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ILSA
Insegnanti Italiano Lingua Seconda Associati
COMUNE DI FIRENZE
Assessorato alla Pubblica Istruzione
a cura di
Elisabetta Jafrancesco
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www.mondadorieducation.it
www.pianetascuola.it/italianoperstranieri
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Questo volume è stampato da: visto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni diver-
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Novembre 2008 Milano 20122, e-mail segreteria@aidro.org e sito web www.aidro.org.
Indice
PRESENTAZIONE
di Elisabetta Jafrancesco, ILSA Firenze, Università di Firenze 5
Introduzione
di Massimo Maggini, Presidente ILSA, Università per Stranieri di Siena 11
Parte I 19
Cooperative Learning come modalità di inclusione 21
di Mario Comoglio, Università Pontificia Salesiana di Roma
Neuropsicologia dell’apprendimento della seconda lingua 31
di Cosimo Urgesi, Università di Udine
Parte II 55
La Classe ad Abilità Differenziate multietnica: teorie 57
di riferimento e metodologie operative
di Fabio Caon, Università «Ca’ Foscari» di Venezia
Tecniche didattiche e strategie operative per facilitare 81
l’apprendimento in Classi ad Abilità Differenziate (CAD)
di Marisa Pedrana, Università «Ca’ Foscari» di Venezia
Percorsi didattici di apprendimento delle lingue in e-learning 105
e blended learning oggi: community, apprendimento
cooperativo e informal learning
di Silvia Giugni, Società Dante Alighieri di Roma
Badi a come parli? Il teacher talk nella classe «ad abilità 113
differenziate»
di Roberta Grassi, Università di Bergamo
Pensiero narrativo, metodo biografico e sviluppo dei processi 135
cognitivi connessi all’apprendimento linguistico
di Fiorenza Quercioli, ILSA Firenze, Stanford University-Florence
Program
Insegnare e apprendere la grammatica di una lingua seconda 155
di Agostino Roncallo, Centro di Ricerche sul Linguaggio e
l’Educazione di Verbania
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Presentazione
1 L’associazione culturale ILSA (Insegnanti Italiano Lingua Seconda Associati), nata nel 1990, riu-
nisce docenti di Italiano L2 che operano, sia in Italia sia all’estero, in Istituzioni pubbliche e pri-
vate. L’ILSA organizza ogni anno un Convegno nazionale su tematiche inerenti alla Glotto-
didattica e cura l’uscita quadrimestrale della rivista «ILSA-Italiano a stranieri». L’ILSA è impegnata
anche nella formazione/aggiornamento di insegnanti di italiano in classi monolingue e plurilin-
gue ed elabora proposte che mirano a facilitare l’integrazione linguistica e culturale di appren-
denti di italiano L2, presenti in Italia e nella scuola italiana. Per ulteriori informazioni sull’ILSA e
sulle sue attività, cfr. il sito Internet dell’Associazione (associazioni.comune.fi.it/ilsa).
2 Per una analisi dei cambiamenti verificatisi nel settore della ricerca sull’apprendimento e del-
l’educazione scolastica, cfr., in particolare, Comoglio 2001.
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Presentazione
3 A questo proposito, Comoglio (2001: 30-31), definendo le finalità educative della scuola in rela-
zione alle esigenze della società moderna, afferma: «La finalità educativa che sembra oggi impro-
rogabile per la scuola è quella di promuovere, attraverso un profondo rinnovamento delle pra-
tiche d’insegnamento, lo sviluppo nelle giovani generazioni di strumenti mentali che consenta-
no loro di affrontare con convinzione, responsabilità e originalità le sfide sempre più impegna-
tive che verranno nei prossimi decenni dall’incessante evoluzione delle condizioni di vita e di
lavoro».
4 Cfr. la «Teoria delle Intelligenze Multiple» elaborata da Gardner (1983/1988).
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Presentazione
Passando alla presentazione dei contributi dei vari studiosi, si segnala che
il volume, rispecchiando la scansione dei lavori del Convegno, è articolato in
due Parti: la prima dedicata agli interventi più a carattere teorico, svoltisi in
plenaria, la seconda dedicata alle attività condotte nei laboratori.
Per quanto riguarda la prima Parte, il lavoro di Comoglio, facendo rife-
rimento al concetto di «didattica inclusiva», presenta il Cooperative Learning
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Presentazione
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Presentazione
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Presentazione
Elisabetta Jafrancesco
Riferimenti bibliografici
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Introduzione
1 De Mauro (1976) in un suo celebre saggio ci offre una disamina puntuale del plurilinguismo italiano.
2 Nel Dossier Caritas del 2007 (Caritas/Migrantes 2007) vengono censite in Italia 150 lingue immi-
grate.
3 Nel terzo paragrafo del primo capitolo del documento europeo viene affrontato il concetto di
«plurilinguismo».
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Introduzione
4 Gardner (1987) descrive nel suo saggio le sei intelligenze presenti in modalità e distribuzione
differenziate nelle diverse culture.
5 Attualmente in campo internazionale i maggiori gruppi di ricerca sul Cooperative Learning sono
quelli di Johnson e Johnson alla University of Minnesota di Minneapolis, quello di Slavin alla
Johns Hopkins University di Baltimora e quello di Sharan alla Tel Aviv University di Tel Aviv.
6 In Italia la ricerca e la sperimentazione nelle scuole del Cooperative Learning è relativamente
recente: vi sono diverse esperienze pilota in numerose scuole, poche sono però le pubblicazio-
ni che permettano la messa in comune delle esperienze didattiche e l’apprendimento coopera-
tivo tra insegnanti. Comoglio è in ambito italiano il maggiore esperto di apprendimento coope-
rativo. Cfr. Comoglio 2000; Comoglio, Cardoso 1996.
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Introduzione
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Introduzione
to sul computer 10. Silvia Giugni, in rappresentanza della Società Dante Alighieri,
nel laboratorio pomeridiano affronterà proprio questo tema e ci informerà
anche su un progetto europeo denominato «Babelweb» di costruzione di un sito
Web, che presenta attività didattiche improntate sull’approccio collaborativo.
Il ruolo di facilitatore dell’apprendimento linguistico richiesto dall’approccio
cooperativo all’insegnante rimanda a un’altra questione, troppo spesso trascu-
rata nella didattica delle lingue moderne, ma che costituisce sicuramente una
delle possibili risposte al problema della gestione della classe ad abilità diffe-
renziate, il tema del parlato dell’insegnante, il teacher talk, cioè la questione di
come si debba sviluppare l’interazione didattica di classe per favorire la com-
prensione degli apprendenti.
Roberta Grassi, autrice di un interessante saggio su questo tema 11 e condut-
trice di uno dei cinque laboratori pomeridiani, ci ricorda come l’interazione
didattica di classe abbia una natura asimmetrica perché vede l’insegnante in
una posizione dominante. Se dall’altro polo dell’interazione troviamo l’appren-
dente straniero alle prese con la lingua dello studio, con la lingua delle disci-
pline scolastiche – i problemi maggiori per lo studente non italofono consisto-
no proprio nel passaggio dalla lingua delle interazioni interpersonali quotidia-
ne alla lingua dello studio – la problematicità linguistica non consiste solo in
relazione al codice della microlingua disciplinare, ma soprattutto nelle cosid-
dette «abilità di studio», queste sì veramente differenziate e oggetto di un dove-
roso intervento mirato da parte dell’insegnante.
Diventa allora necessario per l’insegnante adattare il proprio discorso peda-
gogico-didattico alle competenze possedute dal proprio allievo, competenze
non solo strettamente linguistiche, ma anche di tipo conversazionale. Non sem-
pre questo avviene nella classe plurilingue, è importante quindi discutere e
approfondire il tema di quali strategie e tattiche di adattamento del proprio
discorso pedagogico-didattico deve adottare l’insegnante di tutte le discipline,
non solo di quelle umanistiche, al fine di renderlo comprensibile.
Un’altra delle possibili risposte al problema della gestione della classe ad
abilità differenziate riguarda i modelli operativi di azione didattica da adottare
nei confronti di classi miste di italofoni e non italofoni. Fabio Caon (a cura di,
2006) in un suo saggio introduce il concetto di «Unità Differenziata Stratificata» 12,
in relazione proprio alla classe ad abilità differenziate. Uno dei laboratori
10 Una interessante panoramica sulle idee, i metodi e gli strumenti dell’apprendimento collabo-
rativo basato sul computer, cfr. Kaye 1994.
11 Grassi (2007) ha studiato le modalità di interazione tra insegnanti e allievi non solo italofoni
nelle classi delle scuole primarie e secondarie della provincia di Bergamo.
12 Caon (a cura di, 2006) presenta come modello operativo l’unità stratificata e differenziata che
prevede la differenziazione del compito con tecniche progettate per diversi stili di apprendimen-
to e la stratificazione del compito con tecniche per livelli di difficoltà differenti.
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Introduzione
13 Il metodo propugnato da Roncallo si fonda sull’idea che la descrizione delle norme morfosin-
tattiche di una lingua non sia sufficiente per comprenderla, né per imparare a usarla. Imparare
una grammatica significa scoprire le metafore che si nascondono dietro le parole e le frasi che
usiamo nella quotidianità, significa trovare le immagini che meglio esemplificano il ruolo svolto
dagli elementi linguistici.
14 Il termine neurolinguistique viene utilizzato per la prima volta da Hécaen in un articolo del
1968. Hécaen la descrive come una sottodisciplina della neuropsicologia, concentrata sullo stu-
dio dei deficit verbali, i cui obiettivi sono la descrizione e classificazione dei deficit sulla base
delle loro cause (accertate o ipotizzate) e l’identificazione e correlazione tra tali deficit e le aree
lesionate. La neurolinguistica nasce come disciplina indipendente nel 1985, con il primo nume-
ro di «Journal of Neurolinguistics».
15 Cfr. Danesi 1986, 1988, 1994, 1998.
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Introduzione
– quindi più efficace nelle operazioni verbali – e l’emisfero destro invece carat-
terizzato da un’elaborazione dell’informazione di tipo globale, più efficace
nelle operazioni spaziali. Da questo assunto deriva la necessità della coopera-
zione emisferica nella produzione del linguaggio. Alla cooperazione dei due
emisferi è associato il concetto di «bimodalità», inteso come processo neurofun-
zionale coinvolgente l’azione complementare dei due emisferi cerebrali e cioè
come dialogo costante tra i due emisferi. La corretta direzionalità emisferica
nell’insegnamento linguistico, secondo Danesi, richiederebbe la necessità di
procedere dall’emisfero destro, quindi dalle operazioni di tipo globale, per poi
giungere a sollecitare l’emisfero sinistro, mediante compiti di natura analitica.
È lecito domandarci quale fondamento scientifico, neurologico abbiano
queste asserzioni. Gli studi neurologici possono confermarci che la sintassi
abbia sede nell’emisfero sinistro, mentre l’aspetto metaforico del linguaggio, la
prosodia, il contenuto emozionale abbiano sede nell’emisfero destro? Il concet-
to di «plasticità cerebrale» relativo al cervello del bambino 16, la nozione di
«periodo critico» 17, alla luce degli studi attuali neurologici sono ancora validi?
A questi interrogativi cercherà di dare una risposta, anche se parziale,
Cosimo Urgesi che nella sua relazione affronterà alcuni aspetti neuropsicologi-
ci dell’acquisizione di una seconda lingua e l’aspetto interessante è che ce ne
parli non dal versante glottodidattico, come ha fatto Danesi nei suoi studi, ma
dal versante delle neuroscienze.
Infine da un punto di vista esclusivamente glottodidattico dobbiamo doman-
darci come possiamo favorire i diversi stili di apprendimento – analitico e sin-
tetico – e se l’uso del testo linguistico lineare – libri di testo scolastici coadiu-
vati dalla classica lezione frontale – si rivolga solo a un emisfero o meglio a
determinate sue aree, mentre l’utilizzo di materiali multimediali, l’uso della tele-
matica nel campo educativo non sollecitino maggiormente l’emisfero destro e
pertanto non sia auspicabile una combinazione dei materiali “sequenziali” e di
quelli “reticolari”.
Massimo Maggini
16 In realtà gli studi contemporanei neuroscientifici hanno rimesso in discussione il fatto che la
plasticità cerebrale sia associata unicamente al cervello del bambino. La plasticità cerebrale è una
proprietà che perdura per tutta la vita; tuttavia, l’impianto generale del cervello si modella soprat-
tutto nel primo anno, per conseguire lo sviluppo maggiore negli anni successivi, fino ai vent’an-
ni, e declinare gradualmente, come capacità di rimodellamento, con l’avanzare dell’età.
17 È stato Lenneberg (1982) il maggiore sostenitore del periodo critico, cioè che l’acquisizione
primaria del linguaggio avvenga in un determinato stadio di sviluppo che si esaurisce rapida-
mente all’epoca della pubertà. Tale ipotesi è stata successivamente ridimensionata dagli studi
sulla natura biologica del linguaggio.
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Introduzione
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PARTE I
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1. Introduzione
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PARTE I
2. Il gruppo cooperativo
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PARTE I
tare un’abilità sociale alla volta, per non confondere gli studenti e permettere
loro di comprenderla a fondo. Una volta accertata la comprensione di una
determinata abilità sociale, l’insegnante organizza e dispone prove in cui appli-
carla in modo che gli studenti possano esercitarsi, per un determinato periodo
di tempo, su quanto appreso. Si assicura che gli studenti perseverino nell’eser-
cizio dell’abilità acquisita fino a possederla stabilmente. Concretizza le diverse
abilità sociali in numerose esperienze di apprendimento che dimostrino quan-
to sia importante comportarsi in modo efficace in determinate situazioni, le fa
applicare ed esercitare, e infine fa continuamente riferimento a esse, sia cor-
reggendo chi ancora non le applica, sia gratificando chi, al contrario, dimostra
di utilizzarle correttamente nelle diverse situazioni.
Nei gruppi non-cooperativi, invece, si sviluppano relazioni sociali negative
(silenzio, insincerità, mancanza di empatia, disprezzo per l’altro, tensione, con-
flitto, formalismo, indifferenza ecc.) perché l’altro è o un “nemico” da vincere
(interdipendenza negativa) o una persona con cui non ho nulla da condivide-
re (assenza di interdipendenza).
Nei gruppi cooperativi la responsabilità di gruppo è condivisa. Nelle classi
cooperative i membri del gruppo, durante il corso delle attività, imparano a
essere autonomi e responsabili senza ricorrere continuamente all’aiuto dell’in-
segnante. Gli studenti imparano a cooperare, ad aiutarsi a vicenda e a sostene-
re coloro che, nel lavoro o nell’apprendimento, si trovano in difficoltà. Il grup-
po affronta i compiti assegnati con la convinzione che ogni membro può con-
tare sull’aiuto e il sostegno degli altri. Ogni membro del gruppo ha due tipi di
responsabilità: individuale e di gruppo. La responsabilità individuale esiste
quando la prestazione di un individuo è accertabile e valutabile; i risultati per-
sonali sono condivisi con il gruppo e certificati con standard di prestazione.
La responsabilità verso il gruppo è connessa a una prestazione di gruppo. I
risultati e la valutazione conseguiti sono riconosciuti e celebrati in base agli
sforzi di tutti e di ciascuno e gli errori sono rimediati grazie alla responsabilità
di ciascuno verso il gruppo e del gruppo verso ciascuno.
La condivisione della responsabilità sviluppa una responsabilità individuale
verso il gruppo e gli studenti comprendono che, se trascurano il loro lavoro,
danneggiano il risultato del lavoro di gruppo. Ogni membro, assumendosi la
responsabilità di contribuire con i propri sforzi al raggiungimento del compito
del gruppo, sarà stimolato ad aiutare i propri compagni a fare la stessa cosa.
Tutti gli studenti potranno sentire la responsabilità di contribuire con i propri
sforzi, al raggiungimento degli obiettivi del gruppo.
Nei gruppi cooperativi, sono previste sia valutazioni di gruppo sia valuta-
zioni individuali. Questa è una naturale conseguenza della interdipendenza
positiva di scopo. La volontà condivisa di conseguire un obiettivo spinge i
membri del gruppo a valutare continuamente, ciò che è stato fatto e che cosa
fare per fare meglio in futuro. Nel Cooperative Learning si valutano aspetti
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PARTE I
sanno come collaborare e lavorare insieme nei gruppi. Per garantire il succes-
so, l’insegnante dovrebbe dedicare un tempo sufficiente, per insegnare le abi-
lità sociali e le procedure secondo le quali il gruppo dovrebbe lavorare.
Durante il lavoro di gruppo, le competenze dell’insegnante, sono due: il mo-
nitoraggio e l’intervento. Il monitoraggio è un’osservazione attenta dello svolgi-
mento del lavoro dei gruppi per verificare il progresso degli studenti e l’uso
appropriato delle abilità sociali e di piccolo gruppo. Può essere svolto in modo
formale (con l’aiuto di una scheda d’osservazione) o informale (la descrizione
informale dei comportamenti e degli atteggiamenti degli studenti). Per una
buona esecuzione del monitoraggio si richiede che l’insegnante:
a) prepari l’osservazione dei gruppi decidendo chi saranno gli osservatori (inse-
gnante o studenti), scelga quali forme di osservazione usare e, eventualmen-
te, istruisca gli osservatori;
b) osservi per verificare la qualità degli sforzi cooperativi nei gruppi;
c) intervenga quando ciò è necessario per migliorare il lavoro del gruppo;
d) richiami gli studenti a verificare la qualità della propria partecipazione nei
gruppi per incoraggiare l’auto-monitoraggio.
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tempo e tranquillità per una buona e seria revisione dei processi di gruppo è un
importante sforzo metacognitivo per rendersi conto degli sbagli, degli ostacoli,
delle procedure usate e del risultato raggiunto come gruppo.
1. gli studenti più capaci ottengono risultati migliori o stazionari, ma non peg-
giori dei risultati conseguiti da soli;
2. gli studenti di basso rendimento migliorano le loro prestazioni;
3. si constata un incremento dell’impegno nell’apprendimento e del coinvolgi-
mento nei rapporti interpersonali.
