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Antonio Montanari

La presenza degli Ebrei


a Rimini
dal 1015 al 1799

Rimini. La piazza della fontana com’era avanti il 1583,


particolare tratto dall’incisione di Giorgio Braun, stampata
nel 1593.
In primo piano c’è l’isolato che la chiudeva verso l’attuale
corso d’Augusto con la chiesa di San Silvestro demolita in
quell’anno. Da essa prendeva nome il tratto di strada che
costeggiava le case dal lato della fontana.
Dopo il 1583 anche quel tratto si chiama «rivolo della
fontana» come l’altro pezzo di strada verso le mura ed il
Castello. Il ghetto ebraico (1555) è ben visibile nell’ultimo
isolato sulla sinistra.
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 2

Primo capitolo

1548, Rimini anticipa il ghetto ebraico


Sette anni dopo c’è la «bolla» di Paolo IV

Il 22 luglio 1548 il Consiglio generale della città obbliga gli Ebrei


riminesi a non abitare fuori delle tre contrade dove già si
trovavano. Si anticipa così il provvedimento di papa Paolo IV
che con la «bolla» intitolata «Cum nimis absurdum» del 17 luglio
1555 istituisce il ghetto in tutto lo Stato della Chiesa seguendo il
modello realizzato nel 1516 dalla Serenissima Repubblica di
Venezia. La «bolla» pontificia induce la nostra Municipalità il 20
agosto 1555 a delimitare la zona in cui agli Ebrei è permesso
risiedere, ovvero la sola contrada di Sant’Andrea
corrispondente all’odierna via Bonsi, in un tratto che va
dall’angolo degli attuali Bastoni Occidentali (detti allora «Costa
del Corso») sino all’oratorio di Sant’Onofrio. All’inizio ed alla fine
del ghetto sono posti due portoni.

Sulla base della pianta della città pubblicata nel volume Rimini di Gobbi-Sica (Roma-Bari 1982, p. 42),
con le chiese cittadine nel XIII secolo (indicate con numeri arabi), abbiamo inserito con le lettere
dell’alfabeto i richiami alle strade legate alla storia ebraica locale:
A. Contrada di Sant’Andrea, poi dal 1615 via Sant’Onofrio (omonimo oratorio, n. 37) e quindi via dei
Bottari, attuale via Bonsi.
B. Contrada di San Giovanni Evangelista o degli Hebrei (via Cairoli).
C. Strada del «Rivolo della Fontana» (o «del Corso»), dalla piazza del Castello (nel lato di Levante) sino
alla piazza della fontana (Cavour). La via dalla piazza Cavour alla piazza Tre Martiri, era la strada
Maestra od anche via Regia.
D. Contrada di Santa Colomba, dalla piazza Cavour verso Sant’Agostino (n. 32), detta anche contrada di
San Gregorio da Rimini (via Sigismondo).
E. Contrada di San Silvestro (chiesa omonima, n. 20), dall’angolo della contrada di Santa Colomba, lato
pescheria in piazza Cavour sino all’angolo della strada Maestra.
Elaborazione grafica di Nadia Magnani per “il Ponte” (2006).
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 3

Le tre contrade citate nel 1548 sono quelle di San Silvestro,


Santa Colomba e San Giovanni Evangelista. La chiesa di San
Silvestro sorgeva nell’attuale piazza Cavour chiudendola verso
la nostra via Gambalunga. Fu atterrata nel 1583 «per la nuova
fabbrica del Palazzo Comunale, e per rendere libera tutta la
piazza della fontana fino alla strada maestra», ora corso
d’Augusto (Tonini, «Mille», p. 55).
La parrocchia di San Silvestro occupava la zona che partendo
dalla piazza è delimitabile con il corso d’Augusto, via Cairoli e
via Sigismondo.
Attraversata dall’odierna via Cairoli verso l’esterno (cioè verso
Sud) la via Sigismondo, si entrava a sinistra nella parrocchia di
San Giovanni Evangelista (Sant’Agostino) a fianco della chiesa;
ed a destra in quella di Santa Colomba che prendeva il nome
dall’allora cattedrale. Sotto la sua giurisdizione passa la zona
amministrata da San Silvestro dopo la demolizione di questa
chiesa nel 1583.
La strada che costeggiava il lato Est della piazza (dove sorge la
Pescheria settecentesca) prima è stata chiamata contrada di
San Silvestro e poi (dopo il 1583) «del rivolo della fontana» o «del
corso», adottando il nome già usato per il tratto che va dal
Castello alla piazza.
La delibera del 22 luglio 1548 prevede per gli Ebrei anche
l’obbligo di portare un distintivo. Ma non è una novità. Già il 13
aprile 1515 il Consiglio riminese aveva stabilito il dovere da
parte loro d’indossare una berretta gialla se maschi ed un
qualche «segno» (una benda anch’essa gialla) se donne. Il
precedente più antico risale al 1432 quando Galeotto Roberto
Malatesti aveva ottenuto da papa Eugenio IV un «breve» che
introduceva per loro il «segno» di distinzione obbligatorio.
Il provvedimento del 1548 impone anche una serie di divieti che
riguardano ad esempio l’acquisto di «beni stabili eccetto casa et
Bottega», lo stabilirsi in città «senza licenza» del Consiglio
generale e persino il «toccar frutti in piazza, né metter le mani
ne’ panieri, cesti o some». Questo editto riafferma una
consolidata linea politica locale, diretta a limitare i diritti della
comunità ebraica.
Nel 1489 a carico dei loro componenti era stata decisa
un’imposta destinata a finanziare la difesa costiera contro i
Turchi. L’astio esistente nei loro riguardi aveva prodotto nel
1429 e nel 1503 un assalto ai banchi ebraici. Da ricordare che
nel 1501 era nato il «Sacro Monte della Pietà» (o banco dei
pegni) per fare concorrenza ai prestatori ebraici e togliere loro
la clientela più povera (fino a cinque lire il prestito era gratis).
Ma il 22 giugno 1510 agli Ebrei è stata poi concessa
l’autorizzazione a «facere bancum imprestitorum», cioè di
svolgere legalmente attività finanziaria. E l’anno successivo è
stato stipulato l’accordo con Emanuelino ed Angelo da Foligno
che per il loro banco avrebbero pagato alla Municipalità una
tassa annua di 400 lire. Delle società di prestito ebraiche nel
corso del secolo si servì lo stesso Comune, afflitto da costante
mancanza di denaro.
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 4

Nel 1515 si discute la proposta di bandire gli Ebrei dalla città


quali nemici della Religione e promotori di scandali nel popolo.
Nello stesso 1515 avviene un tumulto del quale Carlo Tonini
incolpa gli Ebrei, ma che potrebbe essere stato promosso non da
loro ma contro di loro, se consideriamo il contesto storico dei
cento anni precedenti. Nel 1422 papa Martino V aveva fatto
divieto agli Ordini mendicanti di provocare sommosse popolari
contro gli Ebrei, accusati di avvelenare le fonti dell’acqua e di
produrre azzime intrise di sangue umano (Segre, pp. 157/158).
Nel 1442 Eugenio IV aveva pubblicato una «bolla» per
interrompere ogni rapporto economico fra Ebrei e Cristiani,
ordinando agli «infedeli» di vivere isolati e segregati, di portare il
solito segno distintivo, di restituire le usure percepite e di non
esigerne più per il futuro (ibidem).
A Rimini la Municipalità il 24 marzo 1540 era stata costretta ad
intervenire per difendere gli Ebrei, con l’intimazione ai Cristiani
di non colpirne le case ad usci e finestre. Nello stesso anno gli è
concesso di tenere un banco a Rimini, Verucchio e Montescudo.
Da un atto notarile del 1556 sappiamo che le famiglie ebree
riminesi erano allora dodici. Il 7 marzo esse delegano un
correligionario a rappresentarle davanti all’autorità cittadina
onde chiedere la consegna delle abitazioni necessarie ed adatte
alle loro singole esigenze, per non risultare inadempienti alla
«bolla» papale.
Nel 1557 la Municipalità ha già realizzato il ghetto
trasferendovi i singoli nuclei famigliari come documenta un
rogito del 10 novembre, relativo alla vendita di una casa situata
nella contrada assegnata appunto agli Ebrei «pro habitatione».
Nel 1562 la Municipalità proibisce (29 aprile) ai Cristiani di
abitare nella contrada degli Ebrei, ma autorizza (14 ottobre) il
ricco Ebreo Ceccantino di avere casa «extra ghettum».
Nel 1569, il 26 febbraio, Pio V dà il bando agli Ebrei da tutte le
sue terre, ad eccezione di Ancona e Roma. Però nel 1586 se ne
trovano ancora a Rimini. Essi chiedono il 21 dicembre di poter
continuare a vivere «familiariter» nel luogo detto «il ghetto». Non
ricevono risposta, a quanto pare.
Il 19 settembre 1590 non è approvata in Consiglio la proposta di
approntare gli strumenti amministrativi per cacciare dalla città
quelli che non l’avevano ancora abbandonata, e che sono
equiparati a «vagabondi e forestieri» per i quali si voleva una
pronta espulsione.
Nel 1615 il ghetto è distrutto da una rivolta popolare, secondo il
racconto di monsignor Giacomo Villani (1605-1690). Alla
«perfida gens Iudeorum» è ordinato di lasciare Rimini, e le porte
del ghetto sono distrutte su richiesta di alcuni nobili. Commenta
Carlo Tonini: «Così la Città nostra ebbe il contento di vedersi
liberata da quella odiata gente» (VI, II, p. 761). La cui vicenda
era a suo avviso «principalmente religiosa» (ibidem, p. 748).
Nel 1656 a «un tal Hebreo Banchiere» di cui non si fa il nome ma
che era conosciuto dal mallevadore («il gentilhuomo Hebreo di
questa Città»), si concede di aprire un banco con la facoltà di
avere presso di sé la famiglia. Il 16 giugno 1666 il Consiglio di
Rimini invece boccia (31 contrari, 14 a favore) la proposta di
chiedere al papa di ricostituire il ghetto per gli Ebrei ad «utile e
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 5

beneficio» della città (AP 869, c. 153v, ACR, ASR). Infine nel
1693 alcuni commercianti ebrei «soliti a venire a servire con le
loro mercanzie» a Rimini, con un memoriale letto in Consiglio il
17 febbraio ottengono l’autorizzazione ad inoltrare al pontefice
la supplica per poter rientrare in città. Come sia andata a finire
la faccenda, la Storia non lo dice. Essi ritornano ad apparire
(improvvisamente) nei documenti un secolo dopo.
Torniamo alla via del ghetto. Contrada Sant’Andrea era
chiamata nel secolo XVI la strada che oggi conosciamo come via
Bonsi. Nel 1615 essa cambia denominazione (racconta Villani),
quando il 15 giugno è ordinato agli Ebrei di andarsene da Rimini,
ed il loro «vicum» diventa di Sant’Onofrio, come l’oratorio che vi
sorge. Successivamente muta ancora, ed è via dei Bottari. A
parlare di contrada di Sant’Andrea sono gli atti pubblici della
Municipalità del 20 agosto 1555 (AP 859, Archivio di Stato di
Rimini, Archivio storico comunale, c. 282v).
La storia della contrada è legata alla vicenda delle due porte che
in epoche successive chiudono l’uscita meridionale della città.
Quella «antica», l’arco di porta Montanara ora collocato verso
piazza Mazzini, è della metà del XIII secolo (1240-1248, quando
si costruiscono le mura federiciane, scrive Luigi Tonini, I, pp.
196-197). Essa sorgeva aderente all’oratorio di San Nicola fra le
vie Bonsi e Venerucci.
Nel XIV secolo è posta sui Bastioni la porta «nuova», demolita nel
1890. Secondo monsignor Villani essa era detta anche
«Aquarola» perché attraversata dall’acquedotto (Ravara, p. 19).
Nello spazio che vi intercorreva (chiamato «fra le due porte» dal
Medioevo sino all’Ottocento) esistettero due ospedali, uno dei
quali era definito di Sant’Andrea.
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 6

