitati consultivi per le
minoranze, vale a dire organi generalmente dotati di poteri solamente consultivi e, dunque, meno incisivi
rispetto agli strumenti appena citati.

Si è ora in grado di tracciare una distinzione tra dimensione individuale e dimensione collettiva dei diritti in
questione. Gli ordinamenti più individualisti tendono a privilegiare i soli diritti individuali, non riconoscendo
i diritti attribuiti ai gruppi, mentre gli ordinamenti maggiormente pluralisti avranno un approccio più aperto
all’attribuzione di diritti a gruppi in quanto tali. Semplificando, la non discriminazione ha una portata
individuale, mentre i diritti di autogoverno hanno una portata collettiva. E i diritti particolari previsti dal
trattamento differenziato dei gruppi minoritari? Si ritiene che, in relazione ai diritti particolari, i confini tra le
due tipologie siano nella prassi assai sfumati. Sono rari infatti i diritti attribuiti soltanto a gruppi ed azionabili
solo da questi (è il caso di procedure come il “campanello d’allarme” previste in Belgio e in Bosnia, che
consentono alla maggioranza di un gruppo etnico-linguistico in Parlamento di sospendere l’approvazione di
una legge ritenuta minacciosa per gli interessi vitali del gruppo, o del ricorso diretto di costituzionalità per
gruppi linguistici prevista dallo statuto per il Trentino-Alto Adige). Accade inoltre che i diritti particolari
posti a tutela dei gruppi siano in realtà costruiti come diritti individuali, ossia esercitabili dai singoli individui
in quanto appartenenti al gruppo. Trattasi per lo più di diritti individuabili ad esercizio collettivo.

Capitolo 3.

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Esistono quattro fondamentali modelli ideologici che determinano l’atteggiamento complessivo
dell’ordinamento nei confronti delle differenze: a) ordinamenti repressivi nazionalisti; 2) ordinamenti liberali
agnostici; 3) ordinamenti promozionali; 4) ordinamenti multinazionali paritari.

Lo stato repressivo enfatizza ideologicamente l’unità dell’identità nazionale e l’omogeneità della


popolazione con la conseguente negazione ufficiale dell’esistenza di minoranze, accompagnata da politiche
funzionalmente repressive come la proibizione dell’uso delle lingue minoritarie nelle scuole e negli uffici
pubblici, ma anche in ambito privato, con la traduzione forzata di nomi, odonimi e toponimi. Nei casi più
estremi questo modello può condurre alla pulizia etnica e al genocidio di intere popolazioni.

Pensiamo all’opzione offerta nel 1939 ai cittadini di lingua tedesca nella provincia di Bolzano, i quali dovevano scegliere se restare
nella propria terra, abbandonando la propria lingua e cultura, italianizzando il proprio nome o acquisendo al cittadinanza del Reich
tedesco, abbandonando la propria dimora. Pensiamo alle pulizie etniche nei Balcani e in Ruanda negli anni ’90, o al caso del Tibet in
cui il continuo afflusso di popolazione cinese ha trasformato i tibetani in una minoranza nella loro terra. L’atteggiamento repressivo
può palesarsi anche in modo pacifico attraverso l’imposizione normativa di una verità, che non può essere contrastata: pensiamo alla
legislazione turca che punisce chi afferma che nel 1915 fu compiuto genocidio degli armeni.

Gli ordinamenti liberali si caratterizzano per l’attenzione esclusiva ai diritti individuali e per una
conseguente indifferenza alle istanze collettive di diversità. Sono previsti dunque espliciti divieti di ogni
forma di discriminazione sulla base di criteri tipicamente identificativi delle minoranze (lingue, religione,
razza, etnia ecc.). Questa categoria di ordinamenti non nega i diritti fondamentali individuali e si fonda sul
generalizzato riconoscimento del principio di uguaglianza in senso formale di tutti i cittadini, disconoscendo
lo strumentario volto alla garanzia in senso sostanziale. L’approccio statunitense alla differenza etnica si
basa su tre assunti di fondo: a) tutti devono essere inclusi nel concetto di nazione, b) non possono essere
create nuove nazioni all’interno di quella americana, c) permane il diritto di mantenere liberamente
le caratteristiche della propria identità nazionale. Ne consegue che i diritti particolari per il perseguimento
dell’uguaglianza sostanziale tra i gruppi sono visti con tendenziale sospetto e richiedono giustificazioni
particolarmente motivate. In Francia non era contemplato il riconoscimento di gruppi come soggetti
di diritto, fondandosi la democrazia solo ed esclusivamente sul dialogo diretto tra il cittadino e i
rappresentanti (senza gruppi intermedi). La cittadinanza è sempre stata vista come l’unico fattore di
collegamento con lo Stato francese, sicché il cittadino vedeva riconosciuti tutti i diritti, a differenza del non
cittadino. Per questa ragione, la Francia aveva sposato una politica aperta all’acquisizione della cittadinanza
da parte di stranieri. Attualmente le cose stanno rapidamente cambiando e l’ordinamento francese si è aperto
in diverse occasioni al diritto della diversità, introducendo ad esempio il principio di decentramento e
l’azione positiva per la rappresentanza femminile.

In occasione della ratifica del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, il governo francese ha avanzato espressa riserva
con riferimento all’art. 27, dichiarandolo non applicabile nel territorio della Repubblica, atteso che i principi costituzionali
fondamentali proibiscono qualunque distinzione tra i cittadini per motivi etnici, razziali, linguistici o religiosi (non esistono
minoranze in Francia). Il diritto francese, in nome dell’uguaglianza e del principio universalistico polverizza le minoranze in quanto
destinatarie non di diritti collettivamente attribuiti ma di diritti individuali riconosciuti a ciascuno dei suoi membri.

Se per gli ordinamenti liberali non esistono minoranze non possono esistere nemmeno le organizzazioni o i
partiti politici che le rappresentano. La negazione della rilevanza giuridica dei gruppi è tuttavia una finzione
dell’ordinamento poiché nella realtà sociale esistono gruppi, sicché si pone il problema di come trattare le
organizzazioni che liberamente intendono farsi promotrici della rappresentanza collettiva dei gruppi stessi,
in particolare i partiti politici. Gli ordinamenti riconducibili a questo modello prevedono norme che
proibiscono la creazione di partiti di questo tipo.

In Israele la Corte Suprema, in omaggio alla auto definizione dell’ordinamento quale Stato ebraico e democratico ha dapprima sciolto
un partito ebreo fondamentalista, poi ha disposto lo scioglimento di tutti i partiti che non accettavano l’esistenza del popolo ebraico e

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dello Stato di Israele. La Turchia ha subito alcune condanne dalla Corte di Strasburgo per lo scioglimento di partiti legati alla
minoranza curda, in quanto lo scioglimento era fondato su ragioni meramente ideologiche e contrastava con il principio della libera
formazione del consenso con metodo democratico. Come affermato dalla Corte, per proibire un partito non è sufficiente che questo
invochi l’autonomia per la popolazione curda nel quadro di uno stato federale: “Il fatto che questo programma politico sia
incompatibile con i principi dello Stato turco non significa che sia incompatibile con i principi di democrazie. L’essenza della
democrazia consiste nell’ammettere alla discussione e al dibattito diversi programmi politici, anche quelli che mettono in discussione
l’attuale organizzazione dello Stato”. La possibilità di scioglimento di partiti, movimenti e associazioni a base religiosa è ora previsto
in tutte le legislazioni antiterrorismo approvate dopo gli attentati del 2001 dagli Usa alla Germania, dal Regno Unito al Pakistan.

Gli ordinamenti promozionali sono caratterizzati dalla presenza dominante di un gruppo nazionale
(la maggioranza) e di uno o più gruppi minoritari. Mentre il modello liberale classico garantisce il diritto ad
essere uguali, quello promozionale riconosce il diritto ad essere diversi. Una prima modalità di esplicitazione
del principio promozionale è data dal riconoscimento espresso delle minoranze quali elementi costitutivi
dello Stato, ancorandone così la protezione alla forma di stato complessiva dell’ordinamento. La necessità di
un riconoscimento delle minoranze come elemento fondante dell’ordinamento è in qualche misura implicita
negli ordinamenti promozionali. Pertanto, laddove manchi un’espressa affermazione in tal senso da parte del
legislatore, è facile ricavare il principio in via interpretativa.

Ad esempio in Spagna si ritiene che la compenetrazione tra nazionalità storiche e minoranze come fattore strutturale dello Stato sia
espressa dall’art. 3 Cost. che, in riferimento alle lingue, definisce le lingue delle nazionalità storiche “le altre lingue spagnole” da cui
emerge la concezione della Spagna come nazione di nazioni.

Una seconda tecnica promozionale di carattere generale consiste nella previsione a livello centrale di alcune
regole che potrebbero far pensare al carattere multinazionale dell’ordinamento, salvo poi limitarne la portata
a fattori specifici o a determinate aree del territorio.

In alcune zone della Finlandia è tradizionalmente insediata una minoranza svedese, retaggio di molti secoli di appartenenza della
Finlandia al Regno di Svezia. Per questa eredità storica, la Costituzione finlandese prevede che le lingue ufficiali del Paese siano il
finlandese e lo svedese; il che non significa che lo Stato sia integralmente bilingue, atteso che il bilinguismo è azionabile solo in
quelle aree in cui la minoranza svedese rappresenti almeno l’8% della popolazione. Israele, come è noto, è nato come Stato degli
ebrei. Tuttavia esiste una copiosa minoranza di cittadini arabo-israeliani (di religione musulmana o cristiana ma non ebraica) e le
leggi statali sono trilingue (ebraico, arabo, inglese).

Terza importante modalità di promozione delle minoranze riconosciute nel quadro di uno stato nazionale è
l’azionabilità dei diritti in aree territorialmente determinate, legate a criteri numerici e all’attivazione delle
minoranze medesime. Non si tratta di un’autonomia territoriale con la previa identificazione di territori ai
quali viene concesso l’autogoverno, ma di forme di autonomia culturale con attivazione eventuale.

Nella Repubblica Ceca, la legge sulle regioni e sulle minoranze stabiliscono che nelle regioni in cui le minoranze costituiscono una
percentuale consistente della popolazione, possono essere istituiti organi di autogoverno per lo sviluppo della cultura e della lingua
delle minoranze.

Un ulteriore strumento di promozione è rappresentato dal riconoscimento del diritto dei gruppi minoritari
alla partecipazione effettiva alla vita pubblica attraverso l’istituzione di organi e procedure di raccordo tra
minoranza e istituzioni.

In Slovenia, l’art. 64 Cost. sancisce il diritto delle comunità italiana e ungherese a costituire associazioni per il mantenimento della
loro identità nazionale e per l’informazione e per l’editoria, il diritto di fondare organismi di autogoverno e il dovere dello stato
di decentralizzare le competenze di interesse per le minoranze e di finanziarne le attività. In Ungheria è stato inoltre istituito presso il
Parlamento un difensore civico (Ombusdam) per le minoranze con il potere di adire direttamente la Corte Costituzionale.

Da ultimo abbiamo la creazione di un sistema a pilastri che prevede percorsi separati e sostanzialmente
autogestiti per i diversi gruppi in settori quali l’istruzione o il regime personale. Da un lato, abbiamo il Millet
che è un antico sistema sviluppato nell’Impero ottomano per la coesistenza pacifica di gruppi religiosi
diversi. In base ad esso lo Stato si spoglia di alcune funzioni, attribuendole alle comunità minoritarie
(istruzione e pratica religiosa).
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Tale sistema lo ritroviamo ancor oggi in Israele laddove lo Stato non disciplina il matrimonio, che è un’attività totalmente affidata
alle comunità religiose (non esiste pertanto il matrimonio civile, sicché sarà necessario sposarsi civilmente in un altro Stato per poi
far riconoscere l’unione attraverso il diritto internazionale privato. Esistono quindi il matrimonio ebraico, quello musulmano, quello
cristiano ecc. Per alcuni versi tale sistema si avvicina ai modelli adottati dall’ordinamento multinazionale, in quanto istituzionalizza
in modo stabile i gruppi stessi, ma se ne differenzia strutturalmente in quanto l’istituzionalizzazione avviene solo per determinati e
limitati propositi.

Il quarto e ultimo modello astratto è quello riconducibile agli ordinamenti multinazionali (Svizzera,
Belgio, Bosnia-Erzegovina, Canada e forse Unione Europea) presso i quali ogni comunità nazionale è un
elemento costitutivo dello Stato. Il modello multinazionale è basato sull’uguaglianza formale tra gruppi,
ciascuno dei quali è elemento essenziale per l’esistenza stessa dell’ordinamento. Alla base del patto
costituzionale c’è il consenso tra gruppi che si impongono a vicenda una convivenza regolata dal diritto (si
parla di democrazia consociativa etnica o power-sharing). Il power-sharing può essere totale o parziale a
seconda che il modello venga attuato a livello centrale (Svizzera, Belgio, Canada, Bosnia-Erzegovina) o
limitatamente ad alcune parti di territorio (l’Alto Adige in Italia, l’Irlanda del Nord nel Regno Unito).
Possiamo inoltre avere modelli multinazionali paritari in cui la composizione degli organi e il processo
decisionale sono costruiti intorno alla necessaria parità tra gruppi costitutivi, oppure modelli proporzionali in
cui in gruppi sono rappresentati in proporzione alla propria consistenza numerica (pensiamo all’Alto Adige
in Italia e all’Unione Europea).

In Alto Adige lo statuto di autonomia impone che la giunta provinciale sia composta da rappresentanti dei gruppi linguistici in
proporzione alla composizione linguistica del consiglio e, pertanto, gli italiani devono essere presenti anche se il gruppo tedesco è
largamente superiore al 50%. Tale modello si ritrova anche nell’Unione Europea laddove nel Consiglio ciascuno Stato dispone di un
pacchetto di voti tendenzialmente proporzionale al peso demografico e lo stesso vale per i seggi assegnati a ciascuno Stato nel
Parlamento.

Tra gli strumenti costituzionali più diffusi per realizzare un modello multinazionale va ricordato il principio
di territorialità, che impone la coincidenza ope legis di un gruppo con un territorio, cristallizzando in questo
modo i confini etnici, linguistici o religiosi. Non esistono territori completamente omogenei, ma proprio per
questo il principio territoriale serve per poter efficacemente coniugare il modello multinazionale con una
struttura federale dell’ordinamento.

In Belgio, ad esempio, il processo di federalizzazione ha portato alla creazione di due aree tendenzialmente monolingue: neerlandese
al nord (Fiandre) e francese al sud (Vallonia). Attualmente conosciamo tre comunità (fiamminga, francese e tedesca) e tre Regioni
(Fiandre, Vallonia e quella bilingue di Bruxelles).

Altro strumento giuridico di primaria importanza nei contesti multinazionali è la previsione di diritti di veto
in capo ai gruppi, pendant rispetto al principio del consenso tra gruppi costitutivi. Trattasi di uno strumento
estremo, che si presta ad essere utilizzato in modo diverso a seconda della cultura politica sottostante e della
reale tenuta del patto tra gruppi: laddove il patto funzioni, i diritti di veto sono poco utilizzati e assolvono
ad una funzione meramente deterrente, mentre se il patto non funziona si tenderà ad abusare di questo
strumento per paralizzare il sistema. Il diritto di veto può essere di due tipi: sospensivo o assoluto.
Il veto sospensivo ha l’effetto di bloccare l’iter di approvazione di un provvedimento, trasferendo
la decisione definitiva ad un organo neutrale, mentre quello assoluto consiste nella diretta attribuzione
al gruppo del potere di bloccare in via definitiva l’adozione del provvedimento in questione.

Un ultimo strumento di garanzia degli ordinamenti multinazionali è dato dalla revisione costituzionale.
Se l’ordinamento in questione si basa sull’accordo tra gruppi per la condivisione del potere, deve essere
garantita la partecipazione di ciascun gruppo alla modifica delle regole fondamentali.

Il Constitution Act del Canada prevede ben cinque differenti procedimenti di revisione, utilizzabili per la modifica di una o più
parti dei vari documenti di rango costituzionale che concorrono a formare la legge suprema del Paese. Il procedimento ordinario
richiede l’approvazione delle due Camere federali e dei due terzi dei parlamenti provinciali (rappresentative dei gruppi).
Il secondo procedimento conferisce particolare rigidità ad alcune disposizioni costituzionali, disponendo che per la loro modifica sia

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necessaria la volontà unanime espressa a maggioranza dalle due Camere federali e dai parlamenti delle province. Basta quindi una
sola provincia per bloccare l’approvazione dell’emendamento. La terza procedura è essenzialmente bilaterale e dispone che alcune
parti del testo, relative all’uso delle lingue ufficiali e all’istruzione nelle singole province, possano essere emendate con deliberazione
del Parlamento federale e dell’assemblea della singola provincia interessata.

Profili critici. Mentre negli ordinamenti individualisti rischiano di produrre la tirannia della maggioranza
perché non considerano le esigenze dei gruppi che possono trovarsi in condizione di minoranza strutturale,
gli ordinamenti collettivisti rischiano di degenerare in una tirannia della minoranza, comprimendo in modo
eccessivo i diritti individuali a scapito di quelli collettivi e derogando in modo non proporzionato ai principi
deliberativi democratici.

Capitolo 4.

La questione delle minoranze non è sempre esistita come problema giuridico. A fini didascalici si possono
individuare in via di prima approssimazione cinque stagioni nell’evoluzione dei diritti delle minoranze.

a) L’era di Westfalia e i tre approcci originari.

Il concetto giuridico di minoranza nasce in parallelo con quello di Stato moderno, che convenzionalmente si
identifica con la pace di Westfalia e la conclusione delle guerre religiose in Europa. Lo Stato moderno era
inizialmente concepito come strumento atto a risolvere i conflitti religiosi; allo stesso modo, il concetto
di minoranza nasce intimamente legato al fattore religioso. Le prime minoranze in senso giuridico erano
quelle religiose. Beninteso, la prima fase viene inaugurata dal trattato di Westfalia del 1648 e prosegue fino
al Congresso di Vienna del 1815. In questa fase di nascita e consolidamento dello Stato e del concetto
di nazione, le minoranze si pongono come eccezione rispetto ad un ordine giuridico presunto omogeneo.
Nel corso di questo lungo periodo si sono delineati tre approcci profondamente diversi relativi alla
concezione dello Stato e delle rispettive minoranze.

INTEGRAZIONE: Lo Stato è quel soggetto (ente sovrano, originario ed indipendente) che comanda anche mediante l'uso della forza
armata, della quale detiene il monopolio. Alla parola Stato si riferiscono due concetti distinti: Stato comunità: popolo, stanziato su un
territorio individuato, che è organizzato attorno ad un potere centrale (comunemente chiamato "stato - nazione"). Stato governo:
quel potere centrale sovrano, organizzato in possibili differenti modi, che detiene il monopolio della forza, e impone il rispetto di
determinate norme nell'ambito di un territorio ben definito. Una Nazione (dal latino natio, "nascita", derivato da nasci, "nascere") è
un raggruppamento di persone che hanno in comune la lingua, la cultura e, normalmente, l'etnia.

Il primo approccio è quello sviluppatosi in Gran Bretagna e in Francia, già costituiti in Stati nazionali
all’epoca di Westfalia con un territorio unitario, un potere centralizzato. Il concetto di nazione nasce neutro,
essenzialmente coincidente con quello di popolazione residenti. Il riferimento naturale per l’identificazione
del popolo diventa così la cittadinanza e la nazione che si sviluppa è di tipo civico, non etnico ed è naturale
che si sviluppi un atteggiamento giuridicamente indifferente rispetto alle diversità.

Il secondo approccio si sviluppa in quei Paesi che non avevano ancora compiuto il percorso di unificazione
nazionale, essendo alla ricerca di fattori identitari di aggregazione per dar vita ad apparati statali in grado di
competere con Gran Bretagna e Francia. E’ il caso della Germania, dell’Italia e di diverse aree dell’Europa
centrale. L’aspirazione alla creazione di uno Stato più grande e competitivo spingeva all’unificazione di
territori troppo piccoli per la nuova epoca, ponendo l’accento sul concetto di Volksstat, che indica un’identità
collettiva e una nazione chiusa ed esclusiva, basata sul criterio etnico come fattore di identificazione
dei confini naturali del popolo da costruire. I concetti di Stato e nazione risultavano così profondamente
divisi, in quanto la nazione, intesa come unità etnico-linguistica-culturale di un popolo, aspirava a farsi
Stato, superando la frammentazione territoriale attraverso l’unificazione di zone ritenute culturalmente
omogenee.

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Il terzo approccio filosofico-politico alla nazione e alle minoranze si afferma nel periodo post-Westfalia nei
tre grandi imperi multinazionali dell’epoca: austro-ungarico, russo e ottomano. Si trattava di organizzazioni
politiche divenute troppo grandi, messe in crisi dall’emergere del nazionalismo nelle nazioni inglobate con la
richiesta di autonomia e indipendenza.

b) L’era del Congresso di Vienna: nazionalismo e primi trattati.

La seconda fase storica (dal Congresso di Vienna del 1815 alla fine della Prima Guerra mondiale del 1918)
si caratterizza per due fattori fondamentali: da un lato, la definitiva affermazione dei criteri nazionali accanto
a quelli religiosi per l’identificazione delle minoranze e l’esplosione del nazionalismo; dall’altro, l’inizio
dell’epoca dei trattati in materia di tutela delle minoranze. Sotto il primo profilo, nel 19 secolo si fece strada
l’idea politica della necessaria identità tra Stato e nazione. L’obiettivo della creazione di Stati nazionali con
popolazione omogenea faceva conseguentemente sorgere la richiesta di autodeterminazione nazionale di
molti popoli. Inoltre, fenomeni come la secolarizzazione, democratizzazione e urbanizzazione, nonché fattori
economici come l’industrializzazione permisero al fattore nazionale di andare progressivamente ad
affiancarsi e a sostituire a quello religioso. L’ideale dell’omogeneità etnica della popolazione, visto come
presupposto per la creazione di Stati “nazionali” caratterizzò fortemente quel periodo fino ad estendersi
all’epoca contemporanea. In questa fase si consolida così la considerazione delle minoranze come eccezioni
rispetto al criterio idealtipico dello Stato-nazione, facendo dimenticare che è quest’ultimo criterio a costituire
la reale eccezione. Esaltando la derivazione da una razza comune, la cittadinanza divenne in quel contesto
sempre più sinonimo di nazionalità.

Ancor oggi la Costituzione italiana non distingue sempre in modo netto tra nazione e popolo. L’art. 51 Cost., ai fini dell’ammissione
ai pubblici uffici, prevede che la legge possa equiparare ai cittadini “i soli italiani non appartenenti alla Repubblica”. L’art. 67 Cost.
vincola i parlamentari al perseguimento di interessi collettivi, stabilendo che ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione,
nonostante siano l’espressione elettiva della sovranità del popolo.

Quanto al secondo profilo, il 19 secolo è la fase in cui sorge un diritto internazionale delle minoranze.
Abbandonata l’esclusività statale caratterizzante la prima fase, a partire dal Congresso di Vienna gli Stati
iniziano ad utilizzare lo strumento del trattato per regolare i rapporti di forza. I frequenti spostamenti di
confine che si registrano in Europa, a causa delle diverse guerre che coinvolgono il continente,
dei moti rivoluzionari, delle spinte secessioniste e dei processi di unificazione nazionale, producono
inevitabilmente il proliferare di trattati, regolando i rapporti di forza e cedendo territori da uno Stato ad un
altro per risolvere complesse questioni nazionali. Ricordiamo il Trattato di Berlino, che sancisce
l’indipendenza della Serbia, Montenegro e Bulgaria, il passaggio della Bosnia all’Austria-Ungheria.

c) Il periodo tra le due grandi guerre mondiali.