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PARTE I
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Neuropsicologia dell’apprendimento
della seconda lingua
di Cosimo Urgesi
Università degli Studi di Udine
IRCCS «Eugenio Medea», Polo Friuli Venezia Giulia
1. Introduzione
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PARTE I
Nel presente contributo saranno affrontati alcuni temi fondamentali dello stu-
dio neuropsicologico delle basi neurali dei processi di acquisizione della seconda
lingua. In primo luogo saranno descritte le caratteristiche cliniche delle afasie, vale
a dire dei disturbi del linguaggio acquisiti in seguito a danno cerebrale, in adulti
e bambini bilingue. Si analizzeranno poi i possibili pattern di recupero dalle afa-
sie bilingue, sottolineando come le due lingue conosciute dal paziente possano
essere recuperate nello stesso modo («recupero parallelo») oppure in modi e tem-
pi asimmetrici («recupero non parallelo»). Saranno presentate quindi le ipotesi che
sono state formulate per spiegare tali modalità di recupero, sottolineando l’impor-
tanza non solo dell’età di acquisizione, ma anche della modalità di acquisizione
di una lingua nel determinarne il tipo di rappresentazione neurale. Saranno pre-
sentate le più recenti evidenze sulla rappresentazione neurale del bilinguismo
ottenute mediante l’uso delle neuro-immagini funzionali. Il livello dei contenuti
sarà di tipo introduttivo, mentre si rimanda ad alcune trattazioni più ampie sull’ar-
gomento per un approfondimento. In particolare si fa riferimento ai testi di
Fabbro, Il cervello bilingue. Neurolinguistica e poliglossia (Fabbro 1996) e Neuro-
pedagogia delle lingue. Come insegnare le lingue ai bambini (Fabbro 2004), pub-
blicati dalla casa editrice Astrolabio, e al testo Neuropsicologia del Linguaggio di
Aglioti e Fabbro (Aglioti, Fabbro 2006), pubblicato dalla casa editrice Il Mulino.
2. Afasia bilingue
Diversi studi clinici hanno mostrato che gli afasici bilingue non necessariamen-
te manifestano lo stesso tipo di disturbo del linguaggio e la stessa gravità di distur-
bo nelle due lingue da essi conosciute (Fabbro 1999, 2001a). Le caratteristiche cli-
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niche degli afasici bilingue possono variare notevolmente anche a seconda della fa-
se temporale dopo l’evento acuto (p. es. ictus). Ci sono tre fasi da prendere in con-
siderazione: 1. la fase acuta, che dura in genere per un mese dopo l’evento acuto;
2. la fase della lesione, che dura per diverse settimane e probabilmente fino a 4-5
mesi dall’evento acuto; 3. la fase cronica, che dura per tutta la vita del paziente.
Durante la fase acuta si verifica una diminuzione del danno in aree connesse
con l’area lesa, si verifica cioè la cosiddetta regressione della diaschisi. In questo
periodo i disturbi del linguaggio sono di tipo dinamico, in quanto possono evol-
versi o regredire a seconda della regressione della diaschisi. Sono stati descritti,
per esempio, casi di mutismo temporaneo con comprensione preservata in en-
trambe le lingue, mostrando un pattern parallelo di deficit. D’altra parte, altri pa-
zienti mostravano gravi difficoltà nel recupero delle parole in una lingua con con-
temporanea fluenza nell’altra lingua e buone abilità di comprensione linguistica
in entrambe; poiché la lingua deficitaria può cambiare nello stesso paziente, que-
sto pattern è stato denominato «antagonismo alternante». Infine, sono stati descrit-
ti casi di «afasia selettiva», in cui veniva persa la lingua acquisita durante l’infanzia,
mentre era preservata la lingua appresa a scuola.
Nella fase della lesione, i disturbi del linguaggio sono più specificatamente
correlati alla funzionalità dell’area colpita (cfr. figura 1), colpendo principalmen-
te la comprensione del linguaggio («afasia fluente» o «afasia di Wernicke»), la pro-
duzione del linguaggio («afasia non fluente» o «afasia di Broca») o entrambe («afa-
sia globale»). Il tipo di disturbi che il paziente presenta nelle due lingue cono-
sciute è caratteristico della stessa sindrome afasica, anche se la gravità dei distur-
bi può essere diversa nelle due lingue (Fabbro, Paradis 1995).
Figura 1. Le principali strutture corticali dell’emisfero sinistro. La figura mostra la visione laterale dell’emi-
sfero sinistro del cervello standard in cui sono evidenziate le aree perisilviane coinvolte nell’elaborazione
linguistica e le principali strutture neurali cui si fa riferimento nel testo.
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Sono stati proposti diversi fattori per spiegare il tipo di recupero dall’afasia
bilingue. Pitres (1895; in Paradis 1983) è stato il primo a far notare che la dis-
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sociazione tra le lingue che venivano colpite da disturbi afasici in pazienti bilin-
gue colpiti da lesioni cerebrali non era un fenomeno eccezionale. Pitres de-
scrisse sette casi di pazienti che avevano mostrato un recupero non parallelo
delle lingue conosciute. Sulla base della frequenza di queste dissociazioni,
Pitres avanzò l’ipotesi che ci fosse una tendenza a recuperare con più facilità
la lingua che era più familiare al paziente prima della lesione. Tale ipotesi è
stata chiamata in seguito la «Legge di Pitres». Nel proporre la sua ipotesi, Pitres
faceva riferimento a un lavoro di Ribot (1882) in cui si affermava che in casi di
disturbi della memoria la regola generale voleva che la lingua appresa più tar-
divamente fosse più sensibile a presentare disturbi rispetto a quella appresa più
precocemente. Questa ipotesi è conosciuta come la «Legge di Ribot». Nel suo
lavoro Pitres sostenne che il recupero di una delle lingue poteva avvenire solo
se la lesione non aveva colpito i centri neurali del linguaggio, ma li aveva tem-
poraneamente inibiti a causa di quella che lui definiva «inerzia patologica».
Secondo Pitres, il paziente generalmente recupera la lingua più familiare per-
ché le strutture neurali a essa dedicati hanno una più forte associazione fun-
zionale. Se il paziente mostra i sintomi dell’afasia a causa dell’inerzia funziona-
le delle aree del linguaggio, è più probabile che tali fenomeni patologici pos-
sano colpire maggiormente le lingue alla cui rappresentazione sono deputate
strutture neurali la cui associazione è meno forte.
Diversi studiosi hanno suggerito che quando una lingua non è disponibile,
non è perché le sue basi neurali sono state distrutte, ma perché sono state ini-
bite (Fabbro 1999). Tale indebolimento può essere spiegato in termini di
aumento dell’inibizione su queste strutture, aumento della soglia di attivazione
o uno sbilanciamento nella allocazione delle risorse cognitive alle rappresenta-
zioni delle varie lingue. Ciò nonostante, in molti casi le dissociazioni tra il recu-
pero delle varie lingue nella fase intermedia o cronica non possono essere
ascritte solo a una riduzione del funzionamento, ma anche alla distruzione di
strutture corticali o sottocorticali (Fabbro 1999, 2001a). Infatti, fenomeni dina-
mici di recupero e alternanza nel recupero delle lingue non sono stati descrit-
ti nella fase cronica. Ciò suggerirebbe che dopo uno o due anni dall’evento
acuto, il pattern di recupero tende a rimanere stabile come conseguenza di
fenomeni patologici in parte dovuti a deficit di funzionamento e in parte dovu-
ti alla perdita del tessuto neurale che era deputato alla rappresentazione delle
funzioni linguistiche.
Negli anni successivi diversi autori hanno cercato di trovare verifiche alla Leg-
ge di Pitres (recupero della lingua più familiare) o alla Legge di Ribot (recupero
della lingua appresa più precocemente). Pur tuttavia né la lingua madre né la lin-
gua più familiare al paziente prima della lesione, né la lingua più utile nel conte-
sto sociale del paziente o maggiormente connotata affettivamente sembra essere
quella che necessariamente recupera prima o meglio. Né sembra che abbia una
influenza rilevante il fatto che le lingue siano state acquisite nello stesso contesto
o meno o in diversi periodi dello sviluppo (Paradis 2004). Inoltre, né il tipo di di-
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PARTE I
Uno dei modelli più forti che può spiegare il diverso tipo di rappresentazio-
ne delle lingue conosciute dal paziente è quello che fa riferimento ai diversi
sistemi di memoria utilizzati nell’apprendimento e nella rappresentazione di
lingue apprese in modi e tempi diversi. Tale ipotesi è stata formulata in modo
quasi parallelo dai ricercatori Paradis (1994) e Ullman (2001).
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esseri umani acquisiscono la prima lingua con modalità implicite. Un altro modo
per imparare le lingue consiste nell’apprendimento consapevole di regole gram-
maticali; questa seconda forma di apprendimento delle lingue si basa sulla
memoria esplicita. A questa distinzione tra strategie di apprendimento di una lin-
gua e sistemi di memoria coinvolti si affianca una distinzione tra le rappresenta-
zioni neurali di lingue apprese in modo diverso. Quando L2 è acquisita in modo
formale e scolastico tende ad avere una rappresentazione più diffusa a livello
del sistema di memoria esplicita. Quando L2 è acquisita in modo informale,
come nel caso di L1, la rappresentazione degli aspetti fonologici e morfosintat-
tici tende a coinvolgere anche strutture sottocorticali.
Sono stati descritti alcuni casi di pazienti con un recupero inusuale di una
delle lingue che conoscevano prima della lesione. La loro peculiarità sta nel
fatto che questi pazienti non usavano la lingua recuperata per scopi comunica-
tivi prima della lesione, come, per esempio, nel caso della conoscenza delle lin-
gue morte, greco o latino. Per esempio, Gelb (1937, in Paradis 1983) ha descrit-
to il caso di un professore di lingue classiche che, diventato afasico in seguito
a lesione dell’emisfero sinistro, era incapace di usare la sua lingua madre, ma
poteva ancora esprimersi in latino. Sulla base di questa osservazione, Gelb con-
cluse che l’afasia colpisce di più la lingua più automatizzata, mentre le lingue
straniere o le lingue morte sono relativamente risparmiate perché richiedono
uno sforzo conscio e l’uso di rappresentazioni della memoria esplicita.
I disturbi afasici, però, possono presentarsi non solo in seguito a lesioni che
coinvolgono la corteccia dell’emisfero sinistro, ma anche in seguito a lesioni
che coinvolgono le strutture sottocorticali di sinistra, come il talamo e i gangli
della base. È rilevante ricordare un caso descritto da Aglioti e Fabbro, che
mostrava un caso peculiare di recupero della seconda lingua (Aglioti, Fabbro
1993; Aglioti et al. 1996). La particolarità di questo caso clinico è che la pazien-
te, E. M., non riusciva a credere di poter parlare la sua seconda lingua, l’italia-
no, mentre aveva perso la capacità di esprimersi nella sua prima lingua, il vero-
nese. La prima lingua di E. M., infatti, era il veronese, lingua che usava quasi
esclusivamente nella sua vita quotidiana. E. M. aveva un basso livello di scola-
rizzazione, avendo frequentato i primi tre anni della scuola elementare, dove
aveva imparato a leggere e a scrivere in italiano. Dai resoconti del marito si
dedusse che la donna usava l’italiano solo due o tre volte l’anno, quando il
marito la portava con sé per sbrigare alcune faccende negli uffici pubblici. In
quelle occasioni la paziente produceva solo due o tre parole in italiano, passan-
do immediatamente all’uso del dialetto. Nel novembre del 1990 la paziente fu
colpita da un ictus che interessava l’emisfero sinistro e presentò disturbi afasici.
Rimase completamente senza espressione linguistica per un paio di settimane
(fase acuta) e quando cominciò a recuperare, riusciva a esprimersi solo in ita-
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PARTE I
Nel 1967 Lenneberg propose il concetto di «età critica» per l’acquisizione del
linguaggio. Questo concetto fa riferimento al fatto che esisterebbe un periodo
dello sviluppo entro il quale l’acquisizione o apprendimento di una funzione, in
generale, e di una lingua, in particolare, deve avvenire affinché lo sviluppo fun-
zionale proceda in modo adeguato. Tale concetto non è limitato al dominio lin-
guistico o cognitivo, ma riguarda tutto lo sviluppo funzionale del cervello. I pro-
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cessi di sviluppo del sistema nervoso dopo la nascita sono programmati in modo
tale da essere guidati dalle stimolazioni ambientali che si ricevono dall’esterno.
Per esempio, la corteccia visiva è organizzata in colonne di dominanza ocu-
lare, vale a dire colonne di neuroni che ricevono le informazioni su stimoli lumi-
nosi provenienti dallo stesso punto del campo visivo ma veicolati dai due occhi.
Per la maggior parte del campo visivo centrale, infatti, gli stimoli proiettano sia
alla retina dell’occhio sinistro che dell’occhio destro per essere poi veicolati
all’emisfero contro laterale. A livello della corteccia visiva primaria le informazio-
ni provenienti dai due occhi sono segregate in colonne separate. Tale organizza-
zione colonnare consente l’integrazione ordinata delle informazioni veicolate dai
due occhi e la valutazione della disparità retinica, indotta dalla differente prospet-
tiva con cui i due occhi osservano lo stesso punto del campo visivo, che è un
indice fondamentale usato dal nostro cervello per percepire la tridimensionalità
dello spazio a partire dalle immagini bidimensionali proiettate sulla retina. Le
colonne di dominanza oculare si sviluppano dopo la nascita, attraverso un pro-
cesso di organizzazione neurale che è guidato dalla stimolazione luminosa che
colpisce i due occhi. Tale processo di interazione tra programmi innati di orga-
nizzazione cerebrale e influenze ambientali, però, ha una tempistica ben preci-
sa, nel senso che le informazioni ambientali devono arrivare in un determinato
periodo dello sviluppo affinché lo sviluppo proceda adeguatamente. Successiva-
mente a questo periodo le influenze ambientali non possono più modificare l’or-
ganizzazione colonnare della corteccia visiva. Il periodo entro il quale le influen-
ze ambientali hanno la massima influenza nel guidare l’organizzazione delle
strutture cerebrali per una determinata funzione percettiva, motoria o cognitiva
è il periodo critico per lo sviluppo di quella funzione. Si pensi a tal proposito ai
casi di bambini con “occhio pigro”. La disfunzionalità di un occhio nei primi anni
di vita non consente lo svilupparsi adeguato dell’organizzazione colonnare a
livello della corteccia visiva. La soluzione terapeutica in questi casi consiste nel
bendare l’occhio integro in modo da facilitare l’invio di informazioni alla cortec-
cia da parte dell’occhio “pigro” e consentire così la formazione di colonne di do-
minanza oculare anche per l’occhio “pigro”. Tale intervento deve però avvenire
nel periodo in cui l’organizzazione cerebrale di quella funzione visiva può esse-
re ancora influenzata dall’ambiente, vale a dire nel periodo critico per lo svilup-
po di quella funzione. Se l’intervento viene effettuato al di fuori di questo perio-
do è assolutamente inefficace e il bambino non potrà mai sviluppare un’organiz-
zazione colonnare adeguata, in quanto l’occhio sano invaderà tutto il territorio
corticale e non lascerà spazio alle informazioni veicolate dall’“occhio pigro”. La
corteccia visiva non sarà quindi in grado di integrare le informazioni provenien-
ti dai due occhi e il bambino presenterà disturbi della percezione visiva. Suc-
cessivamente l’ambiente potrà ancora influenzare l’organizzazione cerebrale, ma
attraverso meccanismi di plasticità cerebrale diversi e con valenza inferiore.
Questo esempio illustra in modo molto chiaro il concetto di età critica per
una funzione relativamente semplice. Un dato di grande importanza da tenere
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PARTE I
presente è che i periodi critici sono più ampi e si completano più tardivamen-
te per funzioni sempre più complesse. Essendo il linguaggio una delle funzio-
ni più complesse di cui è dotato il cervello umano, non è difficile immaginare
che il periodo critico per lo sviluppo delle funzioni linguistiche sia molto ampio
e i suoi confini siano molto più sfumati rispetto a quelli per le funzioni percet-
tivo-motorie più semplici. Questo dipende dai processi di sviluppo del sistema
nervoso, che si completano prima per le aree sensoriali e motorie più sempli-
ci e successivamente per le aree più complesse. È per questa ragione che nel
caso delle funzioni cognitive più complesse, come il linguaggio, il concetto di
«periodo critico» è stato sostituito da quello di «periodo sensibile», vale a dire
un periodo dello sviluppo in cui l’effetto dell’esperienza sulle funzioni cerebra-
li è particolarmente forte. Le evidenze a favore dell’esistenza di periodi sensi-
bili per lo sviluppo delle funzioni linguistiche derivano: dal maggiore recupe-
ro dalla afasia nei bambini colpiti da una lesione cerebrale; dagli effetti della
deprivazione del linguaggio nei bambini allevati in isolamento che hanno pre-
sentato difficoltà nell’apprendere una lingua dopo il primo decennio di vita;
dalla facilità con cui i bambini sembrano acquisire una lingua contro la diffi-
coltà che gli adulti hanno nell’apprendere una seconda lingua.
Una delle evidenze che spinse Lenneberg a sviluppare il concetto di età criti-
ca per lo sviluppo delle funzioni linguistiche era il maggior recupero delle fun-
zioni linguistiche nei bambini diventati afasici in seguito a una lesione cerebrale.
L’afasia nei bambini si riferisce a un disturbo acquisito del linguaggio in
seguito a una lesione acquisita (traumi cranici, tumori e gli infarti cerebrali) nel-
l’emisfero cerebrale sinistro (emisfero dominante). L’afasia nei bambini è carat-
terizzata da una riduzione della fluenza verbale, da uno stile espressivo telegra-
fico e da un rilevante recupero del linguaggio nei mesi successivi alla lesione.
Tale recupero linguistico contrasta con i pesanti deficit residui che i pazien-
ti afasici adulti manifestano anche nella fase cronica della malattia. Questo
aveva portato all’opinione, diffusa fino a non molti anni fa tra i neurologi, che
il recupero del linguaggio fosse completo quando la malattia inizia prima della
pubertà. Si pensava che prima della pubertà l’emisfero non linguistico, quello
di destra, fosse in grado di sostituirsi completamente a quello di sinistra e quin-
di di vicariare le funzioni linguistiche. Numerose ricerche cliniche compiute
negli ultimi decenni hanno dimostrato che queste ipotesi erano eccessivamen-
te ottimistiche. Ora si ritiene che, quando un bambino viene colpito da un’afa-
sia prima degli otto anni, il recupero è ottimo, ma mai completo. In particola-
re possono residuare problemi negli aspetti morfosintattici, per esempio omis-
sione di morfemi grammaticali obbligatori, come i pronomi, gli articoli e gli
ausiliari. Ciononostante, dopo gli otto anni la prognosi, per quanto riguarda il
recupero del linguaggio, è peggiore (Fabbro 2004).
