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1. Popolo
Rileggiamo le vicende di Rimini dopo l'Unità d'Italia, attraverso
qualche parola. Cominciamo da "popolo".
Piace ai politici, è tenuto d'occhio dai "pulizai". Novembre 1861 (il
regno d'Italia è nato il 17 marzo), viaggio inaugurale della ferrovia
Bologna-Ancona. Il re Vittorio Emanuele II sosta in stazione sul
mezzogiorno, per uno spuntino. Scrive Luigi Tonini: «Gran concorso di
gente, donne, popolo, ma pochissimi evviva».
Nel settembre 1888 un altro re, Umberto I, visita lido e Kursaal. Nel
luglio 1900 arriva l'anarchico Gaetano Bresci. Con la rivoltella
portata da Paterson (New Jersey). Come ricordava Guido Nozzoli, si
esercita nel cortile di palazzo Lettimi, sotto gli occhi di Domenico
Francolini, repubblicano poi socialista ed anarchico, che vi abita quale
marito di donna Costanza Lettimi.
Bresci è ospitato nel borgo San Giuliano dall'oste anarchico Caio
Zanni, arrestato dopo il regicidio (29 luglio) e trasferito al carcere di
San Nicola di Tremiti.
Da palazzo Lettimi (lo testimoniava una lapide dettata nel 1907 da
Domenico Francolini), s'erano mossi «nel 1845 gli audaci rivoltosi,
preludenti l'italico risorgimento», guidati da Pietro Renzi. Quando
«tutta Romagna ribolliva», e Rimini era «una delle città riscaldate» (L.
Tonini).
10 settembre 1912, è firmato il nuovo patto colonico riminese che
non soddisfa i socialisti e che (osserva «L'Ausa») è applicato da «troppo
pochi proprietari». Le agitazioni nelle campagne continuano e
sfociano nella «settimana rossa» (giugno 1914).
Il 25 luglio 1914 arrivano i deputati repubblicani. Sono contro
l'intervento a fianco dell'Austria. Il 26 Benito Mussolini grida
sull'«Avanti!» che dirige: «Abbasso la guerra!». Tocca al «proletariato
d'Italia» muoversi per non farsi condurre «al macello un'altra volta».
L'«altra volta» è la guerra di Libia. Anche per le imprese coloniali sono
morti molti nostri giovani: in Eritrea, in Somalia (Carlo Zavagli è il
più noto) ed in Libia.
Il 2 agosto Roma sceglie la neutralità. Mussolini dal suo nuovo
giornale «Il Popolo d'Italia» vuole l'intervento. Per realizzare la
rivoluzione sognata durante la «settimana rossa».
«L'Ausa» lo definisce «un ciarlatano ombroso e un arrivista qualunque»
da fischiare e spazzar via. Prima lo aveva elogiato come «battagliero
nemico delle ipocrisie e delle mezze coscienze, pieno di rude
franchezza romagnola».
Il pomeriggio del 23 maggio 1915 i carabinieri a cavallo annunciano a
tromba la guerra. Rimini avrà 644 caduti.
2. Folla
Alla folla oceanica del fascismo si arriva dopo la "grande guerra". I
marinai sono i primi a rimetterci. Tra i più anziani c'è chi distrugge
«quei trabaccoli la cui costruzione era costata lunga fatica e penosi
sacrifici» (G. Facchinetti).
Il biennio 1919-1920 passa fra bandiere rosse, camicie nere ed
occupazioni contadine delle terre.
Lo sciopero generale (1919) per il «poco pane» avviato dai ferrovieri,
costringe il Comune a dimezzare i prezzi di tutti i prodotti.
I proprietari fondiari non accettano di riformare il patto colonico. I
contadini iniziano (luglio 1920) lo «sciopero delle vacche», durato otto
giorni. Le portano dalle campagne ai padroni.