Secondo capitolo

Dal dazio del porto ai prestiti


Le attività economiche a partire dal 1015

La prima notizia relativa alla presenza ebraica in Rimini risale


al 1015 e riguarda il teloneo «judeorum» ovvero l’appalto dei
dazi d’entrata nel porto, del quale si parla pure in un testo del
1230. In entrambi i casi l’appalto è condiviso con altri soggetti
locali, il monastero di San Martino nel 1015 ed i Canonici nel
1230.
Attività di prestito ad usura sono documentate nel
quattordicesimo secolo per Verucchio (1336, da parte di tale
Sabbato) e per Rimini: nel 1357 e nel periodo fra 1384 e 1387
figura Manuello di Genatano che compare negli atti notarili
assieme a Gaio di Leone, Dolcetta di Guglielminuccio (vedova di
Genatano e quindi madre di Manuello), Vitaluccio di Consiglio,
Abramuccio di Bonaparte, Matassia di Musetto, Abramuccio di
Bonagiunte, Elio di Olivuccio. I ricordati Manuello e Vitaluccio
appaiono anche in contratti di soccida, ovvero relativi
all’allevamento di bestiame (Muzzarelli, pp. 33-35, 39).
I prestiti potevano essere restituiti non soltanto a Rimini ma
pure a Perugia, Fano, Ancona, Urbino, Forlì, San Marino,
Santarcangelo, Montefiore o Gradara. Esisteva cioè un vasto
collegamento fra gli agenti finanziari locali e le varie piazze, tra
cui negli atti è ricordata pure Mantova (ibidem, p. 35).
Nel corso del quindicesimo secolo gli Ebrei ebbero notevoli favori
da parte dei Malatesti (Jones, p. 15). Agli inizi del Quattrocento
Rimini era «costituita prevalentemente da ceti mercantili e
artigianali», con «una fiorente comunità ebraica a completare il
quadro variopinto di una città cosmopolita» (Vasina, p. 29). Nel
1429 con la morte di Carlo Malatesti finisce l’equilibrio da lui
creato all’interno della società riminese, «ed affiorano con
immediatezza umori e contrasti da lungo tempo sopiti o
repressi» (ibidem, p. 51). Avvengono manifestazioni contro i
mercanti forestieri e la comunità ebraica, con il saccheggio dei
loro banchi: è un favore fatto agli agenti fiorentini presenti in
città come emissari dei Medici i quali vedevano negli israeliti
una terribile concorrenza (ibidem, p. 65).
Abbiamo già ricordato che in questo periodo (1432) Galeotto
Roberto Malatesti ottiene da papa Eugenio IV un «breve» che
introduce per gli Ebrei il «segno» di distinzione obbligatorio. E
che nel 1503 si replica l’assalto contro i loro banchi, due anni
dopo la creazione di quello dei pegni, il «Sacro Monte della Pietà».
Anche Sigismondo fu in rapporto con i banchieri ebraici. Nel
1462 per la fabbrica del Tempio egli ottiene un prestito da
Abramo figlio di Manuello di Fano (Vasina, p. 62). Sul finire del
secolo quattordicesimo abbiamo incontrato Manuello di
Genatano e sua madre Dolcetta. Abramo figlio di Manuello aveva
un fratello, Salomone, banchiere ed importante personaggio
della comunità ravennate. Abramo e Salomone si trasferiscono
dalle nostre parti, e gestiscono un banco nel castello di
Montefiore attorno al 1459 (Muzzarelli, p. 36).
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 7

Salomone sposa Benvenuta da cui ha quattro figli, uno dei quali


(Beniamino) sposa Dolcetta avendone due eredi maschi. La
madre Benvenuta, il ricordato Beniamino e sua moglie Dolcetta
muoiono di peste nell’arco di dieci giorni durante l’estate del
1482 (Segre, p. 165). Nel 1494 a Cesena è ucciso dalle truppe
francesi di Carlo VIII, Rubino di Giacobbe (appartenente ad una
dinastia di finanzieri) mentre tentava di fuggire verso Rimini. I
furti commessi da quelle truppe a danno della comunità ebraica
cesenate, impediscono a quest’ultima di versare alla Tesoreria
pontificia la tassa dovuta nel 1494-95, come annotò il cronista
cesenate coevo Giuliano Fantaguzzi (ibidem, p. 169).
A metà del quindicesimo secolo Rimini «continua a
rappresentare il principale centro finanziario ebraico della
Romagna» (ibidem, p. 162), dalla quale transitano gruppi
provenienti dalla Marca e dall’Umbria e diretti nella pianura
padana per evitare gli effetti della predicazione degli Zoccolanti
contro gli Ebrei e le loro attività finanziarie caratterizzate da
tassi che a Ravenna sono documentati anche al 30 ed al 40 per
cento (ibidem). Al proposito va però precisato che solitamente
gli Ebrei praticavano «tassi notevolmente inferiori agli usurai
cristiani» (Falcioni, p. 158).
I felici rapporti intrattenuti dagli Ebrei con Sigismondo finiscono
con «acuire l’intransigenza religiosa popolare e l’odio sociale» nei
loro confronti. Negli Ebrei si vede espresso il sostegno ad un
regime finanziariamente e politicamente aggressivo,
caratterizzato da un’economia di tipo aristocratico in cui una
gran massa di bisognosi s’oppone ad una corte di privilegiati
(ibidem, pp. 5, 114, 159).
Legata strettamente al traffico di denaro, è l’impresa agricola
gestita con il citato contratto di soccida che prevede la
compartecipazione a guadagno e spese, secondo la regola «ad
medietatem lucri et damni», come ricaviamo dagli atti relativi a
Manuello di Genatano negli anni Ottanta del secolo
quattordicesimo (sono ben cinque nell’agosto 1386). La durata
del contratto variava da uno a quattro anni.
Nel 1445 Angelo di Manuello per un anno di affitto di un bue
pretende tre sestari di grano che diventano quattro allo scadere
dell’anno. Nel 1483 un altro affitto riguarda metà di un bue, per
due sestari di grano del successivo raccolto. (Muzzarelli, p. 39)
Ci sono poi i contratti di enfiteusi, come quello che il prestatore
di denaro Elia di Leone stipula nel 1397 con un Cristiano
impegnandosi a fornire quanto necessario per coltivare una
vigna di tre tornature (ibidem). L’enfiteusi è la concessione di
un fondo con l’obbligo di migliorarlo e di pagare annualmente un
canone in denaro o in derrate.
Per gli altri mestieri s’incontrano tintori come Bonaventura di
Dattilo, oppure stracciaroli come Abramo di Giacobbe detto «el
seccho» e Sabatuccio di Salomone (Muzzarelli, p. 40), oltre ad un
Abramo di Angelo da Rimini che poi opera a Ravenna, dove è
presente un suo ricco collega nel mestiere, il forlivese Daniele
detto Maiucolo (Segre, pp. 159, 169).
Nel 1456 Sigismondo Pandolfo Malatesti vende una casa a
Giuseppe di Manuele residente a Rimini ma proveniente da
Fossombrone. Nel 1452 Manuello di Salomone di Fano vende a
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 8

due Cristiani altrettanti piccoli canneti. Nel 1478 Salomone di


Musetto di Rimini compra da un altro ebreo una casa in
contrada San Giovanni e Paolo, e tre anni dopo una tornatura di
terra arativa da un Cristiano.
Nel 1484 incontriamo Musetto di Musetto e Salomone di
Musetto (forse fratelli) che acquistano rispettivamente tre
tornature di terra in parte arativa, in parte a vigna ed in parte a
canneto, assieme alla terza parte di un mulino «ab oleo». Musetto
il padre dell’omonimo e di Salomone potrebbe esser lo stesso che
è citato in un documento vaticano (Segre, p. 156) del 1436 con
cui il cardinal camerlengo gli concede un salvacondotto di sei
mesi per circolare liberamente nello Stato pontificio. Questo
Musetto (padre) è qui definito figlio di Elia da Rimini ed appare
come il tipico uomo di finanza signorile operante in Ravenna.
Egli nel 1446 per cause politiche (la dominazione veneziana), e
per la riduzione dei tassi dal 40 al 30 per cento (imposta nel
1441) arriva sull’orlo del disastro economico, ed è costretto a
cedere al suo creditore addirittura i rotoli della «Thora» ed i
paramenti rituali usati in Sinagoga (Segre, pp. 158, 162).
Ebrei riminesi appaiono anche in contratti d’affitto per lo stesso
periodo di fine 1400. Uno è stipulato con frate Girolamo rettore
del convento di San Giovanni per una casa in contrada San
Silvestro. (Muzzarelli, pp. 40-42)
Per riassumere i caratteri economici della locale società
israelitica, vale quanto i loro avversari scrivevano a Ravenna:
gli Ebrei hanno «ardimento» di comprare cose stabili «contra ogni
bon costume, la fede catolica et quello che per tutto el mondo se
observa». Cioè l’attività di prestito è il punto di partenza per
acquisire proprietà immobiliari (Segre, p. 164). Questo fa
temere che essi conquistino troppa autorità e libertà, per cui si
richiede di porre loro un freno. D’altra parte la Chiesa romana
emana frequenti «lettere di tolleranza» allo scopo di autorizzare
«e giustificare sul terreno della politica più che della fede» i
banchi ebraici (ibidem, p. 163).
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 9

Terzo capitolo

Le sinagoghe ed il cimitero di Rimini


Linee di una «geografia» israelitica in città

S1. 1486, sinagoga «vechia».


