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Moreno
Il
mandato
paradossale
Reperti
per
una
biografia
professionale
Napoli
8
agosto
2010
in
progress
Premessa
Mi
vengono
spesso
chieste
note
biografiche
da
giornalisti,
tesisti,
televisivi,
cosicché
ho
raccol-‐
to
quanto
scritto
in
diverse
interviste
fatte
da
altri
o
da
me
stesso
in
modo
che
ognuno
si
serva
da
solo
attingendo
ai
dati
che
più
gli
interessano.
Questo
titolo
deriva
dal
paragrafo
illustrato
iniziale
circa
il
mandato
che
riguardava
l’attività
più
importante
da
me
svolta
negli
ultimi
dodici
anni,
ma
poi
ho
pensato
che
poteva
essere
un
tito-‐
lo
generale.
Mi
sono
trovato
spesso
nella
situazione
di
uno
che
sta
fuori
posto,
e
che
viene
mandato
a
com-‐
piere
una
missione
ma
poi
c’è
un
messaggio
segreto
che
la
contraddice.
Ha
cominciato
il
mio
caro
nonno
Vincenzo,
operaio
proletario
–
proprio
nel
senso
della
tanta
prole
–
padre
di
sette
figlie
che
sono
sei
zie
più
mia
madre.
Nei
suoi
rituali
di
iniziazione
rientra-‐
vano
giochi
di
parole
per
gli
ingenui:
mi
mandava
dal
tabaccaio
a
compare
50
lire
di
tozza
banco-‐
ne
(ossia
di
testate
nel
banco).
Io
eseguivo
fedelmente
e
il
tabaccaio
conoscendo
il
gioco
diceva
che
era
momentaneamente
sprovvisto,
cosicché
il
gioco
poteva
ripetersi.
Poi
mi
mandava
dal
sa-‐
lumiere
a
comprare
una
scatoletta
di
‘piedi
di
anguilla
sciroppati’
e
anche
in
questo
caso
io
obbe-‐
divo.
Un
esperimento
mai
fatto
era
la
riparazione
degli
orologi:
quando
andavano
indietro,
basta-‐
va
metterli
sul
binario
del
tram
e
avrebbero
cominciato
a
rigare
diritto.
E
nessuno
mai
mi
ha
avvisato:
questi
giochi
sono
finiti
non
so
se
perché
ero
grande
oppure
perché
lui
è
morto
presto
(avevo
12-‐13
anni).
E
comunque
ho
capito
che
erano
scherzi
molto
tar-‐
di.
Ma
sono
contento
che
sia
andata
così
e
sono
contento
di
essere
così,
anche
se
qualche
volta,
quando
vengo
spedito
a
compiere
qualche
missione
impossibile
e
ovviamente
resto
solo,
mi
sen-‐
to
un
po’
come
i
soldati
giapponesi
persi
nella
giungla:
continuavano
ad
obbedire
all’imperatore
quanto
quello
si
era
già
arreso
agli
americani.
Dunque
ho
usato
questo
titolo
perché
mi
pare
che
la
vita
mi
abbia
affidato
un
mandato
para-‐
dossale:
essere
scambiato
per
un
altro.
Un
altro,
in
genere
appartenente
a
minoranze
oppresse,
perseguitate,
misconosciute.
Così
spesso
mi
sono
sentito
come
un
ebreo
senza
esserlo,
una
donna
senza
esserlo,
un
nero
senza
esserlo,
un
terrorista
senza
esserlo,
un
pericoloso
sovversivo
senza
esserlo
e
via
dicendo
…
E
non
è
una
bella
sensazione
perché
ti
accorgi
che
l’abito
che
ti
cuciono
addosso
è
più
forte
di
qualsiasi
considerazione
di
realtà,
cosicché
in
vecchiaia
ho
deciso
che
non
vale
la
pena
combattere
per
dare
una
immagine
corretta
di
me:
che
pensino
di
me
quello
che
a
lo-‐
ro
fa
più
comodo,
io
-‐
come
diceva
il
geniale
Totò
prendendosi
gli
schiaffi
destinati
a
Pasquale
-‐
non
mi
chiamo
Pasquale
e
me
la
rido.
L’unica
cosa
a
cui
stare
attenti
è
non
credere
né
ciò
che
di-‐
cono
di
te,
né
l’opposto
di
quello
che
dicono
di
te.
Bisogna
credere
quello
che
si
è,
….
a
prescindere.
18
Gennaio
2009
Come
nel
gioco
dell’oca
ritorno
alla
casella
di
partenza:
in
catene
per
chiedere
che
si
dia
seguito
a
quanto
stabilito
in
luglio.
O'
Scassone,
era
il
nostro
pulmino.
Si
trattava
di
una
Giardinetta
DODGE
-‐
questo
come
altri
parti-‐
colari
li
ho
ricostruiti
lungo
gli
anni
-‐
delle
dimensioni
degli
attuali
pulmini,
un
residuato
bellico
americano
caratteristico
col
suo
musone
nero
e
paffuto,
i
fari
sporgenti,
il
corpo
ricoperto
di
do-‐
ghe
di
legno
che
la
facevano
rassomigliare
vagamente
al
corpo
di
un'ape.
Questa
immagine
di
au-‐
to
paffuta
e
calda
è
rimasta
per
molto
il
prototipo
di
auto,
e
forse
non
solo
per
me.
O'
Scassone,
si
rompeva
sempre:
vedo
ancora
che
in
attesa
dell'uscita
l'autista
apriva
una
specie
di
serranda
laterale
che
aveva
quel
tipo
di
auto,
ficcava
la
testa
in
quelle
fauci
come
un
domatore
col
leone,
e
armeggiava
a
lungo.
Lo
Scassone
era
molto
alto
e
di
lì
si
poteva
godere
una
visione
dall'alto
di
ciò
che
normalmente
vedevo
da
sotto.
Stavo
sempre
al
finestrino
e
davo
poca
confi-‐
denza
ai
compagni
di
viaggio.
Forse
per
questo
i
miei
primi
ricordi
sono
legati
a
quello
che
potevo
vedere
dall'alto.
Fra
i
primi
il
ricordo
di
uno
sputo
ricevuto
in
bocca:
lo
Scassone
passava
spesso
tra
ali
di
scugnizzi
che
stavano
in
strada
a
svolge-‐
re
le
più
diverse
attività,
tra
cui
quella,
che
suscitava
la
mia
am-‐
mirazione
ed
invidia,
di
'appendersi
dietro
al
tram'.
Questi
scu-‐
gnizzi
vedevano
i
bambini
chiusi
nel
pulmino
come
bersaglio
ob-‐
bligato,
ed
essendo
il
solo
a
stare
affacciato
mi
trovai
al
centro
di
un
tiro
incrociato
che
almeno
in
un
caso
fece
centro.
Questo
è
sta-‐
to
il
mio
primo
rapporto
con
gli
evasori
scolastici.
Lo
Scassone
faceva
lunghi
giri
ai
confini
orientali
della
città,
tra
Barra,
San
Giovanni,
Portici,
San
Giorgio;
alcune
immagini
sono
restate
indelebili:
il
portale
della
scuola
che
doveva
trovarsi
in
una
di
quelle
ville
vesuviane
diroccate,
ed
era
il
classico
arco
un
po'
barocco
che
apriva
in
una
corte.
Dalle
finestre
dell'asilo,
a
vol-‐
te
stavo
per
ore
a
fissare
quell'arco
per
vedere
spuntare
il
muso
nero
dello
Scassone.
Un
altro
punto
era
il
'largo
Monteleone'.
Questo
era
ed
è
il
piazzale
della
villa
Monteleone
che
ha
le
dimensioni
di
una
reggia.
Questo
piazzale,
in
posizione
leggermente
elevata
e
prospiciente
alla
campagna
e
alla
villa
dei
Principi
di
San
Nicandro
(oggi
questa
visuale
è
perdu-‐
ta),
si
apriva
come
un
terrazzo
sul
golfo
e
lasciava
vedere
uno
spicchio
della
città
e
del
mare
verso
Posillipo;
quel
largo,
che
era
sterrato,
veniva
utilizzato
da
un
maniscalco
per
ferrare
cavalli
e
ag-‐
giustare
carrozze
e
carrettini.
Si
respirava
aria
di
campagna
e
odori
di
animali,
l'ingresso
in
que-‐
sto
spiazzo,
dove
lo
Scassone
girava
e
tornava
indietro,
lo
sentivo
come
un
sogno
perché
si
vede-‐
vano
cose
lontane
che
non
si
toccano.
Molto
da
vicino
invece
vidi
un
"litigio"
tra
due
asini:
ragli
Giuditta(Caravaggio)
In questo quadro fa vedere Giuditta che taglia la testa di Olo-
ferne e la sua serva prepara il sacco per metterci la testa den-
tro.
Giuditta ha le rughe tra gli occhi e sta molto tesa e molto con-
centrata su quello che sta facendo. Giuditta sta anche scostata
e con lo sguardo come se non volesse vedere perché non é una
cosa divertente.
Quadro familiare
Nella mia famiglia chi mantiene la situazione calma é mio pa-
dre perché quando mia mamma guarda la TV e si impressiona
mio padre dice:
Conoscersi
conoscendo
Quando
mi
é
stato
chiesto
il
titolo
per
questa
mia
comunicazione
ho
preferito
riferirmi
al
vis-‐
suto
piuttosto
che
all’inconscio,
perché
é
un
termine
meno
impegnativo.
Questo
deriva
da
alcune
preoccupazioni
inerenti
alle
attività
che
svolgo:
quella
di
insegnare
ai
bambini
e
quella
di
tenere,
ormai
con
una
certa
regolarità,
corsi
e
conferenze
rivolte
agli
insegnanti.
Nei
confronti
dei
bam-‐
bini,
coi
quali
ho
un
rapporto
eminentemente
di
gruppo,
la
mia
preoccupazione
é
quella
di
non
suscitare
delle
dinamiche
che
non
sono
in
grado
di
gestire,
anche
se
sono
convinto
che
l’apprendimento
per
essere
efficace
deve
legarsi
ai
bisogni
profondi
dei
ragazzi.
Legarsi
non
si-‐
gnifica
necessariamente
esplicitare
i
conflitti
profondi,
e
ciò
sarà
chiaro
quando
svolgerò
i
miei
esempi.
Nei
confronti
degli
insegnanti
la
mia
preoccupazione
é
quella
di
fare
delle
proposte
didattiche
che
sia
possibile
praticare
senza
uscire
fuori
dal
ruolo
di
insegnante.
Alcuni
insegnanti
commen-‐
tando
degli
esempi
e
delle
proposte
didattiche,
ed
avendo
una
idea
piuttosto
vaga
di
cosa
signifi-‐
chi
essere
psicanalisti,
dicevano:
ma
questa
é
psicanalisi.
La
mia
preoccupazione
costante
é
quella
di
dimostrare
che
si
può
e
si
deve
insegnare
a
leggere
e
scrivere
facendo
intervenire
positivamen-‐
te
le
emozioni
del
bambino
e
non
tentando
di
ignorarle,
ma
questo
non
è
fare
psicoanalisi.
C’é
una
conoscenza
alienante
e
nemica
che
fugge
o
si
contrappone
alla
conoscenza
di
sé,
c’é
una
conoscenza
che
affonda
le
sue
radici
nella
nostra
esistenza
umana
che
ci
aiuta
a
capire
e
mi-‐
gliorare
noi
stessi.
Se
la
scuola
lavora
in
modo
da
aiutarci
ad
imparare
dalle
materie
e
dalle
disci-‐
pline,
piuttosto
che
insegnarci
delle
discipline,
forse
ci
aiuta
anche
ad
avere
un
migliore
rapporto
col
nostro
inconscio.
Storia
N°
2
C'era una volta Alì che aveva rubato una mela e lo portarono dal sultano e lui lo condannò a morte. Il
popolo fece un urlo di protesta, allora il sultano per imbrogliare il popolo disse: «Ora ti do un sacchetto
con due palline, una bianca e una nera, se prendi la bianca vivi, se prendi la nera muori»
Il
sultano
andò
in
un'altra
stanza
e
mise
due
palline
nere
nel
sacchetto
e
c'era
qualcuno
che
lo
stava spiando: era il visir.
Questo andò da Alì e disse : «Butta il sacchetto a terra, così si scopre il trucco»
Quando fece questo il popolo prese le spade e tagliò la testa al sultano. Il visir diventò il sultano, e per
ringraziare Alì lo fa diventare Visir.
Storia
N°3
C'era una volta un sultano che era antipatico al popolo. Un giorno portarono un uomo che si
chiamava Alì che aveva rubato una mela e il sultano lo condannò a morte.
Il popolo fece OH! OH! e il sultano per calmare il popolo disse: «Ora prendo un sacchetto e met-
to due palline una bianca e una nera, se scegli la bianca vivi, se scegli la nera muori»
Dopo aver detto questo andò in una stanza e mise due palline nere nel sacchetto e il visir lo stava
spiando e andò da Alì a dirgli: «Alì, butta il sacchetto a terra e si scopre il trucco»
C'era un ragazzo di nome Mirko che sapeva fischiettare il canto degli uccelli. Un giorno nel
bosco i cacciatori lo ascoltarono e andarono dal padre e gli dissero se voleva accettare che Mirko
andava con loro quando andavano a caccia e pagavano.
Mirko per non disubbidire il padre accettò. Però quando andava a caccia, per non far uccidere
gli uccelli, quando c'era il cardellino faceva il richiamo del merlo e così gli uccelli se ne scappa-
vano. I cacciatori lo scoprirono e andarono dal padre e gli raccontarono l'imbroglio del figlio e il
padre lo riempì di botte.
“Mio Signore, mi devi perdonare di tutto quello che ho fatto, non é vero che non so imitare gli
uccelli, però io amo gli uccelli e se i cacciatori non uccidessero io avrei chiamato.....se tu hai crea-
to loro hai creato anche me”
Riflessioni: io penso che il ragazzo é stato molto intelligente perché dopo sì é confitato (sic) col
Signore e gli ha riferito che lui veramente ha fatto quello che non doveva fare ma si é anche per-
donato e anche pentito.
Io per televisione vedevo i ragazzi che cantavano per la famiglia per esempio; e il padre e la
madre non si sono comportati bene perché il ragazzo si poteva anche drogare.
L'intelligenza
di
Mirko
non
sta
nella
sua
azione
quanto
nella
sua
capacità
di
“confidarsi,
perdo-‐
narsi,
pentirsi”,
ossia
nella
consapevolezza
che
egli
ha
della
sua
azione
e
dei
suoi
limiti.
Una volta tanto fa bene a non ubbidire ai genitori ( Maria Assunta)
Mirco non aveva ubbidito al papà ma ha fatto bene che ha salvato gli uccelli. (Assunta)
Questo
racconto
proposto
agli
insegnanti
subito
dopo
quello
di
Alì,
ha
visto
uno
schieramento
molto
diverso:
i
docenti
si
sono
identificati
con
la
figura
del
padre.