Durante lo sciopero generale del primo luglio 1920 un possidente di
San Lorenzo in Strada, Secondo Clementoni (44 anni), è ucciso. Tre
anni dopo stessa sorte per suo figlio Pietro (23), ex presidente della
locale cooperativa 'bianca' di consumo.
La Sinistra vince le elezioni comunali (17.10.1920). Arriva il «biennio
nero» 1921-22 con lo squadrismo giustificato da «L'Ausa» (organo dei
popolari di don Sturzo): «Le oppressioni selvagge e vigliacche dei
socialisti non si contano più. Con questi degenerati bisogna tornare al
medio evo ed instaurare la legge del taglione».
Il movimento fascista nasce ufficialmente in un albergo di piazza
Cavour (24.4.1921). Il giorno prima su «L'Ausa» un articolo firmato G.
(don Domenico Garattoni?) incensa il santo manganello: «La violenza
fascista ha portato realmente un grande bene alla Nazione,
purificando l'aria dai pestiferi bacilli rossi».
Il foglio socialista «Germinal» ha anticipato (24.12.1920) la
costituzione del fascio, descrivendo «un gran daffare tra i figli di papà
mangiasocialisti di Rimini e qualche pezzo grosso del fascismo
forestiero», non esclusi alcuni reazionari di San Marino.
A Serravalle prima delle elezioni politiche del 15 maggio 1921
avviene il ferimento mortale del dottor Carlo Bosi. Che era con il figlio
Vittorio, noto squadrista, vero obiettivo dell'agguato.
Dalle urne locali escono primi i socialisti con 2.528 voti in meno. I
comunisti al debutto ne prendono 2.198. I popolari 4.560 (+1.120 sul
1919).
Il 19 maggio 1921 è ucciso Luigi Platania (31 anni). Anarchico,
fondatore dei fasci, combattente in Libia ed interventista andato al
fronte, ha fatto pure la «settimana rossa». Quando fu sospettato del
furto di una cassaforte assieme a Carlo Ciavatti, al quale avrebbe
sottratto parte del bottino. Ricevendone una minaccia che a Ciavatti
costa 14 anni di galera.
3. Borghi
La popolazione del Comune di Rimini del 1862 è calcolata per 4 rioni
di città (Cittadella, Montecavallo, Pataro, Clodio), per 4 borghi
(Sant'Andrea, San Giovanni, San Giuliano, Marina) e per la
campagna. In tutto ci sono 33.272 persone. Metà nella campagna
(16.398) e metà (16.874) fra rioni (10.413) e borghi (6.416).
Le famiglie sono 6.349. La media di persone per nucleo è di 5,24. Le
case abitate sono 4.432. In ognuna la media degli occupanti è di 7,50
persone. Le case vuote sono 155.
Il primo censimento regio, tenutosi l'anno prima (1861), registrava
un dato ulteriore. La popolazione di fatto era sempre di 33.272
(17.427 maschi e 15.845 donne), mentre la popolazione di diritto
scendeva a 32.860 (-412).
Poco cambia nel 1871 (33.886 persone), con un aumento totale di
614 unità (+1,85%), delle quali 499 sono in campagna.
Meritano un confronto i dati delle singole zone, registrati nel 1862 e
nel 1871. I rioni scendono da 10.413 a 9.747 (-666 unità, -6.40%). I
borghi crescono di 781 unità (+12,09%), passando da 6.461 abitanti a
7.242. Infine la campagna: quei 499 abitanti aumentati sono un
+3,04%.
Uno sguardo generale sui dati riportati, indica fra 1862 e 1871 questi
punti:
1) la popolazione totale aumenta di 614 unità (+1,85%);
2) i 4 rioni di città con 666 abitanti in meno, perdono un 8,12% nel
1871 (quando scendono al 28,76%) rispetto ai dati globali del 1862
(quando sono il 31,3%);
3) la popolazione dei borghi aumenta di 781 unità, con un dato
relativo all'incidenza degli stessi borghi sull'intera popolazione pari al
+16.02;
4) per la campagna, le 499 persone in più fanno crescere il dato
relativo alla sua popolazione dal 49,28 al 49,86%, ovvero c'è un
aumento dell'1,18%.
