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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

EMILIANO BIAGGIO

I miei omaggi
Scritti e racconti con dedica

Illustrazioni di Emiliano Biaggio

In copertina: rielaborazione de l'inchino di Tosca Zampini

finito di stampare il 28 dicembre 2010

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

Presentazione

Il titolo esprime già tutto: I miei omaggi- scritti e racconti con dedica è una raccolta di scritti,
per l’appunto, dedicati a qualcuno. A singole persone, ma anche a più persone contemporanea-
mente. Omaggi, quindi, a chi ha saputo suggerire spunti per quello che poi ha finito col riempire
queste pagine. E una sorta di ringraziamento, se vogliamo, per momenti di vita indimenticabili.
La preziosità degli individui sta in quello che sanno trasmettere e insegnare e, quindi, lasciare.
Così c’è chi sa trasmettere la gioia di vivere, chi fa scoprire la gioia d’amare, e chi invece regala
anche momenti per riflettere. Ma c’è anche chi ci fa del male, suo malgrado. La raccolta di
racconti e scritti vuole essere un omaggio per chi ha saputo trasmettere tutto questo. Nello
scegliere l’ordine degli scritti che seguono si è adottato il criterio della temporalità, sistemando i
racconti dal meno al più recente, per una serie di scritti e racconti realizzati in momenti diversi
che sistemati in ordine cronologico mostrano “l’evoluzione” dei ricordi, dei ringraziamenti e
dello scrivere. Perché, si noterà, diversi sono gli stili di scrittura usati.

Due parole vanno spese per Nonsaprei. Questo in realtà doveva essere l’inizio di un libro a sé
stante, ma “la crisi dello scrittore” non ha permesso il proseguimento dell’opera cominciata.
Magari un domani verrà realizzata, ma intanto è stato deciso di inserire questo scritto nella
raccolta perché comunque dedicato, fin dal principio, alle persone che compaiono sotto il titolo.
Non dal principio, invece, nacque l’idea – e quindi la dedica – per Musica. Questo è infatti un
racconto che nasce per caso: a distanza di anni, in un altro Paese del continente senza alcun
preavviso una domanda di una persona fa riaffiorare ricordi tenuti sepolti nella memoria per
molto tempo. Musica cattura tutto questo: il riaffiorare dei ricordi e della storia legata a questi
ricordi. Altre parole possono essere spese per Porto di mare, un omaggio all’amicizia e alle
follie che si commettono quando la maturità è ancora lontana e la crescita di un individuo- nel
caso del racconto due- è appena iniziata. Quindi c’è un Breve racconto grottesco di un
incomprensibile mondo reale, che rappresenta il seguito- o meglio, lo sviluppo- della storia già
narrata in Una mail- storia di un giovane alle prese con un dipartimento. Poi c’è La principessa

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Mar, dedicata a chi si ritrova per soprannome ‘la principessa’. E le principesse, si sa, sono da
sempre al centro della narrazione. Non aggiungiamo altro, per non rovinare sorprese né togliere
curiosità al lettore. Non resta quindi che augurare buona lettura.

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La musa senza volto (2000)


A De Chirico, e alla sua pittura

Da sempre la musa senza volto stava immobile sul suo basamento, rigida nella sua
inflessibilità, rivolta sempre verso la stessa direzione. Inanimata, messa in risalto dalla luce, era
stata sempre estranea al suo mondo, un modo che non aveva mai visitato, mai conosciuto.
Un giorno però l’ardente desiderio di sapere e l’irrefrenabile spinta della curiosità permisero
alla musa di animarsi. Ella si destò e si guardò attorno. Inizialmente restò quasi abbagliata da
quella luce, una luce tenue ma al tempo stesso intensa, calda ed evanescente: crepuscolare.
Sopra di lei incombeva uno strano cielo verde smeraldo.
Vide la sua amica tranquillamente seduta, e notò il castello rosso che aveva da sempre avuto alle
spalle di cui mai aveva appreso l’esistenza. Allora vi entrò e si stupì nel vedere come fosse
vuoto. Cominciò a chiedersi dove fosse l’arredamento, ma non lo sapeva.
La musa senza volto salì per le scale della torre, fino ad arrivare in cima. Una volta lì si affacciò,
e nella valle sottostante scoprì un mucchio di mobili accatastati : subito capì che quello era
l’arredamento che non aveva trovato nelle sale del castello, e si domandò il motivo per cui si
trovassero lì. Ma non seppe rispondersi.
La musa senza volto girò la sua testona rotonda ed individuò una bambina che stava giocando
con una ruota nella piazza silenziosa, e notò come sorprendentemente come la bimba fosse solo
un’ombra che si confondeva nell’ombra. E non riuscì a comprendere. Ciò di cui però si era resa
conto fu che sia lei, sia la bambina erano entrambe indefinite. La musa allora forse iniziò ad
intuire. Poi cercò di spiegarsi per quale ragione quella ruota roteante con cui la bimba giocava le
trasmettesse un senso di mistero e malinconia, ma non se lo seppe spiegare. Così diresse i suoi
occhi verso il mare e questi incontrarono un’ambigua, singolare e imponente figura senza testa
che scrutava l’orizzonte da un’altura sopra la spiaggia: l’oracolo. Quale era mai il suo enigma?
La musa senza volto diresse verso il basso la sua vista e sulla riva scorse del movimento: sulla

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sabbia galoppavano felicemente i cavalli attici mentre Ettore e Andromaca coltivavano la loro
intimità. La musa guardò questi ultimi con grande ammirazione: loro così solenni,maestosi,
geometrici e armoniosi; lei, invece, così indeterminata e inquietante. Nel frattempo, nel mare, un
misterioso nuotatore fendeva delle insolite onde.
Ella iniziò a conoscere quel mondo, ma capì che la conclusione a cui era vicina non l’avrebbe
potuta trovare soltanto dominando, ma interagendo. Così discese dalla torre, uscì dal castello e
cominciò a passeggiare lungo i portici ombrosi della piazza silenziosa: guardandosi intorno
vedeva soltanto opere e costruzioni, ma non inventori e abitanti. Poi notò come ci fossero due
orologi: uno sulla stazione, l’altro su un anonimo palazzo. La musa si fermò: rimase colpita, non
disse nulla. Vide scorrere nella sua grossa testona tutte le risposte e le spiegazioni che stava
cercando, racchiuse tutte in quell’enigma dell’ora. Finalmente capì. Finalmente seppe.
Finalmente comprese.
L’oracolo non avrebbe mai avuto una testa, poiché non doveva vedere ma prevedere; il
mistero e la malinconia di quel cerchio erano impliciti nel suo stesso roteare; era inutile tenere
un castello arredato se poi mai nessuno l’avrebbe abitato; nel cumulo di mobili altro non c’era
se non la sintesi della monumentalità e della traslazione di tutto; nessuno lì, né lei né altro
alcuno, avrebbe mai avuto un aspetto poiché nessuno e nessuna cosa lì aveva tempo, e mai
nessuno e nessuna cosa avrebbe avuto età, anche se assoluta; il figliol prodigo non sarebbe più
tornato…
Solo adesso la musa senza volto lesse la lineare irrazionalità di quell’universo visionario, la
profondità interiore, il fascino onirico e il logico non senso. Si rese conto che lì tutto era reale,
ma niente era concreto.
La musa staccò lo sguardo dall’orologio e rivolse un abbraccio immaginario a tutto ciò che la
circondava, salutando il suo mondo consapevole del fatto che non lo avrebbe mai più potuto
visitare perché il proprio vero significato era insito nel basamento che mai avrebbe dovuto
abbandonare. Per cui affrettò il passo e si diresse verso il suo scorcio di mondo, mentre alla sue
spalle, in lontananza, un treno correva verso i confini estremi…Verso l’infinito…

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Noccioline (2001)

Cos’è successo Charlie Brown? Come mai non siete al campo a giocare? Forse non ve la
sentite? E’ comprensibile, ma dovreste saperlo: lui non lo avrebbe mai voluto.
E’ strano, non è vero Charlie Brown? Non eravate abituati a questo, ed è per questo che vi
sentite così, ma ciò non significa che…Ehi, Charlie Brown! Tu… Tu stai piangendo! Perché
piangi, Charlie Brown? E’ per via della bambina dai capelli rossi? Lo so, è andata via per
sempre e tu ne soffri terribilmente. Ma non credo che qualcuno ti verrà a consolare: tua sorella
non ha mai saputo usare le parole nel modo giusto e non credo che imparerà a farlo in questo
momento. Non ha voluto provarci neanche per lui: gli ha tributato il più bel silenzio…
Quanto a Lucy, neanch’ella verrà ad asciugarti le lacrime: ora che ti ha visto in queste
condizioni, ha capito come ci sente in certi momenti, e non avrebbe senso infierire contro chi è
già sofferente. Non si direbbe, ma anche lei sta soffrendo. Insieme a te.
Che dire poi di Patty, Charlie Brown? Anche lei sta piangendo, proprio come te, ed è per te che
piange. Sono lacrime amare le sue, proprio come le tue. Lei che sui campi da gioco ha vinto
tutto, non è riuscita a vincere l’incontro più importante della sua vita: la sua partita con te. E’
ancora innamorata, come lo è sempre stata, ma non sarà mai nel tuo cuore, e questo lei lo sa; e
sa anche fin troppo bene che non avrà più alcuna possibilità: per questo è così triste e affranta. E
piange. E in tutto questo, Marcee si sente smarrita: non ha più un capo da cui prendere ordini, e
non sa cosa fare.
Piangi pure Charlie Brown. Se pensi che possa servire, almeno per sfogarti, piangi pure. Ma
neanche il tuo più caro amico, no!, neanche Linus verrà a sollevarti il morale, indaffarato com’è
a cercare la sua coperta…Ci crederesti, Charlie Brown? Linus ha smarrito la sua coperta!…E
forse mai nessuno gliela renderà. Anche lui si sente smarrito…E preoccupato, proprio come
Snoopy. Il tuo fedele brachetto, Charlie Brown, quel gran sognatore di Snoopy è seriamente
preoccupato perché quest’oggi non ha sogni. E anche se li avesse, non riuscirebbe a riportarlo
qui… Non ha sogni, Charlie Brown! Del resto come si potrebbe sognare in un momento come
questo? Non si può. Non si deve. E forse non si dovrebbe nemmeno piangere: Guarda Pig Pen,

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Charlie Brown! Per la seconda volta si è tolto lo sporco di dosso per vestire nuovi panni: in
fondo lui lo merita.
Woodstock e Franklin, invece, si sono confortati l’un l’altro: tra i tanti punti esclamativi
dell’uccellino ne è comparso, chissà come, uno interrogativo. Stupito e incredulo, l’ha donato a
Franklin che oggi non ha nessun quesito da porre. In effetti non c’è molto da doversi chiedere, e
questo il tuo amico lo sa bene, come del resto lo sai anche tu Charlie Brown. Quindi asciugati
gli occhi e fai fare lo stesso a Patty; poi chiama a raccolta i tuoi amici e preparatevi per l’ultimo
atto di una lunga, intensa e grande stagione teatrale…
La senti questa musica, Charlie Brown? E’ Beethoven: un omaggio di Schroeder per lui, per
te…Per tutti voi. E quando il brano finirà probabilmente finirà anche la vostra storia, com’è
giusto che sia: niente è per sempre, in fondo. Ma lui sarà sempre con voi, nonostante tutto:
sappiatelo. Tenetelo sempre nel vostro cuore e non sarete mai soli. Tenetevi per mano, fatevi
coraggio e siate sempre gli stessi: sorridete, cantate, gioite, giocate e divertitevi tutti insieme per
l’ultima volta, perché è così che il pubblico e lui vi ricordano ed è così che il pubblico e lui-
anche quando calerà il sipario- vogliono ricordarvi. Per sempre…

In memory of Charles Monroe Schultz (1922-2000)

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Dubbio (2002)
A Emanuele

Cammino silenzioso nella quieta cornice di una spiaggia deserta. Il vento, piacevole brezza,
asseconda i miei pensieri. I flutti accompagnano i miei passi. Tutto è calmo. Tutto riposa.
Tutt'intorno niente.
Poi d'improvviso il mare rumoreggia, la luna impietosa mi indica in tono accusatorio, il vento
frena il mio cammino. Istintivamente mi volto: alle mie spalle un infinito manto di conchiglie
gioca a rincorrere la mia ombra. Di colpo tutta quella pace svanisce, niente dorme più ora: ogni
cosa mi aggredisce. I flutti adesso sono possenti onde che si levano altissime per meglio potermi
inghiottire.
Allora fuggo, corro via dalla spiaggia, la rinnego e mi preoccupo solo di ascoltare i palpiti del
mio cuore mentre mi affatico. Poi chissà come, mi ritrovo in mezzo ad una strada dove tutto
tace: adesso è nuovamente quiete e misterioso silenzio...
Pensieroso, turbato, cerco riposo e chiarezza sotto la luce di un lampione. Osservo: la strada si
apre davanti e dietro di me. Devo scegliere come percorrerla. Io... Resto fermo.

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I leoni (2002)
A Mauro

Fa freddo per le strade, anche in questa città dove smog ed effetto serra solitamente non
consentono di avvertire l’inverno. Invece l’inverno è arrivato e si fa sentire. Cappelli e sciarpe
variopinte colorano di mille colori una città ancor più bella in questo periodo dell’anno. Ai
monumenti e al fascino che gli sono propri, si accompagnano le caratteristiche luminarie
natalizie, gli aromi delle caldarroste e il rumore dei generatori dei chioschi improvvisati. E poi
gli addobbi, sempre diversi a seconda di come questo o quel negozio ha voluto abbellirsi, e la
moltitudine di persone che affollano i marciapiedi alla ricerca dei pacchetti da mettere sotto
l’albero. La città torna al servizio della vita extra-lavorativa, la gente si riappropria dei propri
spazi. Troppi uffici e poche abitazioni qui. La gente al centro lavora e acquista, ma è altrove che
vive. E finalmente riscopre la propria città. Attraverso questa realtà urbana sempre pulsante,
evito auto e scanso passanti, respiro gas di scarico, profumi e fragranze. Mi mescolo tra la folla
in quest’isola di pedoni in un mare di ruote e motori, per poi perdermi nel largo spazio racchiuso
dalla piazza, unica in questa sua veste natalizia. I leoni, il rumore del traffico, l’oscurità infranta
delle luci artificiali: ricordi vivi di un passato che riaffiora. I leoni, il rumore del traffico, la
notte, le persone: Londra. Improvvisamente inizia un viaggio tra le pieghe del tempo e dello
spazio: sono a migliaia di chilometri da qui, a quattro anni di distanza. Con me altre persone,
poche. C’è anche Mauro. Dovrei scrivergli, dovevo scrivergli, ma me ne sono dimenticato. Con
gli altri mi sono sentito, con lui invece è un po’ che ho interrotto i contatti. Dovevo rispondere
alla sua lettera, non ne ho avuto ancora il modo. Accendo una John Player e assaporo i ricordi,
ricordi dal sapor tabacco e nicotina. Allora era davvero difficile permetterseli: troppo cara la
vita, troppo pochi i soldi in tasca. E allora giù nella galleria della metropolitana a suonare e
cantare Beatles per pochi spicci, quanto bastava per i nostri vizi. E le nostre bravate di gioventù.
Chissà se anche lui avverte il tempo che passa: non pensavo di arrivare così in fretta
all’università, eppure ci sono. Prima che me ne riesca a rendere conto mi ritroverò nel mondo

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del lavoro. A proposito di lavoro, devo chiedergli come va lì da lui, nella sua casa di incisione. E
come va con il suo gruppo. Sì, devo ricordami di scrivere. Forse già questa sera. Questa sera
non ho niente da fare. Ma a pensarci bene questo tipo di serate sono quelle fatte apposta per
uscire. Allora era sempre così, e finivamo sempre per ritrovarci proprio come adesso, con i leoni
e la notte, in una piazza di una grande città. Chissà com’è Londra a Natale. E chissà com’è
Milano. Devo chiedergli anche questo, adesso che gli scrivo. E pensare che mi ha pure invitato a
salire su. Ah, chissà come gli è andato poi il trasloco. Da Arese a Milano, dalla periferia al
centro, dal paese alla metropoli, dal vivere in famiglia al convivere con la ragazza, anzi “la
tipa”, come dicono lì. Chissà qual è stato l’impatto. Ce ne sono di cose da chiedergli, c’è molto
da sapere. Ma per questo ci sarà occasione. Adesso è tempo di andare: ci sono acquisti natalizi
da fare, e un treno da prendere. Getto ciò che resta della mia sigaretta ormai agli sgoccioli, infilo
la mano nel caldo della tasca della giacca a vento, e resto per un attimo a guardare quel
monumento, quei leoni, quei ragazzi su di essi. Quindi mi giro, mi avvio verso l’imbocco della
metropolitana e scendo le scale, per scomparire nelle viscere di questa città.

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Musica (2005-2006)
A Marzia

…I gave myself to sin, I gave myself to providence and I have been there and back again the
state that I am in…

Il lettore cd inondava di musica la stanza ravvivata dalla luminosità del sole estivo. Era a mille
e più chilometri da casa sua, senza alcuna preoccupazione e con niente che potesse turbarlo.
Stava ancora vivendo un’esperienza che sapeva perfettamente non avrebbe mai dimenticato, ma
soprattutto stava vivendo ormai da mesi in una spensieratezza come mai gli era capitato prima.
E anche quello scorcio di mattinata si era aperto con quella stessa sensazione di piacevole
leggerezza e indefinibile benessere che da tempo scandiva il suo vivere quotidiano. La vista del
sole, l’incontro con l’amico e la colazione a base di caffè e sigarette speciali nella stanza delle
ragazze avevano dipinto un quadro di vitalità e buon umore reso ancor più palpabile
dall’intensità della luce solare riflessa nella stanza e dalle melodie che in essa si susseguivano.

Poi, d’improvviso, quella domanda: “Li conoscevate Belle e Sebastian?”

“Conosci Belle & Sebastian?”, gli domandò mentre estraeva un cd dal raccoglitore infisso alla
parete.
“Il cartone animato? Come no!” le rispose lui di rimando con un tono burlesco.

Ella rise, quindi gli disse: “Proprio quello”. Poi aggiunse sorridendo: “A parte gli scherzi, li
conosci?”, ben sapendo che lui non li aveva mai sentiti neanche nominare.

“No”, riconobbe lui, guardandola con quel senso di ammirazione che sempre gli suscitava,
qualsiasi cosa ella facesse. Anche nelle piccole cose lui la trovava straordinaria. Come quando
lei in un momento in cui era rimasta da sola a riflettere, aveva impresso i propri ragionamenti e

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le conclusioni cui era giunta su un foglietto che poi, chissà perché, aveva attaccato su una parete
della cucina. E lì lui poté leggere la sintesi dei suoi pensieri: il miglior rapper della storia è un
bianco, gli svizzeri sono campioni del mondo di vela, ergo il mondo gira al contrario. Trovò
simpatico il modo con cui ella era giunta alla sua risposta, e rimase piacevolmente sorpreso da
quello che aveva fatto. Ogni suo minimo gesto era per lui una continua sorpresa, la scoperta di
tanti mondi nuovi dei quali aveva sempre ignorato l’esistenza. Qualsiasi cosa ella facesse, lui la
trovava meravigliosa. Forse, anzi sicuramente, perché frutto di una persona meravigliosa.

Di cosa si era innamorato prima? Della sua risata? Del suo sorriso? Del suo ottimismo?
Oppure semplicemente della sua allegria? Non avrebbe saputo dirlo con esattezza, ma certo è
che da quando lei era entrata nella sua vita, questa si era fatta più briosa, aveva acquistato colore
e musica. Già, la musica. Lei ne andava matta: ne ascoltava di tutti i tipi e per tutti i gusti. Aveva
artisti e gruppi di ogni parte del mondo. Nella sua cameretta c’era una quantità tale di dischi e di
cd che sembrava di essere in un negozio di musica; e come un gestore di un negozio di musica
ella conosceva a menadito ogni singolo gruppo e cantante e cantautore, e per ognuno di questi
aveva almeno un album. Conosceva le date di uscita dei nuovi album, quelli più attesi e quelli
poco pubblicizzati ma pronti a rivelarsi ‘sorprese’ dell’anno. E, soprattutto, era sempre
costantemente informata su tutti i concerti in programma. Fu lei a proporgli il concerto della
Bandabardò, formazione emergente di cui lui, proprio come i Belle & Sebastian, non aveva mai
sentito neanche nominare. La loro musica era energica, vitale e allegra, proprio come lei. Era il
loro primo concerto insieme, e lei gli aveva fatto conoscere già una parte di sé. E a lui piacque.
La mattina dopo si vide con un suo amico al quale raccontò del concerto della sera prima, e
quando seppe che questi possedeva un cd della band, se ne fece fare una copia da portare a lei.
Volle essere un ringraziamento per averlo reso partecipe dell’ascesa professionale della fino a
poche ore prima a lui sconosciuta Bandabardò, e un modo per contribuire ad accrescere la sua
collezione di dischi. Quando si videro il pomeriggio scoprì che anch’ella aveva provveduto a
fargli una copia dell’unico cd che aveva del gruppo. Un modo per farglieli conoscere e
apprezzare meglio o un modo per conservare un ricordo tangibile del loro primo concerto? Non
lo sapeva, ma si meravigliò nel vedere come avevano avuto la stessa idea. Iniziavano a
condividere qualcosa, ad avere interessi in comune, e di pensare alla medesima cosa senza che
se lo rivelassero.