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completa in L2. Gruppi di immigrati negli Stati Uniti provenienti dai paesi
dell’Est asiatico sono stati sottoposti all’ascolto di frasi in inglese che presenta-
vano una complessità grammaticale crescente. I soggetti dovevano giudicare se
la frase ascoltata era grammaticalmente corretta (compito definito giudizio di
grammaticalità; Johnson, Newport 1989). In questi esperimenti si è riscontrato
che l’accuratezza nel giudizio di grammaticalità tende a diminuire in maniera
significativa negli individui giunti negli Stati Uniti dopo gli otto anni di età.
Questo risultato è indipendente da fattori quali il livello di istruzione, il nume-
ro di anni trascorsi nel nuovo paese, il numero di ore di esposizione alla secon-
da lingua e la motivazione ad apprendere la nuova lingua.
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8. Conclusioni
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PARTE I
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PARTE II
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1 Questo saggio è stato adattato da Caon (a cura di) 2006 e Caon 2008a ai quali si rimanda per
gli eventuali approfondimenti.
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PARTE II
Abbiamo già presentato nei contributi di riferimento (Caon, a cura di, 2006,
2008a) le caratteristiche personali degli studenti che hanno particolare rilievo
per l’apprendimento linguistico; ci limitiamo in questa sede a elencarle metten-
do in evidenza gli ulteriori fattori di differenza che caratterizzano la CAD plu-
rilingue.
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PARTE II
il modello di una scuola trasmissiva, che attiva soltanto circuiti didattici tesi a col-
mare dislivelli rispetto a un sapere predefinito, non può certo promuovere quel
flusso circolare di informazione e quell’interazione produttiva che nascono invece
spontaneamente nelle attività di gruppo basate sul dialogo e sul reciproco scam-
bio, dove ciascuno è messo nella condizione di poter dare il proprio contributo
per un comune obiettivo. Eppure proprio in tali situazioni si attivano processi auto-
nomi di apprendimento delle competenze necessarie per rendersi utili al gruppo.
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PARTE II
Il modo in cui creiamo la nostra conoscenza dipende da ciò che conosciamo già, il
quale a sua volta dipende dal tipo di esperienze che abbiamo fatto e dal modo in
cui siamo giunti ad organizzarle nelle strutture cognitive di cui disponiamo. Ognuno
di noi genera le proprie regole e i propri modelli mentali, che utilizza per dare senso
alle proprie esperienze. L’apprendimento quindi non sarebbe altro che un processo
di aggiustamento dei propri modelli mentali per accogliere nuove esperienze.
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PARTE II
a) fattori emotivi. Scrive Cardona (2001: 39-40) che in situazioni emotive nega-
tive (paura, ansia, stress) si instaura un meccanismo chimico che blocca la
noradrenalina (un neurotrasmettitore che favorisce la memorizzazione) e quin-
di l’attivazione dei lobi frontali per l’inizio della memorizzazione/apprendi-
mento; questo avviene
quando lo stress non è positivo, ma si instaura un sentimento di ansia e disagio. In
questo caso le ghiandole surrenali producono un ormone steroide, detto appunto
ormone dello stress, che serve a predisporre il corpo a reagire alla situazione di diffi-
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PARTE II
Qual è allora una strada che possiamo prendere per cercare di ridurre que-
sti limiti e di tentare di includere fin da subito gli studenti in difficoltà e in par-
ticolar modo i ragazzi immigrati in contesti CAD?
La nostra proposta che in questo volume viene sostenuta è quella di utiliz-
zare nell’azione didattica metodologie a “mediazione sociale” che:
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– fungano da stimolo per il confronto delle idee, per la negoziazione che sca-
turisce dalle diverse soluzioni proposte e dalla ricerca condivisa delle più
efficaci:
a) gli studenti hanno caratteristiche uniche, dovute a fattori innati e a storia per-
sonale che incidono sui processi e sui ritmi di apprendimento linguistico;
b) il clima della classe è dettato dalla qualità delle azioni che avvengono.
Qualsiasi scelta metodologica implica l’attivazione di determinati processi;
gli studenti, se si trovano a interagire, possono condizionare con le loro
caratteristiche il clima della classe;
c) gli studenti apprendono la lingua in modo migliore (in termini di stabilità e di
permanenza in memoria) se riescono a pensare in modo complesso: quindi, per
esempio, non meccanicamente mnemonico e non solo con una modalità di
interazione, ma utilizzando diversi canali espressivi in differenti situazioni;
d) gli studenti apprendono la lingua in modo migliore se riescono a connette-
re le loro conoscenze precedenti con le nuove informazioni che emergono
dalle attività o vengono proposte;
e) gli studenti apprendono la lingua in modo migliore se riescono a riconoscere
quello che stanno studiando come utile o interessante per il loro futuro, sia esso
legato al lavoro, alle relazioni interpersonali, ai sogni e ai progetti personali;
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PARTE II
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PARTE II
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Come sostengono Johnson, Johnson e Holubec (1996: 23), nel gruppo coo-
perativo così concepito il «risultato è che l’efficacia complessiva del gruppo è
superiore alla somma di quella delle sue parti e che tutti gli studenti fornisco-
no prestazioni scolastiche migliori di quelle che avrebbero dato da soli».
Vediamo nel dettaglio come, secondo i princìpi del CL, sia preferibile orga-
nizzare il gruppo. Johnson, Johnson e Holubec (1996: 25) scrivono:
I gruppi che mostrano differenze interne di background, di livello di capacità e di
sesso sembrano idonei a stimolare le attività di elaborazione dei contenuti, di me-
morizzazione a lungo termine, di riflessione e ragionamento, a promuovere l’as-
sunzione e l’esercizio dei ruoli di tutoring e di tutee, a valorizzare la ricerca di pro-
spettive diverse che favoriscono l’approfondimento dei contenuti da apprendere.
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PARTE II
– vantaggi sul piano del profitto scolastico, specialmente per studenti apparte-
nenti a minoranze etniche e per gli studenti deboli;
– miglioramento dei climi di classe e dei rapporti etnici;
– miglioramento dello sviluppo sociale, cognitivo e affettivo di tutti gli studenti;
– miglioramento dell’autostima e delle capacità di autocontrollo;
– miglioramento dei livelli di motivazione e del piacere di stare in classe;
– innalzamento del tempo di concentrazione sul compito;
– risultati positivi per tutor e allievi nelle attività di insegnamento reciproco.
2 Un criterio che può guidare un docente di lingue nella scelta della composizione del gruppo
è per esempio l’attenzione a non creare gruppi eccessivamente eterogenei il che renderebbe più
difficile l’ottimale stimolazione delle reciproche «zone di sviluppo prossimale» o la creazione di
gerarchie di status.
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PARTE II
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– favorire l’inserimento positivo nel gruppo dei pari (che implica maggiori
possibilità di interazione e quindi maggiori possibilità di accelerare il pro-
gresso interlinguistico e la comprensione interculturale);
– fornire maggiori occasioni per attivare processi cognitivi legati ad apprendi-
menti di abilità linguistiche per la comunicazione e per lo studio.
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PARTE II
tutor (coloro che tutorano) imparano a «essere formativi» nei confronti dei
loro tutee (coloro che sono tutorati), «sviluppano un senso di orgoglio e di
autorealizzazione e acquisiscono fiducia e senso di responsabilità»;
c) agisce su più intelligenze. Per essere un buon tutor non basta avere delle
competenze linguistiche; sono altrettanto importanti altre abilità quali, per
esempio, la capacità di entrare in contatto empatico con l’altra persona,
capendone i bisogni, interpretando gli sforzi comunicativi per giungere alla
comprensione del messaggio;
d) permette a tutti di poter fungere da tutor linguistici in contesto multiculturale.
Nella nostra esperienza, abbiamo proposto a studenti italiani con alcune diffi-
coltà di ordine comportamentale di tutorare i loro compagni migranti. Due risul-
tati ci hanno dato particolarmente soddisfazione: da un lato l’effetto positivo
della responsabilizzazione sulla capacità di autoregolare e controllare i compor-
tamenti e la concentrazione nel compito; dall’altro il nuovo interesse che i tutor
hanno rivolto alla lingua italiana nelle sue componenti grammaticali.
La gratificazione per il ruolo di responsabilità e di prestigio ha risvegliato in
loro il desiderio di impegnarsi e di apprendere perché vedevano una fina-
lità chiara e immediatamente spendibile in quello che stavano studiando.
Oltre a questo, il fatto che dovessero poi spiegare regole della lingua con
parole semplici, li portava a ragionare contemporaneamente su più piani:
– grammaticale: ragionamenti su meccanismi di funzionamento della L1,
regolarità ed eccezioni della lingua;
– didattico: la necessità di spiegare ai compagni migranti con parole sem-
plici, li ha portati a ragionare su modalità facilitanti della comunicazione
(uso di altri codici quali foto, immagini, gesti, schemi) e della lingua (par-
lato più lento e ben scandito, frasi semplici con ordine SVO);
– empatico: non solo con il migrante a cui facevano da tutor, ma anche con
il docente, di cui coglievano la difficoltà del “mestiere”. Proprio questa rot-
tura degli schemi interpretativi generata dal nuovo ruolo ha modificato sen-
sibilmente la relazione tra studenti italofoni tutor e docente. Lo stato
“mimetico” e la disponibilità di quest’ultimo di fare da facilitatore quando
si presentavano delle difficoltà di comunicazione o dei dubbi contenutisti-
ci si sono rivelati importantissimi per eliminare quella contrapposizione
spesso pregiudiziale ma di fatto limitante tra docente e studenti;
e) permette a tutti gli studenti di maturare conoscenze e competenze di vario
tipo. A uno sguardo superficiale, si può pensare che il tutoraggio tra pari, se
ha utilità per il tutee (il «tutorato»), non ne ha altrettanta per il tutor (il «tuto-
rante») che deve «ripetere quel che già sa» e che quindi non può progredire
in conoscenze e competenze scolastiche.
Ovviamente tale visione (che si ispira alla concezione trasmissiva dell’inse-
gnamento/apprendimento) non corrisponde con la nostra idea e con gli studi
sull’apprendimento cooperativo e sul tutoraggio tra pari a cui facciamo rife-
rimento.
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PARTE II
4. Conclusioni
L’idea che sostiene questo contributo è che il nostro modo di interpretare i ruoli
delle persone nella classe, di proporre i valori e di costruire i rapporti attraverso la
metodologia e la relazione, può peggiorare o migliorare gli studenti e le persone.
Aiutare le persone a farsi responsabili dei loro sogni e dei loro progetti indi-
viduali e collettivi è uno degli obiettivi più alti a cui si possa tendere a scuola;
chi insegna la lingua ha la possibilità di aiutare a dare le parole giuste a questi
sogni e a questi progetti e può far capire e sentire che non si va a scuola per
andare a scuola ma per vivere meglio.
L’idea che vogliamo promuovere con questo contributo è che una persona
cresce se si costruisce un progetto insieme a lei. Un progetto che comporta un
interesse e una corresponsabilità, un interesse che corresponsabilizza tutti i par-
tecipanti alla costruzione della comunità-classe.
La costruzione comune di un senso nuovo e originale – poiché prodotto dal-
l’unicità delle persone e dall’irripetibilità della loro interazione – rappresenta, a
nostro avviso, la grande ricchezza della CAD.
È proprio nell’idea che né gli studenti né il docente resteranno uguali a
com’erano che noi troviamo la risorsa fondamentale dei contesti differenziati.
E più vi è differenza e maggiore è la potenzialità di crescita perché la ricchez-
za sta proprio nella differenza. Riconoscerla, promuoverla, valorizzarla in tutti
e per tutti all’interno di un sistema culturale regolato è la grande sfida che ci si
pone per promuovere un’educazione linguistica democratica in classe.
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PARTE II
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Il docente non dovrà […] pensare di dover definire tanti piani di personalizzazio-
ne quanti sono gli alunni ma dovrà piuttosto saper progettare e realizzare “apertu-
re diversificate” che rendano l’esperienza didattica comune accessibile a più moda-
lità di costruzione del “sapere linguistico” (D’Annunzio, Della Puppa 2006: 138).
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PARTE II
Figura 1.
In una prima ora di laboratorio si presentano agli studenti delle attività legate
all’argomento che verrà trattato in classe due o tre giorni dopo, come per esempio
la creazione del lessico necessario per affrontare l’argomento. Nelle due ore succes-
sive di “coabitazione” (rettangolo grigio) l’attività viene svolta in classe attraverso la
somministrazione di compiti differenziati e schede stratificate (sulla base dei livelli
individuati nella classe, delle difficoltà linguistiche o su alcuni aspetti contenutistici)
su aspetti comuni o aspetti diversi sui quali l’insegnante intende lavorare.
La seconda ora settimanale di laboratorio serve a riprendere aspetti linguisti-
ci (pronuncia, morfologia ecc.) incontrati in coabitazione, a consolidare la lingua
dello studio di quella disciplina e a preparare alle successive ore in coabitazio-
ne. Se c’è stato un apprendimento incidentale può essere individuato, eventual-
mente corretto, comunque consolidato.
Se nella scuola non sono attivati dei laboratori, il modello è, comunque, vali-
do utilizzando l’USD come modello operativo che garantisce la partecipazione di
tutti gli alunni. Verranno mantenute le strategie adottate nelle ore di coabitazio-
ne, eliminando, invece, i rettangoli bianchi.
In questo tipo di modello è necessaria la stretta collaborazione e coordina-
zione tra i docenti curricolari e l’insegnante di italiano L2: i primi sono porta-
tori di contenuti, mentre il secondo deve mostrare agli insegnanti delle varie
discipline come si preparano schede stratificate per difficoltà linguistiche o
come si prevedono attività differenziate per i non italofoni.
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L’USD è, quindi, uno schema operativo che aiuta il docente a far fronte alle
esigenze della CAD e alla costruzione di un curriculo «centrato sul discente», nel
quale devono essere mutuati gli studi sull’apprendimento linguistico che sosten-
gono in buona misura anche le scelte didattiche e operative proposte nell’USD.
Un contributo fondamentale è innanzitutto dato dalla linguistica acquisiziona-
le che si occupa di descrivere l’andamento e i meccanismi di costruzione dell’in-
terlingua, termine che nasce, nell’accezione con cui lo utilizziamo oggi, con
Selinker negli anni Settanta. L’interlingua è un sistema linguistico autonomo, fun-
zionale in formazione attraverso il quale l’apprendente tenta di avvicinarsi sem-
pre di più alla lingua target (nel nostro caso l’italiano L2). Tale sistema risponde
a regole interne proprie che solo in parte possono essere ricondotte alla L1, solo
in parte sono riconducibili alla L2 e che nello stesso tempo possono essere indi-
pendenti da entrambe (Pallotti 1998). Il processo di acquisizione della lingua tar-
get avviene per progressive complicazioni, riqualificazioni e può essere definito
in tal senso ricorsivo. Un modello teorico che offre una spiegazione delle
sequenze di apprendimento è la «Teoria della Processabilità» (TP) attribuibile a
Pienemann, che si basa in parte su modelli psicolinguistici, in parte sul modello
della Grammatica Lessico Funzionale di Bresnan (a cura di, 1982).
La TP fornisce una spiegazione alle sequenze evolutive dell’interlingua ba-
sandosi su una gerarchia procedurale che è universale, quindi valida per tutti
gli apprendenti parlanti qualsiasi lingua. Secondo la TP, l’apprendente progre-
disce nella costruzione del proprio sistema interlinguistico, seguendo un preci-
so ordine sequenziale, procedendo dagli elementi e dalle strutture che nella
scala gerarchica vanno dal più semplice al più complesso. I gradini della scala
della processabilità possono essere sintetizzati in cinque punti:
– procedura lemmatica;
– procedura categoriale;
– procedura sintagmatica;
– procedura frasale;
– procedura subordinante.
I gradini della scala sono implicazionali per cui la procedura del livello più
complesso (subordinante) è accessibile solo in presenza dei gradini più bassi
che sono prerequisiti.
Scrive D’Annunzio:
L’interlingua, dunque ci appare come una rete costituita da maglie diverse, non rego-
lari che si rincorrono, accavallano o distanziano all’interno di uno spazio di esposi-
zione e studio della lingua seconda. […] La conoscenza del sistema interlinguistico
se da un lato ci mostra i limiti dell’insegnamento che deve necessariamente fare i
conti con gli elementi di imprevedibilità e singolarità del percorso di acquisizione
della L2, dall’altro ci suggerisce importanti indicazioni per la progettazione didattica
e per le modalità di applicazione del modello (D’Annunzio, Della Puppa 2006: 140).
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PARTE II
2. Il modello operativo
2.1. La motivazione
– la novità;
– il senso di piacere o dis-piacere suscitato dall’input;
– la funzionalità rispetto agli obiettivi formativi, sociali e culturali del soggetto;
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PARTE II
2.2. La comprensibilità
2.3. La valutazione
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PARTE II
– gli approcci;
– le tecniche;
– la tipologia di task;
– i ritmi di gestione della lezione;
– l’input fornito dal docente.
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Nell’esempio dato (Luise, a cura di, 2008: 110) si richiede allo studente di
svolgere un task linguistico attraverso l’uso di colori (task extralinguistico), per-
mettendo all’insegnante di verificare la comprensione del lessico studiato nel-
l’USD sull’ecosistema.
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PARTE II
– il task;
– le tecniche didattiche;
– i contenuti.
2Il testo fa parte di un’USD sull’ecosistema sperimentata nell’Istituto Comprensivo (IC) «Marco
Polo» del Comune di Prato.
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CATENA ALIMENTARE
➜) significa «VIENE
La freccia (➜ MANGIATO DA».
CATENA ALIMENTARE
PRODUTTORI E CONSUMATORI
Gli esseri viventi di un ecosistema sono collegati dalla relazione «VIENE MANGIATO DA» ➜).
(➜
L’insieme di queste relazioni si chiama catena alimentare.
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PARTE II
CATENA ALIMENTARE
PRODUTTORI E CONSUMATORI
➜).
Gli esseri viventi di un ecosistema sono collegati dalla relazione «VIENE MANGIATO DA» (➜
L’insieme di queste relazioni si chiama catena alimentare.
Esempio: erba ➜ cavalletta ➜ rana ➜ serpente ➜ falco
Le piante sono i soli esseri viventi in grado di produrre il proprio nutrimento, quindi,
ogni catena alimentare comincia con le piante.
Tutti i vegetali si chiamano PRODUTTORI perché producono cibo per gli animali.
Gli animali si chiamano invece CONSUMATORI.
Gli animali erbivori si cibano di piante e sono detti consumatori PRIMARI.