S2. 1507, sinagoga «magna» nella contrada di Santa Colomba (via Sigismondo,
collocazione ideale).
S3. 1555-1569, sinagoga «magna» nella contrada di San Giovanni Evangelista o
degli Hebrei (via Cairoli, collocazione ideale).
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 10

Nel febbraio 1506 gli Ebrei riminesi decidono di realizzare il loro


cimitero ed acquistano un campo di proprietà di Sigismondo
Gennari e fratelli (Tonini, p. 749), posto fuori della porta di
Sant’Andrea e confinante con la fossa della città («fovea
civitatis»), con l’Ausa e con due appezzamenti di terra
appartenenti ad Ebrei. Nel marzo 1507 il cimitero detto anche
«Orto degli Ebrei» è già pronto se Stella di Deodato esprime nel
proprio testamento la volontà di esservi sepolta (ibidem).
Nel 1520 il cimitero è concesso in affitto dalla comunità
israelitica ad un Cristiano che s’impegna a tenerlo in modo
appropriato, utilizzandone una parte ad orto, evitando il suo uso
a pascolo e creando le fosse «pro sepulturis Hebreorum
pauperum et miserabilium decedentium in Civitate» (Muzzarelli,
pp. 41-42). Quindi non tutti nella comunità ebraica riminese
erano di ceto economicamente elevato o medio.
Il documento del 1506 permette una precisa collocazione del
cimitero. Nella pianta della città di Rimini disegnata da Alfonso
Arrigoni e pubblicata nel 1617 nel «Raccolto istorico» di Cesare
Clementini, è ben delineato il corso del canale dei Mulini che
prende acqua dal Marecchia ed entra in Rimini vicino alla porta
di Sant’Andrea la quale s’affaccia sull’antica via Aretina. Ancor
oggi esiste la via dei Mulini che dai Bastioni meridionali scende
sino alla via Venerucci (allora San Nicola, dall’omonimo oratorio
sull’angolo con via Garibaldi).
Il corso del canale dei Mulini è documentato all’esterno della
città nelle mappe contemporanee dell’Istituto Geografico
Militare ed è schematicamente indicato entro le mura in una
pianta del 1520 (Archivio di Stato di Rimini, «Carte Zanotti»,
busta 3), recentemente edita da Oreste Delucca (p. 37). In
maniera ovviamente approssimativa la pianta indica il percorso
del canale dei Mulini che all’uscita dal mulino del Comune si
divide in due corsi. Uno s’avvia «in foveam civitatis», cioè alla
fossa che è ricordata come confine per il cimitero ebraico. L’altro
corso prosegue verso il centro della città.
Nella carta di Arrigoni il bivio fra i due corsi è invece
correttamente posto sotto la chiesa di San Matteo detta «degli
Umiliati». I quali erano stati chiamati a Rimini nel 1261 affinché
lavorassero e facessero lavorare panni di lana di ogni genere e
colore, eccettuato gli scarlatti, i verdi ed i dorati (L. Tonini, III, p.
111, e «Mille», p. 124). L’acqua che usciva dalla loro manifattura
dove si usavano sapone ed argilla, doveva essere scaricata nel
fiume.
La prima sinagoga è attestata sin dal 1486. S’affaccia sulla
piazza della fontana (ora Cavour) dal lato della pescheria
settecentesca, nella contrada di San Silvestro. Essa è poi definita
come «vechia», quando è realizzata la seconda che in rogito del
1507 è chiamata «magna», nella contrada di Santa Colomba o
San Gregorio da Rimini (via Sigismondo), nella porzione di
quartiere tra l’odierna via Cairoli ed il Teatro Galli, lato monte.
Nel 1555 la sinagoga «magna» risulta invece situata in contrada
di San Giovanni Evangelista detta «delli Hebrei» (via Cairoli), a
poca distanza dalla chiesa di San Giovanni Evangelista
(Sant’Agostino), e proprio dalla sua parte, come si ricava dal
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 11

documento datato 14 novembre riguardante la decisione presa


dagli Ebrei riuniti nella Sinagoga «magna» di vendere la casa
detta «la Sinagoga vechia» (Zanotti, Atti, p. 207).
Della sinagoga «vechia» in questo documento del 1555 si scrive
che è posta vicino («iuxta») alla strada detta «Rivolo della
Fontana» o «del Corso», cioè nell’angolo della piazza Cavour con
la contrada di Santa Colomba (via Sigismondo). Il «Rivolo»
andava dalla piazza del Castello sino alla piazza Cavour,
cambiando poi qui il nome in contrada di San Silvestro. La
sinagoga «vechia» era quindi situata nella parrocchia di San
Silvestro, delimitabile con il corso d’Augusto, via Cairoli e via
Sigismondo e piazza Cavour. La nuova sinagoga è trasferita
prima nella zona della parrocchia di Santa Colomba che è
speculare verso monte rispetto alla parrocchia di San Silvestro;
e poi nella parrocchia di Sant’Agostino sul lato dove sorge la
chiesa.
Nel 1569, dopo che il 26 febbraio papa Pio V ha dato il bando agli
Ebrei da tutte le sue terre ad eccezione di Ancona e Roma, gli
israeliti di Rimini decidono di vendere l’ultima sinagoga, quella
posta nella parrocchia di Sant’Agostino. Il 16 maggio il
bolognese Prospero Caravita (abitante in Rimini) ed il ravennate
Emanuellino di Salomone, come rappresentanti della comunità
israelitica locale, stipulano l’atto relativo, consapevoli che per
l’editto pontificio tutti gli Ebrei che si trovavano nella nostra
città l’avrebbero dovuta abbandonare entro breve tempo.
Quest’ultima sinagoga è composta di tre stanze («una domum
consistentem ex tribus stantiis»): la più grande è quella dove si
riunivano a pregare gli uomini, un’altra più piccola dove si
adunavano a pregare le donne, ed un’altra infine posta sopra
quest’ultima e sempre ad uso delle donne.
Pure questo documento ci è stato tramandato da Zanotti (Atti,
pp. 152-154), ed è ricordato da Carlo Tonini nella sua preziosa
storia degli ebrei Rimini, dove però non parla di una casa con tre
stanze bensì di tre case distinte (VI, 2, p. 759).
Della presenza ebraica a Rimini si perdono le tracce nei due
secoli successivi. Nel 1775 le cronache di Zanotti e Capobelli
registrano un battesimo conferito all’Ebreo Isacco Foligno (C.
Tonini, VI, 2, p. 762, nota 1). Sappiamo da documenti della
Municipalità che nel 1796 gli «Ebrei dimoranti con negozio da
lungo tempo in Rimini» gestivano cinque ditte, intestate a Moisé
di Bono Levi, Samuel ed Elcana Costantini, fratelli Foligno,
Samuele Mondolfo, ed Abram e Samuel Levi.
Il 30 maggio 1799 durante la rivolta dei marinai si registra il
saccheggio di due loro botteghe. Zanotti nel suo «Giornale» del
1796 (SC-MS. 314, BGR, p. 155) scrive che i fondachi ebraici si
trovavano «ne soffitti del Palazzo de Conti Bandi […], situato
lungo la via Regia in faccia al palazzo del conte Valloni» (Dolcini,
p. 495). Palazzo Valloni è quello del Cinema Fulgor, all’angolo di
corso Giovanni XXIII.
Forse quegli Ebrei erano tornati a Rimini al tempo del
pontificato di Clemente XIV (1769-1774) che aveva assunto un
atteggiamento favorevole nei loro confronti, cercando di
risollevarne le sorti economiche. Un episodio ci illumina sul suo
atteggiamento: «Da cardinale il Ganganelli era stato inviato dal
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 12

papa Clemente XIII a Jampol in Polonia per fare un'inchiesta,


sollecitata da una ambasceria inviata al papa dagli Ebrei di
quella città, su un presunto omicidio rituale. Il resoconto del
Ganganelli (di cui una copia, che si trovava presso la Comunità
di Roma, fu scoperta dallo storico Abramo Berliner), spiega che
si trattava di un caso di suggestione collettiva» (Mascioli).
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 13

NOTA BIBLIOGRAFICA

O. Delucca, Una terra fra le acque. Il borgo e il territorio Sant’Andrea


nel Medioevo, in «Sant'Andrea un borgo fra le acque», 2005, pp. 29-64
A. Dolcini, Napoleone il “bifronte”, Bologna 1996 (qui il cognome dei
«Conti Bandi» cit. da Zanotti, Giornale 1796, è erroneamente riportato
come «Bondi»)
A. Falcioni, La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, 1.
L’economia, Rimini 1998
M. G. Muzzarelli, Rimini e gli Ebrei fra Trecento e Cinquecento,
«Romagna arte e storia», 10/1989, pp. 31-48
C. Ravara Montebelli, Le acque nel borgo Sant’Andrea in epoca
romana, in «Sant’Andrea un borgo fra le acque», 2005, pp. 11-26
R. Segre, Gli Ebrei a Ravenna nell’età veneziana, in «Ravenna in età
veneziana» a cura di D. Bolognesi, 1986, pp. 155-170
Carlo Tonini, Storia di Rimini 1500-1800, vol. VI, 1, 1887; vol. VI, 2,
1888, pp. 748-763
Luigi Tonini, Rimini dopo il Mille, a cura di P. G. Pasini, Rimini 1975
Luigi Tonini, Storia di Rimini, vol. I, 1848
Luigi Tonini, Storia di Rimini nel secolo XIII, III, 1862
Mascioli, <http://www.mascioli.info/storiaebreiitaliani.html>
A. Montanari, Fame e rivolte nel 1797. Documenti inediti della
Municipalità di Rimini, «Studi Romagnoli» XLIX (1998), Stilgraf,
Cesena 2000, pp. 671-731; e Furore dei marinai, in corso di stampa
(ma leggibile in Internet)
A. Montanari, 1615, distrutto il ghetto in «Il Sito riminese del 1616,
Quante storie n. 2», p. 8, «il Ponte», 20 novembre 2005
M. Zanotti, Atti , SC-MS 285, Biblioteca Gambalunga [BGR], Rimini
M. Zanotti, Giornale di Rimino 1796, SC-MS 314, BGR, Rimini
Gli scritti di Jones e Vasina sono ripresi da Studi Malatestiani, Studi
storici, fascc. 110-111, Istituto storico italiano per il Medio evo, 1978

ACR, ASR = Archivio comunale, in Archivio di Stato di Rimini


Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 14

Il porto di Rimini nel 1788. Particolare dell'acquerello di F.


Mazzuoli conservato alla Biblioteca nazionale di Firenze e
pubblicato in «Ruggiero Giuseppe Boscovich, 'mezzo turco,
matematico pontificio' a Rimini», a cura di P. Delbianco (Bologna
2002).

Quarto capitolo

Ebrei di Pesaro a Rimini a fine 1700


Alcuni restano in città.
Una di loro si fa monaca nel 1858

Gli Ebrei residenti a Rimini sul finire del XVIII secolo si


dichiarano «membri e dipendenti dal ghetto di Pesaro», come
scrive il notaio Zanotti nel suo «Giornale di Rimino»
relativamente al 1796 (Dolcini, p. 495). Dai documenti della
nostra Municipalità risulta che in quell'anno gli «Ebrei dimoranti
con negozio da lungo tempo in Rimini» gestiscono cinque ditte,
intestate a Moisé di Bono Levi, Samuel ed Elcana Costantini,
fratelli Foligno, Samuele Mondolfo, ed Abram e Samuel Levi («il
Ponte», 11.12.2005). Un'altra notizia relativa al 1775, tratta
dalle cronache riminesi di Zanotti e Capobelli, riferisce di un
battesimo conferito all'Ebreo Isacco Foligno.
Partendo da questi dati, siamo andati a cercare elementi di
collegamento fra le città di Pesaro e Rimini in un importante
studio di Viviana Bonazzoli («L'economia del ghetto», pp. 16-53).