Al termine della Grande Guerra il continente europeo è completamente sconvolto sotto il profilo geopolitico.
Secondo Wilson, a causare la guerra era stata l’aspirazioni delle nazioni ad avere un proprio Stato ed ogni
Stato doveva coincidere con una sola nazione. La dottrina di Wilson fu il principio ispiratore del Trattato di
pace di Parigi del 1919, che concluse la guerra. Solo la Svizzera non venne toccata del riassetto secondo
linee etniche, rimanendo un’eccezione multietnica in Europa. Tuttavia la dottrina Wilson e l’idea di uno
Stato nazionale omogeneo si basavano su una fictio iuris ben lungi dal fotografare la realtà. Così da un lato si
definirono omogenee realtà territoriali che non lo erano affatto (Belgio, Cecoslovacchia e nuovi paesi
Balcanici), e dall’altro si dovettero comunque riconoscere deroghe ai criteri nazionali: si pensi all’annessione
dell’Alto Adige all’Italia, nonostante la popolazione fosse per oltre il 90% di lingua tedesca o ladina. Diffuso
era il ricorso ai trattati multilaterali e bilaterali per regolare la questione delle minoranze. I trattati di pace con
Austria, Ungheria, Bulgaria, Turchia contengono disposizioni per la tutela delle minoranze.

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d) L’epoca della guerra fredda.

L’equilibrio trovato al termine della Grande Guerra era destinato a durare poco. Nasce un nuovo regime
internazionale con fondamentali ripercussioni in materia di minoranze. Nell’immediato dopoguerra,
prosegue la ricerca della coincidenza tra nazione e Stato. per questo, oltre che per la divisione dell’Europa in
due aree di influenza, si registrano immensi e tragici spostamenti di popolazioni espulse dai loro territori in
base alla loro diversità etnico-nazionale (popolazioni di lingua tedesca espulse dalla Cecoslovacchia,
dalla Polonia, dalla Romania, italiani espulsi dall’Istria). Spesso queste popolazioni venivano rimpiazzate
con spostamenti di altre popolazioni per ripristinare l’equilibrio etnico. Con l’assestamento dei confini
termina questo processo e si inaugura la nuova era in cui al centro si colloca l’individuo. Inizia così la
stagione dei diritti fondamentali della persona: pensiamo alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
(1948), all’istituzione dell’ONU, all’approvazione della CEDU in Europa, al Patto sui diritti civili e politici
del 1967. Sul piano bilaterale, si approvano importanti trattati in materia di minoranze, come l’accordo
Degasperi-Gruber del 1946 per la tutela della minoranza di lingua tedesca della provincia di Bolzano,
il Trattato sul territorio libero di Trieste del 1954, le Dichiarazioni di Copenaghen del 1955 con cui
Germania e Danimarca si impegnavano a garantire i diritti alle rispettive minoranze, il Trattato di Vienna
con cui la restituzione della sovranità all’Austria veniva condizionata alla garanzia dei diritti delle minoranze
in quel Paese.

e) Dopo il 1989: la fase attuale.

Con la fine della guerra fredda si apre un nuovo scenario e le minoranze, specie quelle nazionali,
tornano prepotentemente al centro dell’attenzione. La dissoluzione del blocco sovietico scatena una corsa
al recupero della statualità nazionale. La conseguenza è l’esplosione violenta di conflitti etnici in vaste
aree dell’ex blocco comunista: dalla Jugoslavia al Caucaso, dall’Ucraina al Nagorno-Karabakh, dalla
Moldova alla Georgia, alla Cecenia. Ed anche laddove i conflitti sono gestiti in via pacifica si pongono
problemi di gestione della diversità etnico-nazionale: dalla separazione consensuale della Cecoslovacchia
alla difficile situazione delle minoranze russe in Lettonia ed Estonia. Guerre feroci insanguinano diverse
zone dell’Africa (genocidio in Ruanda del 1994-1995). L’esplosione del conflitto etnico della prima metà
degli anni ’90 coglie del tutto impreparato l’ordinamento giuridico, il sistema liberal-democratico,
mettendo in discussione l’enfasi sui diritti individuali. L’ordinamento internazionale si dota così di
nuovi strumenti specifici, che tendono a bilanciare i diritti umani individuali con la dimensione collettiva
dei diritti delle minoranze: si istituisce un gruppo permanente sulle minoranze nella sottomissione ONU
per i diritti umani (1992), si approvano in seno al Consiglio d’Europa la Carta europea delle lingue
regionali o minoritarie (1992) e la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali (1995),
oltre al 12 Protocollo aggiuntivo alla CEDU sulla non discriminazione (2001); inoltre, l’OCSE
istituisce l’Alto Commissario per le minoranze nazionali (1992) e l’Unione europea adotta i parametri
per l’allargamento che contengono criteri specifici anche in tema di tutela delle minoranze.
Beninteso, il trattamento delle proprie minoranze cessa di essere un affare meramente interno agli Stati,
coperto dal principio di non interferenza, ma diventa un problema condiviso in quanto fattore di rischio
per la sicurezza. Si tratta di una conseguenza dell’evoluzione complessiva della materia dei diritti umani
in ambito internazionale, che condurrà in alcuni casi alla legittimazione degli interventi militari a fini
umanitari. Fondamentale risulta il fenomeno della c.d. condizionalità internazionale, soprattutto nel contesto
europeo in cui l’ammissione all’Unione Europa è considerata una priorità politica assoluta, consentendo alle
organizzazioni internazionali di esercitare forti pressioni su numerosi Paesi, sollecitandoli ad intervenire in
materia di minoranze.

Il ruolo attivo della comunità internazionale presenta vantaggi e svantaggi: da un lato, senza l’intervento della comunità
internazionale non si sarebbero risolti numerosi conflitti; dall’altro, la pressione internazionale tende a volte ad esportare soluzioni
senza sufficiente attenzione alle caratteristiche del conflitto da risolvere, rischiando di creare forti asimmetrie tra minoranze che

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possono contare sull’appoggio di uno Stato nazionale e minoranze abbandonate a se stesse, che non godono di alcuna reale
protezione internazionale.

Capitolo 5.

La reazione del diritto internazionale ai sistemi totalitari del 20 secolo, che negavano la dimensione
individuale dell’uomo esaltando il collettivo, ha dato vita alla formulazione dei diritti universali dell’uomo e
all’obbligo per gli Stati di rinunciare all’uso della forza (ormai limitato al solo caso dell’autodifesa)
ricorrendo al diritto come strumento generale e vincolante per la composizione dei conflitti.
Nel diritto internazionale si trovano riferimento più o meno espliciti ai diritti delle minoranze in una
vasta gamma di documenti: alcuni riguardano la tutela dei diritti umani senza esplicitamente contenere
diritti particolari per le minoranze, come accade nella CEDU. Firmata a Roma nel 1950, la CEDU vieta
all’art. 14 ogni forma di discriminazione basata sull’appartenenza ad una minoranza nazionale.
Va ribadito che l’ottica generale della Convenzione rimane quella di uno strumento volto alla tutela
indifferenziata dei diritti umani individuali. Tra gli altri documenti contenenti disposizioni specifiche a
favore delle minoranze ricordiamo l’art. 27 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, in base al
quale “in quegli Stati, nei quali esistono minoranze etniche, religiose, o linguistiche, gli individui
appartenenti a tali minoranze non possono essere privati del diritto di avere una vita culturale propria,
di professare e praticare la propria religione, o di usare la propria lingua, in comune con gli altri membri del
proprio gruppo”. L’importanza di questa disposizione è soprattutto di carattere storico, trattandosi del primo
riferimento alla dimensione collettiva dei diritti delle minoranze, introdotto in un documento internazionale
successivo alla Seconda Guerra Mondiale, in una fase orientata alla protezione della sola dimensione
individuale dei diritti. L’art. 27 rappresenta un importante parametro di riferimento per la soft jurisprudence
degli organismi ONU che si occupano di questioni minoritarie (si pensi alla sottocommissione per i diritti
umani delle minoranze istituita in seno alla commissione dell’ONU). Ricordiamo infine la Dichiarazione
47/135 delle Nazioni Unite riguardo ai diritti delle persone appartenenti a minoranze nazionali o etniche,
religiose e linguistiche, che può essere considerato un documento di interpretazione dell’art. 27 sopra citato.
Non essendo self-executing, questi documenti necessitano di appositi atti normativi internei nei vari
ordinamenti statali per il recepimento dei loro contenuti.

Non c’è dubbio che la regione in cui si sia concentrata maggiormente la tutela internazionale dei diritti delle
minoranze sia l’Europa. Pensiamo all’OCSE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa,
cui aderiscono 56 Stati), il Consiglio d’Europa (46 Stati) e l’Unione Europea (27 Stati) oltre ad altre
organizzazioni di importanza minore. Come emerge dal preambolo della Centrale European Initiave (CEI),
il diritto delle minoranze non può più essere lasciato esclusivamente ai singoli Stati perché sussiste una
responsabilità internazionale sul punto; d’altra parte, il documento della CEI rimane fermamente ancorato
alla cittadinanza come criterio oggettivo dell’appartenenza ad una minoranza, rimanendo quindi escluse le
nuove minoranze e i non cittadini.

A livello europeo, i primi strumenti internazionali contenenti specifici principi in materia di tutela
minoritaria sono stati quelli, vincolanti solo politicamente, della CSCE (Conferenza per la Sicurezza e la
Cooperazione in Europa), divenuta successivamente OCSE. Di particolare rilievo è stata la creazione,
in tale contesto, dell’ufficio dell’Alto Commissario delle minoranze nazionali con il compito di monitorare
gli sviluppi normativi e politici nei Paesi aderenti e di intervenire in via diplomatica nelle aree in cui
potrebbero delinearsi scenari di conflitto etnico-nazionale. Oltre all’attività di prevenzione di possibili
conflitti, l’Alto Commissario predispone linee guida non vincolanti in specifici settori del diritto delle
minoranze, che valgono come soft law (in passato ha emanato alcune raccomandazioni).

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Il Consiglio d’Europa è l’organizzazione regionale europea, creata nell’immediato dopoguerra,
con il compito di promuovere la tutela dei diritti umani nel continente in base alle disposizioni della CEDU
(che però si occupa di diritti rigidamente individuali e non di diritti delle minoranze) e in presenza di un
giudice (Corte Europea dei diritti dell’uomo). A partire dagli anni ’90, il Consiglio d’Europa si è dotato di
alcuni nuovi strumenti: Commissione per la Democrazia attraverso il Diritto (c.d. Commissione di Venezia)
che assiste i processi democratizzazione, formulando pareri non vincolanti ma di fatto influenti sulle riforme
costituzionali e legislative in Europa, e molti di questi riguardano il tema delle minoranze e dei conflitti
etnici. Altri due strumenti specifici relativi alle minoranze vanno ricordati: Carta Europea delle lingue
regionali o minoritarie (1992, entrato in vigore nel 1998) e la Convenzione quadro per la protezione
delle minoranze nazionali (1995). Il primo è un documento settoriale dedicato alla tutela delle lingue
minoritarie e della diversità linguistica, il cui ambito di applicazione è limitato alle lingue tradizionalmente
parlate in Europa, escludendo di conseguenza sia le lingue degli immigrati che i dialetti. La Carta propone
una sorta di “menu” permettendo agli Stati di scegliere in modo discrezionale le misure da applicare.
Si traduce pertanto in un tentativo di promuovere all’interno dei singoli ordinamenti l’adozione di una
disciplina articolata a favore delle lingue regionali e minoritarie, mettendo a disposizione dei punti di
riferimento per i settori di principale interesse ed importanza (sui principali articoli vedi pag. 87).
A monitorare l’adempimento da parte degli Stati degli obblighi assunti in base alla Carta, interviene un
apposito comitato di esperti che presenta una relazione al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa e può
formulare raccomandazioni. Il secondo documento rappresenta il primo e più importante accordo
multilaterale relativo alla tutela delle minoranze in quanto tali, adottato dal Comitato dei ministri del
Consiglio d’Europa. L’Assemblea parlamentare aveva chiesto che fosse redatto un protocollo aggiuntivo alla
CEDU riguardante le persone appartenenti a minoranze nazionali, realizzando uno strumento vincolando e
azionabile davanti alla Corte di Strasburgo. Il relativo mandato a predisporre una prima bozza del protocollo
fu poi disatteso dall’emanazione di una mera convenzione non immediatamente e direttamente applicabile,
richiedendo quindi una espressa adesione da parte di ciascuno Stato. Gli Stati mantengono ampi margini di
discrezionalità sulle questioni essenziali, tra cui la decisione di ratificare o meno la Convenzione e sulla
definizione dei gruppi rientranti nel concetto di minoranza ai sensi della medesima. Il documento resta non
giustiziabile ma i pareri del Comitato consultivo, istituito in analogia a quello previsto dalla Carta delle
lingue, si possono definire soft jurisprudence. Va infine ricordato che alcune disposizioni possono avere
effetto diretto in tre modi: a) se si tratta di disposizioni aventi contenuto analogo a quello delle disposizioni
della CEDU; b) se gli Stati dispongono espressamente la diretta applicabilità di singole disposizioni;
c) non mancano esempi di diretta applicazione di norme della Convenzione da parte dei giudici nazionali
che si rifanno alla Convenzione come documento-guida in materia di minoranze.

Quanto ai contenuti della Convenzione (chiariti dall’allegato Explanatory Report), si possono distinguere tre livelli: a) affermazione
principio della libertà di scelta dell’appartenente alla minoranza se farsi trattare come tale o meno (art. 3 prima sezione); b) divieto di
discriminazioni basate su questa appartenenza con la possibilità di porre una serie di azioni positive per creare condizioni di
uguaglianza sostanziale (art. 4 seconda sezione); c) la previsione di misure specifiche a tutela delle minoranze relativamente
all’identità, alla religione, alla lingua, alle tradizioni (queste ultime soggette al limite dell’ordine pubblico, seconda sezione).
Le disposizioni successive sono dedicate alla lingua e all’educazione: la libertà di manifestazione del pensiero è contemplata dal
riconoscimento del diritto all’uso privato e pubblico, libero e incondizionato, di una lingua minoritaria. L’utilizzo della lingua
minoritaria nei confronti dell’autorità amministrativa richiede che tale minoranza risieda per tradizione o in numero considerevole
nell’area e vi sia una sentita esigenza. L’educazione interculturale è invocata dall’art. 12 con l’impegno all’adozione di misure per
l’approfondimento della conoscenza reciproca della cultura, storia, lingua, e religione sia della minoranza che della maggioranza, con
l’obiettivo di creare un clima di tolleranza e dialogo. La terza sezione pone l’obbligo in capo agli appartenenti alle minoranze di
rispettare la legislazione statale.

Guardando alla dimensione comunitaria, si ricordi in primis l’art. 151 primo comma TCE, in base al quale
la Comunità contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel rispetto delle loro diversità
nazionali e regionali, evidenziando nel contempo il patrimonio culturale aggiunto. Il rispetto e la tutela delle
minoranze è uno dei criteri politici per l’adesione di nuovi Stati membri all’Unione, ma non è mai stato

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recepito in norme giuridiche di diritto primario, rimanendo quindi un criterio meramente politico.
Va tuttavia ricordata la previsione dell’art. 13 TCE, che consente al Consiglio di adottare all’unanimità
provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sulla razza, l’origine etnica e religiosa e
la direttiva 2000/43 che all’art. 5 pone una presunzione di legittimità delle azioni positive in favore dei
soggetti discriminati per i motivi di cui all’art. 13 TCE. L’obbligo di riconoscere e mantenere le differenze
culturali è espressamente richiamato all’art. 151 quarto comma TCE, in base al quale la Comunità tiene
conto degli aspetti culturali nell’azione che svolge a norma di altre disposizioni del trattato al fine di
rispettare e promuovere la diversità delle sue culture. L’intervento della Corte di Giustizia ha avuto un effetto
considerevole nel determinare lo stato attuale dei rapporti tra diritto comunitario (volto a garantire parità di
condizioni nel godimento delle libertà stabilite dal Trattato per perfezionare il mercato) e norme speciali
poste dagli Stati a tutela delle minoranze. Nel caso Bickel vs Franz, relativo all’uso della lingua tedesca nei
processi in provincia di Bolzano, si discuteva se cittadini tedeschi e austriaci, sottoposti a processo in Alto
Adige, potessero chiedere lo svolgimento del processo in lingua tedesca, pur non essendo cittadini italiani
appartenenti alla minoranza linguistica. La Corte di Giustizia ha esteso tale possibilità ai cittadini europei,
ricordando che l’Alto Adige è un territorio ufficialmente bilingue. Nel caso Angonese, avente ad oggetto il
requisito del bilinguismo richiesta per l’assunzione in enti pubblici e parapubblici della provincia di Bolzano,
si riteneva necessario un apposito certificato di bilinguismo (“patentino”) rilasciato dall’autorità
della provincia di Bolzano, ponendo di fatto una discriminazione nei confronti dei cittadini europei, non
residenti in Alto Adige, impossibilitati ad acquisirlo. Molto opportunamente, la Corte ribadiva che il
patentino non può essere l’unico certificato di bilinguismo ammesso ai fini dell’assunzione perché ciò
discrimina ingiustificatamente altri cittadini comunitari, mentre ammettere altri attestati non tocca in alcun
modo l’organizzazione e la struttura di un’amministrazione bilingue. La Corte di Giustizia ha svolto un ruolo
fondamentale nell’affermazione delle azioni positive nell’ordinamento comunitario, riconoscendo dunque la
legittimità delle norme diseguali per la promozione di gruppi minoritari.

Pensiamo al caso Eckhard Kalanke vs Freie Hansestadt Bremen, relativo alla compatibilità con il diritto comunitario di una
normativa di un Land tedesco che stabiliva che per le assunzioni nella PA dovesse accordarsi automatica preferenza alle candidate
donne a parità di qualificazione rispetto ai candidati uomini, qualora per il profilo professionale in questione le donne fossero meno
del 50% del totale. La Corte reputò incompatibile con il diritto comunitario tale normativa perché prevedeva un automatismo che non
bilanciava adeguatamente l’obiettivo generale perseguito e i diritti individuali dei singoli candidati. Nel caso Helmut Marshall vs
Land Nordrhein Wesfalen, una legge di un Land tedesco, al fine di promuovere una più adeguata rappresentanza femminile nel
lavoro pubblico, prevedeva anch’essa la preferenza, a parità di qualifiche, per il candidato donna qualora le donne fossero
sottorappresentate nel profilo professionale in questione, aggiungendo tuttavia la seguente clausola: “a meno che non prevalano
motivi inerenti alla persona del candidato di sesso maschile”. Secondo la Corte, tale clausola rende legittima la normativa in quanto
persegue lo scopo di promuovere il lavoro femminile senza escludere che nel singolo caso possano prevalere fattori che inducano a
privilegiare il candidato di sesso maschile (affidamento dei figli, situazione sociale ecc.). Nel caso Helmut Marshall vs Land
Nordrhein Wesfalen, la Corte ha colto l’occasione per indicare una serie di regole fondamentali per l’interpretazione del diritto delle
differenze: posta come regola generale l’uguaglianza formale (da intendersi come uguale accesso senza distinzioni di genere o altro),
il legislatore può prevedere delle norme derogatorie per perseguire un obiettivo legittimo, fermo restando che tali norme devono
bilanciare in modo ragionevole l’obiettivo generale perseguito e i diritti individuali della singola persona. La clausola di flessibilità
che consente di privilegiare nel singolo caso la posizione individuale rispetto all’obiettivo collettivo non deve essere applicata in
modo tale da vanificare l’obiettivo generale.

Capitolo 6.

In tema di partecipazione e rappresentanza politica delle minoranze emergono tre fondamentali profili
problematici: a) scelta se sacrificare il principio di uguaglianza in senso formale nella rappresentanza al fine
di promuovere determinati gruppi, oppure comprimere l’aspettativa dei gruppi stessi, rassegnandoli all’idea
di non poter mai emergere in quanto numericamente e strutturalmente in condizione minoritaria;
b) in uno stato costituzionale di diritto le deroghe al principio di uguaglianza devono essere giustificate
tenendo conto anche delle esigenze emergenti da altri valori costituzionalmente protetti tra cui la protezione
dei gruppi minoritari; c) riconoscere speciali diritti di partecipazione e rappresentanza politica alle
minoranze significa riconoscere un doppio significato del concetto di nazione. La nazione non può infatti
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essere intesa solamente in senso democratico (concezione civica), ma deve necessariamente contenere una
lettura in chiave differenziale. In altre parole, i fattori identificativi delle minoranze cui si intendono garantire
diritti di partecipazione politica devono essere riconosciuti come elementi costitutivi della nazione, che è
dunque anche espressione di pluralismo etnico, culturale, linguistico o religioso. E’ evidente che il
conferimento di diritti particolari in ambito politico a gruppi determinati presuppone un approccio di tipo
promozionale al tema della diversità.

Prima di analizzare nel dettaglio tali regole occorre richiamare il problema di ordine generale rappresentato
dall’identificazione dei gruppi che possono accedere al trattamento differenziato. Non sono infrequenti i casi
in cui i Paesi che prevedono regole promozionali per le minoranze rendano assai difficile la concessione
della cittadinanza agli appartenenti alle minoranze, assumendo di fatto un approccio repressivo.
In alcuni Paesi ex-comunisti (Estonia e Lettonia), ad esempio, le minoranze russe non godono della
cittadinanza e, pertanto, sono escluse dalla partecipazione alla vita politica.

La Commissione ONU per i diritti umani ha riconosciuto che le regole sui requisiti linguistici in Lettonia per candidarsi alle elezioni
parlamentari violano gli standard internazionali, in particolare l’art. 27 del Patto sui diritti civili e politici. La Commissione ha
ritenuto che l’esclusione di una cittadina lettone di lingua russa dalla candidatura alle elezioni locali nella città di Riga sulla mera
base di un’insufficiente conoscenza della lingua lettone, malgrado la presentazione di un certificato di competenza linguistica,
costituisce una violazione del Patto. Assai frequente è l’utilizzo dell’ostacolo della cittadinanza per limitare di fatto la partecipazione
di molti Rom alla vita politica. Un elevato numero di Rom non ha la cittadinanza in Paesi come la Lituania, la Romania. In Slovenia
molti Rom sono apolidi a causa della scelta politica di trasferire migliaia di cittadini della ex-Jugoslavia nel registro degli stranieri.
Così molti Rom, che sono nati e hanno vissuto in Slovenia, in possesso della cittadinanza ex-jugoslava, sono rimasti apolidi, spesso
senza documenti di identità, servizi sanitari, pensioni, accesso all’istruzione e aiuti umanitari.

Talvolta le limitazioni all’accesso al processo politico sono disposte al fine di tutelare le maggioranze contro
le minoranze o, per converso, le minoranze contro le maggioranze. Nel primo caso si cerca di escludere dalla
competizione elettorale partiti espressione di minoranze nazionali, etniche e religiose e persino di genere,
oppure di riservare ai soli membri della maggioranza determinate funzioni pubbliche. In Romania fu
contestata la candidatura a Presidente della Repubblica di Gheorghe Frunda perché il candidato, appartenente
all’Alleanza democratica degli ungheresi in Romania aveva tenuto comportamenti non conformi a quanto
richiesto ai politici rumeni, prestando giuramento di fedeltà alla madrepatria ungherese ed al suo popolo, non
votando per la costituzione romena ecc. Nel secondo caso, gli ostacoli al diritto di voto operano come
strumenti espliciti di protezione dei membri di una minoranza contro un’immigrazione massiccia della
popolazione maggioritaria. Pensiamo alla provincia autonoma di Bolzano in cui, per ottenere il diritto di voto
a livello regionale e locale (elettorato attivo), è necessaria una residenza ininterrotta di almeno 4 anni nel
territorio regionale. Si temeva infatti che la possibile affluenza di italiani a ridosso delle elezioni avrebbe
danneggiato la rappresentanza politica della minoranza di lingua tedesca.

La limitazione dei gruppi che possono avere accesso ad un trattamento preferenziale rappresenta spesso un
passo necessario, purché tale scelta risulti congrua e proporzionale.

