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Quaderno n ° 5

AGRICOLOLTURA SOSTENIBILE (ECOCOMPATIBILE)


LE FILIERE AGROALIMENTARI
A cura di
Dott. Pier Antonio Marongiu
Biologo indirizzo in Scienze dell'Alimentazione
Segretario Comitato Scientifico A.R.R.T.

SEDE A.R.R.T - ONLUS.: VIA CAVALCAVIA 288


47023 CESENA FC - TEL. 0547 29125 - FAX 0547 24732
Sito internet www.arrt-cesena.it e-mail info@arrt-cesena.it

Con il patrocinio del Comune di Cesena


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Sento il dovere di dedicare la collana dei quaderni:


• a mia moglie ed a mio figlio per il tempo a loro non dedicato
• a ricordo del Dott. Monti Adriano, valente medico del Comitato
Scientifico, promotore della prevenzione oncologica
• a memoria del Prof. Turchetto Edoardo, ordinario di Scienza
dell’Alimentazione Università di Bologna.
Pier Antonio Marongiu

Il Progetto (dedicato a Mirko Sabbatani), alimentazione nutrizione e prevenzione


dell’A.R.R.T., prevede la stampa di cinque quaderni rivolti ai cittadini per indicare la
scelta di una equilibrata nutrizione garantita anche da alimenti sicuri.

COLLANA

1) LO SCUDO ALIMENTARE
2) PRINCIPI FONDAMENTALI PER UNA EQUILIBRATA NUTRIZIONE
3) LA DIETA MEDITERRANEA
4) GUIDA PER L’ACQUISTO E IL CONSUMO DEGLI ALIMENTI
5) AGRICOLTURA SOSTENIBILE (ECOCOMPATIBILE) LE FILIERE AGROALIMENTARI

I quaderni sono stati realizzati grazie al contributo ed al sostegno di:


Lions Club Cesena (dal1959), AIISF e Associazione Titolari di Farmacia

SEZIONE AIISF di FORLI’-CESENA


“Mirko Sabbatani”
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INDICE
Premessa pag. 4
Le tipologie di prodotti fitosanitari pag. 6
Bambini e pesticidi pag. 8
La Legislazione Fitosanitaria: il DL 194/95 pag. 12
Da coltivazioni sane si ottengono alimenti sani pag. 16
La produzione integrata pag. 18
Produzione biologica pag. 26
Lettura delle etichette pag. 28
Le oasi pag. 32
O.G.M. pag. 33
Quali rischi dalle piante GM? pag. 41
Nel carrello della spesa pag. 45
Valutare i rischi dei cibi OGM pag. 48
BSE e Aviaria pag. 50
Prodotti tipici pag. 56
Conclusione pag. 60
Bibliografia pag. 61
Sedi A.R.R.T. pag. 62

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Premessa

Agricoltura e alimentazione
Il compito primario dell’agricoltura è quello di produrre alimenti per
soddisfare i bisogni dell’uomo. Questo obiettivo può ritenersi raggiun-
to nei paesi più progrediti e industrializzati (1/3 degli abitanti della
terra). Unitamente al problema quantitativo, esiste per l’agricoltura
l’esigenza di garantire una quantità della produzione che consenta il
perseguimento di un regime alimentare sano e razionale e di salva-
guardare e migliorare l’ambiente in cui opera.
La concezione quantitativa della produzione agricola, con sfruttamen-
to massimo del terreno ha contribuito ad inquinare i comparti naturali
(aria, acqua e suolo).
Oggi possiamo rilevare che l’accusa rivolta all’agricoltura di essere di
volta in volta inquinata e inquinante è eccessiva e non tiene conto che
le situazioni di degrado ecologico e di inquinamento vanno ben oltre
le responsabilità attribuibili alle pratiche agricole: produzione e tra-
sporto di energia elettrica, inquinamento dell’autotrasporto, discariche
e incenerimento dei rifiuti, ecc...
E’ tuttavia indubbio che certe forme di agricoltura fortemente intensi-
va sono poco rispettose dell’ambiente e inadeguate a fornire alimenti
della qualità desiderata. Gli esempi più ricordati al riguardo sono l’uso
indiscriminato di grandi quantità di concimi chimici, l’irrazionale utiliz-
zazione di pesticidi e diserbanti, l’allevamento industriale. Altri effetti
negativi sull’ambiente possono derivare dal drenaggio eccessivo, dal-
l’irrigazione mal eseguita, dalla meccanizzazione, dalla monocoltura.
Le conseguenze di tali fenomeni negativi possono così sintetizzarsi:
• Inquinamento dei prodotti agricoli per permanenza di
residui di per sé tossici (principi attivi di antiparassitari);
• Immissione nell’atmosfera di molecole fisiologicamente
attive (tossiche) con la distribuzione di antiparassitari e
diserbanti;
• Inquinamento delle acque superficiali per rilasci dai terreni agrari di
azoto, fosforo e fitofarmaci;

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• Inquinamento delle falde potabili da fitofarmaci e diserbanti;


• Inquinamento dei prodotti dell’allevamento per la permanenza di
residui dovuti all’impiego non corretto di prodotti chimi-
ci in zootecnia (antibiotici, coccidiostatici e altre
sostanze medicamentose) e/o da trattamenti agli ani-
mali (anabolizzanti);
• Inquinamento conseguente la massa delle deiezioni degli animali.

L’alternativa a questa situazione è avviarsi verso un’agricoltura ideale


dove le attività agricole assicurino il soddisfacimento qualitativo e
quantitativo sia del fabbisogno alimentare sia dell’occupazione della
popolazione rurale.
L’insieme delle strategie volte ad evitare gli eccessi, a proibire i pro-
dotti più tossici, a ricercare e applicare nuove tecnologie può portare
ad un consistente miglioramento della situazione attuale.
L’uso razionale di concimi, non solo evita i noti danni all’ambiente, ma
consente inoltre di correggere le carenze e gli squilibri nutrizionali del
suolo, favorendo una produzione quantitativamente e qualitativamen-
te migliore. Utili risultati sono ottenuti dalla formulazione e diffusione
di codici di buona pratica agricola che comportano:
• Il controllo o la modifica dell’uso dei prodotti chimici;
• Variazione nelle tecniche della produzione vegetale e animale, o
negli stessi orientamenti produttivi;
• Il controllo dei meccanismi di rilascio degli inquinanti dal terreno;
• Il controllo del trasporto degli inquinanti.

Un contributo notevole proviene dalla ricerca genetica attraverso la


costituzione di varietà migliori dal punto di vista nutrizionale e organo-
lettico, più resistenti all’attacco degli insetti e delle crittogame, capaci
di sfruttare al meglio la fertilità del suolo e l’acqua ivi presente (vedi la
lotta biologica nella produzione integrata).
Ove le condizioni ambientali lo consentano, risulta utile l’applicazio-
ne dell’agricoltura biologica basata su pratiche agricole a basso
impiego energetico tendenti a proteggere la fertilità naturale del

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suolo, a potenziare le difese della pianta e a favorire l’uso di metodi


di lotta biologica.
In conclusione appare opportuno sottolineare che un’agricoltura eco-
sostenibile non è sinonimo di più arretrata, al contrario, si tratta di
un’agricoltura moderna basata sulla conoscenza scientifica dei pro-
cessi biologici, oculata e tecnicamente più preparata nell’uso dei
mezzi chimici di produzione, partecipe della tutela dell’ambiente. Una
produzione agricola qualitativa consente di ottenere un regime ali-
mentare sano e razionale nonché salvaguarda e migliora l’ambiente
in cui opera. (1)

Le tipologie di prodotti fitosanitari


I fitofarmaci o antiparassitari o pesticidi sono un gruppo di sostanze
chimiche utilizzate per proteggere le colture e i raccolti: dal punto di
vista della loro funzione, i prodotti fitosanitari vengono normalmente
suddivisi in fungicidi (o anticrittogamici), insetticidi e acaricidi, erbicidi
(o diserbanti). A fianco di questi gruppi, l’agricoltore può disporre di
sostanze più specifiche nell’azione (nematodi, rodenticidi, fumiganti,
fitormoni, ecc.) che allargano la possibilità di difesa delle piante colti-
vate. Ma non è male dimenticare che, a livello mondiale, quando spe-
cialmente si vogliono fare i confronti, le tre grandi classi di cui sopra,
sono, in sostanza, quelle che comunemente vengono considerate. I
modi di azione degli antiparassitari possono concretizzarsi in maniera
diversa:
• I fungicidi agiscono soprattutto in via preventiva di contatto, impe-
dendo la penetrazione del parassita nella pianta, ma anche come
curativi, direttamente sul micelio o dopo essere assorbiti e posti in
circolo dalle piante;
• Gli insetticidi agiscono per contatto diretto, per indigestione o per
inalazione attraverso le vie respiratorie;
• Gli erbicidi hanno un’azione fogliare, radicale od antigerminativa,
che si esplica per contatto diretto (e conseguentemente morte dei

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tessuti), o per via interna (prodotti sistemici), turbando le funzioni


fisiologiche essenziali del vegetale.

I prodotti fitosanitari e l’ambiente


Dal punto di vista chimico: fino alla fine degli anni novanta nel nostro
Paese le sostanze attive autorizzate che compongono i prodotti fito-
sanitari erano circa 350. La maggior parte di queste molecole chimi-
che di sintesi è stata autorizzata ed introdotta tra gli anni ‘40 e ‘70,
quando ancora non erano imposti saggi tossicologici a breve e a
lungo termine. Solo all’inizio degli anni ‘80 tali prove sono state intro-
dotte in Italia, anche se la riclassificazione dei prodotti autorizzati
prima di tale date è appena agli inizi.
Gli effetti indesiderati sull’agroecosistema e sull’ambiente causa-
ti dall’impiego di prodotti fitosanitari sono numerosi, e si avvertono più
sensibilmente nelle zone ad agricoltura più intensiva. In breve posso-
no essere elencati come segue:
a) Comparsa di individui resistenti: dal dopoguerra ad oggi questo
fenomeno si è progressivamente aggravato e si calcola che attual-
mente esistano più di 600 specie di Atropodi resistenti all’azione di
numerosi principi attivi;
b) Soppressione degli organismi utili: la scomparsa dei pronubi
selvatici può avere notevoli ripercussioni sulla produzione, venen-
do a mancare l’agente che porta a termine l’impollinazione;
c) Inquinamento diffuso dell’ambiente: l’inquinamento coinvolge
anche le aree extra - agricole. I pesticidi, soprattutto quelli a lunga
persistenza, possono contaminare il suolo, l’aria e i diversi corpi
idrici;
d) Aumento dei consumi energetici in agricoltura: la produzione e
distribuzione di pesticidi richiede un consumo di energia fossile
contribuendo così ad aggravare il problema di contenimento dei
consumi energetici;
e) Aumento dei costi sociali che la collettività deve sostenere
(spese di risanamento ambientale, cure sanitarie, ecc...)

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I prodotti fitosanitari e la salute


La situazione da noi, e in generale nella Comunità Europea, non è
diversa, ma il problema non è stato preso in considerazione nemme-
no nell’ultima direttiva comunitaria.
È vero che l’uso di sostanze chimiche non potrà essere abbandonato
completamente ma si pone il problema di un uso limitato, corretto,
razionale e soprattutto più compatibile con l’ambiente.
Da ciò il termine coniato negli USA di agricoltura sostenibile, per tutte
le pratiche che riducono l’impatto chimico applicate in campo agricolo.

Bambini e pesticidi
Nel 1995 sono stati trovati residui di pesticidi nel 43,4% dei campioni di
frutta e verdura analizzati. Questo rappresenta un rischio gravissimo
soprattutto per i bambini perché i residui ammessi sono calcolati dimen-
ticando che i bambini non sono piccoli adulti. È quanto risulta dal rap-
porto scientifico del National Research Council (NRC) americano. “Il
sistema normativo attualmente in vigore” si legge nel rapporto “non con-
sidera specificatamente i neonati e i bambini. Di conseguenza, le varia-
zioni dell’esposizione alimentare ai pesticidi e i rischi per la salute lega-
ti all’età non sono presi in considerazione dall’attuale pratica normativa”.
Anche da noi, ammesso e non concesso che le misure adottate pro-
teggano effettivamente gli adulti, di certo non proteggono i neonati e i

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bambini. Il fatto è che tutti i parametri utilizzati per stabilire i residui di


pesticidi accettabili nell’alimentazione fanno riferimento a un modello
di persona adulta asessuata di circa 60 kg di peso. Ma i bambini non
sono dei piccoli adulti; essi infatti possono avere reazioni completa-
mente diverse all’esposizione ai pesticidi, ma queste differenze non
sono state studiate adeguatamente e comunque non influiscono sulle
misure di sicurezza adottate.
Il NRC nel suo rapporto prende in considerazione la fascia di età fino
a 18 anni “quando tutti i sistemi biologici sono essenzialmente matu-
ri”. E’ evidente allora che, poiché gli individui di questa fascia mangia-
no le stesse cose degli adulti, l’unico modo per proteggere neonati e
bambini è modificare tutti i parametri di riferimento: l’adulto di circa 60
kg utilizzato oggi va sostituito con una bambina (il sesso femminile si
giustifica per la maggiore sensibilità agli effetti sugli organi riprodutti-
vi) nella fascia di età precedente alla pubertà, quando l’organismo è il
più sensibile.
Un’altra ricerca è stata condotta dall’Environmental Working Group,
un organismo non governativo impegnato in una campagna naziona-
le per la riforma della normativa sui pesticidi negli Stati Uniti. Ecco le
conclusioni: “A causa della loro fisiologia, del tipo e della quantità di
cibo che mangiano, dell’insieme dei residui di pesticidi che si posso-
no trovare nei cibi, i bambini corrono rischi molto più elevati di contrar-
re un cancro. Sommando il rischio relativo ai residui
di solo 8 pesticidi utilizzati su 20 fra frutti e ortaggi, il
bambino medio supera il rischio di cancro ritenuto
accettabile, vale a dire quello che un individuo su un
milione contragga il cancro nell’intero arco della vita.
All’età di 6 anni i bambini possono aver superato di
più di 10 volte questo livello di rischio”.
L’EWG individua vari errori nei metodi di valutazione del rischio che con-
corrono a sotto stimarlo in modo così grave - in generale e nei riguardi
dei bambini in particolare - negli USA come in Italia.
Fra questi il fatto che “l’EPA (ente per la protezione dell’ambiente) consi-
deri solo il rischio di cancro di ogni singolo pesticida, mentre all’interno

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della comunità scientifica è generalmente accettato il principio secondo


il quale per calcolare il rischio totale di cancro dall’esposizione a basse
dosi di cancerogeni - come i residui di pesticidi nel cibo - si deve fare la
somma dei rischi stimati per ciascun cancerogeno”. (2)

Nel 1998 nell’ambito del convegno “Sicurezza alimentare e l’agricoltu-


ra sostenibile”, l’A.R.R.T. analizzò le conseguenze dall’applicazione
delle tecnologie cosiddette intensive: riferì come lo I.A.R.C. di Lione
vagliando un centinaio di fitofarmaci, riscontrò come la metà di essi
siano sicuramente cancerogeni per l’uomo, l’altra metà non hanno
dimostrato di non esserlo, e sicuramente, la maggioranza determina-
vano un’attività mutagena. Infatti, l’ipotesi di una associazione tra
inquinamento ambientale ed alterazioni della fertilità è dimostrata da
numerose evidenze sia in vitro che in vivo.
I fitofarmaci sia organofosforici ed organoclorurati, con un’azione xeno-
estrogena interferiscono nell’equilibrio ormonale (xeno-ormoni) deter-
minando nell’uomo una riduzione della fertilità ed un aumento di pato-
logie riproduttive e, per le donne, alterazioni del ciclo mestruale, meno-
pausa precoce, aborti spontanei, un aumento di neonati prematuri, di
malformazioni congenite e di neoplasie (leucemia) nei bambini.