Da Venezia a Pesaro
Il cognome Foligno si trova attestato a Pesaro: un Elia Foligno
nel 1787 figura fra i sindaci ed amministratori della Scuola
spagnola del ghetto (p. 24). Due anni dopo, nel 1789, con la
stessa carica a Pesaro troviamo indicato Moisé Aron Costantini
(ib.). Nei documenti riminesi appaiono Samuel ed Elcana
Costantini. La forma corretta per il secondo nome è Elcanà,
come ricaviamo sempre da Bonazzoli, nel cui saggio si legge che
nel 1716 «Sara Mazor vedova di Moisé di Elcanà Costantini
costituisce suo procuratore il suocero», per «poter vendere et
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 15

alienare li capitali che essa si trova havere in Venezia» essendo


il figlio proprio Samuele ancora in età minore (p. 46).
In un testamento pesarese del 1754 si legge che una figlia di
Elcanà Costantini era Consola, sorella quindi del ricordato Moisé
(marito di Sara Mazor), e vedova di Leone Costantini che le
aveva dato due figli, Moisé ed Elcanà. Probabilmente questo
Elcanà figlio di Leone e di Consola è quello che incontriamo a
Rimini nel 1796. Nel 1754 Consola Costantini designa eredi
universali i figli Moisé ed Elcanà, riferendosi ad un capitale «che
ella si ritrova avere nella Zecca di Alvina» cioè nel deposito del
dazio del vino in Venezia (p. 47). Il richiamo a Venezia per
Consola è il secondo dopo quello di Sara Mazor. La città
lagunare, scrive Bonazzoli, era la regina dell'Adriatico, e la
posizione di Pesaro va collocato nel sistema di scambi fra le due
coste, ricordando che la «simbiosi Ragusa-Ancona» era «al tempo
stesso complementare e competitiva nei confronti di Venezia».
Pesaro ed altri porti adriatici secondari si trovavano «in
posizione subordinata e con funzione di centri intermedi di
redistribuzione e raccolta - quanto a merci in entrata e in uscita
- e di collegamento fra le principali correnti degli scambi e le
economie dell'entroterra» (p. 26). Tra gli altri porti secondari
della costa occidentale dell'Adriatico, possiamo porre (per
motivi che vedremo) anche quello di Rimini.
Sempre secondo Bonazzoli «in relazione a questo contesto
adriatico dove mercati intercontinentali, mercati sovraregionali
e mercati subregionali si presentano strettamente integrati», va
considerato il ruolo del nucleo ebraico di Pesaro (ib.). In quel
contesto va pure esaminato il significato del passaggio di alcune
famiglie ebraiche da Pesaro a Rimini nel corso del 1700. Renata
Segre riferisce che nel secolo XVIII le pelli d'agnello
commerciate da Abramo Levi (p. 172) e dirette verso il nord
Europa erano imbarcate proprio a Rimini. Se ne parla in un
documento romano del 1793. Abramo Levi aveva per le mani la
maggior parte di quel prodotto, e «la sua concorrenza suscitava
le proteste dell'Università dei pellicciai, ultimi deboli echi di
motivi antiebraici delle corporazioni di mestiere».
Sempre a proposito della presenza degli Ebrei a Pesaro (che alla
fine del XVIII secolo assommano a circa 450 persone, con un
aumento di una quarantina d'unità in mezzo secolo), occorre
fare un salto indietro nel tempo. Bisogna riandare al 1555,
l'anno della «bolla» di Paolo IV «Cum nimis absurdum» che
istituisce il ghetto in tutto lo Stato della Chiesa. In quell'anno
Pesaro è sottoposta al dominio del duca d'Urbino, e quindi non è
toccata dal provvedimento. Poi nel 1569 Pio V dà il bando agli
Ebrei da tutte le sue terre, ad eccezione di Ancona e Roma. La
situazione di Pesaro cambia quando nel 1631 cessa il dominio
roveresco e la città passa alla Santa Sede per la morte di
Francesco Maria II, con un atto di devoluzione firmato
dall'arcivescovo di Urbino Paolo Emilio Santori. Anche gli Ebrei
di Pesaro diventano quindi sudditi pontifici. Però, come scrive
Renata Segre, «avevano motivo di ritenere che la politica di
sradicamento [...] non si sarebbe estesa a loro» (p. 155). C'era il
precedente verificatosi nei domini estensi che nel 1598 erano
passati sotto il governo di Roma. Ma sapevano pure che anche
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 16

nella Legazione di Urbino come a Ferrara «si sarebbe perseguita


con durezza e intransigenza» una politica di isolamenti e
conversione. Quindi gli Ebrei di Pesaro continuano a vivere nella
città dopo il 1631.

Commerci e fiere annuali


Circa le loro attività commerciali, Segre spiega che essi
frequentano le fiere annuali di Senigallia (a luglio) e di Fermo
(in agosto), ma s'indirizzano pure verso il Ravennate dove
tentano di sottrarre alla concorrenza degli Ebrei ferraresi
«l'attività commerciale attorno al Riminese» (pp. 162-163). Il
vescovo di Imola nel 1776 scrive al papa che gli Ebrei si
dividono il territorio per non danneggiarsi reciprocamente come
fanno i cappuccini quando vanno a cercar le «loro limosine» (p.
180, nota 76). Segre avverte però che in concorrenza con
Senigallia ci sono pure le fiere di Rimini, già a partire da metà
Seicento (ib.). Su queste fiere e sulla presenza in esse di Ebrei di
Pesaro, Ancona Urbino diremo altra volta.
A Rimini sin dal 1500 si teneva una «fiera delle pelli», che
possiamo collegare all’attività di Abramo Levi, per la ricorrenza
di sant’Antonio dal 12 al 20 giugno, seguìta da quella di san
Giuliano (nata nel 1351) nell’omonimo borgo (tra ponte di
Tiberio e Celle) dal 21 giugno (vigilia delle festa del santo) sino
al 22 luglio: il calendario resta stabile sino all’inizio del 1600,
quando soprattutto a causa delle carestie, le due fiere sono
spostate fra settembre ed ottobre (Adimari, II, p. 9). Nel 1627
esse come unica «fiera generale» retrocedono dal 15 agosto al 15
ottobre, e nel 1628 si tengono dall’8 settembre all’11 novembre
(C. Tonini, «Storia di Rimini», VI, I, pp. 416, nota 1, e 455),
assorbendo quella di san Gaudenzio istituita nel 1509 per il
mese di ottobre (ib., VI, 2, p. 865). Nel 1656 nasce invece la
nuova fiera di sant'Antonio sul porto dal 6 all’11 luglio (scoperta
soltanto di recente, Moroni, p. 75; Serpieri, p. 71). Nello stesso
anno, non a caso, a «un tal Hebreo Banchiere» si concede di
aprire un banco portando con sé la famiglia. Gli Ebrei erano stati
cacciati da Rimini nel 1615 dopo una rivolta popolare con
distruzione del ghetto. Nel 1666 il Consiglio cittadino rigetta
(con 31 no e 14 sì) la richiesta di crearne uno nuovo.
Su questo sfondo di attività commerciali che collegano i vari
centri costieri del medio Adriatico, avviene il passaggio per
Rimini di mercanti ebraici, e poi il loro stabilirsi (come racconta
Zanotti nel suo «Giornale»), «ne soffitti del Palazzo de Conti Bandi
[...], situato lungo la via Regia in faccia al palazzo del conte
Valloni», quello per intenderci del Cinema Fulgor, all'angolo di
corso Giovanni XXIII.

Notizie anche per l'Ottocento


Qui troviamo, come abbiamo scritto sopra, Abram e Samuel Levi.
Il cognome Levi a Pesaro è presente in vari documenti citati da
Bonazzoli. Il nostro Moisé di Bono Levi potrebbe esser figlio di
Diamante a cui si riferisce un atto del 1788 dove la donna è
detta vedova di Bono Levi (p. 20). L'atto si riferisce alla
divisione dell'inquilinato perpetuo di una casa nel ghetto (o «jus
gazagà», concesso dietro corresponsione di un canone annuo ai
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 17

proprietari cristiani delle abitazioni), sino a quel momento


posseduto «ab indiviso». Alla divisione partecipa anche Ester
vedova di Moisé Samuel Levi. Il Samuel Levi riminese potrebbe
essere un suo nipote. Nel 1792 a Pesaro è citato un Abram Levi
(altro nome riminese), sindaco della locale «compagnia della
Carità della scuola itagliana di questo ghetto».
Nel 1779 a Pesaro sono ricordati Elia Foligno e Salomon
Mondolfo (p. 24). Questi due cognomi ricorrono di frequente a
Pesaro fra 1600 e 1700. A Rimini si parla di «fratelli Foligno»,
per cui ogni ulteriore approfondimento è impossibile, allo stato
della ricerca. Nel 1842 un Giuseppe Foligno di Pesaro è citato in
un avviso a stampa di Rimini come «creditore pignorante» (SG
232). Circa i Mondolfo scrive Bonazzoli: «Frequentissime sono le
relazioni fra i mercanti del ghetto di Pesaro e gli ebrei residenti
a Venezia, dove le principali ditte hanno procuratori o
corrispondenti; così, solo a titolo di esempio, il 21 marzo 1678,
Gabriel e Isac Mondolfo sono in relazioni commerciali con Isac
Baldoso, anche lui esponente di una famiglia sefardita
[proveniente dalla Spagna, n.d.r.] di rilievo e stretto
interlocutore dei Costantini» (p. 31). Gli stessi Costantini sono
una «importante famiglia serfardita veneto-candiota» (p. 30).
Le relazioni all'interno della comunità ebraica e delle singole
famiglie sono destinate a produrre riflessi pure all'interno delle
città che esse toccano con i loro commerci o che abitano
stabilmente. Da ciò si comprende l'importanza che, per
ricostruire meglio la storia riminese, ha l'esame della presenza
ebraica in città. Su questo argomento purtroppo non c'è molto da
leggere.
Quando nel 1888 pubblica il secondo tomo della sua storia, Carlo
Tonini denuncia il «fitto bujo» addensatosi nella memoria dei
concittadini a proposito delle vicende ebraiche, e chiede scusa
«se a taluno sembrasse che fossimo stati troppo minuti» nel
raccontarle (p. 763). A molti esse interessavano soltanto
quando per qualche «israelita» si addiveniva alla conversione.
Succede per Rosa Levi che il 22 aprile 1852 riceve il Battesimo
come Maria Matteini, e nel 1857 entra nel monastero di Santa
Catterina di Forlì dove il 9 dicembre 1858 professa i voti,
fornendo allo stesso Carlo Tonini l'ispirazione per una ode a
stampa (SG 10-12).

