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PROCEDURA PENALE PROGREDITO

PAOLOZZI “VADEMECUM PER GLI ENTI SOTTO PROCESSO”


PREMESSA: Molte sono le difficoltà di classificare il prodotto del d.lgs. 231/2001, ossia il modello
sanzionatorio degli illeciti amministrativi dipendenti da reato ascrivibili agli enti. Ne è prova la molteplicità
degli orientamenti forniti a riguardo, che vanno dall’assunto “ufficiale” propugnato dalla Relazione allo
schema definitivo del d.lgs., a detta della quale si sarebbe dato vita ad un tertium genus di responsabilità,
che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo; a quello che ravvisa nel nuovo
sistema il terzo binario del diritto penale criminale, accanto alla pena ed alla misura di sicurezza; sino a
quello più estremo, che configura la responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato
alla stregua di un quartum genus a cavallo fra responsabilità civile aquiliana, penale e punitivo -
amministrativa. Non si pensi però che la promiscuità tra sistema penale e amministrativo nasca da animo
pusillo del legislatore: esistevano vincoli imposti a questo proposito dalla legge di delega, che conferiva al
Governo un mandato in equivoco, cioè di disciplinare la “responsabilità amministrativa degli enti”. Certo, a
favore di una scelta ibrida è verosimile che abbia pesato innanzitutto il bisogno di rafforzare la resistenza
del sistema ad eventuali obiezioni di principio fondate sull’art. 27 Cost., secondo cui la responsabilità
penale è personale.
Si ha inoltre modo di avvedersi che l’ibrido generato dal d.lgs. in questione produce un effetto involontario:
coniugando regole di accertamento proprie della giurisdizione penale con comminatorie di natura
amministrativa si finisce infatti per salvaguardare formalmente la sopravvivenza del principio societas
delinquere non potest. Nel comune sentire ormai la responsabilità degli enti viene avvertita come
responsabilità penale ed i più garbati parlano di resp. “para – penale”. La novità assoluta introdotta dal
decreto è che il processo penale viene elevato a sede istituzionale di accertamento dell’illecito
amministrativo dell’ente e di conseguente formazione del giudicato applicativo di sanzioni non penali.
Tale scelta comporta però vari rischi: il più scontato è l’appesantimento del processo determinato dal
moltiplicarsi delle azioni accessorie,e ancora la quaestio criminis può degradare a parte minoritaria
dell’attività di accertamento relativa alla commissione del reato, il che si verifica in tutti quei casi in cui il
processo inizia congiuntamente nei confronti della persona giuridica e di quella fisica, ma poi continua solo
nei confronti di quest’ultima e all’esclusivo fine di accertarne la responsabilità amministrativa (art.8).
Infine non si può trascurare che il riconoscimento di u pieno statuto penalistico alla responsabilità delle
società e degli enti è incoraggiato dagli inputs provenienti dal Consiglio dell’Unione Europea.

- CAP. I, LE COORDINATE SOSTANZIALI: Il legislatore consegna all’interprete una disciplina lacunosa, non
sempre chiara e completa, demandandogli una difficile opera di raccordo e integrazione. Era realmente
necessaria l’introduzione di questo nuovo sistema? La risposta è almeno in parte affermativa. La legge
delega ,infatti, era un atto dovuto più che un passo spontaneo dello Stato italiano, imposto dalla
inderogabile pressione di impegni pattizi da onorare a livello europeo. D’altra parte l’illegalità d’impresa si
era andata intensificando, quanto meno a partire dagli anni ’60; di qui la necessità di porre un freno a tale
fenomeno criminale mediante uno strumento di controllo sociale efficace sia dal punto di vista della
struttura sia delle finalità.
La colpevolezza dell’ente: è bene precisare subito che il nuovo sistema non pare calibrato a misura di
imprese intrinsecamente illecite, vale a dire su enti che trovano la propria ragione sociale nella
realizzazione di attività totalmente contrarie ai precetti di legge. L’art.16 comma 3 stabilisce infatti che se
l’ente o una sua unità organizzativa risultino utilizzati all’unico o prevalente scopo di consentire o agevolare
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la commissione dei reati da cui può scaturire la responsabilità dell’ente stesso, il giudice applichi
obbligatoriamente e in via definitiva la sanzione dell’interdizione dallo svolgimento della specifica attività.
Designata dalla formula “responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato”, la
colpevolezza della persona giuridica postula un nesso di dipendenza tra due categorie di illecito –
amministrativo e penale. Alla base della responsabilità del soggetto collettivo si colloca il rapporto di
carattere organico sussistente con la persona fisica autrice del reato, che porta quest’ultima a tenere una
condotta illecita nell’interesse o a vantaggio dell’ente, ex art. 5. Quest’espressione è problematica: la mera
ricaduta a vantaggio dell’ente si rivela un criterio che di per sé solo non consente di formulare un giudizio di
riprovevolezza nei confronti della persona giuridica. D’altro canto il riferimento all’interesse o vantaggio
dell’ente non può nemmeno essere considerata un’endiadi, escludendo il testo la sinonimia dei due
termini. Per superare l’impasse è stato prospettato un ragionevole punto di mediazione facente leva
sull’idea che l’addebito del fatto illecito all’ente si muova sui due piani dell’imputazione del reato
consumato e tentato, con la conseguenza di configurare una ricaduta a vantaggio esclusivamente
nell’ipotesi in cui ed in quanto si sia realizzato un evento e non dove il reato sia semplicemente tentato. Di
qui la possibilità di scomporre il canone enunciato nell’art. 5, collegando, da un lato, l’inciso “nell’interesse”
ad un’azione autonoma, disgiunta cioè dal vantaggio procurato, nel solo caso in cui il reato presupposto sia
perfezionato sotto forma di reato tentato,e, dall’altro, l’operatività della formula “a vantaggio” al solo reato
consumato. Il richiamo all’interesse dell’ente caratterizza in senso marcatamente soggettivo la
condotta delittuosa della persona fisica e “si accontenta” di una verifica ex ante; viceversa, il
vantaggio, che può essere tratto dall’ente anche quando la persona fisica non abbia agito nel suo interesse,
richiede sempre una verifica ex post.
I criteri di imputazione sul piano oggettivo: Il cuore della parte generale del nuovo sistema è rappresentato
dagli artt. 5 e 6 dello schema. Il primo si muove su di un piano squisitamente oggettivo, e identifica le
persone fisiche che, autori del reato, impegnano sul terreno sanzionatorio penale-amministrativo la
responsabilità della societas.
Art. 5: l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
1. Da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o
di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che
esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
2. Da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui al punto 1.
L’ente non risponde se le persone suindicate hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.
Quanto alle categorie di persone che vengono in rilievo, l’articolato riprende la distinzione tra
soggetti in posizione apicale (lett. a)) e soggetti in posizione subordinata (lett. B.
I criteri di imputazione sul piano soggettivo: Ai fini della responsabilità dell’ente occorrerà, dunque, non
soltanto che il reato sia ad esso ricollegabile sul piano oggettivo (le condizioni alle quali ciò si verifica, come
si è visto, sono disciplinate dall’art. 5); di più, il reato dovrà costituire anche espressione della politica
aziendale o quanto meno derivare da una colpa di organizzazione.
Lo schema di decreto legislativo differenzia la disciplina a seconda che il reato sia commesso da un soggetto
in posizione apicale ovvero da un semplice sottoposto.
Ipotesi di reati commessi da soggetti in posizione apicale: art. 6 “ se il reato è stato commesso dalle
persone indicate nell’art. 5 comma 1 lett. A, l’ente non risponde se prova che:
a) L’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto,
modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
b) Il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli, e di curare il loro
aggiornamento, è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di
controllo;
c) Le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di
gestione;
d) Non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza dell’organismo di cui alla lettera b).
La particolare qualità degli autori materiali dei reati ha suggerito al delegato l’opportunità di differenziare il
sistema rispetto all’ipotesi in cui il reato risulti commesso da un sottoposto, prevedendo, nel primo caso,
una inversione dell’onere probatorio. In altri termini, si parte dalla presunzione (empiricamente fondata)
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sia, nel caso di reato commesso da un vertice, il requisito “soggettivo” di responsabilità dell’ente sia
soddisfatto, dal momento che il vertice esprime e rappresenta la politica dell’ente; ove ciò non accada,
dovrà essere la societas a dimostrare la sua estraneità, e ciò potrà fare soltanto provando la sussistenza di
una serie di requisiti tra loro concorrenti (è ragionevole prevedere che questa prova non sarà mai agevole;
si rivelerà poi praticamente impossibile nel caso di ente a base manageriale ristretta).
Una notazione finale. La circostanza che, nel caso di elusione fraudolenta del modello senza colpa
dell’ente, non sia ravvisabile alcuna responsabilità dello stesso, nulla toglie all’inopportunità che la persona
giuridica si giovi dei profitti economici che abbia comunque tratto dall’operato del c.d. amministratore
infedele. Per tale ragione, l’articolato prevede che, anche in queste ipotesi, venga disposta comunque la
confisca del profitto del reato (comma 5).
Ipotesi di reati commessi dai sottoposti: art. 7 “ l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata
resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza.
In ogni caso è esclusa l’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza se l’ente, prima della
commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e
controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

Ma il legame ente – persona fisica – reato pare in alcuni casi stemperarsi sino al punto da sfumare quasi
del tutto. Tanto si evince dall’art. 8(autonomia delle responsabilità dell’ente): “1. la responsabilità dell’ente
sussiste anche quando:
a) L’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile;
b) Il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia
2. Salvo che la legge disponga diversamente, non si procede nei confronti dell’ente quando è concessa
amnistia per un reato in relazione al quale è prevista la sua responsabilità e l’imputato ha rinunciato alla
sua applicazione.
3. L’ente può rinunciare all’amnistia.
Protocolli di comportamento: Meritano un discorso a parte i modelli di organizzazione dell’ente previsti
dagli artt. 6 e 7, costituendo uno degli assi portanti della riforma. Come già detto occorre che l’addebito
rivolto all’ente sia ancorato alla mancata adozione di modelli comportamentali specificamente calibrati sul
rischio di reato.
Il rischio di commissione di reati è connaturato all’esistenza stessa dell’impresa, e dunque risulta
ineliminabile, ma si ha modo di contenerlo entro ambiti accettabili. Stimolando gli enti alla fissazione di
regole di condotta, si intende appunto circoscrivere i limiti entro cui il rischio collegato all’attività di impresa
risulta permesso. Si tratta comunque di scriminanti sui generis, dal momento che neppure l’adozione e
l’efficace attuazione di un modello organizzativo idoneo a prevenire il reato commesso da soggetti apicali
salvaguarda l’ente dalla confisca (art. 15 comma 4). Se attuati prima della commissione del reato,
comportano l’esenzione da responsabilità dell’ente. Se attuati ex post, unitamente agli adempimenti
risarcitori, consentono la sospensione delle misure cautelari (art.49); se adottati prima dell’apertura del
dibattimento determinano la riduzione della sanzione pecuniaria che dovrebbe venire inflitta nel caso di
specie e rendono inapplicabili le sanzioni interdittive. Sortiscono effetti vantaggiosi anche in executivis,
producendo la conversione delle sanzioni interdittive in sanzioni pecuniarie.
Gli artt. 6 e 7 non precisano quale sia il soggetto cui è demandata l’adozione dei modelli né la modalità della
stessa. Pare logico però che i protocolli siano adottati con delibera assembleare e che vengano poi iscritti
nello statuto societario. L’art. 6 comma 2 si preoccupa di dettare una serie di linee guida alla redazione di
tali modelli, e il comma 3 stabilisce che i protocolli possono essere adottati sulla base di codici di
comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della Giustizia
che, di concerto con i ministri competenti, può formulare entro trenta giorni osservazioni sulla idoneità dei
modelli a prevenire reati. Concretamente di tale strumento di altolocata consulenza possono avvalersi solo
le associazioni di categoria. Tale procedimento, integrato in sede regolamentare, consta di due fasi: nella
prima, di carattere preliminare, occorre controllare, principalmente sulla scorta dello statuto e dell’atto
costitutivo dell’associazione, che questa non si sia auto investita della rappresentanza di una specifica
categoria di enti. Due i possibili sbocchi di tale fase: l’arresto della procedura di controllo per mancanza
dello statuto e dell’atto costitutivo dell’associazione o per carenza nel richiedente dei requisiti di
rappresentatività, ovvero la decisione di dare impulso al momento valutativo. In questo caso procede
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all’esame dei codici il Direttore Generale della giustizia penale. Anche in relazione a tale fase è prevista una
duplicità di epiloghi: ove il Dir. Gen. reputi il codice inidoneo, entro 30 gg deve formulare osservazioni in
merito al loro adeguamento e deve comunicarle all’associazione di categoria. In caso contrario il codice
acquista efficacia.
Soggetti: Il nesso di dipendenza tra illecito amministrativo e illecito penale postulato dall’art. 1 comma 1
quale presupposto della colpevolezza del soggetto collettivo, colloca la materia della responsabilità degli
enti a metà strada fra la disciplina delle sanzioni amministrative e la disciplina penale, innestandovi il
divieto di applicazione analogica che caratterizza ambedue i sistemi sanzionatori. Tale è il motivo per cui i
soggetti destinatari delle norme contenute nel decreto costituiscono un numerus non dilatabile per via
interpretativa, e quindi clausus. Art. 1 comma 2: “le disposizioni si applicano agli enti forniti di personalità
giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica”.
Dunque ne fanno parte le persone giuridiche private, le società di persone e di capitali, gli enti pubblici
economici, le associazioni non riconosciute ed i comitati. Nella prima categoria di soggetti rientrano le
persone giuridiche private riconosciute, fondazioni comprese. Nelle società di persone vanno incluse anche
le società di fatto e quelle irregolari. L’inserimento degli enti pubblici economici lo si desume a contrario
dall’estromissione degli enti pubblici non economici disposta dal comma 3. Agli enti in tal modo identificati
può addebitarsi la responsabilità per illeciti amministrativi dipendenti da reati commessi non solo in Italia
ma anche all’estero. Ex art. 4 , infatti, nei casi e nelle condizioni previste dagli art. 7, 8 ,9 e 10 del codice
penale, gli enti aventi nel territorio dello Stato la sede principale rispondono anche in relazione ai reati
commessi all’estero, purché nei loro confronti non proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il
fatto.
Il decreto si rivolge in conclusione a enti che seppur sprovvisti di personalità giuridica, possono comunque
ottenerla, con l’esclusione dunque dell’impresa e in particolare di quella individuale, come ribadito dalla
Cassazione.
L’art. 1 comma 3, infine, sancisce che le disposizioni del decreto “non si applicano allo Stato, agli enti
pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici, nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo
costituzionale. Alcuni dubbi: cosa sono gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale? Non sono
certo il Presidente della Repubblica, le Camere, il Governo e la Corte Costituzionale, in quanto organi
rientranti nella definizione di Stato. Si pensa che il legislatore abbia inteso riferirsi ad enti che svolgono
funzioni preordinate alla tutela di un bene o di un interesse costituzionalmente protetto anche se gli atti
con i quali si esprimono non sono connotati dal carattere autoritativo. Esempio en sono i sindacati ed i
partiti politici.
Dibattuta è anche la questione dei “gruppi di imprese”: la questione nasce dall’assenza nel decreto di
qualsiasi riferimento.