E'
significativo
che
gli
insegnanti
in
relazione
a
questo
secondo
brano
siano
stati
molto
più
di-‐
sponibili
ad
ammettere
che
il
comportamento
del
bambino
sia
stato
quello
più
adeguato,
mentre
molti
ritenevano
che
la
lettura
data
dal
maestro
del
testo
di
Alì
potesse
essere
una
lettura
tenden-‐
te
alla
conservazione
dell'ordine
esistente.
Nel
primo
caso
essi
infatti
si
sono
identificati
con
Alì
e
con
i
desideri
di
rivalsa
di
tutti
sudditi.
Nel
secondo
caso
si
sono
identificati
nel
genitore
e
nel
de-‐
siderio
di
questi
di
mantenere
comunque
un
ascendente
sui
figli.
Il
desiderio
di
sopprimere
il
so-‐
vrano
smascherandolo
non
é
espressione
dell’integrazione
delle
diverse
parti
del
sé,
ma
del
desi-‐
derio
infantile
di
sopprimere
la
figura
paterna
che
personifica
le
pretese
del
super-‐io.
Deserto
Questo
lavoro
è
nato
dopo
la
visione
di
un
documentario
in
cui
si
vedeva
che
le
escursioni
termiche
nel
deserto
sono
talmente
forti
che
i
sassi
si
spaccano
e
prima
di
farlo
gemono
come
persone,
e
che
ci
sono
molte
leggende
che
parlano
di
anime
e
diavoli
che
popolano
l
deserto.
Dagli
sguardi
mi
accorsi
di
aver
toccato
un
qualche
tasto
sensibile.
In
una
precedente
occasione
avevo
dovuto
interrompere
la
visione
di
un
documentario
con
delle
immagini
secondo
me
bellissime
di
eruzioni
laviche.
Mi
dissero:
ma
noi
abbiamo
paura.
Avevo
dimenticato
il
piccolo
particolare
che
dalla
nostra
finestra
il
Vesuvio
si
toccava
con
mano.
Fantasmi
e
‘monacielli’
abitano
queste
peri-‐
ferie
al
pari
degli
umani
e
quelle
che
io
chiamavo
leggende
confermavano
la
realtà
di
queste
pre-‐
senze,
così
pesai
che
era
necessario
parlare
di
fantasmi
e
delle
nostre
paure
attraverso
un
esem-‐
pio
illustre:
le
tentazioni
del
deserto,
non
senza
aver
ricordato
che
da
poco
avevamo
parlato
an-‐
cora
del
deserto
attraverso
Il
piccolo
Principe
di
Saint
Exupery.
Ecco
il
Vangelo
secondo
la
quinta
C
Gesù doveva fare un esame che é di stare nel deserto 40 giorni e 40 notti. Gesù era già stato pa-
recchio nel deserto e aveva molta fame e molta sete e quando hai fame e sete sei capace di uccide-
re i tuoi genitori e di venderti l’anima al diavolo. Per esempio:
Il diavolo diceva a Gesù:
«Fa diventare questa pietra pane, tu te lo puoi permettere perché sei il figlio di Dio»
Poi disse:
Il
detenuto
La
tragica
storia
di
Carlo
dimostra
in
modo
purtroppo
esemplare
che
l’aggressività
verso
il
di-‐
verso
é
in
realtà
un
tentativo
estremo
quanto
vano
di
allontanare
da
sé
le
proprie
parti
cattive.
Barra,
11
aprile
1984
La
classe
V
D
si
sta
recando
al
campo
sportivo
come
ogni
settimana,
quando
assiste
all’arresto
di
due
giovani
sui
18-‐20
anni.
Due
poliziotti
in
borghese
stanno
cercando
qualcosa
a
terra,
nei
buchi
di
un
muretto,
in
un
campo
vicino.
Non
trovando
niente
schiaffeggiano
i
due
giovani.
I
ra-‐
gazzi
della
VD
stanno
cantando
una
canzone
calcistica,
ma
zittiscono
all’istante.
Mancano
ancora
duecento
metri
per
raggiungere
il
campo
e
per
tutto
il
tempo
la
passeggiata,
generalmente
allegra
e
gioiosa,
é
un
vero
funerale.
Barra,
12
aprile
1984
Il
maestro
legge
un
racconto
ai
ragazzi
della
VD:
Un piccolo uomo cencioso, ammanettato tra due carabinieri, procedeva a balzelloni, nel-
la strada deserta e polverosa, come in un penoso ritmo di danza, forse perché zoppo o fe-
rito a un piede. Tra i due personaggi in uniforme, che nella crudezza della luce estiva
sembravano maschere funebri, il piccolo uomo aveva un vivace aspetto terroso, come di
un animale catturato in un fosso; egli portava sulla schiena un fagottino dal quale usciva,
in accompagnamento al suo saltellare, uno stridio simile a quello della cicala.
Questa immagine pietosa e buffa m’apparve e venne incontro mentre mi trovavo seduto
sulla soglia di casa, col sillabario sulle ginocchia, alle prime prese con le vocali e le con-
sonanti; e fu per me una distrazione inaspettata che mi mosse al riso. Mi girai attorno per
trovare qualcuno che condividesse la mia sorpresa e in quello stesso momento
dall’interno della casa sentii sopraggiungere il passo pesante di mio padre.
«Guarda un po’ come é buffo» Gli dissi ridendo.
Ma mio padre mi fissò severamente, mi sollevò di peso tirandomi per un orecchio, e mi
condusse nella sua camera. Non l’avevo mai visto così malcontento di me.
«Cosa ho fatto di male?» Gli chiesi stropicciandomi l’orecchio indolorito.
«Non si ride di un detenuto, mai»
«Perché no?»
«Perché non può difendersi. E poi perché forse é innocente. E in ogni caso perché é un
infelice»
Senza aggiungere altro mi lasciò solo in camera, in preda ad un turbamento di nuova
specie. (Ignazio Silone)
Si
discute.
Perché
il
bambino
ride?
Non
c’é
niente
da
ridere,
però
qualcosa
di
comico
c’é.
Ciro
si
alza
e
si
mette
a
imitare
l’andatura
impacciata
del
carcerato.
Maestro:
Allora
perché
quando
avete
visto
questa
scena
nessuno
si
é
messo
a
ridere,
ma
tutti
si
sono
sentiti
male.
Perché?
I
poliziotti
non
picchiavano
forte,
ma
gli
davano
gli
schiaffi
come
si
danno
ai
bambini
e
questa
era
una
umiliazione.
Ecco,
quando
un
uomo
viene
messo
in
carcere,
anche
se
é
grande
noi
lo
vediamo
come
se
fosse
piccolo.
Io
penso
che
un
poliziotto
non
dovrebbe
mai
picchiare
un
arrestato
neanche
con
uno
schiaffet-‐
to,
e
se
lo
fa
bisogna
denunciarlo
ai
superiori.
Tutti:
E’
impossibile,
loro
possono
fare
quello
che
vogliono.
Maestro:
Non
é
vero,
anche
nella
scuola
se
un
maestro
fa
qualcosa
che
non
va
si
può
andare
dal
direttore.
Ora
che
ne
abbiamo
parlato,
c’é
qualcuno
che
vuole
raccontare
quello
che
ha
visto
come
se
dovesse
scrivere
un
articolo
di
giornale?
Barra,
giugno
1991-‐
Sui
manifesti
listati
a
lutto
c’é
scritto:
E’
mancato
all’affetto
dei
cari
Car-‐
lo...di
anni
17.
Qualcuno
sa
come
sono
andate
le
cose:
é
stato
trovato
morto
in
una
automobile
a
Ponticelli
ucciso
dalla
droga.
Nella
classe
di
Carlo
sono
stato
solo
sei
mesi,
ed
ero
alla
mia
prima
esperienza
di
insegnante.
Avevo
capito
che
insegnare
a
questi
ragazzi
significava
sopratutto
aiutarli
a
capire
sé
stessi,
ma
ho
avuto
poco
tempo
e
avevo
poca
esperienza.
Sopratutto
non
sapevo
che
é
troppo
difficile
e
do-‐
loroso
per
un
bambino
parlare
delle
cose
nel
momento
in
cui
succedono;
é
troppo
difficile
riusci-‐
re
a
districarsi
tra
emozioni
troppo
forti.
Avevo
però
capito
che
Carlo
era
in
preda
a
una
grande
sofferenza,
forse
una
traccia
di
quel
pericolo
di
morte
in
cui
era
stato
da
piccolo.
Mi
rivolsi
allora
a
degli
specialisti,
psicologi,
per
parlare
di
questo
caso.
Non
esisteva
-‐
e
non
esiste-‐
in
loco,
un
servizio
di
assistenza
psicologica
per
i
bambini
e
sono
perciò
finito
in
un
centro
di
assistenza
lon-‐
tano,
dove
mi
introdusse
un
medico
mio
conoscente.
Ho
avuto
sei
incontri
con
una
psicologa
che
mi
ha
aiutato
a
esaminare
il
mio
atteggiamento
verso
quello
che
succedeva
in
classe,
ma
non
é
stato
possibile
organizzare
un
incontro
diretto
con
Carlo.
...i
bambini
non
hanno
pensieri
brutti
nella
memoria
Il
brano
di
Silone
é
stato
riproposto
in
altre
classi,
a
San
Giovanni
e
a
Barra,
ed
i
modi
di
riela-‐
borazione
sono
stati
diversi
in
rapporto
alla
diversa
distanza
dagli
ambienti
e
dalle
situazioni
rea-‐
li.
Prima
lettura
Un bambino di otto anni vede un piccolo signore che i carabinieri stanno ar-
restando.
Il bambino stava leggendo il sillabario delle vocali e delle consonanti ed era
distratto e quando l'uomo fu preso rideva.
Questo bambino voleva ridere insieme agli altri e all'improvviso venne suo pa-
dre che se ne accorse dal suo modo di camminare pesante. Il padre lo tirò per le
orecchie e disse il bambino:
«Cosa ho fatto di male ?»
Il padre rispose: «Non si ride a un detenuto, perché può essere innocente, ed é
anche infelice che sta sempre in carcere.
Questo bambino non aveva mai visto questo spettacolo si capisce perché
pensava che erano personaggi di una recita
Disse il padre “Non si ride di un detenuto ” Perché può essere innocente, non
si può difendere e poi perché é infelice. Vuol dire che può essere colpevole ma é
infelice perché é povero e poi perché va carcerato.
Questo racconto é stato fatto da una persona grande dal suo modo di dire le
parole e poi forse perché anche lui ha vissuto un episodio come questo e ha ca-
pito che lui non deve ridere degli altri perché forse capita anche a lui. L'autore
dopo che il padre l'aveva sgridato capiva che quella scena non era finta ma c'era
un uomo che soffriva (Stefania)
Gli
scambi
tra
realtà
e
finzione
non
sono
evidentemente
nati
con
la
televisione,
é
il
mondo
in-‐
fantile
che
si
attarda
in
questa
confusione
che
consente
magicamente
di
trasformare
in
realtà
le
finzioni
piacevoli
e
in
finzioni
realtà
allarmanti
e
difficili
da
accettare.
I
giornali
hanno
riferito
che
Patrizia
stava
scrivendo
una
storia
intitolata
"Due
cani
ed
un
gatto".
Partendo
da
questo
titolo
abbiamo
provato
a
immaginare
quale
storia
stesse
scrivendo
Patrizia
e
perché.
Io penso che i due rapitori sono i gatti e Patrizia é il cane, perché lei ha prefe-
rito di essere il cane perché é più fedele invece i gatti sono cattivi; infatti i due
uomini erano cattivi e Patrizia li ha detti gatti, invece per il cane ha pensato a sé
stessa.
Un giorno Patrizia che era abbandonata in una prigione, per passare il tempo
si é messa a scrivere, e chissà se sapeva che in mano ai rapitori stava 80 giorni.
Quello che ha detto mio fratello al maestro ci interessa. Angelo ha detto pro-
prio come ho pensato io, che lei si sentiva abbattuta e sola e si mise a scrivere.
Questo vuol dire che se si mette a scrivere non sta sola ma riflette e pensa
come se nel quaderno stesse parlando con la madre e il padre.
Racconto di cane e gatti
C'erano una volta due gatti che il padrone era ricco e aveva fabbriche.
Un giorno perse tutto e cacciò i gatti.
Sia
Angelo
che
Maria
sanno
bene
che
la
storia
che
Patrizia
scriveva
era
il
frutto
della
sua
fanta-‐
sia,
che
in
nulla
poteva
cambiare
la
sua
situazione
se
non
nel
contribuire
a
darle
una
speranza.
La
cosa
più
straordinaria
era
che
essa
stessa
si
raccontava
questa
favola,
perché
questo
era
un
modo
per
dialogare
con
sé
stessa
e
mantenere
vivi
quei
rapporti
coi
genitori
che
invece
erano
violen-‐
temente
troncati.
Il
potere
Il
potere
un
tempo
discendeva
direttamente
dall’intelligenza:
i
sacerdoti
dei
templi-‐granai
e-‐
rano
in
grado
di
prevedere
il
tempo
e
di
dare
disposizioni
per
i
lavori
nei
campi,
erano
autorità
perché
concretamente
erano
in
grado
di
guidare
la
crescita
del
patrimonio
comune.
La
capacità
di
guida
e
di
decisione
discendeva
quindi
dalla
conoscenza,
l’autorità
intesa
come
competenza
era
strettamente
intrecciata
con
l’autorità
intesa
come
capacità
di
essere
autori,
accrescitori,
del
bene
La
vanità.
La
vanità
per
eccellenza
é
legata
all’aspetto
fisico,
alla
bellezza
e
prestanza
del
corpo.
Se
il
cor-‐
po
é
una
risorsa
comunicativa,
il
bell’aspetto,
la
cura
della
propria
presenza
rappresenta
un
a-‐
spetto
dell’intelligenza
e
precisamente
quello
rivolto
a
sviluppare
relazioni
ed
esprimere
senti-‐
menti:
le
persone
intelligenti
appaiono
belle
anche
quando
non
rispettino
astratti
canoni
estetici
.
Sotto
questo
aspetto
possiamo
considerare
la
‘bellezza’
in
senso
più
generale,
come
capacità
di
affascinare
gli
altri
attraverso
la
propria
presenza,
sia
essa
di
tipo
esclusivamente
fisico,
sia
essa
una
capacità
di
fascinazione
più
ampia.
La
fissazione
nel
proprio
fascino
é
una
fonte
importante
di
stupidità.
Il
luogo
comune
ha
sempre
attribuito
questa
caratteristica
alle
donne,
ma
fortunatamente
questo
é
uno
dei
campi
in
cui
finalmente
i
maschi
hanno
cominciato
a
rompere
la
pretesa
esclusi-‐
vità
femminile,
per
cui
un
discorso
sulla
bellezza
come
fonte
di
stupidità
non
potrà
essere
taccia-‐
to
di
essere
antifemminile.