Nota bibliografica

R. Adimari, «Sito riminese», Brescia 1616


V. Bonazzoli, «L’economia del ghetto» in «Studi sulla comunità ebraica
di Pesaro», a cura di R. P. Uguccioni, Pesaro 2003, pp.16-53
M. Moroni, «Il porto e la fiera di Rimini in età moderna» in «Tra San
Marino e Rimini: secoli XIII-XX», San Marino 2001, pp- 43-93
R. Segre, «Gli ebrei a Pesaro sotto la Legazione apostolica» in «Pesaro
dalla devoluzione all’illuminismo», Venezia 2005, pp. 155-186. (Siamo
grati alla Biblioteca Oliveriana di Pesaro, ed in particolare alla
dottoressa Maria Grazia Alberini per il materiale fornitoci.)
A. Serpieri, «Il porto di Rimini dalle origini ad oggi tra storia e cronaca»,
Rimini 2004
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 18

SG = Schede Gambetti, Biblioteca Gambalunga di Rimini. (Ringraziamo


la dottoressa Cecilia Antoni della Gambalunga per la ricerca del
materiale qui utilizzato.)
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 19

Ebrei «necessarissimi» per Rimini


Contro la crisi nel 1670 si richiede il ghetto

Alcuni inediti documenti del XVII secolo, conservati


nell’Archivio di Stato di Rimini, permettono di scrivere in
maniera del tutto nuova la storia dei rapporti fra la nostra città
e gli Ebrei.
Abbiamo già considerato in precedenti pagine alcuni fatti.
Nel 1548 Rimini istituisce per gli Ebrei un ghetto, sette anni
prima della «bolla» di Paolo IV che lo impone in tutto lo Stato
della Chiesa.
Nel 1615 il ghetto riminese è distrutto da una rivolta popolare
(stando al racconto di monsignor Giacomo Villani). In essa
ebbero un ruolo d’istigatori i padri Romiti di Scolca (a quanto si
ricava da un testo del canonico Giovanni Antonio Pedroni cit. da
C. Tonini, «Storia di Rimini», VI, 2, p. 761).
Nel 1656 a «un tal Hebreo Banchiere» è concessa l’apertura di un
banco con la facoltà di recare con sé la famiglia. Nello stesso
anno comincia la nuova fiera di sant'Antonio sul porto.
Il 16 giugno 1666 il Consiglio municipale boccia la proposta di
chiedere al papa di ricostituire il ghetto ad «utile e beneficio»
della città.
Il 14 febbraio 1693 alcuni commercianti ebrei «soliti a venire a
servire con le loro mercanzie» a Rimini, ottengono
l’autorizzazione ad inoltrare al pontefice la supplica per poter
rientrare in città: un loro memoriale letto in Consiglio [AP 873].
Nel verbale di quella riunione si legge che «d’alcun tempo in qua»
a loro era stata proibita la dimora in Rimini con danno comune
sia del Monte della Pietà sia della dogana e di «altro».

Amici romani
Il primo documento inedito che presentiamo è del 28 dicembre
1670 [AP 453].
In una lettera dei consoli di Rimini al loro procuratore romano
Ceccarelli leggiamo che al papa era stata inviata la richiesta di
concedere la «facoltà di poter eriggere in questa Città un nuovo
Ghetto d’Hebrei».
A Ceccarelli si suggerisce di richiedere agli organi competenti
che la pratica sia affidata ai due monsignori indicati nel testo,
«con i quali habbiamo noi per riparare in ogni caso le difficoltà
che si potessero incontrare».
Con Ceccarelli infine i consoli lamentano il ritardo
nell’istruzione di quella pratica da parte dell’agente romano,
Baldassare Papei.
Due altre missive inviate al procuratore Ceccarelli [19 marzo e
9 aprile 1671, AP 453] indicano i motivi che spingevano la
nostra comunità a richiedere la riapertura del ghetto: occorreva
portare «sollievo» economico a Rimini introducendo un «qualche
poco» di commercio, fondamentale per una ripresa nelle
«presenti contingenze della nuova fiera» per la quale gli Ebrei
erano «necessarissimi».
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 20

La «nuova fiera», autorizzata da papa Clemente X il 13 agosto


1670, doveva tenersi (come quella del 1656) sul Porto sempre
in onore di sant’Antonio da Padova, avendo come scopo di
ricavarne «utile, e solievo grande» alla città ed al suo territorio.
Il regolamento, registrato in Roma il 22 febbraio 1671, ne
prevedeva lo svolgimento tra il 25 maggio ed il primo giugno.
Ceccarelli aveva il compito di far da tramite fra Rimini ed un
monsignore (Fani) a cui i consoli s’indirizzano il 19 marzo 1671
ribadendo che un nuovo ghetto sarebbe stato di «sollievo» alla
città perché avrebbe portato ad un aumento dei traffici e «del
numero delle persone tanto necessario qui alla scarsezza del
Popolo, e del denaro».
Si aggiunge con il monsignore che la città aveva bisogno di
uscire da uno stato di «depressione» tentando «i proprij, e più
risoluti sollievi».
Se ne ricava che i riminesi cercano di rinascere con le loro
stesse forze (soprattutto perché non possono confidare in aiuti
esterni, date la generale situazione di crisi), ma hanno necessità
di avere in città chi, come gli Ebrei, favorisse la circolazione del
denaro e quindi le attività mercantili.
La richiesta del nuovo ghetto non approda a nulla perché essa
era in contrasto con le norme vigenti nello Stato della Chiesa.

Perniciosi ma utili
In un altro documento inedito, il «Bando contro gli Hebrei»
emanato dal cardinal legato di Ravenna il 9 aprile 1624 si
richiama una «bolla» di Clemente VIII (1592-1605) che aveva
proibito agli Ebrei di aver domicilio e stanziare nello Stato
ecclesiastico se non a Roma, Ancona e Ferrara.
La «bolla» dovrebbe essere del 1593. Ma il richiamo a Ferrara
rimanda al 1598, quando avvenne l’annessione dei domini
estensi.
Ciò premesso il legato ravennate nel 1624 scrive: «per
combattere le pernizie che suol apportare a Christiani la
frequenza, e la continua pratica di queste genti», si ordina agli
Ebrei ancora presenti nelle sue terre di partirsene entro due
giorni.
Con la proibizione del domicilio, conclude il bando del 1624, non
s’intende di proibire agli Ebrei pure «che per occasione di
mercantie da comprare o vendere non possano andare e
capitare in tutte le città, e luoghi». E ciò in virtù di quanto
concesso, poco dopo la ricordata «bolla» di Clemente VIII, da un
«motu proprio» pontificio che permetteva «tre o quattro giorni
per ogni soggiorno per dimorare in una città».

Per il libero commercio


Queste disposizioni non furono sempre applicate se, come già
ricordato, nel 1693 «gli Ebrei che erano soliti a venire a servire
con le loro mercanzie» la città, presentano al Consiglio di Rimini
un memoriale che denuncia la discriminazione attuata nei loro
confronti, e che ha lo scopo di richiedere l’autorizzazione ad
inoltrare una supplica al papa perché quella discriminazione
cessasse.
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 21

Nel verbale consiliare si legge che la presenza degli Ebrei recava


«vantaggio» a tutta la città, e che gli autori del memoriale
avevano «buon mezzo a Roma per far penetrare» al pontefice i
danni notevoli provocati dalla mancanza di un «libero
commercio».
I testi che abbiamo citato permettono di leggere in controluce
alcuni aspetti della vita sociale di Rimini di quel periodo. Nel
ceto dirigente è presente la consapevolezza che soltanto il
«libero commercio» può permettere una ripresa economica.
Le linee politiche locali si scontrano con il potere politico (ed
ecclesiastico) centrale e periferico (cardinal legato, vescovo).
Per conseguire i risultati sperati, Rimini deve ricorrere a
raccomandazioni romane che in altri documenti e in molte
vicende sono una costante: esse, come nel caso del ghetto, non
sempre recano i frutti sperati. (Di tutte queste raccomandazioni
parleremo altra volta.)
Non esiste in quel ceto dirigente una pregiudiziale antiebraica e
non si accettano passivamente da parte di esso le disposizioni
romane. Anzi ci si adopera per vederle superate o sconfessate
con un atteggiamento laico riscontrabile anche in altri momenti
della vita del tempo (come nella cultura).
Infine credo che pesi molto la vicinanza con Pesaro, sottoposta
dal 1631 al governo romano. Nella città marchigiana gli Ebrei
erano diventati sudditi pontifici ed avevano continuato a
risiedervi.
I consoli riminesi che reggono le sorti della municipalità nel
primo bimestre del 1693 (la decisione che abbiamo riportato
risale alla seduta consiliare del 14 febbraio), sono Domenico
Tingoli, Scipione Diotallevi, Pietro Cima, Federico Tonti, Pasio
Antonio Belmonti, Niccolò Paci, Francesco Ugolini.
Domenico Tingoli (+1716) è suocero di Scipione Diotallevi che
ha sposato Maria Maddalena, nata da Maria Francesca Olivieri,
pesarese, sorella di Fabio Olivieri (1658-1738, cardinale nel
1713) e cugina del Gianfranco Albani, cardinale dal 1690 e poi
papa Clemente XI (1700-1721). Annibale Tingoli, fratello di
Pompeo (+1616) che era il nonno di Domenico Tingoli, aveva
sposato Maddalena Gambalunga sorella di Alessandro
Gambalunga, il creatore delle biblioteca pubblica riminese.
Alessandro Gambalunga era marito di Raffaella Diotallevi
appartenente alla stessa famiglia di Scipione genero di
Domenico Tingoli. Una Violante Diotallevi era stata la prima
moglie di Pompeo Tingoli. Il quale dalle seconde nozze ha
Violante che sposa un Francesco Diotallevi.
Il padre di Domenico Tingoli, Carlo, ebbe come fratello il celebre
Lodovico (1602-1669) che sposò Lucrezia Belmonti, alla cui
famiglia appartiene un altro console del 1693, Pasio Antonio
Belmonti. Lodovico Tingoli fu aggregato alle più importanti
accademie italiane, tra cui quella degli Incogniti di Venezia. E fu
autore con suo nipote Filippo Marcheselli, de I cigni del Rubicone
(Bologna 1673). Filippo Marcheselli (1625-1658) era infatti
figlio di una sorella (di cui non sappiamo il nome) di Lodovico
Tingoli. Delle cinque sorelle di Lodovico, tre andarono in
monastero. Le altre due sono Elisabetta (o Isabella) moglie di
Antonio Francesco Pavoni e la ricordata Violante che sposa
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 22

Francesco Diotallevi. Quindi non può essere che una di queste


due (Elisabetta o Violante) ad andare in seconde nozze a
Francesco Maria Marcheselli padre del poeta Filippo.