Gli animali carnivori che si cibano di erbivori sono detti consumatori SECONDARI.
Gli animali carnivori che si cibano di altri carnivori sono detti consumatori TERZIARI.
DECOMPOSITORI
Fanno parte di ciascuna catena alimentare anche i DECOMPOSITORI.
I DECOMPOSITORI sono degli organismi viventi che si nutrono di resti morti di piante e
animali.
Animali come coleotteri, mosche, millepiedi, lumache e chiocciole scompongono la
materia in pezzi minuscoli, che poi espellono con gli escrementi.
I batteri, piccoli microrganismi del terreno, e i funghi portano a termine il lavoro: tra-
sformano i materiali vegetali e animali in sostanze chimiche che le piante e gli altri
esseri viventi possono riutilizzare.
La materia viene quindi continuamente riciclata, essendo utilizzata dagli organismi
viventi sia in forma minerale che in forma organica.
2.6. La ricorsività
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2003/04 67 34,18 9,73 137 38,20 11,52 105 34,54 14,34 309 35,64 11,86
2004/05 64 36,99 10,76 152 42,83 12,72 100 33,56 14,85 316 37,79 12,78
2005/06 85 44,27 11,84 159 49,47 13,54 90 34,75 14,62 334 42,83 13,33
2006/07 82 44,57 12,86 173 44,02 15,11 95 39,75 17,34 350 42,78 15,10
Tabella 2. Alunni stranieri dell’IC «Marco Polo». Fonte: Scuole del Comune di Prato. Elaborazioni:
IC «Marco Polo».
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PARTE II
Tabella 3. Alunni stranieri dell’IC «Marco Polo». Fonte: Scuole del Comune di Prato. Elaborazioni:
IC «Marco Polo».
3.1. Obiettivi
Lo scopo principale di questa USD era quello di far lavorare tutti gli studen-
ti, indipendentemente dal livello linguistico, su un argomento collegato al cur-
ricolo di classe, permettendo, così, agli studenti non italofoni che seguono il
laboratorio di italiano L2 di trasferire in classe le strutture linguistiche affronta-
te nel laboratorio (modello di coabitazione) e di co-costruire le conoscenze
attraverso la relazione.
Il team didattico ha deciso di lavorare su un’unità di storia incentrata sul-
l’evoluzione del cavaliere a partire dal Medioevo fino a oggi (Luise, a cura di,
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PARTE II
2008) e ha, innanzitutto, declinato gli obiettivi prioritari per gli alunni suddivi-
si sui tre livelli presenti nella classe. All’interno di ogni livello, gli obiettivi sono
stati definiti per ciascuna delle sei competenze di base che gli alunni devono
sviluppare.
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PARTE II
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Attività
1. L’insegnante fa vedere agli studenti la locandina del film e chiede agli stu-
denti che cosa vedono e quale tra gli elementi presenti nell’immagine si rife-
risca al titolo. Dopo aver scritto il titolo del film, si chiede agli studenti di fa-
re delle ipotesi sul contenuto.
2. Visione del film.
3. Lavoro a coppie: gli studenti devono prima scegliere, tra le immagini date,
quale corrisponda a quella di un cavaliere e poi motivare la loro scelta.
4. All’inizio del secondo incontro, partendo dall’immagine di un cavaliere, l’in-
segnante raccoglie le idee degli studenti («Che cosa vedi?», «Che cosa fa un
cavaliere?») e scrive le parole che emergono dall’attività di brainstorming.
Attività
Esempio di stratificazione del task, dato lo stesso testo linguistico a tutta la clas-
se (Luise, a cura di, 2008: 70)
➜ Nel testo in verde 4 sono evidenziati alcuni verbi. Per ogni verbo scrivi se il verbo
è presente, passato prossimo, imperfetto o infinito.
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PARTE II
Nel livello 1 non sono previsti gli obiettivi per lo sviluppo della compe-
tenza metacognitiva, in quanto, la fase della metacognizione richiede dei pro-
cessi linguistico-cognitivi di alto livello (p. es. ricostruzione, argomentazione,
valutazione e autovalutazione) e interessa, quindi, solo coloro che sono in
grado di comprendere la consegna metacognitiva. Per gli altri livelli, questa
azione si colloca alla fine del percorso allo scopo di raccogliere le impressio-
ni degli studenti sul lavoro fatto in classe. Questo lavoro può essere svolto
con tutta la classe oralmente chiedendo quali sono le parti e/o le attività che
sono piaciute o meno e che ritengono di avere imparato. In alternativa si può
dividere la classe in gruppi e discutere insieme sulle stesse domande di prima
(«Ti è piaciuto?», «Non ti è piaciuto?», «Perché?», «Che cosa hai imparato?») per
poi parlarne con la classe. Trattandosi di una sperimentazione, questa fase è
stata molto utile al team didattico per monitorare il processo di creazione del-
l’USD e per apportare i cambiamenti necessari a un miglioramento del pro-
dotto finale.
Questa fase ha l’obiettivo disciplinare di saper operare dei confronti tra con-
testi noti e altri meno noti o sconosciuti. L’attività si rivolge agli studenti dei
livelli 2 e 3, mentre gli studenti del livello 1 lavorano su una scheda lessicale.
Attività
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Le attività realizzate in questa fase sono pensate per permettere agli studen-
ti di reimpiegare in contesti diversificati conoscenze e abilità acquisite ed espe-
rite precedentemente in contesti strutturati e noti.
Per questa azione è stata prevista un’attività a gruppi, ciascuno dei quali deve
inventare una storia di epica cavalleresca, contenente tutti gli elementi caratteriz-
zanti un cavaliere. I gruppi sono in gara tra di loro e il vincitore sarà il gruppo
che ha utilizzato il maggior numero di elementi legati all’epica cavalleresca.
3.7. Conclusioni
– calibratura dei compiti: gli elementi costitutivi della stratificazione e della dif-
ferenziazione permettono di calibrare i compiti e rispondere alle diverse esi-
genze degli studenti a partire dalle pluralità di repertori linguistici, di intelli-
genze, stili cognitivi e stili d’apprendimento, unite alle pluralità di appartenen-
ze socioculturali e delle motivazioni allo studio presenti nella CAD;
– promozione di situazioni di autodeterminazione: per promuovere e soste-
nere i diversi tipi di intelligenze, stili cognitivi e stili d’apprendimento, si
possono proporre percorsi diversi per uno stesso task. All’interno di una
stessa attività sarà, quindi, lo studente a decidere il percorso più adatto e
quello che meglio risponde al suo stile di apprendimento per svolgere il
compito dato;
– varietà che sostiene l’attenzione;
– riflessione metacognitiva: la CAD multietnica e multilingue si caratterizza
specificamente per la presenza in classe di altre culture, di diversi rapporti
con il sapere e di stili cognitivi influenzati dalla esperienze nel paese d’ori-
gine. Coesistono, cioè, delle diversità le cui distanze possono essere molto
accentuate. Come scrive Della Puppa (D’Annunzio, Della Puppa 2006: 150).
101
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PARTE II
Riferimenti bibliografici
5 Una «“comunità di pratica” (Lave, Wenger 1991: 98) è definita come un insieme di relazioni tra per-
sone che partecipano ad un sistema di attività delle quali esse condividono la comprensione di ciò
che stanno facendo e di che cosa ciò significa per le loro vite e la comunità stessa» (Dolci 2006: 63).
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Con il continuo sviluppo delle nuove tecnologie, negli ultimi dieci anni abbia-
mo assistito a un forte sviluppo e a una intensa valorizzazione dell’e-learning. In
particolare l’e-learning è sempre più concepito come parte di un percorso for-
mativo ideale, il cosiddetto «apprendimento misto» («blended learning»).
Il blended learning concepisce infatti un percorso didattico che includa al
suo interno diverse modalità e/o piani di apprendimento: quello in classe (vis
à vis con l’insegnante, in interazione con altri studenti, collaborativo di grup-
po, cooperativo ecc.) e quello a casa, o comunque in contesto extra-lezione
dal vivo, in e-learning, o naturalmente su testi. Tali modalità sono considerate
tutte necessarie e integranti di un percorso formativo virtuoso.
Per quanto riguarda l’e-learning si è assistito poi a uno sviluppo e a un per-
fezionamento degli strumenti tecnici in Rete, volti alla creazione di «comunità»
(«community»). Tale processo ha avuto un’influenza estremamente positiva
sulla didattica on-line, permettendo la formazione di classi virtuali e comunità
di apprendimento sempre più valide.
L’e-learning nell’ultimo decennio si è andato quindi configurando non più
come apprendimento solitario davanti al computer, ma come apprendimento
che implica interazione, scambio, collaborazione con altri discenti, attraverso
aule e spazi comuni virtuali. Queste classi virtuali on-line sono, a mio avviso,
spazi dove si può sviluppare l’apprendimento cooperativo.
2. Evoluzione dell’e-learning
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PARTE II
Come tale l’e-learning, o insegnamento a distanza, nasce già nel primo dopoguer-
ra e si sviluppa e si afferma (soprattutto in Italia) a partire dal secondo dopoguer-
ra. Da allora a oggi possiamo individuare cinque fasi evolutive dell’e-learning:
Sarà interessante vedere anche quali sono gli aspetti che caratterizzano le
varie fasi di sviluppo.
Nella prima fase, l’insegnamento per corrispondenza, i materiali didattici sono
stampati e cartacei, spediti per posta o per corriere. In questa fase l’apprendimento
avviene in solitudine; non c’è alcuna interazione tra insegnante/tutor e allievo; l’in-
segnante interviene solo per la correzione delle prove o degli esami inviati dal
discente. C’è da sottolineare anche che sono rari gli esempi di corsi o materiali per
l’insegnamento delle lingue realizzati con le modalità caratteristiche di questa prima
fase dell’apprendimento a distanza. Molti invece i corsi tecnici o per prepararsi alle
professioni, un esempio per tutti: la famosa Scuola Radio Elettra Marelli di Torino
che, in corsi per corrispondenza, forma gli elettrotecnici italiani del dopoguerra.
La seconda fase dell’e-learning si caratterizza per l’utilizzo di prodotti e mate-
riali multimediali: vengono realizzati materiali didattici multimediali con l’ausilio di
cartacei, o viceversa. Inizialmente l’apprendimento avviene attraverso trasmissioni
televisive (corsi trasmessi); «Non è mai troppo tardi», il corso di alfabetizzazione
prodotto e trasmesso dalla RAI negli anni Sessanta, destinato agli analfabeti italia-
ni, è un primo storico esempio nostrano di corso multimediale attraverso la tele-
visione, e, il leggendario maestro Alberto Manzi, è il primo docente a distanza.
Dopo la televisione, vengono introdotti, quali mezzi di insegnamento a distanza,
materiali audio: prima dischi (45 e 33 giri), poi cassette e infine CD. In un secondo
momento arrivano i video (cassette e poi CD). Infine l’impiego dei prodotti mul-
timediali porta alla creazione di veri e propri «corsi multimediali» («courseware»):
testi base più materiali audio e video. L’e-learning attraverso prodotti multimedia-
li è molto utilizzato per l’insegnamento/apprendimento delle lingue straniere: già
dalla fine degli anni Sessanta sono venduti e diffusi in Italia dischi per l’apprendi-
mento dell’inglese e di altre lingue straniere. A partire dagli anni Ottanta si regi-
stra un grande successo dei courseware. Anche in questa fase l’apprendimento
avviene in solitudine; scarsissime sono le interazioni con tutor o insegnanti.
Nella terza fase (in Italia a partire dalla seconda metà degli anni Novanta)
Internet comincia ad affermarsi e, subito, se ne intuiscono le potenzialità per un
utilizzo a scopi didattici. Vengono messi on-line materiali didattici ed esercizi con
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correzione automatica. Nascono i primi corsi on-line, che in questa prima fase
poco si discostano dagli ormai “tradizionali” corsi multimediali messi in Rete e si
caratterizzano per scarsa interazione. Si sviluppa l’idea di un apprendimento
computer based training: ovvero lo studio e l’esercitazione di un discente davan-
ti al computer vengono considerati utili, se non fondamentali, per un processo
di apprendimento ottimale. Con l’avvento del personal computer, cambia il modo
di intendere la formazione. Accanto alla formazione in classe, in presenza del-
l’insegnante, si considera ugualmente importante il lavoro autonomo di appren-
dimento e approfondimento del discente a casa, con l’ausilio del pc. In alcuni
casi si arriva a teorizzare che si possa insegnare e formare essenzialmente a di-
stanza, in e-learning, risparmiando così costi e risorse (vedi politica di formazio-
ne e di aggiornamento professionale delle grandi aziende), senza ricorrere all’ap-
prendimento vis à vis. Si sviluppa la figura del tutor on-line. In ogni caso il tipo
di apprendimento legato a questa terza fase è ancora individuale e solitario, ma
iniziano interazioni on-line con uno o più tutor. Gli scambi con il tutor avvengo-
no generalmente attraverso la posta elettronica, più raramente in chat dedicate.
La quarta fase è caratterizzata dall’evoluzione dei primi corsi on-line; dai ma-
teriali didattici e le esercitazioni in Rete, si passa a veri e propri corsi strutturati
e con strumenti dedicati: nascono le piattaforme didattiche e le aule virtuali.
Attraverso le piattaforme didattiche si possono quindi sviluppare veri e propri
percorsi didattici, con l’utilizzo di aule virtuali si può arrivare a momenti di inte-
razione anche con altri discenti, oltre che con il tutor. Con l’evoluzione della Rete
e dei software didattici, le piattaforme si arricchiscono di nuovi strumenti a dispo-
sizione dei discenti (e degli insegnanti on-line o dei tutor): accanto alla e-mail e
alle chat, ecco istant messaging, forum, lavagna condivisa, documenti condivisi,
audio sincrono, audio-video sincrono, aula virtuale con strumenti dedicati ecc.
Questa fase registra quindi, in corsi e in percorsi didattici on-line, un appren-
dimento del discente individuale con vari momenti di interazione con altri
discenti e interazione costante con il tutor. La tipologia e-learning di questa quar-
ta fase viene utilizzata ampiamente per l’insegnamento delle lingue straniere.
In questa fase ci si ferma a riflettere anche sui pregi e sui difetti dell’apprendi-
mento in e-learning. Mentre nella precedente fase si erano esaltate le potenziali-
tà e l’efficacia didattica dell’e-learning, in questa fase, malgrado i corsi in e-lear-
ning diventino sempre più ricchi e più interattivi, si registra come l’apprendimen-
to, praticato esclusivamente a distanza, pedagogicamente comporti molti limiti.
Si constata invece come l’apprendimento sia didatticamente tanto più effica-
ce quanto più varie sono le modalità di apprendimento: quindi sì all’e-learning,
ma legato anche a fasi di apprendimento in classe, con la presenza del docen-
te e di altri discenti. Viene coniato quindi il termine «blended learning», «appren-
dimento misto». L’e-learning diventa quindi parte, fondamentale e insostituibile,
di un processo didattico ottimale (che prevede anche l’apprendimento in clas-
se, in gruppo, collaborativo, cooperativo ecc. ecc.), il blended learning, ovvero
l’apprendimento misto.
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PARTE II
3. Web.2
La fase attuale, la quinta per seguire il mio schema, registra un ulteriore svi-
luppo della Rete, che apportando nuovi strumenti, e quindi nuove potenziali-
tà, permette di sviluppare nuovi percorsi didattici on-line. L’avvento del cosid-
detto Web.2, ovvero delle community aperte in Rete, permette quindi di crea-
re corsi di apprendimento che, a partire da piattaforme didattiche, si aprono a
interazioni con il mondo virtuale (community esistenti). Sono nati e stanno
nascendo, quindi, percorsi didattici che, dotati di propria piattaforma (classi vir-
tuali, strumenti condivisi, forum, chat, audio e video in sincrono ecc. ecc.) ven-
gono integrati da strumenti affermatisi nel Web.2:
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PARTE II
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6. Il progetto Babelweb
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PARTE II
Quelli qui sinteticamente riportati sono gli elementi distintivi, dunque, di un pro-
getto che, per citare la sua presentazione, vuole «aprire le classi di lingua al mondo»,
«per motivare i discenti» e «modificare il rapporto tra discenti e docente». Un proget-
to e una sfida ambiziosi, indirizzati verso quel ripensamento della didattica on-line
delle lingue, che le nuove potenzialità della rete Web hanno reso irrimandabile.
Riferimenti bibliografici
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1 Per Long (1996: 413) le positive evidence sono tutti gli esempi o «modelli» di lingua ben forma-
ta, grammaticale o accettabile.
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PARTE II
2 Vale la pena ricordare i quattro fattori che secondo Long richiamano semplificazioni drastiche
e agrammaticali nel foreigner talk. Essi sono: il livello di interlingua dei discenti, lo status e il
ruolo dei partecipanti, l’esperienza del nativo in interazioni con non nativi, la pianificazione e la
formalità del discorso (Long 1983).
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Badi a come parli? Il “teacher talk” nella classe «ad abilità differenziate»
3 La seconda simulazione che si presenterà, in ogni caso, permetterà anche qualche riflessione
meno monodirezionale.
4 «Teacher talk» è il parlato dell’insegnante di qualsiasi disciplina. I confini di tale sigla sono ampi,
come ben argomenta Diadori (2004). Qui lo intenderemo invece esclusivamente come parlato
dell’insegnante rivolto a non nativi.
5 Il quale a sua volta le accetta, anzi le attende e spesso le cerca: a ulteriore dimostrazione della
natura altamente cooperativa delle interazioni, anche asimmetriche. L’insegnante può, e anzi,
deve, “criticare” le produzioni degli apprendenti perché a monte proprio questi gli hanno con-
ferito tacitamente l’autorità per farlo.
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PARTE II
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Badi a come parli? Il “teacher talk” nella classe «ad abilità differenziate»
Come si può ben vedere, il testo non è di livello CALP; non somiglia cioè
agli argomenti astratti e complessi delle discipline scolastiche: è un testo scher-
zoso, che difficilmente costituirebbe argomento di lezione. È stato scelto non
solo per mantenere una certa leggerezza utile al clima del laboratorio, ma
anche per evitare che il diverso background dei partecipanti potesse favorire
alcuni più di altri: qui, si presume che tutti siano ugualmente spiazzati dall’ori-
ginale serenata rappresentata nella scenetta. Le caratteristiche di cui eravamo
alla ricerca erano infatti le seguenti: una situazione non prevedibile, compren-
sibile solo se veicolata linguisticamente, e “scomponibile”. Volevamo cioè una
situazione in cui vi fossero alcune informazioni di base in comune (le parti del
disegno riportate sia sul foglio docente che sul foglio studente) e altre che l’al-
lievo non possiede e nemmeno può intuire, di modo che per il loro apprendi-
mento il veicolo linguistico dell’insegnante sia insostituibile (in questo senso,
questo testo così leggero somiglia ai contenuti di discipline a forte mediazione
linguistica, come il diritto o la filosofia 6). A ben pensarci, è spesso così quan-
do si deve presentare un nuovo argomento in classe: l’apprendente potrebbe
saperne già qualcosa, ma non ancora tutto. Esistono cioè delle preconoscenze,
sulle quali far leva per introdurre nuove informazioni.