In una sentenza della Corte Costituzionale della Bosnia-Erzegovina, si è riconosciuto che mentre i tre popoli costitutivi dello Stato
devono godere degli stessi diritti politici in ogni parte del territorio, ciò NON vale per le minoranze presenti all’interno dello Stato.
La Costituzione distingue esplicitamente tra popoli costitutivi e minoranze, precisando che queste ultime (ex-jugoslavi, ruteni, Rom,
albanesi ed ebrei) non possano pretendere di avere gli stessi diritti in termini di partecipazione e rappresentanza riconosciuti ai popoli
costitutivi in base al principio di uguaglianza collettivo. Le minoranze devono dunque accontentarsi delle garanzie di non
discriminazione che non prevedono alcun diritti preferenziale nel processo politico. Lo stesso vale per le piccolo minoranze della
Macedonia, escluse dalla partecipazione politica in quanto le regole differenziali si applicano soltanto alla minoranza albanese.

Ciò che potremmo definire “legittima esclusione” di alcuni gruppi minoritari dai benefici riconosciuti ad altri
gruppi è stato spesso confermato dalla giurisprudenza di molte altre Corti.

La Corte di Strasburgo ha rigettato un ricorso avente ad oggetto la normativa polacca in materia di elezioni parlamentari che
attribuiva alle minoranze una posizione privilegiata per la distribuzione dei seggi in Parlamento, distinguendo tra minoranze

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nazionali (riconosciute in forza di trattati bilaterali con le rispettive madrepatrie: tedeschi, bielorussi, lituani ecc.) e minoranze
etniche, non coperte da trattati internazionali ed escluse da ogni beneficio in materia elettorale. La Corte ha respinto il ricorso dei
rappresentanti della minoranza etnica slesiana, che chiedevano di registrare la loro lista sotto il nome di Unione del popolo di
nazionalità slesiana, in quanto un’eventuale accoglimento avrebbe implicato il riconoscimento degli slesiani quale minoranza
nazionale e non soltanto etnica, scelta che spetta al solo legislatore nazionale.

Dopo aver trattato i principali problemi di identificazione dei gruppi che possono accedere al trattamento
differenziato in ambito politico, è necessario soffermarsi sugli strumenti attraverso i quali tale
trattamento può essere garantito. L’ordinamento internazionale richiama gli Stati a rispettare il diritto dei
soggetti appartenenti alle minoranze a partecipare alla gestione della cosa pubblica, comprese le materie
direttamente connesse alla propria identità minoritaria (artt. 2 secondo comma e 3 Dichiarazione ONU),
e alla formazione della volontà politica a livello sia locale che nazionale (art. 35 Documento di
Copenaghen). L’art. 15 Convenzione quadro del Consiglio d’Europa richiede che gli Stati predispongano
le condizioni necessarie affinché tale partecipazione sia effettiva. Il Patto internazionale per l’eliminazione
della discriminazione razziale stabilisce che l’acceso su base paritaria alle cariche pubbliche non venga
negato sulla base di distinzioni razziali o etniche (art. 5). Infine, il Patto sui diritti civili e politici prevede
il diritto di ogni cittadino, senza alcuna discriminazione, di essere eletto, garantendo in questo modo la libera
espressione del volere di ogni elettore (art. 25).

La Commissione ONU per i diritti umani ha censurato, in forza dell’art. 25 del Patto sui diritti civili e politici, la previsione dei
requisiti linguistici per i candidati alle elezioni poiché ogni cittadino ha diritto di essere eletto senza alcuna discriminazione
(compresa la lingua). Il che non significa certamente garantire un generico diritto all’uso della lingua di preferenza dell’eletto
all’interno degli organi assembleari, né il diritto a scegliere di impiegare una lingua regionale per la proposta di candidatura alle
elezioni.

Più diffusa è la previsione di un sistema elettorale proporzionale a livello nazionale, regionale o locale,
spesso accompagnato da facilitazioni specifiche come la deroga alle soglie di sbarramento.
Nei sistemi maggioritari, invece, la promozione delle minoranze avviene attraverso un utilizzo mirato
del ritaglio dei collegi, ma esistono strumenti ancora più incisivi come la riserva dei seggi o la garanzia della
rappresentanza in organismi non solo parlamentari, ma anche esecutivi e giurisdizionali.

INTEGRAZIONE: Organi elettivi sono quelli i cui titolari vengono scelti mediante votazione da una pluralità di persone (c.d. corpo
elettorale). In genere si è soliti distinguere tra sistemi proporzionali e sistemi maggioritari, ma è altrettanto importante la diversa
distinzione tra sistemi a collegio uninominale e sistemi a collegio plurinominali. Nel collegio uninominale, il corpo elettorale
complessivo viene scomposto in tanti collegi quanti sono i candidati da eleggere. In questo modo, per ciascun collegio dovrà
essere eletto un solo candidato, essendoci un solo seggio da assegnare, come accade nel sistema maggioritario. Beninteso, nel sistema
a collegio uninominale accade che in ogni collegio l’unico seggio disponibile venga assegnato a chi abbia ottenuto la maggioranza.
Nei sistemi plurinominali, invece, ad ognuno dei collegi in cui sia eventualmente ripartito il corpo elettorale sono assegnati più seggi.
Alle elezioni partecipano non candidati singoli ma liste di candidati. Essendovi più seggi, il sistema dei collegi plurinominali
consente di attribuire i posti disponibili in proporzione ai voti ottenuti da ciascuna lista. Tale sistema si adatta bene a quello
proporzionale, con il vantaggio di assicurare a ciascun partito una rappresentanza esattamente corrispondente al suo peso elettorale,
favorendo la frammentazione delle forse politiche. In Italia, il Parlamento ha approvato nel 1993 due leggi che hanno introdotto sia
per il Senato che per la Camera un sistema elettorale che prevede l’assegnazione dei 3/4 dei seggi mediante sistema maggioritario a
collegio uninominale e turno unico, del rimanente 1/4 con sistema proporzionale.

I sistemi elettorali proporzionali sono spesso considerati lo strumento migliore per garantire la
rappresentanza politica delle minoranze, in quanto adatti a dar voce a partiti piccoli. E’ tuttavia assai
frequente, per evitare un’eccessiva frammentazione politica, la previsione nei sistemi proporzionali di una
soglia di sbarramento. In diversi ordinamenti sono tuttavia previste deroghe rispetto all’obbligo di superare
la soglia di sbarramento in favore dei partiti espressione delle minoranze. Ad esempio, per accedere al riparto
proporzionale dei seggi, il singolo candidato deve ottenere tanti voti quanti sono quelli generalmente
necessari per essere eletti, a prescindere dal successo della lista di appartenenza, che potrebbe quindi non
superare la soglia minima di voti.

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Nella zona di confine tra la Germania e la Danimarca si ritiene non applicabile la soglia minima del 5% nei confronti dei candidati
della minoranza danese. La richiesta di porre una eccezione alla requisito della soglia di sbarramento del 5% per i partiti
rappresentativi della minoranza nazionale è stata però respinta dalla Corte Costituzionale tedesca, che ha colto l’occasione per
ribadire che il legislatore nazionale non è obbligato a prevedere regole differenziate, ma ha la facoltà di farlo. Il mero fatto di
rappresentare una minoranza nazionale non costituisce una fondamentale differenza qualitativa rispetto agli altri partiti, tale da
costringere il legislatore a trattare in maniera differenziata i partiti espressione di minoranze rispetto agli altri.

In Italia è stato introdotto nel 1993 lo sbarramento al 4% su scala nazionale per l’accesso alla distribuzione dei seggi ripartiti su scala
nazionale (il 25% del totale), penalizzando le liste espressione delle minoranze linguistiche. La Corte Costituzionale ha riconosciuto
il diritto delle minoranze linguistiche tedesca e ladina ad essere rappresentate politicamente in condizioni di effettiva parità, non
ritenendo tuttavia illegittima la legge elettorale nella parte in cui non poneva una deroga alla soglia del 4%, essendo questa una scelta
riservata al legislatore. Il caso fu portato dinanzi alla Corte di Strasburgo che respinse il ricorso, affermando che l’art. 3 del Primo
Protocollo aggiuntivo della CEDU non crea un obbligo per lo Stato a prevedere uno specifico sistema elettorale anziché un altro, né
la CEDU stessa obbliga le parti contraenti a stabilire forme di discriminazione positiva in favore delle minoranze.

La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale una legge regionale del Trentino-Alto Adige che prevedeva l’introduzione di
uno sbarramento al 5% per l’elezione del Consiglio regionale, in quanto ciò avrebbe impedito la rappresentanza effettiva della
piccola minoranza ladina, che non era in grado di raggiungere tale soglia in quanto rappresentante circa il 4,5% della popolazione.

Talvolta neppure un sistema elettorale proporzionale senza sbarramenti è sufficiente a risolvere tutti i
problemi relativi alla rappresentanza delle minoranze, in quanto i partiti espressione delle minoranze devono
competere con altri partiti per ottenere il numero di voti necessari per conquistare un seggio. Da tutte le
decisioni riportate si nota come le Corti ritengano che i trattamenti preferenziali per le minoranze
rappresentino, anche in contesti promozionali, una possibile opzione per il legislatore e NON un obbligo
costituzionale risultante dalla funzione stessa del principio di uguaglianza. Non vi è dunque un obbligo di
rappresentanza politica preferenziale delle minoranze.

I sistemi elettorali maggioritari e uninominali tendono a privilegiare una logica opposta rispetto a quelli
proporzionali. Se i sistemi proporzionali mirano ad una rappresentanza parlamentare di una realtà quanto più
possibile vicina a quella della società nel suo complesso, facilitando la frammentazione partitica, i sistemi
maggioritari sono normalmente più funzionali ad una semplificazione del panorama politico, limitando la
rappresentanza tendenzialmente a due soli partiti o coalizioni. In via di principio i sistemi maggioritari sono
meno adatti ad una rappresentanza politica effettiva delle minoranze, ma esistono strumenti specifici atti a
limitare questo limite. Il principale tra questi è rappresentato dalla determinazione dei distretti elettorali, vale
a dire mediante la creazione di distretti elettorali uninominali sulla base di criteri etnici, razziali, nazionali,
linguistici, religiosi. Si parla di gerrymandering (parola d’origine inglese che rappresenta la fusione di due
termini, quello di Elbridge “Gerry”, l’allora governatore del Massachusetts, e “salamander”, salamandra),
che è un metodo ingannevole per ridisegnare i confini dei collegi nel sistema elettorale maggioritario.
L’inventore di questo sistema di ridisegno dei collegi era il politico statunitense e governatore
del Massachusetts Elbridge Gerry (1744-1814); egli, sapendo che, all’interno d’una certa regione
(dipartimento o stato), ci possono essere parti della popolazione (ben localizzabili) favorevoli ad un partito o
ad un politico (ad esempio, seguendo la dicotomia centro–periferia, giovani–vecchi, ceto basso–ceto medio
alto), disegnò un nuovo collegio elettorale con confini particolarmente tortuosi, includendo quelle parti della
popolazione a lui favorevoli ed escludendo quelli a lui sfavorevoli, garantendosi così un’ipotetica rielezione.
Le linee di tale collegio erano così irregolari e tortuose, da farlo sembrare a forma di salamandra (da cui la
seconda parte del termine “salamander”, salamandra in inglese, appunto).

Solo a partire dagli anni ’60, la giurisprudenza statunitense iniziò ad intervenire, dichiarando l’incostituzionali di una legge
dell’Alabama che aveva disegnato i distretti di una città utilizzando una figura geometrica a ben 28 lati, escludendo di fatto quasi tutti
i cittadini neri. Furono dichiarati incostituzionali alcuni distretti basati su censimenti ormai datati che favorivano le zone agricole e
residenziali (abitate da bianchi) rispetto a quelle urbane industriali in cui viveva gran parte della popolazione nera.

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Forme di gerrymadering promozionale sono previste anche in altri ordinamenti, come quello italiano:
pensiamo all’art. 48 terzo comma St. Speciale per il Trentino – Alto Adige, che prevede che un seggio del
Consiglio provinciale di Trento sia obbligatoriamente assegnato al territorio coincidente con una serie di
comuni in cui è prevalentemente insediato il gruppo linguistico ladino-dolomitico di Fassa. In questo modo
si garantisce che almeno un rappresentante ladino sieda in Consiglio.

Gli esempi finora visti nei contesti elettorali proporzionali e maggioritari si fondano sulla presunzione che gli
appartenenti ai gruppi differenziali votino per i candidati appartenenti al medesimo gruppo. Gli strumenti
finora utilizzati operano in presenza di alcune precondizioni politiche e garantiscono una rappresentanza
politica di determinati gruppi in via politica e di fatto, non trattandosi di rappresentanza giuridicamente
assicurata (che si realizza mediante la previsione di criteri atti a prescrivere un determinato esito elettorale e
un’immediata garanzia di risultato).

Altro strumento atto a garantire la rappresentazione garantita delle minoranze negli organi elettivi a livello
nazionale è la riserva dei seggi in favore delle minoranze indipendentemente dai risultati elettorali
conseguiti. Pensiamo alla Costituzione romena che prevede che a ciascuna organizzazione rappresentativa di
minoranze sia riservata una rappresentanza negli organi elettivi a condizione che ottenga, a livello nazionale,
più del 5% dei voti normalmente necessari per l’elezione di un rappresentante.

In Croazia la legge costituzionale sulle minoranze prevedeva che se un gruppo minoritario avesse costituito oltre l’8% della
popolazione (i serbi che erano circa il 12% prima della riconquista militare della Kranja da parte dei croati nel 1995) esso avrebbe
avuto il diritto di essere rappresentato in Parlamento in proporzione alla propria consistenza. Le minoranze che non avessero
raggiunto l’8% (i serbi attualmente e le altre minoranze) potevano avere da 5 a 7 rappresentanti.

L’inclusione di un trattamento preferenziale consistente nella rappresentanza garantita è frutto di scelte


politiche e ideologiche che ispirano l’ordinamento costituzionale, normalmente accettate dai giudici. In molti
casi la scelta di garanzie dirette di risultato è una extrema ratio quando altri strumenti si rivelino
sufficientemente efficaci.

I Ladini in Italia non godono di alcuna forma preferenziale di rappresentanza nel Veneto, mentre godono di una rappresentanza
assicurata in provincia di Trento (in Trentino attraverso la riserva di un seggio al territorio dei comuni di maggior insediamento della
comunità ladina) e di una rappresentanza garantita in provincia di Bolzano.

Va infine segnalato come in alcuni ordinamenti si preveda un modello estremo di rappresentanza politica
garantita per gruppi, consistente nella completa separazione del circuito elettorale e decisionale in base ai
gruppi medesimi, utilizzata in contesti di discriminazione istituzionalizzata. Per quanto riguarda gli strumenti
di rappresentanza in ambito regionale e locale, oltre alla provincia di Bolzano ricordiamo anche la regione
belga di Bruxelles, che prevede una quota di seggi per la minoranza fiamminga. L’ordinamento sloveno
garantisce alle minoranze autoctone la riserva dei seggi nei consigli comunali delle aree in cui tali minoranze
siano particolarmente presenti.

In Sudafrica era previsto un Parlamento tricamerale, con camere (e relativo elettorato attivo e passivo) divise su base razziale:
quella dei bianchi (178 membri), quella dei coloured (meticci che avevano parti di sangue africano ma non erano considerati neri,
85 membri), e quella degli indiani (45 membri). Il centro del potere era nelle mani dei bianchi e la grande maggioranza della
popolazione nera era esclusa del tutto dai diritti politici, mentre il sistema consentiva una rappresentanza istituzionale delle
minoranze “riconosciute”. Ogni camera era responsabile per la gestione degli affari della rispettiva comunità (in materia di cultura,
educazione, assistenza ecc.).

Oltre alla rappresentanza politica (per la formazione di assemblee elettive), vi sono numerosi esempi di
estensione delle regole della rappresentanza garantita (e non semplicemente assicurata) anche per la
composizione di organi esecutivi (governo e pubblica amministrazione) e degli organi giudiziari (con
particolare riguardo alle Corti Costituzionali e supreme). Molti sono i governi (nazionali, regionali o locali)
composti secondo un criterio di garanzia di rappresentanza dei gruppi riconosciuti, talvolta in via diretta,

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talvolta attraverso l’escamotage della rappresentanza dei territori. In provincia di Bolzano, ad esempio,
la Giunta provinciale si compone in modo proporzionale alla consistenza dei gruppi linguistici rappresentati
in Consiglio (con possibile deroga a vantaggio del gruppo ladino, che può essere presente nella Giunta anche
in deroga al criterio proporzionale), mentre nelle Giunte comunali devono sedere rappresentanti di tutti i
gruppi che abbiano almeno due consiglieri comunali. In altri casi, esiste una rappresentanza garantita estesa
anche alle amministrazioni e forze di polizie. In provincia di Bolzano, vige da tempo il criterio della
proporzionale nella pubblica amministrazione, sicché i posti di ruolo dell’amministrazione pubblica (statale,
provinciale e comunale) sono riservati a cittadini appartenenti a ciascuno dei tre gruppi linguistici,
in rapporto alla consistenza dei gruppi stessi. Sono esenti dall’applicazione del suddetto criterio le forze di
pubblica sicurezza.

Quanto agli organi giudiziari, si ricordi ancora una volta ciò che avviene nella provincia di Bolzano, in cui
esiste un ruolo speciale per la magistratura (cui si accede per concorso riservato a persone in possesso del
certificato di bilinguismo) i cui posti sono riservati ai gruppi linguistici in proporzione alla consistenza
risultante dal censimento della popolazione. Interessante anche menzionare le regole specifiche che
determinano la composizione per gruppi di alcune Corti Costituzionali o Supreme, come in Canada dove
siedono tre giudici provenienti dal Quebec e, dunque, francofoni.

Per assicurare una partecipazione efficace ai gruppi medesimi nel processo politico complessivo si va
diffondendo il ricorso ad organismi consultivi, di natura permanente o occasionale, indipendenti oppure
incardinati all’interno degli organi esecutivi o assembleari. La diffusione di questi organismi è
particolarmente significativa nell’area centro-europea e balcanica.

Conclusioni: Esiste dunque un diritto delle minoranze ad una partecipazione politica effettiva, come
richiesto dall’art. 15 Convenzione quadro del Consiglio d’Europa? La questione fondamentale riguarda il
rapporto tra uguaglianza e democrazia: se il principio di uguaglianza è interpretato soltanto in senso stretto,
come negazione di tutte le differenze al fine di garantire pari opportunità a tutti gli aventi diritto al voto,
il principio democratico si coniuga necessariamente in termini soltanto quantitativi, con la conseguente
esclusione delle minoranze strutturali della vita politica. In tale contesto saranno necessarie forme di
cooperazione tra maggioranza e minoranza che garantiscano la rappresentanza e partecipazione funzionale
di quest’ultima. In definitiva, i modelli normativi per la partecipazione delle minoranze variano da un
estremo (rappresentanza preferenziale, assicurata o persino garantita in deroga all’eguaglianza del voto)
all’altro (la garanzia di un mero divieto di discriminazione nell’applicazione di un principio generale
riguardante tutti i cittadini e non solo le minoranze), passando attraverso un’ampia gamma di soluzioni
intermedie, come ad es. il riconoscimento della soggettività giuridica dei gruppi nei procedimenti
parlamentari o la titolarità di più incisivi diritti di veto o di ricorso giurisdizionale.

INTEGRAZIONE: i modelli di rappresentanza delle minoranze variano dall’estremo della rappresentanza preferenziale, assicurata o
garantita, a quello opposto del mero divieto di discriminazione, passando per soluzioni intermedie. Richiamando la decisione della
Corte costituzionale italiana n. 261/1995, si distinguono gli strumenti di rappresentanza delle minoranze in «strumenti di
rappresentanza (politicamente) assicurata» e «strumenti di rappresentanza (giuridicamente) garantita». Tra i primi, vengono
descritti gli strumenti elettorali: i sistemi proporzionali sono considerati il sistema migliore per garantire il diritto di rappresentanza
delle minoranze, qualora non siano previste clausole di sbarramento o, se previste, sia ammessa la possibilità di una loro deroga a
beneficio dei gruppi minoritari; nei sistemi maggioritari, si fa riferimento ai criteri per la determinazione dei distretti elettorali,
richiamando, a questo proposito, la complessa vicenda del gerrymandering negli Stati Uniti. A giudizio degli autori, sono più incisivi
gli strumenti di rappresentanza giuridicamente garantita. A livello nazionale, quest’ultima si realizza attraverso la riserva di seggi
ai membri delle minoranze indipendentemente dai risultati elettorali. La riserva di seggi (o posti) può inoltre essere prevista negli
organi esecutivi (governi e apparati amministrativi), oltre che negli organismi giudiziari. Infine, si descrive lo strumento della
predisposizione di organismi consultivi, che svolgono un ruolo di intermediazione tra i gruppi minoritari e gli organi decisionali:
tali organismi, che si sono diffusi negli ultimi anni in particolare nei paesi dell’Europa centro-orientale, sono considerati, dagli autori,
particolarmente adeguati a individuare un bilanciamento tra principio democratico e diritti delle minoranze. Resta il fatto che
l’efficacia di tali strumenti è subordinata, in ogni caso, alla possibilità, per ciascun ordinamento, di selezionare i gruppi rispetto ai
quali applicare le misure, escludendo, di conseguenza, altri dal loro ambito di operatività. Si fa riferimento, in particolare, alle
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discriminazioni poste in essere in alcuni Paesi attraverso le modalità di attribuzione della cittadinanza, presupposto per il
riconoscimento dei diritti di rappresentanza politica.

Capitolo 7.

Il termine “autonomia” significa letteralmente la capacità di darsi le proprie leggi. Nei rapporti tra
maggioranza e minoranza, l’autonomia in senso ampio si riferisce a tutte le materie connesse con gli interessi
particolari di una minoranza, come ad esempio l’istituzione di scuole private gestite dalla minoranza oppure
il governo di un determinato territorio in cui vive un gruppo minoritario consistente. Il concetto di autonomia
implica nell’ambito del riconoscimento della dimensione collettiva in quanto attribuisce diritti speciali ad
una collettività di persone in quanto tale. Tali diritti collettivi si realizzano attraverso concessione di forme
particolari di autogoverno negli ambiti culturali, politici ecc. L’autonomia può essere di carattere personale o
territoriale a seconda che la titolarità dei diritti sia conferita o riconosciuta ad organizzazioni rappresentative
dei gruppi o delle minoranze (principio personale, indipendentemente dalla residenza dei membri), oppure ad
un ente territoriale (con la conseguente applicazione dei diritti all’autogoverno a tutta la popolazione
residente nel territorio, indipendentemente dall’appartenenza ad un determinato gruppo).

L’autonomia personale o culturale è basata sulla libertà fondamentale di associazione garantita a livello
costituzionale e internazionale, ed è riconosciuta ad un gruppo di persone e retta da organi o strutture
organizzative che esercitano nei loro confronti i vari diritti e poteri dell’autonomia. Pensiamo al sistema del
millet dell’Impero ottomano, il quale garantiva ad ebrei e cristiani il diritto ad una disciplina autonoma
del diritto di famiglia, al mantenimento di tradizioni, dei tribunali, delle scuole e perfino di un sistema
tributario parallelo (autonomia per comunità religiose). Titolare dell’autonomia personale è un’associazione,
vale a dire una forma giuridica (non necessariamente pubblica: pensiamo alle scuole private in lingue
minoritarie i cui titoli sono riconosciuti dalle scuole pubbliche) capace di organizzare e rappresentare un
insieme di individui. L’ambito in cui opera l’autonomia personale comprende istituzioni come scuole ed
istituzioni culturali e sociali. L’autonomia personale non deve necessariamente essere confinata ad un’unica
associazione o organizzazione. Ulteriori presupposti sono il pluralismo e la democrazia interni
all’organizzazione. Come determinare chi può diventarne membro, facendo parte della minoranza?
Una tecnica diffusa è la richiesta di una previa registrazione individuale per determinare l’appartenenza alla
minoranza. Se la dichiarazione di appartenenza ad un determinato gruppo è richiesta in occasione di un
censimento generale della popolazione, si pone il delicato problema di garantire la privacy e l’anonimato dei
dati etnici, linguistici e religiosi raccolti e di separarli da un eventuale uso individuale per determinati scopi
come l’adesione ad un’associazione per l’esercizio dell’autonomia personale. In alternativa, l’associazione o
organizzazione potrebbe raccogliere direttamente le adesioni dei propri membri, aprendo a tutti coloro che si
considerano appartenenti alla minoranza. Trattasi, in ogni caso, di adesione volontaria.