L’uomo
bello
va
in
giro
con
un
vistoso
cartello
“mi
sun
bel’’
ha
uno
sguardo
vacuo
o
retroflesso
su
se
stesso:
rivolto
non
a
incontrare
l’altro
ma
a
cogliere
nello
sguardo
altrui
l’incondizionata
ammirazione.
Naturalmente
estrinseca
il
meglio
di
sé
in
presenza
di
almeno
una
persona
di
sesso
femminile;
in
assenza
di
questo
catalizzatore
si
serve
del
fascino
riflesso
della
folla
plaudente
a
cui
é
ancora
più
difficile
sottrarsi.
Il
modello
simbolico
per
la
competizione
e
l’affermazione
di
sé
é
il
branco
in
cui
il
maschio
dominante
mostra
la
propria
potenza
in
relazione
al
numero
di
femmine
possedute
e
al
numero
dei
maschi
subalterni
che
gironzolano
intorno
al
branco
in
attesa
di
raccogliere
qualche
briciola.
La
folla
plaudente
rimanda
simbolicamente
al
possesso
di
un
vasto
harem.
Sotto
questo
aspetto
L’intelligenza.
L’intelligenza
é
essa
stessa
fonte
di
stupidità.
Uno
dei
giochi
decisivi
dell’intelligenza
é
la
costruzione
di
rappresentazioni
della
realtà.
Tali
rappresentazioni,
per
loro
natura,
non
sono
“vere”,
ma
appena
“attendibili”:
continuamente
de-‐
vono
essere
revisionate,
sottoposte
a
manutenzione
in
seguito
al
confronto
col
reale.
In
genere
la
frequenza
degli
interventi
di
manutenzione
impedisce
che
l’edificio
rappresentativo
sia
organico
e
completo
in
ogni
sua
parte.
Tuttavia
c’é
una
spinta
incontenibile
a
completare
il
quadro,
a
tro-‐
vare
una
collocazione
per
ogni
evento:
é
una
spinta
che
deriva
dal
bisogno
di
sicurezza,
di
trovare
ogni
cosa
al
suo
posto,
di
non
andare
incontro
a
sorprese
ed
imprevisti.
Si
tratta
quindi
di
un
e-‐
sercizio
insieme
affascinate
e
rassicurante,
e
qualcuno
vi
resta
invischiato
fino
a
perdere
contatto
con
la
realtà:
é
come
rifare
e
perfezionare
infinite
volte
i
piani
progettuali
di
una
casa,
senza
mai
realizzarla.
Tanto
più
il
disegno
diventa
raffinato
e
preciso,
tanto
più
esso
non
deve
realizzarsi
per
non
rischiare
di
fissare
per
sempre
nel
reale
una
rappresentazione
mentale
che
può
ancora
essere
perfezionata.
Quando
una
rappresentazione
é
completa,
perfetta
in
ogni
sua
parte,
ha
pre-‐
visto
ogni
evento,
il
fortunato
pensatore
si
dichiara
in
possesso
di
una
“weltanschaung”,
visione
del
mondo:
é
diventato
una
“pensatore
di
grande
formato”.
La
visione
é
necessariamente
visiona-‐
ria,
una
sorta
di
illuminazione
divina
che
consente
di
abbracciare
il
mondo
in
un
solo
sguardo
co-‐
sì
come
solo
Dio
poteva
fare.
Il
pensatore
di
grande
formato
può
dominare
il
mondo
standosene
tranquillamente
in
poltrona,
può
prevedere
gli
eventi
e
parteciparvi
senza
sfilarsi
le
pantofole,
può
conoscere
tutto
il
conoscibile
senza
scomodarsi
a
uscire
di
casa,
e
senza
incontrare
nessuno.
Per
la
verità,
nonostante
il
desiderio
di
starsene
tranquillo,
come
ogni
‘motore
immoto’
do-‐
vrebbe
fare,
il
pensatore
di
grande
formato
é
preso
da
qualche
ansia:
ci
sono
eventi
che
sfuggono
al
controllo
e
bisogna
fare
grossi
sforzi
per
riportarli
nel
sistema:
c’é
quindi
un
lavorio
continuo
per
dimostrare
a
se
stessi
che
nulla
può
divergere,
che
ogni
fenomeno
nuovo
può
essere
ricon-‐
dotto
a
quelli
già
classificati,
che
c’é
sempre
una
formula
rituale
che
consente
di
ristabilire
il
do-‐
minio
sugli
eventi:
l’uso
della
storia
interpretata
come
successione
ripetitiva
di
formule
é
decisi-‐
vo
per
condurre
questa
operazione.
L’uomo
ideologico
ignora
il
dramma
del
povero
Homo
Erec-‐
tus,
che,
non
avendo
antenati
altrettanto
umani
e
non
potendo
ripetere
il
passato,
é
stato
costret-‐
to
ad
inventarsi
l’Homo
Sapiens
senza
poter
usufruire
di
qualche
buon
modello
preesistente.
Il
saldo
possesso
della
verità,
la
compiutezza
e
l’autosufficienza
di
questa
in
un
sistema
di
pen-‐
siero
blindato,
consente
di
usare
il
pensiero
non
come
uno
strumento
comunicativo
ma
come
un’arma
contro
gli
altri,
ad
essi
si
adatta
perfettamente
l’aforisma:
hanno
il
torto
di
aver
ragione.
L’organizzazione
camorristica
è
l’unica
organizzazione
di
carattere
mafioso
che
ha
avuto
e
continua
ad
avere,
caratteristiche
di
massa.
(Violante:
Non
è
la
piovra
–
Einaudi
1994)
Bisogna
ricordarsi
di
questa
espressione
perché
stabilisce
i
confini
di
un
modo
di
comporta-‐
mento
che
accomuna
gli
ambienti
più
diversi:
fare
una
camorra
è
fare
un
atto
di
prepotenza
ap-‐
profittarsi
di
una
posizione
di
forza
o
di
vantaggio,
escludere
altri
da
un
beneficio.
L’espressione
linguistica
è
come
spesso
accade
la
manifestazione
di
una
realtà
sociale
particolare:
non
si
dice
fare
una
mafia,
perché
mafia
è
l’essere
e
non
l’attività.
Così
si
può
dire
che
i
docenti
fanno
una
camorra
se
riservano
a
se
diritti
che
non
concedono
ai
ragazzi
o
ai
lori
genitori,
che
nei
servizi
so-‐
ciali
c’è
camorra
di
alcune
persone
a
danno
di
altre,
che
il
comune
fa
la
camorra
con
i
suoi
protetti
etc…
L’aggressività
camorristica
è
molto
più
diffusa
e
manifesta
di
quella
mafiosa
perché
trova
si-‐
stematicamente
nel
suo
avversario
quelle
stesse
caratteristiche
che
si
rimproverano
a
lei.
Sotto
questo
aspetto
una
funzione
di
riequilibrio
sociale
–
il
riequilibrio
della
prepotenza,
la
democra-‐
zia
dei
violenti
-‐
è
connaturato
alla
camorra.
Il
riequilibrio
della
prepotenza
porta
alla
sistemati-‐
ca,
implicita
ed
esplicita
connivenza
con
ogni
altra
forma
di
illegalità
e
prepotenza,
comprese
le
forme
di
prepotenza
ammantate
di
legalità
apparente
o
di
rivendicazionismo
para
sindacale.
Nel
mondo
dominato
dalla
regola
della
camorra
–
ossia
della
prepotenza
pervasiva
-‐
i
confini
tra
ri-‐
vendicazione
democratica
e
partecipativa,
diritti
sindacali,
mutua
assistenza
da
un
lato
e
minac-‐
cia,
accattonaggio,
estorsione,
dall’altro,
sono
piuttosto
labili
possono
essere
attraversati
ripetu-‐
tamente
dalle
stesse
persone
in
ogni
momento.
Come
simbolo
di
questo
modo
di
fare
propongo
quello
di
uno
dei
primi
genitori
camorristi
che
ho
conosciuto
(1984)
che
a
capo
al
letto
esponeva
la
Madonna,
Stalin
e
Cutolo,
Il
sincretismo
camorristico
affonda
le
sue
radici
nel
sincretismo
linguistico
e
nel
sincretismo
vitale
di
un
intero
strato
sociale.
Aggressività,
difesa,
ricerca
di
protezione
Dobbiamo
accettare
che
in
noi
stessi
ci
sia
violenza
ed
aggressività.
…L’uomo
si
è
data
una
cul-‐
tura
e
delle
istituzioni
che
consentono
di
gestire
in
modo
incruento
i
bisogni
essenziali,
più
che
altro
confidando
nella
illimitata
espansione
del
dominio
della
propria
specie.
Tuttavia
violenza
ed
aggressività
fanno
parte
del
nostro
essere,
sono
il
risultato
più
ordinario
delle
nostre
emozioni
più
profonde.
Anche
se
non
ce
ne
accorgiamo
più
la
cooperazione
è
una
forma
di
aggressività
deviata
e
su-‐
blimata,
il
risultato
di
un
processo
evolutivo
e
storico
estremamente
complesso
e
mai
concluso
dentro
cui
ha
un
posto
decisivo
quello
che
a
Chance
chiamiamo
spazio
della
parola
e
del
pensiero.
Parola
e
pensiero
ci
offrono
due
risorse
aggiuntive:
la
rappresentazione
mentale
dell’ambiente
che
allarga
gli
spazi
di
fuga,
la
memoria,
narrazione
di
sé,
che
fornisce
schemi
d’azione
collaudati.
Nel
bambino
piccolo
parola
e
pensiero
non
sono
ancora
adeguatamente
sviluppati;
la
risposta
immediata
di
fuga
e
aggressione
è
in
pratica
l’unica
possibile,
ma
viene
temperata
dalla
presenza
dell’adulto:
l’adulto
diventa
meta
della
fuga:
riparo
sicuro
e
protezione
di
fronte
alla
minaccia.
Posizione
protetta
da
cui
il
cucciolo
scrutando
il
mondo
comincia
ad
allargare
il
repertorio
delle
risposte
al
pericolo.
Quanto
profondamente
violenza
ed
aggressività
ci
appartengono
noi
vogliamo
ignorarlo
e
ogni
volta
che
ci
troviamo
di
fronte
ad
una
manifestazione
di
queste
tendiamo
a
stigmatizzarla:
ca-‐
morra
e
mafie
sono
le
depositarie
di
tutti
gli
orrori
possibili
del
nostro
animo,
ricettacolo
delle
violenze
che
non
vogliamo
commettere.
Ma
dichiarandoci
inaccessibili
alla
violenza
e
alla
aggres-‐
sività
ci
dichiariamo
anche
inaccessibili
ad
alcuna
forma
di
interazione
con
le
persone
che
a
mafia
e
camorra,
per
scelta
o
per
forza,
appartengono.
Voglio
sottolineare
che
anche
nel
caso
di
M.
è
presente
l’elemento
della
cura
e
della
solidarietà
come
momento
di
passaggio
significativo
nel
processo
di
reclutamento.
I
primi
incontri
con
il
re-‐
clutatore
avvengono
perché
lui
è
agli
arresti
domiciliari,
si
sente
solo
ed
ha
bisogno
di
aiuto.
M.
addirittura
insegna
al
figlio
piccolo
alcuni
rudimenti
di
informatica.
Quando
la
madre
tenta
di
im-‐
pedire
questi
incontri
M.
la
accusa
di
infamità
e
di
mancanza
di
umanità.
Così
il
primo
episodio
in
cui
M.
monta
la
guardia
avviene
proprio
per
un
moto
immediato
di
difesa.
Lo
stesso
fratello
mi-‐
nore
di
M
che
è
distante
dalle
tentazioni
delinquenziali,
mi
dice
che
lui
non
può
fare
a
meno
di
di-‐
fendere
e
aiutare
quello
che
è
un
parente
quando
lo
vede
in
pericolo.
Io
stesso,
quando
la
madre
mi
chiede
di
intervenire,
le
dico
che
in
fondo
non
può
rimproverare
a
un
ragazzo
di
avere
questi
I
nostri
adolescenti
Ognuno
di
noi
individualmente
e
professionalmente,
nella
vita
ha
uno
specifico
problema
in
rapporto
all’adolescenza.
Si
tratta
di
una
età
di
trasformazione,
orientamento,
ingresso
in
cui
cia-‐
scuno
è
chiamato
a
ridiscutere
il
senso
della
società
umana
e
il
senso
stesso
della
vita.
Per
poter
accogliere
l’altro
siamo
costretti
a
rivedere
i
motivi
stessi
del
nostro
esistere.
Non
c’è
spazio
per
i
falsi,
anche
d’autore,
non
c’è
spazio
per
funambolismi
verbali,
non
c’è
spazio
per
il
principio
di
au-‐
torità,
né
quella
della
storia
né
quella
delle
tradizioni,
né
nell’autorità
morale
riposta
in
gloriosi
passati.
Gli
adolescenti
fiutano
il
falso,
l’imbroglio,
la
circonvenzione,
il
tentativo
di
plagio
a
miglia
di
distanza,
diffidano
per
definizione,
sono
una
macchina
bellica
di
grande
efficacia
nel
distrugge-‐
re
miti
e
supponenze.
Gli
adolescenti
‘difficili’
sono
tutto
questo
con
qualcosa
in
più:
hanno
sperimentato
genitori
i-‐
nadeguati,
ossia
deboli
nel
fronteggiare
le
difficoltà
della
vita
e
i
problemi
di
relazione
innanzi
tutto
per
se
stressi
ed
a
maggior
ragione
per
i
figli,
hanno
sperimentato
una
scuola
che
piuttosto
che
promuoverne
le
capacità
li
ha
bollati,
marchiati,
ruolizzati
o
come
incapaci
o
come
asociali
o
come
l’uno
e
l’altro;
hanno
sperimentato
adulti
non
sufficientemente
adulti
che
hanno
accettato
le
loro
sfide
al
loro
livello
di
aggressività,
si
sono
messi
in
competizione
con
loro
perdendo
ineso-‐
rabilmente
ogni
partita.
Hanno
quindi
motivi
di
diffidenza,
rancori,
dolori
moltiplicati
all’ennesima
potenza.
Gli
adolescenti
difficili
che
vivono
in
ambienti
emarginati,
senza
leggi,
fuori
delle
normali
rego-‐
le
di
convivenza,
aggiungono
a
tutto
questo
lo
stress
quotidiano
di
una
vita
pericolosa,
delle
leggi
selvagge
che
regolano
la
vita
criminale,
delle
condanne
a
morte
in
attesa
di
esecuzione,
delle
campagne
di
arruolamento
degli
eserciti
criminali.
La
più
grande
tragedia
di
questi
ragazzi
è
di
non
poter
vivere
il
loro
periodo
di
orientamento
e
transizione
in
modo
veramente
libero,
di
do-‐
versi
affidare
precocemente
a
certezze
che
sono
impresse
nella
loro
carne
con
il
marchio
della
morte.
C’è
un
calcolo
sbagliato
che
aleggia
in
troppi
ambienti:
lasciamoli
al
loro
destino
(o
peggio
lasciamoli
ammazzare
tra
di
loro):
ogni
ammazzato
induce
altri
–
soprattutto
giovanissimi
–
nella
stessa
spirale
autodistruttiva.