I ricordi erano ancora nitidi, come se quello che stava rivivendo fosse accaduto pochi giorni
prima. E invece erano passati anni. Sapeva di non essersi dimenticata di lei, dopotutto come

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avrebbe potuto farlo? Quanto le aveva voluto bene? Difficile quantificarlo, ma quello che aveva
provato con lei non lo aveva mai provato prima. Lo sapeva e non poteva nasconderselo. Fu lei la
prima che gli provocò dei sussulti cardiaci che mai, prima di lei, nessuna aveva saputo generare.
Cos’era quel pulsare veloce del cuore quando stava con lei? Perché ogni volta che i loro visi si
sfioravano, ogni volta che le loro labbra si incontravano e ogni volta che lui respirava il
profumo di lei quelle palpitazioni, quel battere all’impazzata? Non lo capì subito, o forse, più
semplicemente, non lo volle riconoscere. Ma quando si rese conto di quanto lei avesse cambiato
la sua vita, non poté non provare un senso di felicità per lui nuovo e piacevole. E quando ella
sparì dalla sua vita scomparve anche quella felicità che con lei era venuta. Anche per questo la
ricordava, anche per questo ne sentiva la mancanza, come già capitato in diverse occasioni.
Come quella mattina, sul treno…

Stava andando all’università. Non che dovesse seguire lezioni, quelle in genere non le seguiva
mai, a meno che non fossero materie che rendessero necessaria la spiegazione, tipo economia o
statistica. Andava per sbrigare pratiche burocratiche relative alla sua imminente partenza per
l’estero, e carte annesse da presentare alla università ospitante una volta giunto a destinazione.
Andava anche a discutere della tesi con il suo relatore, che con abbondante anticipo gli aveva
garantito la disponibilità per la discussione e già assegnato, di comune accordo con lui,
l’argomento su cui lavorare. La incontrò sul treno, a quasi due anni di distanza dalla fine del
loro rapporto. Non ebbero modo di conversare come si converrebbe tra due persone che non si
incontrano da tempo per via della presenza di alcuni amici di lei, cosicché per tutto il viaggio i
discorsi si divisero e si incrociarono, si sovrapposero e si interscambiarono tra le sei persone
presenti nello scompartimento. Solo alla fine, quando il treno era già entrato nella stazione di
fine corsa, lei si interessò di cosa lui stava andando a fare in facoltà. Le spiegò della tesi e di
come temeva, per via di una media non proprio esaltante ma neanche troppo malvagia, di non
raggiungere il voto finale che avrebbe voluto.
“Non ti preoccupare”, gli disse. “Se è questo che vuoi, allora questo avrai”.
Con questa frase egli capì quanto avesse bisogno di lei, sempre ottimista e pronta a rassicurare e
infondere coraggio. Era sempre stata così, lei: sicura, positiva, mai catastrofista. Sempre piena
di entusiasmo e sempre pronta a credere che i problemi, in realtà, stavano lì appositamente per
essere risolti. Una persona come lui aveva tremendamente bisogno di una donna come lei. Lui,
insicuro, scettico e tendenzialmente pessimista, individuo carico di dubbi e incertezze, e
animato da mille paure, avvertiva il desiderio di una persona che lo strappasse via dalle sue

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insicurezze. Avvertì il bisogno di quella calma e di quella positività. Sentì la mancanza di lei. E
riscoprì, da una frase, quanto fosse meravigliosa nella sua semplicità, nell’essenzialità di un suo
piccolo gesto o di sole poche parole. E pensare che all’inizio quel suo ottimismo gli dava
fastidio, perché gli sembrava innaturale che lei non avesse mai un tentennamento, un’esitazione,
o un motivo di lamentela; e poi perché con quel suo modo di affrontare le difficoltà aveva
l’impressione che lei volesse prenderlo in giro. Eppure era questo suo modo di essere che la
rendeva grandiosa. Troppo grandiosa. Lui non si era mai sentito all’altezza di lei, fu questo che
inevitabilmente finì per portarlo via da lei. Ma lui aveva impressione che lei fosse migliore in
tutto. Lei aveva una vasta conoscenza musicale e lui no; lei aveva più esperienza di lui in fatto
di partner; lei aveva una sicurezza in sé che lui invece non possedeva; lei, inoltre, era bella e
solare, mentre lui decisamente più ombroso. Più di una volta si domandò perché una come lei
stava con uno come lui, cosa la teneva così vicino ad una persona così diversa da quello che lei
era; più di una volta aveva paventato che lei potesse incontrare qualcuno migliore di lui, che la
facesse sentire più a proprio agio, e sparire per sempre. Era questo che temeva: di non essere
all’altezza di lei e delle sue aspettative, e di perderla per colpa dei propri difetti. Ma non si rese
conto, che così pensando, la stava già perdendo. E allora il ricordo successivo di lei non fu solo
memoria, ma soprattutto rimpianto e rammarico: per quello che era stato, per ciò che avrebbe
potuto essere, e per ciò che non fu mai.

Quante cose avrebbe voluto fare con lei? Tante. A partire da quella serata, quella in cui lui
voleva festeggiare il suo ventotto preso all’esame di inglese. Doveva essere un’occasione
speciale, da passare assieme in tutta serenità e allegria, e invece la sorte volle che quella fu la
sera in cui lei gli annunciava che tra loro era tutto finito. Nel ricordare questo il suo viso si
contorse in una smorfia che voleva essere un sorriso, ma non lo era. Buffo: lui che da anni non
festeggiava il proprio compleanno e che per una volta aveva deciso di condividere con qualcuno
un momento di festa, vedeva spazzata via questa giornata memorabile proprio da lei, unica
invitata al party privato. Quella che avrebbe dovuto essere una serata speciale finì con il
diventare una situazione imbarazzante, con loro due seduti al tavolo l’uno di fronte all’altra
senza sapere che dire e che fare, con due birre appena servite e un tempo che sarebbe stato
interminabile per consumarle nell’imbarazzo. Lui non sapeva che fare: certo, ora che la festa era
stata rovinata almeno la birra se la sarebbe concessa. Non ricordava se lei gli chiese “che
facciamo?”, ma ricordò per certo che in quella sua condizione di delusione mista a rabbia decise
che sarebbe rimasto lì per la birra, perché secondo i piani con lei doveva stare e con lei sarebbe

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stato. A quel punto anche per condividere quel disagio e quel silenzio che li avvolgeva. Avrebbe
voluto romperlo, riempirlo con qualunque cosa, ma non vi riuscì. Si ripeteva mentalmente
“avanti, fai qualcosa, puoi ancora salvare la situazione e riprendertela”, ma non seppe fare nulla.
Si preoccupò di contenere le lacrime, e nient’altro, mentre malediceva sé stesso per quanto era
accaduto. Durante il viaggio di ritorno, lui le diede quello che automaticamente acquistò il titolo
di ‘ultimo regalo’, un cd di Francesco Guccini dal sapore beffardo lì a ricordare loro un’altra
occasione sfumata.

Lo ricordava bene: quel giorno andò a comprare i biglietti con lei, mano nella mano.
Nonostante lui avesse la patente decisero di andare con l’autobus, così da poter avere più tempo
da condividere. Quella volta era stato lui a proporre il concerto: lei Guccini non lo aveva mai
visto dal vivo, e a lui avrebbe fatto piacere rivederlo. Lui la invitò e lei accettò di buon grado
l’offerta, e pochi giorni più tardi andarono ad acquistare i tagliandi. Perché quell’eccitazione?
Perché quella carica esplosiva che avvertiva dentro di sé? Perché semplicemente non vedeva
l’ora che il giorno del concerto arrivasse. E arrivò, purtroppo. Quel giorno al concerto lui andò
da solo: lei quella sera preferì restare a casa con il suo cane, un cocker con i suoi anni sul
groppone appena operato da uno di quei mali di cui anche gli animali soffrono, quando sono
avanti con l’età. Così gli disse, salvo poi venire, qualora ci avesse ripensato, con un suo amico.
Egli fu sopraffatto da un attacco di gelosia: non conosceva questo fantomatico amico, ma
avvertì crescere astio e risentimento nei suoi confronti. Quindi cercò di trascinare lei fuori di
casa, ma non ci fu niente da fare. Ella non venne, e lui andò al concerto senza di lei, chiedendosi
il perché di quella situazione e ripetendosi mentalmente “non vengo, resto a casa con il cane. In
caso se cambio idea vengo con un mio amico”. Avrebbe voluto andarci con lei a quel concerto,
ma non fu così. Per fortuna ci andarono degli amici suoi, ma certo queste presenze non lenirono
l’amarezza per l’assenza di lei e la realtà dei fatti.

“E lei dov’è?” gli chiesero gli amici, sorpresi nel vederlo non accompagnato.

“Non c’è”, rispose lui secco e imbarazzato per gli amici che notarono subito che qualcosa non
andava.

“Ma scusa, non è venuta con te a comprare i biglietti?” domandarono alludendo a quella che
in realtà era la vera domanda che volevano porre ma che non posero e cioè “ma ti ha lasciato?”

“Ha avuto dei problemi a casa, è rimasta là”, troncò netto lui con una risposta che, almeno
finché l’amico non fosse andato a prenderla, corrispondeva alla verità. Lui non seppe mai se

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effettivamente lei rimase accanto al suo cocker appena operato o perché già stanco di lui, ma
ricordava come si sentisse solo quella sera. E come nonostante la musica e le luci del palco,
tutto intorno era silenzioso e fosco.

Era sempre scuro a quelle latitudini, ma dopo mesi di grigio, finalmente, adesso, quel cielo
terso. La luce intensa del sole splendente riscaldava i loro corpi da mesi esposti alla rigidità del
clima dei Paesi del nord. Il calore proveniente dall’esterno asciugava le membra dal freddo, le
ravvivava e le rinvigoriva, e trasmetteva un senso di piacevole rilassatezza. Restò nella calda
scia luminosa del raggio solare entrato nella stanza, lasciandosi cullare in totale calma e
armonia. Anche se quell’armonia adesso era stata infranta da tutti quei pensieri fino a poco
prima tenuti chissà dove. Nella memoria, erano lì che dimoravano: perché quelli erano ricordi, i
suoi ricordi di lei. Riaffiorati con quella domanda posta da una delle ragazze sul disco che
stavano ascoltando. Il lettore cd continuava ad inondare la stanza di suoni, mentre il livello del
caffè nelle tazzine si riduceva sempre più e la sigaretta speciale fumava ora tra le dita di uno, ora
tra le labbra di un’altra. Ovunque tutto era un invito a godersi quella giornata estiva, del tutto
inattesa e giunta senza alcun preavviso. Perciò decise di sprofondarvi e perdersi in essa: si
abbandonò sul letto di una delle ragazze lasciandosi investire in pieno dalla luce di quel caldo
giorno appena iniziato. Quindi chiuse gli occhi.

Pensava sempre a lei prima di addormentarsi. Anche quando non voleva, la sua mente, nel
buio che prelude all’inizio del sogno, proiettava sempre il viso di lei: i capelli dorati a
incorniciare quel volto radioso, illuminato da uno splendido sorriso e da due occhi scuri e vispi,
dai quali traspariva tutta la sua vitalità. Pensava sempre a lei: ella era il suo primo pensiero della
giornata, quando si svegliava, a volte anche in stato confusionale per una serata di eccessi, ed
era il suo ultimo pensiero prima di cadere preda del sonno. Pensava a lei tutto il tempo. Ella
aveva riempito la sua giornata, la sua vita, dal primo gesto meccanico del mattino all’ultima
attività cerebrale cosciente della sera inoltrata. Era una sensazione strana, mai provata prima, ma
che non gli dispiaceva affatto. Anzi. Ormai lei era ovunque, la sua immagine lo accompagnava
sempre ed ella era impressa nella sua memoria, a testimoniare quanto significasse lei per lui.

Anche dopo anni gli si ricreava nitido il suo viso, nonostante il tempo trascorso e la mancanza
di sue foto a ricordargli com’era. Già, perché di lei non conservava neppure una foto. E questo

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era sempre stato un suo cruccio. Per certi aspetti, specie dopo la festa mancata, pensò fosse un
bene non avere ricordi visibili e concreti di lei, così da non avere motivi di malinconia; per certi
altri, invece, trovò buffo e curioso che non avesse alcuna foto quando c’era lei che girava con la
macchina fotografica sempre appresso. La portava ovunque andasse, la macchina fotografica.
Quella fu un’altra delle sue sorprese, tirata fuori dallo zaino o dalla borsa, a seconda di cosa
portava in spalla. Ma comunque sempre lì, a portata di mano, pronta ad essere sfoderata in
qualunque momento. Non si poteva dire quand’ella l’avrebbe pescata dalla tasca dello zainetto o
dal fondo della borsetta, ma in ogni istante lei era pronta ad immortalare qualsivoglia
avvenimento. Sembrava una fotoreporter, un’inviata di qualche testata, ma non lo era. Non era
nulla di tutto ciò. Era semplicemente una persona a cui piaceva documentare ogni giorno di vita,
la propria e quella degli altri. Proprio come quel giorno, alla manifestazione.

Lui non sapeva di questo suo aspetto, ancora doveva scoprire questo suo lato e quindi
ignorava che lei avesse portato con sé la macchina fotografica, e lo apprese soltanto nel
momento inaspettato in cui lei la tirò fuori nel bel mezzo dei corteo per imprimere su pellicola
quei momenti di espressione popolare. Ritraeva le facce, catturava i colori, racchiudeva gli spazi
e i luoghi di quella manifestazione di democrazia. E lui le dava una mano. Ricordava come lei
gli chiese di arrampicarsi per poter avere delle “panoramiche”, delle fotografie dall’alto di
quella giornata collettiva. Improvvisamente sul suo viso si disegnò un lieve sorriso: era un
riflesso di felicità, la stessa che provò quel giorno in mezzo a centinaia di migliaia di persone,
quando si sentiva “complice” e compagno di squadra in quel gioco fatto di inquadrature. E di
sguardi. I loro occhi si cercavano e il più delle volte, quando si incontravano, i loro visi si
accostavano, perché attraverso le labbra potessero dirsi ancora meglio quello che gli occhi da
soli riuscivano soltanto a suggerire. Avrebbe voluto conservare uno di quei momenti, uno di
quegli sguardi. Un ritaglio del loro tempo insieme, un fotogramma per il suo album di ricordi, e
invece di lei non conservava neppure una foto. E per quanto il suo ricordo di lei fosse ancora
nitido, temeva che il tempo glielo portasse via. La sua mente aveva smesso da tempo di
proiettare il volto di lei nell’anticamera del sogno, ed egli sapeva che col passare degli anni il
ricordo di lei si sarebbe fatto sempre più vago e indistinto. Come l’avrebbe ricordata un
domani?

Chissà com’era ora, se aveva ancora i capelli lunghi o se invece li aveva scorciati, se aveva
svestito quell’abbigliamento sobrio e vivace di ragazza per un altro più classico da giovane
donna. Non lo poteva sapere, da quando tra loro tutto era finito non si erano più visti né sentiti.

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Eppure ogni volta che per qualche motivo si ritrovava a ricordarla e ripensare e lei, non poteva
fare a meno di porsi queste domande. E di chiedersi cosa facesse, come stesse e con chi. E se
anche lei, ogni tanto, capitava di ripensare a quei giorni passati insieme, e quindi, a lui. Egli
sperava che dopo tutto, alla fine, le avesse lasciato qualcosa. Almeno un ricordo, e un qualche
cosa di buono. Per lui sarebbe stato motivo di felicità, una piccola vittoria con cui compensare,
almeno in parte, la sconfitta patita e la perdita subita. Sapere di essere stato qualcuno per lei, sia
pure per un momento, e non uno dei vari uomini di passaggio nella vita di una donna, ecco,
questo lo avrebbe reso contento e avrebbe conferito dei meriti e dei valori alla sua persona. E
forse qualche altro significato al loro periodo condiviso. Per questo il giorno in cui si videro per
l’ultima volta rimase impietrito nel constatare che dalla camera di lei era già stata rimossa ogni
traccia e indizio che potessero indicare il suo passaggio per quella casa e la sua presenza tra
quelle quattro mura.

La foto che le aveva dato non c’era più: sparita, come se non fosse mai stata attaccata a quella
parete. Diversamente da lui, lei possedeva un fotografia dell’altro: questa lo ritraeva il giorno in
cui si era tinto i capelli con i colori della sua squadra di calcio, subito dopo che questa aveva
vinto il campionato. Ma quel giorno della sua chioma variopinta non v’era alcuna traccia.
Esattamente come quel disegno, quello che ritraeva un giovane seduto sul davanzale, schiena
appoggiata al muro, a contemplare pensieroso l’orizzonte mentre il sole scendeva a nascondersi
dietro il mare. Quella era un’illustrazione tra le tante che lui aveva realizzato nel suo tempo
libero: gli piaceva disegnare, lo rilassava e lo strappava alla realtà quotidiana e circostante,
impegnandolo in un’attività creativa e costruttiva. Quando per puro caso lei vide quei disegni, li
osservò tutti con cura, poi indicando quello del giovane seduto di fronte al tramonto del sole
sull’orizzonte, disse:

“Bello. Questo mi piace”.

Lui non ci stette a pensare, lo prese e glielo porse: “Prendi. Te lo regalo”.

Ma anche di quel regalo non v’era più traccia, perduto com’era nella deriva del loro rapporto.
Cercò di far finta di niente, ma quelle assenze stavano lì ad annunciargli impietosamente che per
lui il negozio di dischi aveva chiuso per cessione attività. Per lui quella stanza era vuota e
fredda, orfana di ciò che era stato e di ciò che non sarebbe stato mai più, un luogo disadorno,
spoglio e terribilmente freddo.

Si rassegnò all’idea di averla perduta, consapevole del fatto che molto probabilmente non si

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sarebbero mai più rivisti.

“Beh…Allora…Ci vediamo”, disse lei a disagio, in difficoltà per quei saluti del congedo
ufficiale.

“Credo proprio di no”, replicò secco lui, più infastidito e adirato che intristito.

“Almeno ti posso chiamare?”, domandò lei.

“No”, tagliò corto lui. A che pro continuare a sentirsi? Non avrebbe accettato di vederla in
un’altra veste. E glielo disse. “Non voglio la tua amicizia”. Ella non disse nulla. Fu silenzio
dalla camera di lei al portoncino di casa, dove si salutarono.

“Allora…ciao”.

“Ciao”.

Si lasciarono così. In realtà si erano lasciati già da prima di quel loro ultimo incontro, ma è in
quel modo che si separarono definitivamente: tra imbarazzi, parole strozzate e silenzi. E
probabilmente tra incomprensioni. Discorsi mai affrontati, chiarimenti mai avuti e la netta
sensazione di non essersi detti tutto. Lei tentò di rimediare in extremis, inviando poco più tardi
un messaggio di testo al telefono cellulare di lui.

Non ti abbattere, fidati e sfidati, gli scrisse. Ma lui non era dell’umore e dello stato d’animo
giusti per cogliere quell’ultimo consiglio utile che lei le aveva appena dato.

Non voglio la tua compassione. Fu con queste parole che lui le rispose, dando adito ad una
discussione via sms che non fece altro che confermare i fraintendimenti tra loro. Non riusciva a
ricordare quali fossero stati i messaggi successivi, a parte quello di lei in cui ella diceva Guarda
che la mia non è compassione e via discorrendo. Si erano lasciati senza dirsi granché, anzi,
senza dirsi praticamente nulla, e stavano peggiorando le cose. Questo lui lo ricordava, e pur non
riuscendo a rammentare cosa contenessero gli ultimi sms che si scambiarono, sapeva bene come
lui alla fine smise di rispondere, perché ritenne meglio finirla lì, senza ulteriori strascichi e
ulteriori screzi che potessero macchiare ciò che di buono da tutta quella storia era nato. E così
aveva fatto. Non le aveva più risposto.

Rispose solo in un secondo momento: lo stavano chiamando, ma lui all’inizio non sentì, perso
com’era nei ricordi e nella piacevolezza di quel caldo sole estivo che lo irradiava. Si tirò su, si

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mise a sedere e riaprì gli occhi adesso al riparo dall’accecante bagliore solare. Erano le
connazionali che lo esortavano a prepararsi per andare al lago, a godersi quella giornata estiva
che il clima locale aveva deciso di concedere loro. Era stato deciso di vivere quel giorno di sole
e relax tra una nuotata nello specchio d’acqua a pochi chilometri dallo studentato e la distesa al
caldo sul soffice manto dell’erba. Quel programma produsse una grande gioia e un irrefrenabile
entusiasmo. Tutti si misero all’opera già pregustando quello che li avrebbe attesi, e anche lui
lasciò la stanza delle ragazze per andarsi a preparare, pensando a quello che lo aspettava e
ripensando a lei.

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Nonsaprei (2007)
A Paola, principalmente

ma anche a Davide, Olimpia e Federica.

In un luogo assai distante e molto nascosto, invisibile all’uomo e inaccessibile ai più, esiste
una terra dove gli animali vivono allegri e felici, spensierati e in armonia, senza dover
rispondere a quelle strane usanze per cui un animale deve mangiare un altro animale. In questa
terra magica e meravigliosa, infatti, non esistono le leggi di natura, ma solo il buonsenso e la
felicità, e ogni animale pensa soltanto a trascorrere il proprio tempo nel modo più divertente
possibile e a dividere con gli altri i frutti prodotti dagli alberi e dalle piante. La terra in questione
è Chissaddove, ed è abitata da tutti quegli animali che vivono anche nelle nostre terre, solo che a
differenza del nostro mondo vanno tutti d’accordo. Pensate che Chissaddove sia un posto
strano? Perché? Solo perché tutti gli animali vivono con l’uno con l’altro in pace e in armonia e
nessuno mangia nessun altro non vuol dire che questo Chissaddove debba essere un posto
strano. Se ritenete strano Chissaddove, allora è perché non conoscete la savana di Vattelappesca.
Oh, già, che sbadato!. Non potete conoscerla, poiché si trova nel Paese di Chissaddove che è
invisibile all’uomo e inaccessibile ai più.

