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L’entità della contribuzione necessaria ad ottenere una determinata prestazione pensionistica integrativa futura
cresce in relazione al ritardo con cui si decide di ricorrere alla pensione complementare.
Dalla tabella seguente si evince che, ad esempio, pensare a 35 anni alla pensione integrativa sarebbe molto
meno oneroso che pensarci con 15 anni di ritardo, ossia a 50 anni. Infatti, per garantirsi un flusso reddituale
integrativo futuro del 30%, nel primo caso è necessario destinare a questo scopo il 7,2% del reddito, nel secondo
caso (ossia a 50 anni) è necessario destinare il 22,2% del reddito.
10 20 30 40 50
Sotto diversi i punti di vista la previdenza complementare è una scelta migliore rispetto a mantenere il TFR in
azienda:
z rendimento annuo più alto (3% del TFR contro il 6,3%* dei Fondi/FIP);
z eventuale contributo del datore di lavoro (se previsto dagli accordi aziendali);
z vantaggi fiscali:
I versamenti periodici sono deducibili ai fini dell’imposta dei redditi (IRE) nei limiti di un plafond massimo
annuo di Euro 5.164,57. Inoltre, l’imposta sul capital gain realizzato annualmente dalle forme integrative è
pari all’11% contro il 12,50% (attuale) dei prodotti finanziari non finalizzati a coperture previdenziali. Per di
più, al momento in cui si va in pensione la rendita vitalizia e il capitale saranno soggetti ad un’aliquota fiscale
massima del 15% (e non pari all’aliquota IRE). Dopo 15 anni di adesione a una forma pensionistica
complementare, poi, l’aliquota si riduce dello 0,30% annuo (fino a un limite massimo del 9% di tassazione),
cosa che rende ovviamente ancora più conveniente “pensare per tempo” alle coperture previdenziali.
https://www.bancaroma.it/site/professionisti/previdenza/esempio.html 02/11/2007