La fiera sul porto


Alcuni di questi Ebrei pesaresi li ritroviamo appunto nella fiera
del 1671 (durata non gli otto giorni previsti, ma undici, da
venerdì 22 maggio a lunedì primo giugno), assieme a colleghi di
Ancona ed Urbino.
In tutto le ditte di Ebrei intervenute sono otto: tre per Ancona ed
Urbino, due per Pesaro, sopra un totale di 168 presenze, ovvero
esse rappresentano il 6,5%.
Le merci da loro introdotte in fiera con undici presenze totali
hanno un valore pari al 28,25% di tutte le merci.
Gli affari invece sono magri: dei 5.914 scudi dichiarati come
valore delle merci entrate, essi vendono soltanto il 16, 82%, pari
a 995 scudi (cioè il 10,16% del venduto totale, pari a 9.787
scudi).
Gli anconetani vendono 110 scudi su 144; i pesaresi 450 su
1.500, gli urbinati 435 su 4.270. Il totale del venduto è di 995
scudi, su 5.914 di merci introdotte in fiera.
Questi otto mercanti ebrei lavorano nel settore tessile-
abbigliamento.
Le loro undici presenze sono il 17,74% di quelle dell’intero
settore, pari a 62 dei 168 ingressi complessivi in fiera per i vari
settori merceologici. Il tessile-abbigliamento costituisce il 36,9%
dell’attività fieristica.
Le 62 presenze dei mercanti del settore introducono merce per
15.643 scudi (sui 20.929 complessivi, pari al 74,74%), e ne
vendono 6.684 su 9.791 (68,26%). Rispetto alla media del
settore del 68,26, gli ebrei raggiungono, come si è detto, soltanto
il 16,82%.

Città Registraz. Ditte Valore Venduto %


Ancona 3 3 144 110 76,39
Pesaro 4 2 1.500 450 30,00
Urbino 4 3 4.270 435 10,19
totale 11 8 5.914 995 16,82

Un confronto fra i tipi di prodotti offerti dagli Ebrei meno


favoriti nella fiera riminese e quelli di altri mercanti, non porta a
riscontrare differenze di qualità (con conseguente maggior
costo) che giustifichino il dato finale. Cioè se gli Ebrei
complessivamente vendono di meno, ciò pare dovuto più ad un
pregiudizio nei loro confronti che ad obiettivi elementi
commerciali.
Se ad esempio consideriamo i panni e le «panine», vediamo che i
sette mercanti che li presentano, vendono il 51,3%, contro lo
zero del loro collega ebraico Leomber in uno dei suoi tre ingressi
in fiera nella quale complessivamente non gli va troppo bene:
vende soltanto «seta e pizzi d’oro», immaginiamo ad una clientela
più benestante e con meno pregiudizi religiosi nei suoi confronti.
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 23

Questo aspetto rimanda al discorso sulla distruzione del ghetto


nel 1615 operata da una rivolta popolare.

Ancona, Pesaro ed Urbino


Vediamo nei particolari l’attività di questo mercanti ebraici.
Da Ancona arrivano: Bonaventura Ireni (con «taffettà, bottoni,
fasce da marinaro»; venduti 70 dei 100 scudi dichiarati),
Samuelle di Salvadore (con «penne da cappello»; non vende nulla
dei 4 scudi dichiarati), Iacobbe Leone (con «saie di Bergamo»
[panno lucido, sottile e leggero]; vende tutti i 40 scudi entrati).
Da Pesaro provengono due ditte: Leomber e compagno (presenti
tre giorni, vendono 400 scudi dei 1.300 dichiarati di seta, pizzi
d’oro, «panine diverse» [panni rozzi, di scarso valore], bavella
[filamento di seta] e seta); e Salomone e Bandar (con «robba
sottile»; venduti 50 dei 200 scudi entrati).
Da Urbino giungono: David di Moiese (presente due giorni, con
cotone di Fossombrone, saie francesi, camellotti [panno
confezionato con lana mista a pelo di capra], calzette di
Fabriano e «diverse robbe» dal valore di 1.200 scudi, di cui 165
venduti), Aron di Michele (lana venduta tutta per 70 scudi), e
David Vinante e Sabbà da Castro (vendono 200 dei 3.000 scudi
di saie e droghetto [stoffa francese di lana a basso prezzo]).

Appendice.
Fiera 1671, lessico merci

Bassetta, pelle di agnello appena nato


Bavella, filamento di seta
Bombace, cotone filato alla grossa («bombace floscia», «tela bombacina»,
«bombace filata», «bombace torqena»)
Buzza (cappelli di), da bazzana, pelle di montone o di castrato conciata
assai morbida
Calcetta, calzetta
Cambellotto, sta per cammellotto, panno confezionato con lana mista a
pelo di capra; deriva da «cammello» perché in origine confezionata con
pelo di cammello («Mi ho fatto una sopravveste di cambellotto di seta»,
C. Goldoni, «Le smanie per la villeggiatura»)
Coti (cote), pietre dure per affilare
Droghetto, dal francese droguet, stoffa di lana assai ordinaria e di poco
prezzo (si trova testimonianza di «droghetto d'Ollanda»)
Garzuolo, canapa lavorata pronta per la filatura
Gonga, conche, vasi rotondi
Panina di Bergamo (pannina, Panno di lana in pezza; Crusca: «Sorta, e
qualità di panno. Qui qualità, e condizion rozza»). Di pannina «di qualità
ordinaria ad uso della plebe e del popolo» ne vendeva molto
l'Inghilterra in Oriente facendo forte concorrenza a Venezia. Su quella
di Bergamo vedi la poesia dell'abate G. Battista Angelini
Rascia, specie di panno di lana grossolano, forte e consistente,
specialmente usato dai marinai (originario della Slavonia)
Saia di Bergamo, pannolano lucido, sottile e leggero; pannolano (anche
panno lano, ant. pannilano) è stoffa, tessuto fatto di sola lana.
Anticamente saia indicava la seta. «Tucte vanno in gonnella, et per la
più parte di saia negra et poche di seta» (http://www.phil-hum-ren.uni-
muenchen.de/GermLat/Acta/Rossi.htm)

Tipi di prodotto
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 24

La vendita al 100% si ha soltanto in due casi, rispettivamente


per «saie di Bergamo» dal valore di 40 scudi (si tratta di panno
lucido, sottile e leggero) al n. 74 (Iacobbe Leone di Ancona); e di
lana per 70 scudi al n. 152 (Aron di Michele di Urbino).
Bonaventura Ireni di Ancona (n. 34) vende 70 scudi su 100 di
taffetà di Camerino, bottoni di seta e «fasce da Marinaro».
Ecco l’elenco completo delle ditte ebraiche registrate:
Leomber e compagno di Pesaro vendono scudi 400 su 600
(66,6%) di robbe di seta e pizzi d’oro il 23 maggio (n. 13).
Gli stessi, il giorno seguente (n. 14), non vendono nulla dei
trecento scudi di panine offerte.
David di Moiese (n. 50) il 25 maggio vende 65 scudi su 1.000 di
cotone di Fossombrone, saie francesi ed altri tipi di stoffe.
Samuelle di Salvadore di Ancona (n. 65) il 26 maggio non vende
nulla dei quattro scudi di penne da cappello.
Lo stesso giorno David Moese di Urbino (n. 80) non vende nulla
dei 100 scudi di calzette di Fabriano; mentre David Vinante e
Sabbà da Castro di Urbino (n. 81) vendono 200 scudi dei tremila
di stoffe varie ed «altre robbe».
Il 27 maggio con il n. 105 è registrata la ricordata ditta di
Leomber e compagno di Pesaro (che hanno così tre presenze alla
fiera), con una cassetta di robbe di banella e seta, dal valore di
400 scudi, di cui non vendono nulla.
Il 28 maggio infine al n. 108 sono registrati Salomone e Bandar
di Pesaro con calze e drappi dal valore di scudi 200, di cui
vendono soltanto 50 scudi.

Elenco numerico dei mercanti Ebrei presenti nel registro degli


ingressi in fiera (AP 836, Archivio Storico Comunale di Rimini,
Archivio di Stato di Rimini).
Una ditta di Pesaro (Leomber e compagno) è registrata per tre
giorni. (Per Pesaro si hanno complessivamente quattro
registrazioni.)
Una ditta di Urbino (David di Moiese) è registrata per due
giorni. Anche per Urbino sono quattro le registrazioni in totale.
Le registrazioni complessive alla Fiera sono 168. Quindi la
partecipazione degli Ebrei marchigiani è del 6,5%.

1. 13 Leomber e compagno di Pesaro


2. 14 Leomber e compagno di Pesaro
3. 34 Bonaventura Ireni di Ancona
4. 50 David di Moiese di Urbino
5. 65 Samuelle di Salvadore di Ancona
6. 74 Iacobbe Leone di Ancona
7. 80 David Moese di Urbino
8. 81 David Vinante e Sabbà da Castro di Urbino
9. 105 Leomber e compagno di Pesaro
10. 108 Salomone e Bandar di Pesaro
11. 152 Aron di Michele di Urbino
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 25

SUSSULTI SOCIALI E CRISI ECONOMICA NEL 1600


[Questo testo è già stato presentato sul web nel documento intitolato Aspetti della
presenza ebraica a Rimini.]

Rimini, il porto ed il fiume Marecchia. Particolare tratto dalla


mappa pubblicata in «Civitates Orbis Terrarum» di G. Braun, S.
Novellanus, F. Hogenberg, Colonia 1577-1581.

1. Qualche fiera ed un terremoto disastroso


Il 13 dicembre 1600, festa di santa Lucia, entra in Roma «con
magnifica pompa» la «Confraternita di Santa Maria in Acumine»
di Rimini, composta da 180 «fratelli nobili» vestiti con un lungo
sacco nero e preceduti da uno stendardo costato ben duemila
scudi d’oro. Tra loro c’è lo storico Cesare Clementini. Nella sua
cronaca ricorda i conterranei che hanno avuto un ruolo
nell’organizzazione ecclesiastica quali capitani, maestri di
Camera, canonici di San Pietro, segretari secreti, inquisitori,
vescovi, cardinali, nunzi. Come a dire: se Roma è «caput mundi»,
la nostra città vi gravitava con un ruolo privilegiato.
La «magnifica pompa» del corteo contrasta con le condizioni in
cui vive Rimini. Nel 1601 il Consiglio generale discute dei danni
provocati dalle eccessive spese per il lusso del vestire e per i
funerali. Un’altra piaga affligge la comunità, il gran numero di
cialtroni e vagabondi. Sin dalla metà del Cinquecento il
vagabondaggio è un problema europeo, legato soprattutto alle
carestie. C’è chi lo interpreta secondo l’antica tradizione
cristiana che vede nei poveri dei fratelli da aiutare. Altri, come
certi cattolici e soprattutto i protestanti, sostengono che i poveri
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 26

meritano soltanto il castigo. Alla condizione di povertà dei


vagabondi s’avvicina l’amministrazione pubblica di Rimini per
la mancanza del denaro necessario alle spese locali ed alle
imposizioni governative, come le riparazioni al porto di
Civitavecchia.