La savana di Vattelappesca è un posto abitato da tutti quegli animali che nel mondo degli
uomini si possono trovare in Africa, ma a differenza di tutti gli altri luoghi, nella savana di
Vattelappesca c’è un abitante che ne combina di tutti i colori. Stiamo parlando del leone
Nonsaprei, l’animale più sbadato, distratto e smemorato che si sia mai visto. Nonsaprei si
chiama così perché lui, talmente è smemorato, ha dimenticato il proprio nome e così, ogni volta
che qualcuno gli domanda “come ti chiami?” lui risponde “Non saprei”. Così il leone, che non
ha alcun nome perché non riesce e ricordarselo, alla fine ha tutti i nomi che gli assegnano tutti
quelli che lo conoscono. C’è chi lo chiama Leo, c’è chi lo chiama Gilberto, chi Filippo e chi

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Sergio: insomma, ognuno chiama il leone come vuole, cosicché alla fine l’abitante della savana
di Vattelappesca finisce per avere tutti i nomi che preferisce, ma tanto lui, talmente è
smemorato, non se ne ricorda mai nessuno e tutti hanno preso a chiamarlo Nonsaprei. Nonsaprei
non può nemmeno chiedere ai suoi genitori che nome abbia, perché li ha persi entrambi e non li
ha mai più ritrovati. Eh si! Nonsaprei deve essere davvero tanto sbadato e distratto: si è
addirittura perso i genitori!

Uno dei migliori amici del leone Nonsaprei è la giraffa Pezza, così detta per via delle
caratteristiche macchie che contraddistinguono il manto delle giraffe. Pezza però non è di molte
parole, perché le giraffe non parlano. Neanche i leoni parlano, e nemmeno gli ippopotami e gli
elefanti, ma questo lo dicono gli uomini, che non sono tanto capaci ad ascoltare gli altri. In
realtà tutti gli animali emettono dei versi, ma sono talmente poetici che gli esseri umani non li
capiscono. Ma gli animali parlano eccome, nel loro linguaggio misterioso comunicano proprio
come noi, a parte le giraffe. Queste infatti non emettono alcun verso, e allora Pezza deve
comunicare con tutti i suoi amici scrivendo sul terreno con la zampa. Il leone Nonsaprei sa
leggere, ma non tutti gli animali sanno leggere, specie quando sono piccoli, e più di una volta
Pezza ha avuto difficoltà a socializzare con animali che non sapevano leggere le lettere e le
parole che tracciava nella terra polverosa. Fortunatamente gli animali più grandi, per venire
incontro alle esigenze delle giraffe che non sanno parlare e per dare una istruzione ai propri
piccoli hanno pensato bene di inventare le scuole, così da insegnare a tutti a leggere e scrivere e
poter così comunicare con le giraffe.

Un altro grande amico del leone Nonsaprei è Gedeone, un piccola scimmietta che si diverte
sempre a fare i dispetti e gli scherzi a tutti, come tutte le scimmie dispettose che si rispettano.
All’inizio Gerdeone non era molto amico di Pezza, perché la scimmietta cancellava sempre
quello che la giraffa stava scrivendo, e la giraffa si arrabbiava perché doveva ricominciare
daccapo. Poi con il tempo Pezza si è abituata al carattere dispettoso delle scimmie, ed è
diventata amica di Gedeone anche se lui ogni tanto continua a cancellare quello che scrive
Pezza. Eh si, è proprio dispettoso questo Gedeone. Meno male che a Chissaddove vanno tutti
d’accordo, sennò sarebbero tutti arrabbiati con Gedeone e le altre scimmiette.

Oltre a Pezza e Gedeone, un altro compagno di avventure del leone Nonsaprei è il bisonte
Unicorno, che una volta si chiamava Nerone ma che adesso tutti chiamano Unicorno perché ha
un corno solo. Un tempo Unicorno aveva tutte e due le corna, ma un giorno pensò bene di

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prestarne uno al suo amico leone ma Nonsaprei, talmente è sbadato, se l’è perso e non l’ha più
trovato. E da quel giorno il bisonte Nerone ha un solo corno e viene chiamato Unicorno.
Insieme a tutti questi animali, c’è poi la tigre Roca, che passa tutto il tempo ad allenarsi per
emettere possenti ruggiti con cui farsi sentire da tutti, ma a forza di strillare troppo tutto il
giorno adesso Roca è praticamente senza voce e la sentono in pochi.

Nonsaprei, si diceva, è talmente sbadato e distratto che combina sempre un sacco di pasticci:
una volta gli amici elefanti, che di solito si occupano di innaffiare con le loro proboscidi gli
arbusti che crescono nella savana, chiesero al leone di dare l’acqua alle piante perché stavano
andando in vacanza, e si raccomandarono di non dare troppa acqua agli arbusti. Nonsaprei,
dimenticandosi di quello che gli era stato detto dagli elefanti, e pensando che con il caldo che fa
nella savana un po’ d’acqua in più può fare solo che bene, innaffiò talmente tanto gli arbusti che
questi crebbero a dismisura e formarono un vero e proprio bosco, dove oggi vivono le
scimmiette come Gedeone. Un’altra volta, una zebra chiese a Nonsaprei di spalmarle della
crema solare sulle strisce bianche poco abbronzate, ma il leone si sbagliò e mise la crema sulle
strisce nere, e alla fine della giornata la zebra era diventata un cavallo morello. Insomma, il
leone Nonsaprei è veramente un animale che ne combina di tutti i colori. Per fortuna che ci sono
i suoi amici a ricordargli le cose che lui dimentica e a fermarlo ogni volta che sta per combinare
un pasticcio, sennò chissà che cosa combinerebbe Nonsaprei. Anche se a ben vedere, non tutto
quello che combina Nonsaprei finisce con l’essere un pasticcio.

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La principessa Mar (2008/2009)


A Marianna

C’era un volta, in un regno neanche troppo lontano, una giovane e bella principessa. Ella era
l’erede al trono di Chiarenza, una ridente terra schiacciata tra i monti Syly e il mare. E proprio
per lo splendore che accomunava il mare e la bella neonata, alla principessa venne dato nome
Mar.

La principessa Mar viveva la vita in completa spensieratezza: trascorreva le sue giornate tra
visite di cortesia, feste di corte, ricevimenti, e ovviamente party. A quei tempi- più passati che
remoti e quindi neanche troppo lontani- uno degli aspetti che contraddistingueva l’essere re e
principi, e quindi anche principesse, era il gran numero di balli, feste e festini che scandiva la
vita a palazzo. E quella fuori. Essendo la figlia dei sovrani di quelle terre, la principessa Mar era
infatti automaticamente signora e padrona- dopo i suoi reali genitori, ben’inteso- di tutti i locali
della capitale Chiaro Libero e delle città di Chiarenza. E come tutti i giovani della sua età, la
principessa tutte le sere evadeva dalla comoda ma alla lunga noiosa vita di palazzo per
‘controllare’ con i suoi fedeli servitori la qualità del “San Buco” e del “Kampa Djiro”, distillati e
principali prodotti esportati nei vicini imperi di Skrotones e Laghar Iah. Da buona principessa,
Mar aveva la sua carrozza, con tanto di cocchiere. A dir la verità di carrozze e cocchieri ne
disponeva una flotta, a seconda che prendesse una delle carrozze dei suoi genitori, il re e la
regina, o una delle tante con cui i suoi amici aristocratici dal cuore d’oro e soprattutto dallo
spirito nobile- sennò che aristocratici sarebbero?- il più delle volte la venivano a prendere al
castello per condurla in visita ai suoi possedimenti. Che poi erano l’intero regno, distillerie
comprese.

La principessa condivideva le sue avventure con Anomys, la dama di compagnia, fedele


servitrice, fidata confidente nonché grande amica da sempre. Ma soprattutto, rifornitrice delle
Spinette, le sigarette del regno che i suoi genitori, non fumatori, non volevano Mar fumasse. A

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palazzo, almeno. Poiché essendo legalmente vendute in tutte le drogherie di Chiarenza, se ne


potevano acquistare in qualunque momento, se non fosse che le Spinette rappresentavano un
vizio plebeo che, in quanto tale, era bandito nel mondo aristocratico. Anomys era quindi la
fornitrice ufficiale di trasgressione, portando all’interno del palazzo reale le Spinette proibite da
sua maestà che poi con la principessa si fumavano di nascosto nelle stanze principesche e,
soprattutto, nei party a base “San Buco” e “Kampa Djiro”.

Altra persona di rilievo nella vita della principessa Mar era poi Allicula, figlia di vassalli che
coltivavano terre per conto del re. La principessa Mar la chiamava “contadinella”, anche se
Allicula non aveva mai preso una zappa in mano. Allicula frequentava la corte del re e le stanze
delle principessa, e molte delle feste cui Mar partecipava. Inoltre frequentava la reale accademia
di Chiarenza, e aveva la fortuna e il privilegio di condividere le stesse lezioni della principessa.
Va detto che quest’ultima possedeva di precettori di corte, ma per quanto fosse la primogenita
figlia del re, i frutti del suo studio di palazzo li doveva poi rimettere nelle reali commissioni
accademiche per il giudizio finale. Era capitato che il re avesse fatto decapitare alcuni membri
delle reali commissione accademiche d’esame per dei giudizi ritenuti da sua maestà troppo
severi, ma era anche successo che il sovrano avesse costretto la figlia alla chiusura coatta in
Palazzo per gli scarsi rendimenti accademici. E in quei frangenti Allicula veniva a dare una
mano alla principessa Mar per aiutarla a superare gli esami e, soprattutto, farle riottenere il
permesso a mettere il naso fuori del palazzo.

Insieme ad Allicula veniva spesso a palazzo Olga, ragazza proveniente dall’impero di


Skrotones venuta a studiare nelle rinomate accademie chiarentine.

Orbene, a questo punto occorre un precisazione: tra Chiarenza e le terre che si estendevano oltre
i monti Syly, vi era un solo re, che era il padre della principessa Mar, il più potente signore di
quei territori. Skrotones e Laghar Iah, sebbene indipendenti dal regno di Chiarenza, erano in
realtà dei semplici ducati, ma che adottarono la denominazione di impero per questioni legate al
passato ma soprattutto, in un clima di aperta rivalità con tutti gli stati sovrani limitrofi, per
ostentare una superiorità più presunta e presuntuosa che reale. Chiarito questo, torniamo a noi e
a Olga, altra persona che con il passare degli anni, aveva finito per ingraziarsi le simpatie della
principessa diventando una delle sue preferite dame di compagnia. Olga, figlia di nobili
skrotonesiani, aveva deciso di dedicarsi agli stessi studi della principessa, ossia “tecniche di
scavo buchette e studio di cocci”.

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A differenza di Allicula, che veniva istruita in accademia, Olga il più delle volte prendeva
lezioni a palazzo nelle stanze della principessa Mar, venendo istruita gratuitamente dai
precettori reali. La presenza di Olga a palazzo e l’ospitalità della famiglia reale della giovane
skrotonesiana aveva anche le sue non indifferenti valenze politiche: aprire le porte del castello a
Olga significava automaticamente stabilire ottime relazioni diplomatiche con il vicino ‘impero’
di Skrotones’, dove la principessa Mar veniva sovente invitata dall’aristocrazia locale in segno
di ringraziamento per le cortesie ricevute da Olga in terra di Chiarenza.

Oltre alle sue confidenti e alle sue inseparabili amiche, la principessa Mar trascorreva la

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propria vita a fianco dell’uomo che amava, l’arciduca Nozzio di Kunòs Einzàs. Questi era
l’amore delle principessa, perdutamente innamorata di quello che era il suo promesso sposo.
L’amore era tale da superare i mille ostacoli che si ponevano tra la principessa e l’arciduca:
Nozzio infatti era muto, e comunicava col mondo circostante o con cenni o con il suo
mandolino. Il fatto che Nozzio non parlava faceva sì che tra i due sorgessero dei fraintendimenti
e delle incomprensioni, ma la principessa soprassedeva in nome del loro amore e perché rapita
da quel mandolino con cui ogni giorno Nozzio cantava, o meglio, suonava, la loro vita. Di
Nozzio non si sapevano molte cose, a parte il fatto che era figlio degli arciduchi di Kunòs
Einzàs e che suonava il mandolino. Già stabilire se lo suonasse perché gli piaceva o se perché
gli serviva per esprimersi era arduo. Anche il suo semplice nome racchiudeva degli
interrogativi: l’arciduca in realtà nacque Nosio, ma poi un po’ per la sua tendenza all’ozio e un
po’ perché con il mandolino suonava spesso brani di un musicista rock di nome Ozzy Cobourne,
venne ribattezzato da tutti Nozzio, anche se nessuno sapeva dire con esattezza quale dei due
motivi alla fine avesse prevalso nell’affibiazione definitiva del nomignolo. L’arciduca Nozzio
comunque, aveva fatto della sua condizione un trampolino di lancio verso la celebrità: avendo
imparato ad esprimersi con la musica, aveva fondato un gruppo musicale con il quale riscuoteva
consensi e soprattutto denaro, nelle feste aristocratiche di Chiarenza e Kunòs Einzàs. La sua
band, “il muto, lo zoppo, lo sciancato”, era formato da egli stesso al mandolino, un trombettista
con la gamba di legno e uno zoppo al tamburo. A loro successivamente si unì un vecchio bardo
con la cetra, tanto che alla fine “il muto, lo zoppo, lo sciancato” divennero più noti come “Il
quartetto con la cetra”. La principessa non si perdeva mai un concerto del suo amato, tanto era
l’amore per lui e per le sue melodie. E ogni volta che il granduca Nozzio si esibiva, con Mar
venivano Anomys e Olga e, a volte, anche Allicula.

Insomma, la principessa aveva tutto: ricchezze, una corona, beltà, giovinezza, stuoli di
servitori, paggi, lussi e agiatezze, dame di compagnia, confidenti, divertimenti, amiche, l’amore
e un fidanzato, distillati e Spinette. La sua unica noia era rappresentata dalle sorelle: queste, non
appena lei si assentava dal palazzo, si precipitavano nelle stanze della principessa per “prendere
in prestito” vestiti e borsette, per il disappunto della giovane Mar. Ma a parte questo, la vita
della principessa scorreva felice e spensierata.

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Il viaggio in Eurotroppa

Era tradizione che i principi in giovane età effettuassero giri per il mondo, per ampliare la
propria erudizione con gli studi di accademie diverse e per conoscere in prima persona quel
mondo con cui poi un domani, una volta saliti al trono, avrebbero dovuto avere a che fare.
Essendo Mar la primogenita, anche per lei arrivò il fatidico momento di partire per quelle terre
misteriose, conosciute solo attraverso le lezioni dei precettori e le cartine geografiche. Per lei si
prefigurava un viaggio nelle Basse Terre degli Hol, meglio note come Holandia, paese
eurotroppeico dove avrebbe affinato le sue conoscenze in ‘tecniche di scavo buchette’ e
‘tecniche di scavo generale’: gli hol infatti erano i soli al mondo in grado di progettare sistemi
con cui deviare i corsi fluviali, trasformare i mari in laghi d’acqua dolce e realizzare dispositivi
con i quali regolare il flusso e il livello delle acque. Erano dei veri e propri indiscussi maestri, e
per questo la sua famiglia spinse affinché Mar si recasse lì. Essendo un viaggio anche di natura
accademica, Anomys, per il dispiacere della principessa, non poté partire. Promise comunque a
sua altezza che le avrebbe fatto visita. Per non affrontare il viaggio da sola, la principessa decise
allora di portare come dama di compagnia Allicula, in quanto studentessa delle stesse materie
accademiche. Non poté partire con il suo amato arciduca Nozzio né con l’amica Olga in quanto
entrambi appartenenti ad altri stati, il gran ducato di Kunòs Einzàs e l’impero-ducato di
Skrotones. Ma anche loro promisero che avrebbero fatto visita a Hronighen.

La principessa Mar e Allicula, per volere espresso del re di Chiarenza e l’esecuzione degli
ordini della reale accademia, vennero alloggiate tra le plebe, affinché potessero rendersi conto di
come fosse realmente vivere fuori dagli agi, in mezzo al volgare volgo. Giunsero a Hronighen
dopo un lungo viaggio, e arrivarono al loro nuovo alloggio: la stamberga ‘Den ruee hojijk’, che
nella lingua hol significava ‘l’angolo selvaggio’. Dopo aver sbrigato le loro pratiche con il
gestore della stamberga, Allicula e Mar- quest’ultima rimasta in incognito senza aver fatto
accenno alle sue regali origini- si imbatterono in due rudi e alquanto rozzi individui: stavano
discorrendo nei loro dialetti, tracannando lattine di birra davanti a piatti sporchi nei quali
spegnevano le loro sigarette. Dal loro modo di parlare capirono che i due provenivano da terre
confinanti alla loro, e si avvicinarono.

“Anche voi venite dal sud, vero?”, chiese Allicula.

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“Si”, rispose rude uno dei due, il più barbuto. “Di dove siete voi?” domandò.

“Chiarenza”.

“E ‘ndo v’ha messo er capo deqqua?”, chiese il secondo, rivelando con il suo parlare la sua
provenienza.

“A me con…mi sembra mi abbia detto Ordakazz”, disse Mar.

“Bbona quella. Auguri”, replicò il secondo.

“Ma sei ormano?” chiese Allicula.

Vennero a sapere che i due erano provenivano da stati confinanti: il primo, il barbuto, si
chiamava Ossumanni ed era inaliano, proveniente cioè dalla deridente repubblica d’Inalia, a est
del regno di Chiarenza. L’altro veniva da Orma, capitale dello stato del Vano Vatico, confinante
a nord. Più che essere venuto dal Vano Vatico, l’ormano da lì era fuggito a seguito di un fallito
attentato all’Artefice Maximo, leader dello stato illaico. Insomma, era un rinnegato su cui
probabilmente pendeva una taglia o addirittura un'ordine di condanna a morte.

Nonostante i loro essere rudi, i due si rivelarono molto ospitali, tanto che invitarono la
principessa e Allicula a fumare una ‘sicorretta’, vale a dire una sigaretta corretta. Mar disse che
aveva le sue Spinette, che Anomys aveva messo nel bagaglio prima che le due partissero.

“Ma che vo’ mette ‘ste cose co’ a robba che c’hanno questi qua?” commentò l’ormano.
“Tiettele pe quanno ce n’avrai bisogno. Mò fumate queste, poi doppo ne riparlamio”.

Le due non poterono non notare il basso profilo dei due ‘confinanti’. Stando lì in quella
stamberga videro che la loro principale occupazione era consumare birra e‘sicorrette’, andare in
giro per bettole fino alle 8 del mattino e ricominciare da capo ogni giorno. I loro portavivande
traboccavano di birre, le loro buste della spesa contenevano al massimo un pacco di pasta e del
sugo. I due non facevano che discorrere di politica internazionale: nonostante il modo in cui si
presentavano Ossumanni e l’ormano dimostravano di avere un discreto bagaglio culturale e
grande padronanza di ciò che accadeva nel continente. All’inizio Mar e Allicula studiarono la
situazione: era meglio non fidarsi. Uno era un senza dio, nemico dell’Artefice Maximo e
attentatore dell’ordine costituito; l’altro Ossumanni, essendo un repubblicano era
automaticamente un anti monarchico. Anche se, nonostante questo, con loro le due chiarentine
si trovarono subito a proprio agio. E alla fine fu quest’ultimo aspetto che prevalse.

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

Tra loro, passati i primi momenti, si instaurò un bel legame. Mar e Allicula trascorrevano le
loro giornate, e soprattutto le nottate, con l’ormano e l’inaliano, per i quali presero a cucinare
piatti che non fossero pasta così da variare la loro dieta. Si formò così l’insolita compagnia,
anche perché gli altri occupanti la stamberga, non facevano nulla per rendersi interessanti.
C’erano due popolane del Beige, stato dagli abitanti vivaci quanto il nome che portava la
nazione medesima; poi c’era un’altra donna proveniente dalla Franca, ma essere in zona franca
poteva significare essere tutto e niente, e lei si avvicinava più a questo secondo aspetto. Almeno
per quel poco che dava a vedere in quella stamberga. Poi c’erano due tipi provenienti dagli Stati
Disuniti: a ribadire l’omogeneità del loro Paese, uno era alto e abbastanza disponibile, l’altro
basso e piuttosto irritante. Ancora, c’era Ordakazz, ‘monopolizzatrice’ di Angheria e compagna
di stanza della principessa Mar: da buona angheriana Ordakazz teneva alto il nome della sua
nazione pur condividendo con gli altri ciò che la stamberga e la situazione offrivano. Per cui

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Ordakazz non faceva altro che accaparrare tutto per sé, dalle stoviglie alla carta igienica, e
cercava sempre di imporre il proprio volere e la propria autorità su tutto e tutti. Lei accolse Mar
con queste parole: “benvenuta nella mia camera. Ti fermerai molto”? Nessuna prepotenza,
intendiamoci. L’angheriana teneva solo a sottolineare alcune cose, come che lì- tanto per
intenderci- ospitalità e stoviglie venivano concesse per la sua immensa gentilezza. Insomma, un
altro individuo niente male di quella stamberga, dove dimorava anche una giunonica donna del
reich di Teuttonia. Nella stamberga per un certo periodo alloggiò anche Kostilakis, un alladiano
di passaggio che condivise la stanza in cui alloggiava l’ormano ma che, una volta andato via,
ogni tanto tornava a far visita all’ex coinquilino; poi c’erano cinque viaggiatori del regno di
cristallo di Bohèm, famoso in tutto il mondo per la sua fragilità non tanto politica- il signore del
regno, lo Tsvar Iovskij, lo deteneva saldamente tra le mani- quanto materiale. Non volendo
tradire le proprie origini, i cinque bohemiani vivevano chiusi sotto vetro, non uscendo
praticamente mai dalla stamberga. Tra questi c’era Azeretka, compagna di stanza di Allicula, e
soprattutto Petro: quest’ultimo, pur essendo anch’egli bohemiano, probabilmente con un gesto
inconsulto aveva frantumato la propria teca di vetro, poiché nella sua giovane vita aveva già
compiuto il giro del mondo due volte. E quando vide che in quella stamberga c’era una
compagnia che gozzovigliava, perdeva tempo, beveva e mangiava, si trascinava fino all’ultimo
bancone dell’ultima bettola di Hronighen, decise di unirsi al gruppo, che lo accolse a braccia
aperte.