Era a tale scopo importante che, nella successiva fase di simulazione, l’«inse-
gnante» non mostrasse il disegno completo e non completasse lui il disegno
dell’«allievo». La consegna era che l’allievo ricevesse il suo foglio e, sulla base
delle sole indicazioni linguistiche dell’insegnante, provasse a completare la
scena. L’obiettivo non era tanto quello di portare a termine l’attività, quanto il
curare il passaggio comunicativo semplificando il proprio parlato.
Quanto agli «uditori», che avevano il compito di documentarsi sulle compe-
tenze di un utente A2, diremo qui delle differenti reazioni avute lavorando con
insegnanti di lingua, già avvezzi alle tavole del QCER, rispetto a quelle avute
con insegnanti disciplinari che conoscevano il QCER solo per sentito dire:
ebbene, questi ultimi non hanno ricavato dall’esame dei descrittori un’idea uni-
voca delle competenze di un A2: il che conferma le impressioni raccolte da altri
studi circa una certa vaghezza del QCER (cfr. tra altri Nuzzo, Semplici 2008).
Un’ulteriore annotazione che ci ha colpito è l’atteggiamento di alcuni «parlato-
ri» che, a dispetto delle istruzioni ricevute, non hanno mai consegnato il foglio
studente a chi ne era destinatario, tenendolo sempre nelle loro mani e prece-
dendo a disegnarvi sopra gli elementi che via via illustravano. Se l’atteggiamen-
to è rappresentativo di un modo di procedere, ebbene queste insegnanti devo-
no avere uno stile assai direttivo e ben poco cooperativo.
Infine, gli «osservatori»: questi ultimi impersonavano quella consapevolezza
che si voleva inculcare, alla fine del laboratorio, a tutti i partecipanti. Gli «osser-
6 Laddove discipline come la biologia o la matematica possono più facilmente fruire di strumen-
ti non verbali (immagini, numeri) per il passaggio delle informazioni.
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PARTE II
vatori» hanno dapprima commentato tra loro la tabella, per poi spuntare le voci
che venivano utilizzate dal «parlatore» a cui erano stati assegnati (mentre «parla-
tore» e «uditore» stavano seduti uno di fronte all’altro, l’«osservatore» era di fian-
co ai due).
Al termine dell’attività siamo stati in grado di rilevare le impressioni sul
medesimo evento provenienti da tre punti di vista diversi: il «parlatore» era chia-
mato a dire se riteneva di essersi adeguato e se aveva avuto difficoltà; l’«udito-
re» poteva aggiungere i suoi commenti anche riferendosi a quanto prevede il
QCER circa il tipo di parlato da rivolgere a un A2, e infine l’«osservatore» por-
tava un punto di vista più oggettivo, da “esperto”, grazie alla tabella che è poi
stata condivisa e commentata in plenum.
I commenti ricavati sono stati diversi, ma così generalizzabili: i «parlatori»
hanno rilevato le difficoltà di farsi capire; gli «uditori» non si sono sempre tro-
vati soddisfatti delle spiegazioni ricevute, mentre le spunte degli «osservatori»
sono andate alla maggior parte delle voci di cui dovevano tenere nota, con una
prevalenza generica per gli adeguamenti fonologici (i più comuni ed evidenti,
in effetti).
A seguito di questa prima attività e del relativo feedback, vi è stato un
momento plenario in cui si sono messe a confronto le tabelle sugli adeguamen-
ti del foreigner talk (Larsen-Freeman, Long 1991) con alcune tavole del QCER,
rilevandone alcune discrepanze che qui ci pare utile sintetizzare.
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Badi a come parli? Il “teacher talk” nella classe «ad abilità differenziate»
ziando in grassetto quelle ricordate anche nelle tavole del QCER; cominciamo
dal livello fonologico:
Fonologia
1 Ritmo rallentato dell’eloquio.
2 Maggior utilizzo di enfasi e pause.
3 Articolazione più attenta.
4 Tonalità più variata/intonazione esagerata.
5 Riutilizzo di forme estese/evitamento di forme contratte.
Semantica
1 Maggior messa in evidenza di relazioni semantiche.
2 Minor varietà lessicale.
3 Meno espressioni idiomatiche.
4 Maggior frequenza di nomi e verbi sul totale lessicale.
5 Alta percentuale di copule rispetto ad altri verbi.
6 Scelte lessicali marcate.
7 Meno forme opache (preferenza per nomi completi rispetto ai pronomi, per verbi concreti
rispetto a verbi vuoti come fare).
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PARTE II
Le modifiche di contenuto sono richiamate sia nella tavola 1 che nella tavo-
la 2 delle nostre Appendici (Appendice 2). Nello specifico, trova ampio rilievo
il punto «maggior orientamento verso il “qui-ed-ora”», che nel QCER è implica-
to, nei livelli da A1 a B1, attraverso l’idea di «concreto/fattuale/familiare/quoti-
diano» che il documento mette in opposizione ai livelli superiori, quelli dove
si introducono argomenti astratti, complessi, specialistici, richiamando così
l’opposizione BICS-CALP di Cummins (1986), ormai nota anche a molti inse-
gnanti di classe plurilingue. È al contrario solo accennato il terzo punto (la con-
cisione), nella tavola 1, in riferimento al livello A2.
Per concludere, vediamo come sono considerate nelle tavole su compren-
sione e interazione le modifiche che per gli studiosi sono le più utili all’appren-
dimento linguistico, ovvero le modifiche nella struttura interazionale.
Struttura interazionale
1 Cambiamenti di topic più bruschi.
2 Meno “lotta” per il mantenimento del topic.
3 Maggior accettazione di cambiamenti non intenzionali di topic.
4 Utilizzo più frequente di domande nelle mosse di avvio del topic.
5 Più ripetizioni (di sé o di quanto detto dall’interlocutore, ripetizioni identiche o parafrasi,
ripetizioni complete o parziali).
6 Più comprehension checks, ovvero atti di controllo della comprensione dell’interlocutore
(p. es. «Avete capito?»).
7 Più confirmation checks o atti per ottenere conferme della propria comprensione
(p. es. «Tu vuoi dire X?»).
8 Più clarification requests o atti di richiesta di chiarimento (p. es. «Cosa intendi?»).
9 Più espansioni (p. es. «… e Bergamo, questa città lombarda vicina a Milano, …»).
10 Più sequenze composte da domanda-risposta.
11 Più scomposizioni del topic o del topic-comment (p. es. invece o in aggiunta a «Ti piace Bergamo?»,
si avrebbero due fasi: introduzione del topic «Bergamo...» e poi comment: «Ti piace, Bergamo?»).
7 La comprensione delle espressioni idiomatiche è compresa nel QCER solo da C1 in poi. È eviden-
te come il riferimento sotteso sia a situazioni di apprendimento di lingua straniera, e non seconda.
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Badi a come parli? Il “teacher talk” nella classe «ad abilità differenziate»
L’interventista C1
Ok io ne so già molto, in effetti questo corso è piuttosto facile per me e io sono veloce
sempre, capisco al volo. Però ho un sacco di curiosità in più da chiedere, per fortuna
con quest’insegnante si può parlare! In fondo, ho diritto a imparare no? Posso interrom-
pere ogni volta che mi viene in testa una domanda…
➜ Intervieni almeno 2 volte facendo domande e/o osservazioni. Intervieni almeno 2 volte
facendo domande e/o osservazioni.
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PARTE II
Il treno dopo A2
Oddio che difficile! O mamma, non capisco niente! Perché, perché? Che paura l’inse-
gnante, mi fa una soggezione!! E gli altri, come sono tutti bravi e sicuri di sé! Certo, per
loro è più facile! Non capisco proprio niente, speriamo che nessuno mi metta in mezzo
e che la lezione finisca al più presto! Non ce la farò mai! Povero me!
➜ Trova il coraggio per rispondere se vieni chiamato in causa. Prova a fare una
domanda, se ci riesci.
Lo zelante B1
Devo stare attenta e capire bene tutto. Non posso perdere neanche una parola!
Nel mio Paese ero la più brava in questa materia, non posso restare indietro. Devo capi-
re, devo imparare, devo studiare!
➜ Intervieni almeno una volta per un chiarimento necessario. Prendi appunti e mostra
il tuo interesse!
Il bastiancontrario B2
Quest’insegnante non mi piace proprio. Quello studente così secchione poi, non lo sop-
porto… che voglia di dargli un po’ fastidio… ma perché ha sempre domande, chiari-
menti da chiedere? Se interviene anche oggi… gli do io una bella lezione, a lui e all’in-
segnante!
8 Si tratta di una assimilazione indebita, che si può far risalire almeno a Krashen e alla sua «ipo-
tesi dell’input comprensibile». I processi coinvolti nella comprensione sono in realtà almeno in
parte diversi da quelli interessati alla produzione (cfr., per esempio, Gass 1997).
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Badi a come parli? Il “teacher talk” nella classe «ad abilità differenziate»
PARTE II
Gli spunti offerti dalla simulazione sono stati moltissimi. Notevoli sono risul-
tate le dinamiche interne alla classe, tra pari; elemento non focalizzato nella
discussione del laboratorio, ma certamente centrale per i risvolti didattici che
offre. Sfruttando una cooperazione positiva tra gli allievi di diversa abilità l’inse-
gnante può infatti trovare il proprio compito anche notevolmente alleggerito.
Rispetto al tentativo, fatto da più «allievi», di imitare l’interlingua del livello loro
assegnato (che era reso ben visibile all’«insegnante» grazie a un adesivo che ciascu-
no portava sul petto), producendo dunque errori, si è notata una generale tenden-
za o a ignorare questi errori, oppure, al contrario, a sanzionarli in modo esplicito.
Su domanda, posta al termine all’attività da chi scrive, è emerso che nessun parte-
cipante aveva notato alcunché di particolare rispetto al feedback fornito: anche
questo è un segnale importante della necessità di far riflettere gli insegnanti sul
valore e sulle modalità della correzione (una correzione correttiva, non valutativa,
cioè sanzionatoria). È noto, per esempio, che ignorare gli errori o correggerli impli-
citamente, attraverso riformulazioni, può anche in contesti di immersione contri-
buire al perpetuarsi delle forme errate (Doughty, Williams, Eds., 1998). L’idea che
anche oltre i livelli iniziali serva agli allievi non nativi un rinforzo linguistico espli-
cito, durante le attività della classe disciplinare e in momenti e spazi ulteriori, appo-
sitamente dedicati, si conferma essere purtroppo ancora scarsamente diffusa.
Come da noi previsto, la lentezza e l’accuratezza che aveva caratterizzato il
parlato dell’insegnante durante la prima simulazione, che era stata fondamen-
talmente monologica, sono sparite allorché l’«insegnante» si è trovato incalzato
dagli interventi, anche sovrapposti, degli «alunni». Questo è in linea con quan-
to da noi riscontrato analizzando dati relativi alle interrogazioni (cfr. Grassi
2007) nelle quali proprio durante sequenze negoziali il ritmo d’eloquio si fa più
rapido e concitato, a evidente svantaggio della comprensione, al contrario cru-
ciale proprio in quei momenti.
Come detto, i livelli presenti nel gruppo allievi andavano da A2 a C2. Questo
nell’intento di non far dimenticare anche i molti nativi presenti nelle classi plurilin-
gui; si è invece escluso A1, per non aumentare ulteriormente la difficoltà del com-
pito. Ciò doveva far scaturire un parlato ampiamente stratificato, modulato da un
continuo passaggio da un linguaggio articolato a riformulazioni, almeno per i punti
essenziali, della massima semplicità. Tale richiesta non è stata soddisfatta. Ormai
“catturati” dall’idea della semplificazione, i parlatori designati hanno utilizzato una
lingua alquanto semplificata, che non ha dato stimoli ai “C1” e “C2” presenti.
Anche questo riconferma l’estrema difficoltà di gestione del parlato nella clas-
se ad abilità differenziate, e la necessità di una formazione specifica più estesa
di quanto non sia stato possibile offrire nello spazio di un singolo laboratorio.
5. Conclusioni
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Badi a come parli? Il “teacher talk” nella classe «ad abilità differenziate»
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esempio, i molti spunti didattici in Wong 2005.
125
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PARTE II
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Badi a come parli? Il “teacher talk” nella classe «ad abilità differenziate»
Appendice 1
a) Fonologia
• Ritmo rallentato dell’eloquio.
• Maggior utilizzo di enfasi e pause.
• Articolazione più attenta.
• Tonalità più variata/intonazione esagerata.
• Riutilizzo di forme estese/evitamento di forme contratte.
b) Morfologia e sintassi
• Enunciati composti accuratamente/meno formulazioni poco accurate.
• Enunciati più brevi (minor numero di parole per enunciato).
• Enunciati meno complessi.
• Maggiore regolarità/utilizzo canonico dell’ordine delle parole.
• Maggiore ritenzione di costituenti opzionali (p. es.: ripetizione del prono-
me soggetto).
• Maggior messa in evidenza delle relazioni grammaticali.
• Più verbi con marca di presente/meno riferimenti temporali non al pre-
sente.
• Più domande.
• Più domande chiuse (sì/no), meno domande aperte.
c) Semantica
• Maggior messa in evidenza di relazioni semantiche.
• Minor varietà lessicale.
• Meno espressioni idomatiche.
• Maggior frequenza di nomi e verbi sul totale lessicale.
• Alta percentuale di copule rispetto ad altri verbi.
• Scelte lessicali marcate.
• Meno forme opache (preferenza per nomi completi rispetto ai pronomi,
per verbi concreti rispetto a verbi vuoti come «fare»).
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PARTE II
Modifiche conversazionali
d) Contenuto
• Gamma di topic (tematiche, argomenti) ristretta/maggiormente prevedibi-
le.
• Maggior orientamento verso il “qui-ed-ora”.
• Trattazione più concisa dei topic (meno informazioni/minor frequenza di
mosse introduttive e conclusive di topic).
e) Struttura interazionale
• Cambiamenti di topic più bruschi.
• Meno “lotta” per il mantenimento del topic.
• Maggior accettazione di cambiamenti non intenzionali di topic.
• Utilizzo più frequente di domande nelle mosse di avvio del topic.
• Più ripetizioni (di sé o di quanto detto dall’interlocutore, ripetizioni iden-
tiche o parafrasi, ripetizioni complete o parziali).
• Più comprehension checks, ovvero atti di controllo della comprensione
dell’interlocutore (p. es. «Avete capito?»).
• Più confirmation checks o atti per ottenere conferme della propria com-
prensione (p. es. “Tu vuoi dire X?”).
• Più clarification requests o atti di richiesta di chiarimento (p. es. «Cosa
intendi?»).
• Più espansioni (p. es. «… e Bergamo, questa città lombarda vicina a
Milano, …»).
• Più sequenze composte da domanda-risposta.
• Più scomposizioni del topic o del topic-comment (p. es. invece o in
aggiunta a «Ti piace Bergamo?» si avrebbero due fasi: introduzione del
topic «Bergamo...» e poi comment: «Ti piace, Bergamo?»).
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Appendice 2
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PARTE II
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PARTE II
Appendice 3
Simulazione 2: estratti
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1. Introduzione
I più moderni approcci alla didattica delle lingue si basano tutti in varia misu-
ra sull’assunto derivato dalla linguistica testuale che il testo – e quindi non più la
frase – sia l’unità minima di descrizione e perciò di insegnamento linguistico.
Questa centralità del testo inteso come campione compiuto di competenza lin-
guistico-comunicativa, è un microcosmo che riassume in sé tutte le componen-
ti fondamentali della competenza comunicativa (Freddi 1999; Balboni 2002) 1.
Nonostante la competenza testuale sia teoricamente solo una delle componenti
della competenza linguistica, la produzione e la ricezione di testi compiuti pre-
suppongono anche competenze sia sul versante socioculturale che su quello
pragmatico-strategico: un buon testo si inserisce sempre in una compagine socio-
culturale a cui rimanda per una corretta interpretazione, oltre a essere costruito
secondo strategie di efficacia comunicativa che permettono al parlante di rag-
giungere lo scopo che si è prefisso al momento della comunicazione. Il concet-
to di testo supera dunque l’idea che la frase sia il punto di partenza di ogni stu-
dio sul linguaggio umano e sulle lingue naturali, anche se – è bene ricordarlo –
un testo può essere costituito da una sola frase, a patto che questa rispetti i requi-
siti che rendono un testo coerente e coeso e fanno sì che sia percepito come tale
dai parlanti.
Molti sono i tipi di testo che gli esseri umani possono produrre nelle loro
interazioni e la linguistica testuale si occupa allora di classificarli in una tipolo-
gia che a seconda degli autori può comprendere da cinque a otto tipi di testo;
1 Freddi paragona la competenza comunicativa a una serie di cerchi concentrici, ognuno dei
quali corrisponde a una sottocompetenza, mentre Balboni la rappresenta come un quadrato sud-
diviso in quattro triangoli formati dall’intersecarsi delle diagonali che identificano i vari «saperi»
che cooperano nella comunicazione. Si noterà che entrambi gli studiosi considerano comunque
i vari livelli della competenza comunicativa sullo stesso piano di importanza, riconoscendo a
ognuno di essi un ruolo determinante e non esattamente delimitabile all’interno di una comuni-
cazione efficace.
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PARTE II
tuttavia è oggi largamente riconosciuto che solo tre sono i tipi principali di testo
– narrazione, descrizione, argomentazione – che in quanto espressione dei tre
tipi basilari di pensiero umano sono di per sé universali e rintracciabili in tutte
le lingue-culture (Quercioli 2004).
Il rilievo attribuito al testo e alla testualità all’interno delle scienze del linguag-
gio ha rappresentato un notevole passo in avanti nella teorizzazione e nella pra-
tica di insegnamento e apprendimento linguistico, tanto che il Common European
Framework (Consiglio d’Europa 2001/2002), a tutt’oggi il più importante docu-
mento europeo contenente le indicazioni fondamentali nel campo della pedago-
gia linguistica, riconosce nel testo la base di ogni azione didattica (Vedovelli 2002).