Principi generali: Un sistema siffatto non poteva dunque che replicare da entrambi i modelli, quello penale
e quello amministrativo, il fondamentale principio di legalità (nelle sue accezioni di riserva di legge,
tassatività e irretroattività), ovviamente plasmandone la formulazione sulla peculiarità della materia (art.
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Per quanto riguarda la successione di leggi, ex art. 3:
1. L’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto che secondo una legge posteriore non
costituisce più reato o in relazione al quale non è più prevista la responsabilità amministrativa
dell’ente, e se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti giuridici.
2. Se la legge del tempo in cui è stato commesso il reato e le successive sono diverse, si applica quella
le cui disposizioni sono più favorevoli, salvo che sia intervenuta pronuncia irrevocabile.
3. Tali disposizioni non si applicano se si tratta di leggi eccezionali o temporanee.
Il sistema sanzionatorio: La sezione II dello schema di decreto detta la disciplina generale delle sanzioni
amministrative applicabili agli enti. La legge delega individua, in proposito, un sistema essenzialmente
binario, che prevede l’irrogazione di sanzioni pecuniarie e di sanzioni interdittive. Tuttavia, mentre le prime
sono indefettibili, le seconde vanno previste solo “nei casi di particolare gravità”. Per completare il quadro
occorre inserire due ulteriori istituti, la confisca, utilizzata come pena principale e obbligatoria, e il
commissariamento dell’ente.
Art.9: “le sanzioni per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato sono: la sanzione pecuniaria, le sanzioni
interdittive, la confisca e la pubblicazione della sentenza.
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Le sanzioni interdittive sono: l’interdizione dall’esercizio dell’attività, la sospensione o la revoca delle


autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito, il divieto di contrattare con la
pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio, l’esclusione da
agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già commessi, il divieto di
pubblicizzare beni o servizi.”
La sanzione pecuniaria: Occorre subito precisare che i soci, almeno con riferimento all’esecuzione della
pena pecuniaria, non subiscono alcun pregiudizio, disponendo l’art. 27 comma 1 che di tale obbligazione
risponda soltanto l’ente con il proprio patrimonio o fondo comune.
La sanzione pecuniaria costituisce la sanzione fondamentale e indefettibile, applicabile sempre, in relazione
a tutti gli illeciti dipendenti da reato (art.10). Viene applicata per quote in un numero non inferiore a cento
né superiore a mille. L’importo di una quota va da un minimo di lire 500000 ad un massimo di lire 3 milioni,
quindi la cornice edittale oscilla tra i 50 milioni e i tre miliardi di lire. Non è ammesso il pagamento in misura
ridotta, né la sospensione condizionale della pena. Derivata dall’abbandono del tradizionale sistema per
somma complessiva , sostituito da quello per quote, l’operazione di computo ha struttura bifasica, di cui
all’art. 11. In una prima fase il giudice è chiamato a determinare, sulla base della cornice edittale, il numero
delle quote da addebitare all’ente, tenendo conto della gravità del fatto, del grado di responsabilità
dell’ente nonché dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto o per prevenire la
commissione di ulteriori illeciti. Nella seconda fase, invece, il giudice è chiamato ad assegnare il valore a
ogni singola quota sulla scorta della capacità economica e patrimoniale dell’ente, avvalendosi di bilanci o di
altre scritture idonee a fotografare tale situazione.
La legge delega ha delegato il governo a prevedere casi di riduzione della sanzione quando si è in
presenza di fatti di particolare tenuità ovvero di condotte riparatorie da parte dell’ente. Ex art. 12: 1. La
sanzione pecuniaria è ridotta della metà e cmq non può essere superiore a lire 200 milioni se:
a) L’autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e non ne ha
ricavato vantaggio o ne ha ricavato vantaggio minimo;
b) Il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità.
La particolare tenuità ha ad oggetto non il reato, che potrebbe essere tutt’altro che lieve, ma l’illecito
dell’ente, e segnatamente il suo grado di coinvolgimento nell’illecito: coinvolgimento minimo sia sul
versante della colpevolezza, atteso che l’autore del reato ha agito per un interesse prevalentemente
personale o di terzi, sia sul versante oggettivo, visto che nessun vantaggio, o comunque un vantaggio
minimo, è stato ricavato dall’ente.
2. La sanzione è ridotta da un terzo alla metà se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di
primo grado: a) l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o
pericolose del reato ovvero si è comunque adoperato efficacemente in tal senso;
b) è stato adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello
verificatosi.
3. Nel caso in cui concorrano entrambe le condizioni previste dalle lettere del comma 2, la sanzione è
ridotta dalla metà ai due terzi.
4. In ogni caso la sanzione pecuniaria non può essere inferiore a lire 20 milioni.
Le sanzioni interdittive: Ex art. 13 si applicano in relazione ai reati per le quali sono previste, quando ricorra
almeno una delle seguenti condizioni: a) l’ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità e il reato è
stato commesso da soggetti in posizione apicale ovvero da soggetti sottoposti all’altrui direzione, quando in
questo caso la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative;
b) in caso di reiterazione degli illeciti.
La loro durata non è inferiore a 3 mesi e non superiore a 2 anni. Ai sensi dell’ art. 14, il giudice ne
determina il tipo e la durata sulla base dei criteri di cui all’art. 11. Il divieto di contrattare con la p.a. può
anche essere limitato a determinati tipi di contratto o a determinate amministrazioni. Se necessario, le
sanzioni interdittive possono essere applicate congiuntamente. E infine l’interdizione dall’esercizio
dell’attività si applica solo quando l’irrogazione di altre sanzioni risulta inadeguata, come extrema ratio.
Altro istituto è quello del commissionariamento dell’ente, di cui all’art. 15: se sussistono i presupposti per
l’applicazione di una sanzione interdittiva che determina l’interruzione dell’attività dell’ente, il giudice, in
luogo dell’applicazione della sanzione, dispone la prosecuzione dell’attività dell’ente da parte di un
commissario per un periodo pari alla durata della pena interdittiva altrimenti applicata, quando ricorre
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almeno una delle seguenti condizioni: a) l’ente svolge un pubblico servizio o un servizio di pubblica
necessità la cui interruzione può recare un grave pregiudizio alla collettività.
b) l’interruzione può provocare rilevanti ripercussioni sull’occupazione.
Quanto alla nomina del commissario, essa viene richiesta dal pubblico ministero in esecuzione della
sentenza che ha disposto la prosecuzione dell’attività e vi provvede senza formalità il giudice
dell’esecuzione. Dopo di che, il commissario subentra nel contesto societario con i compiti e i poteri
assegnatigli dal giudice, senza che ciò comporti la revoca dei sindaci e degli amministratori. Il profitto
derivante dalla prosecuzione dell’attività viene confiscato, e il commissariamento non può essere disposto
quando l’interruzione dell’attività consegue all’applicazione in via definitiva di una sanzione interdittiva.
Le sanzioni interdittive applicate in via definitiva: art. 16: può essere disposta l’interdizione definitiva
dall’esercizio dell’attività se l’ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità ed è già stato
condannato, almeno 3 volte negli ultimi 7 anni, all’interdizione temporanea. Lo stesso vale per il divieto di
contrattare con la p. a. o di pubblicizzare beni o servizi, quando l’ente è già stato condannato alla stessa
sanzione almeno 3 volte negli ultimi 7 anni.
Riparazione delle conseguenze del reato: E’ istituto inteso a sollecitare l’ente al compimento di attività
riparatorie. Ex art. 17, ferma l’applicazione delle sanzioni pecuniarie, le sanzioni interdittive non si
applicano quando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, concorrono le
seguenti condizioni: a) l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o
pericolose del reato ovvero si è comunque operato efficacemente in tal senso;
b) l’ente ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e
l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati delle specie di quello verificatosi;
c) l’ente ha messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca.
Altre sanzioni: Gli artt. 18 e 19 prevedono le altre sanzioni applicabili nei confronti dell’ente. La sanzione
della pubblicazione della sentenza di condanna, mutuata dall’arsenale penalistico, non solleva problemi
interpretativi. Essa può essere applicata dal giudice quando l’ente soggiace all’irrogazione di una sanzione
interdittiva.
Di particolare rilievo la sanzione della confisca (art. 19), irrogabile con la sentenza di condanna, che si
atteggia a sanzione principale e obbligatoria. Essa viene configurata sia nella sua veste tradizionale, che
cade cioè sul prezzo o sul profitto dell’illecito, sia nella sua forma “moderna”, quella “per
equivalente”(comma 2). La confisca “tradizionale” colpisce il prezzo del reato, costituito dalle cose, dal
denaro o da altre utilità date o promesse per determinare o istigare alla commissione del reato, e il profitto
del reato, da intendersi come una conseguenza economica immediata ricavata dal fatto di reato. La
confisca “per equivalente”, già conosciuta nel nostro ordinamento, ha invece ad oggetto somme di denaro,
beni o altra utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato. Essa opera, ovviamente, quando
non è possibile l’apprensione del prezzo o del profitto con le forme della confisca tradizionale.
La confisca deve essere sempre disposta nei confronti dell’ente con la sentenza di condanna. Sono fatti salvi
i diritti acquistati da terzi in buona fede.
Reiterazione, pluralità di illeciti, prescrizione:Ex art. 20, si ha reiterazione quando l’ente, già condannato in
via definitiva almeno una volta per un illecito dipendente da reato, ne commette un altro nei 5 anni
successivi alla condanna definitiva.
Ex art. 21, quando l’ente è responsabile in relazione ad una pluralità di reati commessi con un’unica azione
od omissione ovvero commessi nello svolgimento di una medesima attività, si applica la sanzione
pecuniaria prevista per l’illecito più grave aumentata fino al triplo, ma cmq non superiore alla somma delle
sanzioni applicabili per ciascun illecito. Quando in relazione ad uno o più illeciti ricorrono le condizioni per
l’applicazione delle sanzioni interdittive, si applica quella prevista per l’illecito più grave.
Ai sensi dell’art. 22, infine, le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di 5 anni dalla data di
consumazione del reato. Interrompono la prescrizione la richiesta di applicazione di misure cautelari
interdittive e la contestazione dell’illecito a norma dell’art. 59. A seguito di interruzione i termini di
prescrizione decorrono ex novo, e qualora l’interruzione sia avvenuta mediante la contestazione dell’illecito
amministrativo dipendente da reato, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la
sentenza che definisce il giudizio.
Inosservanza delle sanzioni interdittive: Con l’art. 23 si introduce una nuova fattispecie penale destinata a
sanzionare le violazioni agli obblighi o ai divieti inerenti alle sanzioni interdittive, anche se applicate in via
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cautelare durante il processo. Chiunque, nello svolgimento dell’attività dell’ente a cui è stata applicata una
sanzione o misura cautelare interdittiva trasgredisce agli obblighi o ai divieti ad esse inerenti, è punito con
la reclusione da sei mesi a 3 anni, e nei confronti dell’ente si applica la sanzione pecuniaria da 200 a 600
quote e la confisca del profitto. Se il profitto è rilevante, si applicano sanzioni interdittive anche diverse da
quelle in precedenza irrogate.
Responsabilità amministrativi per reati previsti dal codice penale: La sez. III del capo I costituisce,
parafrasando il linguaggio penalistico, la “parte speciale” del sistema di responsabilità degli enti.
L’attuazione della delega viene pertanto limitata al novero dei reati che formano oggetto delle Convenzioni
ratificate con la legge di delega: dunque, i reati di concussione, corruzione e frode.
Non sussistono dubbi sulla necessità di prevedere che la responsabilità amministrativa dell’ente debba
essere estesa anche alle ipotesi di reato tentato. La norma dell’art. 26 stabilisce che, in presenza di un
delitto tentato, le sanzioni pecuniarie e interdittive applicabili all’ente sono ridotte da un terzo alla metà.
Concorso di sentenze interdittive: La disposizione dell’art. 83, collocata nell’ambito delle disposizioni di
attuazione e di coordinamento, disciplina un fenomeno di convergenza di sanzioni interdittive, la cui
ricorrenza può pronosticarsi come tutt’altro che virtuale. Il fenomeno è legato alla possibile applicabilità di
sanzioni interdittive (sovente qualificate come accessorie) stabilite da leggi speciali nei confronti dell’ente in
presenza di una sentenza di condanna per uno dei reati previsti nel decreto legislativo. Il comma 1 sancisce
che nei confronti degli enti si applicano solo le sanzioni previste dal decreto legislativo, sul presupposto che
questo, come legge successiva, introduce la “nuova” disciplina organica della responsabilità sanzionatoria
degli enti, destinata perciò a prevalere sulle diverse disposizioni della legislazione speciale. La disposizione
del comma 2 contempla il caso in cui, per effetto della commissione dell’illecito da parte dell’ente,
quest’ultimo abbia già risentito dell’applicazione di sanzioni amministrative di identico o analogo contenuto
rispetto a quelle irrogate dal giudice penale che accerta la responsabilità dell’ente. Per fronteggiare simili
evenienze, la norma stabilisce che la durata della sanzione già sofferta
dovrà essere computata ai fini della determinazione della durata della sanzione interdittiva dipendente
da reato, irrogata dal giudice penale.

- CAP. II, RESPONSABILITA’ PATRIMONIALE DEGLI ENTI E LA SAGOMATURA DEL PROCESSO:


Responsabilità patrimoniale: L’art. 27 stabilisce che dell’obbligazione per il pagamento della sanzione
pecuniaria risponde soltanto l’ente con il suo patrimonio o con il fondo comune, escludendo così, che
possano essere chiamati a risponderne anche i singoli soci od associati, secondo la disciplina valevole in
rapporto alle altre obbligazioni dell’ente. La medesima disposizione estende, altresì, ai crediti dello Stato
connessi alla responsabilità dell’ente per fatti di reato il privilegio che assiste, a norma del codice di
procedura penale (v., in particolare, l’art. 320, comma 2), i corrispondenti crediti dipendenti da reato.
Processo ad un quasi imputato: Al capo III del d.lgs. 231/2001 era demandata l’attuazione dell’art. 11 della
legge di delega 300/2000 (Ratifica ed esecuzione di Atti internazionali elaborati in base all’art. K. 3 del
Trattato sull’Unione europea), secondo cui per l’accertamento della responsabilità degli enti si applicano in
quanto compatibili le disposizioni del codice di procedura penale, assicurando l’effettiva partecipazione e
difesa degli enti nelle diverse fasi del procedimento penale. Ne è derivato un inatteso ribaltamento dei
dettami della delega: ex art. 34 per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato si
osservano le norme del capo III nonché, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura
penale e del d.lgs. 271/89.
Per quanto riguarda l’identificazione del giudice chiamato ad accertare la responsabilità della persona
giuridica, ex art. 36 è il giudice penale competente per materia, territorio ed eventualmente connessione
per i reati dai quali dipende l’illecito amministrativo. Un potere cognitivo, quello del giudice, che resta
immutato anche quando il processo dovesse instaurarsi o proseguire nei confronti del solo soggetto
collettivo; non senza problemi però. Nell’eventualità configurata dall’art. 8, infatti, il giudice, pur chiamato a
risolvere incidenter tantum la questione penalistica, risultando ignoto l’autore del reato, non è in grado
innanzitutto di stabilire quale siano i criteri soggettivi di attribuzione della responsabilità (artt. 6 e 7), né ha
modo di accertare la sussistenza del presupposto oggettivo di cui all’art. 5.