Petro con molta probabilità era un prestigiatore, perché si venne a sapere che aveva conosciuto
il mondo arrivando nei suoi diversi angoli nelle maniere più assurde: una volta chiuso in un
baule, una volta come clandestino nelle stive di una nave, un’altra volta ancora spedendo prima
i suoi documenti alla cancelleria dello stato ospitante e poi arrivando di persona attraversando
senza foglio di via altri due regni. E questo senza che nessuno lo avesse mai visto: doveva
essere un illusionista e un grande mago. E la compagnia lo credette una volta di più quanto
Petro, dal nulla, un giorno tirò fuori strani arnesi con cui fabbricò cinque velocipedi, con cui
tutti e cinque si poterono spostare per le strade di Hronighen.

La vita scorreva felice e spensierata e il legame tra quelle persone si rinsaldava ogni giorno di
più, tanto che alla fine Mar rivelò loro, ma a loro soltanto, di essere in realtà la principessa di
Chiarenza.

“Ah, vabbé”, commentò l’ormano. “Mejo li principi de quell’infame d’aartefice. Mortacci

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sua”!

Ossumanni invece iniziò una disquisizione socio-politico-antropologico-filosofica: “Mi torna


in mente quello scrittore che narrava di un cavaliere inesistente: lo si poteva interpretare come
una critica al mondo aristocratico-borghese e alle sue convenzioni di facciata, ma poteva essere
letto come l’assenza del potere costituito, non in grado di imporre le proprie leggi ovunque.
Altri ancora lo interpretano come la crisi della società, la decadenza dei costumi e la
conseguente perdita d’identità dovuta alla crisi dei valori. Ecco, se noi prendiamo una
principessa e la facciamo straniera in mezzo a una terra e un popolo non suoi, vediamo che si
estrinseca la perdita d’identità stessa delle principessa, che rimane sì una principessa, ma non di
questa gente e quindi agli occhi di questo popolo non è pur essendo. Di fatto conserva il suo
essere, ma il non poterlo esercitare glielo fa perdere. E perdendo il suo essere non è più sé
stessa”…

Ognuno di loro due, a modo proprio, aveva accettato la principessa per ciò che era e l’aver
appreso la sua vera natura non aveva intaccato minimamente il loro legame, segno che
l’amicizia a quei tempi riusciva davvero ad essere genuina e andare oltre questioni politiche e
classiste. Ma Ossumanni, tra tante parole, aveva detto una grande verità: la principessa non era
più la stessa.

Mar non avrebbe voluto mai più fare ritorno, talmente stava ben lì nelle Basse terre degli Hol.
Era allegra e felice, ma soprattutto era libera dagli obblighi di palazzo. Nessun precettore,
nessun padre a darle ordini, nessuna sorella a ‘prendere in prestito’ abiti e borsette, nessun
cerimoniale da seguire, nessuna etichetta da rispettare. Mar, per quanto non tra suoi pari e
lontana dagli agi cui era sempre stata abituata, si sentiva molto più a suo agio in questo nuovo
contesto, nel quale sentiva di essere veramente libera e serena. Quando poi dalla stamberga se
ne andò la donna teuttonica e lei poté trasferirsi insieme ad Allicula nella stanza lasciata vuota,
la libertà fu massima. A Mar non interessava più essere la futura erede al trono di Chiarenza: ciò
che lei desiderava era che quei giorni magici durassero all’infinito. Gli unici momenti di
tristezza furono quando Anomys e Nozzio se ne andarono: questi due infatti mantennero le loro
promesse e, viaggiando anche loro in incognito, fecero visita alla principessa. Anomys impazzì
nel vedere che nelle Basse Terre degli Hol negozi vendevano sigarette speciali anche migliori
delle Spinette, ma impazzì anche per tutto il resto. Furono giorni di feste plebee e contadine,
notti di balli e sballi sfrenati. E musica, grazie al fido mandolino di Nozzio, rinvigorito da

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quell’atmosfera magica. Come a rendere omaggio alla principessa giunta dalle lontane terre del
sud, un autoctono, Marh Tenz, si unì al gruppo e nonostante questi avesse una casa propria
venne a stabilirsi alla stamberga. Poi seguì inevitabilmente la tristezza per le partenze. Partenze
che giunsero anche per la principessa e Allicula. I mesi erano volati e Mar non se ne era resa
conto, così improvvisamente si ritrovò a preparare i bagagli reali per il proprio ritorno. Al suo
fianco solo Allicula: Ossumanni e l’ormano infatti restavano. Così si salutarono. Si sarebbero
rivisti un giorno? Solo il tempo avrebbe risposto.

***********

Ritorno a Chiarenza

La principessa tornò nel suo regno, contenta per l’esperienza vissuta e triste per averla dovuta
concludere. Non fu facile per lei ritornare ad essere la principessa, abituata come si era ai
costumi della plebe e ormai del tutto estranea alla vita di corte. I primi tempi furono di grande
confusione: riabbracciare Anomys e Olga, e soprattutto Nozzio, certo la rese felice, ma la sua
mente continuava ad essere proiettata a Hronighen. Non sapeva ancora come, ma un giorno ci
sarebbe tornata. Se lo promise. Nel frattempo avrebbe atteso. La principessa infatti doveva
terminare gli studi, e superare i supremi reali esami dell’accademia regia di Chiarenza. Fino ad
allora non avrebbe potuto fare altro, e lo sapeva.

Ma qualcosa stava cambiando, ed ella lo poté toccare con mano: non era solo un fenomeno
che riguardava sé stessa, ma l’intero mondo a lei circostante. Innanzitutto la fidata Allicula
terminò gli studi prima di lei, e non appena ottenuto il diploma reale si congedò da amici,
parenti e casata regnante per raggiungere Petro nel regno di Bohém. Partiva e non si sapeva se e
quando sarebbe tornata: per la principessa Mar fu un terremoto. La terra veniva a mancarle sotto
i piedi. Di più: le venne a mancare una fidata e cara amica. Ma non era ancora tutto: le
incomprensioni con l’arciduca Nozzio aumentarono, e i due giovani non riuscirono a rimuovere
le barriere che tra loro si erano venute a creare e la fiamma che aveva riscaldato i loro cuori si
spense.

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La principessa aveva ancora la fida Anomys e Olga, ma certo il suo mondo non era più lo
stesso. Aveva perduto persone importanti, e non riusciva più a trovare la forza per completare gli
studi, nonostante la regina madre e il re padre le avessero tassativamente imposto di presentarsi
il prima possibile di fronte al ‘gran consiglio delle scienze’ dell’accademia reale. Era bloccata,
in ogni senso. Il suo stato d’animo venne nuovamente scosso quando ricevette notizie da
Allicula dal lontano regno di Bohém: la sua fidata amica le scriveva di un inatteso incontro con
l’ormano. Mar si dispiacque di non poter essere lì con loro, sentì di aver perduto una piacevole
occasione per vedere una parte dell’Eurotroppa ancora mai vista e riacquistare, sia pur per pochi
istanti, i servigi dei suoi fedeli paggi di oltre confine. Ma era lì, ad assistere a tutto ciò che stava
gradualmente perdendo, prima fra ogni altra cosa la propria serenità. Fortunatamente non
vennero a mancare balli, feste e festini, che a Chiarenza non mancavano mai: fu ad una di questi
che la principessa incontrò Nick-name, aristocratico di Accatittippì, capitale della lontana isola
di Url, nota come baronato di Urllandia. Nick-name era un uomo animato da mille emozioni, in
grado di trasmettere tutto quello che provava: calma, pacatezza, tranquillità, sobrietà. E poi
ancora calma, pacatezza, tranquillità, calma, pacatezza e tranquillità. Insomma era persona
frizzante pulsante energia e vitalità. E dai gusti particolari: a quei tempi a Url si producevano
alcune delle migliori birre del continente, eppure l’altolocato urllandese andava pazzo per un
birra piuttosto anonima della repubblica d’Inalia, dove lì invece era assai popolare, ma solo per i
suoi costi, a portata di popolo. Forse fu proprio per questa inspiegabile passione per ‘la birra dei
birroni’ e questo self-control come lo definiva lui nella sua lingua ad incantare la principessa, e
la principessa finì con l’innamorarsi del nobile urllandese. Tra i due ebbe inizio una storia fatta
di viaggi e avventure, tra l’opposizione della casa reale che non vedeva di buon occhio l’unione
della primogenita erede al trono con un nobile di un regno troppo lontano e troppo poco
influente sulla carta per poter stringere alleanze tramite unioni di regni. Inoltre i continui
spostamenti verso la distante isola impedivano alla principessa di preparare i supremi esami in
vista dell’incontro con il ‘gran consiglio delle scienze’ dell’accademia reale. Ma a lei ciò non
importava, e con Nick-name iniziò una nuova avventura per l’Eurotroppa: non si limitò infatti a
vedere solo il baronato di Urllandia e la sua capitale Accatittippì (sovente abbreviata e detta
Http), ma si recò anche nel regno di Spugna e a Orma, nel paese dell’Artefice Maximo tanto
detestato dall’ormano che aveva incontrato nelle Basse Terre degli Hol. Ma la situazione nel
frattempo era cambiata: l’esercito del Vano Vatico nel frattempo era stato soggiogato dai ribelli,
così quando la principessa vi si recò trovò un Paese libero e una città quasi liberata. Infatti il

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Vano Vatico aveva perduto tutti i suoi possedimenti, divenuti ‘repubblica ormana’ a seguito
dalla rivolta degli ormani, e il vecchio stato illaico era ormai ridotto a pochi palazzi protetti da
una possente cinta muraria: un compromesso voluto a livello internazionale, al fine di non
mutare troppo gli equilibri esistenti. In questa situazione poté rincontrare l’ormano, rientrato a
Orma da cittadino libero. La felicità era immensa, per il viaggio con l’uomo amato e per l’aver
rincontrato il vecchio compagno di tempi andati. Ma gli eventi che avevano investito il Vano
Vatico non erano isolati: le idee repubblicane si erano ormai diffuse in tutta l’Eurotroppa. Il
Beige e il regno di Spugna avevano dovuto concedere la costituzione, nel regno di Bohém lo
Tsvar Iovskij era stato costretto ad abdicare e passare il potere nelle mani di un ‘consiglio
civico’. E anche il regno di Chiarenza non restò immune a tali spinte popolari: quando la
principessa rientrò in patria scoprì che la monarchia era stata rovesciata e che la sua famiglia era
stata costretta a ritirarsi a vita privata.

Per la principessa fu un altro duro colpo: prima aveva visto andar via Allicula, quindi aveva
perduto Nozzio, infine aveva visto perdere la propria regalità. Anche le Spinette avevano perso
il loro gusto, non essendo più un simbolo di trasgressione ma una pratica diffusa. Non aveva la
minima idea di cosa le potesse riservare il futuro, decise che era ora di fuggire dal suo Nick-
name, e congedandosi dai genitori deposti ripartì per Url. Qui rimase per alcuni mesi, il tempo
di accumulare incomprensioni su incomprensioni con il suo amato. Se Nozzio di Kunòs Einzàs
era muto, Nick-name di Url parlava invece un’altra lingua, per cui la comunicazione diveniva a
tratti disagevole. Fraintendimenti e incomprensioni aumentarono, e il loro rapporto perse la
natura idilliaca che fino ad allora l’aveva contraddistinto e la giovane Mar dovette tornare da
plebea in quello che fino a poco tempo prima era stato il suo regno. Qui il governo repubblicano
costrinse la principessa ai lavori forzati, relegandola per tre lunghi mesi alla biblioteca della
facoltà di ‘tecniche di scavo buchette e studio di cocci’. Mar non sapeva più che fare: si strinse
attorno ad Anomys, i “San Buco” e i “Kampa Djiro”. E a Olga, che però le voltò
inaspettatamente le spalle. L’impero-ducato di Skrotones aveva infatti deciso di approfittare
della situazione per trarre vantaggio dalla rivolta chiarentina, e aveva stretto alleanze per tentare
l’annessione delle vicine Larghar Iah e Chiarenza. Olga era stata promessa in sposa a Olaf di
Taharrus, stato del nord interessato ad avere sbocchi sui mari del sud, e grazie a questa alleanza
tentò di distruggere quel poco che rimaneva della casa reale, e della principessa, e rovesciare la
nuova ma ancora non consolidata repubblica. Per via di Olga e Olaf, a Mar fu vietato di
esercitare la professione di scavatrice di buchette e studentessa di cocci, e con lei ad Allicula sua

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amica. Anche Anomys pagò a caro prezzo l’essere stata dama di compagnia e fidata confidente
dell’ormai ex principessa, e venne costretta ad abbandonare Chiarenza. Si rifugiò a Orma, e lì vi
rimase. A Chiarenza le truppe repubblicane riuscirono a contrastare la congiura ordita da
Skrotones e Taharrus, ma per Mar ormai tutto era finito. Tutto il suo mondo non esisteva più.
Anomys e Allicula erano lontane, quella che aveva creduto una persona cara e leale l’aveva
pugnalata alla schiena, e non era più la principessa. “Rimanere qui?”, si chiese. ”Meglio la
morte”. Fece leva su tutto il suo coraggio e andò via. Ancora oggi non si hanno notizie di Mar, e
nessuno sa che cosa ne sia stato di lei. A noi piace pensare che alla fine sia tornata a Hronighen,
in quelle terre dove aveva saputo trovare un’oasi di felicità e nelle quali aveva ripromesso a sé
stessa, di poterci prima o poi ritornare.

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Porto di mare (2009)


A Vincenzo

“Ma porc** ****, ma fa i baristi come tutti l’artri no, eh”?

“A Biaggico, questo c’è capitato e questo se semo piati”!

“Belli cojoni che semo”!

“Zitto, nun ce lo ricordà. E damme ‘na mano co’ sta cassetta”.

Presero un’altra parte del carico appena fatto entrare in porto. Uno dei due si mise sulla spalla
la cassetta e rise.

“Che tte ridi, biaggico?”

“Rido al pensiero che se qualcuno ce chiede: ‘Che fate nella vita?’ noi je risponnemo che
scaricamo le banane ad Anzio… Certo che semo popo folli…”

“ Eh, proprio”…

Nel porto nel corso degli anni ne erano passati di battelli, navi cargo e uomini di tutti i tipi.
Spacciatori, ladri, prostitute con i loro papponi. E poi ancora reduci di guerra, matti e sciroccati
di ogni genere. Ma i due nuovi arrivati erano davvero una strana coppia: erano arrivati ad Anzio
per lavoro, sapevano che cercavano gente e a loro serviva qualcosa che gli potesse permettere di
sostenere le spese universitarie. Ma nessuno aveva detto loro che cercavano scaricatori di porto.
Così quando arrivarono si ritrovarono con un lavoro che mai avrebbero pensato di svolgere nella
propria vita. E lo avevano accettato per non fare brutte figure. “Je potevamo dì che s’eravamo
sbajati? Che figura ce facevamo?”, spiegavano agli amici, i quali non credettero mai che loro
due fossero mai stati bassa manovalanza a pochi chilometri da casa. Eppure era proprio così. E i
due erano i più singolari scaricatori che Anzio avesse mai visto: entrambi a caccia di laurea, ma
entrambi lontani anni luce dai modi della gente per bene. Erano bravi ragazzi, intendiamoci. Ma

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uno passava tutto il tempo a tirar giù madonne, neanche fosse, appunto, uno scaricatore di porto.
Che poi a ben vedere, contrariamente a quanto si pensi, nei porti- almeno in quello di Anzio-
non si bestemmia neanche così tanto. A meno che non arrivi la polizia, allora lì sì che di
imprecazioni ne sentite quante ne volete. Oltre a tutto il resto. L’altro, invece, era in grado di
spendere tutto quello guadagnava al bar del porto, tra bicchieri e bottiglie. Insomma, ognuno dei
due aveva delle doti per essere un buon ‘uomo di mare’: ecco perché insieme andavano bene, e
si intonavano a (quasi) perfezione con il mondo portuale. Fatica, madonne e bottiglie: l’avevano
imparato in fretta il mestiere, anche se il secondo mantenne sempre una sua dignità e solo
raramente in quel di Anzio lo sentirono invocare dio e sua madre. La singolare coppia era di
quelle che se le vedi in giro ti domandi da dove può essere uscita fuori: non erano scaricatori di
porto, e nessuno avrebbe detto che erano universitari. Eppure lavoravano al porto ed erano
iscritti all’università. A renderli ancor più bizzarri era il fatto che non avevano un nome: il
primo, quello che tirava giù madonne per sport e per passione, si rivolgeva al secondo
chiamandolo Carissimo amico mio; l’altro, quello che più dei due amava concedersi bicchieri, si
rivolgeva al collega chiamandolo Biaggico, vai a capire perché. Talvolta Biaggico per chiamare
l’amico carissimo diceva: “Bestia”, e subito l’altro gli rispondeva a tono con un “oh,
animalaccio. Che dici?” Ma ben presto entrambi diedero modo di farsi chiamare ‘per nome’
dalla gente del porto. Gli altri scaricatori, il loro datore di lavoro e tutti quanti frequentavano il
molo e il bar in quelle ore gli affibbiarono dei soprannomi che ben riassumevano il modo di
essere dei due nuovi acquisti di Anzio: il primo venne ribattezzato “Moro”, poiché bestemmiava
come un turco. Fumava pure come un turco: si presentava regolarmente con la sigaretta tra le
dita, perché diceva di concedersi l’ultima sigaretta prima di iniziare a lavorare. Invece poi finiva
sempre ad arrotolarsi la sua cartina traboccante di tabacco durante il breve tragitto a mani libere
dal magazzino alla nave. Quindi, per tutti, il giovane studente-scaricatore Biaggico divenne
Moro. L’altro, invece, era diventato proverbiale per il suo cicchetto, il bicchierino che amava
concedersi prima di tornare a casa. Poi al bicchierino il più delle volte ne seguivano altri, anche
tanti altri, e al bar del porto si finiva sempre per sporcare tutti i bicchieri. Il ‘carissimo amico’
del Moro iniziava sempre così: “dammi un bicchiere”. Poi alla fine si ritrovava sempre a
bofonchiare sconnessi e sconclusionati “awrhwr…” Il barista aveva finito con fare prezzi di
favore al giovane, cliente ormai fisso e immancabile disposto sempre a iniziare con un
bicchieruccio e intenzionato ogni volta a farselo ri-riempire fino a fine bottiglia. Tanto che
ormai per tutti era diventato “Cicco”, che richiamava il comune “Ciccio” ma che in realtà era il

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

diminutivo di ‘cicchetto’ e la contrazione di ‘ciucco’. Ma i due, tra loro, non si rivolsero mai
l’uno all’altro utilizzando i soprannomi ricevuti dalla gente del porto. Continuavano imperterriti
a chiamarsi “carissimo amico mio” e “Biaggico”. O “bestia” e “animalaccio”.

Tutti li avevano presi in simpatia giù al porto, e non poteva essere altrimenti. Per quanto nei
porti si veda di tutto, difficilmente avrebbe potuto esserci una coppia come quella. Ma la
simpatia non fa sconti, e così Biaggico e il carissimo amico suo si trasportavano dalla prima
all’ultima cassetta di banane senza sosta, dalle 4:00 del mattino fino a quando sulla nave non era
rimasto più nulla. Il loro lavoro non era troppo impegnativo, a livello di tempo richiesto per
sbrigarlo: le navi arrivavano al porto due volte la settimana. Fatta eccezione il giorno dello
scarico, quando dopo il trasferimento sulla terra ferma le banane venivano sistemate sui camion
per le prime spedizioni, il grosso della partita veniva smistata ai vari fornitori nell’arco della
settimana. Questo faceva sì che per Biaggico e il carissimo amico le levatacce fossero solo due,
mentre il resto della settimana avevano il tempo per caricare le banane sui camion e andare
all’università. Ma per questa seconda fase dello scarico e carico merci l’accordo era meno
vincolante: se avessero avuto lezioni da seguire, o esami o quant’altro, avrebbero potuto
tranquillamente non presentarsi. Ciò che il loro datore di lavoro aveva preteso era la loro
presenza per le notti di scarico dalla nave. La paga era forse una miseria per lo sforzo e la fatica
cui i giovani erano sottoposti, ma alla fine riusciva a coprire buona parte delle loro spese, per
cui ai due andava bene così. Si erano tanto abituati a quel mestiere, che lo difendevano come
fosse tra le occupazioni più nobili che un essere umano potesse trovare, e nei momenti di relax
dietro a un bicchiere Biaggico diceva all’amico carissimo: “Oh, male che va potemo sempre
venì ad Anzio a scaricà le banane”.

“E’ chiaro! Animalaccio, che dici? Se lo facemo n’atro bicchiere”?