In questo saggio ci occuperemo però di un unico tipo di testo, quello narra-
tivo, del valore cognitivo e formativo che alla narrazione viene attribuito dallo
psicolinguista statunitense Bruner e delle ricadute nell’ambito della pedagogia –
in particolar modo nel campo della pedagogia linguistica – di questa tesi; termi-
neremo poi delineandone le possibili applicazioni didattiche pratiche. Cerche-
remo di dimostrare come l’esposizione e il potenziamento della narrazione favo-
riscano lo sviluppo dei processi cognitivi sottesi all’apprendimento di una lingua
non materna consolidando in ultima analisi l’apprendimento linguistico stesso.
Infine, ci preme far notare che in questa sede saranno presentati i primi
risultati di una ricerca tutt’ora in corso, condotta su apprendenti giovani adulti
inseriti in un contesto di apprendimento dell’italiano come lingua seconda (L2),
iscritti a corsi di lingua offerti da istituzioni educative straniere con sede in Italia.
Dati i presupposti teorici che espliciteremo nei prossimi paragrafi, gruppi di
discenti alloglotti provenienti da realtà di studio universitario, sono stati espo-
sti ad alcuni generi narrativi per stimolare poi produzioni autonome. Nel corso
della trattazione faremo riferimento anche ad altri profili di apprendenti, tutta-
via si dovrà tenere presente che il campo di indagine riguarda prevalentemen-
te studenti adulti scolarizzati a livello superiore nel paese di origine, che si tro-
vano in Italia con l’interesse primario di studiarne la lingua. Questa ricerca si è
fino a ora limitata a individuare le possibili tecniche narrative da sfruttare in
classe e a valutarne l’impatto sul gruppo dei discenti in termini di motivazione
e sostegno di un maggior sviluppo dei processi cognitivi connessi all’appren-
dimento di una lingua seconda. Una ricerca più sistematica potrà chiarire
meglio i risultati fino a ora ottenuti e costituirà quindi lo scopo del lavoro futu-
ro. Il presente contributo dovrà essere pertanto considerato alla luce di questo
carattere di provvisorietà e limitatezza.
Quando nel 1972 Bruner si unì alla Scuola di Oxford, di cui faceva parte
anche Austin, i suoi studi si concentrarono sull’idea che il linguaggio è un feno-
meno sociale e per questo è essenzialmente un’interazione fra individui e non
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Bruner chiama quest’unità di comunicazione format, che definisce come una strut-
tura d’interazione standardizzata, inizialmente microcosmica fra un adulto e un
bambino, che contiene dei ruoli delimitati, che alla fine diventano reversibili
(Bruner 1983). Un format nasce nel momento in cui un contesto naturale viene
convenzionalizzato, ritualizzato con delle procedure ripetitive permettendo al bam-
bino di fare emergere dallo sfondo del flusso fenomenico dei segnali significativi
e stabili. Le azioni di ciascuno dei due partecipanti sono contemporaneamente
risposta e stimolo successivo, in un processo di influenzamento reciproco che per-
mette di creare forme sempre più evolute di cooperazione. Essi costituiscono il
principale veicolo attraverso cui è possibile rendere chiare le proprie intenzioni
comunicative e cogliere quelle altrui. Di conseguenza i format sono gli strumenti
fondamentali per il passaggio dalla comunicazione alla verbalizzazione poiché pos-
siedono una struttura sequenziale, una storia, implicano l’elaborazione di una
intenzione ed una attività interpretativa.
Nei suoi studi Bruner individua nello sviluppo del pensiero narrativo e di
conseguenza della narrazione, la modalità cognitiva attraverso la quale gli esse-
ri umani analizzano e organizzano, fin dai primi anni di vita, la loro esperien-
za e danno un senso agli eventi della propria vita mettendola in relazione con
il gruppo sociale di appartenenza. La «struttura sequenziale» che di per sé costi-
tuisce già una «storia» (Taddeo 2007: 3), tipica dei format e che caratterizza il
passaggio da comunicazione prelinguistica a verbale, è dunque il primo nucleo
intenzionale e interpretativo da cui si svilupperà in seguito il pensiero narrati-
vo e l’elaborazione narrativa delle vicende umane. Per lo studioso l’«atto di dar
conto di sé, almeno in termini brevi, è acquisito insieme all’acquisizione del
linguaggio» (Bruner 2008: 9).
Sulla scorta di questi suggerimenti teorici è facile riscontrare fin dalla prima in-
fanzia questa tendenza – che potremmo definire bisogno – alla narrazione e al-
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PARTE II
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struire la propria narrazione di sé; in questo processo di cura psichica molto spes-
so l’emergere di dettagli prima ignoti al paziente, che pur essendo presenti nella
propria storia personale non erano disponibili alla coscienza, determina un muta-
mento di rotta nella propria biografia tale da risultare terapeutico. In pratica è pro-
prio l’atto di modificare la propria storia personale alla luce di particolari nuovi,
che prima non erano stati presi nella dovuta considerazione, che risulta curativo,
in quanto risolve la sofferenza psichica dell’individuo. Monaco (2007: 5) conclu-
de infatti il suo saggio sul metodo biografico con queste parole:
Le strategie del metodo biografico descritte possono tornare utili tutte le volte che,
riflettendo su un problema per cui si cerca una soluzione, si desideri sperimentare
prospettive diverse esplorando nuove possibilità. L’utilizzo di un diario e la riscrittu-
ra autobiografica di uno stesso evento in diversi momenti e sforzandosi di assumere
diverse prospettive si prestano per chi voglia fare un’esperienza individuale delle tra-
sformazioni possibili con il metodo biografico e dei loro effetti. Pur trattandosi di un
confronto limitato a se stessi e non guidato, la riscrittura di esperienze di vita impor-
tanti può rivelarsi una tecnica per migliorare o ristabilire il contatto con se stessi.
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PARTE II
ti dal confronto con gli altri o con un’altra parte di sé. Questa idea ci sembra par-
ticolarmente feconda proprio per meglio definire a questo punto il ruolo della
negoziazione nel processo di narrazione e autonarrazione come definizione del
proprio Sé e di quello altrui. È proprio la capacità di decentrarsi, di distaccarsi da
se stessi, che consente di esercitare la necessaria apertura verso gli altri e verso
una pluralità interpretativa che sta alla base della negoziazione. Negoziare il signi-
ficato, infatti, come ben sanno gli esperti di comunicazione interculturale (Balboni
1999), comporta prima di tutto l’assunzione che la propria percezione della real-
tà non sia l’unica possibile e in seconda battuta che si possa rinunciare a qualco-
sa di proprio per accogliere la prospettiva altrui, in uno scambio comunicativo
che mira a ri-creare un significato al tempo stesso individuale e condiviso.
La costruzione del Sé – proprio e altrui – è dunque, per riassumere, un pro-
cesso «metacognitivo» (Bruner 2008) in quanto riguarda il processo di conoscen-
za di sé e dell’esperienza individuale nel mondo, che intenzionalmente si serve
della narrazione. Tale processo nasce nell’essere umano nel momento stesso in
cui si formano i primi scambi comunicativi, che per essere veramente proficui,
devono basarsi sul distanziamento e sulla negoziazione, intesi come atteggia-
menti e strategie comunicative che favoriscono il dialogo e la definizione del
significato. Nelle parole dello stesso Bruner (ibidem: 8):
La costruzione di sé è una ricerca prevalentemente metacognitiva, come una sorta
di riconsiderazione di un territorio familiare per inserirlo in una carta topografica
più generale. […]. In realtà […] la maggior parte delle volte non abbiamo bisogno
dell’aiuto di professionisti: la maggior parte delle volte ci aiutiamo l’un l’altro attra-
verso il processo del dialogo.
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PARTE II
mano una globalità inscindibile: il testo dipende dal contesto per poter essere
interpretato, ma la nominazione in realtà frantuma la percezione sensoriale ed
evidenzia la difficoltà di rendere in un sistema simbolico – il linguaggio – que-
sta unità che permette che l’esperienza sia interpretabile e condivisibile. La
testualità implica quindi la ricostruzione di una dimensione esperienziale ricon-
testualizzata tramite la lingua, attraverso la quale sono categorizzate e gerarchiz-
zate le informazioni; questo infine presuppone l’attivazione di processi cognitivi
indubbiamente specificamente funzionali alla produzione scritta, per le caratteri-
stiche implicite nell’utilizzo del codice scritto cui accennavamo poco sopra, ma
che si attivano e si potenziano in particolare proprio attraverso la pratica della
scrittura. In ultima analisi allora la narrazione e l’abilità di scrittura investono in
quest’ottica la dimensione semantica della lingua come strumento per la costru-
zione di significati funzionali alla definizione di sé come individui allo stesso
tempo «sociali e unici» (Brandi, a cura di, 2002).
Questo ci riporta agli studi sul pensiero narrativo di cui abbiamo parlato nel
paragrafo precedente; in effetti Brandi (a cura di: 15) 2 sottolinea che
2 Per l’uso del termine «narratizzare», cfr. Brandi, a cura di, 2002: 127.
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PARTE II
Nei quattro capitoli in cui si articola il saggio, l’autrice si occupa prima del-
l’importanza che la lingua riveste nel contesto sociale e per quanto pertiene alla
socializzazione dell’individuo, poi prende in esame come una lingua seconda
possa riguardare la costruzione dell’Io; in seguito considera il ruolo che specifi-
ci elementi interni ed esterni all’individuo possono rivestire nella costruzione del
Sé e infine discute sul modo in cui Io reale e Io ideale convergono nel proces-
so di apprendimento di una seconda lingua. In sintesi Pellegrino Aveni analizza
i «social and psychological factors that affect language learners’ spontaneous use
of a second language and the ways in which learners exploit and avoid sponta-
neous speaking opportunities» (Pellegrini Aveni 2005: 7). Pellegrino Aveni usa
per la sua ricerca la «Grounded Methodology Theory» (GMT) sviluppata da Strauss
e Corbin nel corso degli anni Novanta dello scorso secolo. Nel primo capitolo
del suo saggio, la studiosa motiva la sua scelta metodologica ricordando che è
stata ampiamente usata sia nel campo della psicologia clinica sperimentale e
dello sviluppo che in quello della sociologia; tuttavia questa metodologia è di per
sé vulnerabile all’interpretazione soggettiva per cui le conoscenze e l’attitudine
del ricercatore possono influenzare a più livelli l’interpretazione dei dati.
Questo studio rimane comunque rilevante ai fini del nostro discorso anche
perché è corredato da appendici in cui vengono esplicitati i criteri di ricerca e
la metodologia di riferimento, oltre a essere presentati i risultati dei questiona-
ri somministrati agli studenti e alcune parti del diario di bordo redatto dagli
allievi che hanno fatto parte dello studio, strumenti, questi, in particolare l’ul-
timo, il cui utilizzo in sede glottodidattica analizzeremo nel paragrafo successi-
vo del presente saggio.
Particolarmente interessante per quei docenti che operano in un contesto di
lingua seconda, la ricerca di Pellegrino Aveni offre innumerevoli occasioni di
riflessione a tutti coloro che insegnano una lingua non materna, soprattutto per
quanto riguarda certi atteggiamenti talvolta incomprensibili osservabili negli
apprendenti. Se l’apprendimento di una lingua altra influenza la costruzione e
la percezione di Sé, l’insegnante ha la responsabilità di far sì che questo pro-
cesso sia il più armonico possibile e vada verso l’integrazione della nuova lin-
gua all’interno del repertorio linguistico del parlante.
Quando l’apprendente non riconosce il processo di apprendimento come
sicuro per la propria immagine di Sé, se non si sente riconosciuto e accettato nel
nuovo mondo linguistico con cui sta cercando di interagire, qualora si senta sfug-
gire la situazione di mano, eviterà il più possibile di confrontarsi con tutto ciò
che la nuova lingua rappresenta. Il saggio di Pellegrino Aveni (2005) prende in
esame fino a che punto la gestione di questi fattori possa compromettere o favo-
rire lo sviluppo di una vera competenza comunicativa in L2 e offre agli insegnan-
ti importanti suggerimenti per prevenire e riconoscere l’instaurarsi di situazioni
psicologiche che possono compromettere il processo di insegnamento-apprendi-
mento linguistico. In altre parole il confronto con una nuova realtà linguistico-
culturale pone il discente in una situazione psicologica di fragilità dell’Io perché
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PARTE II
Vedremo adesso come l’uso didattico di alcuni generi narrativi può portare
gli studenti a riflettere e ad assumere una nuova consapevolezza di sé rispetto
al processo di apprendimento linguistico.
Tutti i generi narrativi – anche i più elementari, come quelli prodotti da
bambini in età prescolare – sono caratterizzati da un processo gestaltico che
mette insieme, collega somiglianze e differenze attraverso il tempo e lo spazio
per produrre legami con esperienze passate (Steinbock 2007). È noto che la
moderna glottodidattica ha basato l’elaborazione dei propri strumenti operati-
vi sul modello gestaltico di globalità-analisi-sintesi-riflessione (Balboni 2002;
Vedovelli 2002): la pratica costante della narrazione allora rinforza e affina que-
sto processo conoscitivo che il discente mette in atto quando l’insegnante lo
confronta con un testo, sia orale che scritto. Si potrà obiettare a questo punto
che l’esposizione e ancor più la produzione di testi narrativi richiede una certa
padronanza della lingua seconda il che ne sconsiglia l’utilizzo ai primi livelli di
apprendimento linguistico. In realtà sia lo studio di Brandi (a cura di, 2002) che
quello di Steinbock (2007), dimostrano che forme elementari di narrativa, po-
tremo dire generi semplificati, come elenchi e descrizioni la cui struttura testua-
le piuttosto libera è caratterizzata dalla coordinazione piuttosto che dalla subor-
dinazione, sono rintracciabili anche nelle produzioni di bambini in età presco-
lare e solo in seguito, quando la maturazione cognitiva e linguistica raggiungo-
no livelli soddisfacenti, evolvono in storie vere e proprie 3. I giovani adulti che
questa ricerca prende in considerazione, dovrebbero aver raggiunto il livello
ottimale di sviluppo rispetto alle funzioni cognitive inerenti alla narrazione,
mentre la competenza linguistico-comunicativa potrebbe essere ancora ai primi
stadi di apprendimento, ma la considerazione che generi narrativi basilari come
3 In particolare Steinbock (2007: 24), citando Heath (1986) e riferendosi ad apprendenti bambi-
ni, identifica «4 basic types of narratives. Three of them are genres for reporting factual scena-
rios over time. They include recounts, eventcasts and accounts. Stories, the forth type, are fictio-
nalized account of animate beings engaging in goal-directed behavior». Le storie sono dunque il
tipo di narrativa più evoluto, mentre recounts e accounts sono forme più elementari come le
elencazioni; gli eventcasts invece, di cui un esempio è la preparazione di una recita scolastica,
sono prodotti per ottenere qualcosa, come appunto che un certo allievo, dopo un’adeguata spie-
gazione, interpreti al meglio un certo ruolo.
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4 Contesto e cotesto, insieme al paratesto sono fondamentali per definire la situazione comuni-
cativa in cui il testo viene prodotto e di conseguenza per attivare i processi di anticipazione o
expectancy grammar (Balboni 2002) che permettono di fare ipotesi sul testo con cui ci si con-
fronterà e quindi lo rendono accessibile. La definizione di questi elementi della comunicazione
è automatica e inconscia nella comunicazione in L1, mentre deve essere esercitata in L2/LS. In
particolare la nozione di paratesto rimanda a tutto ciò che sta intorno a un testo, come fotogra-
fie, grafici, disposizione in paragrafi, che consentono di identificare il genere testuale rapidamen-
te. Il contesto, o più propriamente il «contesto situazionale» (Balboni, 1999b) fa sì che si identi-
fichino le coordinate essenziali dell’evento comunicativo, come numero e ruolo dei parlanti,
luogo fisico, scopo della comunicazione. A sua volta il cotesto permette per esempio di «disam-
biguare parole omofone ([…] la parola “corso” in “Jean è corso, viene da Ajaccio”, “il sindaco di
Ajaccio è corso all'aeroporto” e “ho frequentato un corso ad Ajaccio”» (Balboni, 1999b, voce co-
testo) e quindi comprende quello che c’è intorno a un testo in termini più strettamente linguisti-
ci, anche se spesso viene assimilato al contesto.
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PARTE II
in cui l’artista descrive la fusione della celebre statua del Perseo. Come esercizio
orale dei tempi passati, gli studenti hanno poi ricostruito il mito di Perseo e dopo,
davanti alla statua del Cellini, hanno raccontato cosa suscitava in loro quest’ope-
ra d’arte, che prima di questo momento avevano appena notato. Come lavoro
domestico in seguito è stato domandato loro di scrivere un breve componimen-
to autobiografico su un momento particolarmente importante della loro esperien-
za in Italia. Infine abbiamo chiesto, come ulteriore compito a casa, di scegliere
un’opera d’arte fra le molte disponibili nel tessuto cittadino e di provare a descri-
vere le emozioni che questa produceva osservandola con attenzione e documen-
tandosi adeguatamente su di essa in modo da capirla meglio. Dopo una fase di
narrazione orale, gli apprendenti erano invitati a produrre una descrizione scrit-
ta delle loro emozioni. Questa attività ha notevolmente aumentato anche la con-
sapevolezza degli studenti rispetto alla ricchezza culturale dei luoghi che visita-
vano, come è stato notato nei racconti dei viaggi fatti nel fine settimana, attività
che caratterizza l’inizio della settimana di studio. Quest’ultima attività narrativa ha
sfruttato in termini di acquisizione linguistica e sviluppo della consapevolezza e
responsabilità degli apprendenti, una tendenza più volte lamentata come negati-
va nei discenti giovani adulti inseriti in programmi universitari in Italia: quella di
dedicarsi più a una frenetica serie di gite di piacere che a una vera integrazione
linguistico-culturale nella realtà che li ospita. Questi racconti hanno inoltre favo-
rito la circolazione di informazioni per l’organizzazione dei viaggi che ha fatto
ritenere, come vedremo più avanti, questa attività utile e motivante. Con questo
specifico esercizio ai discenti è stato in pratica richiesto di narratizzare uno sti-
molo visivo, il che ha permesso loro di vedere la realtà circostante con occhi
diversi e di entrare dentro a un mondo di esperienze sensoriali che fino a quel
momento avevano almeno in parte ignorato, arricchendo così la loro esperienza
linguistico-culturale.