Morale della favola: il centro della città (rioni) perde abitanti che
vanno soprattutto nei borghi.
Siamo qui al 1871. Per curiosità diamo un'occhiata ad inizio secolo.
Gli abitanti registrati a Rimini Comune sono 21.581 nel 1816.
Saranno 33.552 nel 1865, 34.799 nel 1870, e 33.886 nel 1871 come
si è già visto.
Possiamo infine confrontare il 1833 con il 1865. I rioni aumentano
complessivamente di 344 unità (da 9.586 abitanti a 9.930). I borghi
passano da 4.629 a 6.363 unità (+1.734).
L'aumento maggiore è quello nel borgo Sant'Andrea (+979) con un
+188% della popolazione (da 521 a 1.500 persone).
Il borgo Marina nonostante l'avvio del turismo, sale soltanto del
17,67%, passando da 1.590 a 1.871 unità.
Nel 1859 gli aventi diritto al voto per il Municipio sono 2.500. Per le
elezioni politiche del 1860 gli iscritti sono 575. Nel 1913 gli aventi
diritto al voto passano da 6.466 a quasi 22 mila con il suffragio
universale diretto.
4. Bagni
Nel 1861 un terzo dei cittadini vive delle industrie e delle attività
portuali, settori messi in ombra dallo sviluppo del turismo. Avviato
nel 1843 dallo Stabilimento balneare. Il primo luglio 1873 apre il
Kursaal, con annesse la Piattaforma e la Capanna svizzera.
Scampato pressoché indenne alle bombe dell’ultima guerra, è
distrutto dalla volontà di scrivere una nuova pagina politica durante
la ricostruzione. Era «la scomoda memoria storica di una attrezzatura
d’élite» (G. Gobbi Sica).
Lo demoliscono gruppi di disoccupati guidati da sindacalisti. Stessa
sorte per la parte sopravvissuta del teatro Vittorio Emanuele II. Il
sindaco del 1948 Cesare Bianchini (Pci) dice che Kursaal è «una
bruttura» da eliminare.
L’inondazione del Marecchia nel 1866 danneggia tutte le strutture
dello stabilimento. Il 21 settembre 1868 il Consiglio comunale vota a
favore della gestione pubblica dei bagni. Ne soffriranno soltanto le
casse pubbliche.
Nel 1876 nasce l’Idroterapico (demolito nel 1929). A Riccione nel
1878 sorge un ospizio marino, analogo a quello riminese del 1870 per
bambini scrofolosi, vicino all’Ausa.
Dal 1885 ai nobili ed ai ricchi borghesi il Comune inizia a cedere
gratuitamente od a basso prezzo, appezzamenti e tratti di spiaggia
acquistati dallo Stato (F. Silari).
Il Comune crea la nuova industria turistica. I privati si dedicano
all’edilizia, un considerevole incremento delle ville fra 1882 e 1902.
Esaurita la prima fila comincia l’edificazione interna.
Nasce un nuovo modello di liberalismo: municipalizzare le perdite dei
privati, e contemporaneamente promuoverne le rendite (G. Conti).
Il Comune non può intervenire per mancanza di mezzi sull’altra
faccia di Rimini, caratterizzata dalle condizioni arretrate di vita nella
città vecchia e nei borghi.
Quello di San Giuliano, racconta Achille Serpieri, è «minacciato da un
lato dalle fiumane, dall’altro dai flagelli dei mostri dove si annidano
signore la tisi, la scrofola e il tifo».
Su «Il Nettuno», periodico fondato da Domenico Francolini, il 15 agosto
1873 si parla delle «abitazioni dei Poveri», «semenzai di miasmi
pestilenziali, case che avvelenano per tutta la vita il sangue, massime
ai bambini con la scrofola e colla tisi»: «non luce, non aria, umidità
senza fine, e angustia tale che le celle dei condannati sono assai più
comode».