“Facimucijo mo’…”

L’amico carissimo era di origini abruzzesi, e conosceva tutti i modi di dire relativi al vino,
tutte le canzoncine che si cantano una volta mandato giù il settimo bicchiere, e tutte le passatelle
della regione. Tutte cose che nel tempo aveva insegnato al compagno di scarico banane. Per cui
ogni volta che la singolare coppia decideva di dare il proprio meglio nel bar del porto, era
sempre uno spettacolo. Una mattina successe che Biaggico si ritrovò a ballare sul tavolo, con
l’altro a vomitare sull’uscio del bar: da dietro il bancone, il barista- nonché proprietario del
locale- si limitò a dire: “Ohé ragazzi, guardate che avete degli esami da preparare. Andate a

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studiare. Perché non andate a studiare con Loretta?”, disse riferendosi ad una libera
professionista che aveva appena terminato di esercitare la professione. I due capirono che era
giunto il momento di levare le tende, il barista stava dicendo loro che lo spettacolo era durato
anche troppo: se ne andarono via barcollando tra le risate e gli applausi ironici di quelli che
stavano dentro e la sorpresa di quelli che stavano entrando.

“Già, ma perché non studiamo con Loretta?”, chiese il bestemmiatore.

“Perché lei non frequenta l’università”, rispose il bevitore.

“E perché, noi invece si? Saranno ddu mesi che ‘nciannamo”

“E camm’ a fa? Come direbbe un mio vecchio amico: tu tira a campà”.

Se ne andarono farfugliando frasi senza senso, come spesso succedeva loro dopo che si erano
attardati al bar del porto, sotto lo sguardo vigile del loro datore di lavoro che puntualmente, ogni
volta, diceva loro: “Niente cazzate, eh? Mi raccomando”.

Il porto, anche se per la singolare coppia risultava un posto di follie, rimaneva comunque un
luogo dove tenere bene gli occhi aperti: fare la cosa sbagliata con la persona sbagliata poteva
costare caro. Del resto si sa, i punti di attracco di navi sono sempre i punti dove convergono
interessi diversi e di differente natura, lecita e meno lecita, ovvia e meno ovvia. A prevalere, in
quel porto, in genere era sempre la natura “meno” e il datore di lavoro e tutti gli altri lì intorno,
stavano bene attenti a non turbare gli equilibri del posto. Ecco perché quando il proprietario del
bar invitava la coppia ad andar via questa obbediva. I due capivano perfettamente in che realtà
si trovavano: una realtà difficile e dura. Con un clima non dei migliori. Il freddo alle 4:00 del
mattino era qualcosa che si poteva sconfiggere solo con alcool e movimento continuo. I due si
caricavano senza sosta le banane sulle spalle per sfuggire alle temperature rigide e al vento
gelido che li investiva dal mare, sbrigandosi il più possibile di terminare il primo viaggio, quello
con il carico in spalla, per togliersi il peso della fatica. Insomma, lavoravano per ripararsi dal
freddo e dal lavoro stesso: poter camminare senza fardelli verso la nave attraccata era un vero
sollievo per loro due. O meglio, per uno solo dei due: per Biaggico infatti era il momento per
ripulire gli occhiali dalla salsedine, che sporcava le lenti in continuazione. E giù bestemmie a
raffica, tra le risa dell’amico carissimo.

“Che cazzo te ridi, *#a?^X [Ms?”

“Rido sì: ma non vedi quanto sei folle? Ce manca solo che sfidi la salsedine a singolar

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tenzone”.

“E’ lei che sfida, ìO€^W USDLMNX!! Il problema è che vince sempre lei, ZX>^Wò
SLgXVNM”.

“Biaggico, o sai che c’è? Tira a campà”.

Ma se piovevano giù madonne era anche per via della situazione: mai a memoria d’uomo si
era avuto un giugno così freddo e pessimo, e la singolare coppia aveva avuto il privilegio di
lavorare tra raffiche di vento e mare mosso che generava onde che poi si andavano a schiantare
contro la banchina inzuppando chi si trovava a ridosso del molo. E i due si trovavano proprio a
ridosso del molo. Del resto loro lavoravano con le navi attraccate, e quindi ogni volta che si
recavano nella pancia dell’imbarcazione da svuotare poi tornavano sempre indietro con qualche
nuovo lembo di pantaloni infradiciato dal mare. E anche lì, a ogni schizzo giù madonne. Alla
fine lo spuntare del sole alle prime luci dell’alba diventava una vera e propria liberazione,
poiché permetteva ai due scaricatori di asciugarsi e riscaldarsi. E di porre fine alla cascata
incessante di madonne.

“Eddaje va, che mò s’asciugamio”.

“Meno male, così almeno la finirai de bestemmià. Almeno per la prossima mezz’ora.
Animalaccio, che dici? Ce la farai a resistere, non dico tanto, trenta minuti?”

“Resisto ore qui in mezzo a ‘sto casino e vuoi che non resisto mezz’ora senza tirà giù tutto il
calendario?”

“E pure tu c’hai ragione. Dai va’, che tra un po’ se n’annamo”.

Il singolare duo, inutile sottolinearlo, lavorava sempre non vedendo l’ora che il turno finisse:
in fin dei conti aveva accettato l’incarico solo per necessità di denaro e perché- questo sì è
giusto ricordarlo- si era sbagliato e non aveva avuto il coraggio di riconoscerlo. Certo, la
situazione venutasi a creare non aveva entusiasmato nessuno dei due, anzi, ma nella vita bisogna
anche adattarsi. Loro lo avevano fatto. E anche se alla fine avevano saputo farselo riuscire anche
piacevole, quel lavoro continuavano sempre a svolgerlo con il solito approccio: “tra tre ore, se
va bene, sarà tutto finito”. Insomma, il classico modo di porsi di fronte a ciò che ci appare come
una seccatura. E quello di scaricare banane, per gli orari e le condizioni in cui si doveva
lavorare, lo era. Intanto per la distanza: arrivare ad Anzio richiedeva tre quarti d’ora, e di notte
poteva essere raggiunta solo con l’automobile. Né lo studente-scaricatore denominato Biaggico

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né il suo carissimo amico possedevano una macchina propria, e quindi dovevano sottrarla ai
genitori. I quali si ritrovavano in difficoltà per andare al lavoro, poiché alle 7:00 del mattino
l’auto era ancora fuori e dovevano recarsi a piedi a prendere il treno. Ovviamente si faceva a
turno: un giorno si andava con l’auto di uno, un altro giorno con quella dell’altro. Entrambi
disponevano di grandi fuori serie, nel senso che viaggiavano su mezzi di trasporto vecchie di
vent’anni e quindi fuori produzione: l’abruzzese disponeva infatti di una vecchia Lancia Prisma
ormai agli ultimi istanti di vita. Il motore andava, ma tutto il resto, tutto intorno, aveva già
iniziato ad andare in malora: sportelli che non si aprivano, finestrini tenuti su con cacciaviti,
spazzole dei tergicristalli penzolanti, specchietti laterali rotti e tutta un’infinita altra serie di
malfunzionamenti dovuti a un’esistenza lunga e gloriosa ma anche tormentata. Anche l’auto del
bestemmiatore aveva saputo resistere nel tempo a incidenti e usura: la Fiat Panda era un vero e
proprio campionario di strisciate, ammaccature, abbozzature e botte di vario genere. Più che una
macchina una testimonianza del tempo: tra parti di carrozzeria incidentate, parti meccaniche
sostituite, fanalini rotti, mascherina frontale di un altro modello (e quindi diversa), cofano di un
altro colore, la Panda del bestemmiatore era un’evoluzione storica e un reperto allo stesso
tempo. Ma anche questo loro aspetto piacque alla gente del porto di Anzio: sul molo pensavano
che quelle macchine con si presentavano al lavoro ben si conciliavano con la singolare coppia. Il
che era vero. Macchine sgarrupate ma funzionanti per persone sgarrupate ma comunque in
grado di assolvere i propri doveri.

Altra seccatura del dover scaricare banane era il fatto di dormire agli orari più assurdi: in
genere quando erano in turno dormivano prima. Si coricavano alle 10:00 di sera per alzarsi
intorno alle 3:00 della notte, così da garantirsi almeno quelle cinque ore di sonno. Ma il
problema vero, riguardo al dormire, era rappresentato dal dopo-lavoro: a volte i due andavano a
dormire alle 8:30 del mattino, altre volte alle 10:00. Altre volte non dormivano affatto. E questo
li portava ad essere sempre un minimo sfasati. Ovviamente era tutto legato agli impegni che
avevano, ma anche se non avevano nulla in programma c’era sempre l’incombenza degli esami
da dover preparare. Quindi anche quando andavano a dormire alle 8:30 non di rado capitava di
poterli incontrare- entrambi o anche solo uno dei due- a mezzogiorno in biblioteca comunale a
imporsi un’ora di studio.

Ma la seccatura più grande era quando il giorno dopo avevano l’appello d’esame: da accordi
presi il giorno dello scarico merci doveva essere presenti obbligatoriamente, per cui Biaggico e
il suo amico carissimo ben sapevano che il loro tragitto sarebbe stato paese-Anzio-Roma e che

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questo itinerario sarebbe stato no-stop. Finendo intorno alle 8:00 del mattino rimaneva loro solo
due ore di tempo per presentarsi in orario a sostenere l’esame: un tempo troppo limitato perché
si potesse tornare a casa, fare la doccia e cambiarsi. Per cui il malcapitato che aveva la sventura
di vedersi convocare in sede d’esame la mattina dopo lo scarico di banane si portava il cambio,
e si vestiva in tutta fretta in macchina mentre l’amico-collega lo portava alla stazione a prendere
il treno. Al proprietario della Prisma non capitava quasi mai, lui aveva sessioni d’esame
pomeridiane, all’altro era già capitato due volte di fare quelle evoluzioni.

“Ma te pare che devo fa tutta ‘sta giostra?”

“A Biaggico, e che te devo dì?”

“Gniente, che mme voi dì? Ce sta poco da fa, a chi tocca ‘nze ‘ngrugna”.

“E tira a campà”.

“E tira a Campari”.

“Uff! Pochi se ne facemo. Che dici, penzi de fallo uscì un bicchieruccio stasera?”

“Ma pure due. Per festeggiare l’esame superato o dimenticare la bocciatura”.

“Allora in quel caso ne facemo uscì pure tre”.

“Vabbuò. Carissimo amico mio, io ce stò”.

E così il bestemmiatore veniva lasciato alla stazione, mentre l’altro se ne tornava a casa.
Quando poi la volta successiva i due si ripresentavano al molo, il loro datore di lavoro la prima
cosa che faceva era deridere il bestemmiatore. Neanche gli diceva ‘ciao’ o ‘ben arrivato’. No, gli
diceva “allora dottore, dopo questo 30 Le piacerebbe prendere anche soltanto trenta cassette di
banane”?

“E Lei è pronto a prendersi trenta vaffanculo”?

Tra i due e il datore di lavoro si era instaurato un rapporto che molti avrebbero potuto definire
confidenziale, data la semplicità con cui si prendevano a parolacce. Ma era solo il modo di fare
della gente di mare, o meglio, della gente del porto. O almeno, di quel porto. Però va detto che
una certa bonarietà nei confronti di quel duo singolare il capo la mostrava, e con i suoi due
lavoratori amava divertirsi, di tanto in tanto. Una notte accadde che il datore di lavoro riprese il
Moro dopo che questi ebbe chiamato in causa Maria. “Uè, tu! E finiscila con queste madonne!”,
gli urlò.

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“Che è, mò al porto è arrivata la Mayflower?”, rispose. Ma il Moro aveva scelto un risposta


che il datore di lavoro non poteva capire, ignorando quello chi fossero i padri pellegrini e,
probabilmente, ignorando un po’ tutta la storia in genere. Per cui, visto che l’uomo restò in
silenzio, Biaggico dovette aggiungere: “Che hanno scaricato vangeli dalla nave a fianco?”

Al che il suo datore di lavoro gli rispose: “No, è che i *#a?^X [Ms vanno centellinati”.
L’intero molo scoppiò a ridere: i due studenti-scaricatori risero per la battuta del tutto
inaspettata, mentre tutti gli altri iniziarono a schernire il datore di lavoro per quella parola-
‘centellinati’- che probabilmente nessuno aveva mai sentito prima di quel momento. Anche
Cicco se la rise, e di gusto. Al che il capo decise di divertirsi anche con lui: “Meno male che
scarichi banane e non uva, sennò tu m’avevi già rovinato”, diceva all’amico carissimo del
bestemmiatore. “No no, io l’uva non la mangio, la bevo. Mi piacciono i succhi di frutta”,
rispose. Poi però i momenti di divertimento finivano, e il datore di lavoro richiama all’ordine i
due giovani scaricatori di banane. “A me invece piace vedere il lavoratore che porta a terra le
cassette”. E il ‘gioco’ ricominciava. Come sempre, come ogni volta era stato fin dall’inizio:
spaccandosi la schiena con le banane, tra l’acqua di mare che inzuppava i vestiti, il vento freddo
che soffiava, salsedine che impastava capelli e occhiali e madonne che cadevano ininterrotte.

“Ma porc** ****, ma fa i baristi come tutti l’artri no, eh”?

“A Biaggico, questo c’è capitato e questo se semo piati”!

“Belli cojoni che semo”!

“Zitto, nun ce lo ricordà. E damme ‘na mano co’ sta cassetta”.

“Mo’ pure le cassette tue devo portà? Famme capì, ma che devo fà?”

“Biaggico... Tira a campà!”

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Breve racconto grottesco di un


incomprensibile mondo reale (2009)
A chi sa già qualcosa, e soprattutto a chi ignora.

C'era una volta un piccolo omettino in cerca di una collocazione in un mondo che, per quanto
si sforzasse, non riusciva proprio a comprendere. Quel mondo lo aveva conosciuto sui libri, ma
una volta chiusi definitivamente questi, quanto credeva di aver appreso fino a quel momento si
rivelò invece tutto ancora da scoprire. Non aveva mai nutrito grande fiducia nell'essere umano
suo simile, e quella realtà non cartacea lo convinceva ogni giorno di più che la sua sfiducia fosse
quantomai giustificata e legittima.

Un bel giorno questo ometto ricevette un incarico per conto di signori all'apparenza affabili e
gentili, rassicurazioni circa pagamenti certi e sicuri e garanzie verbali su contratti lavorativi.
Secondo quanto promesso dai signori affabili e gentili, il piccolo omettino avrebbe dovuto
lavorare per loro da inizio estate fino ad autunno inoltrato, termine previsto del suo incarico, ma
poi il mondo che l'omettino non riusciva proprio a capire prese a girare in un modo, si sarebbe
detto successivamente, tutto suo. Per ragioni rispondenti a meccanismi mai descritti in alcun
libro né mai trattati da dotti e sapienti, quelle rassicurazioni vennero messe in discussione:
"nuove nomine", spiegarono all'ometto, "altre persone, nuove, cambiate all'improvviso che
hanno preso in mano la gestione di tutto". Ancora una volta l'omettino cercava risposte:
improvvisamente non lavorava più, nessuno gli diceva più nulla e le persone affabili e gentili
che aveva conosciuto adesso erano meno affabili e meno gentili. Alla sua ricerca di verità quelle
stesse persone risposero con spiegazioni che non spiegavano, chiarimenti che non chiarivano,
parole con cui non parlavano. Tutto si fece vago, tutti invitarono il piccolo ometto ad aspettare.
E l'ometto aspettò: il sole impallidiva, il tramonto anticipava via via il proprio orario d'arrivo, le
foglie mutavano colore e poi, con calma, si lasciavano cadere a terra. L'autunno arrivò, del

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lavoro, del contratto e delle persone una volta affabili e gentili nessuna traccia.

Il piccolo omettino ricordava di un libro in cui due giovani donne, non riuscendo ad ottenere
risposte circa una loro disputa su un bambino che entrambe riconoscevano come figlio proprio,
si rivolsero all'organo supremo della loro società, il re, famoso peraltro per la sua saggezza. Al
nostro ometto quest'ultimo aspetto non interessava: ciò che gli interessava era sapere che le
persone una volta affabili e gentili non erano gli organi supremi della struttura cui facevano
parte. Non avendo ottenuto responsi, come le donne della storia che ricordava, si rivolse alla
persona che ricopriva la carica alta della struttura per cui avrebbe dovuto lavorare. Ma la sua
azione, si rese conto, finì per produrre effetti inaspettati: il piccolo omettino ricevette telefonate
da quelle persone una volta affabili e gentili e ora aggressive e sgarbate, in cui venne
rimproverato di "aver bypassato gli individui con cui si era instaurato un rapporto di lavoro".
Nessuno volle sentire ragioni: "ti sei comportato molto male", si sentì dire l'omettino. "Non ti
sei fidato di noi, hai avuto a che fare con gente onesta che tu hai trattato in modo indegno", gli
venne contestato. Se fino a quel momento il piccolo omettino si era interrogato su un mondo per
nulla corrispondente a quello conosciuto sui banchi di scuola, con quelle accuse iniziò a nutrire
una maggiore sfiducia nell'essere umano suo simile. Improvvisamente i suoi simili poco simili
avevano fatto di lui un mostro, colpevole solo di aver fatto domande e cercato di difendere i
diritti che, almeno in linea di principio, gli erano propri. "Non è così che ci comporta", gli
rimproverò un'altra delle persone ora aggressive e sgarbate. "Non è così che si agisce. E
comunque col nuovo anno dovrai svolgere altri lavori perché ne hai realizzato uno solo, che non
giustifica quanto ti verrà dato", ci tennero a fargli sapere. Queste ultime parole all'ometto non
suonarono bene, in quanto non rispondenti alle rassicurazioni avute in estate e poiché
riassuntive di una realtà in contrasto con quella che nel frattempo si era venuta a definire: infatti
l'ometto, stanco di attendere, con le foglie cadenti trovò una nuova occupazione e una, seppur
provvisoria, collocazione nel mondo. Come avrebbe potuto conciliare, con il nuovo anno, due
lavori che assorbivano molto tempo? Insomma: al piccolo omettino era stato detto che avrebbe
lavorato per delle persone affabili e gentili fino all'autunno, poi un'inattesa piega degli eventi
fece sì che fino all'autunno non produsse alcunché senza che nessuno gli dicesse cosa stesse
accadendo. Non solo: una volta scaduto il suo incarico, all'omettino che cercava risposte venne
detto che "non è così che ci comporta" e che avrebbe dovuto lavorare con l'arrivo del nuovo
anno, cosa mai detta prima d'ora e che gli avrebbe creato non poche difficoltà. L'omettino non
capiva: aveva l'impressione che le persone una volta affabili e gentili e ora aggressive e sgarbate

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avessero giocato con lui al gioco delle tre carte. "E sono io ad aver agito male?", si domandò
incredulo di fronte a un mondo che, per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a
comprendere...