Con l’autonomia territoriale si riconosce alle minoranze un ruolo determinante nel governo di un livello
territoriale nel quale costituiscono la maggioranza o comunque una parte numericamente significativa della
popolazione. Il diritto internazionale non riconosce ancora un vero e proprio diritto sull’autonomia anche
perché la maggior parte degli Stati lo temono come primo passo verso la secessione, modificando in questo
modo i confini. Soltanto in rari casi le basi giuridiche dell’autonomia territoriale si trovano nel diritto
internazionale, soprattutto nella forma di accordi bilaterali (l’Accordo Degasperi-Gruber del 1946 sull’Alto
Adige). L’autonomia è comunque vista come strumento di maggiore efficienza nella gestione della cosa
pubblica e ad essa si ricollega il principio di sussidiarietà, secondo cui le decisioni vanno, per quanto
possibile, più vicino a coloro che sono da esse più direttamente interessati. L’autogoverno si realizza
attraverso un ente pubblico sub-statale (Comune, Province, Regioni o Stati membri in un sistema federale) e
viene generalmente costituzionalizzato nella Carta fondamentale, in uno statuto speciale oppure in una Legge
fondamentale. Senza dubbio l’autonomia si può meglio realizzare in ordinamenti che riconoscono le
diversità e, dunque, di tipo promozionale, mentre è inconciliabile con il modello repressivo e il modello

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agnostico. Nell’ordinamento multinazionale l’autonomia è garantita a tutti i gruppi costitutivi come
caratteristica strutturale, rappresentando la regola. Negli ordinamenti di tipo repressivo e in quelli agnostici
può essere necessario ricorrere a forma di autonomia territoriale qualora la diversità risulti troppo dominante.
Nel primo caso come eccezione al dominio della maggioranza, nel secondo caso come deroga al criterio di
uguaglianza formale e delle libertà fondamentali dell’individuo.

Si pensi nel primo caso alla Cina, in cui 91 milioni di persone (l’8%) della popolazione appartengono a 52 minoranze etniche
riconosciute. Seguendo un approccio di tipo promozionale, la Cina garantisce nella sua Costituzione i diritti delle minoranze, inclusi
quelli dell’autonomia territoriale. L’interpretazione restrittiva dei diritti fondamentali e il controllo del partito comunista impediscono
una soddisfacente attuazione delle disposizioni a tutela delle minoranze, nonché la loro responsabilità negli affari come dimostrano i
casi dei tibetani. Nel secondo caso si trovano, nonostante l’approccio agnostico, anche nell’ordinamento statunitense delle
differenziazioni territoriali e strutture dotate di autonomia. Godono di uno status territoriale particolare gli Stati associati agli USA
(Porto Rico e le Marianne settentrionali) sia le riserve indiane.

Al pari degli Stati, anche le autonomie territoriali hanno un proprio territorio, una popolazione ed un
controllo su di essi. L’autonomia territoriale quale strumento di tutela delle minoranze consiste nella
trasformazione di una minoranza nazionale in una maggioranza regionale, concedendole un diffuso
autogoverno sul proprio territorio di insediamento, assicurando così l’esistenza del gruppo in quanto tale.
Tra le competenze attribuite alle entità autonome ricordiamo, da una parte, quelle necessarie a garantire e
conservare l’identità minoritaria (sistema educativo, istituzioni e programmi culturali, tutela dei beni
culturali, usi e costumi, media, simboli ecc.); dall’altra parte, quelle che permettono lo sviluppo sociale ed
economico dell’entità autonoma (risorse naturali, sanità, politica sociale, trasporti, tutela dell’ambiente,
urbanistica ecc.). Nel frequente caso di una combinazione fra autonomia culturale e territoriale, la prima
categoria di competenze viene esercitata sotto il particolare controllo dei gruppi o dalle loro istituzioni
(principio personale), mentre alla seconda categoria è assoggettata l’intera popolazione residente (principio
territoriale) che può di solito partecipare a tutte le vicende politiche dell’entità autonoma, come in qualsiasi
ente territoriale attraverso un’assemblea rappresentativa ed un organo esecutivo. E’ inoltre importante che le
risorse per il funzionamento dell’autonomia siano sufficienti rispetto alle funzioni da svolgere e soprattutto
giuridicamente garantite contro possibili limitazioni unilaterali da parte del potere centrale. Si può parlare di
“cittadinanza dell’autonomia” quando la disciplina speciale, riferita a particolari diritti ed obblighi
costituzionalmente garantiti, differisca profondamente da quella in vigore nel resto del territorio statale con
riguardo alla popolazione. Si pensi alle regole che limitano il diritto di voto per chi trasferisce la sua
residenza nelle province di Bolzano (4 anni) e di Trento (1 anno). Molto importanti sono infine le garanzie
politiche e giuridiche dell’autonomia: un’autonomia legislativa è di norma ancorata e garantita a livello
costituzionale. Controversie tra Stato ed entità autonoma possono essere risolte politicamente, ad esempio in
commissioni di conciliazione bilaterali, oppure in via giudiziaria, ad esempio con dei ricorsi alla Corte
Suprema o costituzionale.

La cooperazione transfrontaliera.

Gli artt. 17 e 18 Convenzione quadro per la tutela delle minoranze nazionali promuovono i contatti
transfrontalieri per gli appartenenti a minoranze e per le loro associazioni e auspicano la conclusione di
accordi in materia tra Stati confinanti. Tali disposizioni intendono migliorare la situazione periferica delle
minoranze, permettendo contatti culturali ed economici con la madrepatria, e promuovendo rapporti di buon
vicinato tra Stati confinanti.

Art. 17: 1. Le Parti si impegnano a non interferire con il diritto delle persone appartenenti a minoranze nazionali di stabilire e di
mantenere, liberamente e pacificamente, dei contatti al di là delle frontiere con persone che soggiornano regolarmente in altri Stati,
in particolare con persone con cui hanno in comune l'identità etnica, culturale, linguistica o religiosa, o un patrimonio culturale.
2. Le Parti s'impegnano a non ostacolare il diritto delle persone appartenenti a minoranze nazionali di partecipare ai lavori di
organizzazioni non governative a livello sia nazionale che internazionale. Art. 18: 1. Le Parti si sforzeranno di concludere, ove
necessario, accordi bilaterali e multilaterali con altri Stati, in particolare con gli Stati limitrofi, per assicurare la protezione delle

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persone appartenenti alle minoranze nazionali interessate. 2. Se del caso, le Parti adotteranno provvedimenti adatti a incoraggiare la
cooperazione transfrontaliera.

A parte alcuni accordi specifici come l’ “Accordino” fra l’Austria e l’Italia del 1946 che facilitava lo
scambio di merci e la circolazione di persone tra il confine del Tirolo e l’Alto Adige, storicamente
la cooperazione transfrontaliera è iniziata negli anni ’60 con iniziative concrete di collaborazione fra enti
locali, soprattutto lungo il confine tedesco-olandese e lungo il fiume Reno. La spontanea cooperazione
iniziale si è gradualmente istituzionalizzata passando attraverso accordi quadro e programmi comuni fino alla
creazione di Euroregioni con strutture vere e proprie. Molto frequenti sono tuttavia forme privatistiche di
cooperazione transfrontaliera, sia fra associazioni che fra enti territoriali e locali. Recentemente la Comunità
ha adottato un regolamento che istituisce un apposito strumento giuridico, il GECT (gruppo europeo di
cooperazione transfrontaliera) con propria personalità giuridica. In generale queste attività si considerano
legittime quando ne risulta informato il governo centrale, mentre sono illegittimi in caso di mancata
comunicazione. Per fare cooperazione transfrontaliera ci vuole una certa maturità istituzionale oltre
all’informazione reciproca e una buona dose di fiducia a tutti i livelli (tra Stati confinanti, all’interno dello
Stato fra governi e entità o associazioni). Importanti sono gli obiettivi perseguiti se di carattere
amministrativo o economico rispetto a quelli a carattere culturale oppure simbolico.

La cooperazione fra le Province autonome di Trento e Bolzano e il Land austriaco del Tirolo è stata vista a metà degli anni ’90 con
sospetto sia da parte della Cancelleria federale austriaca sia dal governo italiano, ma anche da una parte della popolazione residente a
Bolzano (riferimenti al nome Tirolo e alla creazione del progetto Euregio con un forte grado di istituzionalizzazione che aveva
destato preoccupazioni). La Corte Costituzionale ha affermato la legittimità delle attività transfrontaliere a condizione che le
procedure nei confronti del governo centrale vengano rispettate.

L’autonomia territoriale viene oggi generalmente considerata la realizzazione interna del controverso
principio di autodeterminazione. Non esiste un vero e proprio diritto all’autonomia che i gruppi minoritari
potrebbero far valere nei confronti degli Stati. Pur mancando un diritto in tal senso, sono riconosciuti diritti
fondamentali individuali alla partecipazione politica e la loro dimensione collettiva. Dalla prospettiva dei
gruppi delle minoranze, le garanzie della propria esistenza fisica come gruppo, della propria identità distinta
(riconoscimento) e della libera ed efficace partecipazione politica sono le tre libertà minoritarie più
importanti. Se, pertanto, l’effettiva partecipazione politica continua ad essere negata alle minoranze, ed è
accompagnata da gravi discriminazioni e violazioni dei diritti fondamentali, la difesa della propria esistenza
contro un sistema opponente può diventare l’obiettivo primario di un gruppo minoritario e portarlo a
ricercare una soluzione in chiave di autodeterminazione esterna. Nel corso del 20 secolo tante nazioni hanno
raggiunto l’indipendenza attraverso l’autodeterminazione in chiave separatista, nonostante la disputa
riguardo ai limiti del principio di autodeterminazione. Non è chiaro se il principio di autodeterminazione
preveda solo un diritto a secedere e a formare uno Stato autonomo o si possa esaurire in un diritto di
autodeterminazione all’interno degli Stati esistenti. I sostenitori di un diritto alla secessione ritengono
attuabile la forma più estrema di autodeterminazione soltanto nei casi di minaccia alla sopravvivenza fisica o
all’autonomia culturale di una popolazione. Come ricordato da Albert Hirshman (1990), la questione relativa
alla partecipazione porta al bivio tra “voice” o “exit”, vale a dire, chi è stato lasciato senza voce non può far
altro che insistere sul diritto ad uscire.

In Canada, la tendenza separatista della Provincia del Quebec ha portato a due referenda sulla secessione e ad un parere della Corte
Suprema canadese. Il governo federale del Canada chiedeva alla Corte se le continue affermazioni del Quebec riguardo alla facoltà di
dichiarare unilateralmente l’indipendenza fossero giuridicamente ammissibili. Nel 1998, la Corte Suprema, all’unanimità dichiarò
non applicabile il principio internazionale dell’autodeterminazione, con la conseguenza che anche eventuali processi di secessione
devono essere guidati dalla Costituzione. Il governo federale adottò il Clarity Bill, che prevede condizioni generali per una secessione
legittima, basati su una richiesta chiara in tal senso, su una maggioranza netta in favore e in accordo con il resto del paese.

Conclusioni: non esiste una definizione univoca di autonomia, ma certamente si può ritenere che questa
abbia a che fare con una minoranza e sia il risultato di una situazione di conflitto venuta o meno (o

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semplicemente attenuata) grazia alla concessione di poteri e competenze ad una entità autonoma, dovendo
tuttavia conciliare questo obiettivo con la necessità di una sua integrazione all’interno del sistema giuridico
complessivo dello Stato.

Capitolo 8. (leggi conclusioni)

Attualmente in Europa circa 40 milioni di persone (quasi il 10% della popolazione complessiva) parlano una
lingua diversa da quella maggioritaria del proprio stato di appartenenza. Nell’Unione Europea si contano
oltre 60 lingue regionali o minoritarie che si affiancano alle 23 ufficiali. E’ un bene culturale nonché uno dei
principali elementi di differenziazione per determinare l’appartenenza ad un gruppo, nonché un fattore
identitario della madrelingua. La non identità fra comunità linguistica e comunità politica costringe
all’adozione di disposizione sulle lingue e sul loro uso a livello statale ed internazionale. La lingua spesso è
il criterio distintivo oggettivo più importante per l’individuazione e il riconoscimento di minoranze e non di
rado si produce un’equazione concettuale tra minoranze linguistiche e gruppi etnici, come nel caso
dell’ordinamento italiano, che riconosce le minoranze in base alla lingua. Esistono tuttavia problemi
definitori relativamente al concetto di “lingua minoritaria” e di “madrelingua”. Quest’ultima può essere
trasmessa dalla madre (con il rischio di incorrere una discriminazione di genere), ma potrebbe essere anche
la prima lingua imparata o la lingua che uno conosce meglio o la lingua per cui si viene identificati in un
determinato gruppo linguistico. In via generale si possono distinguere quattro categorie di lingue regionali o
minoritarie: a) lingue non maggioritarie parlate in un unico Stato (il bretone in Francia o il gallese nel Regno
Unito); b) lingue parlate in due o più Stati senza essere maggioritarie in nessuno di essi (il basco in Francia e
Spagna); c) lingue di comunità che costituiscono una minoranza nello stato di insediamento, la maggioranza
in un altro stato (il tedesco in Belgio, Italia e Danimarca); d) lingue non territoriali parlate tradizionalmente
in uno o più stati senza essere connesse con un’area determinata (il romani parlato dai Rom o lo jiddish
parlato da un consistente gruppo di ebrei).

Riassumendo: esprimersi nella propria lingua è un diritto fondamentale di tutti: la diversità linguistica è un
fattore di integrazione soggettivo per l’individuo ma anche un elemento distintivo tra maggioranza e
minoranza. Bisogna pertanto distinguere fra ambito privato e pubblico.

L’uso della lingua è un diritto fondamentale profondamente legato alla libertà di manifestazione del
pensiero. In ambito privato, è il soggetto stesso a scegliere liberamente la lingua nella quale vuole
comunicare (principio di autodichiarazione che emerge dall’art. 3 secondo comma Convenzione quadro).
L’art. 11 Convenzione quadro riconosce ad ogni persona appartenente ad una minoranza nazionale il diritto
di utilizzare il nome e suo cognome nella lingua minoritaria, nonché il diritto ad un riconoscimento ufficiale
degli stessi, secondo le modalità previste dall'ordinamento. E’ altresì previsto il diritto di utilizzare la lingua
di preferenza per cartelli, targhe e segnaletiche di natura privata. I limiti posti alla libertà di usare la propria
lingua devono essere giustificati dalla necessità di proteggere altri beni costituzionalmente rilevanti ed essere
proporzionali rispetto alla limitazione del diritto. In ambito pubblico bisogna tenere conto del principio di
proporzionalità che concretizza il bilanciamento con altri obiettivi e valori di pari rango, nonché del
principio territoriale per delimitare l’ambito di applicazione della disciplina sull’uso pubblico della lingua.
Mentre l’uso delle lingue in ambito privato viene disciplinato dalle pubbliche autorità soltanto in via
eccezionale e in modo limitato (riguardo a rapporti contrattuali e di lavoro, oppure nella privatizzazione dei
pubblici servizi) più complessa è la disciplina dell’uso della lingua minoritaria in ambito pubblico, dovendo
bilanciare il funzionamento della convivenza organizzata con la garanzia di tutela dei gruppi minoritari e il
godimento di una serie di diritti fondamentali.

Come parte del diritto della diversità, anche il diritto linguistico è una disciplina multilivello che origina dal
diritto internazionale, costituzionale e sub-statale. A livello comunitario ogni cittadino può usare ciascuna
delle 23 lingue ufficiali nel contatto con le istituzioni e tutti i testi sono tradotti in 23 lingue (i Paesi sono 27).

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Mentre la Commissione europea svolge la propria attività amministrativa interna prevalentemente in tre
lingue (inglese, francese e tedesco) e si esprime in tutte le lingue solo a scopo di informazione e
comunicazione con il pubblico. Nel Parlamento, invece, tutto il processo di preparazione dei documenti è
multilingue sin dall’inizio. Nell’ambito del diritto internazionale il divieto di discriminazione include quasi
sempre un riferimento esplicito e specifico alla lingua (si veda l’art. 1 terzo comma Carta ONU, l’art. 2
Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, l’art. 27 del Patto sui diritti civili e politici, l’art. 14 CEDU).
Il tema del diritto linguistico e dei diritti dei parlanti viene affrontato anche dal Consiglio d’Europa nella
Carta Europea delle lingue regionali o minoritarie (con il limite che si tutelano le lingue e non direttamente i
soggetti parlanti) e nella Convenzione quadro all’art. 14 (Le Parti s'impegnano a riconoscere ad ogni
persona appartenente ad una minoranza nazionale il diritto all'apprendimento della sua lingua
minoritaria. Nelle zone geografiche dove persone appartenenti a minoranze nazionali sono insediate per
tradizione o in numero sostanziale, nel caso che vi sia una domanda sufficiente le Parti faranno
in modo, per quanto possibile e nell'ambito del loro sistema d'istruzione, che le persone appartenenti a
tali minoranze abbiano la possibilità di apprendere la lingua minoritaria o di ricevere un
insegnamento in questa lingua). Nel contesto nazionale è possibile distinguere tra disposizioni
immediatamente applicabili e norme di carattere programmatico che richiedono un ulteriore intervento da
parte del legislatore. In Italia, la Costituzione non contiene una disciplina sulla lingua ufficiale dello Stato.
Lo statuto speciale del Trentino-Alto Adige, stabilendo la parificazione del tedesco, riconosce all’italiano la
natura di lingua ufficiale dello Stato.

Dimensione collettiva dei diritti linguistici: l’ambito pubblico.

La disciplina delle lingue in ambito pubblico deve considerare la dimensione oggettiva e quella soggettiva.
Prima grande partizione: a) il principio territoriale, che regola l’uso di una lingua ufficiale in un determinato
territorio introducendo dei confini linguistici e può disciplinare la parificazione di una lingua minoritaria alla
lingua ufficiale dello Stato in un determinato territorio, creando un’area plurilingue; b) il principio personale
garantisce all’individuo un diritto all’uso della lingua in quanto appartenente ad un determinato gruppo
linguistico. La dimensione collettiva dei diritti linguistici si mostra soprattutto nel suo legame con il
territorio. La toponomastica ha la funzione di rendere visibile e riconoscibile l’area di insediamento e
l’esistenza stessa della minoranza. Se le aree sono abitate da un numero considerevole di persone
appartenenti a minoranze nazionali, gli standard internazionali (specie le Raccomandazioni di Oslo)
stabiliscono che i toponimi vadano indicati nella lingua minoritaria. Nella provincia di Bolzano è stabilito
l’obbligo del bilinguismo della toponomastica, ma la Provincia non ha mai ufficializzato i toponimi tedeschi
per non accettare implicitamente quelli italiani introdotti dal fascismo. La realizzazione concreta dei diritti
linguistici può rivelarsi complessa quando si tratta di garantire l’uso di lingue minoritarie nei confronti
dell’amministrazione e nei procedimenti giudiziari. Quando una amministrazione è bi- o plurilingue, di
regola ciascuno ha il diritto di usare la lingua che preferisce nei rapporti con essa (che è obbligata a
rispondere in tale lingua). Per ragioni organizzative risultano talvolta escluse dalle disposizioni sull’uso delle
lingue minoritarie nell’amministrazione le forze armate e di polizia. Sono frequenti tuttavia le discipline che
distinguono fra la lingua di comando (che rimane unica) e quella da utilizzare nei confronti del cittadino (può
anche essere quella della minoranza). Quanto ai procedimenti giudiziari, esistono diversi modelli che
spaziano dal processo bilingue in cui è richiesta una padronanza delle lingue coinvolte da parte di tutti al
processo monolingue che pone delle eccezioni a favore della minoranza come l’interprete o traduttore.
L’art. 6 terzo comma CEDU prevede in via generale l’assistenza da parte di un interprete per realizzare
il diritto di difesa dell’accusato. Occorre, infine, notare che i diritti linguistici sono i più costosi tra i diritti
differenziali ed è anche per questo che la realizzazione risulta assai complessa.

Diritto all’istruzione della e nella madrelingua.

24
A livello internazionale l’art. 14 primo comma della Convenzione quadro garantisce il diritto ad imparare
la propria lingua minoritaria, cui corrisponde un impegno degli Stati ad offrire e organizzare l’istruzione
nella lingua minoritaria nell’area di insediamento tradizionale o se i numeri lo permettono.
Gli standard internazionali si limitano a prevedere il diritto all’apprendimento della madrelingua,
ma non impongono necessariamente un sistema educativo nella lingua medesima. Inoltre opera la clausola
generale per gli Stati, in base alla quale tale diritto è esercitabile solo in presenza di una domanda sufficiente.
Non basta dunque un solo alunno per azionare nella scuola l’insegnamento della lingua minoritaria.
Di regola, la disciplina varia a seconda dei vari livelli di istruzione con particolare riguardo alla scuola
materna (lingua del bambino) e scuola elementare e media (in cui dovrebbe essere garantita la possibilità di
ottenere l’alfabetizzazione nella lingua della minoranza e l’insegnamento degli usi, costumi. In crescita sono
i casi di istituzioni multiculturali di istruzione superiore che permettono l’uso di lingue diverse anche
nell’insegnamento universitario. In alternativa, l’art. 13 Convenzione quadro garantisce il diritto delle
minoranze all’istituzione e alla gestione delle istituzioni educative proprie (in via privata) e lo Stato conserva
però un diritto al monitoraggio.

Quattro sono, in ogni caso, i modelli scolastici: a) separatismo scolastico per garantire l’insegnamento in
madrelingua sia per la minoranza che per la maggioranza attraverso istituzioni proprie.
Nella Provincia autonoma di Bolzano è previsto l’insegnamento obbligatorio dell’italiano o tedesco,
rispettivamente come seconda lingua; b) modelli bilingue in cui l’istruzione si svolge in modo paritetico in
due o più lingue con lo stesso numero di lezioni e di importanza. L’obiettivo principale promuovere e
facilitare la convivenza interculturale (ma spesso i numeri degli allievi non sono sufficienti).
Pensiamo alla Valle d’Aosta con l’insegnamento del francese e dell’italiano; c) scuola paritetica che, a
differenza dei modelli precedenti, non si occupa di lingue di cui gli scolari sono madrelingua. Pensiamo alla
scuola ladina nelle valli ladine della Provincia di Bolzano. E’ previsto l’insegnamento del ladino nella scuola
materna, mentre alle elementari si ha insegnamento paritetico del tedesco e dell’italiano (con
alfabetizzazione scolastica di entrambe queste lingue e due ore di ladino); d) modelli misti in base al diritto
dei genitori, che privilegiano in modo assoluto il diritto di questi di determinare l’educazione dei loro figli.
In realtà l’art. 2 CEDU garantisce l’educazione e l’istruzione secondo le convinzioni religiose ed ideologiche
dei genitori e la Corte Europea non ha dedotto anche un obbligo positivo dello Stato di mettere a
disposizione determinate istituzioni scolastiche per tutelare la lingua, in quanto la lingua non rientra nelle
convinzioni dei genitori tutelate dalla CEDU; d) scuole di maggioranza con forme promozionali di
insegnamento della lingua minoritaria per venire incontro alle esigenze di gruppi esigui di allievi.
In Italia un esempio di questa categoria sono le scuole per i gruppi linguistici ladino, mocheno e cimbro nella
provincia di Trento, dove viene garantito, nei Comuni di insediamento tradizionale di tali gruppi,
l’insegnamento della lingua e cultura ladina. Nonostante in tanti paesi esistano ed operino più modelli
contemporaneamente, continuano a prevalere le scuole della maggioranza in cui insegnano nella lingua
minoritaria alcune ore o alcune materie. L’art. 12 Convenzione quadro richiede agli Stati di rafforzare le
conoscenze della cultura, storia, lingua e della religione delle loro minoranze nazionali.