Nella fase di riflessione sulla lingua agli apprendenti sono state poste do-
mande stimolo che inducessero a riflettere sul valore comunicativo delle strut-
ture morfosintattiche in esame. In pratica è stato chiesto alla classe di esplicita-
re il messaggio contenuto in certe forme linguistiche, incoraggiando poi a riflet-
tere su come lo stesso significato venisse veicolato nella lingua madre, favoren-
do così l’analisi contrastiva fra lingua in apprendimento e L1. Riferendosi al
testo input dell’unità di lavoro, agli allievi venivano poste domande del tipo:
«Cosa si voleva esprimere con l’utilizzo di questo tempo?» e dopo la discussio-
ne veniva chiesto: «Come esprimereste questo nella vostra lingua? Con quali
forme?». In questo modo i discenti erano spinti ad analizzare il contenuto oltre
alla forma di una determinata struttura grammaticale, negoziando attraverso la
discussione un significato condiviso.
Un discorso a parte merita la stesura sistematica, una volta ogni due settima-
ne, di una composizione della lunghezza minima di 250 parole nella prima set-
timana aumentando di 50 parole a settimana, riguardante l’autovalutazione dei
progressi fatti nell’acquisizione della lingua. Questa attività ha costretto a una
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PARTE II
riflessione personale proprio nei termini indicati nel saggio di Pellegrino Aveni
(2005) mettendo in luce, soprattutto per l’apprendente stesso, le difficoltà e le
strategie di compensazione messe in atto, oltre a permettere all’insegnante di
intervenire in maniera appropriata all’interno di un lavoro individualizzato.
Ci si chiederà a questo punto come vengano valutate le produzioni degli ap-
prendenti in merito alla correttezza formale: la correzione degli elaborati, sia
scritti che orali, viene di solito fatta sia all’interno di un lavoro individualizzato
che guida l’apprendente verso l’autocorrezione, che nell’ambito del lavoro di
gruppo. In questo ultimo caso l’insegnante compone un testo narrativo in cui
vengono organizzati tutti gli enunciati linguisticamente problematici prodotti
dagli studenti; questo testo viene poi proposto alla classe che dovrà scoprire e
correggere gli errori attraverso una serie di ipotesi verificate con il gruppo stes-
so e con il docente. Questa tecnica – che gli studenti stessi hanno denominato
«testo Frankestein» – permette prima di tutto di non singolarizzare nessuno in par-
ticolare e in secondo luogo di sviluppare l’autocorrezione sostenendo così, in
ultima analisi, lo studio individualizzato, oltre a favorire la collaborazione e la
pratica della negoziazione.
Possiamo dunque asserire sintetizzando il presente paragrafo, che l’utilizzo
dei generi narrativi fatto nell’ambito della presente ricerca ha riguardato l’uni-
tà di lavoro in quasi tutte le sue fasi e ha permesso un uso più creativo e per-
sonale delle principali funzioni comunicative (Balboni 2002): da quella perso-
nale esercitata nei racconti autobiografici a quella referenziale impiegata nel-
l’ascolto attivo, fino a quella immaginativa nella descrizione di emozioni e me-
talinguistica nella riflessione linguistica.
5. Conclusioni
Alla fine di ogni attività narrativa, agli studenti è stato proposto un breve
questionario valutativo come quello presentato sotto:
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– cioè superabile – è determinante per il buon esito del lavoro didattico. In gene-
rale tutti hanno risposto affermativamente alla domanda numero (4).
La presente ricerca, fino al momento attuale, si è occupata prevalentemente
di valutare l’impatto didattico che le tecniche narrative potevano avere in termi-
ni di gradimento, di consapevolezza e responsabilizzazione del discente e infi-
ne rispetto allo sviluppo delle funzioni cognitive che sostengono l’apprendi-
mento linguistico. Ci proponiamo quindi di proseguire il lavoro con una ricerca
più sistematica che raccolga e analizzi le produzioni narrative degli apprendenti
per rendere conto dei loro progressi e prenda in esame la risposta didattica di
altri profili di apprendenti adulti, per esempio comparando i dati ottenuti in un
gruppo monolingue con quelli inerenti un gruppo di controllo eterogeneo e
plurilingue. Ci riserviamo quindi di definire meglio la parte più strettamente spe-
rimentale di questo lavoro e di presentare in futuro risultati auspicabilmente più
definitivi.
Riferimenti bibliografici
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PARTE II
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Con l’inizio del nuovo secolo il tema dell’apprendimento della lingua italia-
na da parte degli stranieri immigrati si pone con urgenza: enti e associazioni, in
collaborazione con università, sono dunque mobilitati nella proposta di nuove
metodologie e corsi di formazione.
Una delle tendenze più diffuse è quella glottodidattica che, già dall’ultimo
quarto del secolo scorso, si è dotata di un impianto marcatamente sociolingui-
stico. Tale metodologia si fonda sull’idea che, per essere produttivo e motivan-
te, l’insegnamento della lingua debba essere orientato alla realtà esterna alla
classe. I compiti in cui gli apprendenti sono impegnati per acquisire e raffor-
zare le competenze linguistico-comunicative vengono così modellati su quelli
che si trovano a svolgere fuori della classe: reperire informazioni da fonti diver-
se scritte e orali, prendere decisioni a partire da queste informazioni, discute-
re i pro e i contro in situazione informale, presentare se stesso in un colloquio
di lavoro, reagire linguisticamente a messaggi espressi in codici non linguisti-
ci. Il ponte tra l’apprendimento guidato e controllato nella classe e la comples-
sità della comunicazione nelle situazioni esterne alla classe è costituito dal
ricorso sistematico, da un lato, ai documenti autentici come input per lo studio
della lingua, dall’altro all’esperienza stessa degli apprendenti, che sono invitati
costantemente a confrontare e condividere conoscenze, esperienze, riflessioni,
valutazioni, emozioni sia riguardo ai contenuti tematici sia riguardo ai mezzi
linguistici per trattarli.
Questo impianto sociolinguistico, in tempi più recenti, è stato frequente-
mente integrato da tutte quelle metodologie che gravitano nella vasta letteratu-
ra dell’apprendimento cooperativo. Esse cercano di favorire il più possibile la
cooperazione tra corsisti, attraverso diverse proposte didattiche che tengono
conto della letteratura sull’argomento: attività di brain-storming nelle fasi di
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PARTE II
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2. Acchiappare farfalle
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PARTE II
mondo reale. Il problema è senza dubbio anche teorico e come tale va affron-
tato prima di renderlo operativo.
Senza questo legame con la realtà, due parlanti non avrebbero probabilmente
nulla da dirsi, scambierebbero semplici messaggi di contatto, formule di cortesia
per esempio, o poco più. Torna alla memoria l’inconcludente parlare di Vladimiro
ed Estragone in Aspettando Godot di Beckett che si riassume nell’attesa di qual-
cosa di indefinito e impalpabile.
Chi ha letto quell’opera avrà provato un senso di vuoto e avrà sfogliato ner-
vosamente le pagine per sapere quello che in tanti si sono chiesti: nel finale
accadrà qualcosa di concreto? Questo senso di inadeguatezza e questa curiosi-
tà di conoscere il finale si collega al nostro status di “animali sociali”: ogni orga-
nizzazione sociale, in qualunque regione del mondo essa esista, ha esigenze di
tipo pragmatico e il linguaggio diventa strumento indispensabile per fissare,
definire, classificare la realtà. Il linguaggio può fare ciò attraverso il concetto,
che è la rappresentazione in parole del modo in cui il nostro pensiero vede le
cose del mondo.
È a questo punto che vorrei introdurre il pensiero che Adorno esprime nella
sua Dialettica negativa 2. L’autore non dubita affatto che un accesso immedia-
to alle cose debba passare attraverso i concetti, ma mette in evidenza un’uto-
pia: le parole non possono rappresentare le cose reali e quanto più il linguag-
gio cerca di attaccarsi alla realtà, tanto più se ne allontana. In altre parole: inve-
ce di mostrare le cose, le nasconde. Il vero non si può rinchiudere in un nome.
La ragione di questa affermazione è intuitiva: la realtà è multiforme è com-
plessa e il dato complesso non può essere ridotto al dato semplice. E un nome
è un dato semplice. Per rendere ulteriormente più comprensibile il pensiero di
Adorno vorrei fare un esempio. Esisteva un tempo un attrezzo oggi caduto in
disuso: l’acchiappafarfalle. Ogni bambino ne possedeva uno e quando insegui-
va una farfalla non lo faceva per farle del male, ma per un gioco che consiste-
va nell’indovinare qualcuna delle sue imprevedibili traiettorie. La farfalla così
catturata sarebbe poi stata liberata e magari seguita, con lo sguardo, nel suo
vagabondare per cieli lontani. L’adulto più smaliziato le farfalle invece le inse-
gue per la sua collezione, nella quale queste ultime verranno appuntate con
appositi spilli: ma anche per lui, di fronte a quell’imprevedibile volo, la cattu-
ra non sarà semplice. Ecco, catturare le cose con dei nomi è un esercizio non
molto dissimile da quello di chi inutilmente si sbraccia con in mano un ac-
chiappafarfalle. In più, il linguaggio è un acchiappafarfalle a maglie larghe che
le farfalle possono agevolmente attraversare.
Certamente, per poter esercitare un controllo sulla realtà serve anche un uso
«denotativo» del linguaggio: in economia, per esempio, il termine «partita dop-
2Cfr. T. W. Adorno, Negative Dialektik, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1966 [trad. ita. Dialettica
negativa, Torino, Einaudi, 1970].
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pia» indica un metodo contabile molto preciso ideato da un frate, con buone
propensioni per la matematica, nel 1494. In questo caso disponendo di una
rappresentazione univoca del concetto, potremmo dire che una farfalla è fini-
ta nella rete. Ma in generale dobbiamo dire che sulla realtà e, quindi, sul volo
delle farfalle, non sappiamo alcunché, per non dire: niente. Ciò non può che
suscitare l’ira degli scienziati occidentali e, non per caso, gli studiosi dell’istitu-
to britannico Rothamsted Research hanno ipotizzato che il girovagare apparen-
temente senza meta delle farfalle segua in realtà un percorso ben prestabilito,
in base al quale i voli in circolo sembrerebbero aiutarle a trovare il cibo o la
via di casa.
Adorno non avrebbe alcuna difficoltà ad augurare buona fortuna agli stu-
diosi in questione, ma metterebbe loro in guardia sul rischio di un fallimento:
non è necessario pensare che il linguaggio debba per forza instaurare un lega-
me diretto con la realtà. Il linguaggio non è solo denotativo, può essere anche
«espressivo»: quest’ultimo parla di se stesso, è separato dal mondo reale. In quali
circostanze ciò può avvenire? Per esempio nella dialettica, che raccoglie l’eredi-
tà della retorica.
Ci si può domandare: ma il gioco dialettico è qualcosa di fine a se stesso?
Se così fosse, non c’è il rischio di un ritorno al vuoto peregrinare dei personag-
gi di Beckett?
Questo rischio non c’è: Adorno lo dice chiaro. Egli sottolinea come, parados-
salmente, sia proprio la varia e mutevole coloritura del linguaggio espressivo a
restituire meglio di ogni altra esperienza la multiformità del reale. L’apparente
lontananza del linguaggio dalla realtà diventa allora una vicinanza, maggior-
mente ci allontaniamo dal mondo reale e più ci avviciniamo a esso. Sono pro-
prio bambini e ragazzi a fornirci, con le loro riflessioni, un esempio di ciò stia-
mo dicendo. Riflettendo sul concetto di «divisione» in ambito matematico, sulla
base del grafico a torta che la maestra aveva poco prima disegnato alla lavagna,
Abdul, che frequenta la seconda elementare e vive in Italia da più di un anno,
ha avuto un dubbio: «Maestra, ieri lei ha diviso due miei compagni perché liti-
gavano, però non li ha tagliati a metà!». Il dubbio, che ha mandato in crisi il gra-
fico a torta, ha reso evidente che la divisione non è solo un’operazione mate-
matica e il suo risultato non è sempre un frazionamento.
Un secondo esempio si riferisce a una parola, anzi un verbo, che usiamo
spessissimo: fare. Ovunque ci troviamo facciamo qualcosa e anche nel riposo
possiamo «fare» un lungo sonno. Un giorno una maestra incontra, nei campi
adiacenti a un piccolo paese di contadini, la piccola Laura, che tira una recal-
citrante mucca verso le stalle: «Dove vai, piccola Laura?» – chiede la maestra.
«Buongiorno signora maestra, sto portando la mucca al toro». La maestra, che
evidentemente trovava sconveniente che una bambina facesse ciò, chiede: «Oh,
ma non poteva farlo tuo padre?». «No signora maestra – risponde la bambina –
ci vuole proprio il toro!». Quel verbo «fare», insomma, identificava nella mente
dei due parlanti, eventi assai diversi.
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PARTE II
PARTE II
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PARTE II
ritmo? Che cosa è una pausa? In Italia e nel tuo paese di origine, quali segna-
li o rumori scandiscono il tempo della vita quotidiana? In Italia e nel tuo paese
di origine, quali ritmi e quali pause ha o ha avuto la tua giornata?
Potrebbe non essere un orologio l’oggetto destinato a svolgere un ruolo di
pretesto per esplicitare una discussione sulle pause, ma anche la musica potreb-
be, per esempio, svolgere una funzione analoga. In questo caso si potrebbe mo-
strare l’immagine di un tamburo ed elaborare conseguentemente delle doman-
de, predisposte secondo i criteri utilizzati per l’oggetto «orologio».
La conclusione di questa prima parte di lavoro può portare inoltre alla defi-
nizione di un primo vocabolario lessicale: «tamburo», «ritmo», «pausa», «orologio»,
«tempo», «ticchettio», «scandire», «battere», «trascorrere».
• La chiave d’accesso
Siamo giunti al momento di introdurre la cosiddetta «frase topica», che può
anche essere considerata una “chiave d’accesso” al mondo della lingua, oppu-
re un anello di collegamento tra l’esperienza reale e la sua rappresentazione
verbale. In questo caso, una delle possibili chiavi d’accesso sarà: anche la lin-
gua come la nostra vita ha un respiro e un ritmo fatto di pause forti e deboli.
• La stanza della lingua
È il momento di entrare nel linguaggio, di fare dei tentativi, di provare a com-
prendere il diverso ruolo che può assumere la punteggiatura, fornendo delle frasi
in cui essa è da inserire senza uno schema prefissato: le soluzioni possono infat-
ti essere molteplici, ognuna darà alla frase sfumature diverse, talvolta impercetti-
bili, altre volte più marcate. È inoltre importante che le frasi siano afferenti a un
tema comune perché il contesto in cui sono inserite è anch’esso influente: l’astra-
zione e la decontestualizzazione non favoriscono infatti l’apprendimento lingui-
stico. Le frasi seguenti parlano dunque di Giovanni, un giovane studente e
appassionato di calcio. Le frasi sono prive di punteggiatura, ogni alunno può
provare a inserirla: finito l’esercizio sarà importante confrontarsi per vedere come
ognuno l’ha utilizzata, al fine di riflettere sia sugli usi palesemente errati, sia sulla
molteplicità degli usi corretti e del relativo variare dei significati:
Giovanni andando allo stadio ha vissuto diverse emozioni: eccitazione tensione
paura e alla fine gioia per la vittoria della sua squadra
Giovanni è un grande tifoso di calcio gli piacerebbe molto andare allo stadio
Giovanni è felice è andato allo stadio con suo padre
Sapete dov’è andato ieri Giovanni Riuscite a immaginare la sua gioia
Finalmente Giovanni è andato allo stadio Chissà come sarà felice
Giovanni è andato allo stadio vi lasciamo immaginare la sua felicità
Giovanni questa mattina ha detto «Ieri sono andato allo stadio» Finalmente
Giovanni – un grande tifoso di calcio – è andato allo stadio
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no mi disse che il punto lo usava quando una frase gli sembrava “troppo piena”.
Ho ripensato così alla Tragedia di una virgola di Rodari 3: «C’era una volta / una
povera Virgola / che per colpa di uno scolaro / disattento / capitò al posto di un
punto / dopo l’ultima parola / del componimento. / La poverina, da sola, / dove-
va reggere il peso / di cento paroloni, / alcuni persino con l’accento / […]».
Ma altrettanto interessanti sono i significati che i bambini riescono ad assegna-
re alla punteggiatura. Da loro ho imparato molto. Victor per esempio affermava
che nella frase «Giovanni è andato allo stadio vi lasciamo immaginare la sua feli-
cità» dopo la parola «stadio» occorre un «punto fermo». Perché Victor? Perché, mi
rispose, da lì inizia qualcosa di nuovo, si poteva guardare avanti con più ottimi-
smo, la tristezza lasciava il posto alla gioia. Il punto era diventato un PUNTO DI
VISTA, da cui guardare oltre e immaginare il discorso che seguirà, le nostre paro-
le future. Per qualcun altro «mettere un punto» significava fare un bilancio di tutto
ciò che è stato e lo sguardo diventava così retrospettivo, il «punto» diventava così
un PUNTO DELLA SITUAZIONE. Una bambina cinese ha detto che il «punto» è per lei
una stella, quest’ultimo diventava così un PUNTO DI RIFERIMENTO. Nella vita è indub-
biamente importante avere «punti di riferimento», a volte occorre invece fare un
bilancio di ciò che è stato, fare il «punto della situazione» oppure guardare oltre
secondo un nuovo «punto di vista». Nelle parole di questi bambini ho ritrovato
una nuova grammatica, e non importa se essi erano ancora sprovveduti lingui-
sticamente perché le regole della nuova lingua erano ormai, o già, dentro di loro.
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PARTE II
significato del verbo «unire», sulla sua ambiguità, sul fatto che possa essere inte-
so sia nel senso di «mettere insieme», sia nel significato di «collegare», «attacca-
re due parti diverse». La conclusione fu che le congiunzioni non congiungono
davvero, due proposizioni non possono entrare una dentro l’altra, non intesso-
no un’unica tela, i nomi dell’una non possono fidanzarsi con quelli dell’altra.
«Non solo non uniscono davvero – proseguì un altro studente – ma addirittura
separano». Come separano? Considerammo che il «ma» contrappone il significa-
to delle nostre parole, le allontana: «Vorrei ma non posso!». Ce n’era abbastan-
za per chiudere le nostre inutili grammatiche scolastiche e per tornare a casa
consapevoli, noi insegnanti, di avere imparato qualcosa.