Le
persone
morte
dentro
(“cotte
sotto”,
come
ha
scritto
un
nostro
ex
allievo
finito
in
carcere)
sono
alla
ricerca
della
propria
fine
e
sono
disposte
a
uccidere
perché
non
hanno
in
nessun
conto
la
propria
e
quindi
l’altrui
vita.
Se
tutto
questo
evolve
senza
un
serio
aiuto
adulto
sfocia
in
una
ricca
messe
di
patologie
sociali
e
mentali:
l’aggressività
irrisolta
diventa
paranoia,
schizofrenia
e/o
criminalità
militante;
il
senso
di
angoscia
e
di
paura
diventa
depressione
cronica,
abulia,
complesso
di
persecuzione.
Le
grada-‐
zioni
di
queste
patologie
possono
variare
dal
grado
minimo
di
una
struttura
di
personalità
autori-‐
taria
o
dipendente,
o
–
al
grado
massimo
-‐
in
patologie
conclamate,
tuttavia
il
risultato
è
inelutta-‐
bile.
E’
in
questo
quadro
che
noi
del
progetto
Chance
ci
accingiamo
ad
inaugurare
il
nostro
settimo
anno
di
lavoro
con
gli
adolescenti
difficili.
Vediamo
quali
sono
le
novità
e
se
in
qualche
modo
riu-‐
sciamo
ad
affrontare
qualcuno
dei
problemi
in
campo.
Gli
inoccupabili
Da
sei
anni
stiamo
seguendo
giovani
che
hanno
lasciato
la
scuola
con
un
intervento
che
ini-‐
zialmente
sembrava
di
semplice
recupero
scolastico
mai
poi
è
diventata
una
esperienza
di
recu-‐
pero
umano
molto
più
complessa.
Stiamo
toccando
con
mano
cosa
accade
ad
un
giovane
che
non
va
a
scuola
quando
va
avanti
negli
anni
senza
crescere.
Quando
i
ragazzi
,
dopo
un
lungo
processo
di
avvicinamento
e
di
accettazione,
cominciano
le
attività
del
progetto
Chance,
la
prima
caratteristica
che
balza
evidente
è
la
loro
incapacità
di
con-‐
tenerere
le
emozioni:
basta
un
nonnulla
per
farli
scattare,
reagiscono
in
modo
esagerato
ed
ag-‐
gressivo
ad
ogni
contrarietà.
Anche
i
normali
adolescenti
hanno
una
certa
reattività,
ma
questi
sono
caratteristici
per
l’incontinenza
senza
freni.
Noi
diciamo
che
non
ci
sono
spazi
interni
ade-‐
guati
a
contenere
le
emozioni,
il
nostro
lavoro
consiste
nel
cercare
di
costituire
un
contenitore
e-‐
sterno
che
in
qualche
modo
aiuti
a
costruire
quello
interno.
Generalmente
questa
è
la
funzione
di
un
ambiente
familiare
sufficientemente
buono.
L’ambiente
scolastico
in
genere
utilizza
questa
capacità
di
contenimento
costruita
dalla
famiglia
per
sviluppare
l’istruzione
.
La
scuola
non
si
ac-‐
corge
che
la
disponibilità
a
lasciarsi
istruire
è
costruita
e
la
considera
un
dato
naturale;
quando
questa
condiziona
non
si
verifica
la
scuola
non
ha
i
mezzi
per
trovare
la
strada
per
vicariare
fun-‐
zioni
assenti
e
si
innesca
la
spirale
di
reciproca
ripulsa
tra
scuola
e
giovani.
Il
giovane
che
resta
fuori
della
scuola
perché
insufficientemente
sostenuto
da
una
esperienza
familiare
positiva
è
con-‐
temporaneamente
incontinente
ed
inappetente:
vuole
tutto,
espelle
tutto,
non
trattiene
nulla,
non
ambisce
a
nulla.
In
questo
modo
rinuncia
–
lui
e
la
famiglia
-‐
ad
avere
un
progetto
di
vita
e
resta
in
balia
degli
eventi.
Questo
ha
conseguenze
molto
gravi
anche
sulla
occupabilità:
non
conoscere
e
riconoscere
re-‐
gole,
non
stabilire
relazioni
costruttive,
reagire
in
modo
esagerato
costituiscono
altrettanti
osta-‐
1
Oscar Henao Mejia, Rector de la Institucíon Educativa Benjamín Herrera de Medellín (Colombia)
2
Presidente
fondazione
Fiumara
Arte
Catania
3
Principal
du
College
Pierre
Sémard
de
Bobigny
(France)
4
Educatrice-Accompagnatrice sociale di adolescenti di strada Bologna
Radicamento
e
Sradicamento
Cesare
Moreno
Scritto
per
Marvellous
Sound
Project
–MettereRadiciPerdere
19-20-21 giugno 2009
Pubblicato
in
“Mettereradiciperdere”
Mossano
(VI)
2009
Le
piante,
quelle
a
cui
si
addicono
le
radici,
con
un
po’
di
cautela
possono
mettere
radici
altro-‐
ve.
Quando
trapiantavo
giovani
piante
mio
padre
mi
raccomandava
di
conservare
almeno
un
po’
della
zolla
originaria:
la
loro
terra.
“Colui
che
giunge
annunciato
dal
rumore
dei
propri
passi
morirà
prima
del
tramonto”
Fabio:
Prima
mi
stavi
dicendo
della
scrittura
di
sé
nei
bambini…
Cesare:
Appunto
visto
che
parliamo
di
autobiografia..Ai
temi
io
pigliavo
sempre
5
e
la
motiva-‐
zione
era
quasi
sempre
che
ero
andato
“fuori
tema”.
A
dire
il
vero
sono
arrivato
a
60
anni
e
se-‐
condo
me
sono
ancora
fuori
tema.
In
realtà
non
è
che
andavo
fuori
tema…è
che
sono
proprio
un
Fuori
Tema.
Un
outsider
e
rimarrò
sempre
uno
fuori
posto.
Due
volte
ho
avuto
8
.
Ad
un
tema
in-‐
titolato
“Io”
e
un’altra
volta
la
descrizione
alla
visita
delle
grotte
di
Palinuro.
Perché
anche
lì
era-‐
no
sostanzialmente
due
temi
liberi.
“Io”
è
libero..l’altro
era
“Di
ritorno
dalle
vacanze
ricordo
una
bella
esperienza”
e
ho
raccontato
una
bella
esperienza.
Quindi
lì
non
potevo
uscire
fuori
tema
ca-‐
pito?
Quando
ho
fatto
“Io”
non
potevo
uscire
fuori
tema
perché
Io
sono
Io...Io..credo
fosse
alla
scuola
elementare
e
invece..le
grotte
di
Palinuro
era
alla
scuola
media
ma
insomma,
il
problema
era
che
avevo
un
forte
senso
di
me
e..quindi
ho
detto
tutto
quello
che
dovevo
dire
compreso,
cre-‐
do,
qualche
critica
alla
maestra
che
secondo
me
non
mi
capiva
etc.
Voglio
dire
che,
normalmente,
se
in
un
lavoro
scritto
ci
metti
del
tuo
la
cosa
non
viene
apprez-‐
zata,
facilmente
si
dirà
che
sei
andato
fuori
traccia.
E
comunque
diciamo
più
in
generale
il
tipo
di
scrittura
che
ti
viene
chiesta
a
scuola
è
o
il
tema,
o
il
riassunto.
Il
riassunto
in
realtà
è
forse
la
forma
di
scrittura
più
nobile
che
ci
sia.
Perché
significa
in
qualche
modo
rivivere
in
un
modo
tuo
quello
che
è
stato
detto
da
altri.
Noi
non
lo
chiamiamo
riassunto,
ma
quando
per
esempio
verba-‐
lizziamo
le
sedute..noi
verbalizziamo
tutto..lì
ti
accorgi
subito
dell’abisso
che
c’è
tra
le
persone.
Cesare:
Non
è
che
tu
devi
fare
una
sintesi:
Tu
in
qualche
modo
devi
aderire
al
punto
di
vista
di
chi
sta
parlando
e
in
qualche
modo
cogliere
l’essenza
di
quello
che
sta
dicendo.
Quindi
è
una
ope-‐
razione
estremamente
complessa.
Non
è
un
lavoro
sintetico
in
senso
hegheliano
né
un
lavoro
sin-‐
tetico
nel
senso
“mettiamoci
meno
parole”.
E’
un
lavoro
sintetico
nel
senso
che
devi
fare
una
sin-‐
tesi
nel
senso
chimico
del
termine
tra
due
cose
diverse
:
Io
e
quello
che
sto
sentendo.
Se
non
hai
una
disponibilità
all’ascolto
che
è
una
disponibilità
a
capire
le
ragioni
di
chi
sta
parlando,
tu
te
ne
esci
con
due
soluzioni.
O
scrivi
pedissequamente
quello
che
senti
,
ed
ho
visti
i
verbali
di
questo
tipo
e
quando
li
vai
a
riprendere
dici
“Vabbè
è
possibile
che
ho
detto
tutte
‘ste
stronzate!”.
Oppure
invece
di
scrivere
quello
che
sta
dicendo
il
Tizio
scrivi
quello
che
pensi
tu..e
quindi
non
va
bene.
Il
tutto
deve
essere
fatto
in
tempo
reale
e
questo
conta
perché
c’è
una
terza
componente
che
è
l’emozione
del
momento
che
ti
fa
venire
fuori
un
prodotto
originale.
A
volte
interviste
fatte
da
giornalisti
bravi
o
dei
report
fatte
da
Oriana
ti
restituiscono
una
immagine
di
te
migliore
di
come
te
la
vivevi
tu
.
Invece
dire
quante
stronzate
ho
detto
…dici
“Ma
che
cose
belle
che
ho
detto!”.
L’altro
ci
ha
messo
del
suo
.
Questo
accade
anche
nel
riassunto
.
Il
riassunto
quando
cerchi
di
ri-‐
spondere
a
queste
domande
“Ma
io
come
l’ho
vissuta
questa
cosa?”.
Quali
sono
le
risonanze
che
ci
sono
state
tra
me
e
ciò
che
ho
letto
?
Come
restituisco
il
riassunto?
Non
uno
scritto
con
meno
pa-‐
role,
ma
una
cosa
che
è
la
fusione
del
mio
punto
di
vista
con
quello
che
ha
detto
l’altro.
Questa
è
una
bella
cosa.
Fabio:
Questo
in
realtà
richiama
anche
a
dei
processi
di
ri-‐significazione.
Cesare:
Bravo.
In
conclusione
tutta
la
nostra
vita
è
questo.
Tutta
la
nostra
vita
è
come
se
noi
ri-‐
scrivessimo
il
mondo,
mettendoci
del
nostro.
Una
ri-‐significazione
di
tutto.
Se
non
c’è
questo,
se
mi
limito
a
recepire
i
significati
che
mi
hanno
dato
gli
altri
..il
mondo
rimarrebbe
sempre
uguale
a
se
stesso.
Non
solo,
forse
la
metà
delle
cose
è
frutto
di
fraintendimenti
:
“ho
capito
una
cosa
per
un’altra”
ciononostante
si
produce
qualcosa
di
nuovo.
Da
questo
punto
di
vista,
il
riassunto
è
un’arte
.
Un’arte
nobilissima,
la
più
nobile
di
tutte
perché
è
facile
–
si
fa
per
dire
-‐
inventarsi
una
Fabio
:
Mi
colpiva
questa
cosa
in
merito
al
narrarsi,
al
narrare
di
sé.
Leggevo
in
uno
dei
tuoi
ar-‐
ticoli
la
difficoltà
anche
di
parlare
di
vicende
personali
in
dei
contesti
in
cui
non
esisti
tu
solo
co-‐
me
bambino
,
ma
hai
un
contesto
familiare
in
cui
parlare
può
comportare
dei
problemi
oggettivi.
Mi
viene
da
pensare
che
nel
momento
in
cui
devi
narrare
di
te,
lo
puoi
fare
solo
a
livello
simboli-‐
co.
Utilizzando
simboli
attraverso
i
quali
sprigionare
in
qualche
modo
quello
che
hai
dentro.
Pos-‐
sono
essere
anche
le
fiabe…modalità
diverse
del
narrarsi.
Il
simbolo
è
uno
degli
scopi
ricorrenti
che
ho
trovato
nel
corso
…anche
quello
della
madre
sociale…è
un
qualcosa
che
nella
sua
accezio-‐
ne
originaria
sono
proprio
due
tessere
spezzate
simbolo
dell’alleanza.
In
che
modo
vivi
l’alleanza
nell’educativo
?
Qual
è
l’aspetto
che
è
veramente
simbolico
in
senso
stretto
nella
relazione
tra
in-‐
segnante
e
bambino…in
questi
contesti
e
nel
contesto
del
narrarsi?
Fabio
:
certamente
questa
metafora
della
pinza
per
gli
oggetti
incandescenti
ci
fa
pensare
ad
una
sua
duplice
funzione.
Se
da
una
parte
dobbiamo
cogliere
quegli
oggetti
in
modo
tale
da
non
scottarci,
dall’altra
una
volta
che
si
sono
raffreddati
ce
ne
dobbiamo
riappropriare,
reintroiettare.
Fabio:
Rispetto
al
viversi
le
emozioni
da
parte
degli
insegnanti
occorre
rilevare
che
è
molto
poco
sviluppata
l’intelligenza
emotiva
.
Viene
lasciata
a
sé
sia
nell’adulto
che
nel
bambino.
Quanto
e
come
credi
possa
influire
e
soprattutto
come
lavorate
in
quei
contesti
in
cui
gestire
le
emozioni
fa
la
differenza
delle
relazioni.
A
scuola
questo,
almeno
in
quelle
istituzionali,
non
viene
neanche
preso
in
considerazione.
Cesare
:
Il
problema
…non
è
la
scuola
che
non
considera
le
emozioni.
E’
un’intera
cultura
che
ha
una
idea
dello
sviluppo
personale
come
di
….come
una
sorte
di
evoluzione
creativa.
In
questa
l’uomo
pensante
razionale
lineare,
intelligente,
etc.
ha
sepolto
l’Uomo
emozionale
ed
ha
sepolto
anche
il
bambino
emozionale.
In
realtà
non
è
così…in
ogni
singolo
atto
di
conoscenza
si
mescola-‐
no
emotività,
casualità,
casualità,
ragione.
L’atto
di
conoscenza
è
un
atto
complesso
e
non
lineare.
Entro
in
rapporto
con
l’oggetto
lo
manipolo,
stabiliscono
relazioni
con
lui,
mi
lascio
invadere
dal
sentimento
di
lui
.
La
famosa
sintesi,
in
cui
l’oggetto
esiste
in
sé,
è
un
universale
e
non
è
solo
‘per
me’
viene
molto
dopo,
e
comporta
ogni
volta
un
travaglio
interminabile.
In
realtà
ogni
atto
di
co-‐
noscenza
è
un
complesso
di
atti
di
conoscenza
su
piani
diversi.