Nel 2000 sono stati pubblicati i risultati sulla stima del rischio ambien-
tale da prodotti fitosanitari nella provincia di Forlì - Cesena.
Il progetto di studio realizzato dall’Osservatorio agroambientale in col-
laborazione con le A.USL di Forlì e di Cesena e il gruppo di ecotossi-
cologia dell’Università di Milano.
Il Prof. Vighi Marco, responsabile scientifico dello studio, ha utilizzato
il modello SOILFUG per determinare la concentrazione, nelle acque
superficiali, dei pesticidi utilizzati in due bacini prescelti: pianura forli-
vese (Roncadello), collina cesenate (Carpineta).
Il campionamento mensile per un anno ha rilevato che tutti gli insetti-
cidi considerati sono in concentrazioni doppie di quella che permette
la vita acquatica (WQO) del Rabbi - Montone, Ronco, Savio e quattro
volte superiore nel Rubicone, in particolare tra marzo e ottobre.

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Tabella: stima del rischio mensile per l’ambiente acquatico nella provincia di Forlì-Cesena

++: rischio elevato (più di 2 ordini di grandezza sopra il valore WQO); +: rischio significativo
(tra 1 e 2 ordini di grandezza sopra il valore WQO): ±: rischio moderato (meno di 1 ordine
di grandezza sopra il valore WQO); -: rischio nullo (al di sotto del valore WQO).

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La Legislazione Fitosanitaria: il DL 194/95


Nel 1991 la Commissione Europea ha emanato la direttiva
91/414/CEE volta a fissare i criteri per la standardizzazione della nor-
mativa in materia di prodotti fitosanitari nei Paesi Membri. La direttiva
stabilisce un insieme di norme che rendono più rigorosa la procedura
di registrazione dei prodotti fitosanitari, in modo da minimizzare il
rischio per l’ambiente e per la salute.
Con la sua applicazione, un prodotto registrato in un paese è automa-
ticamente autorizzato negli altri Paesi Membri. Tale omogeneizzazio-
ne normativa sarà completa quando oltre ai nuovi prodotti saranno
rivedute le caratteristiche eco - tossicologiche anche dei prodotti già
registrati e in commercio: la revisione, iniziata nel 1995 terminerà tra
una decina d’anni.
L’Italia ha recepito la direttiva tramite il decreto legislativo 17 marzo
1995, n. 194 “Attuazione della direttiva 91/414/CEE in materia di
immissione in commercio di prodotti fitosanitari”, e con una serie di
decreti attuativi e di circolari ministeriali esplicative, molti dei quali
ancora da emanare in attesa di ulteriori disposizioni comunitarie.
Le principali modifiche che il decreto apporta alla precedente normativa
in materia (D.p.r. 1255/68) si possono riassumere nei seguenti punti:
• Il termine “prodotto fitosanitario” sostituisce quelli precedente-
mente usati (“presidio sanitario”, “presidi medico - chirurgici”);
• I coadiuvanti, adesivanti, emulsionanti, bagnanti sono ancora
regolamentati dal D.p.r. 1255/68;
• I prodotti fitosanitari devono essere impiegati secondo la buona
pratica agricola e seguendo, ove possibile, i principi della lotta
integrata;
• Vengono definite le documentazioni scientifiche necessarie per
l’autorizzazione;
• Le sostanze attive devono essere iscritte nella “lista positiva
comunitaria”: un prodotto fitosanitario può essere commercializza-
to se le sostanze attive si suddividono in “nuove” (non in commer-

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cio alla data di entrata in vigore della direttiva comunitaria) e in


“note”, per le quali era previsto un peridodo transitorio di autorizza-
zione fino al 2003;
• La norma regolamenta sia i prodotti fitosanitari di origine chimica,
sia quelli contenenti microrganismi e virus; per questi ultimi le
procedure variano a seconda che siano naturali o geneticamente
modificati;
• Le prove di efficacia per valutare le caratteristiche dei prodotti
devono essere svolte da appositi centri di saggio;
• Il campo di impiego di un prodotto fitosanitario autorizzato può
essere esteso su richiesta di organismi di ricerca, di organizzazio-
ni agricole e di utilizzatori dei prodotti e dietro presentazione di
documentazione dettagliata derivante da prove sperimentali;
• L’autorizzazione è rilasciata per un periodo di dieci anni, al termine
del quale il prodotto deve essere rivalutato per ottenere il rinnovo
dell’autorizzazione;
• Il decreto disciplina anche l’impiego sperimentale di prodotti non
autorizzati, al fine di uniformare i protocolli sperimentali per la regi-
strazione;
• Il Ministero della Salute deve adottare piani nazionali per il control-
lo dell’immissione in commercio e dell’impiego dei prodotti fitosani-
tari entro il 31 ottobre di ogni anno; deve inoltre adottare piani trien-
nali per valutare gli effetti dell’uso dei prodotti fitosanitari sulla salu-
te e sull’ambiente, e gli effetti dovuti alla presenza di residui di più
sostanze attive negli alimenti e nelle bevande;
• Sono definite le contravvenzioni per l’inosservanza delle norme.

La nuova classificazione Europea dei prodotti fitosanitari in rela-


zione alla tossicità acuta
Con il decreto legge del 17 Marzo 1995 N° 194 sono state abolite le
classi tossicologiche previste dalla normativa precedente (D.P.R. del
24 maggio 1988 n° 223). Tutti i prodotti (compresi quelli ammessi in
agricoltura biologica) attualmente posti in commercio riportano in eti-
chetta le indicazioni fornite in questa tabella.

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II residui negli alimenti


Il Ministero della Sanità, a cui compete l’attività di controllo e vigilan-
za per la tutela dell’igiene e della salute pubblica, è l’organismo che
agisce per verificare il rispetto dei limiti massimi di residuo di prodotti
fitosanitari ammessi nei prodotti agricoli posti in commercio.
Le modalità dei controlli sono stabilite dalla Legge 283/62 e dal
Regolamento di esecuzione della suddetta legge, emanato con D.P.R.
26/3/1980 n. 327, dove è previsto che le Regioni debbono informare
il Ministero della Sanità dei dati acquisiti in sede di controlli. I campio-
ni devono essere analizzati dai PMP (Presidi Multinazionali di
Prevenzione, ARPA).
Nel caso in cui i campioni risultino illegali parte la dichiarazione di
infrazione e la denuncia all’autorità giudiziaria. Il responsabile del-
l’igiene pubblica del luogo deve vietare la vendita del prodotto e
sequestrare l’eventuale rimanenza. Si può inoltre procedere al seque-
stro cautelativo. I rivenditori possono, per parte loro, fare ricorso e
chiedere una revisione di analisi che sarà effettuata dall’Istituto
Superiore di Sanità a Roma. In genere la risposta arriva dopo alcuni

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mesi. Il processo, invece, si tiene dopo due anni e le responsabilità


penali sono sia del venditore che del fornitore. Un’inchiesta condotta
dall’Associazione ambientalista Greenpeace, nei 22 mercati ortofrutti-
coli più grandi d’Italia, aveva evidenziato che nel 1998, nove di questi
non avevano alcun controllo.

L’analisi dei residui nell’ortofrutta


Il 90% dei principi attivi esistenti viene analizzato con metodo gascro-
matografico e/o in cromatografia liquida (HPLC).
L’analisi dei residui di fotofarmaci sulle matrici ortofrutticole ha visto un
notevole sviluppo, dovuto sia all’evoluzione tecnica che alla crescen-
te richiesta delle aziende agroalimentari (sempre più impegnate sul
fronte del controllo dei processi produttivi), oltre all’evoluzione legisla-
tiva più recente, originata dall’armonizzazione comunitaria delle
norme fitosanitarie.
I fitofarmaci vengono rilevati con diverse tecniche strumentali, basate
sul confronto fra il valore ottenuto dalla prova e quello di uno standard
puro di riferimento, fornito dalle ditte produttrici, specifico per ciascu-
na molecola di principio attivo ricercata.
Non è possibile perciò richiedere ricerche generiche, ma occorre sem-
pre sincerarsi della dotazione in “standard” dei laboratori di prova uti-
lizzati, per conoscerne l’effettiva capacità di ricerca.
Anche riguardo la rilevabilità dei diversi principi attivi vi sono spesso
incomprensioni e difficoltà: questa, infatti, dipende da diversi fattori e
quindi l’esito sul rapporto di prova espresso con la dicitura “non rileva-
bile” (o, in modo meno corretto, “assente”) non significa affatto che tale
sostanza non sia presente in assoluto, ma solamente che non è presen-
te con valori superiori a quelli di rilevabilità del laboratorio, che dovreb-
bero essere sempre dichiarati espressamente, meglio se accompagna-
ti anche dal possibile scostamento medio del valore dichiarato, in più o
in meno, assicurato dal laboratorio stesso (requisiti peraltro entrambi
obbligatori per tutti i laboratori di prova accreditati dal SINAL).
È prassi comune considerare il limite minimo di rilevabilità, il valore di
0,01 parti per milione (ppm), in riferimento anche a quanto considera-
to nella precedente legislazione fitosanitaria nei confronti dei prodotti
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di importazione, ove si indicava in tale limite, in pratica, il “confine” tra


residuo e contaminazione. Si tratta di un’interpretazione abbastanza
arbitraria, tuttavia ancora oggi adottata largamente dal servizio di vigi-
lanza nazionale svolto dalle ARPA (ex PMP). Lo stesso valore (espres-
so sotto forma di 10 parti per bilione), tra l’altro, viene indicato nella legge
sui prodotti dietetici (DIATVO) in vigore in Germania, che, comprenden-
do i prodotti per la prima infanzia, determina la richiesta da parte di gran-
di aziende specializzate (es. NESTLE’, HIPP, MILUPA - NUTRICIA, cui
si aggiunge, in Italia, la PLASMON Divisione Alimentare) di ortofrutta che
rispetti questo parametro e perciò definita correntemente dagli operatori
“residuo zero”(vedi paragrafo le oasi a pag 32).
In realtà, solo su una parte dei principi attivi esistenti è possibile scen-
dere al di sotto di questo valore e andrebbe detto, in generale, che a
questi livelli di poche parti per bilione non è forse neanche tanto sen-
sato andare a disquisire di limiti da rispettare. Comunque, nella nuova
legislazione Fitosanitaria UE, man mano che vengono armonizzati i
principi attivi ne vengono indicati anche, ovviamente, dei limiti massi-
mi ammessi per tutte le colture autorizzate i cui valori più bassi coin-
cidono in larga misura, con i valori di determinazione strumentali pos-
sibili con le attuali metodiche; questo non risolve il problema, ma intro-
duce il principio, nuovo, che lo “zero” analitico possa variare a secon-
da della molecola considerata, della matrice analizzata e delle meto-
diche adottabili. E questo si avvicina molto di più alla realtà. (3)

Da coltivazioni sane si ottengono alimenti sani


La legislazione europea sui pesticidi, o “prodotti
per la protezione delle piante”, regola rigidamente
il tipo di pesticidi, insetticidi, fungicidi, ecc. che pos-
sono essere utilizzati e il loro impiego. Nel 1991,
l’Unione Europea decise che avrebbe controllato
tutti i prodotti in uso negli Stati Membri e, in base al
risultato delle verifiche, ne avrebbe o autorizzato
l’uso in tutta l’UE, oppure richiesto il ritiro dal mercato.
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Esistono inoltre leggi dell’Unione Europea che limitano la quantità dei


residui di prodotti per la protezione delle piante presenti in frutta e ver-
dura, cereali e alimenti di origine animale e vegetale . Queste leggi fis-
sano i cosiddetti “limiti massimi di residui” che vengono stabiliti in
base alle valutazioni dei dati riguardanti le buone pratiche agricole (gli
usi autorizzati in vigore e quelli in fase di proposta) e dei risultati pro-
venienti da studi sul controllo dei residui. Questi sono, in realtà, molto
più rigidi dei limiti tossicologici stabiliti dagli scienziati. Per assicurare
che i livelli di sicurezza legali vengano rispettati, tuttavia, l’Unione
Europea svolge regolari programmi di monitoraggio e controllo, come
quello menzionato prima.
Attualmente la Commissione Europea sta proponendo di aggiornare
parte della legislazione relativa all’uso dei prodotti per la protezione
delle piante nell’Unione Europea. Dal 1991 è stato evidente che la
scadenza del 2003 per la valutazione di tutte le sostanze utilizzate nei
prodotti per la protezione delle piante non poteva essere rispettata.
Per questo, la Commissione ha proposto di estendere la scadenza al
2008 e di introdurre procedure d’urgenza per quelle sostanze di cui è
già chiara la decisione di autorizzazione o divieto all’uso. Ora che la
nuova Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) è opera-
tiva, parteciperà alla revisione delle valutazioni e delle raccomanda-
zioni sulle attività da svolgere. La Commissione Europea sta anche
valutando le “nuove” sostanze messe sul mercato dopo l’adozione
della normativa del 1991.
Fino ad oggi le autorità nazionali, in mancanza di un limite determina-
to dall’Unione Europea, potevano fissare un limite di residuo per i
pesticidi commercializzati nel proprio Paese. Tuttavia, in passato,
queste differenze nazionali hanno causato leggere controversie com-
merciali nel settore perché i prodotti fabbricati in alcuni Paesi Europei
non potevano essere venduti in altri dove vigevano regolamentazioni
più restrittive. Questo fatto si contrappone al principio del mercato
unico europeo, dove merci e servizi circolano liberamente da un
Paese all’altro.
Di conseguenza, la Commissione Europea ha proposto che i residui

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dei prodotti non controllati a livello UE non debbano superare il conte-


nuto limite di 0,01 milligrammi per chilogrammo di alimento. Man
mano che verranno completate le valutazioni scientifiche dei prodotti,
l’Unione Europea fisserà tutti i limiti legali in unico testo legislativo.
I consumatori potranno quindi continuare ad usufruire delle abbon-
danti quantità di alimenti a disposizione senza la preoccupazione che
contengano elementi chimici non desiderati, fintanto che i prodotti per
la protezione delle piante dalle malattie e dagli insetti dannosi verran-
no utilizzati con attenzione e nel rispetto della legge vigente. (4)

La produzione integrata
La comparsa dei sistemi di produzione integrata è il frutto di un’evolu-
zione graduale che parte dalla messa a punto di metodi di riduzione
dell’uso di pesticidi (fitofarmaci) per giungere alla scelta di sistemi pro-
duttivi dove tutte le pratiche agricole sono soggette a principi di razio-
nalizzazione. È possibile individuare le principali “tappe” di questo
percorso, intrapreso a partire dagli anni ‘70 nei principali paesi del
Nord Europa. Fino ad allora la lotta a calendario era quella prevalen-
temente applicata; essa seguiva il principio della copertura permanen-
te a fini preventivi, e prevedeva uno schema automatico di intervento
che non aveva come riferimento il parassita, bensì la pianta nelle sue
diverse fasi fenologiche.
La produzione integrata è l’integrazione tra metodi a basso impatto
ambientale per la difesa fitosanitaria e le tecniche ecocompatibili adot-
tate anche in altre fasi del processo produttivo che hanno dato origi-
ne al concetto di Produzione Integrata.