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Un gatto (2010)
A un felino, e alla sua curiosità

Statico nella sua immobile vitalità, osserva con aria distaccata curiosità il frenetico andare e
venire di tutti quelli che lo circondano. Quel partire e ritornare, quel vociare in tutte le diverse
lingue con cui si può comunicare su un mondo, quell’andirivieni quotidiano a lui così misterioso
ma al contempo oramai familiare. Guarda, osserva, forse studia, per poi tornare al suo
girovagare o sognare sogni interrotti. E allora ecco, con un fare quasi assente ma sempre
elegante, dare una rapida occhiata tutt’intorno, individuare sedili non occupati da individui o
ingombrati dai pesanti carichi e dopo una comoda passeggiata… Op!, su su quel sedile dove
raggomitolarsi e lasciarsi cullare dal brusio dei più e più passeggeri in coda tra check-in e
imbarchi. Per tutti una mascotte, una inattesa ma simpatica sorpresa fonte di frivole tenerezze,
ma lui è più che altro un insolito testimone della caducità della vita. Lui - gatto solitario in un
mondo estraneo alla propria natura e lontano dai propri simili – si riscopre padrone di un regno
dove ognuno è di passaggio, in una allegorica rappresentazione di ciò che è la vita. Quanti ne
avrà visti? Centinaia? Migliaia? Forse anche più, e tutti sempre uguali nelle proprie personali
caratteristiche. Ognuno intento ad arrivare, attendere di partire e poi ritornare. O ancora, sparire
per sempre. Per chi si ritiene abbia nove vite, un attività forse simile al morire e rinascere. Ma
lui, quando fa sfoggio di sé al centro dell’ampia sala, è il solo a non far parte di questo gioco,
l’unico essere vivente scrutatore di questa continua e incessante corsa contro il tempo. “Perso”
nella moltitudine umana che – ai propri felini occhi – sarà solo un numero variabile di persone
che si fermerà chi a offrire qualcosa da mangiare chi qualche momentanea coccola,
semplicemente aspetta. Forse la chiamata del suo personale volo, forse una candida gattina, o
forse solo qualcosa di diverso dall’ormai abituale spettacolo cui da tempo assiste. E intanto
osserva. Nel tentativo di capire cosa muova tutte quelle persone, cosa spinge tanti esseri umani a
vivere in quel modo. Per scoprire com’è la vita di un uomo. Perciò guarda. E vede individui
accompagnati da amici e parenti molto spesso partire soli, come in un ultimo generale congedo

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prima della condanna a morte; o coppie tornare dimezzate; o amanti divisi tra lacrime e baci
promettersi nuovi incontri, e amanti che invece alla fine si ritrovano davvero; o vede partire
individui che mai più torneranno, in una rappresentazione di ciò che è la morte. E poi
quell’interminabile scia di bagagli, fardello di inconcepibile scomodità per chi è abituato a
muoversi in totale agilità. Ancora, vede alcuni ridere, altri piangere, e così facendo capisce quali
e quanti sono gli stati d’animo di una persona, come un uomo possa emozionarsi. Ma lui non si
emoziona, in fin dei conti non è uomo pur in un mondo di uomini. Difficile dire se abbia tenuto
a mente solo qualcuno degli incalcolabili esseri transitati per quella sala, impossibile sapere se
mai un giorno, dietro qualche sbadiglio e qualche inascoltato miagolio, si potrà nascondere un
saluto per qualche essere umano. Ma può anche darsi, può succedere che ringrazi chi –
nonostante l’inesorabile scorrere del tempo – abbia saputo trovare un istante per un’affettuosa
carezza. Perché in un mondo di naturale predazione e disumana indifferenza, ricevere anche un
solo breve istante di affetto non è cosa da poco. E più che altro, non è cosa da tutti. E nel
rispetto di ciò, non tutti si fermano a rendere omaggio a quell’insolita presenza tra viaggiatori,
inservienti e bagagli: solo pochi - forse i più sensibili, forse i più puri di cuore o forse anche solo
astanti in cerca di uno svago – rivolgono attenzioni a quello che mai nessuno ha tentato nel
corso della storia di definire il migliore amico dell’uomo, nonostante uomo e gatto si ritrovino a
vivere negli stessi spazi – e a volte anche sotto gli stessi tetti – ormai da secoli. Solo i bambini
sono quelli che puntualmente vanno a far visita a quella strana attrazione. E se anche per le loro
coccole dovessero svegliarlo dalla sua poltroncina, lui non ne farà drammi. Perché nessuno
rifiuta manifestazioni di affetto, e nessuno che non abbia un minimo di buon cuore negherebbe
mai un sorriso a un bambino. Questo, il gatto lo sa, e forse anche meglio degli uomini. Per cui
lascia che i bambini giochino con lui, per poi tornare a posare il capo sul sedile ricominciare a
sognare. Ogni tanto qualcun altro – anche meno bambino – arriva a fargli compagnia, e anche in
questo caso lascia correre senza battere ciglio: sarà comunque una questione di poco. Fugace a
volte è l’amore. E lui si lascia amare per quel poco di amore che gli altri sanno offrirgli. Perché
ha imparato col tempo che non tutti amano allo stesso modo, e – soprattutto – che non tutti sono
disposti a farlo. Benché presenza inattesa agli occhi di tutti, quasi tutti gli passano accanto come
se niente fosse, in quel tacito accordo per il quale c’è reciproca tolleranza solo se c’è reciproca
noncuranza. Al gatto, in fin dei conti, va bene così: è lui quello che alla fine resta, mentre gli
altri sono quelli che si fermano per poco. Non giudica, non sentenzia. Anche quando potrebbe
pensare che quelle coccole sono ipocrite, che quelle attenzioni soltanto passeggere, lui prende

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

quello che la vita gli offre. Perché a ben vedere non chiede, solo osserva. E quando non
comprende, cerca il suo luogo di sonno e si concede il lusso di dormirci su. Quindi si ridesta, si
stiracchia e salta giu. Si lava e si liscia il pelo con felina grazia, dà un ultima occhiata a quel suo
regno costantemente invaso e violato, scruta con quell’aria di vaga indifferenza e con tutta
calma se ne va. Scompare alla vista di tutti, in meandri preclusi ai comuni viaggiatori. Dove
vada nessuno può dirlo, ma se vi capita di ripassare per quella sala, potere esser certi di
ritrovarlo là. A scrutare con distacco ma con una certa curiosità un mondo non suo alla ricerca
del senso della natura e della vita umana.

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Lui, le sue lei e tutto il resto (2010)


A più persone…

Se come in molti sostengono la vita è una cosa meravigliosa, allora forse qualcuno si è
dimenticato di dire che non siamo proprio tutti uguali. O forse che c’è qualcuno inadatto per
questo mondo. Perché per lui la vita proprio così meravigliosa non è che lo fosse stato. Col
tempo era riuscito a trovare un modo di farsela piacere... Cioè: non l’aveva rifiutata, certo. Solo
la viveva a modo suo. E per questo da molti era visto come uno strano. E non diciamo altro. Ma
certo è che a lui quel mondo e quel vivere non è che convincessero granché. Chi è lui? Uno dei
tanti, con una delle tante storie che un mondo può raccontare. Non una storia esaltante, forse
non bella, di certo non migliore di altre, per contenuti e grado di interesse. Ma onor del vero il
mondo sa regalare anche storie ben più gravi e tristi. E questo lui l’aveva imparato. Fu anche per
questo che col tempo imparò a ritenersi fortunato.

Il suo nome, come sempre avviene, i genitori lo scelsero ancor prima della sua nascita.
Quando di lì a qualche anno dopo avrebbe iniziato a intendere, si sarebbe reso conto che gli
esseri umani hanno capacità di intendere e di volere, ma non sempre ne hanno la possibilità.
Infatti a lui il suo nome non piaceva, ma non l’aveva voluto lui, l’avevano voluto altri. Che poi
erano i suoi genitori, e qualcuno gli ripeteva – per tutta l’infanzia – “onora il padre e la madre”.
Lui obbediva perché non intendeva, tant’è vero che quando intese si limitò ad obbedire più per
rispetto ed educazione che non per frasi da favola o slogan della domenica. Era invece un
mercoledì quando nacque, suo malgrado. Già, suo malgrado. Perché se i suoi genitori tanto
avevano desiderato darlo alla luce, lui alla vita non sembrava interessato affatto. I suoi primi tre
anni di vita li trascorse infatti tra un reparto e l’altro degli ospedali, cambiando piani, corsie e
letti. E malattie. A otto mesi gli diagnosticarono il morbillo (salvo scoprire quindici anni più
tardi che era forse la sesta malattia), a un anno si buscò una broncopolmonite, a due la pertosse e

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a tre fu operato di idrocele. Davvero niente male. Cioè, di male forse ce ne fu anche in
abbondanza, perché bene non stette. E forse l’idrocele era lì a dire questo. E altro. Cos’è
l’idrocele? Una disfunzione dell’apparato riproduttivo maschile , per effetto della quale una
parte delle urine fuoriesce regolarmente ma un’altra residua parte finisce dentro lo scroto,
andando a riempire la sacca contenente i testicoli. L’urina si accumula, non ha modo di essere
espulsa e col tempo, stagnando, macera il testicolo. Ma soprattutto, finendo nello scroto,
ingrossa i testicoli. Insomma, avete presente l’espressione “mi sono fatto due palle tante”?
Ebbene, lui se l’era già fatte a tre anni. Ma all'epoca capiva poco, fortunatamente. O forse no: la
sua Roma era fresca di scudetto e lui se l’era perso. Ma in fin dei conti era stato troppo
impegnato a entrare e uscire dagli ospedali per interessarsi di calcio…

Quando ebbe finito di tribolare con i suoi primi problemi di salute ancora non pervenuta, era
pronto per andare all’asilo. No, in realtà non lo era, ma tanto per quanto detto poc’anzi – e cioè
che gli esseri umani hanno capacità di intendere e di volere, ma non sempre ne hanno la
possibilità – dovette piegarsi ai doveri altrui. Il suo primo giorno di scuola coincise con il suo
primo trauma esistenziale (perché i tre anni ospedalieri non li aveva vissuti: o stava male e
quindi dormiva oppure era sotto anestesia): tanti esseri umani tutti insieme, tutti sconosciuti,
furono troppo. Non resse. Iniziarono pianti biblici. Ma i genitori irremovibili – anche per via di
leggi coercitive – non si fecero impietosire. Poi quando vide la maestra, una suora in abito nero,
a pianti biblici si aggiunsero altri pianti biblici. Avete presente quando i genitori da piccoli
quando fate i capricci minacciano di darvi all’uomo nero? Beh, sono razzisti. A parte quello, lui
nel vedere la suora pensò che i genitori lo stessero abbandonando all’uomo nero. Poverino, non
sapeva cosa fossero le suore: infatti col tempo imparò che è meglio avere a che fare con l’uomo
nero che con le suore. Ma questo lui non lo sapeva, quel lontano primo giorno d’asilo. Sennò
avrebbe inveito contro la suora anziché piangere per la paura per l’uomo nero. Poi pianse perché
i genitori lo abbandonarono con tanti estranei. E con l’uomo nero, sempre lui. Era solo,
abbandonato, con una suora-uomo nero, con le palle piene ora sgonfie perché operato ma
comunque piene, piangente e triste. E aveva solo tre anni. Il suo ottimismo nacque allora. E
nacque morto.

La sua esperienza con l’asilo nacque da un trauma, ma la scuola materna di trauma gliene
regalò un altro, uno di quelli dalle lunghe ciglia. Una femminuccia, insomma. Era il secondo
anno d’asilo, aveva perdonato i suo genitori, non aveva più la suora-uomo nero ma una normale
maestra, giocava, colorava e si divertiva. In parole povere, era felice. E lo fu ancora di più

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

quando come compagna di giochi divenne quella dolce bambina dai capelli neri, tanto dolce da
regalargli quei bacetti sulle guance che tanto lo facevano diventare rosso-bordeuaux-viola e
anche apneista, tanto restava senza fiato. Era amore? Forse, non poteva saperlo. Era piccolo,
ingenuo e innocente. Troppo piccolo, ingenuo e innocente per capirne di certe cose. Non che in
età adulta ne avrebbe inteso, facciamoci a capire. Avrebbe dimostrato ampiamente che non è
proprio necessario essere un cavallo per dormire in piedi. E ciò, ancora una volta, a
dimostrazione del fatto che gli esseri umani hanno capacità di intendere e di volere, ma non
sempre vi riescono. In questo caso a intendere. Lui ebbe poco da capire: la dolce bambina dai
capelli neri era la molla che la mattina lo faceva alzare e correre all’asilo (si, vabbé, c’era anche
la mamma che dispettosissima lo tirava giù dal letto, ma è un dettaglio…) e per lui fu un
dramma quando elle sparì. Sì, ella sparì. Così, da un giorno all’altro. Senza dire niente.
Semplicemente una mattina non si presentò a scuola, né si presento i giorni a seguire. All’inizio
pensò che stesse male, poi si arrese all’idea che dovesse aver cambiato scuola. Lui allora non se
ne rese conto, ma alla sua ancor più veneranda età di anni quattro e mezzo già aveva il cuore
infranto. Ma i bambini si sa, sono bambini. E lui seppe trovare la giusta serenità che a un
bambino serve per vivere la propria infanzia fatta di giochi, colori e divertimento.

Poi vennero le elementari, i giochi iniziarono a lasciar spazio allo studio e l’età prese il
sopravvento. Lui, da uomo vissuto qual era già, subì i segni del tempo e già in prima elementare
dovette mettere gli occhiali, perché i suoi occhi già non vedevano più bene. Perché è la fortuna è
cieca – e infatti lui neanche lo vedeva – e la sfiga invece ci vede benissimo – e infatti l’aveva
inquadrato ben bene. Essendo l’unico ad avere quella protesi oculare, per tutti lui era quello
strano. Quello con gli occhi sugli occhi. Che è sempre meglio che avere il prosciutto sugli occhi,
ci mancherebbe, ma nel suo caso egli era visto – poiché lui non vedeva – come uno diverso. E lo
era, e non solo per quello. Si dà infatti il caso che lui fosse piuttosto brillante come alunno:
facilità di apprendimento, voti eccellenti, condotta buona nonostante la vivacità. Insieme ad altri
due compagni di classe finì col condividere quella fastidiosa etichetta: quella di secchione.
Veniva continuamente chiamato in questo modo, schernito per il suo rendimento. E i pochi
compagni di classe che lo cercavano lo facevano per avere ripetizioni private a costo zero, mica
per giocarci. Fortuna che ai bambini basta poco per essere amici, tipo una palla. Così era sempre
un giocare a pallone, tra un “secchione” e l’altro. Certo, chissà perché lui finiva sempre relegato
in porta, ma a lui non dispiaceva: poteva buttarsi e rotolarsi per terra, e poi volete mettere che
gioia a fare gol in qualità di portiere? Insomma, sapeva ritagliarsi i suoi spazi di soddisfazione

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in quello che il mondo gli riservava. In fin dei conti, lui che aveva superato i primi tre travagliati
anni di vita, era ormai abituato a sopravvivere. Non senza sofferenze e insofferenze. Il fatto che
ci fossero quegli odiosi compiti per il lunedì proprio non gli andava giù: passino quelli per gli
altri giorni, ma perché i compiti per il lunedì, che non consentono di gustarsi il sabato e
impediscono di ascoltare le partite la domenica? Proprio non lo capiva. Ancora una volta, non
aveva la capacità di intendere. Oltre alla mancanza di volontà di volere. E a proposito di volere,
chiese e ottenne di andare a scuola calcio, e i genitori lo iscrissero alla polisportiva dell’oratorio
salesiano. Eddaje con l’uomo nero! Ma nel giro di un anno lo tolsero e lo iscrissero, senza che lo
avesse né chiesto né voluto, a pallavolo. E lì visse il suo secondo trauma in fatto di esseri umani
dalle lunghe ciglia. Il primo anno maschi e femmine si allenavano insieme, con tanto di
partitelle miste a fine allenamento. Ma il secondo anno le cose cambiarono: quand’egli si
presentò per il primo allenamento della nuova stagione scoprì che le femmine non si allenavano
più con i maschi. Per loro altri giorni e altri orari. Insomma, erano scomparse improvvisamente,
da un giorno all’altro, e senza alcun preavviso. Esattamente come la dolce bambina dai capelli
neri all’asilo. Ci restò male, proprio come allora. A proposito di stare male: anche quelli erano
anni di frenetica attività per medici e dottori. Si succedettero infatti varicella, parotite – a destra
come a sinistra, per par condicio – e quinta malattia. Se per tutti gli esseri viventi la vita viene
scandita dall’alternarsi del giorno e della notte e dall’alternarsi delle stagioni, per lui la vita
veniva scandita dai continui passaggi dai banchi di scuola al letto di casa, dai maestri ai dottori,
da compiti ed esercizi ad antibiotici e intrugli vari, supposte comprese. Perché, diciamolo: è da
quando era nato che continuava a prendersela nel c***. Ma andò avanti, nonostante tutto. C’era
la scuola da superare, ma c’era soprattutto la Chiesa con cui confrontarsi. Il doposcuola era dalle
suore, un paradiso degli orchi fatto di tanti uomini neri antipatici che costringevano a fare i
compiti e a pregare. E quando non c’erano loro c’era il catechismo, per un continuo ripetere
sempre le stesse cose: Gesù, Giuseppe e Maria, Padre nostro e salve Regina, Credo e Alleluia,
mio Dio mi pento e mi dolgo, non uccidere non rubare, morì e fu sepolto, alzati e cammina, Dio
è bello e bravo tu sei brutto e cattivo e hai il peccato originale. Non aveva più l’idrocele da un
pezzo, ma continuava ad avere due palle così. Aveva quell’età per cui concetti come Dio non
sono comprensibili (ma possono tranquillamente rimanerli anche ad età più avanzata…), ma
quella pratica misteriosa e curiosa per cui bastava confessarsi ogni domenica per vedersi
cancellare i peccati e poi ricominciare a peccare perché tanto la domenica successiva ci si
andava a confessare, ecco, quella pratica gli fece intuire che c’era qualcosa che non andava.

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

Fatta anche la cresima tolse quindi dalla catenina il crocefisso per mettere il lupetto. Perché c’è
fede e fede, e se Dio è onnipotente, la Roma è magica.

Nel frattempo giunsero gli anni delle scuole medie, per una di quelle esperienza che avrebbe
ricordato nel tempo come una delle migliori avute. L’asilo gli aveva lasciato due traumi, alle
elementari aveva appreso che i bambini sanno discriminare e far sentire diversi, e che l’uomo
può essere cattivo e così diverso da quel Gesù che tanto gli avevano decantato. E lui i suoi
compagnucci cattivelli li aveva frequentati tutti i giorni per cinque anni, mentre questo Gesù
Cristo invece non l’aveva mai visto: da qui dedusse che Gesù dovesse essere reale e vero quanto
Hansel e Gretel o cappuccetto rosso, perché anche di loro tutti ti raccontano sempre e poi non li
incontri mai.

Alle medie tutto sembrava essere destinato a riproporsi: anche lì lui era quello brillante, che
apprendeva rapidamente e facilmente collezionando voti alti e complimenti dei professori,
mentre tutti gli altri faticavano ad andare oltre la sufficienza. Ma a differenza delle elementari, i
compagni di classe delle medie seppero essere una classe: tutti si accettavano per quello che
erano, e ognuno si aiutava e si veniva incontro nel limite del proprio possibile. Gli unici scontri
erano di natura calcistica, ma si trattava di semplici e inoffensivi sfottò. Che per lui non
mancarono certo in quegli anni, dato che la sua squadra di soddisfazioni ne è che ne desse. Anzi.
Ma lui aveva sviluppato simpatie per i perdenti e tifava per tutti quelli che non avevano alcuna
possibilità di vittoria. O almeno, che non partivano per favoriti. Perché poi sono proprio questi
ad aver bisogno di sostegno. A chi vince il tifo non serve. Aveva scelto i deboli, perché i potenti
aveva capito che non hanno molto da offrire, se non antipatia e cattiveria. E che vai a capire
perché, erano pochi e ce l’avevano con tutti gli altri. Mah. Anche in questo caso trovava
applicazione quel principio per cui gli esseri umani hanno capacità di intendere e di volere, ma
non sempre vi riescono. In questo caso a intendere. E lui non riusciva proprio a capire perché la
malasorte ce l’avesse proprio così tanto con lui. Quando si è bambini si spera sempre di stare
male per non andare a scuola: alzi la mano chi non l’ha desiderato almeno una volta! Ebbene,
alla fine della seconda media, di ritorno a casa dopo l’ultimo giorno di scuola, si ritrovò a letto
subito dopo pranzo per effetto di quella malattia esantematica ancora non contratta: la rosolia.
Era il 10 giugno, giorno di piena estate, caldo e sole. E lui a letto in quella prima parte di
vacanze tanto aspettate, a rosolare nella sua convalescenza. E a piangere non si sa se per il
dolore provocato da quel fastidioso malore o per incontenibile tristezza. Ma il nostro eroe –
perché a questo punto il titolo di eroe se lo meriterebbe anche – superò anche questa sua

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disavventura, e con meno giorni di vacanza degli altri si ripresentò puntuale per l’inizio
dell’ultimo anno di medie. Da lì ne uscì con un “distinto” come voto finale: stava forse
diventando normale? Il liceo avrebbe impietosamente detto di sì: collezioni interminabili di tre e
quattro avrebbero irrimediabilmente macchiato un blasone una volta glorioso, e corsi di
recupero e debiti formativi (mai meno di due) finirono per contraddistinguere e contrassegnare
cinque anni vissuti – accademicamente parlando – sempre in bilico tra promozione e bocciatura.
Ma per quanto anch’egli fosse sceso tra la moltitudine umana di quanti vivono per una
sufficienza, era destino che dovesse continuare a restare nella propria diversità. Accadde tutto
un bel dì…cioè, un dì. Perché alla fine proprio bello non si rivelò. Comunque, accadde tutto un
dì di inizio di autunno. Lui allora era al secondo anno di liceo, e soprattutto – quel dì – alle sue
prime esperienze sessuali. Che furono brevi e intense. Bastò il tempo che può servire a una
giovane ragazza per cercare ciò che fa di un uomo un uomo, trovarlo e farlo suo. Per dire,
immediatamente dopo, “e questo cos’è? Mi dici che ci faccio con te?”. Così, mentre lei se ne
ritornava per la sua strada, lui restò lì, con quelle poche terribili certezze che si ritrovò in quel
momento e che temeva – anzi, ne era certo – lo avrebbero accompagnato per l’intero corso della
sua esistenza. Era impietrito per quanto gli era appena capitato – o non capitato, fate voi – e per
la nonchalance e la completa noncuranza con cui ella se ne era appena andata. Insomma, ancora
una volta si ritrovava solo in un mondo non proprio amico pieno di tanti estranei, e con ogni
probabilità non in grado di poterlo aiutare. E anche questa volta con il suo apparato sessuale che
dava problemi. Ma stavolta non era nelle condizioni di poter dire “ma che palle!”, e infatti
esclamò “eccheccazzo!”. E non per caso. Avete presente il modo di dire diventato ormai di uso
comune “mi va tutto storto?”. Ecco, sembra che sia nato da qui, da casi come questo. Se poi
l’abbia coniato l’uomo o la donna, questo ancora oggi è elemento di discussione e dibattito tra
esperti e opinione pubblica. Ma a lui questo detto calzava a pennello, perché non è che tutto
fosse andato proprio tutto per il verso giusto. Ma non poteva farci niente. Per lui, che scopriva il
sesso in quel modo, più che vedersi aprire un mondo il mondo finiva distrutto sotto le esplosioni
di un big bang. Perché il colpo fu tremendo. E il botto anche di più.