Il
piano
emotivo
è
sempre
presen-‐
te.
Ho
fatto
una
raccolta
di
citazioni
a
riguardo
.
Anche
Einstein
che
può
essere
tacciato
di
tutto
tranne
che
di
irrazionalità,
lo
dice
in
modo
chiaro:
la
ricerca
scientifica
è
possibile
solo
perché
c’è
una
passione
che
è
dello
stesso
tipo
di
quella
che
un
amante
ha
per
la
propria
amata.
E’
lo
stesso
tipo
di
rapporto
–
dice
Albert
-‐
che
San
Francesco
e
Democrito
hanno
con
la
natura.
Il
contempla-‐
tivo,
la
cosmica
meraviglia
del
mondo
vengono
prima
di
qualsiasi
discorso
razionale.
E
se
questo
non
c‘è
la
ragione
è
vuota,
è
follia.
Fabio:
Leggendo
il
tuo
articolo
sul
fatto
di
cronaca
accaduto
a
Palermo
mi
era
venuto
in
mente,
mi
aveva
richiamato
il
senso
della
punizione.
Ho
quindi
ripensato
ad
un
romanzo
che
per
anto-‐
nomasia
affronta
il
senso
del
pentimento
e
della
punizione
:
Delitto
e
castigo
di
Dostoevskij
.
In
cui
c’è
da
parte
di
Raskol’nikov
una
serie
tormentata,
prima
di
arrivare
a
concepire
il
passaggio
attraverso
il
perdono
istituzionalizzato.
D.
ti
porta
fino
ad
un
certo
limite
in
cui
ti
domandi
“Vab-‐
bè
ma
se
fondamentalmente
si
è
pentito
e
lo
ha
fatto
con
tormento…serve
poi
andare
oltre?”
.
In
realtà
l’incontro
con
Sonia
è
rivelatore
rispetto
al
Perdono
.
Decide,
pur
avendola
fatta
franca
di
costituirsi.
Per
cui
ciò
che
mi
colpisce
è
quanto
conta
il
pentimento
personale
rispetto
ai
canali
i-‐
stituzionali
nelle
situazioni
di
disagio.
Nel
momento
in
cui
ti
vivi
un
contesto
che
avverti
come
in-‐
giusto…secondo
te
c’è
il
senso
o
la
necessità
di
essere
perdonati
in
contesti
di
difficoltà
primaria
nell’approccio,
nell’integrarsi
all’interno
della
società?
Avverti
che
ci
sia
questa
necessità
da
parte
di
tutti
di
essere
perdonati,
chiaramente
non
nel
senso
cattolico,
quasi
un
riconoscimento
della
totalità
dell’altro
nei
suoi
aspetti
positivi
o
negativi
.
Cesare:
Avere
il
perdono…io
ripeto
il
discorso
che
ho
fatto
in
quella
lettera.
La
prima
cosa
è
che
io
mi
devo
sentire
in
colpa..e
io
mi
sento
in
colpa
se
ho
il
senso
di
un
debito
non
pagato,
una
rottura
che
è
avvenuta.
Il
discorso
del
Perdono
non
lo
riesco
a
vedere
se
non
nel
discorso
di
dire
“Devo
riparare”.
Ma
questo
riparare
naturalmente
deve
fare
i
conti
con
la
soggettività
dell’altro
.
Riparare
non
può
significare
che
io
me
ne
vado
in
una
grotta
in
montagna
mi
metto
il
cilicio
e
mi
auto-‐punisco.
Perché
ciò
che
è
importante
non
è
infliggere
il
dolore
al
Reo
ma
riprendere
il
confronto
con
l’altro
e
da
questo
punto
di
vista
..ci
sto
riflettendo
in
questo
momento…questa
idea
del
perdono,
forase
c’entra.
L’idea
che
ci
debba
essere
un’attività
di
conciliazione.
Tutto
quel
discorso
che
faccio
sulla
pu-‐
nizione
ha
un
unico
corollario
..insisto
a
dire
che
l’unica
punizione
che
ha
senso
è
quella
vissuta
socialmente.
Adesso
la
tua
domanda
sul
perdono
ripropone
in
termini
diversi
la
stessa
cosa.
O
la
parte
offesa,
o
un
suo
rappresentante
…qualcuno
ci
deve
essere
che
mi
restituisce
il
senso
della
mia
espiazione.
Uno
che
dice
“ok.
Hai
saldato
il
conto!”.
Non
è
possibile
farlo
mettendo
i
soldi
su
un
conto
anonimo
in
una
banca
svizzera.
Se
sono
in
debito
con
te
i
soldi
li
devo
restituire
a
te
e
la
ricevuta
me
la
devi
dare
tu.
Che
io
Prenda
10
volte
tanto
la
cifra
e
la
versi
in
un
conto
svizzero
dove
faccio
beneficenza
ai
bambini
malati
di
AIDS…non
ha
senso.
Questa
idea
che
dici
tu..il
Per-‐
dono
…avere
di
fronte
a
me
o
la
vittima
o
un
suo
rappresentante,
o
una
persona
che
rappresenta
la
vittima
per
eccellenza
,
l’Innocente
è
quello.
Colui
che
è
Innocente
è
l’unico
che
mi
può
restitui-‐
re
tutte
le
colpe
di
cui
non
conosco
la
vittima.
Per
il
semplice
fatto
di
esistere
e
di
avere
relazioni
sociali
qualche
colpa
ce
la
devo
avere.
Come
bisogno
generale
e
non
quindi
come
“ho
fatto
un
er-‐
La terza sono le pratiche di autovalutazione degli allievi prima fra tutte quella riguardante la
presenza
Le pratiche di autovalutazione sono essenziali per innescare processi di empowerment
reale, presa di potere dei ragazzi su se stessi. Il primo potere è l’essere presenti a se stessi, e
le pratiche di autovalutazione aiutano grandemente questo
La quarta sono le pratiche comunicative verso i ragazzi e le famiglie, il modo in cui si intrec-
cia la comunicazione circa i risultati scolastici con un vera e propria azione di sostegno
alla genitorialità e mediazione nei rapporti tra adulti ed adolescenti
Le pratiche comunicative sono efficaci in quanto attivano il sostegno dei gruppi di riferimen-
to ai ragazzi che apprendono. Se i ragazzi non sentono la condivisione emotiva da parte degli
ambienti sociali di riferimento non assumono quella posizione dell’apprendere che rende pos-
sibile la comunicazione educativa, si oppongono ad ogni comunicazione efficace.
Esperienze
precedenti:
Militanza politica a tempo pieno dal 1967 al 1976 Lavori precari nel campo della ricerca so-
ciale dal 1974 al 1984 Concorso vinto come insegnante elementare nel 1983/1984; ho inse-
gnato solo e soltanto nelle zone più difficili e nelle classi rifiutate da altri docenti. Nel 1994-96
sono stato consulente del Ministro per i problemi della dispersione e responsabile a Napoli
del piano provinciale di intervento sulla dispersione che contava su oltre 400 docenti utilizzati.
Sono stato cacciato per eccesso di zelo e per dichiarata invidia. Dopo la mia cacciata gli in-
terventi sistemici sulla dispersione sono stati progressivamente smantellati e il Progetto
Chance rappresenta sempre più una sorta di relitto fossile in un panorama di rovine. Dal 1996
al 2003 ho svolto gratuitamente l’incarico di responsabile educativo dell’Opera Pia Orfanotro-
fio Famiglia di Maria, un semiconvitto che si occupa dei ragazzi che vivono le condizioni più
difficili nel mio quartiere. Un’esperienza che mi ha nesso in contatto con il lavoro di comunità
e che ha avuto una importanza centrale nel suggerirmi una serie di costrutti pedagogici in ge-
nere non presenti nelle organizzazioni scolastiche. Da questa esperienza sono stato estro-
messo per il semplice fatto di non appartenere a nessun raggruppamento politico: ciò mi è
stato detto esplicitamente dallo stesso assessore che finanzia il Progetto Chance e che è re-
sponsabile dei semiconvitti. Nessuna delle innovazioni da me portate nell’istituto è stata man-
tenuta.
Nel 1998 ho cominciato il Progetto Chance come coordinatore del modulo San Giovanni
Barra.
Ruolo attuale: svolgo, sulla base di una autoinvestitura, il ruolo di coordinatore cittadino
insieme a due colleghi; abusivamente sono anche promotore dei progetti di sviluppo di
Chance. Sono sicuro che la cosa è sgradita a molti e soprattutto lo è sempre di più a me
stesso. Proseguo per pura dipendenza tossicologica, anche se continuo a farmi del male.
Forse mancano delle domande – a cui del resto si può rispondere consultando altre fonti –
sugli assetti istituzionali.
Quale
motivazione?
Una domanda che ritengo particolarmente importante è quella sulle motivazioni, su ciò che
muove ciascuno a impegnarsi in una impresa così difficile.
La mia risposta è che questo è l’unico modo per appartenere ad una città che è profonda-
mente ingiusta e che lo è particolarmente verso i giovani. E anche l’unico modo che conosco
per soddisfare la mia smisurata ambizione di contribuire ad affrontare un problema vero piut-
tosto che limitarmi a svolgere diligentemente un lavoro salariato. Ho piuttosto in sospetto in-
vece le motivazioni altruistiche, riparatorie, missionarie, ideologiche. Mi piacerebbe di avere
una motivazione puramente egoistica, ma sempre più spesso sono assalito dal dubbio che in
realtà la mia sia una motivazione profondamente masochistica. Da evitare come la peste.
Illustri
sinteticamente
cosa
si
intende
per
“maestro
di
strada”,
come
nasce,
come
opera
nella
scuola
e
quali
attività
svolge
come
associazione.
La definizione sloganistica è andare dove l’allievo sta con la mente e con il cuore e non dove lo ab-
biamo confinato noi che sia un regolamento, un ordinamento didattico, o una pagina di manuale. Il no-
stro punto di vista è che l’educazione nasce da un incontro il cui esito non è scontato, che occorre stabi-
lire innanzi tutto una relazione, poi viene tutto il resto. Questo sul piano della didattica significa valo-
rizzare i vissuti degli allievi. L’allievo non è una tabula rasa ma portatore di diverse e contraddittorie
esperienze. L’abilità didattica del docente non è saper esporre la disciplina ma saper incontrare
l’esperienza dei giovani e aiutarli a rielaborarla e tradurla nei linguaggi formali, attribuendo, quindi,
grande importanza agli apprendimenti informali e situati. Sul piano della metodologia pedagogica si-
gnifica attribuire grande importanza ai contesti, alle condizioni relazionali ed emotive in cui ha luogo il
processo di apprendimento. Ma l’apprendimento dall’esperienza è ostacolato da innumerevoli ostacoli
emotivi per cui essere maestri di strada significa anche essere guide in cammini perigliosi, accompa-
gnatori dei giovani in un percorso di conoscenza che ha necessariamente anche alcuni caratteri iniziati-
ci.
E’ nata prima l’istituzione “Progetto Chance” che è parte della scuola statale, e poi l’associazione.
Maestri di strada. Questa è una espressione che, credo, sia stata usata per la prima volta dall’UNICEF a
New York o in Israele per designare un docente a tutto campo che si muoveva anche fuori delle aule
scolastiche. Nella città di Napoli abbiamo cominciato ad operare in questa direzione nell’ambito del
Progetto Chance che consisteva e consiste nel recupero dei ragazzi drop-out dalla scuola dell’obbligo
alla relazione positiva con sé e con gli adulti di riferimento, nel recupero alla socialità e alla cittadinan-
za, nel recupero alla scuola. L’associazione è nata da operatori del progetto non solo per fare operazioni
che riusciva difficile fare in ambito istituzionale o per diffondere le metodologie ad ambiti non scola-
stici ma anche per promuovere lo sviluppo di una comunità di apprendimento professionale che vada
oltre i confini del progetto napoletano.
Che
bisogni
di
psicologia
percepisce
nella
scuola?
Dove
vede
l’utilità
della
psicologia
nella/per
la
scuola?
Nella scuola come in altre istituzioni in cui si lavora essendo fortemente implicati in una relazione,
c’è un forte bisogno di riflessione sulle pratiche, su se stessi e di capire cosa accade nelle persone con
cui interagiamo. Spesso la risposta istituzionale agli evidenti problemi della scuola e dei giovani in ge-
nerale ripropone formule stereotipate derivate da varie scienze e che sono inadeguate e talora dannose
perché impediscono un serio esame dei processi reali. Altre volte singoli docenti o loro espressioni or-
ganizzate propongono formule e battaglie ingenuamente solidaristiche, ma la voglia di aiutare l’altro
scivola facilmente in forme collusive verso comportamenti regressivi. La psicologia potrebbe dare un
grande aiuto a dipanare una situazione fortemente complessa, intricata fino al garbuglio. Non sempre
però, da parte di chi domanda e da parte di chi risponde, ci si riferisce ad una simile complessa profes-
sionalità e si scivola troppo spesso verso interventi ad hoc puntiformi e mai sistemici.
Il primo bisogno che avverto è quindi quello di una buona psicologia che sia centrata sui processi di
apprendimento. Questi sono profondamente e radicalmente sociali e di conseguenza profondamente
collegati alle relazioni e alle emozioni. L’apprendimento non è un processo lineare solo cognitivo, ma
un processo complesso connotato da forti emozioni. Le emozioni motivano all’apprendimento e al
tempo stesso creano ostacoli e barriere. Aiutare i docenti a trovare la giusta strada tra emozioni moti-
vanti – insegnamento significativo – e il modo di contenere ansie e paure dovrebbe essere il compito
della psicologia, quindi non un compito per affrontare ‘casi’ e neppure per affrontare situazioni diffici-
li, ma uno strumento ordinario per gestire la complessità del processo di istruzione ed educazione.
La immagino come una sorta di supervisione a tutta l’attività della scuola, una attività di vigilanza
attenta al campo emozionale, così come in altri campi abbiamo chi vigila sul paesaggio o sui beni arti-
stici. La scuola è anche un’istituzione della cura, come tale ogni sua manifestazione è messaggio: sono
messaggi i muri, il loro colore, la loro pulizia, sono messaggi gli orari di ricevimento, i modi di apo-
strofare i giovani e i loro genitori, il modo di mettere i voti e di calcolare le medie, i modi di gestire
l’ordine e la disciplina etc. Bisognerebbe che ogni questione sia vagliata attentamente nei suoi signifi-
cati, nei messaggi impliciti ed espliciti che trasmette. La scuola è ammalata di razionalismo. Spesso i
docenti sonno irrazionalmente appassionati di razionalità, perché questo corrisponde ad un bisogno di
controllo del campo e di difesa di sé che in mancanza di altro si esprime con il mettere i famosi “palet-
ti”. L’idea che basta spiegare un qualcosa perché questo sia accettato e usato nella prassi genera delu-
sione e rabbia nei confronti degli allievi refrattari, un furore punitivo a cui l’attuale ministro ha dato la
stura ma che preesisteva da lungo tempo. In un certo senso si tratta di una malattia professionale con-
nessa all’insegnare inteso come ficcare in testa (insegnare è voce medievale che deriva dal gergo stu-
dentesco che così designava il docente che ‘ficcava in testa” i segni) e in un certo senso non si potrà
mai essere immune da essa. Occorre perciò che contemporaneamente ci sia un richiamo sistematico al
fatto che le comunicazioni non sono definite solo dal loro contenuto esplicito ed informativo ma anche
dalle condizioni relazionali in cui si svolgono e ricordare che specie i giovani sono più sensibili al con-
tenuto emotivo e relazionale delle comunicazioni che non al contenuto esplicito. Dalla tensione tra que-
sti due diversi vertici può nascere anche una capacità di autogoverno dei giovani in relazione alle emo-
zioni e alla capacità di usare le conoscenze di base fornite dalla scuola.