I vantaggi dell’agricoltura integrata


Effetti sull’ecosistema:
minor numero di trattamenti e di prodotto impiegato. Si può facilmen-
te intuire il conseguente minor impatto ambientale dovuto alla minore
massa di agenti inquinanti che vengono dispersi nell’ambiente a
beneficio del territorio nel suo complesso.
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Effetti sull’agroecosistema:
vengono maggiormente salvaguardati i delicati equilibri che regolano
il rapporto litofago*/fattori naturali di controllo, sia per il numero di
interventi che per il rispetto dell’attività dei nemici naturali dei fitofagi
(predatori e parassiti).

Effetti sulla salute:


minori rischi di tossicità acuta per l’agricoltore che manipola il prodot-
to, e di tossicità cronica dovuta all’assunzione nel tempo di microdo-
si, per il consumatore.

La lotta guidata
La lotta guidata è stata una tappa che ha preceduto il metodo di produ-
zione integrale perché utilizza ancora i prodotti chimici, ma introduce
alcuni concetti fondamentali: il controllo della presenza dei parassiti e la
soglia di intervento, impiegando i trattamenti in modo più appropriato.
Si tratta, in sostanza, di condurre la lotta coi soli mezzi chimici, che
andranno tuttavia usati con la massima cautela ed accogliendo alcu-
ni principi base:
Soglia di intervento - cioè “la più bassa densità di popolazione di una
specie dannosa capace di produrre dei danni economici” (Stern et al.,
1969). È inutile, in molti casi, combattere gli insetti al loro semplice
apparire. La lotta andrà effettuata solo se la densità della specie dan-
nosa raggiunga un valore minimo, tale da giustificare il costo dei trat-
tamenti; tale valore viene definito soglia di tolleranza.
Selettività - sarà bene impiegare prodotti che, pur
essendo efficaci contro la specie che si vuole combat-
tere, risparmiano invece, per quanto possibile, gli
insetti utili (parassiti, predatori, pronubi).
Sfruttamento dei nemici naturali - salvaguardandoli sia attraverso
la scelta dei prodotti da usare, sia evitando di intervenire quando essi
siano particolarmente numerosi, oppure si trovino in uno stadio parti-
colarmente sensibile.

*Parassita dannoso per la pianta

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Per praticare bene la lotta guidata, occorre conoscere il


ciclo biologico delle specie dannose e di quelle utili, le
caratteristiche dei prodotti che si impiegano per la lotta e
i metodi di campionamento. Per quest’ultimo aspetto si
sono messe a punto diverse tecniche di “monitoraggio”
della presenza delle avversità da combattere:
• Trappole sessuali e cromotropiche il cui controllo setti-
manale fornisce un esatto computo dei livelli di presenza;
• Campionamenti (percentuali, sequenziali) effettuati dal
tecnico e dall’agricoltore per il livello delle avversità;
• Indici epidemiologici per le previsioni dei tempi di
incubazione delle malattie crittogamiche.

La lotta biologica
Una recente definizione di lotta biologica in agricoltura è quella che con-
sidera “biologico” l’uso degli organismi viventi e dei loro prodotti, allo
scopo di proteggere le piante dagli agenti biotici dannosi. Tale definizio-
ne è un ampliamento del concetto classico, in base al quale la lotta bio-
logica era da intendersi come utilizzazione del controllo abitualmente già
esercitato, in prima persona, dagli agenti biologici di contenimento.
La lotta biologica, basata sull’utilizzazione dell’antagonismo natura-
le, è stata notevolmente ampliata, considerando di pertinenza biologi-
ca anche l’utilizzazione dei prodotti naturali degli stessi organismi
viventi (feromoni, ormoni, tossine). Il concetto può essere poi amplia-
to ulteriormente interessando tecniche diverse, quali quelle utilizzanti
le energie atomica, luminosa, acustica o addirittura mezzi chimici di
derivazione non naturale (fagostimolanti, disappetenti, chemiosteriliz-
zanti, ecc..). Comunque, la stessa moderna definizione consente
l’esclusione di tecniche fisiche o chimiche. Essa considera includibili
tutti quei mezzi che traggono origine dagli organismi dannosi stessi
(es. ormoni giovanili, feromoni sessuali, ecc.) o che si valgono di que-
sti stessi organismi per ottenere abbassamenti di popolazione (steri-
lizzazione dei maschi, introduzione di geni letali, incroci sterili, ecc.) o
quei mezzi derivanti comunque da componenti biotici limitanti in natu-

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ra specie dannose (es. tossine batteriche, fagoinibitori repellenti di ori-


gine vegetale, fattori di resistenza vegetale, ecc.).
È’ quindi ammissibile che un mezzo non biotico (es. un prodotto esclu-
sivamente sintetico) possa essere riconosciuto quale mezzo biologi-
co, nel caso possa venire utilizzato attraverso meccanismi di natura
prettamente biologica. Un chemiosterilizzante che annulli la fecondità
dei maschi e che consegua l’abbassamento di popolazioni del fitofa-
go, può venire incluso tra i mezzi biologici; allo stesso modo può esse-
re valutato l’uso delle radiazioni atomiche (lotta autocida).
Il controllo biologico delle specie dannose può essere affrontato:

1) proteggendo o potenziando il controllo naturale degli insetti


dannosi, mediante una serie di accorgimenti (incremento di ospi-
ti alternativi, modifiche di pratiche agronomiche sfavorevoli, uso di
fitofarmaci selettivi, ecc.);
2) distribuendo gli agenti biotici (virus, funghi, batteri, nematodi,
insetti, acari, ecc.);
3) introducendo e diffondendo i nemici naturali degli insetti fitofagi
da altri Paesi.

L’utilizzo di queste tecniche, in diffusione, necessita di:

• adeguata ricerca e sperimentazione;


• qualificata e capillare assistenza tecnica territoriale;
• elevato grado di consapevolezza e professionalità
degli agricoltori.

LA LOTTA BIOLOGICA NON È DA CONFONDERSI


CON L’AGRICOLTURA BIOLOGICA, O PRODUZIONE BIOLOGICA,
CHE NON È UN METODO DI DIFESA, MA DI GESTIONE DELL’IN-
TERA PRODUZIONE, CHE PROIBISCE L’APPORTO DI QUALSIASI
SOSTANZA CHIMICA DI SINTESI NELLE DIVERSE FASI COLTU-
RALI (DIFESA, CONCIMAZIONE, ECC.).

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Il Biolab è la prima Biofabbrica italiana per la produzione massale di


insetti e acari utili. l’attività è iniziata nel 1983 come laboratorio di lotta
biologica e dal 1990 è entrato in funzione un moderno impianto per la
produzione di grande quantitativi di organismi utili. Gestita dalla
Centrale Ortofrutticola di Cesena e realizzata con il contributo di
Regione Emilia Romagna e Enea (e la consulenza scientifica
dell’Istituto di Entomologia dell’Università di Bologna), la Biofabbrica
alleva le razze di ausiliari presenti nell’areale mediterraneo e quindi
più adatte alle condizioni di impiego nel nostro Paese.

La difesa integrata
Riduce ulteriormente l’uso di fitofarmaci chimici sostituen-
doli con mezzi biologici, agronomici, fisici e genetici. Un
esempio di biotecniche è l’impiego di dispenser impregna-
ti di feromone sintetico abbinati ad apposite “trappole” ses-
suali , per monitorare l’entità demografica di un insetto, e
l’impiego di feromoni artificiali per rendere introvabile la
femmina del patogeno.
Oppure l’utilizzo di feromone serve per attirare il maschio in
trappola per ridurre la densità della popolazione fitofoga.
L’impiego di batteri o funghi, virus antagonisti dei Fitofagi.
La produzione integrata è un sistema agricolo di produzio-
ne degli alimenti e di altri prodotti di alta qualità, sistema
che utilizza risorse e meccanismi di regolazione naturale
per rimpiazzare apporti dannosi all’ambiente e che assicu-
ri un’agricoltura vitale nel lungo periodo.
In generale la Produzione Integrata, laddove applicata su prodotti
destinati al mercato con specifici marchi, prevede i seguenti requisiti:
- tutte le aziende fanno parte di programmi predefiniti all’inizio
della campagna di coltivazioni; numero, nome, superficie coinvol-
ta e quantità previste da ciascuna di esse deve essere dichiarato
preventivamente ai clienti.
- È obbligatoria per il produttore, la tenuta di un quaderno di cam-
pagna ove vanno registrati tutti gli interventi eseguiti.

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- Vengono applicati Regolamenti (o disciplinari) di produzione,


anch’essi prestabiliti. Laddove esistano regolamenti pubblici
(regionali o provinciali), devono essere rispettati.
- Tutte le produzioni, prima di essere autorizzate vengono analiz-
zate in campo attraverso un campionamento specifico. Verranno
ricercati tutti i prodotti dichiarati ed altri a campione. Solo se viene
accertato il rispetto di quanto concordato e nei limiti previsti dalla
legge, il prodotto viene accettato.
- Il prodotto deve essere sempre identificato su ogni imballaggio
e riconoscibile in tutti i passaggi successivi, fino alla consegna al
supermercato. Alcuni magazzini di confezionamento devono
tenere registri di lavorazione.
- Solo il prodotto confezionato viene accettato. La vendita sfusa in
supermercato è consentita solo se in sostituzione completa al
prodotto convenzionale.
- Non sono consentiti trattamenti per la conservazione post - raccol-
ta (fungicidi o altro). In alcuni casi nemmeno quelli di tipo puramente
estetico (es. ceratura o deverdizzazione con etilene degli agrumi).
- Organi incaricati dalle regioni o il supermercato cliente, effettua
controlli sul prodotto fornito, sia con analisi che con ispezioni alle
aziende fornitrici. Ogni grave problema riscontrato comporta la
sospensione della fornitura e, spesso, penali pecuniarie.

La commercializzazione
L’inizio della commercializzazione delle produzioni integrate in Italia
risale al 1986. È dell’autunno di quell’anno infatti il primo test realizza-
to dal gruppo APO di Cesena e dal CONAD con il limitato quantitativo
di mele con il marchio “Naturae”.
La novità commerciale vera e propria arriva però nel 1987. Le fragole
prodotte con la lotta biologica riscuotono un notevole consenso sia
presso i consumatori che i media. Giornali e TV danno ampio risalto a
queste produzioni apprezzando lo sforzo degli agricoltori di produrre
con una maggior attenzione alla salvaguardia dell’ambiente e della
salute, sia dei produttori che dei consumatori.

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Questa iniziativa parte, non a caso, in Emilia Romagna, dove la Regione


dal 1980 ha avviato un progetto per la riduzione degli antiparassitari,
teso a coinvolgere, con un significativo investimento in assistenza tecni-
ca, ricerca e sperimentazione, i produttori agricoli e le loro associazioni.
Testimonial dell’agricoltura rispettosa dell’ambiente è il Prof. Giorgio
Celli, docente di Lotta biologica presso l’Università di Bologna e referen-
te scientifico del Laboratorio Allevamento insetti utili della Centrale
Ortofrutticola di Cesena. Le produzioni integrate sono commercializzate
con marchi specifici nell’intento di fornire loro una valorizzazione econo-
mica. La valorizzazione economica delle produzioni integrate è infatti
oggetto di interesse prioritario da parte delle strutture private e pubbliche,
che hanno predisposto e attivato progetti di Produzione Integrata.
La situazione nazionale si presenta comunque altamente diversificata a
seconda delle regioni di riferimento. Accanto alle regioni storicamente più
attente ad un’agricoltura rispettosa dell’ambiente e di
qualità (l’Emilia Romagna, il Trentino Alto Adige, il
Piemonte, etc.) si trovano regioni ancora in grosso ritar-
do (si pensi ad esempio alle regioni del Sud).