Il pene curvo è un problema più psicologico che reale, che nella quasi
totalità dei casi viene risolta con l'aiuto di un buon psicologo, rispetto

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all'intervento chirurgico. Quest’ultimo infatti è richiesto solo in pochi casi,


in genere quelli estremi. Quelli cioè, di pene con una curvatura ad arco
tanto accentuata da creare dolori durante la penetrazione. Ecco, quello –
ma solo quello - è il caso che realmente rende necessario l'intervento
chirurgico.
Scusi professore, può presentarsi al lettore? Sa, vorrebbero poter
capire chi sta parlando, dato che non la vedono...
Certo. Sono Gustavo Del Giovane, psicologo psicoterapeuta e
psicoanalista.
Grazie professore. Quindi, stava dicendo, in realtà quello in questione
non è un problema...
Beh, no. Non pratico, almeno. Considerate che esistono cinque tipi di
“recurvatum”, come vengono definiti in gergo tecnico, e tutti congeniti. Poi
ci sono quelli legati a particolari patologie, ma lì si entra in altri ambiti,
quelli sì prettamente medici. Insomma, il fatto che ci siano cinque diversi
casi di queste curvature dimostra che non è raro avere a che fare con questi
casi. E infatti quasi mai sono di impedimento all’attività sessuale.
Ma da cosa dipende esattamente questa curvatura?
Intanto diciamo che nel pene normalmente elastico si ha una erezione
dritta. E il punto è tutto qui, nell’elasticità dei tessuti. La curvatura
congenita o acquisita è data da diminuzione di elasticità di uno o più strati
del pene che porta alla riduzione di lunghezza di una porzione dei corpi
cavernosi. A seconda del caso si può avere una curvatura ventrale, dorsale,
laterale o addirittura complessa.
Ma in nessun caso pregiudica l’atto sessuale del maschio…
No. Come detto il pene curvo è un problema più psicologico che reale, che
nella quasi totalità dei casi viene risolta con l'aiuto di un buon psicologo.

Ma lui dallo psicologo non volle andarci, non ne aveva la benché minima intenzione. Andarci
avrebbe significato riconoscere il problema – che comunque si poneva, non è che non si poneva
– e certificare la propria diversità. Perché lui ancora una volta, e anche più che in passato, si

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sentiva diverso da tutti gli altri. E non riusciva ad accettare il fatto di essere un mostriciattolo
frutto di chissà quale scherzo della natura. Ma essendo un questione ormai trasferita nella sfera
psichica, il problema divenne reale, ancor più concreto di quanto fosse effettivamente.

Quando una persona si sente diversa non si accetta, specie se già


rifiutata da altri.
E quindi, professore, che succede quando una persona non si accetta
per quello che è?
Beh, è difficile dirlo. Ognuno risponde in maniera diversa a seconda di
come vive e percepisce il trauma. Ovviamente parlarne aiuta ad affrontare
il problema, ma non è raro che in casi come questi ci si chiuda in sé stessi,
perché comunque stiamo parlando di una cosa anche imbarazzante. Se poi
una persona è già di suo caratterialmente introversa, allora diventa difficile
anche scoprire se il soggetto abbia dei traumi o viva situazioni di disagio.
E in casi come questi come si fa a identificare il disagio?
Una persona introversa per quanto riesca a tenere tutto dentro ha
comunque bisogno di valvole di sfogo. Scatti d’ira, aumento dello stato
nervoso, suscettibilità: sono tutte manifestazioni di uno stato di stress
mentale e di uno stato problematico. Non di rado le persone arrivano a
ferirsi volontariamente, perché non si accettano e disprezzano il proprio
corpo.
Autolesionismo, quindi…
Sì. In alcuni casi il soggetto si spinge fino all’autolesionismo.
Come se ne esce?
Come detto, col supporto di un bravo psicologo.
D’accordo professore, ma adesso basta tirare l’acqua al proprio mulino
e farsi auto-promozione. Non si vergogna a farsi pubblicità in questo
modo?
Che ci vuole fare?! C’è la crisi. E anch’io ho una famiglia da mantenere.

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Come detto e come avrete capito, il colpo fu davvero tremendo. E il botto anche di più. Era solo
al suo secondo anno di liceo, e la vita per lui aveva perso di significato. Il suo rendimento a
scuola subì un crollo vertiginoso, con quattro e cinque da tutte le parti. Non che non studiava,
anzi. Lo studio divenne il rifugio perfetto, ciò che poteva fargli di evitare di pensare a quello che
stava vivendo. O non vivendo, a secondo di come la si voglia vedere. Ma la concentrazione non
c’era, e i risultati non vennero di conseguenza. Come se non bastasse, gli eventi vollero che egli
si ricordasse che la sua salute continuava a non essere pervenuta, perché dì a poco contrasse il
morbillo – di nuovo! – e a seguire la scarlattina, colpa di uno streptococco alla ricerca di un
posto dove stare. Si annidò nella sua faringe o giù di lì, così oltre a quello che già aveva dovuto
patire, gli toccò anche di sopportare questo groppo in gola. Ad ogni modo “grazie” a questa
nuova ondata di malattie si scoprì che a otto mesi non ebbe il morbillo, cosa questa che a lui
giovò. Infatti se ne stette bello bello tre settimane a case in preda a una forma terribile e
debilitante di morbillo virulento. Perché il morbillo se uno se lo prende in età prescolare, come
generalmente accade, è sì una rogna ma sostenibile; se uno invece se lo prende al liceo la
questione cambia. Anche l’uomo cambia. Infatti lui non si poteva vedere, ma chi gli fu vicino
gli garantì che sembrava un qualcosa a metà strada tra un alieno e un pugile al tappeto
tumefatto. Quando si riprese si rese conto che era aprile, aveva otto insufficienze su dieci
materie e che il tempo era contro di lui. E che i calci nelle palle dei genitori si facevano sempre
più una minaccia reale. No, non era quello il tempo di crucciarsi: mise da parte depressioni varie
e si prese da parte i libri. Fu un’epica collezione di 7 e 8, cui si aggiunse l’ormai consueta ma
pur sempre impietosa sfilza di 3 e 4 nelle materie non proprio preferite. Alla fine fu promozione,
con debiti. Ma il sistema occidentale e il modello capitalista si basano e si fondano sul debito,
quindi era tutto nella norma. E infatti così proseguì la sua carriera liceale: avanti coi debiti. Nel
frattempo nella sua testa si combatteva la battaglia per un ritorno prima di tutto a un equilibrio
psichico, poi al successivo ripristino della normalità. Molti neuroni morirono, altri si arresero.
Altri ancora emigrarono, ma a livello cerebrale era tutto un caos. C’era un sottile interregno di
lucidità, schiacciato tra le armate in guerra tra loro; ma era troppo sottile rispetto a quel gran
disordine per poter avere il sopravvento. La parte lucida, in quella situazione di scompiglio e
baraonda in cui versava la materia grigia ingrigita, così gli sentenziò: “Al cervello non si
risponde, ma al cuore non si comanda”. Tradotto: non puoi continuare a ignorare l’universo
femminile che ti circonda. Così verso la fine del liceo conobbe una ragazza dai capelli rossi

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

(naturali), ma anch’ella – come quella che quel dì d’autunno lo lasciò lì in balia di sé stesso – si
rivelò non proprio interessata al problema. In fin dei conti che era suo? Che se lo risolvesse lui.
Che tornò punto e a capo. Fino a quando non incontrò una ragazza dai capelli neri, che però
ebbe la meravigliosa idea di rifiutare un regalo che lui le fece. Per la cronaca, i due si stavano
frequentando. Quindi egli non capì. O meglio: non gli riuscì di intendere (sempre per quel
principio di cui sopra…). C’era poco da capire, a dire il vero. E cioè che ancora una volta si
ritrovava in quello stato psico-emotivo che potrebbe indurre qualcuno al suicidio, ma lui sapeva
di non avere il coraggio di fare una cosa simile. Volete mettere soffrire? Scusate, eh… Ma venne
la ragazza bionda, quella che gli spaccò il cuore e che gli cambiò la vita. Aalt! No!, non è come
pensate voi. Si presentò l’occasione giusta, ma una crisi di panico lo mandò nel panico, appunto.
La psiche aveva vinto, e lui, invece, aveva perso. Miseramente. Ma ebbe, chissà come, la
capacità di dire a sé stesso: “beh, di cosa dovrei crucciarmi? In fin dei conti non è successo
niente!”. E dopo che pensò una simile cosa, scoppiò a ridere di un riso talmente surreale - data
la situazione surreale - da rendere l’intero contesto da ridere. Fu quella l’occasione in cui si rese
conto che esiste uno spazio e un tempo di ridere e di sorridere, della vita come di sé stessi.
Iniziò a guardare il mondo con occhi diversi. Si mise delle lenti a contatto. In quel momento i
suoi neuroni decretarono una fine delle ostilità per quello che potremmo definire una tregua,
forse un armistizio. Non certo la pace, perché lui sapeva di essere sulla strada giusta, ma di
essere ancora lontano dall’uscire da quel suo pantano esistenziale. O forse no. Si rese conto che
in tutto quel tempo aveva saputo trovare coraggio e forza che all’inizio non pensava potesse
raccogliere. Certo era imbranato, ma quello era un handicap tutto suo a cui difficilmente
avrebbe potuto sopperire, ma mancava ancora qualcosa. Quel qualcosa. Usò quindi la sua prima
volta per capire se era come tutti gli altri. Lo era. Salvo poi rendersi conto, guardandosi intorno,
di non sentirsi come quelli che lo circondavano. La società – quella società in cui viveva – e il
mondo – quel mondo che lo ospitava – proprio non gli riusciva di intenderli. E non li voleva.
Strano: gli esseri umani hanno capacità di intendere e di volere, ma non sempre ne hanno la
possibilità. Ma quando possono esercitare questo loro diritto, si ritrovano col non intendere e il
non volere. Alla fine, continuava a sentirsi fuori dal mondo. Ma era giunto a questa conclusione:
giusto o sbagliato che fosse, era lui. Uno dei tanti, uno dei molti possibili.

E questa è dunque la conclusione?

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

Scusi, si presenti al lettore. Sa, non possono vederla…


Ah, già. Io sono…lui.
Prego?
Sì, sono lui. E’ così che mi hai chiamato per tutto il tempo, no?!
Beh, si. Ma puoi anche dire chi sei…
Mi sono già rivelato…
Ok, però potresti usare il tuo vero nome…
Tu non l’hai fatto. Perché dovrei rovinarti il lavoro?
Magari per un colpo di scena finale…
Te l’ho già regalato: sono qua.
Effettivamente…
Beh? Hai romanzato abbastanza? Ho dato un’occhiata veloce: sai che
hai scritto di dati sensibili? Sesso, malattie, psicopatie. Potrei denunciarti
per questo…
Ma…
Tranquillo, non lo farò. Ma solo perché mi darai una percentuale sul
ricavato della vendita del tuo libro. Facciamo il 40%?
Il 40%?!
Ne riparleremo, e sono certo che troveremo un accordo. Tornando a
noi: dunque finisce così?
Non lo so. Dimmelo tu, in fin dei conti è la tua storia.
Si, ma sei tu che la stai raccontando.
Sì, però…
Ho capito. Ti do un aiuto. Eri rimasto a una ragazza bionda.
L’hai più rivista?
No, ma ho incontrata un’altra “lei”. Una giovane donna dai capelli
neri.
E com’è andata?
Quando l’ho vista, in principio e poi successivamente ogni volta che la
rincontravo, ho avuto il batticuore. E ciò mi ha ricordato che ho un cuore.
Poi ho provato imbarazzo, perché tutto ciò che mi emoziona mi
imbarazza. Quindi mi sono sentito triste, perché in amore si perde anche.

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

Ma nel guardarla in viso, nel vedere il suo sorriso, ho capito che questo
mondo può non essere ostile, e anzi riservare piacevoli sorprese.
Mi sa che ho capito.
Bravo. Allora vai.

Era guarito. Cioè, guarito… Si sentiva parte del mondo, ecco. Aveva scoperto il sorriso e
riacquistato fiducia in sé e nella vita. O meglio: era passato da una fase in cui pensava di non
valere una cicca a un momento in cui era consapevole di non valere una cicca in un mondo dove
in tanti non erano meglio di lui. Si era arreso al fatto che non c’era speranza per il mondo. Ma in
fin dei conti, lui non era il mondo. E se era vero che quella serenità che tanto avevo cercato
avrebbe potuto trovarla, magari anche solo per pochi istanti, “allora – si disse – tanto vale
provare a vivere”. Finché morte non vi separi.

…A quanti sono disposti a non prendersi troppo sul serio.

E tutti quelli che sanno ridere di sé.

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Ricordi di un giorno d’autunno (2010)


A Fanny

«Tutto questo è fantastico. Peccato solo questo maledetto tempo». Era così che dicevi, vero?
Si mi pare che dicessi così, in quei giorni di vento e pioggia. E avevi ragione: era davvero un
tempo maledetto. Eppure non c’erano perturbazioni e intemperie che ti togliessero quel tuo
sorriso e quel tuo gran desiderio di vivere. Tu, che di vivere avevi una gran voglia, nonostante
tutto. Quante ne hai passate, e quanto è passato. Il cielo sopra di noi è stato innumerevoli volte
primaverile, estivo, autunnale e invernale, sereno e ricco di nubi, proprio come oggi. Oggi,
giorno di freddo e pioggia. Maledetto tempo. L’autunno in città non ha fascino, non si manifesta
con i colori che gli sono tipici. Al massimo regala i primi aromi di caldarroste preparate nei
chioschi improvvisati agli angoli delle strade, fragranze lì a ricordare al passante che davanti
non c’è che l’inverno. A te piaceva l’inverno, non è vero? Com’è che dicevi? «E’ il momento
dell’anno in cui ci si può coccolare». E amare. Ma questo non lo dicevi, non lo hai detto mai.
Avevi un grande bisogno d’amore, e una paura folle di non riceverne. Perché le belle donne
rischiano di pagare il prezzo della propria bellezza: neanche questo l’hai mai confessato. Ma lo
sapevi, l’hai sempre saputo: da quando tuo padre iniziò a dedicarti quelle attenzioni, fino a
quando il tuo ragazzo ti ha trattata come non conviene all’amore. Ma non avevi tristezza, triste
non lo sei mai stata. Avevi solo una gran voglia di vivere. E un sorriso sempre pronto a
tramutare in allegria il mondo attorno a te. Anche un tempo ostile.
Oggi è grigio e piovoso. Il cambio di stagione influisce sul mio animo, ormai c’è ghiaccio sul
mio cuore. E piove sui miei pensieri. Chissà cosa diresti se fossi qua. Ma non ci sei. Com’è
l’autunno nella romantica città dell’amore? E’ così che viene considerata la vostra Paris, non è
vero? Soprattutto da voi ragazze. Pardon, donne. «Sono una donna, no?!», amavi ripetere. Non
perché volessi con questo adescare chissà quali uomini, ma solo perché eri orgogliosa di quello
che eri. E di quello che sei. Sempre tu, nonostante tutto. Strano: un qualsiasi uomo di te si
ricorderebbe della tua bellezza, di quanto una come te sappia far girare la testa semplicemente

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

restando immobile. Eppure a me torna in mente quel tuo guardare sempre tutto con grande
ottimismo. Forse perché è questo che hai saputo insegnarmi. Fin dall’inizio. Perché il tuo nome
in inglese suona come “divertente”. C’avevi mai pensato? E’ un nome che ti si addice, anche se
non è propriamente il tuo. Proprio come la tua famiglia: non era propriamente un nido familiare.
Almeno, non più. Eppure non provavi odio. Come avresti potuto? Ardevi dalla voglia di stare
bene, di stare nel bene. E l’odio non porta in quella direzione. Si, eri donna. Lo sei diventato
prima di tutte le altre, perché la vita ti ha imposto di crescere in fretta. Dio com’è difficile
crescere. Lo è per quanti hanno la fortuna di farlo nei tempi propri, figuriamoci per chi invece
deve bruciare le tappe. Non te l’ho mai detto, ma ti ho sempre ammirata. Non che questo voglia
dire che fossi innamorato di te, intendiamoci. Ma anche se lo fossi stato non te l’avrei mai
confessato: non mi riesce mai di farlo. Ma mi ha sorpreso quel tuo saper essere sempre
entusiasta e felice di tutto. E alla felicità in fin dei conti abbiamo brindato, e in più di
un’occasione.
Oggi sono triste. No, non è tristezza, è inquietudine. Non so cosa mi aspetta, il futuro non mi
affascina, anzi mi intimorisce. Guardo il volto dei passanti: non c'è felicità per le strade. Sarà
questa giornata autunnale, o sarà solo questo freddo. Eppure non ci sono espressioni di serenità.
Gli studenti universitari vivono in ansiosa attesa l'esame che verrà, ma anche questo è vivere.
Giovani lavoratori guardano con preoccupazione alla scadenza del loro contratto: ascolto di
sfuggita i loro discorsi, e apprendo che non hanno prospettive. Questa società è sbagliata, questo
mondo è illogico. E tutto sfugge di mano. E' in questi momenti che capisco quanto avremmo
tutti bisogno di persone come te, perché tu hai sempre saputo trovare una ragione per ridere, e
per non angustiarsi. Strano: per quello che la vita ti ha riservato dovresti essere tu a essere
consolata, e invece sei sempre stata a incoraggiare e infondere buonumore. Perdonami, per un
attimo mi ero perso nelle mie inquietudini. Non è questo il modo di fare, non è così che si sta in
giorni come questi. Ma sono anche le nostre debolezze a renderci umani. E io e te lo siamo.
Stare al mondo è così, in fin dei conti. «Sono viva», amavi ripetere. A te stessa, e a questo
mondo che a me non riesce davvero di capire. Ma forse c'è poco da capire, vero? Già: deve
essere così, deve essere questo il segreto. Andare avanti, sempre e comunque. Un bimbo ride
allegro e gioioso con la sorellina più piccola mentre gioca con la madre, più avanti una coppia si
ferma di colpo per strada per scambiarsi un bacio. Mentre in lontananza, sembra percepirsi il
sole. Cosa diresti lo so: tutto questo è fantastico. Peccato solo questo maledetto tempo.

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

L’universo di Ehr Toh (2010)


A David

Gli araldi contemplavano argonauti uscire dagli abissi del cielo, mentre i pesci alati solcavano
le acque delle volte celesti. Con il capo rivolto verso il basso con rapide piroette gli argonauti si
misero sottosopra per camminare come si conviene ad un perfetto abitante del mondo
sottostante gli oceani. Su quella che tutti chiamavano aniidrosfera i pentacorni galoppavano
liberi per i diametri delle ellissi trigonometriche, oltre i parallelepipedi liquefatti dalla grande
lampada sovrastante la aniidrosfera e sottostante gli oceani antigravitazionali. I piccoli
Xenigrafiti si muovevano con ordine per le intasate sghembe rette parallele traboccanti di
giganti Omicron: entrambe le stirpi vivevano da sempre in armonia nell’universo di Ehr Toh,
l’entità creatrice e vivente dell’asincrosmo. Capace di assumere ogni sembianza possibile, da
quelle più inimmaginabili a quelle più impensabili e improbabili, Ehr Toh fin da sempre
vegliava sul suo mondo, ridiscutendo regole e leggi a seconda delle necessità, per garantire
entropico ordine all’antimateria dell’asincrosmo tutto. Così, ad esempio, ogni qualvolta per
naturali disfunzioni elettrolitiche i neutroni implodevano dando vita a buchi neri, Ehr Toh
provvedeva a realizzare vistose toppe neutrostatiche dove ciò si rendeva indispensabile, per
fermare il risucchio dell’antimateria e mostrare il provvido intervento casual-divino di ripristino
dell’entro-ordine delle cose.

Era da tempo calcolato male che non si manifestava il grande Ehr Toh, e tutti iniziarono a
chiedersi se la grande lampadina della grande lampada stesse esaurendosi e se tutto fosse
destinato all’inevitabile implosione, perché gli aerovolanti che affollavano le cerniere sottosopra
ormai non riuscivano più a uscire dai raggi vasta gamma della grande lampada, incenerendosi o
andandosi a schiantare contro il grande astro illuminante o precipitando sull’aniidrosfera o nei
mari asincrosmici. Nell’universo di Ehr Toh, infatti, tra l’aniidrosfera e gli abissi celesti
transitavano senza sosta gli aerovolanti, ammasso informe di vettori di movimento, concetti,
esseri mitologici e non-esseri di indefinibile natura, tutto ciò – e tutti coloro – in movimento per

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

le anti-galassie. Questa cerniera di movimenti era ormai piombata nel caos primordiale, con
pesanti cadute e ricadute su tutto il mondo. Che attendeva un intervento casual-divino del
grande artefice. Che però non si manifestava. Xenigrafiti e Omicron abbandonarono le sghembe
rette parallele per andare a conferire con i Silitroni, eletti delegati al colloquio diretto con il
creatore e ridisegnatore, emissari in aniidrosfera e mari celesti del supremo Ehr Toh. Due
emissari per ogni tran-cerniera sottosopra: Kilitor di Ter-ham, longevo circadiano della
costellazione di ÞðŊ Centauroֿ³, e Thagar di Gøen-zhan, irrudivoro della galassia di χÿƒ, erano
i due Silitroni per il mondo al di sotto della cerniera, mentre Ahviha di Hal-han, tzicotrika di
Ǿłijkrä, e Zhenide, arxenia di Vældera, le due Silitrone per il regno sopramarino. Argonauti,
pesci alati, manguste cerbere, cefali encefali e cefali paraencefali accorsero in massa presso
Ahviha di Hal-han e Zhenide di Vældera, Xenigrafiti e Omicron andarono in massa da Kilitor di
Ter-ham e Thagar di Gøen-zhan per ottenere che i Silitroni avessero udienza presso il sommo. I
quattro Silitroni invocarono allora il supremo.

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

«Ascoltaci, oh Ehr Toh. I tuoi emissari ti invocano»

«…»

«Ascoltaci, oh Ehr Toh. I tuoi emissari ti invocano, le tue galassie ti reclamano!»

«Chi è che reclama?», risuonò una voce come… Come... Beh, risuonò una voce strana.

«Nessuno reclama. Ti reclamano».

«Ah. E perché?»

«Il mondo sta implodendo. Perché non vi siete manifestato?»

«Stavo dormendo»

«Ecco cos’era quella voce strana», bisbigliarono i Silitroni. «Stava dormendo mentre i suoi regni vanno in
rovina…»

«Orsù, ditemi Siliconi…»

«Silitroni!»

«Silitroni, certo. Beh, che succede?»