Che tipo di collocazione istituzionale vede per lo psicologo scolastico?
Nel quadro che ho descritto finora lo psicologo non può essere né un consulente esterno, né uno
specialista di casi. Deve essere parte organica di uno staff tecnico che dovrebbe curare il funzionamen-
to della scuola come luogo educativo e comunità di apprendimento, dovrebbe essere parte di una fun-
zione sistemica e contribuire alla progettazione-direzione del servizio scolastico ed insieme alla sua ac-
curata realizzazione. Dovrebbe essere quindi solidamente incardinato nella ISTITUZIONE scolastica e
non essere membro di un ‘corpo speciale’ di psicologi della scuola o peggio di un gruppo di specialisti
esterni che intervengono a domanda.
Come accennato in precedenza lo psicologo dovrebbe accompagnare i docenti a stabilire una corret-
ta relazione con gli allievi, a curare le configurazioni pedagogiche di lavoro tenendo conto del loro con-
tenuto emozionale e relazionale. Viceversa il docente dovrebbe imparare ad osservare e ad affinare le
proprie capacità di relazionare agli altri i contenuti delle osservazioni partecipate sviluppate nel corso
del lavoro. In questa interazione circolare c’è un arricchimento reciproco delle due professionalità, psi-
cologica e pedagogica, che dovrebbe alla fine portare alla creazione di una vera e propria professionali-
tà gruppale, che non è l’equipe di esperti sommatoria di monadi scientifico-professionali, ma un gruppo
coeso ed integrato in cui ciascuna professionalità assume nelle sue pratiche modalità di lavoro apprese
dall’altro e condivise e monitorate nei gruppi di lavoro.
Quale
potrebbe
essere
il
contributo
dello
psicologo
scolastico
alla
gestione
a
scuola
delle
difficoltà
di
apprendimento
e
dell’integrazione
dei
disabili
La gran parte delle difficoltà dia apprendimento in realtà sono a base socio-affettiva. Anche quelle
che hanno origine in disturbi neurologici o fisiologici sviluppano ‘sovrainfezioni’ di carattere sociale e
relazionale. Un buon lavoro psicologico potrebbe servire innanzi tutto a depurare le difficoltà dalle so-
vrainfezioni relazionali e creare quindi un clima sereno in cui la difficoltà trova nello stesso gruppo
classe un momento importante di sostegno. Il sostenere emotivamente chi sta in difficoltà è possibile
quando la difficoltà viene condivisa, accettata come situazione in cui tutti, in misura diversa, ci trovia-
mo. Tutto questo faciliterebbe anche l’affrontare difficoltà più persistenti legate a patologie organiche.
Questo però è possibile a patto che anche i docenti ‘specialisti’ assumano un ruolo ed un atteggiamento
Lo psicologo scolastico può avere un ruolo per le forme alternative di didattica e per l’istruzione in situazioni atipiche?
Una buona organizzazione scolastica, che voglia incontrare l’allievo e la sua cultura e non catechiz-
zare il “buon selvaggio”, dovrebbe per definizione inventare ogni giorno situazioni alternative, io direi
su misura, e inventare situazioni atipiche che designiamo genericamente come informali. Da questo
punto di vista un buon psicologo, che aiuta a leggere decifrare i comportamenti dei giovani, che aiuta a
gestire gli insuccessi e le sconfitte pedagogiche può avere un grande ruolo nell’inventare nuove risposte
ai bisogni emergenti ed insieme mantenere come invariante la capacità di accogliere e rispettare in mo-
di sempre nuovi l’integrità della persona dell’allievo.
Che
rapporto
esiste
o
potrebbe
esistere
tra
la
sua
associazione
e
la
psicologia?
Come
sarebbe
possibile
sviluppare
tale
rapporto
in
futuro?
La mia associazione in tutti i progetti che propone, che sono di carattere educativo e formativo, pro-
pone la presenza dello psicologo come figura essenziale per la cura delle configurazioni di lavoro, e per
lo sviluppo di ‘professioni riflessive’. Ha utilizzato spesso psicologi per la conduzione di gruppi anche
quando questi non erano centrati sulla relazione ma su specifici compiti.
Lo sviluppo di questo rapporto potrebbe muovere in tre direzioni:
1) primo monitorare e modellizzare le esperienze svolte fino a proporre dei veri e propri standard di
prestazione professionale
2) secondo utilizzare le attività dell’associazione come tirocinio per psicologi che intendano dedicarsi
in qualche modo alla scuola e all’apprendimento in età evolutiva
3) terzo realizzare una ricerca intorno a nuove forme in cui può svolgersi l’attività psicologica nel la-
voro educativo scolastico ed extrascolastico.
San Giovanni a Teduccio, Napoli. Ci troviamo sul lungomare, di fronte a noi il golfo di Napoli che da
qui, con le luci del tramonto, sembra un luogo incontaminato, privo delle contraddizioni e dei problemi
che caratterizzano, ormai proverbialmente, la città partenopea. Eppure Napoli è anche, e ancora,
questo: un luogo meraviglioso con scenari da cartolina a conferma di un territorio che non si rassegna
e che, nonostante quotidianamente stuprato dall’idiozia e dall’ingordigia umana, continua sfacciato a
mostrare la sua bellezza resistente.
Ci troviamo in compagnia di
Cesare Moreno, Maestro di Strada, che attraverso il suo impegno pedagogico, sociale e politico, come
la terra in cui è nato e cresciuto, non si rassegna e non si arrende.
Orizzonti
Cesare: Siamo qui al centro del Golfo di Napoli, a destra c’è Ischia, a sinistra c’è Capri, sulla terra fer-
ma a destra c’è Posillipo, a sinistra Sorrento. Il mare è calmo, il cielo è coperto però c’è un.. un… come
si dice, … uno schermo di luce sullo sfondo che pare ci siano dei riflettori. L’orizzonte è molto pulito e
questo mi ricorda le mie prime lezioni in una scuola che stava qui e siccome era un cesso totale…io e i
bambini guardavamo fuori e facevamo la descrizione di tutto quello che vedevamo e io gli dicevo
“guardate quello è l’orizzonte” e loro continuavano a dirmi “ma com’è quella cosa, ma di che colore è,
ma come è fatto?”. Cioè, mi hanno fatto capire che, in conclusione, l’orizzonte è un concetto non una
cosa. Non è un luogo no, c’è e non c’è; se uno guarda attentamente non sa bene quale è il punto di se-
parazione. L’operazione di separare non è fisica, ma mentale
E questo fa la differenza tra chi sviluppa un pensiero concettuale e chi invece è legato agli oggetti. Per
chi è legato agli oggetti, l’orizzonte è come se non lo riuscisse a vedere e così non riesce a vedere tutte
le cose che si vedono perché c’è una sfumatura, che si vedono perché le pensi prima di vederle e quindi
questo è un po’ il nostro mestiere di maestri di strada: riuscire a vedere le cose che si vedono, ma non
sai di vedere.
Luisa:
Ci
racconti
un
po’
la
tua
storia
di
maestro
di
strada?
È
una
storia
lunga…dopo
tutti
questi
anni…,
però
se
riesci
a
farcene
un
riassunto,
così
che
anche
noi
che
conosciamo
la
storia
dei
Maestri
di
Strada
perché
ab-
biamo
letto
qualcosa,
ci
costruiamo
un’idea
più
dal
di
dentro.
Cesare:
Le
storie
cambiano
a
seconda
dell’interlocutore;
magari
io
vi
dico
delle
cose
che
se-‐
condo
me
sono
interessanti
per
chi
si
sta
formando,
per
chi
sta
facendo
il
mestiere
di
educatore
o
sta
cercando
di
diventarlo,
di
farlo,
ecc.
Educazione
e
seduzione
Luisa:
e
quindi
nei
conflitti,
nelle
discussioni
come
vi
comportate?
Cesare: Democraticamente proprio: se vi azzardate a votare vi uccido! Non una maggioranza ma una
dittatura suprema…(risate)
Scherzi a parte, le discussioni più accese che vengono fatte riguardano sempre la selezione dei ragazzi.
Praticamente noi andiamo a valutare se il ragazzo ce la può fare a stare in “Chance”, perché è inutile
che ti pigli uno che non ce la può fare, che non vuole farcela, che leva il posto a uno che potrebbe far-
cela, etc.. Quindi, sul fatto che questo sia giusto io non ho dubbi. Ma tu ti chiedi: che fine fanno questi?
Fanno la fine...che ci vorrebbero altri strumenti, con gli strumenti che abbiamo noi non possiamo fare
di meglio, ma questo è un altro discorso. Si dà il caso che gli esclusi suscitino l'amore incondizionato
delle persone, almeno dei professori di “Chance” e in particolare delle signore, ma anche dei signori.
Praticamente più il tizio è disgraziato, più l'insegnante se ne innamora.
Luisa:
una
seduzione
reciproca?
Cesare: una seduzione proprio all'ennesima potenza. Quindi, si fanno discussioni eterne e, chiaramente,
succede che facendo una discussione, razionalmente, tutti quanti alla fine si dica: “effettivamente è me-
glio che non prendiamo Gennarino perché rischiamo addirittura di fargli del male”. E quindi si decide.
Mentre stai decidendo, uno dice: “sì, però io non sono d'accordo, secondo me va bene, etc.”. “Ma que-
sto cosa significa? Che cosa stai dicendo?”, “No, no, non voglio rimettere in discussione tutto…”. E al-
lora io rispondo: “E, no. Ora io voglio rimettere in discussione.
Cioè non è tollerabile che noi facciamo una cosa con una persona che all'ultimo momento esprime una
riserva… Allora io ne voglio discutere fino in fondo”.
Anche perché c’è una cosa molto pericolosa e assolutamente da evitare e cioè che alla fine qualcuno
dica: “visto, io avevo ragione e tu avevi torto..”, perché se la realtà ci smentisce, deve smentire tutti e
due. No, ci siamo tutti e due, quindi facciamo tutte le cose per bene finché non siamo convinti che que-
sta è la decisione più giusta. Questo porta via molto più tempo, però alla fine siamo uniti, siamo uniti
anche nell'errore. Infatti, io dico sempre questa frase: “Signori non è importante che noi sappiamo la
verità perché come si fa a stabilire la verità su Gennarino visto che non la sa né lui, né il padre, né la
madre, né Gesù Cristo! Quindi non vedo perché noi dobbiamo sapere la verità su Gennarino. Quello
che è importante è che ci mettiamo d'accordo su una visione di Gennarino dopodiché i fatti conferme-
ranno o smentiranno. Ma confermeranno o smentiranno la visione di tutti, non di uno contro gli altri.
Quindi, da questo punto di vista il concetto di maggioranza e minoranza proprio non ha senso perché
non ha senso che una cosa sia vera perché la maggioranza dice che è vera, anche perché spesso le cose
vere le dicono le minoranze. Quello che ha senso è di tenere vive tutte le ipotesi. L’altra cosa è questa:
noi siamo educatori, noi non siamo giudici, non siamo funzionari che assegnano alloggi, non siamo
medici che danno una cura, etc. Noi siamo persone che stanno a fianco ai ragazzi per anni: non ha sen-
so pensare che tu hai ragione e quindi si fa quello che dici tu, io ho torto, quindi, non si fa quello che
dico io. Facciamo assieme quello che bisogna fare, poi sarà il ragazzo e la realtà che nel corso del tem-
po si incaricheranno di modificare le cose”.
L’atteggiamento da ultima spiaggia, del tipo “decidiamo a maggioranza”, “o sei d'accordo con me o sei
contro di me”, in certe occasioni si può anche fare: ad esempio, se stiamo votando una legge, se dob-
biamo votare se la casa si può allargare del 20% o del 50%. Ma sui ragazzi, non possiamo girarcela tan-
to; stiamo discutendo della vita di una persona. Se stiamo discutendo di un processo educativo, di un
processo di cambiamento, che senso ha che ci schieriamo gli uni contro gli altri? La famosa discussione
sulla promozione o bocciatura: ma pensate al fatto che la scuola ha in mano questi disgraziati per dieci
anni! Vogliamo pensare: in dieci anni, noi a questi che gli facciamo? Viene bocciato due volte: e chi se
ne frega se è stato bocciato, ma lo abbiamo fatto crescere? Questo è il punto, abbiamo un periodo di
dieci anni e dobbiamo valutare bene questa cosa!
Dagli
all’untore
Rovesciare
la
monnezza
su
un
potere
di
merda
poteva
essere
persino
un’operazione
liberato-‐
ria;
una
carnevalata
a
parti
invertite.
Ma
sarebbe
stato
quasi
una
rivoluzione.
L’astuzia
della
non
ragione
conosce
bene
le
vie
della
perversione:
bisogna
trovare
l’untore,
uomini
ancora
più
reiet-‐
ti
su
cui
riversare
la
Colpa.
Il
15
dicembre
del
1996
furono
arrestati
due
giovani
con
l’accusa
di
pedofilia.
Dirigevano
un
semiconvitto
in
una
delle
zone
più
degradate
del
quartiere
San
Giovanni.
C’era
stata
una
epide-‐
mia
di
tigna
–
un
fungo
della
pelle
che
da
qualche
irritazione
-‐
vissuta
come
se
fosse
stata
una
e-‐
pidemia
di
lebbra.
I
genitori
dei
bambini
‘normali’
fecero
picchetti
per
impedire
l’ingresso
degli
appestati,
si
cercava
di
espellere
il
corpo
estraneo
ed
infine
nei
giorni
più
caldi
presidente
e
se-‐
gretario
dell’ente
appestato
furono
arrestati
come
pedofili
(e
scarcerati
due
giorni
dopo
per
non
aver
commesso
il
fatto).
Nei
quartieri
orientali
della
città,
San
Giovanni,
Barra,
Ponticelli,
(ma
an-‐
che
in
altri
che
conosco
meno)
periodicamente
si
sviluppa
una
psicosi
che
misura
come
una
bi-‐
lancia
sensibilissima
il
grado
di
disfacimento
delle
relazioni
prossime.
Vissi
questo
episodio
co-‐
me
una
perfetta
riproduzione
della
pestilenza
che
aveva
assalito
i
greci
all’assedio
di
Troia.