Trentino Alto Adige


Questa è la regione dove storicamente si è sviluppa-
ta la Produzione Frutticola integrata soprattutto rivolta alle mele.
AGRIOS è il progetto che sin dal 1989 ha commercializzato la mela
integrata dell’Alto Adige con il famoso marchio della coccinella. Dal
1995 la situazione è cambiata: alcune organizzazioni altoatesine
(VOG ESO) hanno dato vita ad un marchio proprio, “Marlene”, riguar-
dante 13 varietà di mele. Non si tratta però di un marchio di produzio-
ne integrata, ma di garanzia di determinati livelli qualitativi. Le produ-
zioni integrate (circa il 75% del totale) continuano ad essere vendute
con il marchio di Agrios. C’è da chiedersi se questo proliferare di mar-
chi non sia un elemento di confusione per il consumatore. In trentino
le cose sono più semplici: “Melinda”
e “La Trentina” sono i marchi che
contraddistinguono non solo la pro-

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duzione integrata, che è ormai considerata la norma base di riferimen-


to produttivo, ma la sicurezza di elevati standard qualitativi.
Emilia Romagna
Qui l’amministrazione locale e le grosse associazioni
di produttori hanno sin dall’inizio puntato enormemen-
te sullo sviluppo e la valorizzazione commerciale delle
produzioni integrate, individuando nella g.d.o. l’inter-
locutore privilegiato. La Regione, in applicazione alla
L.R. 29/92 “Valorizzazione dei prodotti agroalimentari dell’Emilia
Romagna ottenuti con tecniche rispettose dell’ambiente e della salute
dei consumatori”, ha lanciato il marchio “Qc”, Qualità controllata, per
le produzioni regionali (soprattutto ortofrutticole) ottenute seguendo i
disciplinari di produzione. A tutte le fasi della filiera agroalimentare in
“regime” di produzione integrata è data la possibilità di avvalersi di
tale marchio, che sottintende un sistema di controllo pubblico a garan-
zia del consumatore. L’attenzione della Regione per il mercato si è
configurato, nei primi mesi del ‘97, attraverso un accordo tra g.d.o.,
produzione e Regione, la quale contribuirà al pagamento del 50%
delle spese di promozione del prodotto integrato a marchio “Qc”.
Parallelamente all’interesse dell’amministrazione anche il mondo produt-
tivo è sempre stato molto sensibile al prodotto integrato. Si sono così svi-
luppati marchi privati alla produzione (“AlmaVerde” di APOFRUIT di
Cesena, “Cogli e Gusta” di CONERPO, “Vitalia” del CORER).
La legge “Valorizzazione dei prodotti agroalimentari dell’Emilia
Romagna ottenuti con tecniche rispettose dell’ambiente e della salute
dei consumatori” interessa le principali colture ortofrutticole, cerealico-
le e il comparto vitivinicolo. Le imprese che aderiscono all’iniziativa
possono utilizzare il marchio Qc. Questo è apposto da concessionari
autorizzati sul materiale promozionale, sugli imballaggi e direttamen-
te sul prodotto, accompagnando il “marchio” del produttore, in modo
da fornire un’ulteriore garanzia di controllo. Il programma di valorizza-
zione prevede infatti un sistema di controllo di filiera realizzato da
organismi di certificazione riconosciuti nell’ambito delle norme UNI-
EN-ISO.

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Visto che il principale canale di sbocco sul mercato delle produzioni


integrate è la Grande Distribuzione Organizzata, ben presto questa ha
introdotto propri marchi di prodotto integrato: dopo CONAD, con la
linea “Naturae”, è stata la volta di COOP Italia con i suoi “Prodotti con
Amore”, e di ESSELUNGA con il nuovo marchio “Naturama”. CONAD
nel ‘97 ha poi sviluppato il marchio “Percorso qualità Conad”. In altre
catene distributive (GS, il gruppo Rinascente - Sidis) le produzioni
integrate sono invece commercializzate con i marchi del fornitore. (5)

Produzione biologica
Il principio base dell’agricoltura biologica
è la conservazione e il ripristino della fer-
tilità del suolo: impiego di fertilizzanti
organici (bandendo i concimi chimici
inorganici), composti e residui delle col-
ture. L’agricoltura biologica producendo colture adatte ad un determinato
ambiente e resistenti per loro natura ai parassiti, riduce al massimo l’im-
piego di antiparassitari e favorisce i sistemi di policoltura/allevamento.
La restrizione in materia di concimazioni e di uti-
lizzazione dei prodotti fitosanitari garantiscono
l’offerta di prodotti agricoli sani e privi - di norma
- di residui di origine chimica e diminuendo i
rischi di contaminazione e inquinamento dell’am-
biente sia a livello di terreno che delle falde frea-
tiche. Ne è un esempio la salvaguardia o il ripristino di siepi e di sta-
gni: ecoambienti che offrono ospitalità a numerosi nemici naturali dei
parassiti: insetti utili, uccelli insettivori, micromammiferi.
Con l’entrata in vigore della legge europea (Reg. n. 2092/91), delle
leggi nazionali e in Italia di alcune leggi regionali (Toscana n. 31/94 e
454/95), l’agricoltura biologica è un’attività ufficialmente riconosciuta,
con normative precise che ne regolano ogni minimo aspetto e questo
va indubbiamente a tutto vantaggio dell’ambiente e dei consumatori.

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La normativa dell’agricoltura biologica prevede i


tempi di conversione di un terreno dedicato alla pro-
duzione biologica, indica le modalità del manteni-
mento della fertilità del terreno, indica inoltre i pro-
dotti consentiti per la concimazione ed i prodotti fito-
sanitari per le colture.
Dal 1993 è in vigore anche in Italia il Regolamento
CEE sulle produzioni biologiche che istituisce un sistema di controllo
e un marchio unico - “Agricoltura biologica - Regime di controllo CEE”
- per tutti i prodotti biologici europei.
A concedere l’uso del marchio europeo sono gli organismi di control-
lo riconosciuti dal Ministero delle Risorse Agricole, Alimentari e
Forestali (MIRAAF). Il loro compito è di verificare attraverso ispezioni
dirette in azienda il rispetto delle norme di produzione stabilite dal
regolamento. Per verificare il rispetto degli adempimenti previsti dal
regolamento, l’organismo di controllo deve effettuare almeno un
sopralluogo all’anno in ogni azienda controllata. È previsto il prelievo
di campioni di prodotti, di terreno o di parti di piante per la ricerca di
eventuali residui tossici. Non è invece ritenuta obbligatoria la ricerca
di residui sui prodotti, ma viene auspicata ogni volta che si sospetti
l’impiego di sostanze o di tecniche non autorizzate.

Organismi di controllo
Gli organismi di controllo verificano il metodo e la produzione, che siano
conformi a quanto dispone il Reg. CEE 2092/91 e successive modifiche
e aggiornamenti. In Europa ce ne sono circa 160. Sulle etichette dei
prodotti provenienti da coltivazioni di agricoltura biologica, deve compa-
rire il marchio o il nome di uno dei seguenti organismi di controllo:
Autorizzati in Italia
ASSOCIAZIONE SUOLO E SALUTE Fano (PU)
BIOAGRICERT Casalecchio di Reno (BO)
BIOS srl Marostica (VI)
CCPB Consorzio per il Controllo dei Prodotti Biologici (BO)
CODEX Scordia (CT)
ECOCERT ITALIA Catania
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Ecosystem International Certificazioni Lecce


ICEA Istituto per la Certificazione Etica ed Ambientale (BO)
IMC srl Senigallia (AN)
QC&I Monteriggioni (SI)
BIOZERT Augsburg - Germania
INAC Witzenhausen - Germania
IMO Konstanz - Svizzera
QC&I Köln - Germania

Lettura delle etichette


I prodotti bio si riconoscono perché riportano in etichetta la dicitura “da
agricoltura biologica”.
Inoltre, sempre in etichetta, compare il nome per esteso dell’organi-
smo di controllo, la relativa autorizzazione ministeriale e una serie di
lettere e cifre che sono carta di identità del prodotto e del produttore:
IT (Italia) BAC (sigla dell’organismo di controllo) 0003 (codice del-
l’azienda produttrice) F (prodotto fresco) o T (prodotto trasfromato)
000000 (codice di autorizzazione).
Il prodotto da agricoltura biologica può anche essere caratterizzato
dal logo comunitario introdotto dal Reg. CEE n. 331/2000:

Dal 31 dicembre 1997 sono entrate in vigore le nuove modalità di eti-


chettatura del prodotto biologico: a partire da questa data, tre sono le
possibili etichette che si potranno trovare in commercio.

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Prodotti in cui almeno il 95% degli ingredienti di origine agricola


è ottenuto con metodo biologico: il restante 5% deve essere costi-
tuito da prodotti inseriti nella lista positiva dell’allegato VI C del
Reg.2092/91. Qualora questo 5% fosse costituito da ingredienti non
agricoli (per esempio, ausiliari di fabbricazione), anche questi devono
appartenere alla lista positiva dello stesso allegato (parte A e B). in
questo caso il riferimento al biologico può essere presente nella deno-
minazione di vendita (per es. “pasta da agricoltura biologica”).
Prodotti in cui almeno il 70% degli ingredienti di origine agricola
è ottenuto con metodo biologico.
Prodotti in conversione: per questi è ammesso il riferimento al bio-
logico nella denominazione di vendita. In tal caso sull’etichetta deve
apparire “prodotto in conversione all’agricoltura biologica” solo per
prodotti con un solo ingrediente di origine agricola, coltivato da 12
mesi secondo le norme dell’agricoltura biologica.
Dal 31/12/1997 dovranno essere ritirati dal commercio i prodotti con
riferimento al biologico che erano ottenuti con il 50% degli ingredienti
di origine agricola derivanti da agricoltura biologica.

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Biologico in Italia: i dati del Ministero (2002)


L’agricoltura biologica nel nostro paese assume un ruolo sempre cre-
scente.
È il primo paese europeo come superficie investita (1.237.640 ettari);
secondo a livello mondiale dopo l’Australia.
È anche il primo paese a livello mondiale come numero di aziende bio
(60.509 operatori).
Siamo quarti in Europa, dopo Germania, Regno Unito e Francia,
come sviluppo del mercato biologico (970 milioni di euro di volume di
affari). Siamo quarti anche come quota di consumi alimentari bio
(1,5%), dopo l’Austria (2,5%), la Germania (2,3%) e la Svizzera
(2,1%). Siamo, sempre in Europa, al quarto posto quanto la percen-
tuale di superficie su cui è esercitata l’agricoltura bio (7,1%) dietro a
Liechtenstein, Austria, Svizzera.
Le principali colture riguardano i foraggi (397.878 ettari), i cereali
8.221.436 ettari), i prati e pascoli (241.157 ettari), che nel loro insie-
me rappresentano il 70% circa degli investimenti.
Seguono in ordine di importanza le coltivazioni arboree (olivo, vite,
agrumi, frutta) per il 20% e le colture orticole ed industriali (legumino-
se da granella, prodotti orticoli, colture industriali) per il 4%.
Le regioni italiane con più superficie bio, in relazione alla superficie
bio nazionale, sono in ordine: Sicilia (21%), Sardegna (20%), Emilia
Romagna (11%), Puglia (8%), Calabria (7%), Piemonte (6%), Marche
(5%), Toscana (4%), Lazio (3%).

La commercializzazione e la grande distribuzione


A fianco dei punti vendita specializzati si sta sviluppando un sistema
di commercializzazione particolare, quello del franchising: sia “Natura
Si” che “Bottega e Natura”, le due catene specializzate a livello nazio-
nale, dispongono di 10 mini - supermercati del biologico nel Centro e
Nord Italia. Sono in crescita anche le catene regionali di franchising,
connesse al mondo della produzione (es. El Tamiso di Vicenza, ex
Mustiola di Cesena e la Bottega Verde toscana).
Altri punti vendita in rete sono dati da circuiti tradizionali che operano

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a livello locale, legati ad aziende produttive (es. Il Canestro, Dalla


Terra al Cielo, ecc.), oppure come cooperative di consumo (es. Coap
a Torino).

L’industria di traformazione
Anche l’industria di trasformazione mostra interesse per il prodotto
biologico: a livello nazionale i principali trasformatori interessati da
questo particolare segmento di mercato sono la CAS di Castagnaro
(VR), la ZIPPERLE di Merano (BZ), il COTRAPO di Fiesso
Umbertiano (RO), ALLIONBE di Cuneo e, a livello regionale, la AGRI-
MOLA di Casalfiumanese (BO), e la CESENATE (FC).

I supermercati che vendono ortofrutta bio sono circa 1500, di cui 1000
sono ubicati nel Nord Italia. Il trend di crescita è stato elevato visto e
considerato che nel 1996 vi erano solo 130 supermercati che vende-
vano biologico.
I negozi specializzati sono oggi più di 1000, di cui 700 sono nel Nord.

La crescita della zootecnia biologica.


Per le produzioni animali, distinte sulla base delle principali tipologie
produttive, al 31 dicembre 2001 si segnala la seguente situazione:
bovini 330.7001 (latte e carne), ovi-caprini 327.891, suini 25.435, pol-
lame 648.693, conigli 1.682, api, in arnie, 48.228. Si stimano oltre
1000 operatori.
Le nuove normative nazionali e regionali devono garantire al consu-
matore la libertà di scelta del biologico, mettendolo al riparo dalle truf-

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fe che rischiano di screditare tutto il sistema, e creare sempre più oasi


ecologiche dove è possibile costruire un ciclo produttivo certificato di
rintracciabilità. (6)

Le oasi
Il progetto delle oasi ecologiche ha come esclusivo siste-
ma di produzione di materie prime alimentari, destinate ai
prodotti per l’infanzia, esenti da residui nocivi di contami-
nati chimici.
Questa esigenza parte dalla constatazione, condivisa
dagli organismi scientifici internazionali, che l’organismo
giovane è più sensibile agli effetti tossici causati dall’espo-
sizione ai prodotti chimici, quali additivi alimentari intenzionali e non
intenzionali, in particolare nei neonati e nei bambini, ciò scaturisce
dall’immaturità dei meccanismi immunitari, della disintossicazione
enzimatica e dell’incompiuta funzionalità degli organi escretori (rene,
ecc.).
Considerando come le materie prime possano essere contaminate
dai seguenti composti chimici:

frutta: insetticidi, fungicidi, diserbanti, muffe ecc.


cereali: insetticidi, piombo, cadmio, muffe ecc.
carni: insetticidi, estrogeni, piombo, cadmio ecc.
olii e grassi: insetticidi, solventi, clorurati, piombo, nichel
latte e derivati: insetticidi, diossine, muffe, piombo, cadmio, nitrati
pesce: pesticidi, istamina, metodi pesanti, formaldeide
vegetali: fitofarmaci, nitrati, nitriti

L’unico modo efficace per evitare la loro presenza è quello di una pro-
duzione diretta e guidata dei prodotti agroalimentari in ambienti pro-
tetti da tali contaminazioni.
In particolare il progetto “oasi plasmon” ha notevolmente ridotto i limi-

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ti di tolleranza indicati per tutti i contaminanti riportati dalla FAO/OMS


e dalla legge italiana per gli alimenti per l’infanzia.
Pertanto per i prodotti finiti devono risultare assenti: antibiotici, ormo-
ni, antiossidanti (esclusi vitamina C, E e derivati). I coloranti, antifer-
mentanti, formaldeide, pesticidi possono essere presenti solo al 20%
dei limiti di legge. Possono essere presenti concentrazioni di frazioni
di parti per milione, i policloruri (0,2), piombo (0,02), cadmio (0,04),
mercurio (0,07), nitrati, nitriti ecc.
La filiera comprende coltivazioni e allevamenti dedicati esclusivamen-
te alla produzione delle materie prime, condotti secondo le prescrizio-
ni e sotto il diretto controllo degli agronomi, dei veterinari e dei labo-
ratori plasmon, garantendo una produzione qualitativa e rintracciabile
di alimenti per l’infanzia “più sicuri”: latte, formaggi;
carni: manzo, vitello, pollo, maiale, trota, salmone;
frutta: albicocca, mela, pera, pesca, prugna, arancia;
vegetali e cereali: carciofi, carote, prezzemolo, fagioli, spinaci, fru-
mento, piselli, pomodori, sedano, patate, mais, riso.