Gli «abitatori di queste bolge infernali, massime i ragazzi» appaiono
«squallidi, macilenti, cogli occhi infossati e col pallor della morte sul
viso».
5. Provincia
16 giugno 1938, Benito Mussolini ispeziona i lavori quasi ultimati per
l'isolamento dell'arco d'Augusto, mentre la folla urla «il suo
incontenibile entusiasmo [...] in un abbraccio quasi pauroso», scrive
«Ariminum».
S'alza una voce: «Vogliamo la provincia». Più che un desiderio, è un
ordine. Il duce, lo sguardo imperioso, forse nascondendo a malapena
quel disgusto che nutre naturalmente per la nostra città, è lapidario:
«Sulla carta». Come dire, scordatevela.
Arriva soltanto nel 1992 dopo 18 anni di Circondario, e diventa
operativa nel 1995. Ostacoli e rifiuti furono sempre opposti alle
richieste della nostra città.
Politica e deteriore folclore si mescolano in certi scritti fascisti (1921)
che definiscono Rimini «città dei rammolliti e dei vili, paese di
mercanti e di affittacamere», per aver disertato il funerale di Luigi
Platania, ucciso il 19 maggio di quell'anno.
Platania, 31 anni, è uno dei fondatori nel 1919 dei fasci di
combattimento dopo esser stato anarchico ed interventista. Ha fatto
la «settimana rossa», combattuto in Libia e nella grande guerra.
Mutilato e pluridecorato, figura tra i fascisti più accesi.
Su di lui correvano voci di misfatti compiuti a Cesena ed a Pesaro.
Durante la «settimana rossa» Platania fu sospettato del furto di una
cassaforte compiuto assieme a Carlo Ciavatti detto «il monco», al quale
avrebbe sottratto parte del bottino ricevendone la minaccia: «Faremo
i conti».
C'è un altro Platania sulla scena cittadina. 1922, sabato 28 ottobre,
giorno della marcia su Roma, e domenica 29 anche Rimini è occupata.
Durante la presa del carcere alla Rocca malatestiana un fascista di
Foligno, Mario Zaccheroni, è ucciso da fuoco amico per mano appunto
di Giuffrida Platania, fratello di Luigi ed allora direttore della «Penna
fascista», che tenta il suicidio «per scrupolo eccessivo» (scrive
«L'Ausa»).
Mussolini ricordava i giudizi di quegli scritti fascisti del 1921,
confortato pure dalle opinioni ufficiali locali come quella del federale
Ivo Oliveti che in un convegno indetto appunto sulla richiesta
riminese, lanciò una specie di anatema chiedendo ai presenti: «Vi
vergognate forse di appartenere alla provincia del Duce?».
Il quale aveva insignito Rimini d'una etichetta rimasta celebre:
«Scarto delle Marche e rifiuto della Romagna».
6. Amarcord
La Rimini degli Anni Trenta, grazie a Federico Fellini ed al suo
«Amarcord» (1972), diventa simbolo di «un mondo sbagliato,
meschino, gretto e violento».
Nel film c'è Lello, lo «zio Pataca». Diceva Fellini: «Pataca da noi
significa un uomo da poco, un farfallone, che vive ai margini sognando
cose difficili, assolutamente lontane dalle sue possibilità».
Lello tradisce il cognato antifascista presso cui vive da vitellone
parassita, facendogli infliggere la lezione dell'olio di ricino.
Per Oreste Del Buono, «Amarcord» fa «un discorso civile» in cui non c'è
quell'autobiografismo come luogo comune e scontato di cui parlano i
«critici superficiali» all'apparire del film.
Natalia Ginzburg osserva: «Mai mi era successo di vedere evocati gli
anni della mia giovinezza, e il fascismo di allora, con tanta verità e
tanto orrore».