Nes-‐
suna
epidemia
è
possibile
se
non
ci
sono
state
offese
agli
dei,
se
non
c’è
da
qualche
parte
nascosto
un
delitto
innominabile.
Il
ladro
di
bambini
se
non
ci
fosse
bisognerebbe
inventarlo.
All’origine
dei
moti
che
portarono
a
prendere
d’assalto
la
Bastiglia
ci
fu
anche
la
diceria
che
il
re
si
sarebbe
abbeverato
nel
sangue
dei
bambini.
Nel
nostro
caso
ci
siamo
limitati
ad
assaltare
un
campo
Rom,
ma
solo
perché
nessuno
conosce
l’indirizzo
della
nostra
Bastiglia.
Febbraio
2007
a
300
metri
dal
semiconvitto
della
tigna
c’è
un
Istituto
Professionale
per
il
Commercio:
una
scuola
d’elite
visto
il
contesto;
di
fronte
c’è
il
Parco
Troisi,
un
parco
verde
che
è
l’orgoglio
della
zona.
Un
giorno
7
studenti
attraversano
la
strada
con
una
compagna,
5
la
violen-‐
tano
nel
parco,
2
riprendono
tutto
e
spediscono
a
you
tube.
E’
scandalo.
Quelli
che
sanno
dove
la-‐
voro
mi
chiedono
naturalmente
se
sono
stati
i
miei
allievi
e
gli
rispondo
che
da
noi
abbiamo
me-‐
todi
che
cercano
di
creare
un
gruppo
solidale
che
è
l’unico
antidoto
al
branco
aggressivo.
All’indomani
del
fatto
la
Provincia
ha
inviato
una
squadra
di
52
psicologi
in
tutte
le
classi
ad
in-‐
dagare
sulle
condizioni
che
avevano
potuto
determinare
quel
fatto.
Il
responso
sarebbe
stato
di
questo
tenore:
il
livello
di
asocialità
era
tale
per
cui
ci
si
meravigliava
che
ci
fosse
stato
un
solo
episodio
di
quel
tipo.
La
cosa
non
mi
meraviglia;
non
basta
che
in
un
luogo
ci
sia
riunita
una
mas-‐
sa
di
persone
per
farne
un
luogo
sociale,
è
necessario
che
il
sapere
e
la
cultura
siano
usati
per
promuovere
legami
sociali
e
quindi
reciproco
rispetto
e
non
solo
per
mettere
un
voto
sui
registri.
Sono
decenni
e
secoli
che
si
dice
che
Napoli
prima
o
poi
scoppia,
che
ci
dovrà
essere
una
rivo-‐
luzione.
Pochi
giorni
fa
ho
sentito
un
giornalista
che
rivolgeva
per
l’ennesima
volta
questa
do-‐
Dispotismo
meridionale
Il
cosiddetto
‘dispotismo
orientale”
sembra
riuscisse
a
sopravvivere
nonostante
tutto
per
la
sua
capacità
di
provvedere
ad
alcune
necessità
di
base:
l’anagrafe,
gestione
delle
riserve
di
cibo,
costruzione
e
manutenzione
di
grandi
opere,
(canali
di
irrigazione
o
anche
solo
opere
grandiose)
….
Nello
stesso
momento
in
cui
il
despota
monopolizzava
potere
e
risorse
cercava
di
offrire
ai
sudditi
‘un
servizio’
che
li
ripagava
della
sudditanza,
si
presentava
come
autorità
(dal
latino
au-
gere,
accrescere)
in
grado
di
accrescere
il
benessere
dei
sudditi.
La
variante
napoletana
del
dispotismo
orientale
prevede
invece
proprio
l’inverso,
la
disfun-‐
zione
eretta
a
sistema.
“La
negazione
di
Dio,
la
sovversione
di
ogni
idea
morale
e
sociale
eretta
a
sistema
di
governo”,
osò
dire
quel
razzista
di
lord
Gladstone
.
Lauro,
il
despota
che
dominò
fino
agli
anni
sessanta,
non
si
limitò
a
compiere
abusi
edilizi,
ma
rese
lecito
l’abuso
semplicemente
cambiando
il
colore
delle
mappe:
letteralmente
cambiò
le
carte
in
tavola.
Anni
dopo
ho
scoperto
che
i
suoi
successori
non
sono
stati
da
meno:
hanno
falsificato
l’anagrafe:
al
censimento
del
1991
–
consultate
i
fascicoli
Istat
–
Napoli
dichiarava
un
milione
e
duecentomila
abitanti
ma
in
realtà
ne
aveva
già
solo
un
milione.
Con
200
mila
abitanti
in
più
si
avevano
quattro
deputati
in
più;
tot
impiegati
comunali
in
più
etc..
Ancora
oggi
non
esiste
una
anagrafe
attendibile
dei
ragazzi
che
de-‐
vono
andare
a
scuola.
Avendo
indagato
sull’argomento
ho
scoperto
che
era
sballata
addirittura
la
toponomastica:
molte
strade
avevano
due
nomi
con
tutte
le
conseguenze
che
si
possono
immagi-‐
nare.
I
lampioni
marci
che
ammazzano
la
gente
mentre
passeggia,
le
strade
piene
di
buche,
le
voragini
che
si
aprono
ad
ogni
pioggia
un
po’
più
insistente,
l’inquinamento
dell’acquedotto,
la
fecalizza-‐
zione
del
mare,
il
monnezzamento
delle
strade
fanno
dunque
parte
di
questa
tendenza
del
di-‐
spotismo
napoletano:
fai
sentire
il
cittadino
nella
merda
più
completa
e
crescerà
il
bisogno
di
protezione
e
di
affiliazione
al
despota.
Non
solo
ma
il
cittadino
può
essere
protagonista
di
una
au-‐
tentica
democrazia
partecipata:
sarà
egli
stesso
a
produrre
e
a
spandere
merda
e
dimostrare
co-‐
me
vero
il
teorema
della
sudditanza.
Tra
dispotismo
orientale
variante
napoletana,
dispotismo
sovietico-‐stalinista,
dispotismo
ca-‐
morrista
ci
sono
segrete
affinità.
Anni
fa
la
madre
di
una
mia
scolara
aveva
‘a
capo
al
letto’
una
sua
speciale
trinità
composta
da
una
immagine
della
Madonna,
una
di
Stalin
ed
una
di
Cutolo.
Le
bande
che
fanno
le
questue
per
la
“Madonna
dell’Arco”
suonano
senza
soluzione
di
continuità
“viva
Maria”,
bandiera
rossa,
e
la
canzone
del
Piave.
L’elemento
comune
tra
i
tre
santini
è
la
po-‐
sizione
supplicante
del
devoto,
la
sua
riduzione
in
uno
stato
infantile
di
dipendenza
totale.
Incubi
Notte
del
14
luglio
2009
ore
0.40
Due
treni
C’è
da
fare
una
specie
di
missione
di
soccorso,
un
campo
la-‐
voro:
c’è
tanta
gente
che
deve
partire
e
due
treni:
uno
come
fosse
per
tecnici
e
materiali
e
l’altro
di
quelli
come
me.
Per
mi-‐
steriosi
motivi,
in
un
grande
stazione
di
transito,
come
se
fosse
Roma
Ostiense,
sono
io
che
ai
co-‐
mandi
del
primo
treno
lo
porto
al
binario.
Poi
accodato
e
un
po’
distante
il
secondo
treno,
quello
su
cui
dovrò
salire;
i
treni
sono
come
quelli
un
tempo
in
servizio
sulla
linea
urbana
a
Napoli.
Il
particolare
della
distanza
è
come
se
mi
turbasse.
Manca
mezz’ora
alla
partenza;
decido
di
fare
un
giro
nell’attesa.
Il
paesaggio
nel
frattempo
è
cam-‐
biato,
esco
in
certi
vicoletti
grigi
di
case
disfatte
Un’acqua
nera
(sogno
del
4
agosto)
Mi
è
restata
solo
una
immagine:
mi
trovo
nella
piscina
stretta
e
lunga,
coperta
dai
rami
dei
lec-‐
ci
che
si
trova
ne
bosco
di
portici.
L’acqua
è
nera
e
livida
ed
io
vi
nuoto
dentro
tranquillamente
quando
mi
accorgo
con
raccapricci
che
insieme
a
me
sta
nuotando
il
dott.
Bottino,
direttore
gene-‐
rale
del
MIUR
in
Campania.
Un’inquisizione
(sogno
del
7
agosto)
Anche
qui
mi
rimane
una
immagine
molto
vaga,
qualcuno
che
mi
interroga
sul
progetto
con
una
fare
angosciante
e
poi
sempre
più
chiaramente
vedo
che
è
un
diavolo
I
due
bus
(11
agosto
2009)
Sto
viaggiando
su
uno
di
quei
vecchi
bus
verdi
paffuti,
con
le
marce
ridotte
e
seguo
con
ansia
l’autista
che
per
percorrere
pochi
metri
cambia
tante
marce
e
soprattutto
non
riesce
a
ingranare.
Poi
c’è
un
percorso
a
piedi
angoscioso
verso
un
a
piazza
dove
si
trova
un
bus
a
due
piani
molto
lussuoso,
ma
non
riesco
a
raggiungerlo.
Per
strada,
lo
scenario
è
tutto
romano,
passo
davanti
al
ministero
ed
intravedo
la
scritta
edu-‐
cazione
che
c’era
in
epoca
fascista,
che
è
stato
rimossa,
ma
ancora
ne
resta
la
traccia,
solo
che
ve-‐
do
con
angoscia
che
non
è
educazione
ma
prostituzione,
e
continuo
a
dirmi
che
forse
ho
visto
ma-‐
le,
ma
non
riesco
a
ritornare
indietro
per
leggere.
Dissolvenza-
Sto
da
qualche
parte
dove
si
trova
uno
di
quegli
stipi
di
legno
caratteristici
delle
cucine
di
un
tempo,
dove
si
conservava
anche
il
pane
ed
altri
cibi.
Sulla
mensola
c’è
una
torta,
anzi
tre
quarti
di
Dissolvenza
Mi
trovo
in
salottino,
ma
ci
sono
solo
tre
pareti
e
al
centro
troneggia
un
grande
stemma…
poi
incontro
una
funzionaria
regionale
che
conosco
e
questa
ha
un
atteggiamento
molto
affabile
ma
si
vede
anche
che
è
molto
imbarazzata.
Angoscia.
La
parrucchiera
(sogno
del
15
agosto)
Vado
dalla
parrucchiera,
è
un
negozio
che
sta
in
una
piazzetta
nello
stile
veneziano,
con
l’entrata
raso
terra
senza
neppure
un
gradino.
Arrivo
contemporaneamente
alla
parrucchiera
che
riconosco
come
un’esperta
che
ha
lavorato
con
noi:
ah!
Ci
conosciamo.
Mentre
dico
questo
arriva
la
lavorante
con
una
strana
pettinatura,
lunghezza
capelli
irregolari
stesi
fin
quasi
al
collo;
rico-‐
nosco
ancora
meglio
lei
e
le
dico:
ma
aveva
un
altro
look.
Cosa
facciamo?
Taglio
i
capelli
e
loro
due
mi
dicono
“già”
con
l’aria
complice
di
chi
dice
“ti
aspettavamo,
lo
sapevamo
già”.
E
mentre
lo-‐
ro
dicono
questo
mi
passo
la
mano
sui
capelli
e
vedo
che
sono
molto
corti
e
al
loro
sguardo
inter-‐
rogativo
rispondo
”
li
taglio
lo
stesso”.
Deve
aspettare
che
la
lavorante
prepari.
Mi
accomodo
nella
sala
d’attesa
e
loro
due
spariscono
chiudendo
la
porta
della
stanza.
La
hall
di
questo
negozio
per
parrucchiere
è
strana
perché
apre
su
stanze
chiuse
dove
si
svolge
il
taglio.
E’
un
ambiente
che
mi
sembra
deserto,
molto
bianco
con
delle
colonne.
L’attesa
è
molto
lunga
e
mentre
aspetto
mi
rendo
conto
che
non
ho
i
soldi.
Faccio
per
uscire
per
andare
a
un
ban-‐
comat
e
proprio
in
quel
momento
esce
la
lavorante
dicendo:
sono
pronta.
Espongo
la
situazione
e
lei
dice:
va
bene
il
bancomat
è
alle
spalle
del
giornalaio.
Esco
e
vedo
una
edicola
di
quelle
con
le
colonne
in
ghisa,
stile
antico,
e
alle
spalle
dell’edicola,
in
un
passaggio
stretto
apre
in
realtà
la
por-‐
ta
di
un
albergo:
entro
e
vedo
il
bancomat
che
è
alle
spalle
del
portiere,
che
non
mi
chiede
niente
mentre
io
aspetto
il
momento
buono
che
lui
si
scosti
per
poter
accedere
al
bancomat
perché
il
passaggio
è
così
stretto
che
nei
fatti
è
occupato
dalle
sue
terga
mentre
si
appoggia
al
banco
per
parlare
con
i
clienti.
E
su
questa
angosciosa
attesa
che
il
portiere
sposti
il
suo
culo
paludato
(
ha
il
frak
con
le
code
di
rondine)
si
chiude
il
sogno.
Spiegazione:
(montando
insieme
immagini
diverse
forse
sono
riuscito
a
riprodurre
l’immagine
del
sogno)
La
mia
meraviglia
è
che
tutti
gli
edifici
in
ferro
siano
lasciati
vuoti
mentre
dall’altra
parte
c’è
af-‐
follamento.
Continuo
a
girare
perché
in
realtà
questi
cortili
sono
su
piani
diversi
e
su
traiettorie
diverse;
sembra
che
tu
sia
arrivato
ma
invece
l’ingresso
non
c’è.
La
situazione
angosciosa
è
che
ho
l’idea
che
tutto
questo
sia
fatto
apposta
perché
tra
i
cortili
non
ci
sia
comunicazione.
Finalmente
visto
vano
il
tentativo
di
avvicinarmi
al
luogo
desiderato,
torno
indietro
e
vado
dal
tizio,
………...
Così
riparto
seguendo
le
sue
indicazioni
e
mi
ritrovo
nella
situazione
precedente
con
un
carico
di
angoscia
ancora
maggiore,
finché,
come
in
una
rivelazione,
capisco
che
il
tizio
mi
aveva
dato
di
proposito
indicazioni
sbagliate
e
qui
finalmente
mi
sveglio.
I
simboli
L’università
di
ferro
arrugginita
e
disabitata,
è
il
simbolo
fin
troppo
trasparente
di
un
sapere
‘blindato’
senza
vita
e
consunto
dal
tempo.
L’altra
sponda
affollata
di
cortili
colonnati
richiama
l’immagine
del
‘giardino
filosofico
di
Epicuro,
di
cui
ho
letto
quest’estate.
Questa
zona
pullula
di
vita
ma
è
di
difficile
accesso;
ci
sono
percorsi
diversi
e
piani
diversi
in
cui
è
difficile
orientarsi
senza
uno
stalker.
I
simboli
La
talpa:
ripeto
spesso
che
le
emozioni,
come
le
talpe
scavano
anche
quando
non
le
vediamo
ed
emergono
nei
momenti
inaspettati.