O.G.M.
Televisione e giornali ci hanno abituati ad associare il termine “biotec-
nologia” ad applicazioni spettacolari come test del DNA per diagnosti-
care malattie o generazione di pecore clonate e piante di mais che
sterminano i propri parassiti. Ma la biotecnologia non è solo questo.
La rivoluzione del DNA ricombinante è una scienza poliedrica ed in rapi-
da evoluzione, ricca di promesse di possibilità e di incertezze, come
tutte le nuove scienze. Essa coinvolge le bioscienze in tutti i loro aspet-
ti, può essere applicata alle aree più diverse ed ha consentito e consen-
te di sviluppare e migliorare processi per la produzione industriale di
ogni tipo di prodotto: dai farmaci ai prodotti chimici e alimentari.
La biotecnologia è una disciplina che comprende tecniche produttive
utilizzate da millenni, quali l’agricoltura, la zootecnia e lo sfruttamento
delle attività fermentative dei microrganismi ( per esempio nella pro-

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duzione di bevande alcoliche, pane e formaggi). In realtà per queste


ultime - di cui parleremo più avanti - si preferisce parlare di “biotecno-
logie tradizionali” per differenziarle da quelle che vengono, invece,
definite “biotecnologie innovative” o avanzate.
Per quanto riguarda le biotecnologie innovative, e soprattutto l’inge-
gneria genetica, i settori nei quali si ripongono le maggiori speranze
per risolvere alcuni dei problemi che assillano l’umanità possono
essere così riassunti:
• Farmacologia e medicina. Si avvalgono delle tecniche del DNA
ricombinante per produrre, utilizzando microrganismi modificati, far-
maci, vaccini e reagenti diagnostici, o per curare le malattie con la
terapia genica e la produzione di anticorpi monoclonali.
• Agricoltura, zootecnia e veterinaria. Sfruttano la produzione di
vegetali e animali transgenici per ottenere nuove varietà maggior-
mente produttive e più resistenti alle malattie e agli stress
ambientali.
• Bioindustria (chimica, farmaceutica e alimentare). Impiega sia
microrganismi naturali o modificati, sia biomolecole (enzimi per
esempio), opportunamente trattati per una loro più efficiente uti-
lizzazione nella produzione industriale di antibiotici, vitamine,
amminoacidi, enzimi, zuccheri, prodotti alimentari, bevande, addi-
tivi, alcool, acidi, solventi, detergenti, olii, materie plastiche e così
via,
• Ambiente. Si utilizzano microrganismi naturali o geneticamente
modificati nella salvaguardia dell’ambiente e in particolare per lo
smaltimento dei rifiuti, la depurazione delle acque e dei reflui, il
biorisanamento degli inquinanti industriali e degli habitat contami-
nati da petrolio o metalli pesanti.
• Produzione di energia. Persino in questo settore l’impiego di
batteri geneticamente modificati può essere vantaggioso rispetto
ad altre tecnologie. Si pensi ad esempio all’estrazione del petro-
lio intrappolato nelle rocce mediante batteri che, producendo
sostanze tensioattive, mobilizzano la sostanza oleosa, la fanno
concentrare e ne favoriscono l’estrazione.

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Che cos’e’ l’ingegneria genetica


Il termine è ormai sulla bocca di tutti, ma in realtà assume significati dif-
ferenti a seconda delle persone che ne fanno uso. La maggior parte
delle persone considera il termine in un contesto più ampio: in effetti,
nei paesi sviluppati vi è una precisa definizione <<legale>> dell’inge-
gneria genetica, conseguenza di una specifica legislazione governati-
va rivolta al suo controllo. Indicativa al proposito è la definizione data
dal governo britannico: <<produzione di nuove combinazioni di mate-
riale ereditabile, ottenute mediante l’inserzione di molecole di acido
nucleico (DNA), di qualunque provenienza, in un organismo ospite, nel
quale tali molecole di DNA non sono presenti naturalmente, ma nel
quale, una volta acquistate, possono propagarsi indefinitamente>>.
Le finalità di queste procedure, note scientificamente
con il termine di tecniche del DNA riconbinante, sono
già state elencate. I maggiori successi, che hanno tro-
vato anche sbocchi commerciali, sono relativi alla pro-
duzione di microrganismi, opportunamente program-
mati, che vengono commissionati per la sintesi di pro-
teine di interesse commerciale e/o sociale.
Si tratta quindi di una nuova scienza, che muove i passi
da un approccio tradizionale, cioè dallo sfruttamento di
specifiche funzioni svolte da microrganismi viventi per
produrre beni e servizi utili all’umanità. Questo, in effetti, non è un
concetto nuovo se si pensa che la produzione di birra e di pane lievi-
tato, che si basano appunto sull’intervento naturale di un microrgani-
smo, è stata realizzata dall’uomo sin dall’antichità, e cioè oltre 8000
anni or sono.
A rendere questo approccio decisamente innovativo sono appunto i
progetti fatti nel campo dell’ingegneria genetica: un singolo gene, che
codifica per una specifica proteina e funzione, può venire isolato da
una cellula o essere prodotto per sintesi in laboratorio; tale gene può
quindi venire trasferito in una diversa cellula o addirittura a un intero
organismo in modo da introdurre nuove caratteristiche nel ricevente.
Con questa tecnologia, oltre a modificare geneticamente i microrgani-

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smi (OGM, microrganismi geneticamente modificati) per fare loro pro-


durre farmaci, prodotti chimici, enzimi per l’industria alimentare e per
altre produzioni industriali, è stato possibile cambiare in maniera mira-
ta le caratteristiche genetiche di piante e animali in modo sia da incre-
mentare la produzione sia da renderli resistenti alle malattie e agli
stress ambientali (ottenendo vegetali e animali transgenici od OGM,
organismi geneticamente modificati); inoltre è stato possibile indivi-
duare e correggere difetti genetici umani.
La maggior parte degli animali GM sono nati per la ricerca e la speri-
mentazione di nuovi farmaci: si tratta di animali da laboratorio, porta-
tori di mutazioni che riproducono malattie ereditarie, tumori e altre
patologie umane. Viceversa, i vegetali transgenici hanno ormai lascia-
to i laboratori di ricerca e le fattorie sperimentali per debuttare sul
campo. In alcuni paesi del mondo, i raccolti prodotti da soia, mais,
pomodori e altre piante GM si affiancano - e si mescolano - ai prodot-
ti agricoli ottenuti dalle varietà selezionate in passato.
L’ultima e più recente frontiera delle biotecnologie è quella che solle-
va i maggiori interrogativi morali e giuridici. Si tratta della tecnologia
della fertilità, cioè del bagaglio di tecniche per la manipolazione di
embrioni e la clonazione animale.

Dalla tradizione all’innovazione


Se, come detto, intendiamo le biotecnologie nel senso più lato del termi-
ne e cioè l’utilizzazione di organismi viventi (soprattutto microrganismi), o
parti di essi, per produrre sostanze utili all’uomo, è chiaro che “biotecno-
logia” si propone come una parola nuova, che descrive però una discipli-
na antica, che risale ai tempi preistorici con la preparazione di bevande e
cibi fermentati: in effetti, già migliaia di anni fa l’uomo aveva iniziato a pro-
durre birra, vino e pane e a trasformare il latte in yogurt e formaggio.
Gli antichi Sumeri e Babilonesi producevano birra fin dal 6000 a.C. e gli
Egizi cuocevano pani lievitati dal 4000 a.C. in poi. La birra, in particola-
re, considerata la bevanda degli dei e degli eroi, è stata la più diffusa in
tutti i continenti sin dai tempi più antichi. I nostri antenati non conosceva-
no però i meccanismi alla base della trasformazione di prodotti naturali

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in cibi e bevande (lievitazione, fermentazione ecc) e cioè non sapevano


che vi fossero coinvolti specifici microrganismi viventi: è necessario
attendere qualche millennio prima che Antony van Leeuwenhek (1632-
1723), grazie alla costruzione del primo microscopio, osservi per primo il
mondo microbico e ipotizzi che i microrganismi siano alla base di molti
processi che avvengono nella produzione di cibi e bevande fermentate.
E’ però Louis Pasteur che, tra il 1857 e il 1876, comprende e descri-
ve eventi usuali, ma misteriosi, quali appunto la preparazione della
birra, dimostrando che è un organismo unicellulare, il lievito
Saccharomyces cerevisiae a causare la fermentazione del malto d’or-
zo. Pasteur individua anche i batteri responsabili della fermentazione
lattica e quelli della fermentazione butirrica. E studia i microbi respon-
sabili della produzione dell’aceto, nonché quelli delle alterazioni del
vino e della birra. La discriminante, che consente però di parlare a
pieno titolo di biotecnologie innovative, è rappresentata dalla tecnolo-
gia del DNA ricombinante (ingegneria genetica). Più precisamente,
verso la fine degli anni settanta del XX secolo si verificano alcune
aperture culturali e metodologiche di grande rilievo per cui diventa
possibile ai ricercatori di operare a livello del DNA e quindi di alterare
in modo mirato il genoma soprattutto di cellule microbiche così da
mutarne le caratteristiche produttive e/o funzionali.

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Nuovi farmaci e vaccini


Prima dello sviluppo della tecnologia del DNA ricombinante, la mag-
gior parte dei farmaci umani di natura proteica era disponibile in quan-
tità molto limitate, sia per gli elevati costi di produzione sia perchè il
loro meccanismo d’azione non era ben caratterizzato. Inoltre, per i
prodotti ottenuti per estrazione del sangue o da tessuti di organi
umani o animali non si poteva garantire la sicurezza d’uso, a motivo
del potenziale rischio di trasmissione di malattie infettive da parte di
microrganismi patogeni eventualmente presenti nei donatori. Si pensi,
per esempio, alla tragica diffusione del virus dell’AIDS e dei virus del-
l’epatite B e C a seguito di trasfusioni di sangue o dell’inoculazione di
prodotti biologici, come le gammaglobuline, ottenuti dal sangue di
soggetti infetti.
Analogamente, le recenti preoccupazioni riguardo alla malattia
Creutzfeldt-Jakob (una patologia degenerativa del sistema nervoso,
correlabile alla BSE, l’encefalopatia spongiforme bovina) hanno pro-
vocato il ritiro di alcuni emoderivati negli Stati Uniti e in Europa.
Sfruttando invece la tecnologia del DNA ricombinante, è stato possi-
bile produrre un’ampia serie di farmaci in quantità sufficiente, molto
efficaci e, soprattutto, sicuri nell’uso. Attualmente oltre 300 differenti
proteine, con potenziale o già accertata attività terapeutica per l’uomo,
vengono prodotte da microrganismi (e in parte anche da cellule ani-
mali) in cui è stato clonato lo specifico gene codificante. L’esempio più

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clamoroso di questa applicazione dell’ingegneria genetica è rappre-


sentato dalla produzione, mediante batteri opportunamente modifica-
ti, di insulina umana, il primo farmaco biotecnologico messo sul mer-
cato nel settembre 1982.
La cura standard del diabete mellito è rappresentata da inoculazioni
giornaliere di insulina e, poiché le insuline della maggior parte dei
mammiferi hanno una struttura simile, è possibile trattare il diabete
dell’uomo con insulina isolata, a livello industriale, dal pancreas di
suino o di bovino. D’altra parte, però, l’insulina estratta dagli animali
presenta numerosi inconvenienti, quali una minore efficacia rispetto a
quella umana, la possibilità di reazioni allergiche anche gravi, la com-
plessità e i notevoli costi dei processi di estrazione e purificazione.
L’ingegneria genetica ha definitivamente risolto tutti questi problemi,
fornendo un ormone perfettamnte identico a quello umano. Dopo aver
ottenuto il gene dell’insulina (proinsulina) o a partire dall’RNA messag-
gero ricavato dal pancreas o dopo sintesi chimica, questo viene inse-
rito nel batterio Escherichia coli, che sarà così adibito alla produzione
di insulina umana.
Il vaccino contro l’epatite B dell’uomo è invece il primo esempio di
vaccino ricombinante autorizzato.
Anche per combattere i batteri che provocano diarrea come l’
Escherichia coli, una delle cause principali di mortalità infantile soprat-
tutto nei paesi in via di sviluppo, si è visto che è possibile inserire il
gene per una proteina dell’Escherichia coli (l’enterotossina resa non
patogena) nelle patate. Nei volontari queste patate hanno stimolato la
produzione di anticorpi sia nell’intestino (immunità locale) sia nel san-
gue (immunità sistemica). Il passo successivo della ricerca sarebbe
l’assunzione di Escherichia coli da parte dei volontari, resi immuni, per
verificare se gli anticorpi possano prevenirne gli effetti.
Anche gli animali transgenici possono essere utilizzati per la produzio-
ne di vaccini. Si sono già ottenute capre transgeniche in gradi di
secernere nel loro latte proteine del parassita responsabile della
malaria, da utilizzare per la vaccinazione dei bambini.

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Come si ottengono le piante transgeniche


Una delle prime applicazioni dell’ingegneria genetica ha riguardato il
trasferimento di geni tra specie vegetali non incrociabili.
Da almeno 10.000 anni le piante coltivate vengono modificate al fine di
renderle sempre più adatte alle esigenze dell’uomo. I primi agricoltori
miglioravano le colture semplicemente selezionando i semi di piante
che avevano i caratteri desiderati; nell’ultimo secolo, dopo le definizioni
delle leggi fondamentali della genetica da parte di Gregor Mendel, il
miglioramento vegetale è avvenuto secondo procedimenti sempre più
rigorosi. Si sono così ottenuti risultati molto significativi incrociando
piante sessualmente compatibili (incrocio intraspecifico), selezionando
piante mutanti naturali e inducendo mutazioni con agenti chimici
(sostanze mutagene) o fisici (radiazioni ultraviolette, raggi x o raggi
gamma). Si è scoperto e applicato al miglioramento genetico il fenome-
no della poliploidia e si è sfruttato il fenomeno della eterosi. (7)

Quali rischi dalle piante GM?