In definitiva, i diritti delle minoranze si possono riassumere in quattro garanzie diverse: a) garanzia minima è
il diritto ad imparare la propria lingua minoritaria; b) diritto all’istruzione nella propria lingua minoritaria,
ponendo un obbligo positivo in capo allo Stato (compresi oneri finanziari nel sistema statale pubblico);
c) diritto all’istituzione e alla gestione di scuole private (garantire autonomamente il finanziamento);
d) obbligo statale di garanzia delle risorse finanziarie (in alcune Costituzioni).

Oltre a garantire giuridicamente i diritti linguistici e identitari, in un ordinamento promozionale lo Stato deve
impegnarsi nella promozione delle attività culturali per compensare la situazione di svantaggio in cui si
trovano le lingue e culture minoritarie. Oltre al sostegno finanziario, a teatri, corpi di danza, bande musicali,
biblioteche e centri culturali, è soprattutto la diffusione dei media in lingua minoritaria (stampa, radio e
servizi televisivi) a garantire la promozione della lingua e dell’identità del gruppo minoritario.
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Conclusioni. I diritti linguistici sono un settore particolarmente significativo per determinare il concreto
bilanciamento tra salvaguardia e sviluppo della cultura e dell’identità delle minoranze da un lato, e la loro
integrazione e partecipazione nelle società in cui vivono dall’altro. Le garanzie primaria ed essenziali
riguardano l’uso della lingua minoritaria e lo sviluppo dell’identità minoritaria. Da queste due garanzie
discendono altri diritti, fra cui quello all’istruzione della e nella lingua minoritaria, quello di utilizzare tale
lingua in pubblico e in privato, quello di ricevere e di diffondere informazioni nella lingua minoritaria e
quello di creare, utilizzare e avere accesso ai media. Per quanto riguarda l’uso pubblico della lingua
minoritaria si possono distinguere tre categorie di garanzie costituzionalmente riconosciute: diritto all’uso
del nome nella propria lingua (minoritaria), diritto all’uso (ufficiale) dei toponimi in lingua minoritaria e il
diritto all’uso della lingua minoritaria nei confronti delle autorità pubbliche, spesso con regole diverse a
seconda che i rapporti si instaurino con le autorità giudiziarie o le autorità amministrative. Il diritto all’uso
pubblico della lingua minoritaria si realizza anche attraverso la parificazione della lingua minoritaria a quella
della maggioranza in un determinato territorio. Come ricordato, la concreta attuazione dei diritti e delle
garanzie linguistiche risulta ancora sovente limitata dal problema dei costi, dal fattore numerico e della
volontà politica spesso carente. Gli standard internazionali riconoscono ampia autonomia per gli Stati nel
determinare l’intensità dell’intervento in ambito linguistico, e tuttavia sono espliciti nel promuovere un
atteggiamento promozionale a favore delle lingue minoritarie.

Capitolo 9.

I diritti religiosi sono uno snodo fondamentale per il diritto della diversità e delle minoranze.
Il concetto moderno di minoranza ed il suo rilievo giuridico sono nati in riferimento al fattore religioso.
La riforma di Lutero (1517) e la sua forte critica alle strutture ecclesiastiche segnano il punto di definitiva
rottura dell’unità medievale tra politica e religione, portando a compimento un processo di scissione tra
potere spirituale e temporale da tempo in atto. Il Sacro Romano impero della nazione tedesca si divide
tra sostenitori e avversari della riforma e, nonostante il tentativo di pacificazione attraverso l’inserimento dei
principi della parità delle confessioni e della loro territorialità (pace di Augusta del 1555 che afferma
il principio cuius regio, eius religio), la situazione degenera con la guerra dei Trent’anni, conclusa con la
pace di Westfalia del 1648, che riafferma il ruolo del sovrano nel determinare la religione ufficiale del
territorio. Da un lato, si afferma il principio di territorialità religiosa, in base al quale ogni territorio acquista
autonomamente la colorazione religiosa del rispettivo sovrano, dando vita a numerose minoranze;
dall’altro, la Germania, epicentro della guerra di religione, si troverà divisa e distrutta e sarà determinante
negli anni a seguire la sua costruzione come stato nazionale. Il processo di formazione degli Stati, iniziato
ben prima della pace di Westfalia, si era da tempo scontrato con l’ostacolo rappresentato dal potere
temporale della Chiesa. Fin dalla lotta per le investiture, la Chiesa e lo Stato si contendevano il potere,
nell’ambizione reciproca di renderlo assoluto. La nascita dello Stato moderno, assoluto e nazionale, segna
l’inizio del primato dello Stato sulla Chiesa. In Europa lo Stato nasce come contrapposizione alla Chiesa,
caratterizzandosi fin da subito come ordinamento laico. Questa separazione strutturale, pur vissuta in modo
assai diverso nelle zone cattoliche, in quelle protestanti e in quelle ortodosse, è il fattore determinante di tutta
la vicenda occidentale in relazione ai diritti religiosi. Un siffatto percorso storico è mancato in altre tradizioni
culturali, e segnatamente nell’area soggetta all’influsso della religione islamica. Mentre lo Stato occidentale
nasce come contrapposizione alla Chiesa, questo non accade in oriente, dove potere temporale e spirituale
restano strutturalmente collegati e sovrapposti.

Subito dopo la rivoluzione francese e l’inizio dell’industrializzazione nell’Europa continentale, il fattore


religioso diviene progressivamente più marginale nella società e nella politica. Per tutto il 19 e parte del 20
secolo diviene marginale nella costruzione dell’identità nazionale. L’ordinamento britannico conserva una
struttura formale di tipo medievale, mantenendo l’unione tra Chiesa e Regno, ma è assai laico nella sostanza
(anche l’ordinamento francese risulta laico). La Germania trascura il fattore religioso per l’eredità delle
guerre passate e perché è poco funzionale all’unificazione nazionale (vi è infatti una divisione tra evangelici
26
e cattolici). In Italia, poi, il processo di unificazione nazionale doveva necessariamente passare dalla
sottrazione alla Chiesa di Roma del dominio politico su vasti territori e, dunque, attraverso una guerra allo
Stato pontificio. Tra l’800 e il 900 sono altri i criteri di identificazione dei gruppi che si riconoscono come
minoranze e reclamano strumenti di tutela e differenziazione: lingua, cultura, etnia e la razza.
Ciò non significa che le minoranze religiose cessano di esistere, ma semplicemente il fenomeno religioso
diventa meno importante e meno sentito nel contesto del nation-building. Al termine della seconda guerra
mondiale, si riporta l’attenzione sulla necessità di strumenti giuridici più complessi per la tutela e
promozione dei gruppi religiosi. La risposta è essenzialmente nella tutela dei diritti individuali.
La dimensione religiosa viene definitivamente riconosciuta come fattore importante della personalità umana,
tutelando in primo luogo il diritto di professare liberamente la propria fede e le altre libertà individuali
collegate al fenomeno religioso. Il nuovo regime di libertà implica anche una rigorosa disciplina dei rapporti
tra potere pubblico e organizzazioni confessionali.

Anche i gruppi religiosi, per accedere alla tutela dell’ordinamento richiedono come precondizione
il riconoscimento giuridico. In Italia è tuttora in vigore la legislazione fascista in materia di libertà religiosa.
Se la Chiesa cattolica gode in base alla Costituzione di uno status particolare che la riconosce come ordine
indipendente e sovrano e, dunque, preesistente allo Stato (art. 7 Cost.), le altre confessioni religiose, pur
protette dalla Costituzione, richiedono un riconoscimento in quanto tali da parte dell’ordinamento.
La legge che regola le condizioni e il procedimento per il riconoscimento risale al 1929. In generale, spesso è
il legislatore ad identificare i gruppi religiosi sulla base di fattori storici, culturali e politici. E’ agevole
identificare anche in materia religiosa quattro approcci orientativi:

a) ordinamenti confessionali, che rappresentano l’equivalente in chiave religiosa del modello repressivo.
Tali ordinamenti sono costruiti su un unico paradigma religioso, reprimono le differenze religiose,
proibendone il culto. In epoca attuale, questo modello si trova soprattutto nei Paesi musulmani, a causa della
mancata tradizione di separazione tra governo e religione. Laddove il sistema giuridico è funzionale
al governo teocratico, manca la separazione tra precetto religioso e statale, con conseguente impossibilità
di riconoscimento della diversità statale.

In Arabia Saudita, si ritiene incompatibile con il regime teocratico la redazione di una costituzione scritta, in quanto essa
costituirebbe una limitazione di un potere divino di per sé illimitabile. In conformità con l’assenza stessa del concetto di Stato,
il potere è dunque tale solo in quanto religioso. L’Iran si è dotato di una costituzione scritta che fonda un ordinamento teocratico,
proclamando la shari’a quale legge suprema, affidando ad organismi politico-religiosi il controllo di conformità delle norme rispetto
ai precetti religiosi. Vi sono molti altri ordinamenti che proclamano la sottomissione della costituzione al precetto religioso.

Vi sono poi ordinamenti che, pur prevedendo una confessione di Stato (ortodossi) o riconoscendo la formale
coincidenza tra strutture politiche e religiose (Inghilterra), hanno sistemi giuridici di matrice politica, non
funzionali quindi ad una teocrazia, che riconoscono la libertà religiosa. Lo stesso vale per altri ordinamenti le
cui costituzioni operano espliciti richiami alla divinità (Germania, Polonia, Irlanda). Vi sono, infine,
numerosi contesti formalmente indifferenti al fattore religioso in cui di fatto si producono discriminazioni per
motivi religiosi (Cina).

L’ordinamento israeliano contempla elementi di tutti i modelli. Autodefinendosi uno Stato ebraico e democratico fa prevalere
tendenzialmente elementi laici, pur con continue eccezioni, che hanno portato a definire Israele come un ordinamento fondato sulla
rule by arrengement anziché sulla rule of law. Tra gli elementi confessionali ricordiamo il ruolo determinante riconosciuto ai partiti
ebrei ortodossi nella vita dei governi, l’adozione di provvedimenti volti a trattare la popolazione ebraica in modo più favorevole
rispetto agli altri. Di rilievo è la Legge di ritorno del 1952, che consente l’acquisto della cittadinanza israeliana e il diritto a trasferirsi
in Israele a tutti gli ebrei. Tra gli elementi di evidente laicismo ricordiamo le norme che esentano dall’obbligo del servizio militare sia
per gli arabi-israeliani che per gli ebrei ortodossi, Ricordiamo, infine, l’affidamento in blocco alle confessioni religiose dalla
disciplina di questioni fondamentali come il matrimonio e la giurisdizione in materia familiare.

b) ordinamenti indifferenti (laicisti), i quali negano rilievo alla dimensione religiosa nella sfera pubblica,
tutelando per contro diffusamente i diritti individuali anche in ambito religioso. Richiamandosi all’ideologia
27
liberale pura, questi ordinamenti non possono pertanto riconoscere ai diritti altra dimensione che non
sia quella individuale (non esistono gruppi di cittadini diversificati).

In Francia, la rivoluzione contro le strutture dell’ancien régime travolge inevitabilmente anche la Chiesa e il concetto di “religione di
Stato”. Nella fase post-rivoluzionaria il rapporto con la dimensione religiosa è di tipo repressivo, con una legislazione ostile alle
confessioni religiose (tranne in Alsazia e Lorena, territori che furono tedeschi tra il 1871 e il 1919, in cui Napoleone riconosceva i
culti leciti quali servizi pubblici: cattolico, luterano ed ebraico; la conseguenza era che i ministri di culto divenivano funzionari
dipendenti e pagati dallo Stato), riconoscendo la laicità nelle scuole fino ad arrivare alla legge sulla separazione tra Stato e Chiesa
del 1905. Questa legge supera la distinzione tra culti riconosciuti e non riconosciuti, interrompendo le sovvenzioni, prevedendo solo
il pagamento da parte dello Stato dei servizi di interesse pubblico resi dalle organizzazioni religiose, limitando la retribuzione dei
ministri di culto alle attività rese nell’interesse della comunità. Si afferma in modo netto il primato della libertà individuale di
coscienza rispetto alla libertà di culto ad esercizio collettivo, sottoposta al limite dell’ordine pubblico. La Costituzione del 1958, nel
ribadire il carattere laico della Repubblica, prevede l’uguaglianza dei cittadini senza distinzione di religione e il rispetto di tutte le
credenze.

Questo modello incontra inevitabilmente una serie di difficoltà, in quanto l’approccio liberale basato sulla
dimensione meramente individuale dei diritti risulta strutturalmente in difficoltà a fronte delle crescenti
richieste di riconoscimento da parte dei gruppi e di trattamento differenziale.

Pensiamo alla complessa vicenda relativa al velo che spesso le donne musulmane chiedono di indossare. A riguardo, fin dagli anni
’90 le Corti si limitavano a ribadire un principio di fondo: libertà di indossare il velo in contesti privati, proibizione in ambito
pubblico. Il legislatore nel 2005 è intervenuto riconoscendo il divieto di indossare in luoghi pubblici ogni simbolo religioso che sia
“particolarmente visibile”.

Sfide simili si pongono in altri ordinamenti che seguono la medesima impostazione a causa della segnalata
difficoltà di questi sistemi giuridici di far fronte al fenomeno della diversità.

Nell’ordinamento statunitense il primo emendamento pone due regole fondamentali: a) establishment clause e free exercise clause.
Con la prima regola si impedisce al Congresso di approvare qualsiasi legge che imponga una religione di Stato o conferisca uno
status privilegiato ad una confessione religiosa. Nel caso Lemon v Kurtzman, la Corte Suprema ha ritenuto che gli aiuti degli Stati
alle scuole religiose (in prevalenza cattoliche) violassero l’establishment clause. Viene meno la violazione se i sussidi non pongono
discriminazioni tra confessioni religiose. La seconda regola vieta di approvare leggi che limitino la libertà religiosa di ciascuno.
In ogni caso, l’ordinamento statunitense non è affatto chiuso al riconoscimento delle istanze di diversità, ma lo ammette solo in via
eccezionale e derogatoria.

Un modello ancora diverso di indifferenza religiosa si ritrova nell’ordinamento turco, anche se si stanno
registrando recentemente sviluppi assai significativi che vanno progressivamente mettendo in discussione
l’impostazione basata sulla rigida separazione tra sfera pubblica e sfera religiosa.

In Turchia, il partito più forte è di ispirazione islamica (AKP partito della giustizia e dello sviluppo) e ha aperto una sfida tuttora in
corso con le istituzioni che presidiano la laicità, come l’esercito e la Corte Costituzionale. Si alternano così politiche di attenuazione
della laicità pura volute dal governo come, ad esempio, la limitazione del divieto di indossare il velo nelle università.

c) ordinamenti promozionali (concordatari), che prendono in considerazione la dimensione pubblica del


fenomeno religioso attraverso la già ricordata tecnica del riconoscimento. Lo strumento principale è il
concordato, che consiste in un accordo tra l’ordinamento statale e la singola confessione religiosa, volto a
disciplinare i rapporti reciproci (in genere si basa su un patto di sostanziale non interferenza con gli affari
interni dell’altro soggetto.

In Italia abbiamo i Patti Lateranensi del 1929 (modificati nel 1984) che costituiscono appunto il Concordato. La Costituzione
all’art. 7 detta i principi fondamentali sul punto, stabilendo la procedura per la possibile revisione del Concordato, basata sulla
volontà concorrente dello Stato e della Chiesa. I rapporti con le altre confessioni religiose sono regolati dalle intese che assumono
la veste formale di leggi del Parlamento, benché questo si limiti a prendere atto della volontà concorrente del Governo e della
confessione in questione. Le difficoltà di trovare delle intese con la comunità islamica sono dovute al fatto che queste siano prive di
un’organizzazione di tipo gerarchico e rappresentativo. Si è tuttavia recentemente istituita una Conferenza islamica che funge da
interlocutore per il Ministero degli affari interni e assolve funzioni consultive.

28
In Germania esistono due concordati, rispettivamente con la Chiesa cattolica e quella evangelica. Lo Stato riconosce alle chiese lo
status di enti pubblici e si impegna ad esercitare alcune funzioni pubbliche per conto delle stesse. Ciascun Land mantiene un ampio
margine di scelta rispetto all’atteggiamento di fondo da tenere nei confronti del fenomeno religioso. Da tempo è in corso uno scontro
politico e giudiziario tra il Land della Baviera (guidato dalla maggioranza di ispirazione cattolica) e il Tribunale costituzionale
federale relativo all’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. Il Land della Baviera, dopo un intervento della Corte
Costituzionale tedesca, modificava una legge (che prima prevedeva l’esposizione obbligatoria del crocifisso nelle scuole elementari),
riconoscendo il diritto di scolari e insegnanti di chiedere la rimozione del crocifisso, rimanendo questo in via generale e potendo
essere rimosso solo eccezionalmente. Il Tribunale afferma che neutralità dello Stato in materia religiosa non significa rigida
separazione tra Stato e Chiese, né drastica eliminazione di qualunque simbolo religioso in ambito pubblico, ma piuttosto la garanzia
di un’ampia, aperta e generale libertà di espressione di tutte le convinzioni religiose, che deve sostanziarsi in un atteggiamento
promozionale verso tutte le religioni. Il legislatore di ogni Land può intervenire a disciplinare i limiti da porre ai riferimenti religiosi
nella scuola. Grazie a questa apertura però i Lander a maggioranza cattolica hanno approvato leggi che proibiscono nei locali
pubblici abbigliamenti che possano essere intesi da studenti e genitori non compatibili con i valori costituzionali e gli obiettivi
educativi, inclusi i valori della tradizione cristiana e occidentale. L’insegnante di fede islamica che era stato rimosso dal ruolo per
essersi rifiutato di togliere il velo durante le lezioni è stato definitivamente espulso dalla scuola.

d) ordinamenti multiconfessionali, che assumono un approccio pluralistico rispetto al fenomeno religioso,


sviluppando tecniche innovative per la conciliazione della dimensione individuale e collettiva dei diritti
religiosi. più che prevedere strumenti promozionali particolari, questo ordinamenti cercano di fare del
riconoscimento delle differenze e del loro uguale trattamento (anche in chiave collettiva) la disciplina
ordinaria. Si garantisce dunque l’esercizio collettivo di diritti di differenza come massima espressione della
libertà individuale.

La Corte Suprema canadese si è trovata a decidere il seguente caso: le autorità scolastiche della provincia dell’Ontario avevano
proibito ad un dodicenne di religione sikh di portare con sé a scolta il tipico pugnale degli appartenenti a quella religione (il kirpan).
Per la Corte Suprema la libertà religiosa incontra certamente il limite della sicurezza, la quale deve essere tuttavia ragionevole e
giustificata (altrimenti dovrebbero essere bandite anche le forbici e altri strumenti pericolosi). In una società multiculturale, fondata
sul presupposto che vi sia spazio per tutte le diversità, tutte le aspirazioni differenziali, finché non costituiscano una sproporzionata
compressione di altri principi fondamentali, i fattori di identificazione forti richiedono deroghe particolarmente forti per essere
limitati. La Corte autorizza così il ragazzino a portare in classe il kirpan purché questi accetti determinate limitazioni (il pugnale deve
essere sempre tenuto coperto sotto i vestiti).

E’ evidente che un atteggiamento multiconfessionale può manifestarsi anche con modalità diverse rispetto
agli strumenti della multiculturalità, privilegiando la convivenza non integrata ma parallela delle differenze.
Una visione multi confessionale può realizzarsi anche attraverso strumenti come il millet o il verzuiling, che
mirano a consentire lo sviluppo parallelo delle diversità religiose ma che comportano al contempo il rischio
che la dimensione della convivenza passi in secondo piano a causa della mancanza di alcuni valori
fondamentali condivisi.

Conclusioni. L’importanza del fenomeno religioso quale fattore di identificazione delle diversità non è stata
costante nel corso della storia in Occidente. L’attuale riscoperta del criterio religioso presenta problematiche
differenti rispetto a quelle delle origini: da un lato, la sovrapposizione del fattore religioso con altri elementi
differenziali, come la lingua, l’etnia ecc; dall’altro, la richiesta di risposte giuridiche soddisfacenti per
garantire la convivenza di confessioni diverse, specie nel contesto di alcuni particolari luoghi del pluralismo
quali le scuole. A partire dagli anni ’90 la questione religiosa è stata utilizzata come contenitore di
problematiche diverse e ampie: si pensi alle guerre balcaniche o al conflitto arabo-israeliano dove il criterio
religioso è servito come fomento di un conflitto che invece era etnico, nazionale e soprattutto economico e
politico. Quanto al secondo aspetto, gli strumenti del diritto promozionale e multi confessionale
vanno rapidamente diffondendosi in quanto forniscono risposte maggiormente complesse e, dunque,
più compatibili con al complessità sociale che mirano a regolare. Si moltiplicano i conflitti religiosi
soprattutto all’interno dei numerosi luoghi del pluralismo, come le scuole, le piscine, i tribunali, gli ospedali
ecc.

Capitolo 10.

29
L’ordinamento costituzionale statunitense, paradigma dei sistemi liberali classici, indifferenti alle
classificazioni collettive e al riconoscimento giuridico delle comunità, ha vissuto fasi tipiche dei modelli
segregazionisti repressivi e qualche breve periodo caratterizzato da un atteggiamento promozionale.

La Dichiarazione di indipendenza del 1776 afferma l’uguaglianza degli uomini, intendendo per questi
soltanto i maschi bianchi, i proprietari terrieri. In questo modo si escludevano le donne, gli schiavi neri e i
nativi. E’ questo un esempio di documento apparentemente indifferente alla classificazione razziale, sul
quale si celava un’impostazione nei fatti segregazionista.

La Costituzione del 1787 sembra riprendere lo stesso schema, caratterizzandosi come documento liberale
basato sull’uguaglianza formale tra individui, la cui applicazione risultava limitata ad una sola categoria di
persone, vale a dire il gruppo dominante. Le donne rimasero escluse per oltre un secolo dal diritto di voto;
nativi vennero in diversi passaggi menzionati come popolo separato; i neri, infine, vivevano in condizioni di
schiavitù. La Costituzione stabiliva che gli Stati avrebbero potuto contare gli schiavi come 3/5 di una persona
per la distribuzione dei seggi al Congresso (in questo modo si consentiva ai meno popolosi Stati del sud di
includere gli schiavi nel computo della popolazione). Il Congresso non avrebbe potuto proibire
l’importazione degli schiavi fino al 1808. Gli Stati non avrebbero potuto approvare leggi a tutela degli
schiavi fuggitivi. Si trattava di un compromesso tra Stati del nord (con un’economia commerciale e
industriale, e dunque abolizionisti) e Stati del sud (con economia agricola basata sulla schiavitù).

La Corte Suprema si fece garante dell’interpretazione per cui gli schiavi erano cose e non persone,
affermando che l’uccisione di uno schiavo non equivaleva a omicidio ma a danneggiamento alla proprietà
del padrone. Il movimento abolizionista riuscì nel 1807 a far adottare dal Congresso una legge che proibiva
l’importazione di schiavi a partire dal 1808, ossia allo scadere del limite temporale previsto dalla
costituzione.