Determinante al fine di assicurare all’impresa un efficace sistema di garanzie è l’equiparazione della
persona giuridica all’imputato, ai sensi dell’art. 35, con un ovvio effetto: risultano applicabile all’ente solo le
norme che riguardano l’imputato come soggetto del processo, ma non come persona fisica.
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L’art. 39 pone il principio base, secondo cui l’ente partecipa al procedimento penale con il proprio
rappresentante legale, prevedendo inoltre una formalizzazione della partecipazione che richiama i modi di
partecipazione al processo delle altre parti private, piuttosto che dell’imputato. Infatti, l’ente che intenda
partecipare al procedimento deve costituirsi depositando una dichiarazione contenente la denominazione
dell’ente, le generalità del rappresentante legale e del difensore, la dichiarazione o l’elezione di domicilio; è
inoltre previsto che alla dichiarazione sia allegata la procura conferita nelle forme di cui all’art. 100 c.p.p. La
partecipazione al procedimento è in ogni caso inibita al rappresentante legale che sia imputato del reato da
cui dipende l’illecito amministrativo. In tale ipotesi, l’ente che voglia partecipare ugualmente al
procedimento dovrà nominare un rappresentante per il processo. Il comma 4 del medesimo articolo pone
una peculiare ipotesi di rappresentanza legale necessaria dell’ente da parte del difensore, che si determina
in caso di mancata comparizione del legale rappresentante della persona giuridica.
L’art. 43 disciplina, invece, le modalità delle notificazioni all’ente. Si richiamano le regole che l’art. 154,
comma 3, c.p.p. prevede per le notifiche alle pubbliche amministrazioni e alle persone giuridiche, rinviando
alla disciplina stabilita per il processo civile. Al fine di evitare disfunzioni nelle notifiche, si è stabilito
espressamente che la notifica eseguita mediante consegna al legale rappresentante, anche se imputato del
reato da cui dipende l’illecito amministrativo, è comunque valida.

Quello che allo stato appare ben difficile da stabilire sono i livelli di rischio, sotto il profilo della funzionalità
del processo penale, collegati all’innesto, al suo interno, del nuovo corpo normativo. Fondamentalmente si
teme che ne possa derivare un’ipertrofia funzionale del preesistente sistema processuale penale, tutta a
detrimento della semplificazione e dell’auspicata durata ragionevole: in un’ipotesi limite, ad es., il giudice
competente potrebbe venire chiamato ad accertare nello stesso contesto processuale la responsabilità
penale dell’imputato, quella amministrativa dell’ente, e, là dove risulti esercitata l’azione civile nei confronti
dell’autore del reato, quella civile dell’imputato nonché eventualmente dello stesso ente citato in qualità di
responsabile civile o di civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Proprio onde evitare tali rischi non vi è
da stupirsi se non è stata prevista la costituzione di parte civile del danneggiato dal reato nei confronti
dell’ente, perché questo presupporrebbe l’intercorrenza di un nesso tra reato, autore del medesimo e
danno accampato non riscontrabile con riferimento all’illecito dell’ente. Parimenti da escludere anche la
legittimazione dell’ente imputato a costituirsi parte civile nei confronti dell’imputato persona fisica.
Tutt’altra questione è invece quella relativa all’esperibilità delle azioni civili di rivalsa e di risarcimento da
parte dell’ente condannato per illecito amministrativo dipendente da reato. Sebbene tenda a prevalere
l’idea che la persona giuridica possa cercare ristoro di tutti i costi economici derivatigli dal procedimento,
convenendo in sede civile l’autore del reato ed ogni altro soggetto che abbia derogato ai doveri inerenti alla
propria carica, tale tesi incontra ostacoli superabili solo attraverso un faticoso e non convincente lavoro
interpretativo. In particolare, la legittimazione del soggetto collettivo all’esercizio della pretesa risarcitoria
in sede civile svuoterebbe il collegamento tra illecito ed ente, con la conseguenza che il sistema finirebbe
per contraddire se stesso. Senza contare che in tal modo l’autore del reato sarebbe costretto a rispondere
del fatto proprio e indirettamente del “fatto altrui”. A conti fatti la titolarità del diritto di rivalsa può
riconoscersi solo all’ente assolto dall’addebito o nei cui confronti il processo penale non sia mai nato, a
patto che ricorra il presupposto di cui al c.c. del danno diretto.
Improcedibilità e riunione e separazione di procedimenti: ex art. 37, non si procede all’accertamento
dell’illecito amministrativo dell’ente quando l’azione penale non può essere iniziata o proseguita nei
confronti dell’autore del reato per mancanza di una condizione di procedibilità.
Per quanto riguarda la riunione e separazione di procedimenti di cui all’art. 38, occorre premettere che
l’ipertrofia del procedimento, come l’esperienza della connessione ha insegnato, genera macchine mal
governabili, e per questo la scelta compiuta dal decreto va nel senso di uno spiccato favor separationis.
Tanto premesso, vale la pena risolvere una questione di nomenclatura originata dalla rubrica, in cui si parla
al plurale di procedimenti. È evidente che l’articolo riguardi anche e soprattutto il processo. Il primo comma
stabilisce che “il procedimento per l’illecito amministrativo dell’ente è riunito al procedimento penale
instaurato nei confronti dell’autore del reato da cui l’illecito dipende”; si tratta però di un cumulo non
necessario, sebbene preferenziale, e la formula con cui l’articolo si chiude rompe di fatto la tassatività delle
deroghe al regime della riunione. Tale regola, infatti , è derogabile in una serie di ipotesi solo
apparentemente determinata. Il comma secondo ammette accertamenti in tre casi: il primo concerne il
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perdurante stato di incapacità dell’imputato a partecipare coscientemente al processo cui sia conseguita la
sospensione a norma dell’art. 71 c.p.p. Nella seconda ipotesi lo scisma si verifica qualora l’imputato abbia
richiesto il giudizio abbreviato, o stipula un concordato sulla pena senza che l’ente, tramite il proprio
rappresentante legale, abbia assunto una corrispondente iniziativa e viceversa, ovvero nel caso in cui il p.m.
abbia richiesto ed ottenuto dal giudice l’emissione di un decreto penale di condanna (la richiesta di giudizio
abbreviato o di patteggiamento, però, di per sé sole non generano la scissione delle due vicende
processuali, occorrendo attendere la definizione dei procedimenti speciali prima di poter disporre la
separazione del procedimento a carico dell’ente da quello che si celebra nei confronti della persona fisica;
si avrà dapprima una sospensione del processo di accertamento dell’illecito amministrativo). Una volta
sfalsate le due vicende sono destinate a non ricongiungersi più.
La terza ipotesi ricorre quando la separazione è resa necessaria ai fini dell’ordinata gestione del processo. È
appunto una formula aperta. All’interno di tali situazioni possono distinguersi due fattispecie: da un lato
quelle riconducibili ad eventi connessi al procedimento penale, altri che riguardano il procedimento per
l’accertamento dell’illecito amministrativo, determinandone l’arresto temporaneo o definitivo e il distacco
da quello concernente con la persona fisica. Esempi: ex art. 8 è impensabile la celebrazione cumulativa dei
procedimenti in caso di mancata identificazione dell’autore del reato, di dichiarazione di non imputabilità
dell’autore stesso ovvero di estinzione del reato per causa diversa dall’amnistia/ O ancora causa
separazione la scelta del giudizio direttissimo o del giudizio immediato operata dall’accusa nei confronti
della persona fisica o della persona giuridica/ ex art. 43 comma 4, su richiesta del p.m., il giudice ordina la
sospensione del procedimento qualora non sia stato possibile effettuare le notificazioni all’ente nei modi
previsti dal medesimo articolo e siano risultate infruttuose le nuove ricerche obbligatoriamente disposte./
l’art. 65 prevede poi che il processo concernente l’illecito amministrativo possa venir sospeso qualora
l’ente, prima dell’apertura del dibattimento, richieda di provvedere alla riparazione delle conseguenze del
reato e dimostri di essersi trovato nell’impossibilità di adempiervi sino a quel momento.
Per quanto riguarda la questione della compatibilità del giudice che abbia pronunciato o concorso a
pronunciare sentenza nei confronti della persona giuridica a partecipare al giudizio a carico dell’autore del
reato o viceversa, sorgono alcuni dubbi. Nel caso in cui il procedimento a carico dell’ente, a seguito della
separazione, sia stato definito per primo, non dovrebbero sussistere dubbi in ordine all’incapacità
dell’organo giurisdizionale che ha assunto la deliberazione a partecipare al giudizio nei confronti
dell’imputato. Maggiori incertezze solleva l’opposta eventualità. Si potrebbe infatti sostenere che, ove il
giudice abbia pronunciato sentenza nei confronti della persona fisica, sia irragionevole reputarlo
incompetente a partecipare al giudizio relativo al soggetto collettivo. In questo caso l’accertamento del
giudice non ha avuto ad oggetto né i criteri soggettivi né i criteri oggettivi di imputazione della
responsabilità all’ente. In ogni caso queste obiezioni non convincono del tutto: a ben guardare in
quest’ultima ipotesi il giudice si pronuncia sì su 2 fondamentali presupposti della resp. amministrativa, il
perfezionamento del reato da cui discende l’illecito amministrativo e attribuzione di tale reato ad una
persona collegata da rapporto organico alla persona giuridica.
Per concludere, in regime di separazione, nulla preclude il travaso di atti dall’uno all’altro giudizio, nel
rispetto però dell’art. 238 c.p.p. Per cui i verbali di dichiarazioni potranno venir utilizzati contro l’imputato
soltanto se il suo difensore ha partecipato all’assunzione della prova, ovvero se è intervenuto il consenso
del difensore della persona giuridica.
La fase prodromica: Nell’immaginario del legislatore delegato l’avvio della fase prodromica dovrebbe
realizzarsi contemporaneamente nei confronti del presunto autore del reato e della persona giuridica
reputata responsabile dell’illecito amministrativo. Tanto si evince dall’art. 56, che appunto colloca
l’accertamento dell’illecito amm. nel contesto delle indagini preliminari.
In ogni caso l’instaurazione del procedimento coincide con l’iscrizione della notizia dell’illecito
amministrativo nel registro delle notizie di reato (art. 55). Vi sono però alcuni adattamenti connessi alla
specificità della fattispecie. Innanzitutto la menzione degli elementi identificativi dell’ente, il che esclude
l’iscrizione di notizie non soggettivizzate; è richiesta poi , ove possibile, l’indicazione del legale
rappresentante dell’ente.
I veicoli di conoscenza da parte dell’ente dell’instaurazione di un procedimento nei suoi confronti sono
uguali a quelli di cui fruisce l’indagato. La discovery si realizza pertanto grazie al meccanismo di accesso al
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registro delle notizie di reato (v. art. 335, comma 3 e 3 – bis c.p.p.), ovvero in seguito ad atti del p.m.
compiuti nei confronti dell’ente ai quali il difensore abbia diritto di assistere.
Dall’annotazione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. decorrono termini di durata delle indagini preliminari
uguali a quelli previsti per l’accertamento del reato presupposto (art. 56).
Occorre poi ricordare che, ai sensi dell’art. 35, l’ente gode delle prerogative proprie dell’imputato, ma la
sua capacità di agire nel processo è subordinata ad un atto di costituzione (art.39) ed alla nomina di un
individuo chiamato a rappresentare legalmente l’ente. Strano appare il fatto che l’ente non possa farsi
rappresentare dall’imputato del reato da cui dipende l’illecito amm. ma che quest’ultimo possa ricevere
validamente le notificazioni destinate all’ente ex art. 43 comma 2.
Ex art 40 poi distinta dalla rappresentanza per la partecipazione al procedimento è l’assistenza legale –
difensiva dell’ente. Desta a questo punto forti perplessità la rappresentanza necessaria che l’art. 39 comma
4 conferisce al difensore nominato qualora il rappr. legale non compaia all’udienza preliminare o al
dibattimento: in tal caso il difensore è in grado di sovrapporre la propria volontà a quella dell’ente. Per
quanto riguarda le strategie difensive, nulla sembra opporsi, fatte salve ragioni di opportunità da verificare
caso per caso, all’ipotesi che ente e imputato persona fisica abbiano lo stesso difensore, scelta comunque
non molto conveniente.
Vicende modificative dell’ente: I successivi artt. da 28 a 32 regolano l’incidenza sulla responsabilità
dell’ente delle vicende modificative connesse ad operazioni di trasformazione, fusione o scissione. Il criterio
di massima al riguardo seguito è stato quello di regolare la sorte delle sanzioni pecuniarie conformemente
ai principi dettati dal codice civile in ordine alla generalità degli altri debiti dell’ente originario,mantenendo,
per converso, il collegamento delle sanzioni interdittive con il ramo di attività nel cui ambito è stato
commesso il reato. In tale prospettiva, l’art. 28 precisa, anzitutto, che nel caso di trasformazione resta
ferma la responsabilità dell’ente trasformato per i fatti di reato anteriormente commessi; con riferimento
all’ipotesi di fusione, l’art. 29 prevede che l’ente che ne risulta (ivi compreso l’ente incorporante, nel caso
di fusione per incorporazione) risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti
all’operazione. Maggiormente articolata risulta la disciplina dettata per l’ipotesi della scissione, la quale
tiene conto delle differenti forme che questa può assumere. L’art. 30 esordisce, in particolare, stabilendo
che, nel caso di scissione parziale – quando, cioè, la scissione avvenga mediante trasferimento di una
frazione soltanto del patrimonio della società scissa, la quale pertanto sopravvive – tale società rimane
responsabile per i reati commessi anteriormente alla data in cui l’operazione ha avuto effetto, salva la
speciale regola in tema di sanzioni interdittive cui poco più oltre si farà cenno; gli enti beneficiari sono
solidamente obbligati al pagamento delle sanzioni pecuniarie dovute dall’ente scisso per reati
anteriormente commessi, nel limite nel valore effettivo del patrimonio netto trasferito a ciascuno di essi:
limite che tuttavia non opera rispetto agli enti ai quali risulta devoluto, anche solo in parte, il ramo di
attività nel cui ambito è stato commesso il reato. Una regola particolare è dettata in ordine alle sanzioni
interdittive, le quali risultano applicabili ai soli enti cui è rimasto (nel caso di scissione parziale) o è stato
trasferito (in ogni ipotesi di scissione), anche solo in parte, il ramo di attività che ha dato luogo alla
commissione del reato. Il successivo art. 31 – dettando disposizioni comuni tanto alla fusione che alla
scissione, con riferimento all’eventualità che esse siano intervenute prima della conclusione del giudizio –
chiarisce, al comma 1, che nella commisurazione della sanzione pecuniaria il giudice deve far riferimento in
ogni caso alle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente originariamente responsabile. L’ente
risultante dalla fusione e l’ente che, in caso di scissione, risulterebbe esposto ad una sanzione interdittiva
possono ovviamente evitarne in radice l’applicazione provvedendo alla riparazione delle conseguenze del
reato, chiedendo la sostituzione della sanzione interdittiva con una sanzione pecuniaria di ammontare pari
una a due volte quella inflitta all’ente per il medesimo reato.