Prima di affrontare lo scottante argomento, dobbiamo fare una pre-
messa: agricoltura non è natura. Da quando è nata, ma soprattutto
nell’ultimo secolo, agricoltura significa distruzione di foreste e di luo-
ghi naturali per far posto ai campi, riduzione della biodiversità, sovver-
timento degli equilibri biologici, inquinamento
ambientale. L’aumentata coscienza di tutto ciò
ci porta oggi a cercare di limitare gli aspetti
negativi dell’agricoltura intensiva. Le piante
transgeniche non sfuggono a questa esigenza
e se ben progettate potrebbero risolvere alcu-
ni problemi tradizionali. Tuttavia, il messaggio
che arriva all’opinione pubblica europea è che le piante GM sono trop-
po pericolose e, quindi, inaccettabili. E’ davvero così? Dobbiamo
ammettere che non esiste tecnologia esente da rischi. Accettiamo
un’innovazione quando riteniamo che i rischi siano inferiori ai benefi-

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ci. Così è per gli aerei e per le automobili, che pure sono causa di
migliaia di morti all’anno, o per la penicillina che salva milioni di vite,
anche se, qualche volta, uccide per shock anafilattico. Non sfugge a
questa regola l’agricoltura: può avvelenarci e inquinare l’ambiente con
fitofarmaci e fitoregolatori, scatenare allergie, trasmetterci veleni e
tossine fungine, ridurre la biodiversità naturale. L’agricoltura “biologica”
è esente dal primo di tali pericoli, non certo dagli altri. Il fatto è che i rischi
dell’agricoltura sono considerati accettabili in rapporto ai benefici.
Perché dunque pretendere che solo le piante transgeniche siano
assolutamente esenti da rischi? Una proposta sensata sembra quella
che stabilisca che il massimo livello di rischio accettabile per tale tipo
di piante sia lo stesso di quelle tradizionali. Potremmo anche chiede-
re alle nuove tecnologie di abbassare questo livello, ma è utopistico
pretendere che le piante transgeniche siano del tutto innocue!
Ma vediamo quali sono le cause mosse alle piante geneticamente modi-
ficate: effetti tossici sull’uomo, danni per l’ambiente, inutilità per i paesi ric-
chi, incapacità di risolvere il problema della fame nel mondo, pericolosa
gestione commerciale. E’ evidente che molti dei rischi loro attribuiti siano
comuni alle altre piante coltivate; però le piante transgeniche hanno un
potenziale fattore di rischio in più: il gene esogeno (estratto).
Qual è la sua pericolosità?
Cominciamo dai dubbi relativi alla salute dell’uomo. Le piante transge-
niche vengono accusate di scatenare allergie alimentari. In realtà, già
oggi, in tutto il mondo, il 2-4 per cento dei bambini e l’1-2 per cento
degli adulti soffre di allergie scatenate da proteine contenute nel cibo,
soprattutto soia, latte vaccino, uova, farina, riso, noci, arachidi, pesci
e crostacei. L’unica cura efficace è evitare tali cibi.
Nel caso delle piante transgeniche, il gene esogeno potrebbe effetti-
vamente codificare per una proteina allergenica; le legislazioni dei
diversi paesi prevedono che si analizzino preventivamente: la fonte
del gene, si richiedono i parametri fisico-chimici della proteina specifi-
cata dal gene (somiglianza con proteine allergeniche, stabilità alla
digestione e alla cottura), gli effeti del gene esogeno sulla produzione
degli allergeni endogeni della pianta ospite ed i risultati di saggi in vitro
(test cutanei, simulazione alimentare).
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Esempio del Wafer Loacker

Il problema della qualita’


Questo è un argomento che riguarda da vicino il nostro paese, che
privilegia prodotti vegetali di alta qualità. Ma quale tipo di agricoltura
può assicurare sopravvivenza e competitività al prodotto pregiato:
l’agricoltura tradizionale, quella biologica o quella biotecnologica? La
realtà è che non esiste una strategia che abbia tutte le soluzioni in
tasca. E’ errato pensare che l’agricoltura biologica possa risolvere tutti
i problemi, così come lo è per le biotecnologie.
La cooperazione potrà moltiplicare i vantaggi. L’agricoltura biologica
intende ridurre o eliminare la fertilizzazione chimica del suolo e gli
interventi chimici di protezione della pianta. Ma rimane il problema che
spesso le piante tradizionali hanno difetti genetici: sono sensibili a
insetti, funghi, virus, gelo, siccità, sale. Le biotecnologie possono
introdurre un gene che corregga i singoli difetti, mantenendo inaltera-
te le qualità organoelettriche del prodotto. Con piante così migliorate
avremmo genotipi ottimali per l’agricoltura biologica. La produttività
sarebbe mantenuta a livelli accettabili, mentre sarebbe ridotta la pro-
duzione di tossine e aflotossine (sostanze cangerogene prodotte dalle
muffe per ossidazione della matrice oleosa).
Un esempio di interazione positiva tra un prodotto di qualità e le biotec-
nologie è rappresentato dal pomodoro San Marzano. Questa vera e pro-
pria gloria nazionale potrebbe presto sparire dalle nostre mense perché

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un virus, il CMV, distrugge oggi sino al 40 per cento del raccolto. Il pro-
blema è già stato affrontato dalla ricerca italiana, integrando nel DNA del
pomodoro, in orientamento <<antisenso>>, una sequenza del virus che
codifica per la proteina dell’involucro. Il San Marzano esente da infezio-
ni virali è già pronto, ma è stato bloccato perché transgenico!
Un secondo esempio: la coltivazione del
melo tipico della Valle d’Aosta è messa a
rischio dalle larve di un insetto, Melolontha
melolontha, che, mangiando le giovani
radici, impedisce la messa a dimora di
nuovi impianti. Anche in questo caso, entro
pochi anni questa coltivazione, con tradi-
zioni secolari, diverrà un ricordo. Si può
rimediare sfruttando il fatto che il melo è
costituito da una porzione radicale (il por-
tainnesto) e da una aerea (la varietà che
produce il frutto). Integrando un gene Bt
nel portainnesto, preferibilmente con pro-
motore inducibile da ferita, si otterrebbero
radici resistenti all’insetto, mentre la parte
aerea resterebbe la stessa.
Chi teme effetti negativi e inaspettati dalle
biotecnologie parla della possibilità che il
gene esogeno interferisca con il resto del genoma. In realtà, da un
punto di vista scientifico, è senz’altro più prevedibile il comportamen-
to di un gene isolato, caratterizzato e trasferito in una pianta, rispetto
a un mutante ottenuto per mutagenesi chimica o indotta da radiazio-
ni, o a un nuovo ibrido ottenuto incrociando due piante.
L’integrazione del gene esogeno avviene, per ora, in siti apparente-
mente causali del genoma vegetale e quindi si teme che ciò possa
scatenare inattivazione di geni utili. Ma tali fenomeni avvengono natu-
ralmente e spesso nelle piante, sia in seguito a stress biologici, clima-
tici o di altra origine, sia come conseguenza di operazioni di migliora-
mento genetico tradizionale.

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Quale agricoltura per il mondo?


La popolazione mondiale aumenta, mentre la terra coltivabile diminui-
sce a causa delle crescenti siccità, salinità, urbanizzazione. Dopo il
2030 è previsto il tracollo: anche assumendo una distribuzione equa-
nime dei prodotti, tutta la superficie coltivabile non sarà più in grado di
produrre sufficiente cibo per gli 8-9 miliardi di persone previsti.
Non vi saranno alternative: ogni campo coltivabile dovrà produrre il
doppio di quanto oggi faccia.
E ciò dovrà avvenire nel rispetto dell’ambiente e con minor ausilio
della chimica (insetticidi, diserbanti, fungicidi, fertilizzanti, fitofarmaci).
Dovremo dotarci di piante capaci di crescere in suoli aridi e salini, resi-
stenti a insetti, funghi e virus patogeni, più efficienti nello sfruttare i fer-
tilizzanti naturali e le simbiosi con i microrganismi del suolo. Il mondo
scientifico denuncia il fatto che il miglioramento genetico tradizionale,
basato su incroci, mutazioni e uso di ibridi ad alta produttività, non può
offrire tutte le soluzioni.
In ogni modo, l’approvazione caso per caso delle piante GM da parte
degli organismi di controllo ci permetterà di selezionare per la coltiva-
zione solo quelle piante per cui si sia verificato un favorevole rappor-
to tra benefici e rischi. (8)

Nel carrello della spesa


I cibi transgenici, contenenti cioè vegetali e altri organismi arricchiti
con geni estranei al loro patrimonio ereditario, sono già presenti nei
prodotti in vendita ai supermercati. Lo possiamo ipotizzare, ma non
possiamo saperlo con certezza, perché l’etichetta, nonostante sia
obbligatoria dal 10 aprile 2000, non si vede ancora. Alcune organizza-
zione (come le associazioni ambientaliste e quelle dei consumatori)
hanno stilato una prima lista di alimenti modificati con l’ingegneria
genetica. Scorrendola troviamo patatine fritte, cracker, biscotti, pastic-
cini, barrette di cioccolato, dessert e gelati confezionati, piatti cucina-
ti, paste e pizza precotte, condimenti, salse, bevande e alimenti per

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l’infanzia. La maggioranza di questi alimenti utilizza come ingrediente


la soia e i suoi derivati (olio, latte, lecitina, sostituti della carne) e il
mais (soprattutto amido e farina).
Insieme con il mais (destinato prevalentemente al bestiame), la soia
è la coltura più interessata dalla rivoluzione biotecnologica: commer-
cializzate negli Stati Uniti nel 1995, le due colture geneticamente
modificate sono approdate in Europa nel 1996.
Sulla soia la posizione dominante è detenuta
dalla multinazionale Monsanto, nei cui labo-
ratori è stata ottenuta una nuova varietà che
resiste all’erbicida Roundup Ready, prodotto
dalla stessa società.
La Svizzera Novartis (ora Aventis), invece, ha
messo a punto una varietà di mais che, oltre
a tollerare una certa quantità di erbicidi, è
inattaccabile dalla piralide, un parassita capa-
ce di devastarne i raccolti. Le nuove varietà sono state ottenute mani-
polando il loro patrimonio genetico, cosa che ha consentito alle due
multinazionali di brevettare le sementi.
In questo settore sono impegnati anche altri colossi della agrochimi-
ca, come la Du Pont, la AgrEvo e la Zeneca, che hanno brevettato vari
vegetali transgenici: dal cotone alla colza, dalle patate ai pomodori,
ma anche tabacco, melone, riso, barbabietole.

La geografia delle coltivazioni transgeniche


Le colture delle nuove varietà GM si sono estese molto rapidamente
fino alla fine del 1999. Con il 2000, invece, si è avuta una battuta d’ar-
resto della produzione: la superficie agraria nel 2000 ammontava a 42
milioni di ettari, un’estensione quasi uguale a quella del 1999, anno in
cui si era verificato il grande salto rispetto ai 12,8 milioni del 1997 e i
18 milioni del 1996.
La schiacciante maggioranza delle coltivazioni si trova negli Stati
Uniti, seguita dall’Argentina e dal Canada e per il 99% si tratta di col-
ture a mais e soia. In Europa non esistono ancora colture commercia-

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li dei nuovi vegetali, oggetto di una moratoria di fatto decretata da


Bruxelles nel rispetto del principio di precauzione e in attesa della
revisione del Regolamento n. 220/90.
In Italia, in particolare, esistono solo campi sperimentali, dove vengo-
no messe alla prova varianti transgeniche di diverse piante, modifica-
te in modo da ottenere la resistenza ai parassiti o agli erbicidi, il cui
brevetto è proprietà di qualche grande industria chimica non italiana,
come Aventis, Monsanto o Pioneer. Si sperimentano ibridi di barba-
bietole, patate, pomodori, radicchio e tabacco, oltre alle più diffuse
piante di mais e soia, con geni modificati per migliorarne la qualità
industriale, per rallentare la marcescenza o sincronizzare la matura-
zione - ai fini della raccolta meccanica - o anche per aumentarne la
resistenza alle malattie. I campi, sparsi in tutta la penisola, sono tal-
volta dati in gestione ad aziende agricole private mentre altre volte
sono proprietà di centri studi, come per esempio, quello dell’Istituto
sperimentale per la cerealicoltura di Bergamo o quello, in provincia di
Vicenza, dell’istituto di genetica e sperimentazione agraria.

Situazione attuale e prospettive


Secondo le aziende agrobiotecnologiche questa è solo la prima gene-
razione di “nuovi cibi” caratterizzata dal trasferimento di pochi geni e
da vantaggi che riguardano più i produttori che i consumatori.
Tuttavia, con il progresso delle ricerche, si prevede che entro pochi
anni sarà disponibile una seconda generazione di prodotti transgenici
rivolti essenzialmente al miglioramento qualitativo dell’alimentazione
e a specifiche finalità terapeutiche. Tra questi si
annoverano frutta e verdura con un contenuto
aumentato di vitamine, cereali con più fibra, olii con
una prevalenza di grassi buoni su quelli cattivi; fino
a veri e propri farmaci come la banana che contiene
il vaccino per l’epatite B e la patata che debella le
infezioni da Escherichia coli. Infine, si prevede che per il 2015 saran-
no pronte piante transgeniche in grado di produrre plastiche biodegra-
dabili, carburanti e altri materiali di interesse industriale.