Nel caso Antelope, in tema di status di schiavi trasportati da una nave spagnola, il giudice Marshall riteneva applicabile la norma
internazionale consuetudinaria per cui lo statu dipendeva dalla legge di bandiera della nave. Poiché la legge spagnola consentiva
il commercio degli schiavi, tale pratica doveva considerarsi legittima anche negli Stati Uniti. Nel caso di specie, alcuni schiavi
vennero ritenuti soggetti alle legge americana, venendo liberati, altri invece furono ridotti in schiavitù perché soggetti alla legge
spagnola. Simile fu il caso Amistad, in cui un gruppo di schiavi aveva organizzato una rivolta nella nave spagnola che li trasportava
in America. Poiché la legge spagnola era cambiata, rendendo illegale la schiavitù, la Corte riconobbe che gli ammutinati non
potessero essere legalmente considerati schiavi.

Altro leading case del 1842 nel caso Prigg v. Pennsylvania: la Pennsylvania aveva approvato una legge che obbligava a provare in
giudizio che uno schiavo fosse fuggitivo e dovesse essere restituito, non potendosi più avvalere della semplice presunzione.
La Corte proteggeva l’interesse del proprietario dello schiavo, privilegiando il paradigma implicito degli Stati (ogni nero è schiavo)
rispetto a quello della libertà (ogni uomo è libero).

Quando la guerra civile era ormai alle porte, la Corte Suprema cercava di salvare la situazione dando ragione
agli Stati schiavisti, affermando la c.d. teoria della white nation, in base alla quale i neri,
indipendentemente dalla loro condizione di schiavitù, non possono essere cittadini degli Stati Uniti,
ed il Congresso non ha il potere di proibire la schiavitù.

La decisione è Dred Scott v. Sandforf del 1857: Dred, schiavo di proprietà di un medico dell’esercito, si era trasferito per alcuni in
uno Stato che aveva abolito la schiavitù, credendo di aver acquistato la libertà (come previsto dalla legge dell’Illinois) e, nel
frattempo, sposandosi ma continuando a seguire il “padrone”. Quando quest’ultimo tornò al sud, Scott e la sua famiglia lo seguirono
come dipendenti. Alla morte del “padrone”, Scott volle comperare la sua libertà rivolgendosi alla moglie del defunto, la quale si
rifiutò. La Corte Suprema affermò di non avere giurisdizione perché Scott non era né un cittadino di alcuno Stato, né aveva capacità
di stare in giudizio. La Corte Suprema si spinse oltre dichiarando che i padri costituenti avevano voluto considerare gli afro-
americani come essere inferiori, indegni di essere accostati alla razza bianca.

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Nonostante la decisione in Dred Scott, la guerra civile non poté essere evitata, e la decisione rimase come
una macchia indelebile nella storia dello schiavismo. Finita la guerra civile con la sconfitta del sud
schiavista, quattro milioni di neri divennero improvvisamente liberi. Tra il 1865 e il 1870 furono approvati
tre fondamentali emendamenti alla Costituzione:

a) 13° Emendamento prevede la generalizzata abolizione della schiavitù sia in ambito pubblico che privato;

b) 14° Emendamento al primo comma, in risposta al caso Dred Scott, chiarisce che la cittadinanza degli Stati
Uniti è conferita esclusivamente dal potere centrale, e gli Stati NON possono interferire con i diritti ad essa
connessi (c.d. privileges and immunities clause); inoltre, gli Stati non possono privare le persone della vita,
della libertà e della proprietà senza che ciò sia stabilito dalla legge e siano offerte garanzie procedurali
adeguate (due process clause) e tutti gli individui sono uguali davanti alla legge (equal protection clause);

c) il 15° Emendamento, integrando il 13° Emendamento, statuisce che il diritto di voto di tutti i cittadini non
può essere limitato per motivi razziali o per precedente condizione di schiavitù.

Si deduce che questi Emendamenti, rispetto ai precedenti, servono ad imporre agli Stati il rispetto dei diritti
fondamentali e NON rappresentano, pertanto, delle garanzie contro l’espansione del potere federale.
La delicata fase del decennio postbellico (1866-1877), indicata come Reconstruction, vede l’approvazione di
importanti leggi ordinarie, prima fra tutte il Civil Rights Act del 1866, che riconosceva ai neri la capacità di
agire, in conformità con il secondo comma del 13° Emendamento. Subito dopo il Congresso adottò i
Reconstruction Acts (1867), norme assai gravose per gli Stati sconfitti, che prevedevano che questi dovessero
ratificare il 14° Emendamento per essere riammessi nell’Unione degli Stati confederati.

Durante il decennio della ricostruzione si registrò la più ampia partecipazione dei neri alla vita pubblica
(fine della segregazione razziale?). Finita la ricostruzione, venne meno la tutela del potere federale
sugli Stati del sud, i quali riacquistarono pienezza di diritti, con la possibilità di determinare le materie
fondamentali come il diritto elettorale o il diritto penale. Perché durò poco la stagione dell’integrazione post
guerra civile? motivi politici, elettorali. Sul piano politico, l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti
del repubblicano Rutherford B. Hayes nel 1877 fu accettata dai democratici del sud in cambio della promessa
del ritiro delle truppe federali dagli Stati meridionali. Senza truppe, l’incorporazione del Bill of Rights
in contesto ostile diventava assai complessa. I bianchi ripresero rapidamente il controllo sulla politica
degli Stati del Sud con la conseguente esclusione dei neri dalla vita pubblica e la Corte Suprema stessa
sembrò appoggiare il ripristino del processo di segregazione della minoranza nera. La Corte Suprema
dichiarava, infatti, che il 14° Emendamento, in quanto parte del Bill of Rights, si applicava solo a livello
federale e non agli Stati; proteggeva quindi i soli privilegi e le immunità conferiti dal legislatore nazionale,
non da quello statale. Tuttavia, si riteneva che il 14° Emendamento producesse effetti in caso di
discriminazione razziale esplicita. Nel caso Strauder v. West Virginia, la Corte ritenne che l’espressa
esclusione dei neri dalle giurie popolari, stabilita dalla legge della West Virginia, costituisse una violazione
del principio di uguaglianza previsto dal 14° Emendamento. Bastava evitare una discriminazione diretta e
immediata per motivi razziali. Un’ulteriore limitazione della portata del 14° Emendamento avvenne
nel 1883 sempre ad opera della Corte Suprema, che affermò che l’equal protection si applica solo alla sfera
pubblica e NON copre discriminazioni razziali poste in essere da soggetti privati. La Corte dichiarava inoltre
incostituzionale la legge del Congresso (Civil Rights Acts del 1875) che stabiliva il divieto di
discriminazione razziale nei rapporti interprivati. Il Congresso aveva dunque il solo potere di proibire la
schiavitù, facendo riconoscere ai neri la capacità di agire, così come stabilito dal Civil Rights Act del 1866.
La Corte successivamente cercò addirittura di fornire il fondamento logico di questa impostazione con la
c.d. teoria “separati ma uguali”: nella celebre sentenza Plessy v. Ferguson del 1886, la Corte affermò la
legittimità costituzionale della segregazione razziale nei rapporti interprivati.

31
Nel caso Plessy la Corte fu investita della questione di legittimità di una normativa che prevedeva carrozze separate per bianchi e neri
nei treni. Per la Corte, si ha discriminazione solo nel caso in cui determinati servizi vengano negati in base alla razza.
Non si ha quindi discriminazione fintanto che i servizi siano prestati ad entrambe le razze (da notare che le carrozze dei neri erano
decisamente meno confortevoli). Sotto il profilo politico, la Corte si faceva così garante del nuovo patto tra nord e sud dopo la
Recostruction per la reintegrazione degli Stati nel sud dell’Unione, che prevedeva un sostanziale riconoscimento della segregazione
negli Stati che volevano mantenerla.

Le norme segregazioniste avvallate dalla teoria “separati ma uguali” (c.d. Jim Crow Laws), che prevedevano
la separazione razziale in tutti i settori della vita sociale erano spesso accompagnate da leggi che miravano ad
escludere i neri dalla vita politica. L’interpretazione rigidamente formalistica della Corte Suprema consentiva
di aggirare lo spirito del 14° e del 15° Emendamento. Il 14° Emendamento eliminava espressamente il
criterio secondo cui gli ex schiavi potevano computarsi come 3/5 di persona per la determinazione della
rappresentanza in Congresso, e stabiliva penalizzazione per gli Stati che non consentivano ai neri di votare.
Il divieto di privare del voto in base alla razza di cui al 14° Emendamento non toglieva agli Stati il dominio
assoluto sulla materia elettorale, potendo questi produrre discriminazioni indirette per ottenere il risultato
voluto senza incorrere in censure di incostituzionalità. Queste norme avevano l’effetto di escludere di fatto i
neri dal voto senza riferisti direttamente alla razza e vennero chiamate disfranchisments.

Pensiamo alle poll taxes, contributi in danaro richiesti per poter essere registrati alle elezioni. La tassa si applicava a tutti, senza
formale distinzione di razza, ma era evidente che la popolazione, schiava fino a pochi anni prima e dunque in condizioni economiche
svantaggiate non aveva quasi mai la possibilità di pagare (solo nel 1967 fu riconosciuto l’effetto discriminatorio). Altri strumenti
analoghi erano i literacy test e interpretation test (test di alfabetizzazione e interpretazione davanti ad una commissione di soli
bianchi). Mentre l’interpretation test durò pochi decenni, quello di alfabetizzazione durò fino al 1959 quando venne dichiarato
incostituzionale. Ma il sistema più ingegnoso e perverso erano le c.d. granfather clauses, con le quali si prevedeva un arco di tempo
brevissimo e poco pubblicizzato per registrarsi come elettori. Chi non lo avesse fatto entro il termine poteva iscriversi come elettore
solo se avesse avuto il diritto di voto già prima del 1861 (prima della guerra civile – quindi solo i bianchi) o se fosse discendente di
persone che godevano del diritto di voto a quella data.

Riconosciuta l’incostituzionalità per la prima volta nel 1915, molti Stati reagirono con nuove clausole, sicché si dovette attendere
fino al 1939 perché la Corte dichiarasse l’incostituzionalità generalizzata e completa delle grandfather clauses. Il legislatore del
Texas interpretava il 15° Emendamento come riferito alle sole elezioni, NON alle primarie. Pertanto, nessuno poteva essere escluso
dalle elezioni in base alla razza, ma i partiti potevano escludere i neri dalle primarie al loro interno. Si dovette attendere il 1923
perché la Corte Suprema ritenesse incostituzionale tale norma per violazione del 14° Emendamento. I partiti continuarono a tenere
primarie per soli bianchi NON più in base alla legge, ma alla prassi, in quanto organizzazioni private. Nel 1944, la Corte cambiò
giurisprudenza, riconoscendo che i partiti sono sì organizzazioni private, ma le loro decisioni facevano parte del processo elettorale,
emergendo di fatto un interesse pubblico.

Gli effetti segregazionisti della teoria separati ma uguali durarono molti decenni. Questo non solo a causa
della composizione esclusivamente bianca degli organi politici e della Corte Suprema, ma anche per alcune
specificità dell’ordinamento giuridico statunitense. La dottrina “separati ma uguali” consentiva la rigida
separazione delle scuole con conseguente profonda disuguaglianza in termini di programmi, risorse,
edilizia scolastica, qualità di insegnamento. Nelle scuole per neri si insegnavano materie come cucina,
pulizia domestiche, lavori manuali ecc., in quelle per bianchi le discipline che preparavano a lavori più
elevati. Il primo colpo inferto da una Corte Suprema progressivamente più attenta all’uguaglianza sostanziale
venne nel 1938 con il caso Missouri et rel. Gaines v. Canada, quando la Corte ritenne che la mancata
ammissione di un nero alla Law School dell’Università statale costituiva una discriminazione illegittima in
base al 14° Emendamento. Nonostante l’importanza del precedente, l’istruzione restava di competenza
statale, sicché le prassi discriminatorie potevano nei fatti continuare.

A partire dal 1940, la National Association for the Advancement of Colored People (NAAPC) si fece
promotrice d diverse azioni legali contro il separate but equal, affidandosi ad un giovane avvocato di colore,
Thurgood Marshall. Marshall era il prodotto del separati ma uguali perché proveniva da uno Stato del sud
che non aveva Laws Schools per neri, e che, per non violare il separati ma uguali, pagava borse di studio ai
pochissimi neri che volessero accedere agli studi giuridici per recarsi a studiare negli Stati del nord.

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Questo sistema educativo fu ritenuto dalla Corte discriminatorio per violazione del 14° Emendamento perché
violava il criterio del separati ma uguali. Marshall dimostrò che il problema non era il rispetto del separati
ma uguali, ma la teoria in sé, in quanto intrinsecamente discriminatoria. La Corte considerò per la prima
volta anche gli effetti sostanziali di un siffatto sistema educativo, prendendo in considerazione elementi
come la reputazione dell’università, il suo livello scientifico-accademico, la qualità dei docenti, l’influenza
sociale. Fu così facile accertare che la separazione produceva disuguaglianza (caso Sweatt v. Painter).
Nel caso Brown v. Board of Education, Marshall si occupò di richiesta di ammissione da parte degli
studenti neri alle scuole per bianchi che erano state rigettate dalle autorità scolastiche in base al precedente di
Plessy. Facendo leva su quanto riconosciuto in Sweatt, Marshall contestò intelligentemente NON il “separati
ma uguali”, bensì i suoi effetti, dimostrando come la segregazione non può mai soddisfare il test Plessy
perché produce disuguaglianza. La Corte Suprema colse così l’occasione per superare il “separati ma
uguali”, senza dover ricorrere alla tecnica dell’overruling di Plessy, affermando che il test Plessy restava
valido, ma non poteva essere soddisfatto da prassi segregative, perché la segregazione è sempre ineguale.
Beninteso, per ottenere uguaglianza non si può ricorrere alla segregazione. In questo modo, la teoria del
“separati ma uguali” fu salvata nella forma e demolita nella sostanza. Nel 1967, Marshall diventa il primo
giudice nero della Corte Suprema.

Il caso Brown afferma il principio, ma rimane il problema relativo ai rimedi. Che fare di fronte
all’opposizione sociale e politica che la desegregazione avrebbe incontrato al sud? Sul piano rimediale, la
Corte rimase prudente, affermando che i rimedi vanno concessi dalle Corti Statali, e che l’integrazione
mediante eliminazione delle scuole separate NON può essere immediata ma va raggiunta appena possibile.
Significativa fu la decisione del Presidente Eisenhower di mandare l’esercito a Little Rock per accompagnare
a scuola cinque bambini neri per iniziare a dare attuazione al principio affermato in Brown.
Ancora una volta, la Corte rischiava di non bastare, visto che molti deputati e senatori sostenevano
l’illegittimità di Brown, cercando di screditare la Corte. I tempi erano tuttavia maturi per un intervento
politico: era la stagione dei diritti civili, della consapevolezza nera, ma soprattutto di Martin Luther King.
Il Congresso istituì una commissione per i diritti civili con un ruolo consultivo; successivamente,
affidò all’Attorney General (ministro della giustizia) il potere di sollevare casi davanti alle corti in tema di
discriminazione e, infine, approvò il Civil Rights Act (1964) e il Voting Rights Act (1965).

Il Voting Rights Act era auto-applicativo in tutti gli Stati o Comuni con cui oltre il 50% dei neri non partecipava al voto,
la determinazione dei criteri applicativi fu affidata non più agli Stati, ma all’Attorney General e dunque al governo federale,
la registrazione degli elettori poteva essere effettuata anche da funzionari federali inviati da Washington, e per modificare le leggi
elettorali gli Stati avevano bisogno del consenso del governo federale.

L’abbattimento dei disfranchisements poteva avvenire solo attraverso una concezione almeno in parte
sostanziale dell’uguaglianza. Siffatta concezione, che non riusciva ad imporsi in un ordinamento ad
impostazione liberale, necessitava di una attenta valutazione degli effetti sostanziali delle norme non solo sul
piano individuale, ma anche sul piano collettivo. E’ questa la fase storica in cui fa ingresso anche negli Stati
Uniti un ordinamento di natura promozionale. In particolare, la Corte Suprema nel 1977, nel caso Milliken
v. Bradley riconosceva per la prima volta la necessità di intervenire per eliminare gli effetti della
segregazione passata. L’eliminazione di norme e prassi discriminatorie nell’accesso all’educazione non era
tuttavia sufficiente a riportare il gruppo svantaggiato nelle stesse condizioni rispetto al gruppo di
maggioranza, perché così facendo non si teneva conto degli effetti perduranti della discriminazione passata.
Si affermò così il principio di compensazione dei torti subiti in passato, in quanto rischiavano di
ripercuotersi nel presente. Si aprì la breve stagione delle azioni positive negli Stati Uniti, una fase in cui
l’ordinamento ha funzionato quasi come un sistema promozionale. In base alla nuova logica compensativa, il
legislatore federale e statale, ma anche diversi soggetti pubblici e privati (scuole e università) iniziarono a
porre in essere politiche volte a privilegiare i gruppi precedentemente oggetto di discriminazione al fine di

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compensarli dei danni subiti e di eliminare gli ostacoli sociali ed economici che impedivano una compiuta
eguaglianza tra maggioranza e minoranza.

Alcune Università elaborarono un sistema di quote per l’accesso ai corsi a numero chiuso, al fine di ammettere un certo numero di
studenti appartenenti a minoranze (neri, asiatici, latini e nativi americani). Il sistema prevedeva due distinte graduatorie, una generale
e una speciale per le minoranze. Un candidato bianco, Alan Bakke non risultò ammesso per due anni nonostante il sue punteggio in
termini assoluti fosse molto più alto di quello di diversi candidati di minoranza ammessi attraverso la graduatoria speciale.
Con la storica sentenza Regent of the University of California v. Bakke, la Corte diede ragione al candidato escluso perché il sistema
di quote dava luogo ad una ingiustificata limitazione dell’uguaglianza formale tra individui, stabilita dal 14° Emendamento.
Da notare anche l’opinione di minoranza del giudice Powell, secondo il quale i diritti previsti dalla Costituzione sono soltanto diritti
individuali, e in nessun caso collettivi, facendo quindi riemergere l’impostazione liberale. Pertanto, è possibile compensare la passata
discriminazione, ma solo su base individuale e in base ad una dimostrazione stringente dell’interesse pubblico che si intende
perseguire, indicando con chiarezza quali possono essere gli individui beneficiari del rimedio. Negli anni ’80, la Corte ritenne
costituzionalmente legittima la legge federale sull’impiego nelle opere pubbliche del 1977 che prevedeva sussidi per le imprese
gestite da appartenenti a minoranze razziali, perché il Civil Rights Act del 1964 non proibisce in via generale le azioni positive come
rimedi contro la discriminazione, purché per finalità specifiche e rispondenti ad un interesse pubblico e in riferimento ad una serie
precisa di soggetti.

La striscia di pronunce favorevoli alle azioni positive rimediali si protrasse fino al 1986, dopo di che la
giurisprudenza della Corte, in tema di azioni positive, tornò ad essere più rigida. Nel caso Missouri v.
Jenkins del 1995 affermò che il rimedio può essere solo individuale, essendo possibile solo in relazione alla
passata segregazione e NON ad altri fattori. Quali sono dunque i criteri in base ai quali è possibile prevedere
norme promozionali, quali i limiti di queste, e quali i parametri di verifica della loro legittimità? Nell’arco di
due decenni, la Corte ha elaborato ed affinato i test di scrutinio, ossia il percorso logico che i giudici devono
seguire quando giudicano in tema di uguaglianza per valutare la correttezza delle azioni poste in essere
dal legislatore e da soggetti privati al fine di superare la discriminazione o di compensare con attività
rimediali gli effetti della discriminazione passata. Presupposto generale è che i diritti fondamentali spettano
indistintamente a tutti e, pertanto, ogni trattamento differenziato operato dal legislatore o da soggetti privati
va letto alla luce di una griglia interpretativa basata su tre gradi di gravità sospetto, con corrispondente
variazione dell’onere probatorio in capo a chi pone in essere tali norme o azioni.

1) Il caso più grave è quello delle distinzioni sospette, ovvero quelle fondate su razza, religione, etnia,
origine nazionale, e in generale quelle che incidono direttamente sull’uguaglianza. Tali classificazioni sono
sottoposte ad un sindacato penetrante, a una forte presunzione sfavorevole alla norma, con onere della prova
gravante sulla parte che ne afferma la validità, la quale sarà tenuta a dimostrare: a) stringente interesse
pubblico (compelling public interest); b) nesso di assoluta necessità tra mezzi impiegati e fine perseguito
(narrow tailoring test), che implica una triplice dimostrazione: assoluta corrispondenza tra fini perseguiti e
mezzi impiegati, adeguatezza dei mezzi rispetto al fine, ragionevolezza della misura.

2) Le distinzioni quasi sospette fondate sul sesso, sottoposte a sindacato intermedio, con onere della prova
che si intende soddisfatto se: a) sussiste interesse pubblico; b) si prova uno stretto collegamento tra mezzo e
fine, tale per cui il mezzo risulti idoneo al fine o comunque sufficiente e non sostituibile con altri mezzi
(closely related, che è qualcosa in meno rispetto al narrow tailoring).

3) In via residuale, il test si basa sulla ragionevolezza, applicato alle classificazioni non sospette (in tema di
disabilità, età ecc.), che implica la dimostrazione di un legame semplicemente ragionevole tra la disposizione
o azione e il fine legittimo. Quanto è più stretto lo scrutinio, tanto minore è la discrezionalità politica nel
porre in essere misure basate su criteri di differenziazione tra individui. Si riafferma prepotentemente il
modello liberale classico, indifferente al riconoscimento giuridico dei gruppi, per impedire il ritorno a norme
e prassi segregative che per tanto tempo hanno condizionato l’esperienza statunitense. Il legislatore o il
soggetto privato possono prevedere regole basate sulla razza, soltanto dimostrando l’assoluta necessità, e ciò
sia che intendano farlo per discriminare un gruppo sia per promuoverlo in modo da compensare
discriminazioni passate.
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In base alla giurisprudenza della Corte Suprema, il mantenimento dell’azione positiva legata alla razza è da
ritenersi oggi possibile solo se si dimostra: a) l’interesse pubblico cogente ad incrementare la diversità pro
futuro (e non per riparare passate ingiustizie, che possono dar luogo a compensazione solo nei confronti di
singoli individui); b) lo strumento adottato è il modo meno invasivo tra tutti quelli possibili per perseguire
questo obiettivo ed è ad esso adeguato e proporzionato.

Nel caso Grutter v. Bollinger, l’attrice era una studentessa bianca che si era vista rifiutare l’ammissione alla Law School, lamentando
che ciò fosse dovuto ai programmi di sensibilità razziale, volti a promuovere la diversità nell’ambito dell’università.
Secondo questo programma ogni candidato viene valutato individualmente. La Corte, applicando lo scrutinio stretto, ritiene che la
diversità del corpo studentesco rappresenti un interesse pubblico fondamentale tale da giustificare l’uso della razza quale criterio
(sia pure NON esclusivo) per l’ammissione. Positiva è inoltre la verifica del narrow tailoring, poiché i mezzi impiegati sono
adeguati allo scopo e sono i meno invasivi, e NON sono irragionevoli perché il sistema è flessibile nella misura in cui consente la
valutazione di molti criteri individuali, individualizzato (non ragione per quote ma tiene in considerazione le caratteristiche di
ciascuno, tra cui anche la razza) e limitato nel tempo (non era prevista la scadenza ma si trattava comunque di un provvedimento
temporaneo). In definitiva, la Corte ritiene che il programma di ammissione così congegnato NON sia illegittimo.

La Corte risolve diversamente il caso Gratz v. Bollinger, in cui la politica di promozione condotta da un College portava
all’attribuzione automatica di 20 punti su 100 nella prova di ammissione agli studenti appartenenti alle minoranze. Secondo la Corte,
il programma del College non supera il test, in particolare il narrow tailor, in quanto il programma non è flessibile.

Capitolo 11.