L’art. 32 prevede che il giudice possa tener conto delle condanne già inflitte nei confronti degli enti
partecipanti alla fusione o dell’ente scisso al fine di ritenere la reiterazione in rapporto agli illeciti dell’ente
risultante dalla fusione o beneficiario della scissione, correlati a reati successivamente commessi. La
reiterazione, in tal caso, non opera peraltro automaticamente, ma forma oggetto di valutazione
discrezionale da parte del giudice, in rapporto alle concrete circostanze. Nei confronti degli enti beneficiari
della scissione, essa può essere inoltre ravvisata solo quando si tratti di ente cui è stato trasferito, anche in
parte, il ramo di attività nel cui ambito è stato commesso il precedente reato.
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L’art. 33 si occupa delle diverse fattispecie della cessione e del conferimento di azienda. Si stabilisce che nel
caso di cessione o conferimento dell’azienda nella cui attività è stato commesso il reato, il cessionario è
solidalmente obbligato, salvo il beneficio della preventiva escussione del cedente e nei limiti del valore
dell’azienda ceduta, al pagamento della sanzione pecuniaria correlata al reato stesso: purché, peraltro, il
relativo debito emerga dai libri contabili obbligatori, ovvero il cessionario fosse comunque a conoscenza
dell’illecito amministrativo dell’ente cedente. Resta esclusa, di contro, in ogni caso, l’estensione al
cessionario delle sanzioni interdittive inflitte al cedente.
Il legislatore provvede anche a coordinare tali vicende con i meccanismi processuali di accertamento della
responsabilità stessa, agli art. 42 e 70, che sostanzialmente attribuiscono all’ente subentrato al soggetto
collettivo originariamente responsabile una veste processuale coincidente, a tutti gli effetti, a quella
dell’imputato. Ex art. 42, nel caso di fusione, trasformazione o scissione dell’ente originariamente
responsabile, il procedimento prosegue nei confronti degli enti risultanti da tali vicende modificative o
beneficiari della scissione, che partecipano al processo nello stato in cui lo stesso si trova. Non assume
invece la veste di parte processuale il cessionario od il conferitario di azienda, risultando escluso ogni
fenomeno di contagio della responsabilità del cedente o del conferente per i reati commessi anteriormente
alla data operazione. Ai sensi dell’art. 70 poi il giudice, in caso di vicende modificative dell’ente, deve
pronunciare la sentenza nei confronti degli enti derivanti da fusione o trasformazione o beneficiari della
scissione.
Per partecipare al procedimento, sostituendovi in tutto e per tutto l’ente originariamente responsabile, il
soggetto collettivo derivato dalla vicenda modificativa è tenuto al deposito nella cancelleria dell’autorità
giudiziaria procedente di una nuova dichiarazione di costituzione; se il neo nato non si costituisce, lo stesso
sarà dichiarato contumace.
Misure cautelari: Gli interventi cautelari sono senza dubbio tra gli avvenimenti più significativi che possono
coinvolgere l’ente nella fase prodromica. Sono due i presupposti per l’adozione di provvedimenti cautelari
definiti dall’art. 45: che sussistano “gravi indizi” sulla responsabilità dell’ente per l’illecito amministrativo,
(replicando in parte la disposizione sulle condizioni generali di applicabilità delle misure di cui all’art. 273
c.p.p.), e che vi sia il pericolo, desunto da fondati e specifici elementi, di reiterazione di illeciti della stessa
indole di quello per cui si procede. Spicca il totale disinteresse per la salvaguardia di esigenze probatorie. A
ben guardare vi è pure un presupposto implicito, derivante dall’istituita corrispondenza tra sanzioni
interdittive e cautele contra societatem: quest’ultime infatti non possono prescindere dalle medesime
premesse dell’omologo trattamento sanzionatorio e, conseguentemente, del principio di legalità di cui
all’art.13. E ancora si deve escludere che la persona giuridica possa subire provvedimenti cautelari se
l’autore del reato lo abbia commesso nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne abbia
ricavato vantaggio, o questo sia stato minimo oppure sia stato cagionato un danno patrimoniale di
particolare tenuità. Naturalmente la verifica dei gravi indizi riferiti all’applicabilità delle misure deve
considerare la particolare natura e struttura dell’illecito amministrativo in questione, per cui la
responsabilità dell’ente è per così dire “derivata” da quella dell’imputato-persona fisica. Pertanto, la gravità
degli indizi dovrà riguardare il complesso meccanismo di imputazione della responsabilità all’ente di cui
all’art. 5: in sostanza, la valutazione in ordine alla sussistenza dei gravi indizi andrà riferita al reato posto in
essere, alla verifica dell’interesse o del vantaggio derivante all’ente e al ruolo dei soggetti indicati nelle lett.
a) e b) del citato art. 5.
Maggiori varianti rispetto alla disciplina ordinaria si registrano con riferimento al periculum in mora,
constando il quale può venire autorizzata l’adozione di misure interdittive nei confronti dell’ente: l’art. 45
richiede la sussistenza di specifici e fondati elementi, formula ben diversa da quella di cui all’art. 274 c.p.p.
che eleva a indicatori del periculum specifiche modalità e circostanze del fatto e la personalità della
persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da atti o comportamenti concreti e dai suoi
precedenti penali. Vi è dunque un vuoto di disciplina che cmq non è impossibile da colmare. Il giudice
potrebbe infatti avvalersi in funzione prognostica di quegli stessi elementi il cui riscontro è condizione per
l’applicabilità delle sanzioni interdittive. Ciò comporta però nella pratica un autentico bis in idem.
La scelta delle misure viene operata sulla base dei criteri selettivi di adeguatezza e proporzionalità indicati
dall’art. 46, e dunque in forza di canoni analoghi a quelli previsti dall’art. 275 c.p.p. , con l’aggiunta dei
parametri della economicità e della specificità dell’intervento cautelare.
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Il primo criterio che viene in considerazione, dunque, è quello di idoneità, dovendo il giudice valutare la
specifica funzionalità della misura richiesta a scongiurare i pericula sussistenti nel caso concreto; in secondo
luogo, la valutazione del giudice dovrà essere guidata da un criterio di proporzione rispetto al fatto
contestato ed alla sanzione per esso applicabile all’ente in via definitiva; infine, si dovrà tener conto
dell’adeguatezza della cautela, con riferimento all’interdizione dall’esercizio dell’attività. La gravità di
quest’ultima sanzione e la sua attitudine ad incidere sulla stessa vita dell’ente giustifica la sua possibilità di
applicazione come extrema ratio. Ancora le misure cautelari non possono essere applicate
congiuntamente.
Come già detto, le misure cautelari corrispondono alle sanzioni interdittive, ad esclusione della sanzione
prevista dall’art. 16 comma 3, consistente nell’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività se l’ente o
una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico e prevalente di consentire o
agevolare la commissione di reati in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità. D’altronde l’adozione
provvisoria di un provvedimento qualificato come definitivo sarebbe un palese nonsense.
Onde evitare che in specifiche circostanze l’accertamento della responsabilità dell’ente si risolva in un
pregiudizio per la collettività, il comma 3 dell’art. 45 stabilisce che in luogo della misura cautelare
interdittiva il giudice possa nominare un commissario giudiziale ex art. 15 per un periodo pari alla durata
della misura da applicare.
Vediamo ora il procedimento di applicazione delle misure: previa selezione del materiale probatorio
mediante il quale supportare il petitum cautelare, l’accusa rivolge la richiesta di applicazione di una misura
interdittiva al g.i.p. ovvero al giudice procedente nelle fasi successive. La variante più sensibile rispetto al
procedimento ordinario previsto dal c.p.p. consiste nell’innesto di un momento di contraddittorio
anticipato, a norma dell’art. 47. La misura, infatti, sarà applicata in udienza pubblica, qualora sia stata ivi
presentata la relativa richiesta, ovvero in un udienza camerale fissata ad hoc dal giudice, a cui partecipano
l’accusa, l’ente e il suo difensore. Non trova spazio però in questo contesto l’interrogatorio di cui all’art. 294
c.p.p.
Mutazioni del regime cautelare: Notoriamente ogni intervento cautelare vale rebus sic stanti bus. Possono
dunque verificarsi tre ordini di possibili mutamenti del regime cautelare.
La prima figura, sconosciuta al sistema cautelare ordinario, è la sospensione, di cui all’art. 49, che ha natura
premiale. Presupposto è la richiesta dell’ente di poter realizzare gli adempimenti cui la legge condiziona
l’esclusione di sanzioni interdittive; si instaura così un procedimento incidentale che si sviluppa a tappe. In
un primo momento il giudice verifica se sussistono le condizioni per accordare la sospensione della misura
cautelare, consultando la parte pubblica. Mancano però indicazioni sui parametri con cui il giudice decide
della richiesta. Se il giudice decide di accogliere la domanda, impone all’ente una cauzione,
determinandone l’importo in misura cmq non inferiore alla metà della sanzione pecuniaria minima prevista
per l’illecito; a questo punto ordina la sospensione della misura cautelare e fissa un termine per gli
adempimenti. Nel caso di mancata, incompleta o inefficace esecuzione degli impegni riparatori nel termine
fissato, la misura viene ripristinata e la cauzione è devoluta alla Cassa delle ammende. Diversamente il
giudice revoca la misura e ordina la restituzione della somma depositata. Dopo di che il processo segue il
suo corso normale.
Gli ulteriori istituti incidenti sulla vita delle misure interdittive, di cui all’art. 50, non presentano carattere di
novità: revoca e sostituzione. La prima mutazione si verifica quando risultino mancanti le condizioni di
applicabilità di cui all’art. 45, o adempiuti gli oneri riparatori di cui all’art. 17. Con evidente scostamento
rispetto alla disciplina codicistica (art. 299 c.p.p.), l’art. 50 autorizza revoche ex officio .
La sostituzione invece è ricollegabile a due fenomeni distinti: la sostituzione vera e propria della misura
originaria con altra obbligatoriamente meno afflittiva, ovvero la modifica delle modalità esecutive
dell’interdizione, che vengono rideterminate in senso meno gravoso. La sostituzione è cmq sempre in
melius. Qui però il giudice non interviene mai ex officio, ma deve venire evocato sulla scena da una richiesta
del p.m. o dell’ente sulla quale decide de plano.
Altro fenomeno estintivo delle misure cautelari è il decorso dei termini massimi di durata ex art. 51 (in
particolare non possono superare la metà del termine massimo indicato nell’art. 13 comma 2, quindi un
anno; dopo la sentenza di condanna di primo grado, la durata della misura cautelare può avere la stessa
durata della corrispondente sanzione applicata con la medesima sentenza ma in ogni caso non superiore ai
due terzi del limite max. suddetto). Altri fenomeni estintivi sono costituiti dall’archiviazione dell’illecito
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amministrativo, la pronuncia di una sentenza di esclusione della responsabilità o dichiarativa di una causa di
improcedibilità.
Cautele reali: nessun accenno è contenuto nella legge di delega riguardo a due misure inserite nel decreto
potenzialmente attingenti al patrimonio. Si tratta di due strumenti di natura reale, il sequestro conservativo
(art. 54) ed il sequestro preventivo (art.53).
La prima misura non si distacca dal modello originario. Ne fa richiesta il p.m. in ogni stato e grado del
procedimento di merito, al giudice procedente, indicando i beni mobili e immobili dell’ente e le somme o
cose sui quali deve costituirsi il vincolo, quando vi sia fondata ragione di ritenere che manchino o si
disperdano le garanzie del pagamento della pena pecuniaria, delle spese del procedimento e do ogni altra
somma dovuta all’erario.
Il secondo istituto invece presenta notevoli differenze con il corrispondente codici stico (art. 321 c.p.p.),
trattandosi di uno strumento unidirezionale, esclusivamente finalizzato all’eventuale esecuzione della
confisca. Conserva la natura di atto a sorpresa e per cui disposto inaudita altera parte.
Il sistema dei controlli in materia cautelare: Tutti i provvedimenti in materia di misure cautelari adottate nei
confronti della persona giuridica sono impugnabili. Ex art. 52 si accorda in prima istanza un solo mezzo di
impugnazione: l’appello, esperibile dal p.m. e dall’ente per mezzo del suo difensore, i quali,
contestualmente alla domanda, espongono i temi da decidere. È escluso chiaramente il ricorso per saltum
in Cassazione, nel qual caso ope legis il ricorso si converte in appello. La decisione sull’appello in materia
cautelare compete al tribunale in composizione collegiale del capoluogo della provincia ove ha sede il
giudice da cui emana l’ordinanza impugnata. La decisione del Tribunale di appello è ricorribile in Cassazione
solo per violazioni di legge (non è sufficiente la sola insufficienza motivazionale).
Scelte diverse riguardano le cautele reali contra societatem: il rinvio agli artt. 322 e 322 – bis c.p.p. operato
dall’art. 53 rende il sequestro preventivo suscettibile di riesame anche nel merito, ed appellabili le
ordinanze che respingono la richiesta di sequestro avanzata dal p.m. o revochino o rifiutino la richiesta. Lo
stesso vale per il seq. conservativo.
L’archiviazione della notizia dell’illecito amministrativo:Formalmente gli sbocchi delle indagini preliminari
condotte nei confronti dell’ente non divergono da quelli ordinari, consistendo nella contestazione
dell’addebito o nell’archiviazione. In particolare l’archiviazione presenta cospicue differenze rispetto al
modello codici stico: in sostanza, l’accusa viene lasciata arbitro assoluto della decisione con un’ovvia
conseguenza: l’azione punitiva nei confronti degli enti non ha carattere obbligatorio. Il legislatore, infatti,
rinuncia all’intervento del giudice nel procedimento di archiviazione e conferisce direttamente al p.m. il
potere di disporla con decreto motivato (art. 58).ecco però che il p.m. deve obbligatoriamente comunicare
il decreto di archiviazione al procuratore generale presso la Corte di Appello, il quale entro 6 mesi,
eventualmente svolti accertamenti indispensabili, può muovere all’ente la contestazione delle violazioni
amministrative conseguenti al reato. Nulla è detto invece riguardo alla riapertura delle indagini, e soccorre
dunque il principio di sussidiarietà ex art. 34 : si crea però una situazione singolare in quanto, se il p.m. è
libero di archiviare il caso, per la riapertura delle indagini occorre invece l’autorizzazione del g.i.p.
Qualora invece la parte pubblica non reputi di dover emettere decreto di archiviazione, contesta all’ente
l’illecito amministrativo in uno dei modi previsti dall’art. 59. Resta incerto se l’imputazione possa innestarsi
sulla richiesta di giudizio direttissimo o di giudizio immediato, non previsti nel novero dei procedimenti
speciali elencati dal decreto. Il dubbio va risolto in senso affermativo, per il principio di sussidiarietà.

- CAP. III, DALLA CONTESTAZIONE ALL’ESECUZIONE:


Incompatibilità testimoniali: Come già precisato, il decreto consegna all’interprete una disciplina a tratti
fortemente lacunosa. Ne è un allarmante esempio l’unica norma espressamente dedicata alla tematica
probatoria, l’art. 44, che disciplina le incompatibilità con l’ufficio del testimone. La prima situazione ostativa
dettata dall’art. concerne il presunto autore del reato che debba venire ascoltato in ordine ai fatti sui quali
si fonda la responsabilità amministrativa dell’ente. Altrettanto dicasi nell’eventualità in cui l’imputato venga
chiamato a rendere dichiarazioni nel processo separato a carico del soggetto collettivo, salvo che nei loro
confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione
della pena concordata.