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Recentemente è stata annunciata sulla rivista “Nature Biotechnology”


la messa a punto di una patata transgenica che stimola l’organismo a
produrre anticorpi contro l’epatite B. Anche le tecniche di manipolazio-
ne genetica sono destinate a subire drastici cambiamenti nei prossimi
anni. Grazie anche alle critiche cui sono state sottoposte, si stanno
facendo strada nuovi metodi che sembrano prefigurare una biotecno-
logia più sostenibile. Anziché trapiantare geni estranei nel DNA della
pianta questa nuova corrente si impegna a modulare il genoma vege-
tale senza inserire alcunché di nuovo o di estraneo. (9)

Valutare i rischi dei cibi OGM


Uno dei maggiori problemi legati all’impiego di prodotti alimentari conte-
nenti DNA derivato da organismi geneticamente modificati riguarda la
possibilità che il DNA transgenico dell’alimento passi nei tessuti di chi
se ne ciba. Ora si sta mettendo a punto un metodo per valutare gli even-
tuali rischi che un’alimentazione contenente cibi transgenici potrebbe
comportare. Il DNA estraneo potrà essere svelato contrassegnandolo
con un marcatore, la proteina GFP (Green Fluorescent Protein).
La proteina GFP ha la proprietà di emettere una fluorescenza verde
brillante quando viene esposta ai raggi ultravioletti o alla luce blu. La
proteina fluorescente segue il percorso del DNA ingerito con la dieta
in animali utilizzati nella ricerca.
Pertanto, questa analisi, eseguita presso i laboratori di biologia mole-
colare dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e di
Piacenza, evidenzia come frammenti di DNA vegetale siano rintrac-
ciabili in animali, e pertanto valuta i rischi legati specificamente ad una
alimentazione contenente DNA transgenico. Con questa tecnica i
ricercatori cercheranno di dare le seguenti risposte:
1) se il transgene, o frammenti di DNA parzialmente digeriti, possano
passare la barriera intestinale ed entrare quindi in circolo.
2) se il materiale genetico, eventulamente assorbito dall’organismo,
possa accumularsi nei tessuti e penetrare all’interno delle cellule.

48
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3) se il DNA estraneo, una volta presente nella cellula, possa inte-


grarsi nel genoma.

Nel contempo si verifica se il transgene viene completamente distrut-


to dai processi digestivi e se la barriera intestinale non permette il pas-
saggio del DNA transgenico. Solo in tal modo si può verificare la sicu-
rezza di tali prodotti ed escludere con ragionevolezza che alimenti già
ampiamente diffusi tra i consumatori possano comportare nel lungo
periodo ipotetici rischi per la salute. (10)

Commissione europea e ogm


A livello europeo il processo di elaborazione di una normativa sulla
sicurezza delle biotecnologie che conciliasse le esigenze di tutte le
parti sociali interessate (industria, ambientalisti, consumatori), è stato
accompagnato da un lungo e notevole dibattito, soprattutto all’interno
del Parlamento Europeo, sfociato nel 1990 nell’approvazione delle
prime due Direttive.
Ci sono voluti infatti ben cinque anni e 14 versioni prima di poter giun-
gere alla stesura definitiva del regolamento comunitario 258/97 su
nuovi cibi e nuovi ingredienti.
Il regolamento, che a differenza delle direttive non richiede una legge
nazionale di recepimento, è infine entrato in vigore il 15 maggio 1997
in tutti gli Stati membri della Comunità disciplinando il commercio degli
OGM e rendendo obbligatoria l’etichettatura degli alimenti transgeni-
ci, ma solo per quelli che, rispetto ai corrispettivi tradizionali, presen-
tano sostanziali differenze nella composizione, nelle caratteristiche
nutrizionali o in eventuali rischi per la salute.
L’anno successivo è stato emanato un altro regolamento (1139/98)
che vale solo per mais e soia transgenici. Le nuove regole impongo-
no di riportare sull’etichetta di tutti quei prodotti che contengono que-
sti ingredienti la frase “Prodotto da soia (o mais) geneticamente modi-
ficata”. Sono esentati solo quei prodotti alimentari che, per la partico-
lare lavorazione a cui sono stati sottoposti, non contengono più trac-
ce di DNA o di proteine transgeniche (nel caso della soia: l’olio, la leci-
tina e altri derivati).
49
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Di recente approvazione sono i regolamenti CE 49 e 50, entrati in vigo-


re il 10 aprile 2000. Essi prevedono l’obbligo di etichetta per tutti gli ingre-
dienti (49/2000) o additivi e aromi (50/2000) che contengono organismi
geneticamente modificati. L’obbligo non vale se il prodotto contiene
derivati di organismi geneticamente modificati in una percentuale
non superiore all’1% quando sia dimostrato trattarsi di una “contamina-
zione accidentale”, avvenuta per esempio durante la fase di trasporto.
Una soglia questa molto contestata, insieme con la difficoltà di indivi-
duare e tenere sotto controllo lungo tutta la filiera alimentare, organi-
smi geneticamente modificati.
Le forti pressioni esercitate dai cittadini e dai comitati dei consumato-
ri hanno portato a una nuova proposta, formulata il 25 luglio 2001
dalla Commissione Europea, il cui intento è di rafforzare la fiducia dei
consumatori rendendo obbligatoria la rintracciabilità degli organismi
geneticamente modificati nonché la chiara ed esaustiva etichettatura
di tutti i prodotti destinati all’alimentazione umana e animale ottenuti a
partire da o contenenti OGM. Queste proposte, che vanno a comple-
tare la revisione della direttiva 220/90 e sono entrate in vigore nel
2003, hanno permesso la riapertura del mercato comunitario della
commercializzazione dei prodotti GM congelata, nel rispetto del prin-
cipio di precauzione, dal 1999.
Oggi è libera scelta del consumatore acquistare o no alimenti GM,
anche se l’impossibilità di garantire il grado di assoluta purezza duran-
te la coltivazione e la lavorazione fa si che venga tollerata la presen-
za di materiale geneticamente modificato, purché non venga
comunque superato un valore di soglia fissato nell’1%. (11)

BSE e Aviaria
Nel 2005 la comunità europea ha riammesso il commercio della
bistecca con osso (“la fiorentina”), vietata per il principio di precauzio-
ne “per il caso BSE”, e ha confermato la sicurezza alimentare della
filiera avicola italiana, “per il caso aviaria”.
Ritengo opportuno “per i due casi” di darne un’informazione scientifi-
ca valida.
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Cos’è la BSE?
L’Encefalopatia Spongiforme Bovina (BSE), nota comunemente come
“malattia della mucca pazza” è una malattia neurologica di tipo degene-
rativo ad esito fatale che colpisce i bovini. Si tratta di un tipo di patologia
che appartiene ad un gruppo di malattie provocate dai “prioni”, conosciu-
te con il nome di Encelopatie Spongiformi Trasmissibili (TSE). Le TSE
sono malattie mortali che provocano una degenerazione del cervello,
trasformandolo in una massa spugnosa, e
gravi problemi neurologici.
L’origine della BSE è tuttora sconosciuta.
Secondo una teoria, l’agente responsabi-
le del morbo è rappresentato da “prioni
modificati trasmissibili” capaci di interagi-
re con i prioni normali (proteine presenti in
natura, soprattutto nel cervello ma anche
in altri tessuti di esseri umani e animali) e di indurli a trasformarsi in
“prioni trasmissibili”. Si ritiene che anche altri fattori siano coinvolti
nello sviluppo della BSE e le ricerche in questo campo continuano.
La modalità di trasmissione non è stata determinata
La modalità di trasmissione della BSE non è ancora stata determina-
ta. Si ritiene al momento che i bovini possano essere stati infettati dal
morbo attraverso l’assunzione di farine di carne e ossa o di mangimi
ricavati da carcasse di animali affetti da BSE. Non si escludono altre
possibili modalità di trasmissione del morbo.
Nel Regno Unito, dopo la crisi del 1992, l’incidenza della BSE ha mostra-
to ogni anno un significativo declino. Nel 1999, i casi resi noti erano
2.300; questa cifra scese a 1.443 nel 2000 e a 526 a settembre 2001.
Un numero molto inferiore di casi di BSE sono stati registrati in Austria,
Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania,
Grecia, Irlanda, Italia, Giappone, Liechtenstein, Lussemburgo, Paesi
Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna e Svizzera.
Ad oggi, la BSE è stata riscontrata solo nei bovini. Esiste il rischio teo-
rico che possa contagiare anche gli ovini, ma nessun caso di pecora
affetta da BSE è stato finora dimostrato, tranne casi sperimentali rea-
lizzati in condizioni particolari in laboratorio.
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Gli esseri umani possono contrarre la BSE?


Anche se nessuna relazione diretta di causa ed effetto è stata scientifi-
camente provata, si ritiene, sulla base di alcune scoperte neurologiche
e citologiche (tessuti), che possa esistere un legame tra BSE nei bovi-
ni e la variante umana della malattia di Creutzfeldt-Jakob (vMCJ).
Il primo caso di vMCJ fu riscontrato nel marzo 1996 nel Regno Unito.
La vMCJ, come la BSE, provoca alterazioni “spugnose” del cervello e
la sua conseguente degenerazione. Il morbo non è curabile ed è mor-
tale. Nel Regno Unito, fino al 6 febbraio 2002, si sono verificati 114
casi di vMCJ (106 confermati e 8 sospetti). In Francia, i casi di vMCJ
confermati sono 5 e uno in Irlanda. Ci sono altri due casi sospetti in
Francia e uno in Italia.
Il morbo della BSE non è stato riscontrato nella carne bovina e nel
latte vaccino.
Il “materiale specifico a rischio” (MSR) è costituito dalle parti del bovi-
no più sensibili al contagio del morbo della BSE e comprende il siste-
ma nervoso centrale, incluso il cervello, gli occhi e parte dell’intestino
crasso. Attualmente, il MSR è stato eliminato sia dalla catena alimen-
tare umana, che da quella animale. L’agente della BSE non è stato
riscontrato nei muscoli e nel latte e gli esperti dell’OMS
(Organizzazione Mondiale della Sanità) e dell’Unione Europea hanno
confermato che il latte e la carne bovina sono sicure.
Nonostante non sia possibile prevedere con esattezza l’incidenza
futura della vMCJ sugli esseri umani a causa del lungo periodo di
incubazione prima della manifestazione dei sintomi, attualmente, il
rischio di contrarre la vMCJ è molto basso. Oggi il rischio è sicura-
mente ridotto grazie all’applicazione di norme severe che regolamen-
tano l’uso dei mangimi per gli animali, ai test, alla macellazione, all’età
dei bovini macellati destinati al consumo umano e all’eliminazione di
ogni parte dell’animale esposto al contagio da BSE, il “materiale spe-
cifico a rischio”. Permangono comunque i quesiti sull’origine della
BSE e sul metodo di trasmissione. Per tale motivo la BSE sarà ogget-
to di intense ricerche negli anni a venire. (12)

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Cosa si intende per influenza aviaria?


L’influenza aviaria, o influenza dei polli, è un’infezione dovuta a un virus
appartenente alla famiglia degli Orthomyxoviridae che comprende
diversi tipi, tra cui l’ “influenzavirus A”. Quest’ultimo è diviso in sottotipi,
tra i quali l’H5 e l’H7. Questa infezione può colpire quasi tutte le specie
di uccelli, selvatici o domestici. Può essere
fortemente contagiosa, soprattutto tra polli e
tacchini, ed è suscettibile di causare una mor-
talità elevata in queste specie. Il virus dell’in-
fluenza aviaria può eventualmente infettare
altre specie animali, come il maiale o altri
mammiferi.
Si parla di epizoozia da influenza aviaria quando la malattia colpisce
brutalmente un gran numero di animali contemporaneamente in una
determinata regione.
Come si trasmette il virus negli animali?
Il virus si trasmette essenzialmente per vie aeree (secrezioni respirato-
rie) o per contatto diretto, in particolare tramite le secrezioni respiratorie
e le materie fecali degli animali malati, o in modo indiretto in seguito
all’esposizione a materie contaminate (cibo, acqua, materiale o vestiti
contaminati). Gli spazi chiusi facilitano la trasmissione del virus.
Il virus dell’influenza aviaria si può trasmettere dall’animale
all’uomo?
Il virus dell’influenza aviaria di tipo A (H5/N1) si può trasmettere dal-
l’animale all’uomo, in situazioni assai particolari per condizioni di vita
e di igiene, come confermato dai vari casi analizzati in Asia a partire
dal gennaio del 2004, e casi di trasmissione analoga registrati in Cina
nel 1997 (“influenza del pollo a Hong Kong) con un virus A (H5/N1).
La contaminazione è aerea, ma avviene solamente in caso di contat-
ti (ravvicinati, prolungati, ripetuti, che avvengono nell’ambito di spazi
chiusi) con secrezioni respiratorie o deiezioni di animali infetti, per via
diretta o indiretta (superficie e/o mani sporcate dalle deiezioni).
Il virus dell’influenza aviaria si può trasmettere da uomo a uomo?
Una trasmissione secondaria dall’uomo all’uomo è teoricamente pos-

53
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sibile, ma rimane eccezionale [3 casi tra membri di una stessa fami-


glia documentati nei Paesi Bassi nella primavera 2003 con il virus A
(H7/N7]. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), non
esistono prove, almeno fino ad oggi, di una trasmissione interumana
significativa in Asia.
Quali sono i segni clinici della malattia nell’uomo?
Secondo l’OMS, dopo un periodo d’incubazione che può durare fino a
sette giorni, la malattia si presenta dapprima come una banale influen-
za (febbre sopra i 38° associata a forti mal di gola, dolori muscolari e
disturbi respiratori come la tosse), ma si aggrava rapidamente a
causa di gravi disturbi respiratori.
Esistono test di diagnosi rapida della malattia nell’uomo?
Esistono test di diagnosi rapida dell’influenza che permettono sempli-
cemente di confermare o meno l’esistenza del virus influenzale, senza
poter precisarne il tipo.
Esiste un vaccino efficace per l’uomo? Se no, quando potrà
essere disponibile?
Il vaccino contro l’influenza stagionale, che viene elaborato ogni anno,
non protegge contro il virus dell’influenza aviaria. Il vaccino diretto
contro il virus H5N1 attualmente sperimentato in Asia (chiamato “vac-
cino prepandemico”) potrebbe essere utilizzato per vaccinare da una
parte i professionisti della salute che si trovino a curare le persone
malate provenienti dall’Asia, dall’altra gli operatori professionali in
contatto con allevamenti colpiti dal virus attualmente in circolazione in
Asia. In caso di pandemia, questo vaccino sarebbe efficace solo nel-
l’ipotesi in cui il nuovo virus sia simile al virus prepandemico attual-
mente conosciuto (H5/N1).
Un vaccino efficace potrà essere fabbricato soltanto quando il ceppo
del virus responsabile della pandemia sarà conosciuto e isolato. I
tempi di fabbricazione richiederebbero diversi mesi a partire dall’inizio
della pandemia.
Esiste un trattamento preventivo efficace per l’uomo?
Non esiste un trattamento preventivo contro l’influenza aviaria; tutta-
via, in alcune circostanze particolari, un trattamento antivirale post-

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esposizione con “oseltamivir” (Tamiflu) potrebbe essere proposto.