2. Carestie, pesti e guerre


Le carestie sono frequenti in tutto il continente. Conseguenze
disastrose hanno quelle del 1594-1597 e del 1659-1662. Da
Roma nel 1558 si era scritto: «Nulla di nuovo qui, tranne il fatto
che ci sono delle persone che muoiono di fame». Dopo di che si
descriveva un banchetto culminato in statue fatte di zucchero.
Lo stesso abbagliante contrasto tra vita comune e feste
pubbliche si registra a Rimini. Nel 1627 l’arrivo del nuovo
vescovo Angelo Cesi (fratello di Federico, fondatore
dell’Accademia dei Lincei nel 1603), mette in angustia gli
amministratori civici «per quel male perpetuo e irrimediabile
della borsa esausta» (C. Tonini). E per onorare il duca di Toscana
si sborsano 1.048 scudi. In prestito se ne trovano soltanto 600.
Tre anni dopo ne occorrono 3.650 per organizzare il cordone
sanitario contro la peste arrivata ad Imola.
Carestie, pestilenze e guerre (lontane, ma segnalate in loco dai
continui, costosi passaggi di truppe), sono i mali che affliggono
pure la nostra città. Un conflitto (contro il duca di Parma) che
nel 1630 svanisce a causa della peste, mette in crisi il capitano
Lorenzo Tingoli. Aveva assoldato a sue spese una compagnia di
corazze sperando di fare la solita fortuna d’ogni campagna
militare che per gli altri seminava miseria e morte.
Scarso raccolto è segnalato nel 1606. Epidemie in bovini, pecore
e porci, nel 1611. In tutta la regione è avvertibile un processo
d’involuzione a partire dal 1618-19. Nel biennio 1628-29 una
carestia prelude alla peste del 1630. Per un’altra «straordinaria
carestia» nel 1648 (C. Tonini) il governatore di Rimini vive «in
grandissime angustie», come lui stesso scriverà più tardi,
«perché quel popolo nemico della nobiltà, minacciava sollevarsi».
Ma per l’anno successivo (1649) monsignor Giacomo Villani
ricorda una rivolta della «plebs ariminea» contro i consiglieri
municipali ed i cattivi amministratori dell’Annona per
l’eccessivo costo del grano di cui «tota Italia fuit in penuria». Nel
1615, come leggiamo ancora in Villani, un’altra insurrezione
popolare aveva distrutto il ghetto ebraico.

3. Nuova fiera sul porto


Villani nel 1650 attribuisce ad un’eclissi di luna la rovina
d’Italia prodotta dalle guerre. Nel 1618 per carestie ed epidemie
egli ha dato la colpa all’apparizione di una cometa. Secondo
Villani la crisi di Rimini nasceva dalla scomparsa dei cittadini
migliori. Erano rimasti gli incapaci ed i meno ricchi. Di soldi in
giro ce ne sono pochi. Il cardinal legato riduce le cariche (a
pagamento) in Consiglio civico, i cui componenti passano da 130
a 80. Diminuisce la popolazione urbana. Dalle circa diecimila
anime tra fine 1500 e 1608, si passa nel 1656 a 7.717 con più di
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 27

tre anni. Sui dati precedenti manca ogni altra precisazione circa
l’età. Nel 1524 le anime registrate sono 5.500, ma dai cinque
anni in avanti. L’alta mortalità infantile faceva prendere queste
precauzioni statistiche.
Nel 1656 la città ottiene dal legato una nuova fiera sul porto in
onore di sant’Antonio da Padova dal 6 all’11 luglio inclusi.
All’inizio del secolo la crisi economica aveva unificato ad ottobre
in una «fiera generale» i tre appuntamenti tradizionali: la fiera
delle pelli per sant’Antonio (12-20 giugno), la fiera di san
Giuliano (presente dal 1351) tra 21 giugno e 22 luglio e la fiera
di san Gaudenzio (nata nel 1509) ad ottobre. Era l’effetto di un
declino commerciale ed economico a cui non si sapeva reagire.
Già nel 1613, narra Adimari, cinquanta mercanti tra forestieri e
cittadini, avevano chiesto una nuova fiera in primavera, «mossi
dalla bona commodità del vivere et negotiare, et conversare et
fare esito delle loro mercantie in questa città». Finalmente nel
1656 c’è questa iniziativa che si ripete nel 1659, ma è sospesa
nel 1665 quando il governatore di Rimini rifiuta di prorogarla.
Riprende il 22 maggio 1671 per undici giorni (cioè sino al primo
giugno), con l’autorizzazione di papa Clemente X del 13 agosto
1670.

4. Ricerca della data migliore


Nel 1678 l’apertura è posticipata al 3 agosto, per sperimentare
«se in questo tempo potesse prendere quell’augmento che hoggi
giorno fa’ conoscere l’esperienza non ritrovarsi, a causa forse di
venire in tempo scarso di monete per non essere seguiti li
raccolti». Non sono d’accordo i doganieri: in agosto con la
franchigia per la fiera riminese, non pagherebbero dazio le
barche che ritornano dalla fiera di Senigallia. Il 10 maggio 1681
la fiera sul porto è sospesa. Ogni anno era andato «diminuendo il
concorso» di mercanti e compratori per cui non portava «se non
incomodo» ai commercianti di Rimini (AP 871).
Nel 1691 la fiera riprende. L’anno precedente il prefetto delle
«Entrate» ha scritto al Consiglio: sono andate in disuso e sono
state tralasciate le due fiere tradizionali, quella d’ottobre dalla
porta del borgo di san Giuliano alla Madonna del Giglio, e l’altra
di maggio sul porto (AP 873). Nel giro di un secolo
l’appuntamento autunnale di san Gaudenzio era passato dal
borgo di porta romana a quello di san Giuliano. Il prefetto
proponeva di «rimettere ò l’una ò l’altra», con un calendario
adatto sia alla città sia ai mercanti forestieri.
Il 17 giugno 1690 il Consiglio civico aveva approvato (25 contro
12) di ripristinare alla fine del maggio 1691 «la fiera che si
faceva nel Porto», seguendo concessioni e privilegi papali del
1670. Il segretario comunale Felice Carpentari il 18 ottobre
1690 ha suggerito un posticipo al 6 luglio, in deroga agli ordini
di papa Clemente X del 1670, «parendo che in detto tempo si
rendesse più facile l’introduzione, e più numeroso il concorso»
dei mercanti. Ed il Consiglio ha approvato (34 contro 6).
Il 14 febbraio 1693 non è però giunta ancora l’autorizzazione
allo spostamento della data quando in Consiglio si legge ed
approva (32 contro 11) un nuovo memoriale del prefetto delle
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 28

«Entrate» che invita ad osservare il vecchio calendario di fine


maggio. Lentamente le fiere riminesi vanno di nuovo «in disuso».
Soltanto nel 1726 si riapre quella sul Porto in onore di
sant’Antonio (AP 626).

5. I danni del terremoto


Per tutto il XVII secolo grava su Rimini anche la minaccia dei
pirati barbareschi. Nel 1673 Clemente X finanzia la costruzione
di sei torri costiere d’avvistamento e difesa. Ma anche i pirati
sono presto oscurati: nel 1672 la città è stata devastata dal
terremoto del giovedì santo. Per molti, leggiamo in una cronaca
anonima, seguì «prima la sepoltura che la morte». Il papa manda
12 mila scudi per sistemare le case dei poveri. La ricostruzione è
lenta. Circa quella della chiesa della Colonnella, documenti
inediti smentiscono vecchi studi. I restauri non terminano nel
1676. Anzi l’anno dopo ancora manca da Roma la licenza di
riedificazione. Nel 1688 figura in piedi il cantiere al convento.
Non può quindi essere del 1676 l’epigrafe (scomparsa) a ricordo
della conclusione dei lavori, firmata dal secondo priore della
chiesa. Anche perché un’altra epigrafe (scomparsa) datata 1686
reca la firma del primo priore Girolamo Serra. Mentre il terzo
priore di un’ultima epigrafe (pure essa scomparsa) è collocato
nel 1682 in successione fra il secondo ed il primo priore. Altrove
si legge che un’epigrafe ben nota (citata da C. Tonini), è del 7
settembre 1698. Essa invece si riferisce al 7 settembre 1682,
data dell’investitura ai Padri Riformati del Terzo Ordine. La cifra
è scritta: «MDCXIIXC». Va letta «1600 più (100 meno 18)»
ovvero 1682.
Nel 1676 dal vescovo il Consiglio ottiene il parere favorevole ad
utilizzare nei restauri i denari dei legati per le lampade della
chiesa. Ma ogni decisione spetta a Roma. Invece il vescovo
contesta l’investitura ai Riformati, che trova contrari anche i
Minimi i quali ricorrono alla Congregazione del Concilio.
L’investitura legale del 7 settembre 1682 è preceduta da
delibera del Consiglio del 16 ottobre 1680. Il 4 maggio 1682
(prima dell’investitura) il Padre provinciale di Bologna Ippolito
Rosini assicura ai sei religiosi della Colonnella un sostegno
economico garantito da tre conventi della sua Provincia: la
Carità di Bologna, il Pradello (ossia Piratello) di Imola e di San
Rocco «fuori di Cesena». Ad essi sarà associato nel 1683 quello di
Santa Maria di Curola (ora Corla) a San Martino in Argine di
Molinella.

6. La grande inondazione della Marecchia, 1614


In una cronaca di Anonimo datata 1728 le vicende riminesi a
partire dall’anno 1601 sono narrate in una successione
cronologica che passa in rassegna personaggi eminenti ed eventi
clamorosi. Si comincia con il capitano Antonio Tonti «insigne
ingegnere nelle guerre del Piemonte». Si prosegue con le
immagini miracolose della Vergine della Polverara e del
Molinazzo fuori porta di sant’Andrea. Si alternano le «discordie
con i Veneziani» (1606, anno di gelo e vento), la nomina di
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 29

Michel Angelo Tonti a cardinale (1608), ed il miracoloso


salvataggio di un giovane che stava per annegare, davanti
all’immagine della Madonna della Scala da lui impetrata. E che i
borghigiani riconoscenti vollero onorare con la chiesetta
terminata nel 1611.
Un’altra storia d’acqua è quella presentata del 1614, quando «fu
una inondazione così grande, che unitasi la Marecchia con altri
fiumi, e massime in lontano col Rubicone che apportò danno
molto notabile restando le barche, cessata quella disperse per gli
orti di Marina, e molte fracassate, e moltissimi marinari anegati,
e molte merci perite, e la terra per tutta la campagna ove era
stata l’inondazione restò per molto tempo infeconda». Due anni
dopo per un fortunale (citato dal canonico Giacomo Antonio
Pedroni nei suoi «Diari» gambalunghiani), affondano molte
barche, «s’affogarono assai persone» e si registrano molti danni
nel borgo di san Giuliano. Nel 1646, secondo l’Anonimo, è il gran
caldo a provocare la morte di molti mietitori «sul campo».
Prima di elencarci l’apparizione in cielo d’una gran cometa
(1618), l’arrivo del nuovo vescovo Cipriano Pavoni (abate degli
Olivetani di Scolca) e l’apertura della libreria pubblica nel
palazzo di Alessandro Gambalunga (1619), l’Anonimo si
sofferma brevemente sulla cacciata degli Ebrei da Rimini (1615)
«per le infinite indegnità che comettevano contro la nostra Santa
Fede, ed imagini de’ Santi, ed altre enormità le quali non è da me
dirle».