Successivamente l’art. 44 sancisce l’inidoneità anche del rappresentante legale dell’ente ad assumere la
veste di testimone nel processo a carico del rappresentato. Tale incompatibilità, però, non è assoluta ma
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opera solo in presenza di due specifici presupposti fissati cumulativamente: l’indicazione del
rappresentante effettuata nell’atto di costituzione in giudizio ed il conferimento delle funzioni di
rappresentanza dell’ente alla medesima persona fisica anche all’epoca del commesso reato (disposizioni
non molto chiare. Pare difficile, infatti, sostenere con pretesa di coerenza, da un lato, che la figura del
rappresentante legale è equiparata a quella dell’imputato, con la conseguenza di venir sottoposto ad
interrogatorio per conto dell’ente, godendo di tutte le facoltà e i diritti riconosciuti all’imputato, e, da un
altro lato, che quello stesso soggetto assume invece, la veste di testimone, qualora non abbia rivestito tale
qualifica al momento del reato, senza che ciò collida con l’elementare canone secondo cui nemo testis in
causa propria). È ovvio poi che l’illecito penale e quello amministrativo da esso dipendente finiscano nella
sostanza per condividere il medesimo nucleo fattuale. Pertanto il soggetto che rappresenta l’ente nel
giudizio a carico di colui che ha commesso il reato viene ad assumere una posizione uguale a quella del
coimputato del medesimo reato. Restano da chiarire le modalità di ascolto, nel processo proprio ed in
quello altrui, dell’imputato del reato presupposto e del rappresentante legale. Con riferimento all’imputato
del reato presupposto da ascoltare nel processo a carico dell’ente valgono, ovviamente, le regole vigenti
nel processo ordinario, e dunque, nel corso delle indagini preliminari, costui verrà sottoposto ad
interrogatorio e nel dibattimento cumulativo potrà essere sottoposto ad esame. Restando fermo il divieto
di testimonianza dell’art. 44 comma 1 lettera a dell’imputato del reato, anche nel processo separato
l’incompatibilità risulta assoluta, cedendo solo di fronte all’intervento della sentenza irrevocabile. La
situazione, pertanto, va disciplinata con modalità identiche a quelle che, nel processo ordinario, si
impiegherebbero per l’ascolto degli imputati in un procedimento connesso, applicando cioè l’art. 210 c.p.p.
(obbligo di presentarsi, assistenza del difensore, hanno facoltà di non rispondere). Quanto al
rappresentante dell’ente, viene sentito nelle forme previste per l’esame della persona imputata in un
procedimento connesso.
Sfide probatorie: Notoriamente accollato al p.m. nel giudizio penale ordinario, l’onere di provare l’accusa è
invece a “carichi differenziati” nel processo scaturito dalla contestazione dell’illecito amministrativo
dipendente da reato. Occorre distinguere 2 ipotesi. Cominciamo dal rappresentante dell’accusa che ipotizzi
la commissione di un reato da parte dei vertici aziendali. In tal caso, all’enunciazione in forma chiara e
precisa del fatto che può comportare l’applicazione di sanzioni amministrative, il p.m. deve far seguire
operazioni acquisitive che immettano o elaborino nel processo la prova in relazione ad un triplice ordine di
elementi. Innanzitutto occorre dimostrare che il reato rientri nel catalogo formulato dagli artt. 24, 25, 25
bis, ter, quater, quinquies e sexies, e che la responsabilità amministrativa dal medesimo derivante sia
prevista da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto. In secondo luogo la parte
pubblica deve documentare che l’autore dell’illecito penale coincide con uno dei soggetti di vertice.
L’accusa infine deve provare che l’ascrivibilità all’ente della condotta criminosa è determinata dalla
commissione del reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente medesimo. E proprio da qui ha origine il
compito probatorio accollato all’ente: innanzitutto provare che il fatto non è stato commesso nell’interesse
dell’ente. Successivamente il soggetto collettivo dovrà dimostrare l’assenza della colpa di organizzazione.
Ciò però fa sorgere alcune perplessità: i protocolli di organizzazione fungono da prove precostituite in
ordine alla volontà dell’ente di “prendere le distanze” dal reato e dal reo, ma la loro mera predisposizione
vale, a fini dimostrativi, quanto una dichiarazione di intenti. Occorrerà infatti dimostrare non solo la
adozione ma anche la concreta ed efficace attuazione di plannings di gestione idonei a prevenire reati della
specie di quello verificatosi; e ancora la creazione all’interno dell’ente di organismi dotati di autonomi
poteri di iniziativa e di controllo cui sia stato affidato il compito di vigilare sull’osservanza e
sull’aggiornamento dei suddetti protocolli. In secondo luogo occorre provare che l’autore del reato si è
dissociato fraudolentemente dagli standard comportamentali fissati dall’ente di appartenenza.
A conti fatti, le probabilità che la difesa riesca a provare tutti questi 4 elementi paiono esigue; è quasi una
probatio diabolica, in particolare in relazione a enti a base manageriale ristretta
Il regime di ripartizione del rischio probatorio tra accusa ed ente muta in modo drastico se la
responsabilità amministrativa dipende da un illecito penale posto in essere da soggetti sottoposti
all’altrui direzione o vigilanza. La parte pubblica deve provare in primo luogo l’esistenza di un vero
e proprio legame eziologico tra l’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza da parte della
persona fisica cui gli stessi sono imposti e la realizzazione del reato da parte del sottoposto. La parte
pubblica è tenuta a provare, in secondo luogo, che l’ente ha adottato un modello di organizzazione,
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gestione e controllo inidoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi, ovvero la mancata
attuazione del modello stesso. Resta invece a carico dell’ente l’onere di dimostrare l’adozione,
anteriore al perfezionamento del reato, di un modello organizzativo inteso a prevenire quell’illecito
penale: l’ente però sarà qui dispensato dalla dimostrazione in ordine all’osservanza degli obblighi di
direzione, vigilanza e controllo se prova la predisposizione di modelli idonei ed efficienti.
L’udienza preliminare: La tecnica del rinvio al codice di rito penale (art. 34), trova ampi spazi di esercizio con
riferimento all’udienza preliminare. Non a caso il decreto dedica una sola norma a quest’udienza, l’art. 61.
Ne consegue che la richiesta di rinvio a giudizio dell’imputato funge da atto propulsivo dell’udienza
preliminare anche nei confronti della persona giuridica e che il successivo iter processuale è scandito dalle
cadenze ordinarie. Si riscontrano però tre ordini di aggiustamenti: il primo attiene alla disciplina
concernente la verifica in ordine alla regolare costituzione delle parti prevista dall’art. 420 c.p.p. : ove consti
l’impossibilità di notificare l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, l’autorità giudiziaria deve disporre
nuove ricerche, ma, in casi di esito negativo, non può adottare la tecnica di notificazione prevista dal codice
per gli imputati irreperibili, bensì sarà tenuta a sospendere l’udienza in corso. Il secondo adattamento
riguarda la regolamentazione dell’impedimento a comparire: venendo la persona giuridica incarnata dal
proprio rappresentante legale, nulla osta ad adattare la disciplina ordinaria nel senso che sia il legittimo
impedimento di quest’ultimo ad assumere rilevanza ai fini di un eventuale rinvio dell’udienza a norma
dell’art. 419 c.p.p. L’ingiustificata comparizione del legale rappresentante della persona giuridica non
sortisce poi altro effetto che quello di determinare l’assunzione della rappresentanza dell’ente da parte del
suo difensore di ufficio o di fiducia. Ancora il nesso di dipendenza che lega l’illecito amministrativo a quello
penale rende opportuno, infatti, che all’eventuale modifica dell’imputazione a carico della persona fisica si
accompagni un corrispondente riassetto dell’addebito mosso all’ente.
Vediamo ora gli adattamenti espressamente previsti dall’art. 61. Innanzitutto il dovere di pronunciare
sentenza di non doversi procedere nei confronti dell’ente viene raccordato alle ipotesi di estinzione della
sanzione amministrativa. L’evento estintivo, a rigore, va ricondotto alla sola scadenza dei termini previsti
dall’art. 22 ovvero alla decadenza della contestazione ex art. 60.
La seconda ipotesi discende dall’improcedibilità della sanzione amministrativa e in particolare: quando
l’azione penale nei confronti dell’autore del reato presupposto non poteva essere iniziata o proseguita per
mancanza di una condizione di procedibilità, ovvero nel caso in cui, per lo stesso reato, sia stata concessa
amnistia senza che l’imputato o l’ente vi abbiano rinunciato e, infine, qualora l’illecito amministrativo sia
stato contestato dopo l’estinzione di quello penale dovuto a prescrizione.
Ancora la responsabilità del soggetto collettivo va esclusa tanto nel caso in cui dagli atti sottoposti al vaglio
del giudice dell’udienza preliminare emergano elementi di prova positiva in ordine alla non colpevolezza
della persona giuridica quanto nell’eventualità che, a contrario, manchino elementi dimostrativi della
fondatezza dell’addebito mosso all’ente.
La vocatio in iudicium dell’ente deve poi contenere, ai sensi del comma secondo dell’art. 61, la
contestazione dell’illecito amministrativo dipendente da reato, l’enunciazione del fatto che può comportare
l’applicazione delle sanzioni, l’indicazione del reato da cui l’illecito dipende e dei relativi articoli di legge,
l’enunciazione degli elementi identificativi dell’ente e l’enucleazione delle fonti di prova. Il difetto di tali
requisiti è fonte di una nullità generale a regime intermedio, deducibile ai sensi dell’art. 180 c.p.p.
( rilevabile anche d’ufficio, ma non deducibile né rilevabile dopo la deliberazione della sentenza di primo
grado, ovvero, se si sono verificate nel giudizio, dopo la deliberazione della sentenza di grado successivo).
Per l’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, nel silenzio del decreto, si applicherà quanto
disposto dall’art. 428 c.p.p. (solo ricorso per Cassazione, proposto dal Procuratore della Repubblica ovvero
Generale, dall’imputato).
Percorsi semplificati: Gli artt. 62, 63 e 64 innestano tre possibili varianti sull’iter processuale tipico, il
giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta e il giudizio monitorio. La logica deflattivo –
premiale di tali riti, però, non è stata interamente recepita dal decreto, avendo il legislatore subordinato
l’adozione dei primi due ad un fondamentale limite: il giudice deve respingere la relativa domanda qualora
per l’illecito amministrativo sia prevista l’applicazione di una sanzione interdittiva in via definitiva.
La definizione dell’illecito penale – amministrativo mediante riti speciali di natura premiale può avvenire su
richiesta del solo soggetto collettivo, indipendentemente cioè da un’omologa domanda della persona fisica,
nei modi e nei termini ordinari.
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Ex art. 62 il giudizio abbreviato si svolge secondo le ordinarie regole previste dal codice di rito, in quanto
applicabili (per tanto si svolgerà secondo le regole previste per l’udienza preliminare, in camera di
consiglio). Così come stabilito nell’art. 442 c.p.p. in caso di condanna la pena determinata dal giudice è
diminuita di un terzo e l’effetto premiale incide sia sulla durata della sanzione interdittiva sia
sull’ammontare della sanzione pecuniaria applicabili in concreto, ma non sulla confisca.
L’art. 63 disciplina l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta: il legislatore ha elaborato un modello
di patteggiamento che, pur articolandosi come quello ordinario, prevede condizioni di accesso al rito in
alcuni casi macchinose. Al primo comma vi è l’ipotesi più semplice, corrispondente alla richiesta di
applicazione della pena per fattispecie di illecito amministrativo connotate da minor gravità, venendo
punite con la sola sanzione pecuniaria. In tal caso la composizione sulla pena non incontra specifiche
limitazioni né viene fissato un tetto in ordine al quantum negoziabile. Si applicano dunque le regole di cui al
comma 2 dell’art. 444 c.p.p. (occorrerà verificare la corretta qualificazione del reato, il diligente impiego dei
criteri di commisurazione della pena pecuniaria e dello sconto di pena per la scelta del rito - diminuzione
fino ad un terzo ). Le cose si complicano quando per il reato da cui l’illecito amministrativo discende è
prevista l’applicazione di una sanzione interdittiva. L’ente, infatti, viene ammesso al patteggiamento solo se
il giudizio nei confronti dell’imputato è definito o definibile a norma dell’art. 444 c.p.p. Tale disposizione è
comprensiva di un triplice ordine di situazioni: si va dal caso in cui l’imputato abbia già definito la propria
posizione processuale e l’ente, a sua volta, decida nel processo separato di far ricorso al medesimo
strumento, all’eventualità che la richiesta di semplificazione del rito sia stata formulata, nel processo
cumulativo, tanto dalla persona fisica quanto da quella giuridica, alla possibilità infine che la richiesta di
patteggiamento venga formulata dal solo ente. Nei primi due casi la praticabilità del patteggiamento da
parte dell’imputato è in re ipsa, e pertanto non sorgono difficoltà di accertamento della condizione richiesta
dal primo comma. Altrettanto non può dirsi invece quando la persona fisica non ha formulato domanda di
patteggiamento. In questa eventualità infatti occorre che la persona giuridica istante convinca il giudice
che, qualora l’imputato avesse optato per l’applicazione della pena concordata, non vi sarebbe stato
motivo di respingere la domanda (ipotesi non affatto agevole qualora ad esempio il responsabile del reato
non sia stato identificato). Vige poi sempre il limite dell’applicazione di una sanzione interdittiva in via
definitiva, ma a differenza di quanto disposto dal precedente articolo, qui si richiede una valutazione in
concreto e non in astratto. Non essendo prevista dal decreto la sospensione condizionale della pena, è
naturale che la domanda di applicazione della pena concordata non possa essere subordinata alla
concessione di tale beneficio.
Al patteggiamento qui descritto sono riconducibili effetti solo parzialmente coincidenti con quelli previsti
dall’art. 445 c.p.p. Non operando il decreto alcuna distinzione tra pene principali, pene accessorie e misure
di sicurezza non pare applicabile il primo comma dell’art. 445. La confisca ovviamente deve essere cmq
disposta. Paiono poi inapplicabili le disposizioni attinenti all’efficacia della sentenza di patteggiamento, non
profilandosi giudizi civili o amministrativi di danno o disciplinari, nei quali dedurre eventuali effetti
vincolanti della decisione irrevocabile sulla resp. dell’ente.
L’art. 64 infine disciplina il giudizio monitorio o per decreto, spendibile esclusivamente nei casi in cui
l’organo dell’accusa reputi che, per l’illecito dell’ente, possa venir inflitta la sola sanzione pecuniaria.
Ovviamente anche l’adozione delle condotte riparatorie può agevolare la praticabilità del procedimento o
addirittura renderla possibile. Quanto all’iniziativa del p.m. e alla decisione del giudice su la richiesta di
quest’ultimo non vi sono sensibili differenze rispetto a quanto disposto dall’art. 459 c.p.p. Ex art. 64, infatti,
entro 6 mesi dall’annotazione dell’illecito amministrativo nel registro e previa trasmissione del fascicolo
delle indagini, il p.m., qualora reputi applicabile la sola pena pecuniaria, presenta richiesta motivata di
emissione del decreto di applicazione della pena pecuniaria, indicandone la misura, al g.i.p. Le riduzioni di
pena possono giungere sino alla metà dell’importo minimo applicabile, oltre al beneficio della non
iscrizione del provvedimento nel certificato dell’anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative. Il comma
3 prevede poi che il giudice che non accoglie la domanda restituisca gli atti al p.m. perché proceda con le
forme ordinarie. Non si applicherà però in tal caso la confisca in quanto condizione esclusiva per
l’esperibilità del giudizio monitorio è l’applicabilità della sola pena pecuniaria.