L’ordinamento italiano rappresenta un esempio paradigmatico del modello promozionale, che assume
l’esistenza dei gruppi minoritari (riconosciuti) e riconosce le loro posizioni giuridiche soggettive proprie,
distinte da quelle degli individui che vi appartengono. Tra i valori costituzionali vi è dunque il
riconoscimento e la promozione della diversità tra i gruppi riconosciuti. L’ordinamento italiano si è andato
progressivamente distinguendo dall’impostazione liberale e civica francese cui in un primo tempo si
era ispirato (con lo Statuto albertino). Sul territorio italiano convivono numerosi gruppi minoritari:
nel complesso si tratta di 2,5 milioni di persone, divisi in 12 gruppi linguistici diversi.
La questione minoritaria iniziò a porsi solo dopo la prima guerra mondiale (ricordiamo in ogni caso
la presenza di gruppi allogotti al tempo dell’unità), in seguito all’annessione dell’Alto Adige e dell’Istria,
che condusse alla formazione di due minoranze nazionali numericamente consistenti. Tuttavia, solo dopo la
caduta del regime fascista, la tutela delle minoranze divenne uno degli obiettivi principali del nuovo Stato
democratico. Ma di quali minoranze si tratta? La Costituzione ricorre esclusivamente al criterio della lingua
quale elemento distintivo delle minoranze etnico-nazionali, per la scelta di basare l’appartenenza allo
Stato italiano sul criterio oggettivo della cittadinanza (concezione civica e NON etnica dell’appartenenza).

La tutela delle minoranze storiche si fonda sul criterio linguistico, ma ciò non significa che tutte le
minoranze linguistiche siano tutelate dall’ordinamento, né che lo siano in modo uniforme.
Prima dell’approvazione della legge quadro per la tutela delle minoranze linguistiche storiche (1999),
si distinguevano le minoranze linguistiche riconosciute e non riconosciute. In seguito all’emanazione della
predetta legge, vengono riconosciute quasi tutte le minoranze storiche presenti nel territorio nazionale, sicché
oggi l’attenzione va posta sul differente grado di tutela dei diversi gruppi. Da un lato abbiamo le minoranze
superprotette che sono insediate nelle Regioni speciali dell’arco alpino (Trentino Alto-Adige,
Valle D’Aosta, Friuli-Venezia Giulia), dall’altro minoranze riconosciute a tutela eventuale, elencate nella
legge quadro, il cui diverso grado di tutela dipende dall’attivazione o meno dei vari strumenti messi a
disposizione della legge; infine, abbiamo le minoranze non riconosciute (non protette), ossia i gruppi che,
pur in possesso del requisito soggettivo della richiesta di riconoscimento quale gruppo distinto, non
presentano il requisito oggettivo del riconoscimento da parte del potere pubblico, e sono pertanto
giuridicamente irrilevanti (Sinti, Rom e minoranze immigrate).

Per comprendere l’ambito di riconoscimento e della tutela garantiti alle minoranze dall’ordinamento
costituzionale italiano, occorre in primo luogo tenere presente la fondamentale distinzione tra minoranze
35
linguistiche e minoranze di altro genere. Alle prime la Costituzione dedica un’apposita disposizione,
l’art. 6 Cost., mentre le altre, non espressamente indicate con il termine “minoranze” trovano tutela in
un’ampia serie di norme: minoranze religiose (tutelate in base agli artt. 8, 19 e 20), minoranze politiche
(libertà di manifestazione del pensiero, associazione, costituzione di partiti politici ecc.) e, infine, ricordiamo
la previsione generale del divieto di discriminazione in base al sesso, razza, lingua, religione, opinioni
politiche, condizioni personali e sociali (art. 3 primo comma Cost.). La Costituzione impone la
valorizzazione di tutte le formazioni sociali in cui si realizza la personalità dell’uomo (art. 2 Cost.),
comprese le minoranze linguistiche, che sono meritevoli di tutela costituzionale, in quanto formazioni sociali
(art. 2 Cost.), in base al principio di uguaglianza sostanziale (art. 3 secondo comma Cost.) e, infine, in
quanto minoranze linguistiche (art. 6 Cost.). L’azionabilità dei diritti delle minoranze protette è
condizionata al criterio territoriale. Ciò significa che i diritti connessi alla tutela minoritaria, proprio perché
riconosciuti in linea di massima ad un determinato territorio prima che agli individui che vi risiedono
(principio territoriale) NON sono generalmente di tipo personale. In linea con il principio affermato nella
Convenzione quadro all’art. 3, l’appartenenza alle minoranze si fonda sulla mera volontà di ogni singolo
individuo che la rivendichi. L’ordinamento italiano ha scelto di differenziare fortemente la posizione
giuridica dei diversi gruppi, adottando misure particolari per ogni minoranza con il rischio di violare
il principio del trattamento uniforme dei gruppi sociali dello stesso tipo, realizzando palesi disparità
di trattamento.

Ai sensi dell’art. 6 Cost., la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche. Quali sono le
“apposite norme”? quelle degli statuti speciali del Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta e Friuli-Venezia
Giulia e le poche leggi regionali approvate a partire dagli anni ’70. La mancata attivazione del legislatore
nazionale, da un lato, l’ostinazione della Corte Costituzione a non riconoscere qualunque possibilità di
intervento del legislatore regionale in materia, in quanto attinente al principio di uguaglianza, dall’altro,
poneva dei limiti alle garanzie di diritti minoritari dei diversi gruppi. Decisiva fu la pronuncia della Corte
Costituzionale con sent. 28/1982, che introdusse nell’ordinamento un nuovo elemento di differenziazione:
quello del riconoscimento.

Nel territorio di Trieste è insediata la minoranza linguistica slovena. Ci si chiedeva se gli appartenenti alla minoranza slovena
potessero, durante il processo penale, essere interrogati nella loro madrelingua. Per la Corte, il trattato italo-jugoslavo di Osimo del
1975 e alcune disposizioni nazionali a tutela della minoranza slovena qualificavano la popolazione di lingua slovena, insediata nel
territorio di Trieste, come minoranza riconosciuta, con la conseguenza di rendere incostituzionali tutte le norme che di fatto
impedissero l’uso della lingua materna (la norma penale che sanzionava il rifiuto di esprimersi in italiano durante il processo NON
era applicabile nel territorio di Trieste).

L’art. 6 Cost. cessa di essere una mera norma di principio e diventa fonte di diritti minoritari minimi,
immediatamente azionabili dalle minoranze riconosciute. Rimaneva tuttavia il problema di individuazione
dei criteri che consentissero di ritenere riconosciuta una minoranza anche in assenza di un esplicito
riconoscimento legislativo. I fattori fondamentali, riconosciuti dalla giurisprudenza successiva, sono gli
accordi internazionali (anche regionali e settoriali) che conferiscano diritti ad un gruppo minoritario.
Il problema del riconoscimento è stato superato con l’approvazione della legge quadro per la tutela delle
minoranze linguistiche storiche (legge 482/1999), che dà espressa attuazione all’art. 6 Cost. e ai principi
generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali. L’art. 2 legge quadro statuisce che la Repubblica
tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche greche, slovene e croate, di
quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo.
Tale disposizione opera quindi una distinzione in base all’etnia e alla lingua. Vengono così riconosciute le
minoranze autoctone minori, presenti sul territorio italiano. La legge quadro però non è direttamente
applicabile alle Regioni speciali e, pertanto, i diritti da essa attribuiti possono essere riconosciuti ai gruppi
(presenti in tali Regioni) soltanto attraverso norme di attuazione dei rispettivi statuti (art. 18).
La legge attribuisce ai consigli provinciali la competenza ad individuare i territori nei quali i diritti previsti
potranno essere applicati, stabilendo altresì il coinvolgimento dei cittadini e dei consiglieri comunali
36
appartenenti alle minoranze interessate (art. 3). La deliberazione del consiglio provinciale va adottata su
iniziativa di almeno il 15% dei cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei comuni interessati,
ovvero di 1/3 dei consiglieri comunali dei medesimi Comuni. La legge prevede una serie di diritti linguistici
e culturali attivabili in favore degli appartenenti a gruppi minoritari oggetto di tutela. In tema di istruzione
(artt. 4-6) si prevede un diritto all’educazione anche nella lingua minoritaria, in particolar modo nella scuola
materna, mentre nella scuola elementare e media è garantita la possibilità di ottenere l’alfabetizzazione,
l’insegnamento di usi, costumi e tradizioni delle comunità locali. Sono garantiti altresì l’uso pubblico della
lingua presso gli enti locali interessati, la pubblicazione in lingua minoritaria degli atti ufficiali,
fermo restando il valore legale esclusivo dell’italiano (art. 8), ed è ammesso l’uso orale e scritto della lingua
minoritaria nei rapporti con l’amministrazione (escluse le forze armate e di polizia). Un parziale diritto
all’uso della lingua è garantito anche nei procedimenti giudiziari davanti al giudice di pace. La legge prevede
la possibilità per i Comuni di adottare, in aggiunta ai toponimi ufficiali, anche quelli conformi alle tradizioni
e agli usi locali (art. 10), nonché il diritto per i cittadini i cui cognomi siano stati italianizzati di ottenere
il ripristino degli stessi in forma originaria (art. 11). Altri due principi importanti: a) impegno della
Repubblica alla valorizzazione anche dall’estero delle culture presenti sul territorio italiano, b) incentivo alla
collaborazione interregionale e trasfrontaliera finalizzata alla promozione delle culture minoritarie.
In definitiva, la legge ribadisce tre fondamentali pilastri sui quali si fonda la costituzione delle minoranze
nell’ordinamento italiano: a) criterio linguistico come elemento identificativo, b) necessità di riconoscimento
(che ha carattere generale), c) ancoraggio territoriale dei diritti riconosciuti. Infine va ricordato il principio
della limitazione della spesa in capo allo Stato per la tutela delle minoranze (massimo 10 milioni di euro
all’anno), spettando alle Regioni e agli enti locali le restanti spese per la garanzia dei diritti minoritarie
attivabili. Tra le altre disposizioni ricordiamo l’art. 122 primo comma c.p.c e l’art. 109 c.p.p, che
riconoscono il diritto all’impiego nel processo di una lingua diversa dall’italiano con l’intervento di un
interprete. L’istituzione nel 1970 delle Regioni a statuto ordinario ha aumentato ulteriormente il livello di
tutela a favore delle minoranze meno tutelate. Molte Regioni a statuto ordinario hanno previsto nei loro
statuti disposizioni a carattere generale volte a riconoscere la diversità etnico-linguistica all’interno dei
rispettivi territori.

Ad esempio, il Piemonte ha approvato norme per le minoranze franco-provenzale, occitana, il Veneto per i tedeschi e ladini, il Molise
per gruppi di origine albanese o croata, la Basilicata per gli albanesi, la Calabria per gli occitani. A partire dagli anni ’90, la
legislazione regionale di incentivazione delle culture e dei dialetti locali è aumentata in modo esponenziale: pensiamo alla Regione
Veneto che, con la legge regionale 73/1994, si è impegnata a promuovere le minoranze etniche e linguistiche presenti nel suo
territorio, riconoscendo come minoranza anche la comunità ladino-dolomitica e le piccole comunità germanofone insediate in due
soli comuni. Pensiamo alla Regione Sicilia che con una legge regionale del 1008 si è impegnata ad adottare misure per la protezione
del patrimonio storico, culturale e linguistico delle comunità di origine albanese. Il Friuli-Venezia Giulia promuove la lingua e la
cultura friulana come parte essenziale dell’identità etnica e storica della comunità regionale, disinteressandosi della minoranza
slovena, la quale può contare soltanto sulla legislazione nazionale (non a caso nel 2001 è stata adottata una legge per la tutela della
minoranza slovena, approvata sulla scia della legge quadro ed ispirata ad analoghi principi).

Domanda: A cosa è dovuto questo incremento esponenziale della legislazione regionale in tema di
minoranze? La tutela delle minoranze è una competenza oggetto di riparto o semplicemente un obiettivo
generale del potere pubblico? Inizialmente era preclusa ogni attività regionale in tema di tutela delle
minoranze presenti nel territorio delle Regioni, in quanto materia connessa al principio di uguaglianza da
garantire a livello statale (questo almeno fino alla riforma costituzionale del 2001). Il quadro normativo è
mutato partendo dall’art. 4 statuto di autonomia per il Trentino-Alto Adige (dunque in una legge di
rango costituzionale) che include la tutela delle minoranze linguistiche “nell’interesse nazionale”;
in secondo luogo l’attribuzione di importanti poteri alle Regioni in forza della legge quadro;
è mutato il quadro giurisprudenziale della Corte Costituzionale, gradualmente favorevole alla normazione
regionale; infine, è mutato il quadro costituzionale di riferimento, giacché, con l’inversione del criterio delle
competenze residue, non risultando la tutela delle minoranze compresa nelle materie soggette a competenza

37
esclusiva o concorrente, si potrebbe ritenere che tale materia sia stata trasferita alla competenza legislativa
esclusiva delle Regioni.

Secondo gli autori, la tutela delle minoranze non può considerarsi una competenza in senso stretto, quanto
piuttosto una modalità di esercizio di competenze da parte di tutti gli enti territoriali che “costituiscono al
Repubblica” (art. 114 Cost.). La tutela delle minoranze è un obiettivo a carattere regionale con una
normazione e amministrazione garantita in tutti i livelli di governo.Torniamo adesso a parlare dei diversi
gradi di tutela delle minoranze linguistiche.

Minoranze superprotette.

Per quanto riguarda le minoranze superprotette, trattasi di gruppi che costituiscono la grande maggioranze
delle popolazioni alloglotte presenti in Italia, rappresentando per molto tempo le uniche minoranze
linguistiche protette nell’ordinamento italiano. La minoranze che gode di maggiori diritti in assoluto,
nel panorama italiano, è quella germanofona dell’Alto Adige, che trova il suo fondamento ancor prima del
diritto interno nel trattato internazionale (Accordo De Gasperi-Gruber) del 1946, allegato al trattato di pace
tra l’Italia e le forze alleate del 10 Febbraio 1947. Lo statuto della Regione attribuisce alle due Province
autonome la quasi totalità della competenza, assumendo dunque un ruolo poco più che formale.
L’intero sistema istituzionale della Provincia di Bolzano è improntato sulla distinzione tra gruppi linguistici e
il riconoscimento agli stessi di una soggettività propria. La composizione degli organi regionali, provinciali
di Bolzano e comunali avviene in base ai gruppi linguistici, è ammesso il ricorso costituzionale per gruppi
linguistici e per l’elettorato attivo e passivo nelle elezioni amministrative è necessaria la residenza
quadriennale in Regione. Per quanto riguarda il pubblico impiego, lo statuto prevede che in provincia di
Bolzano i posti siano riservati a cittadini appartenenti a ciascuno dei tre gruppi linguistici in rapporto alla
consistenza dei gruppi stessi (in base alle dichiarazioni di appartenenza rese nel censimento ufficiale
della popolazione. Pertanto, i cittadini residenti nella provincia di Bolzano sono tenuti a dichiarare la propria
appartenenza ad uno dei tre gruppi linguistici (il Consiglio di Stato precisa che deve verificarsi comunque la
verità oggettiva relativamente a tali dichiarazioni; tuttavia in altre circostanze la stessa giurisprudenza
ha affermato che la dichiarazione di appartenenza non può considerarsi una dichiarazione di verità,
ma soltanto una modalità per l’allocazione dei diritti statutari).

La disciplina del censimento prevede ora la volontarietà della dichiarazione e la possibilità di cambiarla in qualsiasi momento, salvo
differimento nel tempo degli effetti della modifica per evitare dichiarazioni di comodo, con l’intento di ottenere benefici accordati
ad un determinato gruppo linguistico. Il sistema scolastico in Alto Adige è improntato al principio del separatismo (vedi supra).
Lo statuto riconosce il diritto di utilizzare l’italiano o il tedesco nei rapporti con l’amministrazione e con gli organi giudiziari e il
dovere dell’amministrazione di rispondere nella lingua richiesta. Con riguardo alla toponomastica, lo statuto prevede l’obbligo del
bilinguismo nel territorio della provincia di Bolzano e il trilinguismo nelle località ladine.

Diversa è la situazione nella Valle d’Aosta, in cui il regime di tutela minoritaria non segue il separatismo
linguistico, ma si basa sul criterio del bilinguismo diffuso. A differenza di quanto avviene in Alto Adige,
non è prescritta l’ufficialità della lingua italiana, pertanto in Valle d’Aosta è possibile che gli atti pubblici
siano redatti anche in francese, ad eccezione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Il sistema scolastico
è unico e monolingue e, pertanto, è dedicato alla lingua francese un numero di ore settimanali pari a quello
della lingua italiana. Manca in Valle d’Aosta una ripartizione tra gruppi delle cariche istituzionali, così come
un meccanismo simile a quello della proporzionale in Provincia di Bolzano, essendo previsto soltanto un
diritto di preferenza per l’assunzione di chi conosca il francese o sia originario della Regione.
Anche la toponomastica è tendenzialmente monolingue. Si ricordi che in questa Regione è diffuso anche il
walser, idioma di origine germanica, che da qualche gode di tutela e il franco-provenzale che, pur essendo di
fatto più parlata, è sottomessa istituzionalmente alla lingua francese.

Nel Friuli-Venezia Giulia e, in particolare, nelle province di Trieste, Gorizia e Udine esiste una comunità
autoctona di lingua slovena. Anche gli sloveni, come del resto i ladini, godono di una tutela differente a
38
seconda della provincia di residenza, pur trovandosi nella medesima Regione (a Udine non è riconosciuta
tutela alle popolazioni slovene salvo parziali diritti dal 2001). La comunità slovena di Trieste e Gorizia trova
il proprio riconoscimento in fonti giuridiche internazionali. Il trattato di pace con le potenze vincitrici della
seconda guerra mondiale prevedeva la costituzione di un territorio libero di Trieste, ma non fu mai attuato
per il protrarsi dell’amministrazione militare. Nel 1954 Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Jugoslavia
siglarono a Londra un “Memorandum d’intesa” che pose fine all’occupazione militare di Trieste, stabilendo
che la tutela della minoranza slovena in Italia e italiana in Jugoslavia. Nel 1963 fu approvato lo statuto
speciale della Regione, che si limita alla generica previsione della parità di diritti e trattamento qualunque sia
il gruppo linguistico al quale appartengono, con la salvaguardia delle rispettive caratteristiche etniche e
culturali. Infine, il trattato di Osimo del 1975 che regola i rapporti di confine tra Italia e Jugoslavia,
delegando agli ordinamenti dei due Paesi la tutela delle rispettive minoranze. L’uso della lingua slovena è
consentito in alcuni comuni minori delle province di Trieste e Gorizia, mentre non è previsto negli organi
provinciali e regionali. Esiste una scuola slovena con insegnamento obbligatorio dell’italiano da affidarsi ad
insegnanti aventi piena conoscenza della lingua slovena. Oltre a quella slovena, nel territorio esistono altre
minoranze linguistiche come i friulani (tutela nella legge 38/2001 e su alcuni statuti comunali e nella legge
quadro che li considera una minoranza riconosciuta), colonie di lingua ladina e tedesca.

Minoranze riconosciute a tutela eventuale.

Con l’approvazione della legge quadro, le piccole minoranze hanno ottenuto una base normativa per la loro
tutela, e possono definirsi riconosciute sebbene la concreta attuazione dei diversi diritti sia di tipo meramente
eventuale. I ladini, riconosciuti dalla legge quadro all’art. 2, si trovano territorialmente distribuiti in tre
province: Bolzano, Trento, Belluno, ma i livelli di tutela sono profondamente diversi. Da superprotette a
Bolzano, “quasi” a Trento, sono semplici minoranze riconosciute a Belluno (criterio territoriale e principio
di tutela asimmetrica). La tutela è eventuale per le difficoltà riscontrate nel dare attuazione alla legge
quadro, ma anche per la diversa sensibilità mostrata dalla classe politica locale e dalle istituzioni (università)
o per il diverso grado di interesse dei gruppi stessi.

Minoranze non riconosciute.

Non menzionate dalla legge quadro, pur in possesso del requisito soggettivo della richiesta di riconoscimento
quale gruppo distinto (non presentano dunque il requisito oggettivo del riconoscimento da parte del potere
pubblico). Ad essi non si applicano forme di tutela collettiva, ma soltanto le garanzie individuali del
principio di non discriminazione. Oltre alle popolazioni immigrate, che non si considerano minoranze
linguistiche storiche, la questione riguarda essenzialmente i gruppi Rom e Sinti. Essi, pur compresi nei
rapporti ufficiali del Ministero dell’Interno e nelle proposte di legge quadro antecedenti quella approvata
sono esclusi dalla lista delle minoranze storiche riconosciute e non possono godere di alcuno dei diritti
minoritari previsti dalla legge 482/1999. Tutto questo ha inevitabilmente attirato le critiche del Consiglio
d’Europa.

Conclusioni. L’ordinamento italiano mantiene il suo carattere asimmetrico nelle fonti e nell’intensità di
tutela. Pur nel contesto di un ordinamento a vocazione promozionale, differiscono profondamente gli
strumenti giuridici azionabili dai diversi gruppi riconosciuti. Un trattamento differenziato dei gruppi deve
ritenersi costituzionalmente giustificato in base allo stesso principio di uguaglianza, che impone di trattare in
modo diverso situazioni diverse. Il grado di diversità giuridicamente ammessa va valutato nell’ottica di un
bilanciamento caso per caso degli interessi costituzionalmente protetti e dei criteri di proporzionalità,
ragionevolezza e adeguatezza.

Capitolo 12.

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Lasciati alle spalle due imperi multinazionali del passato, quello ottomano e quello asburgico, e chiusa
l’esperienza della Repubblica federale socialista jugoslava, la grande sfida di oggi consiste nella
trasformazione degli Stati che sono emersi in ordinamenti democratici di tipo promozionale o multinazionale
(come in Bosnia-Erzegovina). Alla Repubblica sociale federale di Jugoslavia non era estraneo il principio
pluralista, che anzi veniva declinato sotto il profilo territoriale (struttura federale differenziata in
Repubbliche e province autonome), sotto il profilo linguistico (serbo-croato, latino, cirillico, sloveno,
macedone e albanese) e sotto il profilo religioso (cattolici, musulmani e ortodossi). Fin dall’inizio
mancavano al federalismo jugoslavo la volontà politica di realizzare un’unione federale effettiva e
un’organizzazione rapportabile al modello dello stato costituzionale di diritto (è questa forse la ragione della
disintegrazione dello Stato federale). I due pilastri del federalismo erano il comunismo e la nazione:
il principio comunista della concentrazione del potere vanificava la funzione essenziale del federalismo quale
strumento di separazione dei poteri, impedendo riforme democratiche o volte a introdurre il principio dello
stato di diritto.

Le Repubbliche venivano considerato come stati naturali delle loro popolazioni di maggioranza con l’eccezione della Bosnia
multinazionale (in base a criteri linguistici, religiosi, etnici). I due formanti storici in Jugoslavia erano le nazioni intese come gruppi
etnici e il partito comunista che faceva un utilizzo strumentale del federalismo per legittimare il proprio programma di composizione
dei conflitti interetnici, privilegiando l’uguaglianza e la parità tra le nazioni, compreso il diritto ad una propria Repubblica rispetto ai
diritti individuali o alla democrazia.

La crisi del partito socialista alla fine degli anni ’80 non poteva che comportare anche la crisi dello stato
federale, e il veloce deterioramento della situazione economica contribuì ulteriormente ad accelerare il
processo di dissoluzione. Nel 1990 anche i socialisti persero il potere nelle prime elezioni libere.
In molte Repubbliche il potere passò dai socialisti ai partiti nazionalisti. La legittimazione etnica si dimostrò
più forte della lealtà nei confronti dello stato federale. Nella Serbia di Milosevic si iniziò a vedere lo status
particolare delle province autonome del Kosovo e della Vojvodina come un costo insostenibile e una
minaccia alla sovranità della Serbia. Nelle altre Repubbliche prevalsero le spinte secessioniste rispetto al
potere centrale di Belgrado, che diveniva sempre più “serbo”. La Slovenia approfittò per prima
dell’occasione e dichiarò la propria indipendenza, seguita da Croazia, Bosnia e Macedonia.