Questa
talpa
“emersa”
sono
dunque
le
emozioni
del
mo-‐
mento;
e
come
ripeto
spesso
le
emozioni
anche
quando
non
sono
visibili
condiscono
–
“inquina-‐
no”
con
l’irrazionale
le
cose
razionali
-‐
un
po’
tutte
le
cose
che
facciamo:
scacazzano
dappertutto.
La
signora
in
questione
viene
designata
da
mia
madre
che
ha
i
primi
sintomi
di
‘incongruenza’
(so
che
è
un
eufemismo)
senile
come
“l’usurpatrice”
per
via
di
un
oggetto
di
cui
questa
si
sareb-‐
be
appropriata
indebitamente.
La
sua
presenza
nel
sogno
è
quindi
legata
a
questo
titolo.
Sia
il
coniglio
che
la
marmotta
sono
animali
che
scavano
tane
sotterranee
ed
emergono
nei
luoghi
più
diversi.
La
loro
presenza
è
legata
a
questo.
Inoltre
sono
animali
fortemente
sociali
e
le
marmotte
specializzate
nel
dare
allarmi
con
acuti
fischi.
La
scena
di
consolazione,
somiglia
molto
ad
una
fotografia
di
una
coppia
di
‘cani
della
prateria’
(molto
simili
alle
marmotte)
che
si
abbrac-‐
ciano
e
si
fanno
coraggio,
che
fa
parte
della
mia
collezioni
di
immagini
sociative.
Il
topo,
non
è
un
ratto
ma
un
topo
di
campagna,
è
legato
all’idea
del
parassitismo.
Dell’animale
che
si
insinua
a
mangiare
il
cibo
(cosa
realmente
accaduta
questa
estate).
L’angolo
acuto
rispetto
alla
talpa
potrebbe
appunto
alludere
alla
capacità
del
topo
di
insinuarsi
dappertutto
-‐
di
essere
acuto,
furbo
-‐
di
passare,
grazie
a
uno
scheletro
elastico,
anche
sotto
la
fessura
di
una
porta.
(il
‘ratto
delle
chiaviche’
di
colore
marrone
è
più
grande,
non
coabita
ed
è
specializzato
in
rifiuti;
come
simbolo
ha
tutt’altri
usi)
L’impianto
smontato:
da
molto
tempo
dico
e
diciamo
che
le
nostre
istituzioni
sperimentano
delle
cose
poi
le
abbandonano
lasciando
sempre
“un
panorama
di
macerie”:
inaugurano
nuove
formule
senza
riutilizzare
le
cose
buone
prodotte
e
senza
sgomberare
il
campo
da
macerie
che
ostacolano
il
cammino:
dunque
questo
impianto
smontato
in
cui
si
intravedono
gomiti,
raccordi
a
T,
rubinetti,
che
uno
sguardo
esperto
nel
riciclo
individua
come
ancora
utilizzabili,
giacciono
nel
cortile
di
casa
‘abitati’
da
talpe,
topi
moribondi,
conigli
e
marmotte.
Cosa
può
essere
il
progetto
Chance
per
la
scuola
e
per
la
società
Comunicazione
per
i
partecipanti
a
"Civitas
Educationis"
Il
Progetto
Chance
ha
rappresentato
per
undici
anni
un
progetto
di
nuova
cittadinanza
fondato
su
giovani
altrimenti
esclusi.
La
portata
generale
del
progetto
deriva
dal
suo
collocarsi
in
un
pun-‐
to
strategico
dello
sviluppo
di
una
società,
quello
in
cui
i
giovani
cittadini
fanno
il
loro
ingresso
nell’ordine
sociale
esistente.
In
questo
punto
che
appartiene
insieme
all’ordine
dello
spazio
socia-‐
le
e
all’ordine
dello
spazio
mentale
di
una
civiltà,
si
realizza
un
incontro
tra
una
configurazione
sociale
esistente
e
una
nuova
forma
da
realizzare
insieme
ai
nuovi
venuti.
In
questo
punto
si
de-‐
cide
se
una
società
è
capace
di
crescere
o
semplicemente
di
includere,
assimilare,
digerire
il
nuo-‐
vo,
ingrassando
senza
crescere.
Le
periferie
sociali,
le
periferie
geografiche,
le
periferie
dell’animo
hanno
un
tratto
comune:
la
capacità
di
mettere
in
discussione
il
patto
sociale
preesi-‐
stente,
la
certezza
dei
fondamenti,
la
sicurezza
dei
ruoli
sociali.
Rifondando
città
C’è un altro modo di trattare coloro che sono ai confini che è intrinsecamente acco-
gliente:
dovete
entrare
perché
insieme
dobbiamo
riscrivere
le
regole,
dobbiamo
costruire
insie-‐
me
un
cerchio
più
largo,
non
dobbiamo
fare
spazio
a
nuovi
cittadini
ma
costruire
insieme
nuova
cittadinanza.
Dunque
il
Progetto
Chance
occupandosi
degli
ultimi
e
degli
esclusi
non
si
è
occupa-‐
to
di
riammettere
al
banchetto
dei
consumi
indotti
quelli
che
non
avevano
i
mezzi
per
farlo,
ma
si
è
occupato
di
restituire
a
giovani
invasi
insieme
dal
dolore
e
dalla
coazione
a
ripetere
il
potere
della
parola
e
del
pensiero.
Dunque
da
questo
punto
di
osservazione
ha
potuto
avere
un
punto
di
vista
privilegiato
su
quel
crogiuolo
dove
al
calor
bianco
si
rifonda
una
società,
osservare
da
vicino
i
processi
psichici,
i
modi
di
socializzazione
che
consentono
a
ciascuno
di
riprendere
in
mano
il
proprio
destino,
di
passare
dalla
condizione
di
etero
direzione
a
quella
di
autonomia,
da
quella
di
anomia
sociale
a
quella
di
sociatività,
centri
attivi
di
promozione
di
legami
e
di
convivenza.
Per
realizzare
questo
obiettivo
il
Progetto
Chance
non
ha
usato
una
logica
rivoluzionaria
o
una
peda-‐
gogia
alternativa.
Non
ha
cercato
di
“capovolgere”
le
regole,
né
ha
cercato
un
altrove
pedagogico
dove
sperimentare
nuove
alchimie.
Ha
scelto
di
operare
nei
luoghi
stessi
dell’emarginazione,
ha
scelto
di
abitare
i
ghetti
della
città
e
dell’animo,
di
condividere
l’esperienza
degli
ultimi
per
riela-‐
borarla
insieme
a
loro,
per
essere
guide
sicure
ad
uscire
dai
ghetti
sociali
e
dalle
prigioni
dell’animo.
Riuscire
a
utilizzare
il
pensiero
e
la
parola
in
situazioni
estreme,
riuscire
a
mantenere
il
senso
dell’impresa
educativa
quando
il
mondo
intero
ti
crolla
intorno,
quando
la
violenza
delle
armi
e
la
violenza
dei
consumi
indotti
svalutano
continuamente
la
persona
e
la
parola
è
la
lezione
di
vita
che
noi
abbiamo
cercato
di
offrire
ai
nostri
allievi,
quella
che
ci
rende
stimabili
ai
loro
oc-‐
chi
e
legittimati
a
parlare.
Maestri
di
strada
quindi,
maestri
che
insegnano
la
strada,
guide
per
uscire
fuori,
per
educarsi.
Maestri
che
parlano
nell’agorà,
al
mercato,
come
faceva
Socrate
che
in
piazza
rispondeva
a
que-‐
stioni
di
vita
e
di
morte,
rifletteva
in
pubblico
sulla
legittimità
della
vendetta
di
sangue
e
sulla
ne-‐
cessità
della
legge.
E
per
queste
sue
risposte,
date
fuori
dal
chiuso
dell’accademia,
fu
condannato
a
morte.
Oggi
alle
persone
non
viene
offerta
la
cicuta
ma
esistono
infiniti
modi
per
intossicarsi,
per
ucci-‐
dersi
in
senso
professionale
e
pedagogico.
A
volte
basta
solo
respirare
a
lungo
un’atmosfera
satu-‐
ra
di
veleni
per
restarci
secchi.
Dunque
la
nostra
esistenza
come
educatori
è
ogni
giorno
a
rischio
e
senza
questo
quotidiano
rischio
non
saremmo
veri
educatori.
Dunque
dobbiamo
essere
felici
di
Professionisti
riflessivi
Sennonché
siccome
sappiamo
parlare
e
scrivere,
siccome
abbiamo
fatto
della
professionalità
ri-‐
flessiva
una
bandiera
del
progetto,
in
questi
anni
ci
siamo
procurati
molti
amici,
molti
dei
quali
presenti
in
questa
sala
che,
forse
per
sano
istinto
da
educatori,
forse
per
simpatia
umana,
ci
han-‐
no
ascoltato
e
seguito
e
spesso
ci
hanno
aiutato
a
inquadrare
le
nostre
pratiche
in
modelli
teorici
e
tendenze
riconoscibili
dalla
comunità
scientifica.
Se
il
progetto
ha
resistito
per
undici
anni
mol-‐
to
è
dovuto
al
modo
in
cui
l’accademia
in
vari
modi
ci
ha
sostenuto.
Ieri,
venerdì
20
novembre
2009,
mentre
si
svolgeva
la
prima
giornata
di
questo
convegno,
men-‐
tre
cadeva
il
20°
anniversario
della
dichiarazione
dei
diritti
dell’infanzia,
è
stato
approvato
il
pri-‐
mo
atto
ufficiale
che
rende
il
Progetto
Chance
una
risorsa
in
qualche
modo
ordinaria
incorporan-‐
dola
in
dodici
scuole
di
Napoli
e
della
Provincia
situate
in
zone
strategiche
dell’esclusione.
Si
tratta
di
una
felice
coincidenza.
Ma
il
fatto
che
si
tratti
di
una
coincidenza
e
non
di
un
appunta-‐
mento
segnala
un
problema.
Nel
momento
in
cui
il
progetto
grazie
alla
Regione
Campania
(ma
orfano
dei
precedenti
apporti
del
Comune
di
Napoli,
del
MIUR
e
di
altre
istituzioni
che
facevano
parte
dell’accordo
di
programma
del
1998)
diventa
‘normale’
può
diventare
oggetto
di
una
nor-‐
malizzazione
(ricordate
la
normalizzazione
dei
carri
armati
a
Praga?)
–
involontaria
o
vendicativa
–
che
ne
distrugge
la
carica
trasformativa,
le
potenzialità
di
crescita
per
l’intera
scuola.
Noi
siamo
convinti
che
il
Progetto
Chance
possa
aiutare
una
riflessione
generale
sulle
pratiche
Un
progetto
che
esalta
le
pratiche
umili
ma
ricco
di
dettagli
importanti
Chance,
come
si
ripete,
non
ha
da
rivendicare
alcuna
originalità,
primogenitura
pedagogica
o
di-‐
dattica,
ma
ha
da
rivendicare
con
orgoglio
la
determinazione
e
la
coerenza
con
cui
ha
valorizzato
le
pratiche
umili,
i
dettagli
per
altri
insignificanti.
Il
progetto
Chance
è
stato
e
deve
restare
un
progetto
di
cura
–
della
giovane
persona
in
crescita,
delle
persone
che
si
impegnano
al
loro
fianco
–
in
cui
le
relazioni
primarie
fondanti
della
convi-‐
venza
sono
coltivate
fuori
dai
sentimentalismi
e
dalle
retoriche
con
un
solido
impianto
organizza-‐
tivo
che
consente
di
gestire
la
complessità,
conservando
e
valorizzando
le
risorse
umane
e
pro-‐
fessionali.
Questa
resta
la
principale
forza
del
progetto
e
la
sua
possibilità
–
chance
-‐
di
influire
sulla
trasformazione
di
tutte
le
pratiche
educative.
Quello
che
ci
auguriamo
è
di
poter
valorizzare
questo
patrimonio
che
rischia
–
principalmente
per
le
debolezze
umane
da
cui
tutti
siamo
affetti
–
di
naufragare
in
una
navigazione
che
si
fa
mol-‐
to
più
complessa.
Nelle
prossime
settimane,
via
mail,
diffondiamo
un
documento
di
sintesi
riguardante
le
pratiche
educative
di
cittadinanza
ispirate
al
progetto
Chance,
e
speriamo
di
poter
sottoscrivere,
con
un
gruppo
di
studiosi
di
varia
provenienza
disciplinare,
un
atto
di
indirizzo
riguardante
i
punti
fon-‐
danti
di
queste
e
su
questa
base
costituire
una
sorta
di
osservatorio
scientifico
permanente
che
contribuisca
alla
tenuta
pedagogica
di
questa
nuova
sfida.
La
discussione
che
abbiamo
svolto
è
stata
segnata
da
parole
dense,
punti
si
accumulazione
di
conoscenze
e
saperi
e
da
parole
fluide,
sussurri
che
hanno
percorso
come
ombre
–
ora
minaccio-‐
se
ora
ristoratrici
–
i
partecipanti.
Le
parole
dense
sono
le
parole
del
fare,
dell’azione
organizzata
di
cui
abbiamo
bisogno
per
produrre
azioni
efficaci,
per
dialogare
con
formazioni
sociali
dense
e
stratificate,
per
prendere
spazio
nelle
regioni
del
mondo
istituito,
le
parole
fluide
sono
quelle
che
corrono
a
stabilire
legami
invisibili,
che
filtrano
al
di
la
degli
steccati,
che
sussurrano
all’essere,
che
mobilitano
i
cuori.
George
Steiner
nella
sua
lettura
delle
Antigoni
dice
tra
le
tante
preziose
cose,
che
il
conflitto
tra
Antigone
e
Creonte
non
è
solo
il
conflitto
tra
il
potere
e
i
sentimenti,
ma
più
al
fondo
rappresenta
la
nostalgia
dell’essere
razionale
per
i
propri
stati
tellurici,
per
la
sua
appartenenza
all’inorganico
ancora
prima
che
alla
vita.
La
vita
nasce
dal
mondo
liquido,
dentro
una
miscela
incoerente
in
cui
si
forma
la
prima
catena
di
molecole
capaci
di
comportarsi
come
membrana
semi
permeabile,
capace
di
catturare
dentro
di
sé
altre
molecole
poi
dette
nutrimento
e
trattenerle
dentro
la
propria
configurazione.
La
dinamica
interno-‐esterno
è
una
dinamica
tellurica,
che
rimanda
alle
capacità
generatrici
della
vita,
alle
dinamiche
che
generano
la
vita
prima
che
la
vita
acquisti
la
capacità
di
generare.
Non
c’è
nessun
modello
fisico,
nessun
modello
matematico
o
probabilistico
capace
di
descrive-‐
re
questo
stato
di
nascita.
Lo
stato
nascente
primigenio
è
questo,
è
insieme
la
fluidità
penetrante
delle
molecole
elementari
e
lo
sviluppo
di
catene
di
aggregati
che
si
nutrono
e
che
nutrono.