7. Una nobiltà spiantata


Un altro memorabile evento è del 1629. Il canonico Giovanni
Antonio Pavoni prima di ripartire alla volta di Roma fa un giro
veloce a salutare i parenti. Entra in casa del nipote Alessandro
«col quale passava grandissima inimicizia» per motivi di soldi. Vi
trova soltanto la moglie, Diamante Diotallevi. Conclusi i
convenevoli di rito, mentre s’avvia ad uscire incontra il nipote
che, visto lo zio, pone mano alla spada. Lo zio gliela toglie. Il
nipote sfodera una pistola con cui ferisce mortalmente il
canonico. Alessandro è l’ultimo erede di casa Pavoni che
s’estingue nel 1635 con la sua scomparsa.
Nel bene e nel male i protagonisti di questa cronaca sono
unicamente personaggi illustri, gli esponenti della ristretta
oligarchia patrizia che governa la città: «Una nobiltà provinciale,
presenzialista e spiantata, preoccupata solo di salvare le
apparenze e gettare fumo negli occhi. Con esiti disastrosi per le
finanze pubbliche», come leggiamo sul web in una pagina non
firmata, ma certamente uscita dalla penna arguta di Piero
Meldini. Che facendo la storia della Biblioteca Gambalunga (p.
24) riporta l’«eloquente e malizioso» ritratto del «tronfio quanto
spiantato ceto patrizio locale» (sono parole di Meldini) composto
nel 1660 dal bolognese Angelo Ranuzzi, referendario apostolico
e governatore di Rimini: «Vi sono molte famiglie antiche e nobili
che fanno risplendere la Città, trattandosi i Gentiluomini con
decoro et honorevolezza, con vestire lindamente, far vistose
livree et usar nobili carrozze: nel che tale è la premura et il
concetto fra di loro, che si privano talvolta de’ propri stabili, né
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 30

si dolgono di avere le borse essauste di denari per soddisfare a


così fatte apparenze».
I dimenticati della Storia passano sullo sfondo. Sono ricordati
con qualche riga quando certi eventi interessano tutta la
collettività. Come per l’«inondazione così grande» che colpisce le
principali attività dell’economia riminese, marineria ed
agricoltura. E che affascina le fantasie degli storici ottocenteschi
come Carlo Tonini. Nel narrarla egli rimanda non alla miseria
che dovette seguirne per molte famiglie (se non per buona parte
della città), ma ad un ricordo letterario. Scrive che a quella
alluvione si potevano «ottimamente applicare i versi delle
Metamorfosi di Ovidio, ne’ quali è si vivamente descritto il
Diluvio di Deucalione e di Pirra».

8. La lettura del passato


Il cronista Carlo Tonini che torna sul fatto due secoli dopo
rispetto ai colleghi secenteschi, ci consegna un’immagine ben
delineata del modo con cui a Rimini si è scavato in questo
campo: con il paraocchi della buona letteratura sotto le cui ali
protettrici tutto si pone, spiega ed illumina. Tonini immaginava
di rivolgersi soltanto a pochi, eruditi lettori i quali come lui
sapevano ovviamente tutto di Ovidio, del mito pagano del diluvio
(derivato da Esiodo), come se fossero quel Giacomo Leopardi che
racconta le stesse cose ad apertura programmatica delle
«Operette morali» nella «Storia del genere umano», non per
soddisfare curiosità dotte, ma per mettere in crisi tutto un
sistema pensiero (alla fine «Giove [...] mandò in terra la Verità e
rimosse tutti gli altri antichi fantasmi, ad eccezione dell’Amore:
sorse così la quarta ed ultima età dell’uomo, quella della
infelicità»). Ovidio aveva fatto di Deucalione il simbolo di una
rinascita. Scelto da Zeus assieme alla moglie Pirra per la pietà
che li caratterizzava, si salva con lei durante i nove giorni di
diluvio che sommerge la Grecia quale punizione divina alla
degenerazione umana.
Quando Carlo Tonini raccoglie le memorie riminesi già da tempo
gira la triplice lezione «cattolica» di Alessandro Manzoni. Contro
la mitologia «pagana». Sui limiti della Storia che «è costretta a
indovinare. Fortuna che c’è avvezza». E sul considerare la Storia
come frutto soltanto dell’azione di pochi uomini illustri. Su
quest’ultimo aspetto si sofferma nell’ironica «Introduzione», dove
demistifica le pretese dei vecchi libri di raccogliere le vicende
umane in una solenne sfilata di personaggi egregi, quegli «Heroi»
che il Gran Lombardo deride non per semplice gusto letterario,
ma in virtù d’una concezione religiosa che fa degli umili i
protagonisti della Storia stessa. Di contro s’eleva la vecchia,
drammatica concezione del mondo illustrata da don Rodrigo:
«Son come gente perduta sulla terra; non hanno neanche un
padrone: gente di nessuno».
Ma la Milano di don Lisander è molto diversa da una città di
periferia come Rimini dove le novità giungevano in ritardo o non
giungevano affatto. Però Carlo Tonini s’era laureato in legge a
Roma. Cioè aveva vissuto un’esperienza non provinciale. Il
padre lo descrive tutto preso dagli interessi filologici e dalle
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 31

Belle Lettere. Fu poeta in cerca di gloria con versi di «gusto


oraziano e di significato cristiano» (Masetti Zannini, p. 52).
Possiamo immaginare il suo scandalo quando, avendo chiesto
all’alunno Giovanni Pascoli «quale fosse la sua dottrina di
carattere filosofico e religioso», si sentì rispondere: «Io, signor
professore, la penso come Giacomo Leopardi». Con un retroterra
da letterato umanista, Carlo Tonini ben poco può interessarsi
alla sorte (non alla filosofia) del «semplice pastore», alle vicende
dei poveri marinai e dei contadini disgraziati. Tutti costoro
quando appaiono nella sua «Storia» sono appena un breve
accenno, quasi involontario nei suoi progetti narrativi. La gente
vera e viva s’intravede più facilmente attraverso i documenti
inediti che a migliaia sono conservati nei pubblici archivi.

9. Le carte raccontano
Torniamo ad esempio alla storia della chiesa della Colonnella che
abbiamo ricordato a proposito del terremoto del 1672. Un passo
indietro. La chiesa è affidata nel 1517 alla «Congregazione di S.
Maria degli Angeli di Venezia» degli eremiti di san Girolamo di
Fiesole, fondata nel 1360 da Carlo dei conti di Montegranelli,
sacerdote e terziario francescano. Essi sono presenti in laguna
dal 1412. Da noi giungono nel 1504 (durante la dominazione
veneziana, 1503-1509), ottenendo il convento e la chiesa di
Santa Maria degli Angeli «alla Patarina» (zona dell’anfiteatro).
Al priore di tale chiesa, Salomone da Treviso, è concessa la
Colonnella nel 1517. I Girolomini «fiesolani» non vanno confusi
con quelli di Pisa, nati nel 1380 per volere del beato Pietro
Gambacorta (1355-1435), ed attivi a Rimini nel 1494 quando
comprano l’oratorio di sant’Onofrio. I «fiesolani» sono soppressi
nel 1668: perché, scrive nel 1773 papa Ganganelli («Dominus ac
Redemptor»), «non portavano nessun utile o vantaggio al popolo
cristiano».
Nel 1669 la Colonnella è affidata ai padri Angiolo e Filippo
dell’ordine dei Filippini. Nel 1671 è istituita una commissione
comunale per trattare l’investitura della chiesa ad altro ordine.
Nel 1676 il cardinal Gasparo Carpegna, prefetto della Curia
romana, raccomanda un don Carlo Ricci. Nello stesso anno in
Consiglio a Rimini sono ballottati gli Osservanti di san
Bernardino e i Riformati del Terzo ordine che prevalgo con 46
voti contro 36. Nel 1678 i Riformati non hanno ancora
accettato, poi il 16 ottobre 1680 avviene la loro investitura resa
legale il 7 settembre 1682. Pare che tra 1676 e 1682 abbiano
officiato cappellani locali.
Il 4 maggio 1682 il Padre provinciale di Bologna Ippolito Rosini
assicura ai sei religiosi destinati alla Colonnella un sostegno
economico che però arriverà soltanto in parte. Nel 1726 il debito
sarà di 2.480 scudi sui 2.772 dovuti, pari all’89,47%. Padre
Rosini è subentrato come provinciale nello stesso 1682 a
Giacomo Guidotti che era stato nominato nel 1681. Guidotti,
priore a Santa Maria della Carità di Bologna, il 16 ottobre 1680
era stato scelto a Roma dal Ministro generale quale responsabile
della costruzione e del restauro della Colonnella. Nel 1681
Guidotti come provinciale ha nominato i titolari di San Rocco di
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 32

Cesena (Placido Fantini), di Santa Maria del Popolo a


Forlimpopoli (Giovanni Battista Caleffi) e di Santa Maria della
Carità di Bologna dove è mandato padre Girolamo Serra, che
sarà il primo priore di Rimini. Padre Guidotti diverrà
successivamente ministro generale. Un volume bolognese del
1690, conservato nell’Archiginnasio, lo ricorda in tale carica
quale erede di Lodovica Segni Tebaldi per beni destinati a Santa
Maria della Carità.

Nota bibliografica
Sulla storia della chiesa della Colonnella, cfr. A. MONTANARI, I Padri
"della Becca" alla chiesa della Colonnella di Rimini. Documenti (1680-
1726) dell'Archivio storico comunale di Rimini conservati
nell'Archivio di Stato di Rimini, copia pro manuscripto, 2007, BGR,
segn. M.0700.01085, passim.
Sulle pagine di Angelo Ranuzzi si confronti supra la parte contenuta
nel testo destinato alla pubblicazione «L’heretico non entri in fiera», e
precisamente in passo in cui osservo che «Ranuzzi nello scrivere quel
ritrattino al curaro era forse guidato soltanto da un suo privato livore
verso quanti reggevano la cosa pubblica, piuttosto che dal desiderio di
recare un contributo alla comprensione di una società in crisi
tremenda anche per colpa della politica romana».
Presenza degli Ebrei a Rimini, p. 33

© RIPRODUZIONE RISERVATA[/COPYRIGHT]
Edizione informatica 2011, 7 gennaio

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