Oggi i nuovi Stati dell’area balcanica, nati a seguito della secessione, non sono etnicamente omogenei,
nonostante la violenza e i tentativi di pulizia etnica. La questione dell’organizzazione della convivenza
interculturale in società multietniche si pone in un contesto giuridicamente cambiato dall’adesione ai
cataloghi internazionali della tutela dei diritti umani e delle minoranze. La Costituzione della Bosnia

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Erzegovina non prevede soltanto l’applicabilità diretta, ma perfino la supremazia assoluta dei diritti
fondamentali come elencati nella CEDU sulle altre fonti. Tale cambiamento impone, in conformità con il
disegno democratico-liberale che caratterizza le nuove forme di stato, soluzioni improntate al principio
pluralista e alle garanzie per i diritti di tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro appartenenza ad un
gruppo etnico o religioso. Nell’area balcanica troviamo le nuove minoranze nazionali, ossia i gruppi che
con la dissoluzione dell’ex Repubblica socialista federale di Jugoslavia hanno perso il loro status di popolo
costitutivo, ad esempio i croati in Serbia o i serbi in Croazia (narodi). Vi sono poi le vecchie minoranze
nazionali che erano considerate nazionalità dalla Costituzione jugoslava a causa dell’esistenza di un loro
stato di riferimento, ad esempio gli ungheresi, gli italiani, i bulgari, gli slovacchi e i romeni (narodnosti).
Un’ulteriore categoria è costituita dalle minoranze etniche, residenti in modo geograficamente concentrato
in alcune aree, e quindi da gruppi minoritari senza Stato di riferimento, ad esempio i musulmani del
Sangiaccato, gli egiziani nel Kosovo e nella Macedonia. Infine abbiamo le minoranze disperse, senza
un’area concentrata di insediamento, come i Rom. Questo già complesso quadro di gruppi minoritari nei
Balcani occidentali si complica ulteriormente considerando i casi particolari della Bosnia e del Kosovo, a
causa dell’intervento diretto della Comunità internazionale volto a garantire e promuovere attivamente la
ricostruzione delle società multietniche che esistevano prima delle guerre.

In Bosnia abbiamo tre popoli costitutivi (bognacchi/musulmani, croati e serbi) da una parte, e le minoranze (tutti i gruppi etnici
riconosciuti) dall’altra. E’ previsto uno status privilegiato per i primi con l’esclusione quasi totale dei secondi. Delicata è la questione
del “ritorno delle minoranze” con riferimento al diritto dei profughi o rifugiati di guerra (appartenenti ai popoli costitutivi) di fare
ritorno alle loro case che si trovano in aree occupate e dominate da un altro gruppo (pensiamo alla città di Srebrenica, ora nella
Repubblica di Bosnia, ma tradizionalmente a maggioranza musulmana). Nonostante la loro appartenenza ad un popolo costitutivo, i
profughi assomigliano ad una minoranza che necessita di una tutela particolare prevista dall’Accordo di Dayton con la specifica
garanzia alla restituzione della proprietà.

Per quanto riguarda il rapporto tra territorio ed etnica, si sono affermati due approcci opposti:
a) il realismo, che propone la suddivisione territoriale e la segregazione istituzionale accettando la
conseguenza dell’omogeneizzazione etnica di territori sempre più piccoli; b) l’idealismo, che ambisce alla
ricostruzione di società multietniche con gli strumenti della democrazia, dello stato di diritto e della garanzia
dei diritti umani e delle minoranze come base di una pace duratura. La negazione di un qualsiasi
collegamento tra territorio ed etnia la troviamo in Macedonia, mentre l’istituzionalizzazione territoriale delle
etnie è presente in Bosnia. Gli strumenti utilizzati sono quelli del power sharing, garantendo un’autonomia
segmentale per i gruppi in alcuni settori, una rappresentanza proporzionale, la previsione di un governo di
grande coalizione comprensivo di tutti i gruppi, la loro rappresentanza istituzionalizzata, i diritti di veto delle
minoranze.

L’ordinamento attuale della Macedonia nega espressamente ogni collegamento giuridico tra etnicità e territorio per paura della forza
disintegratrice che un’autonomia territoriale potrebbe sviluppare nel contesto attuale. La Repubblica di Macedonia punta
all’inclusione della minoranza albanese nelle istituzioni a livello statale, ma ad una forte differenziazione a livello locale.
In Bosnia Erzegovina un assetto territoriale complesso garantisce l’autogoverno dei tre popoli costitutivi. Un’importante pronuncia
della Corte Costituzionale dimostra tutta la dimensione simbolica de nesso fra territorio ed etnicità: la questione riguardava la
legittimità della decisione delle autorità della Repubblica serba di denominare ufficialmente “Sarajevo serba” un quartiere della
capitale che fa parte della Repubblica serba. La Corte, ritenendo che il processo di ricostruzione della società multietnica riguardi
tutti i livelli di governi (non solo lo Stato centrale), obbligò le due entità a modificare i nomi di tutti i Comuni che durano la guerra si
erano dati prefissi etnici per caratterizzare la loro liberazione da altri comuni. Per dare attuazione alla sentenza (chiamandola
“Sarajevo orientale”) ci è voluto l’intervento sostitutivo dell’Alto Rappresentante della Comunità internazionale.

Ordinamenti di tipo promozionale.

L’Unione tra la Serbia e il Montenegro (2002-2006) è durata pochi anni, nonostante le forti pressioni
internazionali. Con la decisione del Montenegro per l’indipendenza, approvata nel referendum del 2006,
l’Unione è stata sciolta, ma entrambi i nuovi Stati hanno mantenuto le garanzie a favore delle minoranze
previste dalla Carta per i diritti umani e delle minoranze e delle libertà civili dell’Unione del 2003.

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Sia il Montenegro sia la Serbia presentano al loro interno una ricca varietà di gruppi etnici ai quali
si applicano soluzioni giuridiche che spaziano dall’autonomia personale alla formale autonomia della
Vojvodina.

Quali sono gli strumenti a vocazione promozionale o multinazionale (nel caso bosniaco)? In Bosnia e in Kosovo è garantita la
partecipazione al governo in termini di parità tra i tre popoli costitutivi (nel primo caso), attraverso le quote (nel secondo caso).
Per quanto riguarda la rappresentanza in Parlamento, in Macedonia si usa la tecnica del ritaglio dei distretti elettorali per la
rappresentanza delle minoranze, in Bosnia esiste un sistema bicamerale, sia a livello statale sia nelle entità, con la seconda camera
destinata a rappresentare i popoli.

L’istituzionalizzazione de fattore etnico in tutti gli ordinamenti balcanici (con la parziale eccezione
dell’Albania) è frutto di un compromesso tra l’affermazione di una nazione proprietaria del territorio del
nuovo Stato e la garanzia di visibili diritti in capo ai gruppi minoritari, imposta dalla comunità
internazionale. Tale istituzionalizzazione presenta due rischi: di non essere presa troppo sul serie quando
manca la pressione internazionale (è il caso di Serbia e Croazia) e di essere presa troppo sul serie, creando
una situazione di segregazione istituzionale, di non collaborazione tra gruppi (Bosnia, Kosovo, in parte la
Macedonia). Non ci sono però alternative. L’ulteriore frammentazione territoriale in chiave etnica è
da escludere così come l’adozione del modello di stato liberale etnicamente neutrale, che rischierebbe di
provocare la discriminazione dei gruppi più deboli.

Bosnia Erzegovina, uno stato multinazionale.

A seguito dei conflitti interetnici tra il 1992 e il 1995, cessati solo


dopo un tardivo intervento militare internazionale, l’unica
possibilità di garantire temporaneamente la pace è stata la rigida
separazione istituzionale tra gruppi. L’imposizione di forme di
governo territoriale basate sulla sostanziale separazione delle
popolazioni non si concilia con il dichiarato obiettivo della comunità
internazionale di favorire il ritorno alla società multietnica che esisteva
prima della guerra. L'Accordo di Dayton, o più precisamente
il General Framework Agreement for Peace (GFAP), fu stipulato
il 21 novembre 1995 nella base Wright-Patterson Air Force di Dayton,
Ohio (USA). Con tale trattato venne messa la parola fine alla
guerra civile jugoslava. L'accordo prevede il passaggio, o meglio il
ritorno, della Slavonia Orientale alla Croazia, appartenente fino alla fine della guerra alla Serbia.
Viene riconosciuta ufficialmente la presenza in Bosnia Erzegovina di due entità ben definite: la Federazione
croato-musulmana che detiene il 51% del Territorio bosniaco e la Repubblica Srpska (49%).
Altra voce importante di questo accordo è la possibilità dei profughi di fare ritorno presso i propri paesi di
origine. Vengono facilitate e privilegiate anche le possibilità di cooperazione tra gli stati che hanno
sottoscritto l'accordo.

Va chiarito che le costituzioni delle entità erano state adottate come Costituzioni di Stati sovrani prima dell’accordo di Dayton.
La Repubblica Serba dichiarò la propria indipendenza dalla Bosnia Erzegovina nel 1992, adottando nello stesso anno la Costituzione.
La Federazione trovò la sua origine nell’accordo di Washington tra croati e bosgnacchi che con concluse la guerra croato-
musulmano; tre mesi dopo fu adottata la costituzione federale.

INTEGRAZIONE. Le due entità create sono dotate di poteri autonomi in vasti settori, ma sono inserite in una cornice statale unitaria.
Alla Presidenza collegiale del Paese (che ricalca il modello della vecchia Jugoslavia del dopo Tito) siedono un serbo, un croato e un
musulmano, che a turno, ogni otto mesi, si alternano nella carica di presidente (primus inter pares). Particolarmente complessa la

42
struttura legislativa. Ciascuna entità è dotata di un parlamento locale: la Repubblica Serba di un'assemblea legislativa unicamerale,
mentre la Federazione Croato-Musulmana di un organo bicamerale. A livello statale vengono invece eletti ogni quattro anni gli
esponenti della camera dei rappresentanti del parlamento, formata da 42 deputati, 28 eletti nella Federazione e 14 nella RS;
infine della camera dei popoli fanno parte 5 serbi, 5 croati e 5 musulmani.

L’accordo internazionale di pace di Dayton del 1995 garantisce sia la continuità internazionale della Bosnia
Erzegovina come stato multietnico, gettando le basi costituzionali per la ricostruzione dello Stato: l’allegato
4 del Trattato contiene la Costituzione dello Stato. L’accordo ha natura compromissoria ed è stato firmato
anche da Milosevic (Serbia) e Tudjman (Croazia). Trattasi di un accordo quadro contenente anche una serie
di allegati dedicati ad aspetti militari (cessate il fuoco, forza internazionale) e civili: linea di demarcazione
fra le due entità per delimitare il territorio, diritti umani, diritti dei profughi e rifugiati, servizi pubblici.
Per garantire l’attuazione civile dell’Accordo sono state previste le seguenti autorità civili: L’OCSE per
l’organizzazione delle elezioni, una Corte Costituzionale composta anche di tre giudici di nomina
internazionale, la Banca Centrale con un governatore di nomina internazionale, la Commissione per i diritti
umani con giudici internazionali, la Commissione per i ricorsi dei diritti di proprietà, l’Alto Rappresentante
e, infine la Task Force internazionale di Polizia.

L’istituzione chiave è comunque l’Alto Rappresentante, plenipotenziario della Comunità internazionale e responsabile del
coordinamento di tutte le attività civili di attuazione dell’Accordo. Ad esso spetta l’ultima parola sull’interpretazione di tutte le
questioni relative all’attuazione civile dell’Accordo. L’Alto Rappresentante dispone anche di estesi poteri sostitutivi (c.d. Bonn
Powers) che gli permettono di imporre unilateralmente leggi e provvedimenti amministrativi, nonché di destituire funzionari e
politici che ostacolano il processo di attuazione.

L’Accordo di Dayton attribuisce un riconoscimento formale alle entità etno-nazionali affermatesi con la
guerra e la pulizia etnica: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Repubblica serba. Da stati di fatto
diventano entità di uno stato federale. Mentre la Repubblica serba è un ordinamento unitario, la Federazione
è uno stato federale composto da 10 Cantoni etnicamente omogenei (salvo due cantoni che sono misti).
A queste due entità si somma il Distretto internazionale di Brcko, punto di contatto tra le entità, soggetto a
diretta amministrazione internazionale. Il risultato è una struttura istituzionale complessa, con 13 parlamenti
elettivi dotati di poteri legislativi e i relativi governi, più il distretto sopracitato. La Costituzione dello Stato
considera come “popoli costitutivi” soltanto tre gruppi: bosgnacchi/musulmani, croati e serbi (gli altri non
possono rivendicare un’entità propria). Nelle istituzioni, soprattutto a livello statale, si trovano forti garanzie
dal carattere multietnico attraverso soluzioni di democrazia consociativa o di power sharing etnico.
Lo Stato può funzionare solo con la partecipazione di tutti e tre i popoli costitutivi. DIVIDE ET IMPERA:
In conformità al principio della rappresentanza paritetica, la Costituzione prescrive una presidenza dello
Stato composta da tre rappresentanti (un bosgnacco, un serbo e un croato) con la rotazione del chairman.
Per quanto riguarda la composizione del governo, i ministri possono provenire in numero NON superiore ai
due terzi dalla Federazione di Bosnia ed Erzegovina, e i vice ministri NON possono però appartenere allo
stesso gruppo del loro Ministro. Per quanto riguarda la rappresentanza politica si segue il principio paritario,
sicché la Camera dei deputati a livello statale è composta da 42 deputati eletti in circoscrizioni separate
per un terzo dalla popolazione della Repubblica serba e per due terzi dalla Federazione di Bosnia ed
Erzegovina. La Camera dei popoli ha i membri eletti dall’Assemblea nazionale della Repubblica serba
(cinque) e dalla Camera dei popoli della Federazione di Bosnia Erzegovina (dieci). La rappresentanza dei tre
popoli costitutivi all’interno delle camere avviene con il solito schema a rotazione tra un Presidente e due
Vice-Presidenti. Il sistema è bicamerale perfetto con la necessaria approvazione di tutti i disegni e progetti di
legge da parte di entrambe le camere. Un elevato grado di autonomia decisionale in capo ai popoli costitutivi
è garantito dal trasferimento di poteri dal centro alla periferie, dunque alle due entità (da ricordare che
all’interno della Federazione di Bosnia Erzegovina troviamo 10 Cantoni).

LIMITI: i gruppi minoritari (diversi dai gruppi costitutivi) si trovano esclusi dalla rappresentanza
istituzionale, dal godimento di diritti linguistici e dalla ripartizione pro quota dei fondi. Né la Costituzione,

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né altre parti dell’accordo di Dayton definiscono le modalità di accesso alle cariche istituzionali per i
cittadini che non appartengono ad uno tre gruppi o che provengono da famiglie miste.

Il potere di veto a tutela degli interessi vitali è l’ultimo degli elementi principali dei sistemi di democrazia
consociativa. Nelle due Camere del Parlamento statale sono previsti quorum differenziati: nella Camera dei
Popoli devono essere presenti almeno nove membri (di cui tre per ogni popolo costitutivo), nella Camera
dei Deputati deve essere presente la maggioranza dei deputati. Di regola, le decisioni sono adottate a
maggioranza semplice. Tuttavia i rappresentanti delle entità dispongono di un diritto di veto sospensivo nel
caso in cui un disegno non trovi l’approvazione di tutti i gruppi (quindi un terzo per ogni popolo
costitutivo). In questo caso, il Presidente della Camera deve entro tre giorni presentare una versione
rielaborata del disegno, la quale può essere adottata con maggioranza semplice. Il veto può diventare
assoluto se nella seconda votazione due terzi dei membri rappresentanti una delle due entità votano contro
la decisione. Oltre ai diritti di veto nel procedimento legislativo, ogni potere costitutivo ha la possibilità
di arroccarsi su una posizione di blocco totale, invocando la lesione di propri interessi vitali a maggioranza
dei componenti del rispettivo gruppo di deputati. Se poi la lesione viene contestata anche dalla
maggioranza parlamentare di un altro gruppo, si istituisce una commissione comune composta da tre membri
eletti uno per ciascun gruppo con il compito di elaborare un compromesso. Se il compromesso non si
dovesse raggiungere, sarà adita la Corte Costituzionale che valuterà se il caso concreto riguardi o meno un
interesse vitale. La disciplina dei diritti di veto si estende anche alle questioni di bilancio, alla ratifica dei
trattati internazionali e del coordinamento tra Stato e le entità.

Gli elementi principali che trasformano il federalismo bosniaco in federalismo di matrice etnica sono
l’elezione diretta e separata della Presidenza, la suddivisione dell’elettorato in due gruppi corrispondenti alle
popolazioni delle entità, l’amplissima autonomia delle entità e i numerosi e invasivi diritti di veto.
In definitiva, il sistema creato dall’Accordo di Dayton è stato basato sulla sovranità etnica in luogo della
sovranità popolare. Di conseguenza, la principale lealtà di numerosi rappresentanti politici nelle istituzioni
statali non è sentita nei confronti dello Stato, ma riferita alle entità come livello principale dell’esercizio
di potere, ai popoli costitutivi che rappresentano oppure, in modo ancora più immediato, al proprio partito
nazionalistico.

La sentenza sui popoli costitutivi del 2000.

La pronuncia della Corte Costituzionale si occupa in modo dettagliato ed estensivo dei fragili equilibri nei
rapporti tra gruppi in Bosnia Erzegovina, originati dai descritti meccanismi di consociazione etnica imposti
dalla Costituzione di Dayton e resi visibili fin dalle regole sulla composizione della stessa Corte (due giudici
per ciascun popolo costitutivo e tre giudici di nomina internazionale). La Corte viene investita della
questione di costituzionalità di quelle norme presenti nelle costituzioni delle entità che impediscono la
rappresentanza di quegli appartenenti ai popoli costitutivi che si trovino in condizioni di minoranza nelle
rispettive entità: bosgnacchi e croati nella Repubblica serba, i serbi nella Federazione. Ad esempio, al
tempo del ricorso, nessun serbo veniva eletto nelle istituzioni della Federazione, né come rappresentante
della Federazione nelle istituzioni statali; lo stesso per i bosgnacchi e croati della repubblica serba.
La questione politica dietro al ricorso era chiara: è legittimo un sistema multinazionale fondato su una
tripartizione assoluta del potere lungo le linee territoriali e dunque, su tre ordinamenti mono-etnici?

La Corte, dopo aver distinto i popoli costitutivi dalle minoranze (da cui discenda l’obbligo costituzionale di
trattare in modo differenziato situazioni diverse) ha precisato l’obbligo per le entità di non discriminare quei
popoli costitutivi dello Stato che vengono di fatto a trovarsi in posizione di minoranza numerica all’interno
dei rispettivi territori (i serbi nella Federazione, bosniaci e croati nella Repubblica serba). Il principio di non
discriminazione si applica non soltanto agli individui, ma anche ai gruppi in quanto tali. La Corte elabora
così il concetto di uguaglianza collettiva tra popoli costitutivi, che osta ad ogni trattamento privilegiato

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speciale per uno o due di tali popoli, ad ogni posizione di dominio nelle strutture governative e ad ogni
omogeneizzazione etnica operata attraverso la segregazione fondata sulla separazione territoriale. Ribadendo
il diritto anche dei popoli costitutivi di minoranza nelle entità di pter partecipare allo stesso modo alla
selezione dei rappresentanti, la Corte Costituzionale stabilisce che la rappresentanza territoriale deve
ritenersi la regola, quella etnica l’eccezione (che richiede lo scrutinio stretto). Si parla di uguaglianza nei
diritti collettivi e non di diritti individuali, volendo sottolineare l’assenza di diritti preferenziali poiché
nessuno dei popoli costitutivi può essere considerato una minoranza e, dunque, non è necessaria
l’attribuzione di diritti speciali. La decisione però si concentra sulle violazioni dei diritti umani nelle entità
connesse soprattutto al diritto garantito ai profughi e agli espulsi di “ritorno volontario e reintegrazione
armoniosa senza privilegio di alcun gruppo” previsto dall’allegato settimo dell’Accordo di Pace.
Pietra angolare della ricostruzione della corte è il diritto al ritorno dei profughi che esprime la volontà del
costituente (internazionale) di imporre il modello multietnico basato sull'integrazione, secondo il sistema
anteriore al 1991, in sostituzione del sistema multinazionale basato sulla segregazione sorto in seguito alla
guerra e razionalizzato dalla stessa costituzione di Dayton. Poiché il caso bosniaco rischiava di diventare un
esempio emblematico di come un modello multinazionale possa degenerare in segregazione, la Corte aveva
sostanzialmente due opzioni: confermare il compromesso etnico con la separazione territoriale ed etnica,
oppure spingersi oltre, privilegiando l’altro obiettivo dell’accordo di Dayton: la ricostruzione del carattere
multietnico della Bosnia Erzegovina, garantendo il ritorno dei profughi. Con questa sentenza, la Corte
Costituzionale sembra essere andata oltre il testo della Costituzione. Interpretando la ricostruzione della
società multietnica come un obbligo positivo, le disposizioni dell’allegato 7 dell’Accordo di Dayton sul
ritorno dei profughi vengono utilizzate dai giudici costituenti per riconoscere la prevalenza dei diritti
internazionali dell’uomo sulla Costituzione, fermo restando che la prescrittività della Costituzione stessa
deriva da principi extra-costituzionali.

La decisione della Corte è stata fortemente criticata dalla maggior parte dei partiti serbi e croati, e salutata
positivamente dai partiti bosgnacchi e dalla Comunità internazionale. Nel gennaio del 2001 furono istituite
delle Commissioni costituzionali in entrambe le entità con il mandato di elaborare le proposte per le
modifiche costituzionali rese necessarie per l’attuazione della sentenza. I lavori delle Commissioni non
portarono però a nulla. L’Alto Rappresentante della Comunità internazionale è poi intervenuto imponendo
unilateralmente le modifiche alle Costituzioni delle entità necessarie per adeguarle ai principi stabiliti nella
sentenza della Corte Costituzionale. Il contenuto principale di tali modifiche costituzionali si riferisce al
riconoscimento dei bosgnacchi, dei croati e dei serbi come popoli costitutivi in entrambe le entità.

La difficile attuazione della sentenza ha riaperto il dibattito sulla necessità di modificare il sistema di Dayton
come presupposto essenziale per ripristinare una società multietnica. Da un lato la Comunità internazionale e
settori politici minoritari in Bosnia spingono verso una rielaborazione del patto costituzionale che operi un
diverso bilanciamento tra dimensione etnica e dimensione democratica; dall’altro continua a mancare il
supporto della maggioranza della classe politica bosniaca, ancora legata a categorie nazionalistiche.

La prospettiva dell’integrazione europea è diventata il punto focale del processo di stabilizzazione dell’intera
regione. A partire dal 1995, con la fine della guerra in Bosnia, gli obiettivi dell’Unione europea si sono
indirizzati verso la pacificazione e stabilizzazione dell’area attraverso lo sviluppo economico e sociale e una
progressiva integrazione dei Paesi balcanici nel sistema europeo. Il sistema di condizionalità dell’Unione
europea esercita una forza peculiare nella regione. A Croazia e Macedonia è stato riconosciuto nel 2005 lo
status di candidati all’adesione, mentre sono stati conclusi accordi di stabilizzazione e di associazione con
altri Paesi balcanici. Quattro sono le condizioni poste dall’Unione europea: a) principi democratici, b) diritti
dell’uomo e dello stato di diritto; c) rispetto delle minoranze e la loro protezione; d) economia di mercato.

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