Il fascismo, spiega la scrittrice (vedova di Leone Ginzburg, ucciso
dalle sevizie subìte come antifascista nel 1944 a Regina Coeli), era
«sordido, miserabile, atroce».
Allora i giovani ne conoscevano «bene soltanto gli aspetti grotteschi.
Quelli tragici» li avrebbero «capìti più tardi». In questo film,
concludeva Natalia Ginzburg, riconosciamo «il fascismo bevuto e
respirato senza che lo sapessimo». Nel borgo di «Amarcord» c'è
coralmente l'Italia.
Il cognato «pataca» più che un «uomo da poco, farfallone o sognatore»,
pare piuttosto l'uomo «da niente», senza moralità e dignità. In
apparenza è gelido e noncurante. In sostanza si dimostra una perfetta
carogna.
E se dal tono leggero della raffigurazione scendiamo nei labirinti della
Storia, se dal grottesco ci avviamo cautamente verso il tragico, allora
vengono alla mente pagine ancora peggiori di quegli anni. Quando una
soffiata era ricompensata con un cartoccio di sale, e ci scappava il
morto, frutto ed oggetto di delazione politica.
Lello è un traditore, un brutto ceffo, non una simpatica canaglia od un
compassionevole illuso. Per Alberto Moravia, la Romagna che
«Amarcord» racconta, è «senza deformazioni satiriche e fantastiche».
Lo «zio Pataca» con la sua azione di delatore, è protagonista non
isolato di un clima ben evidente nella sequenza del grammofono che
dall'alto del campanile diffonde le note dell'«Internazionale». E nella
scena degli oppositori portati alla casa del fascio, con la predica del
gerarca paralitico: «Quel che addolora, è che non vogliano capire».
Valerio Riva scrive che a quel punto allo spettatore, «Amarcord»
appariva non più e soltanto «una antologia di ricordi», ma «un grosso
film politico, il più esplicito, almeno in questo senso, che abbia fatto
Fellini».
Lo zio Lello rappresenta una delle tre categorie umane che ci
accompagnano nel cammino esistenziale. Le altre due sono quella
alquanto rara di chi disprezza la menzogna, e in nome della verità è
disposto a sopportare tutto. E quella (alquanto diffusa) di quanti per
convenienza si celano nel proprio «particulare» e fingono di non
vedere per non aver rogne. Anche loro tradiscono i reciproci doveri
su cui si basa l'umana convivenza.
«Amarcord» dimostra, secondo Miro Gori, «come una città di
provincia, con la sua vita futile e uggiosa, possa diventare, nelle mani
di un 'poeta', l'ombelico del mondo».
Fellini in «Amarcord» narra Rimini con quel misto di odio e di
nostalgia che sono il lievito d'ogni memoria: anche se il film «per
l'autore non doveva apparire come il rispecchiamento di situazioni e
personaggi reali» (Tullio Kezich).
Nel 1990 Cinzia Fiori sul «Corriere della Sera» chiama Rimini una
città a due facce, l'antico borgo e la marina tutta cemento selvaggio
che fa venire la nostalgia del passato: «Siamo all'amarcord di
Amarcord», conclude. Federico sempre lontano, tuttavia sempre
presente.
Con il suo mondo oscillante tra favola e verità, egli offre un'utile
chiave di lettura delle vicende più recenti di Rimini, ogni volta
diversa ma alla fine eternamente uguale a se stessa.
Sospesa tra mito e realtà come un canovaccio di Federico, Rimini è
sempre alla ricerca di un'identità definita ma non definitiva nel
divenire inquieto dell'attuale società globalizzata.
Per il ferragosto del 1936, quello delle picconate di Mussolini all'arco
d'Augusto, si organizza al Kursaal il festival della canzone italiana
diretto dal maestro Antonio Di Jorio (1890-1981). Un testo dice:
«Vorrei toccare le tue coscette fresche…». Non piace, è poco virile, per
niente militarista.
