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Smile Machines: umorismo, arte e tecnologia a Berlino

La berlinese Transmediale è stata inaugurata nel 1988 come festival video (al tempo si chiamava
VideoFest), salon des refusés della Berlinale, il celebre Berlino Film Festival. Nei primi anni '90 il
festival ha cominciato a presentare lavori interattivi e su CD rom, ed ha continuato, fino ad oggi, ad
essere un punto di incontro tra l'arte, i media, la tecnologia e la relativa produzione teorica.
La mostra Smile Machines, (Accademia di Belle Arti di Berlino, fino al 19 marzo 2006) curata da
Anne-Marie Duguet, professore all'università Paris 1, rappresenta una novità per l'edizione 2006 di
Transmediale: paradossalmente, l'innovazione risiede proprio nella visione consapevolmente storica
della mostra, che comprende, a lato delle opere più attuali, Fluxus, Muntadas, Paik ed alcuni esempi
di videoarte storica degli anni '70.
In questa prospettiva, la mostra va oltre l'originaria marginalità di un genere che ormai non ha più
bisogno di ripiegarsi su se stesso in cerca di legittimità artistica, ma può articolare un discorso
complesso sulle questioni centrali dell'industria culturale e mediatica contemporanea.

In questa occasione, si tratta di Smile Machines: esistono macchine che ridono, o macchine che
fanno sorridere? Tra la razionale funzionalità macchinica e l'umorismo, il riso, espressioni
unicamente umane, esiste uno spazio di convivenza?
È George Maciunas, artista lituano legato a Fluxus, che nel 1971 crea un'opera che si intitola,
appunto, Smiling Machine. Si tratta di un piccolo strumento a molla, da infilare in bocca: come
mostra l'immagine esplicativa sulla confezione, il piccolo apparecchio mette in mostra i denti e
mantiene fisso il sorriso. Le macchine di Smile Machines ci mostrano senza sotterfugi il loro lato
umano, e come gli umani anch'esse hanno hanno delle famiglie e delle simpatie. La discendente
dello strumento meccanico di Maciunas è un'installazione di Christian Möller, Cheese. Nell'albero
genealogico che collega queste due opere serpeggia l'attuale e sempre più sofisticata
modellizzazione del desiderio e dei comportamenti. Möller ha chiesto a sei attrici di sorridere di
fronte ad una telecamera il più a lungo possibile; il loro sorriso è stato osservato e registrato da un
sistema che riconosce la sincerità del sorriso, e che segnala, con un allarme, il calo di spontaneità
(una tecnologia di “emotion detection” elaborata dalla University of California). Su sei schermi
possiamo rivedere le attrici e il segnale grafico che controlla la loro “performance emozionale”:
assistiamo così all'ammaestramento del sorriso attraverso la macchina dei mass media. Siamo
testimoni di un atto simbolico che rappresenta l'enorme pressione – esercitata soprattutto sulle
donne – che impone di mantenere una perenne immagine mediatica di felicità e buon umore.
Cheese e Smiling Machine sono due macchine che costringono a ridere, che sovrappongono e
impongono il riso macchinico su quello umano. La loro ironia è in realtà acida ed impietosa: il
“sorriso” della donna fotografata sulla scatola che contiene la Smiling machine di Maciunas è un
ghigno forzato; i lineamenti contratti delle attrici di Cheese mostrano uno sforzo doloroso che quasi
richiama alla mente le performance della body art degli anni '70 in cui gli artisti esploravano i limiti
estremi delle loro possibilità fisiche. Oggi si tratta piuttosto di testare fino a dove può giungere la
finzione della felicità dei modelli imposti, o meglio di forzare le crepe della realtà mediatica
spingendone la logica alle estreme conseguenze, oppure osservandola da un punto di vista nuovo e
falsamente ingenuo, o rivestendola di poesia.
Naturalmente fra le opere, anche in vista della prospettiva storica, non può mancare un riferimento a
Nam June Paik, che è presente con il suo TV Rodin. Si tratta di un'installazione a circuito chiuso:
una miniatura in bronzo della celebre statua di Rodin – Il Pensatore – guarda la sua stessa
immagine trasmessa in uno schermo televisivo, e l'immagine dello spettatore che viene ripreso se si
pone alle sue spalle. Paik dichiarava, a proposito del suo lavoro: “I make technology ridiculous” .
La tecnologia di Paik non si impone all'umano, ma si rende ridicola. Ridicola perché inutile, fuori
luogo, ridondante e giocosa, come una statua che si guarda - pensosamente - in TV. Coi suoi
bricolage Paik svuotava la tecnologia della sua essenza.
Parlando di Paik, si parla spesso di “tecnologia umanista”: e forse proprio nel ridicolo risiede
l'aspetto più umano dei due robot presentati a Berlino, Petit Mal di Simon Penny e The Helpless
Robot di Norman White. Anch'essi, come il Pensatore di Paik, hanno ormai qualche anno di storia
alle loro spalle. Sono inutili, inaffidabili, e, anche se sono molto diversi, non hanno niente a che
vedere con i robot antropomorfici (anch'essi, però, spesso trasformati in personaggi umoristici).
Petit Mal è un'esile struttura mobile rivestita di tappezzeria a fiori, una specie di piccola sedia a
dondolo, dotata di due telecamere – due occhi – che ne influenzano i movimenti a seconda del
comportamento di chi si avvicina. Appena si entra in contatto con la sua sfera visiva, Petit Mal
comincia a muoversi dondolare arretrare girare in tondo; nell'esposizione abita dentro ad un piccolo
recinto, e i suoi movimenti ricordano quelli di un piccolo animale agile, curioso e un po' timido di
fronte agli umani. Proprio come quello di un animale, e di un uomo, il suo comportamento non è del
tutto prevedibile: Petit Mal infatti, in gergo neurologico, è un termine che indica un'assenza di
coscienza di qualche secondo. Petit mal è una macchina fragile e debole, un errore: non a caso, una
delle conferenze di Transmediale si intitolava “Mistakology” (scienza, teoria degli errori) e
affrontava il tema della possibilità di una tecnologia aliena rispetto ad una società che si basa
sull'ideologia della competizione, dell'efficienza a tutti i costi: naturalmente, una tecnologia
fallimentare e umoristica, che però riesca a opporre resistenza alla spirale vorticosa del progresso e
dell'obsolescenza programmata.
The Helpless Robot, un grande e pesante parallelepipedo dotato di maniglie (una sorta di bara) è
dotato di una querula voce femminile. Quando il visitatore lo avvicina, questo robot che, come ci
dice il suo nome, è debole ed impotente, intrappolato nella sua mole pesante, comincia ad
enumerare una serie di richieste standard (spostami a destra, a sinistra, più veloce, ecc). Più lo si
asseconda, più diventa dispotico; la tentazione di dargli una spinta per vederlo girare su se stesso
diventa sempre più forte; ma in realtà è un'interazione più sottile – fatta di disobbedienze, di
movimenti brevi, di assenze)- l'unico modo per scoprire la vastità del suo vocabolario, composto da
più di 250 frasi in 3 lingue.