Va registrata, infine, l’assenza nel decreto di norme relative al giudizio immediato o al giudizio direttissimo
nei confronti degli enti: ma ciò non significa che questi siano esclusi, come dimostrato dal richiamo, operato
dall’art. 62 all’art. 558 comma 8, riguardante la trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio
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abbreviato per reati di competenza del tribunale in composizione monocratica. Pertanto, entro 50 gg
dall’illecito amministrativo, il p.m. potrà sperimentare il giudizio immediato nei confronti del soggetto
collettivo ove reputi di aver raccolto elementi idonei ad integrare la prova evidente della sua responsabilità
amministrativa e sui fatti cui la prova stessa collegata abbia interrogato il legale rappresentante della
persona giuridica o lo abbia invitato a presentarsi per rendere l’interrogatorio con l’osservanza delle forme
indicate dall’art. 375. Nessuna questione anche in relazione all’applicabilità del giudizio direttissimo nei
confronti dell’ente: il suo impiego sarà però pressoché nullo o limitatissimo in quanto si richiederebbe la
confessione del legale rappresentante dell’ente.
Il giudizio dall’avvio alla deliberazione: Particolare appare innanzitutto il meccanismo di sospensione del
processo configurato dall’art.65. Prima della dichiarazione di apertura del dibattimento,infatti, l’ente può
chiedere di provvedere alle attività riparatorie di cui all’art. 17, qualora dimostri di essere stato
nell’impossibilità di effettuarle prima (es. per tardiva conoscenza del procedimento, per difficoltà incontrate
nell’esecuzione di tali attività …). Pur non essendo fissato il dies a quo per presentare la domanda, è
ragionevole ritenere che esso coincida con l’arrivo del fascicolo per il dibattimento presso la cancelleria del
corrispondente giudice.
Orbene, se il giudice ritiene di accogliere la richiesta, fissa, unitamente alla determinazione di una somma di
denaro a titolo di cauzione, sia il termine entro il quale vanno poste in essere le attività sia la data della
nuova udienza, sino alla quale restano sospesi il processo nonché le misure cautelari eventualmente
disposte, ma non il decorso dei termini di prescrizione del reato. Il termine assegnato non è suscettibile di
proroga. Nel caso di scadenza di tale termine nell’inattività dell’ente, si ripristinano le misure e la somma
devoluta alla Cassa delle ammende.
Naturalmente, qualora debba pronunciarsi sentenza anticipata di proscioglimento a favore tanto
dell’imputato quanto dell’ente, non potendo l’azione penale essere iniziata o proseguita nei confronti
dell’autore del reato per la mancanza di una condizione di procedibilità ovvero perché il reato da cui
dipende l’illecito amministrativo è estinto per prescrizione, il processo può esaurirsi nell’ambito della fase
degli atti preliminari al dibattimento. Potrebbe però creare qualche complicazione la pronuncia della
suddetta sentenza (art. 67) nei confronti di un ente non costituitosi e dichiarato perciò contumace,
dovendo l’imputato prestare personalmente il consenso alla declaratoria di non doversi procedere ovvero
ad opporvisi. Si pronuncerà in tal caso una sentenza contumaciale di non doversi procedere.
Ancora possono verificarsi altre due situazioni peculiari: sebbene ipotesi puramente teorica, non può
escludersi, innanzitutto, che, risultando eventuali cause oggettive o soggettive di non punibilità
dell’imputato, il giudizio a suo carico venga immediatamente definito ex art. 129 c.p.p. e che invece
prosegua quello concernente la responsabilità amministrativa (es. imputato non ha commesso il fatto,
morte del reo, prescrizione del reato o amnistia cui l’ente abbia rinunciato). In secondo luogo, l’eventuale
modifica dell’imputazione a carico della persona fisica dovrà essere accompagnata da un corrispondente
riassetto dell’addebito mosso all’ente.
Gli artt. 66 -70 configurano le sentenze pronunciabili in sede ordinaria. Innanzitutto ex art. 66 occorre
pronunciare sentenza di esclusione della responsabilità dell’ente se l’addebito contestatogli non sussiste
ovvero quando manchi, sia insufficiente o contraddittoria la prova dell’illecito amministrativo.
Come già detto l’art. 67 disciplina la sentenza di non doversi procedere , emanata quando, ai sensi dell’art.
60, il reato da cui dipende l’illecito amministrativo è estinto per prescrizione ovvero quando la sanzione
amministrativa è estinta per il medesimo motivo. In realtà tale sentenza può scaturire da altre ipotesi:
qualora una legge posteriore non preveda più la resp. amm. dipendente da un dato reato, quando l’azione
penale nei confronti dell’autore non poteva essere iniziata o proseguita per mancanza di una condizione di
procedibilità, nel caso in cui sia stata concessa per il reato amnistia e l’imputato o l’ente non vi abbiano
rinunciato e infine nell’eventualità di bis in idem concernente la vicenda giudiziaria amministrativa.
Ex art. 69, naturalmente, qualora si provi la responsabilità dell’ente il giudice pronuncia sentenza di
condanna ed impone al soggetto collettivo il pagamento delle spese processuali.
Bisogna poi sottolineare come il nesso che lega l’illecito penale e quello amministrativo complichi
ulteriormente le cose. Quando l’illecito penale non sussiste, non costituisce reato, non è previsto dalla
legge come reato, andrà pronunciata sentenza di non doversi procedere anche nei confronti dell’ente.
Diversamente se il reo viene assolto perché non ha commesso il reato la responsabilità dell’ente non cade,
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così come se il fatto non costituisce reato per il difetto dell’elemento psicologico nonché nel caso di
intervento di cause estintive del reato diverse da amnistia.
Ex art. 70 poi, nel caso di trasformazione, fusione o scissione dell’ente, il giudice dà atto nel dispositivo che
la sentenza è pronunciata nei confronti degli enti risultanti da tali fenomeni, indicando l’ente
originariamente responsabile.
La sentenza:Quanto alle pronunce a contenuto liberatorio, va guardato con favore il canone secondo cui il
giudice ha l’obbligo di indicare nel dispositivo della sentenza la causa del proscioglimento; un canone che si
estende alla mancanza, insufficienza ed alla contraddittorietà della prova dell’illecito amministrativo. Tali
pronunce sono portatrici anche di una disposizione accidentale rilevante: dichiarano la cessazione delle
misure cautelari eventualmente applicate. La sentenza di condanna dovrà invece indicare specifiche attività
o strutture oggetto dell’interdizione inflitta in concreto, nonché le relative modalità di applicazione.
Introduce qualche variante la nomina di un commissario giudiziale in quanto il giudice dovrà indicare quali
sono i poteri e i compiti del commissario, anch’essi rapportati alla specifica attività in cui è stato posto in
essere l’illecito da parte dell’ente.
Punto interessante è quello che riguarda la confisca: ex art. 19, infatti, le statuizioni relativa alla confisca
entrano nel novero dei punti essenziali della sentenza. Anche la pronuncia di esclusione della resp. dell’ente
può contenere però identiche statuizioni e ciò si verifica quando, ex art. 6 comma 2, l’adozione dei modelli
di comportamento scrimina l’illecito amministrativo, ma il reato è stato commesso da soggetto apicale
dell’azienda (dunque le sole pronunce esenti da disposizioni correlate alla confisca restano quelle di non
doversi procedere). Si distinguono così due figure di confisca: la prima è una sanzione principale, la secondo
è uno strumento inteso al ristoro dell’equilibrio economico alterato. I suddetti interventi sono accomunati
dalla sottoposizione ad esproprio dei soli beni che presentano un collegamento eziologico con il reato e
dall’accertamento del quantum debeatur con annesso il relativo calcolo aritmetico. Il legislatore ha però
omesso di fornire adeguate indicazioni in ordine ai criteri che devono guidare il giudice in questo calcolo.
Dovrà innanzitutto stabilire se la nozione di profitto del reato abbinato alla persona giuridica vada tradotta
nel computo del ricavo complessivo, cioè dell’insieme dei valori che affluiscono all’ente, ovvero se debba
intendersi come margine di guadagno conseguito dal soggetto collettivo una volta detratte le spese
sostenute in esecuzione dell’incarico lucrato grazie al reato. Quando il calcolo entra a far parte della
pronuncia di esclusione della responsabilità dell’ente, non sembrano sussistere dubbi circa la necessità di
operarlo solo sull’utile netto conseguito dall’ente, essendo l’esproprio privo di qualsiasi carattere
sanzionatorio. Più problematica è l’ipotesi della confisca conseguente a sentenza di condanna. Si deve tener
conto qui del divario intercorrente tra la posizione dell’autore del reato che sostiene delle spese per
un’attività totalmente in contrasto con la legge e quella dell’ente che esegue la propria prestazione
contrattuale, sebbene l’abbia ottenuta attraverso il contributo delittuoso della persona fisica. Quando ci si
trovi di fronte ad una prestazione lecita, ancorché scaturente da un affare illecito, sembra pertanto
preferibile l’adozione del calcolo del profitto del reato al netto delle spese sostenute dalla persona giuridica
per il raggiungimento degli scopi negoziali.
(rilevante entità del profitto = vantaggio da monopolio derivante dall’aggiudicazione di contratti di fornitura
ottenuti grazie ad attività corruttive).
Le impugnazioni:La disciplina delle impugnazioni delle sentenze relative alla responsabilità amministrativa
dell’ente ha tenuto conto di due distinti profili. Da un lato, l’esigenza di evitare, fin dove possibile,
l’insorgere di un possibile contrasto di giudicati tra l’accertamento penale e quello relativo all’illecito
amministrativo dipendente dal medesimo reato, modulando la possibilità di impugnare dell’ente in modo
simmetrico rispetto a quella riconosciuta all’imputato. Dall’altro lato, la necessità di garantire all’ente – a
prescindere dalle facoltà che l’ordinamento riconosce all’imputato del reato presupposto dell’illecito
amministrativo – la più ampia possibilità di impugnare pronunce applicative delle sanzioni interdittive.
Parlando innanzitutto dell’impugnabilità soggettiva, occorre dire che l’inciso dell’art. 71 “l’ente può
proporre impugnazione” non dà adito a dubbi sul fatto che possano impugnare tanto il difensore quanto il
legale rappresentante dell’ente.
Per quanto riguarda l’impugnabilità oggettiva, ex art. 71, nei confronti della sentenza che applica sanzioni
amministrative diverse da quelle interdittive (e quindi sanzioni pecuniarie, la pubblicazione della sentenza o
la confisca), l’ente può proporre impugnazione nei casi e nei modi stabiliti per l’imputato del reato dal quale
dipende l’illecito amministrativo. Complicazioni nascono però nell’ipotesi in cui il processo a carico dell’ente
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e quello a carico dell’autore del reato siano separati, laddove il processo a carico dell’imputato del reato
presupposto non sia ancora pervenuto a sentenza ovvero si sia concluso in conseguenza di una vicenda
estintiva che però non estingue quella dell’ente. In questo caso si può accettare l’idea di una iniziale
diversificazione tra le impugnazioni proposte dall’ente e dall’imputato, gli effetti negativi della quale
vengano poi eliminati attraverso la conversione del gravame nel mezzo più favorito. Per quanto riguarda
invece le sentenze che infliggono sanzioni interdittive, l’ente potrà sempre proporre appello anche qualora
l’imputato del reato non possa avvalersene. Si potrebbe obiettare che la disciplina determini, in relazione
allo stesso fatto di reato, una asimmetria nelle facoltà di impugnare, a vantaggio dell’ente che in fin dei
conti risponde di un illecito amministrativo. Tuttavia, nel caso in cui l’imputato possa proporre solo ricorso
per cassazione e l’ente, invece, possa appellare la sentenza, troverà applicazione il disposto dell’art. 580
c.p.p. Dunque, il ricorso dell’imputato si convertirà, ex lege, in appello. Con una postilla però: ciò vale solo
se gli imputati hanno operato scelte identiche in ordine al rito e il processo si è sviluppato in un contesto
cumulativo (art. 580 parla infatti delle ipotesi di impugnazioni proposte dalle parti del medesimo processo
contro un’unica sentenza).
Contro la sentenza che riguarda l’illecito amministrativo, l’organo dell’accusa può proporre le stesse
impugnazioni consentite per il reato da cui l’illecito amministrativo contestato all’ente dipende. Pertanto il
p.m. può esperire appello contro le sentenze sia di condanna sia di proscioglimento dell’ente, ma non
contro quelle di patteggiamento ovvero a seguito di giudizio abbreviato, salvo che si tratti di sentenza
modificativa del titolo di reato. Anche in questa ipotesi le cose si complicano nel caso di processi separati,
laddove quello a carico dell’ente sia stato definito prima. In tal caso si deve ritenere che il p.m. sia
legittimato all’impugnazione con lo stesso mezzo che gli sarebbe stato accordato per la sentenza a carico
dell’imputato del reato presupposto là dove costui avesse operato identiche scelte in ordine al rito.
Sempre allo scopo di evitare il più possibile il contrasto di giudicati eterogeneo, ossia tra la pronuncia
relativa al reato presupposto e quella che attiene all’illecito dell’ente, è stata dettata una apposita
disposizione che attiene all’estensione degli effetti delle impugnazioni presentate dai diversi soggetti (art.
72). Precisamente, le impugnazioni proposte dall’imputato del reato da cui dipende
l’illecito amministrativo e quelle proposte dall’ente giovano, rispettivamente, all’ente e all’imputato.
Il limite all’effetto estensivo dell’impugnazione è, naturalmente, rappresentato dalla circostanza che
le stesse non devono essere fondate su motivi esclusivamente personali. Il che vuol dire – tenuto
conto della struttura complessa dell’illecito dell’ente – che le doglianze dell’imputato, che non attengono
alla sussistenza del fatto illecito o ai profili dello stesso che valgono ad escludere la responsabilità
dell’ente, ovvero relative all’estinzione del reato per cause diverse dall’amnistia o dalla remissione
della querela, non possono riverberarsi a vantaggio dell’ente. Ugualmente, rimarranno
confinate nella sfera della rilevanza solo penale le impugnazioni relative all’entità e alla specie della
pena inflitta, alle circostanze del reato, alla concessione dei benefici di legge, ecc.
Per converso, l’impugnazione dell’ente, nella quale non si contestino i profili relativi al reato, ma
ci si dolga dell’imputazione del fatto di reato all’ente o si invochi l’intervenuta prescrizione della
sanzione, ovvero si chieda un mutamento della sanzione applicata, non produrrà effetti nei confronti
della statuizione relativa all’imputato. In virtù delle proprietà diffusive dell’impugnazione va disposta la
citazione del soggetto non appellante onde metterlo in grado di intervenire al giudizio di appello. Ecco che
però tanto la sospensione del procedimento per in capacità dell’imputato (art. 71 c.p.p.), quanto la scelta
operata dal soggetto collettivo o dalla persona fisica a favore del giudizio abbreviato o del patteggiamento,
ovvero l’emissione del decreto penale di condanna possono determinare la scissione delle vicende
cumulate in un unico processo: opera qui l’effetto estensivo? Non sembrano frapporsi ostacoli in ordine
all’estensione nei casi di opposizione al decreto penale di condanna e di sentenza liberatoria pronunciata a
favore della persona fisica o della persona giuridica in seguito al giudizio conseguente all’opposizione. Nelle
restanti ipotesi di separazione dei procedimenti, invece, viene a mancare il fattore dell’accertamento
unitario, e conseguentemente, la possibilità di benefiche interferenze della sentenza emessa in sede di
appello o di cassazione su quelle seguite alla revoca dell’ordinanza di sospensione ed alla ripresa del
procedimento.