Valfredo Montanari raccontò a Gianni Bezzi («il Resto del Carlino»,
13.2.1962): «Il vero successo si ottenne l'anno successivo. Il 5 agosto
1937, cinquemila persone affollarono il parco del Kursaal» che non
era soltanto «il più raffinato edificio della città» ma anche uno dei
'personaggi' che «diedero la loro impronta, la loro voce, il loro spirito
alla storia di una marina che accolse gente di ogni Paese».
Come ogni bella idea riminese, non va avanti. Per il festival, nel
dopoguerra ad imitarci ci pensa Sanremo. Dove (1951) si sente un
“Grazie dei fior”. Rivolto a Rimini?
Le bombe lo hanno scoperchiato. La città lo ha conservato come un
rudere muto. Invece ha molto da raccontare. Come testimoniava la
lapide dettata nel 1907 da Domenico Francolini, nel 1845 da palazzo
Lettimi con il proprietario conte Andrea si muovono "gli audaci
rivoltosi, preludenti l'italico risorgimento", guidati da Pietro Renzi.
Protestano contro il potere "stolidamente dispotico". Tra 23 e 26
settembre formano un governo provvisorio, poi si sciolgono fuggendo
per mare o riparando in Toscana (dove sono arrestati), all'arrivo degli
svizzeri pontifici. Il loro moto è reso celebre da "Gli ultimi casi di
Romagna" di Massimo D'Azeglio.
Domenico Francolini (1850-1926) è un borghese prima repubblicano,
poi socialista ed infine anarchico. Abita lì con la moglie, donna
Costanza Lettimi (1856-1913). Amico di Giovanni Pascoli, nel 1878
sul "Nettuno" gli pubblica una lirica scandalosa, "La morte del ricco",
che finisce con la condanna: "che muoia disperato". Francolini lo ha
conosciuto tra novembre 1871 ed estate 1872, mentre Zvanì in
misere condizioni economiche e con la testa piena di pensieri ribelli
frequentava la seconda classe del liceo comunale a palazzo
Gambalunga. Da dove Francolini, che aveva cinque anni di più, era
appena uscito.
Gaetano Bresci (1869-1901), l'anarchico giunto dall'America, si
esercita nel cortile di palazzo Lettimi prima di recarsi a Monza per
regolare il 29 luglio 1900 i conti con Umberto I. Ospitato nel borgo
San Giuliano dall'oste Caio Zanni (1851-1913), Bresci usa la rivoltella
portata da Paterson (New Jersey) sotto gli occhi di Francolini. Zanni,
noto alle autorità come anarchico, è arrestato dopo il regicidio e
trasferito al carcere di San Nicola di Tremiti. Con Bresci era la sua
compagna Teresa Brugnoli, che a Paterson ha lasciato una figlia
diciassettenne.
Gennaio 1943, al secondo piano di palazzo Lettimi risiede Guido
Nozzoli, classe 1918. Lo arrestano a Bologna sotto le armi, per
"attività politica contraria al regime" mediante volantini intitolati
"Non credere, non obbedire, non combattere", e per il possesso di libri
esteri proibiti ma venduti sulle bancarelle. Con lui finisce dentro Gino
Pagliarani, l'autore dei volantini. Nel 1944 Nozzoli riesce a salvare
San Marino dal bombardamento a tappeto preparato dagli alleati.
Dopo la liberazione di Rimini, sale sulle macerie di casa. Anche la
statuina di sant'Antonio, un ex voto per il terremoto del '16, è stata
mutilata dalle bombe.