«Qualcosa non va sulla cerniera. Gli aerovolanti non trovano la rotta e la grande lampada ne
risente, con i vettori che si inabissano e cadono»

«Ah. Tutto qua? E che volete che sia?»

Improvvisamente la grande lampada iniziò a roteare provocando maremoti sulla volta celeste
ed eruzioni sull’aniidrosfera, dovuta alle placche nella Gola di Ighnor. Poi improvvisamente un
big bang risuono per ogni angolo dell’asincrosmo, e tutto divenne tenebra.

«Per Idron di Idronia! Ho rotto la lampadina. E adesso? Ho finito quelle di ricambio. Ora che
ne trovo un’altra qui muore tutto», esclamò Ehr Toh.

«Non abbandonateci, supremo», supplicarono i Silitroni.

«Non abbiate paura, oh Sifoni, poiché…»

«Silitroni! Voi ci avete creato così e con questi nomi, forse che ve lo siete dimenticato?»

«Ho creato e dimenticato tante di quelle cose che non avete idea. E nemmeno io. Ma bando
alle ciance, ora state a vedere»

L’asincrosmo improvvisamente tornò a brillare di luce ultravioletta.

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

«Supremo, che significa tutto ciò?», chiesero i Silitroni

«Che ho messo un lampada Wood, le lampadine normali erano finite…»

«Ah. Ma non rischiamo di essere investiti da queste onde elettromagnetiche?»

«Onde che?»

«Onde elettromagnetiche, quelle sprigionate dalle radiazioni ultraviolette della grande


lampada»

«Ci sono: creerò campi elettromagnetici da calcio e xenio, e poi campi elettromagnetici
delimitati per praticare lo springher. E poi inventerò circuiti chiusi per le corse delle aerovolanti.
E se ancora non foste contenti, allora mi invento correnti anti-gravitazionali per i corridoi di
cerniera che porteranno via tutte le onde elettromagnetiche. Che ne pensate?»

«Il capo siete voi, Ehr Toh»

«Ditemi, Silicroni…»

«Silitroni!»

«Silitroni. Ditemi, Silitroni… com’è che vi chiamate voi del regno sopramarino?»

«Ahviha di Hal-han e Zhenide di Vældera»

«Lasciamo stare… Ditemi, le vostre acque sono ancora popolate dagli elettrognammi?»

«Si, oh supremo»

«Ebbene, da ora in poi farò in modo che le onde elettromagnetiche della grande lampada non
controllate finiranno in mare per alimentare gli elettrognammi»

«E se crescono e si riproducono troppo?»

«Beh, ne uccidete qualcuno. E se vi va, dopo averli abbattuti potete anche mangiarveli. Non
penserete forse che vi abbia creati solo per parlarmi? Mica che posso fare tutto io»

«Giusto, oh supremo. Ma non avete ancora risolto il problema degli incidente degli
aerovolanti lungo la frontiera»

«Ah no?»

«No. Adesso avete dovuto risolvere il problema per la lampadina che avete rotto…»

«Ah, già. Ebbene, io sciolgo rotte e destinazioni, e ordino che tutti i vettori rispondano alla

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

sola legge del viaggiandesimo»

«E sarebbe, vostra supremità?»

«Beh, semplicemente viaggiano»

«Così? Senza motivo?»

«Voi non capite, miei fidi Si… Miei fidi emissari. Io ho donato loro la libertà assoluta. Adesso
andate e riferite quanto ho fatto e voluto. E dite per tutto l’asincrosmo che oggi inizia una nuova
era».

Tutto fu nuovamente silenzio. Ehr Toh era tornato nella sua dimensione sovradimensionale, a
inseguire chissà quali visioni. I Silitroni, incalzati dalle popolazioni inter-costellate, riferirono
ognuno secondo il proprio ambito di competenza: così Ahviha di Hal-han e Zhenide di Vældera
parlarono alle stirpi di Argonauti, ai pesci alati, alle manguste cerbere ai cefali encefali e
paraencefali e anche agli elettrognammi, visti gli ultimi sviluppi. Questi non la presero bene:
morire ammazzati non fa piacere a nessuno. Kilitor di Ter-ham e Thagar di Gøen-zhan riferirono
a Xenigrafiti e Omicron, e si presero la briga di informare anche i vettorini, quelli cioè che
sfrecciavano sulle aerovolanti lungo la cerniera sottosopra. Non tutti la presero bene. Gli
elettrognammi, come detto non digerirono di dover essere digeriti, e nessuno gradiva la nuova
luce sprigionata dalla nuova lampadina della grande lampada. I Silitroni conferirono
nuovamente con il supremo.

«Ascoltaci, oh Ehr Toh. I tuoi emissari ti invocano»

«…»

«Ascoltaci, oh Ehr Toh. I tuoi emissari ti invocano, le tue galassie ti reclamano!»

«…»

«Niente da fare, non ci ascolta», disse Kilitor di Ter-ham.

«Idea: chiamiamolo», disse improvvisamente Zhenide di Vældera.

«Perché, cosa stavamo facendo?» irruppe Thagar di Gøen-zhan.

«Taci, idiota», intervenne stizzita Ahviha di Hal-han. «Intendeva dire chiamarlo tramite lo
splaphox».

«Non c’è bisogno di insultare nessuno, Ahviha», disse Thagar di Gøen-zhan.

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

«Sei tu che insulti, con il tuo facile sarcasmo spiccatamente maschilista e tipico di voi
aniidrosferiaci», replicò Ahviha di Hal-han.

«Brava. Digliene quattro», irruppe Zhenide di Vældera.

«Noi sessisti e maschilisti? Guardate che siete voi quelle perennemente bagnate…», disse
Kilitor di Ter-ham.

«SPRANGFLUT!», insultarono le due Silitroni.

«Sprangflut a chi?!, bieche sghimbasce neutrofiche.», tuonarono i due Silitroni.

«Come osate? Gente traunivers-oceanica, sono i vostri emissari che vi chiamano», urlarono
Ahviha di Hal-han e Zhenide di Vældera. «Il sommo Ehr Toh vi ha puniti per le nefandezze dei
popoli di sotto, e adesso vuole che li puniamo. Quindi all’attacco!»

Senza rendersene conto, l’universo di Ehr Toh piombò in una violenta guerra senza confine:
dagli abissi sopramarini squadre di idre idrofile idrofobe si catapultarono contro gli Omicron a
cavallo di Schermitron pentacorna, mentre i razzi mantici distruggevano tutto ciò toccavano;
ancora, Srestosx palmate armate di colpellix si scagliarono contro i Xenigrafiti muniti di
micidiali sperzz in grado di disgregare l’antimateria. Gli elettrognammi sputavano onde
elettromagnetiche, mentre dal sottosuolo dell’aniidrosfera Formixks, Blattamante e Tramorx
andarono all’assalto dei cefali encefali e paraencefali. I buchi neri vennero riaperti, e giganti
rosse e nane bianche esplosero e implosero sollevando polveri di morte. Sulla cerniera
sottosopra, intanto, vettori e aerovolanti sfrecciavano via liberi, anche dalla guerra asincrosmica.

«Ma mannaggia Ildioran e Maldorah!», tuonò una voce all’improvviso, ma il frastuono inter-
stellare era tale che nessuno udì.

«KIOOOO!», tuonò improvvisamente Ehr Toh stufo di quella guerra. Tutto si fermò, in
una sospensione di tempo e spazio, stasi di anti-minuti e anti-superfici piane e cubiche. Quindi
prese tutti i Silitroni a sé: «Silitroni, Silitroni», disse il supremo

«Si ricorda come ci chiamiamo», bisbigliò qualcuno.

«Mi ricordo sì! E dunque: non posso assentarmi un attimo che mi scatenate una guerra sotto
mio falso nome?»

«Sono state loro», dissero Kilitor di Ter-ham e Thagar di Gøen-zhan indicando Ahviha di Hal-
han e Zhenide di Vælder.

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

«Luride m*******e!», tuonò Ehr Toh.

«Ma veramente…»

«Silenzio! Guardate che avete fatto. Adesso chi metterà tutto a posto?»

«Dove eravate, o supremo?», domandarono i due Silitroni.

«Ero andato a comprare una nuova lampadina. Quella Wood era solo una soluzione
provvisoria, che credevate?»

«A comprare? Ma non le create voi le lampadine?»

«Noi… chi?!»

«Voi. Voi dei»

«Ma non esiste nessun dio»

«E allora voi?»

«Io sono Ehr Toh, colui che tutto crea e sempre creerà. E adesso toglietevi dalla scatole, mi
avete rotto».

Il supremo lasciò i Silitroni, guardò l’universo in declino fermo nella sua sospensione statica e
fece risuonare la propria voce: EN EN! Un grande e fragoroso big bang spazzò via galassie e
tutto l’asincrosmo fu invaso da polvere di stelle e frantumi di planetoidi. Tutto fu silenzio. Ehr
Toh riprese tutto dove aveva lasciato: con l’universo e le anti-galassie al loro posto. Riplasmò il
tutto.

Gli araldi contemplavano argonauti uscire dagli abissi del cielo, mentre i pesci alati solcavano
le acque delle volte celesti. Con il capo rivolto verso il basso con rapide piroette gli argonauti si
misero sottosopra per camminare come si conviene ad un perfetto abitante del mondo
sottostante gli oceani. Su quella che tutti chiamavano aniidrosfera i pentacorni galoppavano
liberi per i diametri delle ellissi trigonometriche, oltre i parallelepipedi liquefatti dalla grande
lampada sovrastante la aniidrosfera e sottostante gli oceani antigravitazionali. Tra l’aniidrosfera
e gli abissi celesti transitavano senza sosta gli aerovolanti, ammasso informe di vettori di
movimento, concetti, esseri mitologici e non-esseri di indefinibile natura, tutto ciò – e tutti
coloro – in movimento per la anti-galassie. Questo è l’universo di Ehr Toh.

«E vedete di farlo durare. Con quello che m’è costata la nuova lampadina…». E il suo ultimo
comandamento si diffuse per l’intero asincrosmo, e tutto fu caotica calma.

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

Che cosa rende vivi gli uomini* (2010)


Agli amici di sempre

La signorina P. è alla ricerca di una sua dimensione, come ricavarsela però è il dilemma. Prima
fa ragionamenti su "l'uomo giusto" e poi esce con il signor T., poi si domanda perché non riesca
a trovare una persona normale salvo uscire e frequentarsi con uno che sta in analisi. C'è
confusione nella vita (privata) di una che dalla sua storia con S. in poi non ha più trovato la rotta
e fatica a capire quello che vuole. Intanto medita di andarsene da casa e sta dando vita a una
piccola comune: lei e altre due a quanto pare da gennaio coabiteranno in affitto sotto uno stesso
tetto. E sul vivere sotto lo stesso tetto si apre il capitolo D.
Il signor D. vive e convive con la signorina V., sua compagna e “moglie di fatto”. Non è una
novità, poiché anche in passato il signor D. era solito condurre vita di coppia. Anche quando si
trovava insieme alla signorina R. se ne stava intimamente con l'amata, e anche adesso gli eventi
seguono lo stesso corso. Raramente accade di incontrare il signor D. senza la sua dolce metà. E
anche quand'egli è in radio, ella è sempre al suo fianco, orecchie e occhi al computer e
connessione alla chat attivata, pronta a interagire con il proprio caro. E la sera, in special modo
nei giorni freddi delle stagioni piovose e fredde, lui e lei se ne restano all'interno del loro nido
d'amore. Di tanto in tanto può capitare di incontrare il signor D. al caffè Rimirare, là in quel suo
inusuale ma ormai solito ufficio, intento - così dice - a lavorare al suo dottorato piuttosto che
farsi conoscere nell'ateneo, da dove – con buonissima probabilità - uscirà immediatamente al
momento della fine dei suoi tre anni, ormai gli sgoccioli. Anche lui è in stato di confusione e
cerca di mettere ordine nella sua vita (professionale). Quanto alla signorina V., ella ha
un'azienda vitivinicola ma le sue aspirazioni la spingono verso altro. Quindi si adopera per
lasciare l'azienda e sfondare laddove vorrebbe arrivare. Entrambi, comunque, di rado si vedono
in giro. Situazione analoga per il signor F.G.
F.G. e consorte vivono felici il loro amore e la loro storia come due novelli sposini: per
entrambi è innamoramento e luna di miele, dolcezze e felicità. E' un bel vedere, se non si è
diabetici. Il signor F.G e signorina G. ben riassumono la formula della gioia del vivere: due

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

cuori e una capanna, che poi è un appartamentino che si affaccia su un lago degno di fiabe.
Insomma, i due vivono la loro favola, fatta di passioni, musica (egli suona e quindi il week-end
stanno sempre in giro), viaggi (egli suona e quindi il week-end stanno sempre in giro) e anche
lavoro. Lui insegna a studenti statunitensi, lei studia in università statunitense e impartisce
ripetizioni. Anche loro, conducendo vita di coppia non sposata ma come se lo fosse, è assai raro
pescarli singolarmente. Ma soprattutto è assai raro pescarli, poiché in mezzo alla settimana,
lavorando, smaltiscono le loro stanchezze nella capanna d'amore, nel week-end proseguono con
il loro viaggio di nozze. A proposito di nozze, ecco la signorina E.
La signorina E. viaggia sempre più spedita verso l'appellativo "signora": ha acquistato casa
insieme al suo signor P. col quale andranno a convivere ufficialmente per conto proprio e
lontano dalle abitazioni dei rispettivi suoceri. Ella non raramente parla di matrimonio, cerimonie
in chiesa e anche di pargoli. Poi inizia a usare linguaggi incomprensibili tipo: "Si parte da una
condizione di completa saturazione per poi misurare, durante l’evaporazione, la variazione di
suzione. Il limite di tale apparecchiatura è il ridotto valore di suzione investigabile, variabile
tra 0 e 90 kPa. Tale problema è stato risolto durante la sperimentazione spostando i campioni
dall’apparecchiatura suddetta direttamente nella piastra di Richards, la quale consente le
misure a valori di suzione di 1500 kPa". A questo punto il dialogo diventa difficile, ma non è
per questo che capita di vederla di rado: infatti quando la signorina E. è in Italia, è o in
laboratorio o con il futuro marito, quando non è in Italia è o in laboratorio o con il futuro marito,
ma in un altro paese. Per il resto arreda la sua abitazione all'estero e si adopera per il suo nido
d'amore. E di nidi, sempre immobili e sempre amorevoli, se ne intende anche la riccia signorina
F.
La riccia signorina F. ha appena acquistato un appartamento nella ridente cittadina di A., nel
distretto del "fuori Gra", a pochi chilometri e a tanti passi dalla metropoli. Lì, secondo
programmi e calcoli, si trasferirà con l'amato A., compagno di vecchia data e papabile nonché
probabile avveneribile e futuribile marito. Nel mentre ella lavora come guida, sta al servizio
civile e con sempre crescente fatica per sempre più carenti voglie prosegue con l'università.
Tanta fatica, molte incertezze, poche retribuzioni: anche per la riccia signorina F. le cose non
vanno proprio nel migliore delle cose, ma anche lei ha una capanna e un cuore battente per un
altro cuore battente. Anche qui, insomma, i punti fermi rispondono a quella ricetta del vivere già
esposta. Una ricetta valida forse per molti, un po' meno per Mr.M.
Mr.M, da sempre individuo imperscrutabile, è sempre più enigmatico che mai. Non fosse altro

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

che dopo aver terminato brillantemente i propri studi non abbia pianificato neanche cinque
minuti del proprio avvenire. Passato da erasmus a progetti Leonardo, da borse di studio a borse
overseas, da laurea triennale nella capitale e laurea specialistica nel freddo nord, oggi Mr.M
resta forse un'incognita anche per sé stesso. Tra idee di rivoluzioni popolari terzomondiste e
voglie di evasione da un mondo che gli va stretto, egli continua a non dare punti di riferimento:
a volte torna, si trattiene per pochi giorni, quindi riparte non si sa bene per dove non si sa bene
perché. Dopo aver provato a lavorare in un call center per capire che quello non è il mestiere
che fa per lui, e dopo aver svolto lavori saltuari (volantinaggio per un kebbabbaro, raccolta
olive) che fruttano poco, Mr.M ha alla fine tentato la carta accademica puntando sull'ipotesi di
dottorato nella città universitaria più antica d'Italia. Ma in attesa di risposte, anch'egli resta in
balia della vita. Di più di lui non si sa, perché imperscrutabile, sfuggente e confuso: sappiamo
solo che vive in una piccola comune allargata, un appartamento abitato da 12 persone (Mr.M
incluso) con diversi orari ed eguali fatiche. E a proposito di fatica, eccoci a Mademoiselle C.
Mademoiselle C., o Miss C., così si chiama per via del linguaggio da lei usato dopo essere
finita in una grande multinazionale della tecnologia, dove si parla in tutte le lingue fuorché
l'italiano. Per cui, a forza di organizzare e presiedere "conference call", lavorare per il "customer
care", conferire con "chief executive officers", adoperarsi per migliorare il "know how", e a
furia di "brain storming", la signorina C. ha perduto il dono della propria parola per diventare,
suo malgrado, poliglotta. Da qui Mademoiselle o Miss C. Brava persona, onesta lavoratrice, ella
resta ancorata a forme contrattuali che la vogliono precaria, sottopagata e in bilico tra la città
capitale e eventuale trasferimento altrove. Perché risponde di scelte altrui, cioè di multinazionali
tecnologiche. E chi è Mademoiselle C. per competere con una corporation? Suo malgrado,
nessuno. Perciò spera. Spera che le cose si risolvano per il meglio. E sogna: perché non costa
nulla, e perché i sogni - almeno così sosteneva qualcuno - sono desideri di felicità. Che poi,
tradotto, sogni di felicità indicano anche un ardente desiderio d’amore oltre che a personali
gioie. Che Mademoiselle C. insegue e che, a dirla tutta, meriterebbe anche.

Chi si merita ciò che ha è il dottor M. Dottor M è uno che ha condotto vita di ristrettezze,
rinunce e sacrifici: quando tutti uscivano ogni sera e si divertivano, lui era o a studiare o a
studiare. Una laurea nei tempi, una vita affettiva ricca di soddisfazione, una borsa di studio negli
Stati Uniti, dove ancora si trova. Di lui non si sa praticamente più nulla, tranne che è uno che ce
la sta facendo. Una felice storia. Come quella dell’ormai signora O.

La signora O. e suo marito, il signor F., vivono insieme la loro storia matrimoniale. Tutto

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

procede come un semplice fidanzamento, nulla è mutato dal giorno dal fatidico “sì”, giurano.
Entrambi lavorano, condividono la stessa passione per la fotografia e le difficoltà della vita.
Della vita in sé, non della vita coniugale. Che vuol dire? Semplice: complici stipendi medi
nazionali medio-bassi e non adeguati all’inflazione, un’inflazione galoppante e il vivere in un
paese di approfittatori per di più in crisi, l'affitto li sta schiacciando pian piano e perciò i coniugi
O. e F. hanno in mente di comprarsi una casa, ma la pigrizia impera e non si arriva a un dunque.
Uno dei punti dolenti è che il loro denaro ammonta a una cifra non sufficiente per rispondere ai
prezzi praticati nella metropoli, il che implica cercare – e trasferirsi - nel distretto del "fuori
Gra", cosa che alla signora O. proprio non va. Sono diverse, a ben vedere, le cose che non vanno
a genio alla signora O.: un lavoro che le piace ma che la stressa – e questo stress la indispone –
le difficoltà burocratiche, le difficoltà economiche, i sacrifici che impone la vita. Di fatto la
signora O. ha un solo problema: fatica ad accettare ciò che impone passare alla vita adulta. Se le
chiedete un giudizio della sua vita, ella vi dirà che “sono un po’ demotivata”. Ma se le chiedete
se le manca qualcosa o se si sente insoddisfatta, la signora O. vi dirà che “la risposta è no: sono
felice di vivere con mio marito questa mia vita”.

Cosa significa una simile risposta è facile comprenderlo: qualunque cosa succeda, l’unione tra
due persone permetterà di superare ostacoli e avversità, rendendo la vita degna di essere gustata.
E questo vale non solo per la signora O., ma anche per tutti gli altri. Se non ci credete, chiedete
a loro. A loro, e a voi lettori, dunque, i miei auguri. E i miei omaggi.

* Che cosa rende vivi gli uomini è un racconto di Lev Tolstoj pubblicato per la prima volta nel novembre del 1881.
Le conclusioni del racconto del celebre scrittore russo sono analoghe a quelle qui contenute. Il titolo del presente
scritto intende quindi essere anche un omaggio a Tolstoj, tra gli scrittore e gli autori più apprezzati da chi qui
scrive.

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EMILIANO BIAGGIO I miei omaggi – Scritti e racconti con dedica

Indice

Presentazione……………………………………………………………………..............pag. 2

La musa senza volto……………………………………………………………………....pag. 4

Noccioline……………………………………………………………………...................pag. 6

Dubbio……………………………………………………………………........................pag. 8

I leoni……………………………………………………………………..........................pag. 9

Musica…………………………………………………………………….........................pag. 11

Nonsaprei……………………………………………………………………....................pag. 21

La principessa Mar……………………………………………………………………......pag. 24

Porto di mare……………………………………………………………………...............pag. 37

Breve racconto grottesco di un incomprensibile mondo reale……………………............pag. 45

Un gatto…………………………………………………………………….......................pag. 48

Lui, le sue lei e tutto il resto………………………………………………........................pag. 51

Ricordi di un giorno d’autunno…………………………………………………………...pag. 63

L'universo di Ehr Toh……………………………………………………………………..pag. 65

Che cosa rende vivi gli uomini…………………………………………………………....pag. 72

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