Nonostante la disciplina introdotta, è pur sempre possibile che si verifichi un contrasto di giudicati in
relazione all’accertamento della responsabilità penale della persona fisica e della responsabilità
amministrativa dell’ente. Per tale ipotesi, l’art. 73 prevede, espressamente, la possibilità di revisione delle
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sentenze pronunciate nei confronti dell’ente. Quanto ai presupposti e al procedimento, è stata richiamata
la relativa disciplina processuale penale, nei limiti di compatibilità (in particolare si richiamo gli artt. 630-642
c.p.p.). Pertanto il soggetto legittimato a richiedere la revisione (condannato o il procuratore generale
presso la Corte di Appello) può formulare la relativa domanda se i fatti posti a fondamento della condanna
sono inconciliabili con quelli stabiliti in un’altra sentenza, se la condanna è conseguenza di una decisione
pregiudiziale poi revocata, se dopo la condanna sono sorte nuove prove non conosciute o non valutate in
precedenza, e infine se la condanna è frutto di provata condotta illecita. Onde evitare possibili dubbi
interpretativi, si è chiarito, infine, che al procedimento di accertamento della responsabilità amministrativa
dell’ente non sono applicabili le disposizioni del codice di procedura che regolano la riparazione dell’errore
giudiziario (che presuppongono la natura penale della condanna e, perlopiù, l’espiazione senza giusto titolo
di una pena detentiva o di una misura di sicurezza).
Regole esecutive, pubblicazione della sentenza ed esecuzione delle sanzioni pecuniarie:Esecuzione “presto
e bene” è il target che connota il modello esecutivo predisposto dagli artt. 74-79. Presto perché è lo stesso
giudice a conoscere dell’esecuzione delle pene quanto delle sanzioni amministrative; bene perché la fase
dell’esecuzione risulta garantita dall’usbergo giurisdizionale del procedimento codicistico. Le controversie
durante l’iter esecutivo, infatti, sono risolte dal giudice che ha emesso la condanna divenuta irrevocabile.
Da questo punto di vista non cambia nulla rispetto al modello originario, ma vengono sensibilmente
modificati ed appesantiti i compiti di tale organo. Innanzitutto per un criterio di sussidiarietà di competenza
del giudice dell’esecuzione saranno le materie previste dal codice di rito,e in particolare le questioni in
materia di conflitto pratico di giudicati e di verifiche sul titolo esecutivo. Successivamente si aggiungono i
compiti fissati dal decreto: e in particolare, ai sensi dell’art. 74, il giudice dell’esecuzione (individuato ex art.
665 c.p.p. = è il giudice stesso che ha deliberato il provvedimento da eseguire) è competente per i
provvedimenti relativi alla cessazione dell’esecuzione delle sanzioni per effetto di successione di leggi che
abbiano abrogato l’illecito o il reato presupposto, alla cessazione dell’esecuzione nei casi di estinzione del
reato per amnistia, alla confisca e alla restituzione delle cose sequestrate, alla determinazione della pena in
caso di pluralità di illeciti o di cumulo di sanzioni, e ancora all’autorizzazione al compimento da parte
dell’ente interdetto di atti di ordinaria amministrazione che non comportino la prosecuzione dell’attività.
Seguono i compiti demandategli dall’art. 76, con riferimento alla pubblicazione della sentenza di condanna
a spese dell’ente, dall’art. 78 in relazione alla conversione delle sanzioni interdittive, e dall’art. 79 in
relazione alla nomina di un commissario giudiziale.
Una volta esercitata l’azione esecutiva, ogni questione sull’omologo titolo funge da momento genetico del
procedimento di esecuzione ed il giudice vi interviene evocato da una richiesta del p.m., dell’interessato o
del difensore. Generalmente si dà spazio al contraddittorio tra le parti, e solo nei casi tassativamente
indicati dai commi 3 e 4 dell’art. 74 (estinzione del reato per amnistia, confisca e restituzione delle cose
sequestrate, autorizzazione al compimento di atti di ordinaria amministrazione) il contraddittorio è
successivo ed eventuale.
L’esecuzione viene sempre promossa dal p.m. e la situazione meno problematica è costituita dalla
pubblicazione della sentenza, sotto l’egida della cancelleria del giudice e a spese dell’ente (art.694 c.p.p.).
L’esecuzione delle sanzioni pecuniarie, ex art. 75, avviene in maniera esattamente identica alla riscossione
delle somme di natura giudiziaria. Annuncia però modifiche la Decisione quadro del Consiglio dell’Unione
Europea 214/2005, che prevede l’esecuzione su tutto il territorio comunitario delle pronunce definitive, ivi
comprese quelle che emettono sanzioni pecuniarie nei confronti degli enti.
Esecuzione delle sanzioni interdittive e pubblicità dei carichi pendenti e delle sanzioni:Decisamente sui
generis le modalità di esercizio dell’azione esecutiva correlata alle sanzioni più gravose, avvalendosi il p.m.
di una semplice notifica all’ente cui egli stesso provvede (art. 77), indicando l’attività o le strutture oggetto
delle sanzioni stesse. Pertanto il termine di durata delle sanzioni inflitte decorre dalla data di suddetta
notificazione. Ma con tale data si identifica anche il dies a quo per il computo del termine di venti gg entro
cui tanto l’ente originario quanto l’ente risultante da eventuali vicende modificative possono fruire
dell’ultima occasione per porre in essere le condotte riparatorie previste dall’art. 17. Ex art 78, di fronte alla
tardiva riparazione delle conseguenze del reato, il giudice dispone la conversione delle sanzioni interdittive,
anche se applicate in via definitiva, in sanzioni pecuniarie (a differenza che nel caso di riparazione prima
dell’apertura del dibattimento, qui la sanzione interdittiva non viene eliminata ma si aggiunge, monetizzata,
a quella pecuniaria già inflitta con la sentenza di condanna). Il giudice dell’esecuzione, ricevuta la domanda
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di conversione dall’ente entro i suddetti 20 gg, entro i successivi 10 gg fissa un’udienza in camera di
consiglio. A questa può seguire il rigetto della domanda irrituale o manifestamente infondata, la
momentanea sospensione dell’esecuzione, disposta con decreto motivato revocabile, finalizzata alla
verifica dell’effettivo compimento delle attività riparatorie, ovvero l’accoglimento con ordinanza della
domanda. Questo è sostanzialmente un obbligo per il giudice. La nuova sanzione pecuniaria non potrà
essere inferiore a quella già applicata né superiore al doppio della stessa.
L’esecuzione delle sentenze di condanna a sanzioni interdittive pronunciate nei confronti di enti che
svolgono un servizio pubblico o di pubblica necessità presenta alcune varianti eventuali rispetto allo
schema tracciato dall’art. 77, imposte dalla disposizione accidentale della sentenza con la quale il giudice
stabilisce la prosecuzione dell’attività sotto l’egida di un commissario giudiziale. Ex art. 79, l’onere di
instaurare il procedimento esecutivo incombe sempre sul p.m., il quale vi adempie formulando al giudice
dell’esecuzione una richiesta di nomina del commissario giudiziale; quest’ultimo svolge i compiti specificati
nella sentenza e ogni tre mesi presenta al giudice e al p.m. una relazione sull’andamento della gestione
esercitata. Alla scadenza dell’incarico, il commissario trasmette una relazione finale sull’attività svolta e
l’attuazione dei protocolli di comportamento, indicando anche il profitto da confiscarsi. Nel caso in cui il
giudice si avveda dell’inefficienza del modello attuato dal commissario, può disporre in concerto con il p.m.
la sostituzione dello stesso. È esclusa invece l’irrogazione di ulteriori sanzioni o la modifica dei compiti
attribuiti al commissario dal giudice di merito.
Era scelta ineludibile quella di assicurare un sistema di pubblicità delle sentenze di condanna irrevocabili a
carico degli enti. Di qui l’istituzione di un’Anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative. Ex art. 80 viene
istituito presso il casellario giudiziale centrale, ma tale articolo viene poi abrogato dal d.p.r. 313/2002, che
istituisce l’anagrafe dei carichi pendenti degli illeciti amministrativi dipendenti da reato. Pertanto
nell’Anagrafe dei carichi pendenti vanno iscritti, per estratto, i provvedimenti giudiziari che fungono da
veicolo della contestazione dell’illecito amm. all’ente (coincidenti con uno degli atti di cui all’art.405 c.p.p.,
quindi richiesta di rinvio a giudizio, di giudizio immediato, di decreto penale di condanna, decreto di
citazione a giudizio direttissimo e di applicazione della pena concordata) e ogni altro provvedimento che
decide sulla contestazione dell’illecito amministrativo emesso in fasi o gradi successivi; nell’Anagrafe delle
sanzioni amministrative dipendenti da reato vengono iscritti i provvedimenti definitivi che applicano agli
enti le sanzioni previste dal decreto in questione e quelli relativi all’esecuzioni delle stesse sanzioni. Le
iscrizioni dall’Anagrafe dei carichi pendenti sono eliminate alla cessazione della qualità di ente sottoposto al
procedimento di accertamento della resp. amm. dipendente da reato. Più complessa l’eliminazione
dall’Anagrafe dei provvedimenti definitivi: il termine quinquennale per l’eliminazione delle sanzioni
pecuniarie coincide con il termine per la configurazione della reiterazione dell’illecito ex art. 20, che a sua
volta coincide con quello cui viene agganciato l’impedimento alla cancellazione, costituito appunto
dall’astensione nei 5 anni dalla commissione di un ulteriore illecito amministrativo.
L’art. 81 reca le regole relative al rilascio dei certificati dell’anagrafe nazionale, anche in tal caso ispirandosi
alla disciplina dei certificati penali. Si prevedono dunque due distinti certificati. Il primo, rilasciato a richiesta
dell’autorità giudiziaria competente in ordine alla responsabilità amministrativa dell’ente dipendente da
reato e delle pubbliche amministrazioni ed enti incaricati di un pubblico servizio (sempre che il certificato
sia necessario per provvedere ad un atto delle loro funzioni), comprende tutte le iscrizioni esistenti nei
confronti dell’ente (non, ovviamente, quelle che siano state eliminate ai sensi dell’articolo precedente). Il
secondo, rilasciato all’ente, senza alcun onere di motivazione, non riporta le iscrizioni relative alle sentenze
di applicazione delle sanzioni amministrative su richiesta e ai decreti di applicazione delle sanzioni
pecuniarie. Viene così in rilievo uno dei più significativi benefici premiali collegati alla scelta dei citati riti
alternativi. Infine, l’art. 82 delinea il meccanismo di tutela giurisdizionale per tutte le controversie inerenti
le iscrizioni (ovviamente comprensive delle questione connesse all’eliminazione delle stesse) e i certificati
dell’anagrafe. Anche in questo caso, mutuando la disciplina processuale penale (art. 690 c.p.p.) si prevede
la competenza del Tribunale di Roma (luogo ove si trova l’anagrafe nazionale),
che decide in composizione monocratica osservando le disposizioni sul procedimento di esecuzione.
La disciplina di attuazione, coordinamento e regolamentare:L’art. 83 detta disposizioni di coordinamento
relative, in particolare, al concorso di sanzioni interdittive. Pertanto nei confronti dell’ente si applicano
soltanto le sanzioni interdittive stabilite nel decreto anche quando diverse disposizioni di legge prevedono
l’applicazione di sanzioni amministrative di contenuto identico o analogo. Se poi l’ente ha già scontato per
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lo stesso illecito una sanzione amministrativa identica o analoga a quella da irrogare secondo le disposizioni
del d.lgs. in questione, la durata della sanzione già sofferta viene computata ai fini della determinazione
della durata della nuova sanzione amministrativa. L’art. 84 dispone poi che il provvedimento che dispone
misure cautelari e la sentenza definitiva di condanna siano comunicati a cura della cancelleria del giudice
alle autorità che esercitano il controllo o la vigilanza sull’ente. L’art. 85, infine, preannuncia l’emanazione di
un regolamento che interverrà sulle modalità di formazione e tenuta dei fascicoli relativi al procedimento a
carico degli enti, i compiti e il funzionamento dell’Anagrafe nazionale, e infine la procedura di controllo dei
codici di comportamento trasmessi, a norma dell’art. 6 comma 3, dalle associazioni rappresentative al
Ministero della Giustizia.

- CAP. IV, I MODELLI ATIPICI


Consulenti di prestigio: Con l’espressione “modelli atipici” si indicano infiorescenze nel sottosistema, a cui
ad ogni modo vanno applicati i principi contenuti nel d.lgs. 231/2001. Ne sono germinati, di recente, due. Il
primo ha ad oggetto gli illeciti amministrativi dipendenti da reati commessi dalle banche e da specifici
intermediari finanziari. Se ne fa portatore il d.lgs. 197/2004 ( coordinamento tra TUB e TUF), che dà
attuazione alla direttiva 24/2001 CE per il risanamento e la liquidazione degli enti creditizi. L’intervento si
sviluppa, sul piano soggettivo, su due piani, coinvolgendo da un lato le banche, e, nei limiti della
compatibilità, le succursali di banche comunitarie ed extracomunitarie, e dall’altro gli intermediari finanziari
(SIM, SGR e SICAV). Fatti salvi alcuni adattamenti formali, la disciplina relativa ai due destinatari è
sostanzialmente identica. Gli artt. 8 e 10 del d.lgs. 197/2004 modificano il modello tipico a partire dalle
indagini preliminari, nel cui ambito il p.m. deve, contestualmente all’annotazione di un illecito
amministrativo a carico di una banca o intermediario, darne comunicazione alla Banca di Italia e, per i profili
di specifica competenza, anche alla CONSOB. Tale comunicazione funge sostanzialmente da monito
all’esercizio dei poteri di vigilanza ispettiva, informativa e regolamentare propri dei due organismi suddetti.
E ancora, con riferimento ai soli promotori finanziari, essendo preclusa in tale ambito l’applicazione delle
misure cautelari di cui all’art. 9 del d.lgs. 231/01 e del commissariamento giudiziale, è possibile che sia
l’organo di vigilanza a disporre le misure cautelari previste dall’art. 55 TUF (d.lgs. 58/98), e quindi
sospensione dall’esercizio dell’attività per max 60 gg o di un anno se disposta dalla Consob nei confronti di
un promotore finanziario già sottoposto a misure cautelare previste dal codice di rito.
Tre sono le forme del possibile contributo al procedimento della Banca d’Italia e della CONSOB: su iniziativa
del p.m., iussu iudicis o su richiesta delle parti in ogni stato e grado del giudizio di merito, e ancora su
iniziativa degli stessi Istituti. Con riferimento alla prima eventualità il p.m. , senza necessità di chiedere al
giudice un’autorizzazione se in sede di indagini preliminari, formula richiesta di audizione agli Istituti stessi
che designano il proprio portavoce. Una volta instaurata la fase del giudizio, invece, il p.m. chiederà
l’autorizzazione in sede di atti preliminari al dibattimento.