Era la piazza del Corso. Un po' prima, del Duomo vecchio o Santa
Colomba, grande chiesa romanica risorta a nuova vita nel 1329 e
consolidata nel 1675. Salvatasi dalla furia demolitrice di "Sigismondo
che aveva costrutto la rocca dov'erano le sue case" e che aveva
abbattuto l'antico Episcopio insieme a due cappelle, al vecchio
battistero ed al convento di santa Caterina (C. Ricci, 1924). "Né,
infine, l'abbatté Clemente VII" che era stato consigliato in tal senso nel
1526 da Antonio da Sangallo il giovane, per spostare la cattedrale
nella chiesa di san Francesco, il che avviene nel 1809.
Santa Colomba "fu demolita nel 1815, quando il castello non
minacciava più. Rimase solo in piedi il largo campanile, convertito in
casa privata. E ai demolitori il giuoco del piccone piacque tanto",
sottolineava Ricci, "che due lustri dopo si volsero ad esercitarlo ai
danni del castello...". Nel 1798 Santa Colomba subì l'affronto dei
francesi invasori impadronitisi di Rimini il 5 febbraio 1797. Essi la
ridussero a caserma, mentre cattedrale divenne San Giovanni
Evangelista.
Il 22 dicembre 1854 davanti alla Rocca malatestiana il boia mozza il
capo a Federico Poluzzi detto Bellagamba, fratello di Laura, madre
dell'oste anarchico Caio Zanni che ospiterà Gaetano Bresci di
passaggio da Rimini verso Monza. L'accusano di aver ucciso don
Giuseppe Morri mansionario della cattedrale. Ma "tra chi lo
conosceva, si sussurrava che altri fossero gli uccisori di don Morri e
che lui avesse rinunciato a difendersi presentando un alibi per non
compromettere la moglie di un fornaio con cui aveva trascorso in
intimità l'ora in cui era stato ucciso don Morri" (G. Nozzoli).
Il carnefice, venuto con la macchina per l'esecuzione da Ancona, era
"un umaz cun e capel dur, e tòt ner com un bagaron", ricordava
Augusta Gattei che allora aveva sette anni. Gli spettatori litigavano
per accaparrarsi un posto da cui godere meglio la scena, i soldati
faticavano ad arginarli e "i ragneva", dando spintoni a tutti.
Bellagamba gridò: "Morte ai tiranni e sempre viva la libertà".
L'Augusta raccontava: "L'era bèl. Drét com'un fus e spaveld". Il suo
ultimo desiderio, "un pizzunzein arost, un bicér d'mistrà e un
Virginia", sigaro di marca.
Oggi tra il rudere del teatro e lo sfondo solenne di Castel Sigismondo,
la piazza resta simbolo del "giuoco del piccone" che ha fatto tanti
danni negli ultimi 150 anni. Come nel 1948 con il Kursaal del 1873,
per volere del vicino Palazzo Comunale.
I delitti di Rimini
Sono toni "ad effetto" anche quelli usati quando cita Rimini. In sua
difesa, va detto che i giornali bolognesi del tempo denunciano le
stesse cose. Il "Corriere dell'Emilia", diretto da Gioacchino Napoleone
Pepoli (destinato a brillante carriera politica), annota nel giugno
1860: "E' vergogna che in una città civile come Bologna non si possa
essere sicuri della propria vita". Pepoli è figlio di Letizia Murat, quindi
nipote di Gioacchino, quello del proclama di Rimini del 1815.
A proposito dell'esser sicuri della propria vita, le paure della gente
sono legate anche agli episodi di violenza accaduti negli anni
precedenti. A Rimini fra 1847 e 1859 undici persone sono vittime di
delitti politici. Il più famoso riguarda nel 1856 un francese
"rivoluzionario", Vittorio Tisserand, cancelliere del vice consolato di
Francia a Rimini, imprenditore e marito della contessina Mariuccia
Ricciardelli, commerciante. Il 19 marzo 1864 sarà ucciso il sarto
Nicola Nagli, ex carbonaro, agente segreto antipontificio, poi
Commissario di Polizia dopo la fine del governo papale nel 1859. Sia
Tisserand sia Nagli sono stati eletti in Consiglio comunale nel 1849,
all'epoca della Repubblica romana, con 288 e 239 voti su 372 elettori.