Oltre alla colla, potranno anche essere mostrati altri significati: una unio-
ne è anche un’amicizia, esiste una «unione matrimoniale», i parenti possono
anche essere chiamati i «congiunti» ecc. Sono tutte immagini che, al di là di
qualsiasi descrizione formale che un alunno straniero non capirebbe, resti-
tuiscono il senso più profondo del ruolo che le congiunzioni nella lingua ita-
liana. Una dodicenne di origine serba, Besmira, disse di aver fatto conosce-
re a una sua amichetta un ragazzino della sua classe, i due si erano poi fidan-
zati: «Mi sento un po’ come quella congiunzione “e” che è stata scritta sulla
lavagna – disse quella ragazza». «Sì, sei proprio tu quella congiunzione»,
avrebbe voluto dire l’insegnante. Fu a quel punto che un ragazzino peruvia-
no suggerì che per Besmira sarebbe stata più appropriata, alludendo alle sue
forme tondeggianti, la lettera «o». Quei ragazzi avevano capito benissimo il
significato profondo delle congiunzioni della lingua italiana.
Ecco alcune domande che possono incoraggiare la riflessione e la discussio-
ne: A cosa serve un bullone? Cosa si può unire con un bullone? Quali altri
oggetti servono per unire? Unire e congiungere hanno lo stesso significato?
• La chiave d’accesso
Aprire la porta del linguaggio significa in questo caso cercare una definizio-
ne che, in base alle discussioni dell’anticamera, sia sufficientemente duttile, per
esempio: la congiunzione è quell’elemento grammaticale che permette di “avvi-
cinare” parole e frasi, di porle una vicina all’altra. Così vicine, possono finire
per litigare indubbiamente, ma così è la convivenza umana: se ognuno vives-
se per conto suo, non esisterebbe la società.
• La stanza della lingua
Per iniziare un lavoro sulle congiunzioni occorre inizialmente fare una scel-
ta. Per cominciare, si potrebbe suggerire di utilizzare la «e», la «o» e il «ma» e for-
nire una serie di frasi in cui inserire una congiunzione:
Due amici si incontrano per strada/si salutano
Uno dei due ha preso una decisione/l’altro non era d’accordo
Essi non sapevano se andare al mare/in montagna
Alla fine hanno scelto la montagna/sono partiti
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PARTE II
dorsale. Trovare il legame che unisce un nome a un pronome sarà uno dei passi
più importanti nell’apprendimento della nuova lingua.
Ecco alcune domande che potranno servire per cominciare: che cosa signifi-
ca «sostituire»? Ti è mai capitato di sostituire qualcosa? Per quale ragione si sosti-
tuisce? Che cosa è una maschera? Quando si indossa una maschera? Per quale
motivo?
• La chiave d’accesso
Nella lingua accade spesso di dover sostituire una parola (un nome) con
un’altra (un pronome). Senza tale sostituzione, i nostri discorsi si riempirebbe-
ro di ripetizioni e si allungherebbero a dismisura, fino a perdere del tutto il loro
significato. Il pronome permette dunque di fare economia, di consumare meno
spazio, meno pagine di quaderni e di libri, nello stesso tempo, di rendere più
chiaro il significato delle nostre parole.
• La stanza della lingua
Tra le diverse tipologie di pronome che affollano le nostre grammatiche c’è
quella dei «pronomi personali», il cui uso è frequentissimo tanto nella scrittura
quanto nell’oralità. Essi sono, normalmente, considerati un punto di partenza
nello studio delle forme pronominali. Qualcuno potrebbe chiedersi come mai
si definiscono «personali»: perché sostituiscono nomi di persona, si potrebbe
rispondere. Se non fosse che, un giorno, un bambino disse che «esso», «essa»,
rappresentano le cose: «Mi hanno regalato un pallone, esso aveva colore rosso».
Dunque, perché si chiamano «personali» pronomi che prendono il posto di
oggetti? Ogni volta che si parla con i bambini, ci si accorge che i libri di gram-
matica sarebbero tutti da riscrivere.
Un utile esercizio consiste nella ricerca, all’interno di un periodo, dei pro-
nomi e dei nomi cui essi fanno riferimento. Il collegamento tra nomi e prono-
mi potrà essere visualizzato da righe o frecce che sorvolano le parole, le attra-
versano, tessono la ragnatela del nostro discorso.
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– Che sì, ognuno di noi è diverso ma quando pensiamo, ecco, pensiamo tutti
assieme nello stesso modo.
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PARTE II
Singolare Plurale
Caso 2 papà papà
– In questo caso cosa notate?
– Che la parola è la stessa mentre prima la «o» del singolare diventava «i» al plurale.
– E questo cosa significa?
– Che non possiamo più sapere se si parla di un papà o di tanti?
– Questo mi sembra un bel guaio. Normalmente il papà è uno solo, ma cosa suc-
cede se tanti papà dovessero riunirsi insieme per parlare dei loro figli?
– Beh… in questo caso diremo che i papà sono tanti!
– Bene, mi sembra una soluzione adeguata. Ce ne sono anche altre di soluzioni,
ma non di queste parleremo adesso. Dunque come potremo definire questa
parola che si presenta uguale al singolare e al plurale?
– Che non cambia… che non varia…
– Che non varia: dunque possiamo parlare di INVARIANZA. Ma è la forma o il conte-
nuto che non cambia?
– La forma, le lettere usate sono le stesse.
– Va bene, dunque parleremo di INVARIANZA FORMALE.
Singolare Plurale
Caso 3 – nozze, ferie
– E ora cosa succede?
– C’è solo il plurale!!!
– Perché? Sapete cosa sono le «nozze»?
– Sono quando ci si sposa.
– Ma la parola è plurale, quando volte ci si sposa?
– Una sola!
– E allora perché la parola è plurale?
(Silenzio)
– Se volete ve lo dico, altrimenti andiamo avanti.
– No, no, ce lo dica.
– Anticamente, in occasione di un matrimonio, si svolgevano tante feste, cerimo-
nie… e le nozze erano l’insieme di tutte queste cerimonie. I romani chiamava-
no questi nomi «pluralia tantum».
– In italiano vuol dire «soltanto il plurale»?
– Esatto, soltanto il plurale. E quindi come chiamiamo questi nomi?
– Esiste solo il plurale quindi è un caso di UNICITÀ AL PLURALE!
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Singolare Plurale
Caso 4 sangue –
– E adesso?
– Ma è il contrario di prima! Questa è bella!
– Proprio così, esiste solo il singolare.
– Professore…
– Dimmi Abdul.
– … è un po’ strana la vostra lingua, non c’è un caso uguale all’altro!
– Hai ragione, ma tutte le lingue sono strane, sai.
– Non avevo mai guardato le parole da vicino, io le uso e non ci penso. Ma ora
che le vedo, anche nella mia lingua, l’arabo, le trovo tutte diverse.
– Dici bene, basta fermarsi a guardare le parole che usiamo, è un po’ come se
tu aprissi una finestra chiusa e guardi dentro per vedere cosa c’è.
– Il sangue è uno solo?
– Sì, è uno solo, per quanto abbia caratteristiche diverse. Se prima avete usato la
parola «unicità al plurale», possiamo parlare in questo caso di UNICITÀ AL SINGOLARE?
– Sì.
Singolare Plurale
Caso 5 vento venti
– Il vento.
– Il vento è forte, ti porta via.
– Vi piace lasciarvi trasportare dal vento?
– I vestiti si gonfiano e le foglie volano tutto attorno.
– E i venti? Quanti venti ci sono?
– Alcuni vengono dal mare, altri dalla montagna.
– Vi ricordate i nomi dei venti?
– No.
– Non importa. Incontrate spesso la parola «venti»?
– Ma sì!!! Venti è anche un numero.
– Esattamente. In questo caso abbiamo allora due parole e tre significati, come
facciamo?
– Venti possono gli euro da spendere, venti i minuti che rimangono per parlare
di grammatica… venti di guerra sono quelli del golfo.
– Come chiamiamo questi nomi?
– PLURISIGNIFICANTI?
– PLURISIGNIFICANTI.
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PARTE II
Singolare Plurale
Caso 6 pesca pesche
– Cos’è la pesca?
– La pesca alla trota!!!
– Tutto qui?
– Ma no, è anche un frutto, a me piace zuccherata.
– E le pesche?
– Le pesche sono solo frutti.
– Anche in questo caso abbiamo dunque tre significati solo che, a differenza del
caso precedente, qui due di essi sono per il singolare, mentre il plurale ne ha uno
solo.
– Buffo però, la stesse parola significa cose completamente diverse! Come si fa –
chiede Abdul – a sapere qual è quella giusta?
– Si fa, che non vi basta più quella parola, dovete allargare lo sguardo.
– Allargare lo sguardo?
– Certo, di solito le parole si usano sempre da sole?
– Ma no, le parole sono dentro le frasi.
– Appunto, e dentro una frase ci sono altre parole, dico bene?
– Sì.
– Dunque provate a guardare anche le altre parole: se una di queste fosse «giardi-
no», la pesca di cui parliamo cosa sarebbe?
– Un frutto! I pescatori non vanno nei giardini…
– … e le pesche non vanno in acqua.
– Tranne quando le laviamo prima di mangiarle.
– Certamente, ma in questo caso la prendete voi stessi con le vostre mani, non
la pescate.
– Allora è solo con la fantasia che potremo scrivere un racconto dal titolo «La
pesca pescata»?
– Il titolo è molto bello ma ci vuole molta fantasia, voi ne avete tanta e quindi
potete provarci.
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Singolare Plurale
Caso 7 pasta paste
– A voi piace mangiare la pasta?
– Siiii, ma preferiamo le paste!
– Come sarebbe a dire, le paste?
– La pasta la mangiamo tutti i giorni, le paste invece sono dei dolci e possiamo
mangiarle solo quando i genitori ce le comprano.
– Ma allora «paste» non è il plurale di «pasta»?
– No, sono due cose diverse!
– C’è differenza rispetto a «gatto» e «gatti»?
– Sì, perché in quel caso la parola si riferisce sempre allo stesso animale, qui inve-
ce si riferisce a cose diverse.
– Volete dire che nel passare dal singolare al plurale, la parola «pasta» cambia?
Perde un significato e ne acquista uno nuovo?
– Sì, è questo che volevamo dire, come è strana questa cosa?
– E allora come potremo chiamare questo nuovo caso?
– Il significato della parola cambia, quindi DIFFERENZA DEL SIGNIFICATO.
Singolare Plurale
Caso 8 muro muri, mura
– Per concludere, consideriamo la parola «muro», cosa notate?
– Che ci sono due plurali!
– Esatto, e che differenza trovate rispetto ai casi 5 e 6?
– Uhmmmm, è difficile da dire.
– «Pesca» è una parola, giusto?
– Sì.
– E quanti significati ha?
– Due, è un frutto ma può essere anche un lavoro da marinai!
– In questo plurale invece le parole quante sono?
– Due.
– E i significati?
– Uno solo! Ma allora è il caso contrario!
– Sì, è il caso contrario anche se il significato non è esattamente lo stesso, ma
diciamo che, sì, è quasi simile. Cosa sono i muri?
– Quelli delle case.
– E le mura?
– Le mura sono più grandi, anticamente tutte le città le avevano, l’abbiamo stu-
diato in storia. Questo è dunque un DOPPIO PLURALE, lo chiamiamo così?
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PARTE II
In questo lungo dialogo, sono stati esplorati alcuni casi, otto per la precisio-
ne, e gli allievi hanno cercato di trovare un senso nel vasto mare della com-
plessità che contraddistingue l’universo linguistico. Ognuno dei casi considera-
ti è stato classificato con una definizione, creata al momento dai ragazzi stessi.
Come intendere queste definizioni? Come dei segnali, dei “cartelli indicatori”
che, nell’intricato bosco della lingua, mostrino una qualche direzione. Un cor-
retto approccio all’apprendimento non può essere improntato a una corrispon-
denza tra le parole e le cose, per la ragione che c’è una strutturale apertura nel
linguaggio, così come esiste una non-identità di fondo nelle cose. Altrettanto
errato sarebbe, dal punto di vista pedagogico, accettare tutto questo relativismo
ed evitare di addentrarsi per le vie del linguaggio. Quella che rimane è dun-
que una strada intermedia, una strada che non presume di poter identificare la
realtà fissandola attraverso le parole, ma che accetti la pluralità dei significati,
creandone ogni volta di nuovi. La realtà è come la serratura di una cassaforte
che non si apre con un numero ma con una serie di numeri combinati tra loro.
Tutte le definizioni pensate dagli allievi, dalla nozione di «corrispondenza» a
quella «di invarianza formale» e di «doppio plurale», sono solo alcune delle chia-
vi di accesso possibili. Tante altre si possono tentare: ogni bambino, ogni
ragazzo, può creare una sua chiave, provarla e, se la porta si apre, mettere il
naso oltre l’ostacolo e osservare, con uno stupore che è sempre nuovo, un
mondo che si apre. Così è stato per Abdul che, nonostante le difficoltà natura-
li in chi non conosce l’italiano, ha messo tutto se stesso per scoprire una nuova
lingua, e non importa se esprimendosi correttamente o meno.
Il passaggio successivo è stato quello dell’esplorazione dei singolari e dei
plurali nelle parole composte. Ho scritto alla lavagna alcune di queste parole:
«arcobaleno» – «arcobaleni», «cassaforte» – «casseforti». Dice Laura, tredici anni:
– I nomi composti sono così chiamati perché sono formati da due nomi uniti nella
stessa parola. Alcuni di essi si comportano come fossero un unico nome e quin-
di nella trasformazione dal singolare al plurale cambiano solo la desinenza fina-
le: per esempio «arcobaleno» – «arcobaleni». Invece altri nomi si comportano
come fossero due parole distinte, ognuna delle quali cambia la sua desinenza
nel passaggio dal singolare al plurale, per esempio, «cassaforte» – «casseforti».
– Dici bene ma a quale conclusione possiamo giungere?
– Il primo caso è una “unione di fatto” perché le due parole si sono fuse in una sola,
un po’ come il verde che nasce dall’unione di due elementi: il blu e il giallo. Il secon-
do caso è invece una “unione apparente” perché le due parole che compongono
il nome composto mantengono ognuna la sua identità, variando la propria desi-
nenza nel passaggio verso il plurale. È come nel matrimonio, l’unione di marito
e moglie: non diventano una cosa sola, ognuno mantiene la propria identità e
possono anche divorziare. Se dovesse succedere, la «cassa» tornerà a essere una
cassa, in ogni negozio c’è sempre una cassa dove si va a pagare, e il «forte» torne-
rà utile per descrivere, per esempio, un ragazzo bello e robusto, come quello che
da sempre avrei voluto incontrare e non ho mai incontrato.
– E se la parola fosse «pescespada», cosa succederebbe in caso di divorzio?
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– Il pesce tornerebbe a fare il pesce, ma non sarebbe più come prima, divente-
rebbe un pesce anonimo, come tanti ce ne sono e nessuno, sui fondali degli
oceani, lo saluterebbe più.
– E la spada?
– La spada tornerebbe anche lei da dove è venuta.
– Da dove è venuta?
– Dai libri.
– Quali libri?
– Nel Visconte di Bragelonne per esempio: senza spada come avrebbe fatto D’Arta-
gnan ad arrestare Filippo, il falso Re, e farlo suo prigioniero?
– Non avrebbe potuto!
– Ci dispiace per il pesce, ma è meglio che la spada rimanga in quel libro.
– Sarebbe meglio che le spade rimanessero nei libri, lo diciamo al plurale?
– Tutte le spade, sì.
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PARTE II
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7.3. Nessun insegnante potrà mai dire a un suo alunno: «Studia il modo con-
dizionale del verbo e d’ora in poi lo userai correttamente»: infatti l’utilizzo di
un verbo al condizionale ha come primo requisito necessario, ma non suffi-
ciente, il conoscerne la declinazione. Infatti, il secondo requisito (necessario)
è l’avere speranze o desideri: colui che non ne ha, non dirà mai «io vorrei».
Occorre dunque riflettere sui concetti di «certezza» e «probabilità», invitare gli
studenti a esprimere ciò che, per loro, appartiene alla sfera del “probabile”:
è questo il terreno preparatorio, necessario all’apprendimento grammaticale.
8. La convinzione che la conoscenza di un verbo non può essere separata dai
desideri che sono dentro di noi, conduce a ritenere che una pedagogia lin-
guistica innovativa non può che cercare di riunificare queste due gramma-
tiche.
9. Il problema è dunque: come si delinea una nuova grammatica che conten-
ga sia norme oggettive che significati soggettivi e che permetta a ogni alun-
no, dalle scuole elementari all’università, di usare la lingua che ha studia-
to? Che permetta, in altre parole, di dire: «Io so e voglio usare il linguaggio
perché l’ho studiato».
9.1. Inevitabilmente, uno studente oggi può solo dire: «Io ho studiato la
grammatica alle scuole elementari, medie e superiori, ma non per questo
so parlare e scrivere».
10. Che cosa può dunque permettere agli studenti di entrare nel linguaggio e
di farlo proprio? Se la grammatica diventa una porta d’ingresso che per-
mette a un giovane di “entrare” nel linguaggio, è lecito pensare che que-
st’ultimo potrà essere usato in modo pienamente efficace.
10.1. Questa comprensione, questa assimilazione destinata a tradursi in
abilità, non può che dipendere da una riduzione delle distanze tra essere
umano e linguaggio: il linguaggio-oggetto è di per sé asettico e distante.
10.2. Occorre riflettere su una strategia che potremmo definire «dell’elasti-
co»: ci sono momenti in cui occorre prendere le distanze dal linguaggio,
auto-osservarsi, domandarsi: «Che cosa ho detto?», oppure: «Perché ho mes-
so il punto dopo quella parola?», «Perché ho usato quell’aggettivo?», momen-
ti quindi in cui occorre capire che cos’è un punto e che cos’è un aggettivo;
ci sono altri momenti in cui le distanze vanno annullate, per entrare nelle
parole e percepirne le relazioni che esse intessono con la vita.
11. Si avverte l’esigenza di costruire questo movimento di andata/ritorno, que-
sto sguardo che oscilla tra vicinanza e lontananza.
12. Avvicinarsi alle parole, sentirne il peso o la leggerezza, innamorarsi di un
modo di dire, di un’espressione particolare, capire perché si scrive in un
modo o in un altro, sono tutte operazioni che dipendono dal valore meta-
forico che ha la nostra lingua fin dalle origini.
12.1. Nell’antichità, i Celti usavano la parola «cucciolo buono» per indica-
re l’orso. Adulandolo con questo lusinghiero nomignolo si evitava così di
nominare un terribile carnivoro che, nei cortili e nelle tane, faceva strage.
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