Quanto alla cooperazione dei due Istituti disposta d’ufficio dal giudice ovvero su richieste delle parti (accusa
o ente stesso), non si prevede propriamente una vocatio di tali organi, bensì la presentazione di un
contributo a carattere informativo sulla situazione della banca o dell’intermediario finanziario. Ciò può
avvenire solo in ogni stato e grado del giudizio di merito, e quindi si esclude nelle indagini preliminari, nel
ricorso per Cassazione ed in sede di esecuzione. Va aggiunto infine che il contributo informativo fornito da
BI e CONSOB non surroga il parere eventualmente reso dal Ministero della Giustizia, concernendo il primo
l’efficacia di modelli di comportamento già posti in essere. Infine BI e CONSOB possono in ogni caso
presentare relazioni scritte di propria iniziativa. In ogni caso, sotto le mentite spoglie di relazioni si celano
consulenze tecniche di fatto.
Come già detto, le banche e gli intermediari finanziari ricevono un trattamento più favorevole in tema di
misure cautelari, per esigenze di salvaguardia della stabilità finanziaria, dei diritti dei depositari e della
clientela e degli investitori. In particolare non applicabili sono l’interdizione dall’esercizio dell’attività e la
sospensione o revoca delle autorizzazioni e licenze funzionali alla commissione dell’illecito, così come il
commissariamento dell’ente, mentre restano applicabili le ulteriori fattispecie previste dall’art. 9. Il
commissariamento non può essere disposto neppure come sanzione definitiva. Questo perché, ex art. 53
TUF, già BI e CONSOB hanno il potere di nominare uno o più commissari cui devolvere la gestione dell’ente
al posto degli organi ordinari.
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Altri adattamenti sono posti in relazione all’esecuzione delle sanzioni interdittive: l’AG, dopo il decorso dei
termini per la conversione delle sanzioni interdittive in sanzioni pecuniarie, trasmette a BI e/o CONSOB la
sentenza di condanna per la sua esecuzione. Accanto alla mera esecuzione delle sanzioni interdittive, BI e
CONSOB possono adottare o proporre i provvedimenti previsti dal Titolo IV sia del TUB (d.lgs. 385/93) che
del TUF: si tratta di provvedimenti straordinari quali il divieto di intraprendere nuove operazioni o, con
specifico riferimento alle banche, l’ordine di chiusura di succursali, o ancora la disposizione
dell’amministrazione straordinaria, della gestione provvisoria e della liquidazione coatta amministrativa,
provvedimenti che di fatto vengono a sostituire la sanzione interdittiva.
L’accertamento degli illeciti amministrativi dipendenti da illeciti amministrativi: Altro modello atipico è
sorto a seguito della l. 62/2005, il cui art. 9 comma 2 lett. a) innesta nel TUF il Titolo I-bis. Il legislatore del
2005 configura un duplice ordine di illeciti connotati da sostanziale identità di condotta: da un lato i
riformulati delitti di abuso di strumenti privilegiati e di manipolazione del mercato, di cui agli artt. 184 e 185
TUF, e dall’altro le omologhe figure di illecito amm. previste dagli artt. 187-bis e 187-ter del TUF. Ad
entrambe le categorie è correlata la resp. amm. dell’ente, ma la responsabilità dipendente da reato si
conforma ai noti schemi del d.lgs. 231, mentre quella originata dalla condotta penalmente irrilevante di
abuso di strumenti privilegiati e di manipolazione del mercato si snoda seguendo percorsi nuovi. È una resp.
amm. degli enti nascente da illecito amm., peculiare paradigma di colpa di organizzazione. Nonostante
incertezze derivanti dall’incipit dell’art. 187-quinquies TUF (“l’ente è responsabile per il pagamento”), si
tratta di una responsabilità diretta dell’ente per un illecito a lui autonomamente ascritto. Tutt’altro che
agevole distinguere le fattispecie penalmente rilevanti di abuso di strumenti privilegiati da quelle
costituenti un illecito amministrativo: le condotte penalmente irrilevanti risultano infatti del tutto speculari
ai delitti corrispondenti, da circoscrivere l’elemento distintivo al solo difetto dell’elemento soggettivo del
reato. In particolare si prevede che pure nel caso in cui il fatto costituisca reato, all’autore di quest’ultimo si
applichino le sanzioni amministrative di cui agli artt. 187 bis e ter ed all’ente quelle imposte dall’art. 187-
quinquies. Con un’ovvia conseguenza: il cumulo di tali sanzioni, a seconda dei rispettivi destinatari, per un
verso, con quelle penali di natura pecuniaria inflitte a colui che ha commesso il reato di abuso di strumenti
priv. o di manip. del mercato, e per altro verso, con quelle comminate dall’art. 25-sexies d.lgs. 231/01 alla
persona giuridica per gli illeciti dipendenti dai medesimi reati. Pertanto è possibile che a seguito di un unico
accadimento si instaurino nei confronti della persona giuridica due procedimenti, collegati l’uno all’ipotesi
in cui il fatto costituisca reato, che si svilupperà secondo quanto stabilito dal d. 231, e l’altro avente ad
oggetto l’accertamento della resp. amm. dell’ente per gli illeciti amministrativi dipendenti dagli illeciti di
uguale natura ascritti alle persone fisiche. A ben guardare ciò può dare origine a 4 procedimenti: quello
penale a carico dell’autore del reato, quello a carico dell’ente riunito al primo, quello nei confronti della
persona fisica per l’applicazione delle sanzioni amministrative previste dagli artt. 187 bis e ter TUF e infine
quello a carico dell’ente per l’applicazione delle sanzioni amm. di cui all’art. 187 quinquies.
Per quanto riguarda l’ultimo di questi procedimenti, radicalmente diverse appaiono sia le tecniche di
accertamento sia i meccanismi sanzionatori, sebbene talora si rinvii al contenuto del d. 231/01. Tale
procedimento non si ricollega al codice di rito, ma è autarchico e compiuto, anche in relazione all’organo
(CONSOB o BI) cui viene demandato il compito di ius dicere, infliggendo la sanzione. Ex art. 187-septies
viene dato spazio ad un contraddittorio di natura prevalentemente cartolare (che si realizza mediante la
presentazione di deduzioni scritte entro 30 gg dalla contestazione), e la distinzione tra funzioni istruttorie e
decisorie rischia di risultare solo formale, venendo le dette funzioni espletate da soggetti sia pure diversi ma
appartenenti alla medesima Istituzione.
La disciplina dell’onere della prova segue, con poche differenze, la scomposizione dell’onere stesso tra i
contraddittori operata dal d. 231/01, avendo il TUF mantenuto fermi i criteri soggettivi e oggettivi di
imputazione della resp. all’ente previsti dal decreto e lasciata inalterata la funzione esimente dei modelli
organizzativi. L’onere probatorio della persona giuridica risulta però complicato dal meccanismo di
acquisizione della prova a discarico disciplinato sbrigativamente dall’art. 187-septies; questa la regola: la
possibilità, accordata al destinatario dell’addebito, di far pervenire alla CONSOB deduzioni scritte entro 30
gg dalla contestazione, nonché di richiedere, entro il medesimo termine, di essere ascoltato
personalmente. L’impianto è in linea con la natura amministrativa del procedimento.
Ancora ai sensi dell’art. 187- septies, il procedimento sanzionatorio si instaura a seguito della contestazione
ed è celebrato cumulativamente a carico della persona fisica autrice dell’illecito amministrativo e della
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persona giuridica cui la prima è legata da rapporto organico. La contestazione costituisce il risultato
dell’attività istruttoria svolta dalla CONSOB, che si avvale dei poteri di cui all’art. 187-octies. È mossa in
forma scritta e deve venir notificata agli interessati residenti o aventi sede nel territorio della Repubblica
entro 90 gg dall’accertamento, ovvero entro 360 gg se residenti o aventi sede all’estero. Decorsi trenta gg
dalla notificazione, la CONSOB è tenuta all’ascolto personale di chi ne abbia fatto richiesta, dopo di che
decide emettendo un provvedimento in cui dimostra di aver dato conto delle deduzioni presentate dagli
interessati.
Se reputa sussistente l’illecito contestato, applicherà direttamente le sanzioni alla persona fisica ed all’ente.
spicca in questa fase l’assenza di qualsiasi intervento giurisdizionale; solo il ricorso in opposizione proposto
avverso il provvedimento applicativo delle sanzioni dai relativi destinatari investe un giudice della
decisione, in particolare la Corte di Appello civile. Svariati indici inducono a ritenere che questo schema
procedimentale fungerà da prototipo ai fini dell’attuazione dell’art. 12 l. 262/2005 recante “disposizioni per
la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari”.
Fonti probatorie in condominio:Il procedimento amm. sin qui descritto, quello penale instaurato per i reati
di abuso di strumenti privilegiati e di manipolazione del mercato ed il simultaneus processus a carico
dell’ente per l’illecito amministrativo dipendente dai medesimi reati (artt. 38 e 25-sexies d.lgs. 231/01),
quand’anche coesistano, cosa molto probabile, devono svilupparsi, per espressa volontà di legge, su piani
indipendenti (ex art. 187-duodecies TUF). Restano però molteplici punti di tangenza tra le vicende
menzionate.
Per quanto riguarda il coordinamento informativo tra organo inquirente ed autorità di vigilanza, l’art. 187-
decies chiama in causa il p.m. quale naturale destinatario della notitia criminis relativa ai reati di cui agli
artt. 184 e 185 TUF, imponendogli di comunicarne al Presidente della CONSOB l’avvenuta iscrizione
nell’apposito registro. Vige però un regime di reciprocità, essendo anche il Presidente CONSOB a rendere
edotto il p.m. della scoperta di un reato e, in tal caso, a trasmettergli la documentazione raccolta nel corso
dell’attività di accertamento. La CONSOB e l’autorità giudiziaria collaborano tra loro, anche mediante
scambio di informazioni, al fine di agevolare l’accertamento delle violazioni di cui al presente titolo anche
quando queste non costituiscono reato. Che tipo di impiego può avere la documentazione trasmessa dalla
CONSOB al p.m. nel simultaneus processus? Il dubbio, tutt’altro che secondario, è acuito dalla
corrispondenza, almeno sul piano nominale, di una varia gamma di attività investigative poste in essere
dalla CONSOB con altrettanti mezzi di ricerca della prova operanti nell’ordinamento processuale penale
(audizione personale di qualsiasi soggetto informato sui fatti, sequestro dei beni che possono formare
oggetto di confisca, ispezioni e perquisizioni). Nonostante la maggior parte degli accertamenti svolti dalla
CONSOB a più alto tasso di invasività debbano essere autorizzati dal Procuratore della Repubblica, tale
materiale probatorio non è utilizzabile nel processo penale, anche perché manca l’obbligo della
partecipazione difensiva a tali atti. Non a caso il carattere tassativo dell’elencazione contenuta nell’art.
431c.p.p. preclude l’inserimento dei verbali degli atti compiuti in sede amministrativa nel fascicolo
dibattimentale; e sebbene dei dati e delle informazioni acquisite o dei fatti accertati, dei sequestri eseguiti e
delle dichiarazioni rese dagli interessati sia redatto processo verbale, pare ulteriormente da escludere che
ne sia consentita l’acquisizione ai sensi dell’art 495 comma 3 c.p.p., riferendosi tale norma ad una nozione
di prova documentale nel senso di elaborato la cui formazione sia avvenuta al di fuori del processo nel
quale si chiede o si dispone che faccia ingresso. Ma quando anche i verbali in questione venissero
considerati documenti extraprocessuali, la loro ammissione sarebbe ostacolata dalla possibilità di citare
come teste in giudizio il verbalizzante. Neppure è ipotizzabile che tali processi verbali refluiscano nel
processo penale a norma dell’art.238 c.p.p., non essendovi contemplata la possibilità di importare atti da
procedimenti amm., perché formati senza adeguate garanzie.
Pertanto gli atti ripetibili e irripetibili posti in essere dalla CONSOB prima della’insorgenza degli indizi di
reato andranno trasmessi al p.m. solo per informarlo che l’indagine amm. ha portato alla luce materia di
sua probabile spettanza. Successivamente alla comunicazione al p.m., potrà continuare a svolgere attività di
indagine di propria iniziativa tramite soggetti che rivestono la doppia funzione di polizia amministrativa e
polizia giudiziaria, e i verbali degli atti compiuti potranno rifluire nel fascicolo del p.m. ed essere
assoggettati al regime di utilizzazione previsto per gli elementi probatori ivi inseriti.
Rapporti tra procedimenti: l’art. 187-undecies ammette la CONSOB ad esercitare nei procedimenti per
violazioni di cui agli artt.184 e 185 TUF i diritti e le facoltà attribuite dal codice di rito agli enti e associazioni
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rappresentative di interessi lesi dal reato; ma l’esercizio di tali poteri viene svicolato dal consenso della
persona offesa, e la CONSOB stessa è legittimata anche a costituirsi parte civile nei confronti del presunto
autore delle condotte penalmente rilevanti. Cosa accade nel simultaneus processus? La CONSOB non potrà
cmq costituirsi parte civile nei confronti dell’ente imputato, essendo ciò escluso dal d.lgs. 231/01.
Ancora, ai sensi dell’art. 187-duodecies tra il procedimento amm. di accertamento ed il simultaneus
processus non esistono vincoli di pregiudizialità: si esclude ad es. che quello amministrativo possa venir
sospeso per pendenza di quello penale. Ecco dunque lo scenario dei possibili contrasti.
Essendo scontato che il procedimento amm. si concluda prima di quello penale, può darsi innanzitutto che
la CONSOB si astenga dall’infliggere sanzioni alla persona fisica ed a quella giuridica, non reputando
integrata la condotta tipica di abuso di str. priv. e di manip. del mercato. Tale decisioni potrà influire sul
convincimento del giudice penale ma di certo non sarà vincolante. Sarebbe diverso invece se la decisione
liberatoria fosse incarnata da una sentenza divenuta irrevocabile, emessa dalla Corte di Appello dinnanzi
alla quale si è celebrato il giudizio conseguente all’opposizione proposta avverso il provvedimento della
CONSOB: in tal caso la pronuncia potrebbe venir acquisita ai fini della prova del fatto nella medesima
accertato. Qualora il giudice penale poi smentisca il provvedimento liberatorio della CONSOB, occorrerà
riaprire il procedimento di cui all’art. 187 speties per infliggere le relative sanzioni.
Nell’ipotesi inversa, qualora il giudice penale pronunci sentenza di assoluzione a seguito di condanna da
parte della CONSOB, l’errore dell’organismo di vigilanza non pare rimediabile.
L’art. 187-terdecies stabilisce infine che “quando per lo stesso fatto è stata applicata a carico del reo o
dell’ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’articolo 195, la esazione della pena
pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente da reato è limitata alla parte eccedente quella riscossa
dall’Autorità amministrativa.” Secondo un’esegesi benevola l’art. andrebbe interpretato nel senso che
l’importo riscosso nei confronti dell’autore del reato vada a scomputo di quanto dovuto dalla persona
giuridica per gli illeciti amministrativi commessi nel suo interesse o vantaggio. A ben vedere però, il
suddetto art. esclude visibilmente dall’ipotizzata compensazione le sanzioni inflitte ai sensi dell’art.187-
septies. In ogni caso il cumulo di sanzioni a carico dell’ente per lo stesso accadimento appare evitabile ai
sensi dell’art. 9 l. 689/81 in base a cui quando uno stesso fatto è punito da una pluralità di disposizioni che
prevedono sanzioni amm., si applica la disposizione speciale.

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