Esiste un trattamento curativo efficace per l’uomo?
Il trattamento è prima di tutto sintomatico. Il trattamento antivirale,
oseltamivir (Tamiflu), permette di attenuare i sintomi e le complicanze
della malattia.
È efficace soltanto se somministrato nelle 48 ore che seguono l’inizio
dei sintomi.
Le autorità sanitarie preparano un piano di utilizzo di queste medici-
ne. Gli antibiotici, inattivi contro i virus, non sono usati che in caso di
sovrinfezione batterica.
Esiste un rischio di contaminazione legato al consumo di polla-
me o di uova?
La trasmissione del virus dell’influenza aviaria avviene per via aerea.
Il rischio di contaminazione dell’uomo tramite ingestione di carni infet-
te è considerato debole, perfino trascurabile e finora non si è mai veri-
ficata. L’infettività del virus, infatti, si distrugge rapidamente a tempe-
rature superiori ai 60° (5 minuti a 60°, 1 minuto a 100°).
Cosa significa il termine pandemia influenzale?
Una pandemia influenzale si definisce come un forte aumento, nello
spazio e nel tempo, dei casi di influenza, che finisce per diffondersi in
molti Paesi, accompagnata da un numero elevato di casi gravi e da
un’elevata mortalità. La pandemia è una conseguenza dell’introduzio-
ne nella specie umana, il più delle volte a partire da un serbatoio ani-
male, di un virus influenzale totalmente nuovo, nei confronti del quale
la popolazione non è ancora immunizzata.
Qual è la differenza tra pandemia ed epidemia?
Pandemia ed epidemia si definiscono entrambi come un forte aumen-
to, nello spazio e nel tempo, dei casi di una malattia. La differenza sta
nell’estensione e nella gravità del fenomeno: la pandemia è caratte-
rizzata sia da un numero importante di casi gravi sia da una mortalità
elevata e simultanea in diversi Paesi.
Siamo già allo stadio della pandemia influenzale?
Tecnicamente siamo in fase di pre-pandemia dal dicembre 2003 (casi
umani d’infezione da virus aviario in Asia), ma il verificarsi di una pan-

55
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demia è ancora da considerarsi una possibilità solo teorica. La morta-


lità dovuta a questo virus è relativamente elevata (54 decessi su 108
notificati all’OMS al 28 giugno 2005), ma la trasmissione virale rima-
ne confinata al possibile contagio dall’uccello all’uomo in caso di con-
tatti ravvicinati, e non esiste trasmissione interumana significativa.
L’ultimo livello prima della fase pandemica sarebbe raggiunto sola-
mente nel caso in cui il nuovo virus riuscisse ad acquisire una capa-
cità di trasmissione interumana. (13)

Prodotti tipici
DOP - Denominazione di Origine Protetta
Sono prodotti strettamente legati alla regione da cui sono originari. Le
materie prime originarie e la loro trasformazione sono effettuate nella
regione di cui il prodotto porta il nome. Le qualità organolettiche e le
caratteristiche particolari sono date dall’ambiente (clima, qualità del
suolo, fattori umani, conoscenze tecniche e del territorio).
Dal 15 settembre 2005 è stato riconosciuto dal Ministero delle
Politiche Agricole e Forestali la denominazione “Gran Suino Padano”.
Si tratta della carne fresca del suino tradizionale italiano, che è inse-
rito nel circuito DOP, nella cui produzione convengono gli stessi ele-
menti di tutela qualitativa, tracciabilità, controllo e garanzia che carat-
terizzano la materia prima dei salumi a denominazione di origine, a
partire dai prosciutti di Parma e di San Daniele.
Nel 2005 i suini macellati nell’ambito del circuito Parma e San
Daniele, che equivale al circuito del Gran Suino Padano, sono stati
8.964.496 pari a circa il 68% del totale dei capi macellati in Italia.
Le imprese interessate a questo prodotto ammontavano nel 2005 a
5.252 allevamenti e 135 stabilimenti di macellazione e sezionamento.
L’azienda Martini è fra queste imprese e garantisce la qualità di pro-
duzione attuando un sistema di rintracciabilità del singolo suino alle-
vato e degli alimenti consumati attraverso una modulistica in grado di
seguirlo fino l’intero percorso di trasformazione delle sue carni.

56
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L’assistenza tecnica è tale da rendere possibile il monitoraggio per


l’allevatore, nonché appropriata per gli organismi di controllo. Il siste-
ma, prevedendo la verifica e il calcolo del bilancio dell’azoto azienda-
le, permette la verifica della “buona pratica agricola” adottata dal-
l’azienda per prevenire e/o ridurre le emissioni di inquinamento
ambientale (Direttiva 96/61 CE).
Il consorzio Fossa di Sogliano ha richiesto al Ministero l’attribuzione della
DOP.
Ogni anno a Sogliano vengono infossati 3.000 quintali di formaggio. Il
formaggio viene infossato in 45 fosse in agosto e in primavera. Ogni
fossa è profonda 2,70 metri e viene infossato il formaggio stagionato
per due mesi, ottenuto dal latte di mucche e pecore al pascolo nei
mesi di aprile e maggio.
Il fondo della fossa, prima di essere riempito dal formaggio, viene
aperto, aerato, pulito, sterilizzato e asciugato con la fiamma; viene
fatta un’intelaiatura di canne separata dalla parete laterale di tufo da
un’intercapedine di circa 10 cm riempita di paglia. Il fondo è coperto
da una pedana in legno, per lasciare spazio al liquido che cola dal for-
maggio.
Il formaggio, prima dell’infossatura, viene messo
in appositi sacchi di tela e contrassegnato con un
numero che corrisponde al proprietario e viene
ritirato all’apertura della fossa dopo tre mesi.
Il “fossa” è un prodotto sano per il metodo di sta-
gionatura in ambiente senza ossigeno, con fer-
mentazione battericida, alta digeribilità, sapori e aromi unici. Viene uti-
lizzato nell’impasto dei passatelli, per condire gnocchi di patate,
tagliatelle, trippa, fagioli, piatti freddi. È buono con il miele, confetture
e con la piadina calda. Tutte le fosse sono autorizzate e controllate
dall’Azienda USL.

IGP - Indicazione Geografica Protetta


Questa definizione indica che una delle fasi di produzione deve avve-
nire nella zona delimitata, pertanto le materie prime possono arrivare

57
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da altri territori, perché il


legame con la regione è
meno rigoroso.
Salumi IGP come lo speck
dell’Alto Adige sono prodotti
secondo precisi disciplinari,
ma le carni possono arrivare
da altre zone.
I prodotti tipici sono alimenti
ottenuti con ricetta specifica
che garantisce un metodo
tradizionale.
Il prodotto tipico è ottenuto
con materie prime tradizio-
nali o ha una composizione
tradizionale; oppure può
essere ottenuto con metodo
di produzione o trasforma-
zione tradizionale, il nome
del prodotto non deve avere
riferimenti geografici.
Es.: la casatella (formaggio
fresco di gusto vellutato,
pasta cremosa e leggera). Lo
squacquerone (formaggio
cremoso con sfumature aro-
matiche).
DOC - Denominazione di
Origine Controllata
Questa denominazione,
come prevede il regolamen-
to comunitario, è riservata
solo ai vini.
Il vino DOC deve sempre
essere ottenuto in quantità
58
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prestabilite, da uve di una zona geografica ben delimitata; ha una


serie di regole che ne definiscono le caratteristiche.
DOC e VQPRD (vini di qualità prodotti in regioni determinate) sono
diciture equivalenti.
DOCG (denominazione di origine controllata e garantita) indica vini
con disciplinari più restrittivi.
I DOC sono centinaia, i DOCG sono pochi: Barbaresco, Brunello di
Montalcino, Barolo, Chianti ecc.
Le 4 classificazioni del Sangiovese di Romagna
Attualmente sono quattro le classificazioni previste nel disciplinare di pro-
duzione del Sangiovese di Romagna, la cui denominazione di origine con-
trollata (doc) venne istituita il 9 luglio del 1967. Fu quindi tra le prime doc
italiane se si considera che la legge di costituzione delle doc risale al 1963.
Sangiovese di Romagna Novello
È caratterizzato dalla sua immediata immissione sul mercato. Almeno
il 59% subisce la macerazione carbonica delle uve, deve avere gra-
dazione alcolica di almeno 11% vol.
Sangiovese di Romagna
L’immissione sul mercato non è legata a nessuna tempistica, ma la
sua gradazione non supera gli 11,5% vol.
Sangiovese di Romagna Superiore
Superiore vuol dire che le uve sono coltivate a sud
della Via Emilia, l’antica strada romana voluta nel 187
a. C. dal console romano Marco Emilio per congiun-
gere Rimini con Piacenza (e in seguito anche
Milano). Più precisamente, è “Superiore” il
Sangiovese che proviene da questa ristretta fascia
collinare particolarmente vocata e, comunque, con
un contenuto alcolico non inferiore a 12% vol. Non
può essere messo in commercio prima del 1° aprile
dell’anno successivo alla vendemmia.
Sangiovese di Romagna Superiore Riserva
Quando si aggiunge la dicitura “Riserva” vuol dire che il vino resta in
maturazione e affinamento almeno due anni, infatti va sul mercato non
prima del 1° dicembre del secondo anno successivo alla vendemmia.
59
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In tutte le varianti, il Sangiovese deve essere in una percentuale mini-


ma dell’85%.
L’Ente tutela vini di Romagna
Sorto nel 1962, l’Ente tutela vini di Romagna è un consorzio di canti-
ne che producono, imbottigliano e commercializzano vini di Romagna
a denominazione di origine controllata e controllata garantita.
Scopi principali di questo Ente sono la tutela e la valorizzazione dei
vini di Romagna.
Le aziende associate sono 102 così distinte: 11 cantine sociali; 77
produttori vinificatori; 14 aziende imbottigliatrici.
L’Ente tutela vini di Romagna è uno dei consorzi che ha ottenuto dal
Ministero delle Politiche Agricole l’incarico di vigilanza sui vini a deno-
minazione di origine, prodotti dai propri soci.
Il marchio che contraddistingue la produzione controllata è “il
Passatore” per cui oggi i vini di Romagna sono meglio conosciuti
come i “Vini del Passatore”.

Conclusione
Le informazioni riportate nei vari capitoli di questo quaderno eviden-
ziano come solo una produzione agroalimentare che rende disponibi-
le materie prime prive o con tracce di contaminanti può garantire una
nutrizione sana e può essere definita agricoltura sostenibile e pertan-
to ecocompatibile.

60
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BIBLIOGRAFIA:

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contro i tumori, 1990
2-4-6 Agricoltura sostenibile mediterranea, osservatorio agroalimenta-
re - Cesena 1998
3 VIGHI MARCO, Stima del rischio ambientale da prodotti fitosanita-
ri, osservatorio ambientale 1999
5-11-12 Eufic Food Tooday European Food International Council
6 Dott. G. MISSIROLI, Che cos’è l’agricoltura biologica, “dire fare
mangiare, A.R.R.T. 2003” (ex Mustiola)
7 POLI G., Le biotecnologie innovative, Le Scienze Dossier n°10,
2001
8 F. SALA, Biotecnologie vegetali, tra rifiuto e accettazione, Le
Scienze Dossier n°10, 2001
9 L. CARRA, F. TERRAGNI, Tra sospetti ed entusiasmi, Le Scienze
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10 R. IADICICO, Valutare i rischi dei cibi OGM, Le Scienze Dossier
n°10, 2001
13 Comitato Scientifico di Aukan Sma

61
libretto 5 - Agricoltura sostenibile 22-05-2006 12:30 Pagina 62

SEDI PRESSO LE QUALI L’A.R.R.T. SVOLGE


PREVENZIONE ONCOLOGICA:
• CESENA: Poliambulatorio privato A.R.R.T.- Via Cavalcavia, 288
Tel. 0547 29125

• FORLÍ: c/o Poliambulatorio Sanità Amica – Via Punta di Ferro, 2


Prenotazioni 0543 774513 oppure Sig.ra Annalisa Bertozzi 335 8051443

• CESENATICO: c/o Ospedale G. Marconi - Via C. Abba, 102


Prenotazioni: 0547 29125

• GAMBETTOLA: c/o Croce Verde - Via Don Minzoni, 5/B


Prenotazioni: 0547 29125

• MERCATO SARACENO: c/o Consultorio - Prenotazioni: Sig.ra Ivana


Baiardi 0547 692317 - Sig.ra Loretta Mengozzi 0547 91870

• MONTIANO: c/o AUSL - Prenotazioni: Sig.ra Franca Sabatini


Tel. 0547 51016

• SAN PIERO IN BAGNO: c/o Ospedale - Prenotazioni: CUP Ospedale


Tel. 0543 904111

• SARSINA: c/o Consultorio - Prenotazioni Sig.ra Marisa Giannini


Tel. 0547 94901

• SAVIGNANO SUL RUBICONE: c/o Ex Consultorio Via F.lli Bandiera, 15


Prenotazioni 0547 29125

• LUGO: c/o Poliambulatorio Sanità Amica – Via Toscanini, 12/c


Fusignano Prenotazioni 0545 52786 oppure Sig.ra Annalisa Bertozzi 335
8051443

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Eventuali offerte a sostegno dell’attività dell’Associazione pos-


sono essere effettuate tramite:

- Banca Popolare dell’Emilia Romagna - Sede di Cesena


IT 78 Q ABI 05387 – CAB 23901 – c/c n° 000000654297
- Cassa di Risparmio di Cesena - Agenzia 2
IT 40 C ABI 06120 – CAB 23932 – c/c n° 000000002023
- Banca di Cesena
IT 83 H ABI 07070 – CAB 23900 – c/c n° 000000060423

- C/c Postale 10889475

- Destinare il 5 per mille, firmando lo spazio riservato


alle ONLUS ed inserendo il codice 90001280404 nel
modello della dichiarazione dei redditi

(Le condizioni per la deducibilità dei contributi e donazioni di persone


fisiche ed imprese, a favore delle ONLUS, sono stabilite da D.Lgs. n°
460/97 e successive modifiche. Per usufruire di tale deducibilità il con-
tributo deve essere versato non in contanti, ma tramite bonifico ban-
cario, versamento postale, assegno bancario, assegno circolare e
carta di credito.)

Impaginazione e stampa
IL DIGITALE - Cesena 0547.630808
Stampato nel mese di maggio 2006

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libretto 5 - Agricoltura sostenibile 22-05-2006 12:30 Pagina 64

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