Nelle parole degli artisti, dei curatori, dei filosofi che hanno partecipato a quest'ultima edizione di
Transmediale.06 si udivano molto spesso termini presi in prestito al lessico militare (strategie
critiche, tattiche di sovversione...) In un testo del catalogo, Andreas Broeckmann, che da 5 anni cura
le linee editoriali del festival, sostiene che la creazione di macchine “dis-funzionali” sia un modo
per ribaltare il rapporto secondo il quale l'uomo, che ha creato le macchine per dominare il mondo,
ne è in effetti dominato: una decostruzione della connessione tra potere e tecnologia, non-violenta
ma comunque guerresca. Broekmann cita la favola del piccolo sarto dei fratelli Grimm: il sarto,
malgrado sia debole e piccolo, grazie alla sua astuzia e alle sue conoscenze, riesce a sfruttare in
modo flessibile quelli che potrebbero sembrare ostacoli, come la sua piccola statura. Quando il sarto
sfida il gigante, spreme un pezzo di formaggio anziché una pietra, e lancia un uccellino invece di un
sasso, perché a differenza del gigante sa che l'uccello vola e il formaggio è morbido: il suo punto di
forza consiste nell'utilizzare consapevolmente queste “tecnologie” in un modo diverso da quello
“normale”, comune. L'utilizzo artistico di un lessico polemologico porta necessariamente ad
interrogarsi sulla questione del ruolo dell'artista, che sembra quasi scivolare verso una nuova fase
dell'impegno politico, nelle vesti di piccolo sarto-artigiano e bricoleur contro il gigante della società
contemporanea.
In realtà, in molte pratiche artistiche, anche fra quelle presentate a Transmediale, è insita una
derisione della missione salvifica attribuita ciclicamente all'arte: ad esempio, nel progetto GWEI -
Google Will Eat Itself, finalista alla premiazione finale. Attraverso i soldi ricavati da Google stessa
da una rete di “Google ads” (inserti pubblicitari) in una serie di siti fantasma, il collettivo artistico
Ubermorgen compra ogni mese qualche azione di Google, che mette poi a disposizione di chiunque
voglia diventarne titolare (il loro sito è www.gwei.org). Il collettivo possiederà Google tra
3.443.287.036 anni.
Simili atti di implicazione critica e divertita nel mondo delle tecnologie sono esempi di nuove forme
di appropriazione e riflessione, ma anche di derisione delle coraggiose prodezze e dei sottili
stratagemmi dell'artista, chiamato ad indossare i panni di Davide contro Golia; allo stesso tempo,
attraverso questa stessa demistificazione, tali pratiche artistiche possono dimostrare il loro potere:
perché “difendere la possibilità dell'ironia, dello scherzo, della presa in giro, significa sempre
difendere un pezzetto di libertà”.

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