17. Analfabeti
Nel 1865 ad Ancona appare "Il compito odierno", un testo del dottor
Enrico Bilancioni (1808-1888) che denuncia "la pesantezza delle
esazioni fiscali e l'altissimo numero di analfabeti esistenti in Italia" (A.
Piromalli), 17 milioni sui 22 (77,2%) di cittadini registrati al
censimento del 1861.
Gli abitanti dell'Emilia sono 2 milioni (9%), con una media di
analfabeti dell'81%, maggiore nelle nostre zone a Sud (A. Berselli).
Pure il padre di Enrico, Domenico Bilancioni, originario di San
Clemente, è medico. Lavora come primario all'ospedale di Rimini.
Nella carica gli subentra il figlio. Enrico è un fervente sostenitore
dell'indipendenza e della libertà della patria. L. Tonini lo descrive
"uomo schietto, e di molto ingegno". Alfredo Panzini lo ricorda
latinista, filosofo, e morto quasi povero, egli nato ricco.
Nel 1831 Enrico Bilancioni si è prodigato alla Celle nelle cure ai molti
feriti tra i duemila volontari scontratisi con l'esercito austriaco il 25
marzo. Lo scontro, per G. C. Mengozzi, salva l'onore della rivoluzione.
Nel 1848, poco dopo l'uccisione (20.9) di un figlio del notaio Giacomo
Borghesi, Enrico Bilancioni "fu aggredito da ignoto sicario in mezzo a
due suoi teneri figlioletti, mentre con essi conducevasi a casa" (C.
Tonini). Quasi difeso dai due fanciulli, Domenico ed Eleonora, egli
resta lievemente ferito.
Nello stesso 1848 è nominato nello stato maggiore della Guardia
Civica istituita l'anno prima (5.7) da Pio IX, e considerata dai patrioti
come una garanzia di libertà. In quel 1847, "anno rivoluzionario per
eccellenza", le riforme di Pio IX, come l'editto sulla libertà di stampa
(15.3), segnano "una vasta rigenerazione" politica (GCM).
Nel 1859 Enrico Bilancioni è nella Commissione municipale che
assume i poteri di Giunta e Consiglio comunale dopo la fine del potere
temporale (21.6), contro cui si è sempre battuto in nome della
"evangelica legge di libertà e fratellanza". Egli "con animo schietto
aveva sempre pubblicamente in libere parole rimproverato l'infausto
andazzo del governo romano" (CT). Poi è deputato all'Assemblea della
Romagna. Nel 1860 partecipa all'impresa giornalistica della "Favilla"
di cui escono soltanto 17 numeri tra 11 febbraio e 14 aprile: è il primo
periodico cittadino "in senso assoluto con notizie politiche,
economiche e statistiche" (GCM). Lo dirige il medico bolognese
Vincenzo Serra (1814-1898) che lavora a Rimini come secondo
chirurgo dal 1850, con la collaborazione di un altro medico,
Alessandro Niccolini (1825-1892), che il 16 aprile 1859 è stato
arrestato per motivi politici. Nel 1880-1881 collabora a "La Parola"
rivista rivolta al clero e diretta da don Giovanni Trebbi (P. G. Grassi).
Suo fratello Pietro (1808-1877), vissuto e morto a Ravenna, è
avvocato e studioso di letteratura umanistica, compilatore di una
"Raccolta di rimatori antichi", apprezzata da Carducci e conservata
all'Archiginnasio di Bologna.
Suo figlio Domenico (1841-1884), nato da Laura Marchi, medico e
fervente mazziniano è tra i ventotto dirigenti repubblicani arrestati il
2 agosto 1874 a Rimini, sul colle di Covignano, nella villa
dell'industriale Ercole Ruffi. Del gruppo faceva parte l'anarchico
Domenico Francolini (1850-1926), marito di Costanza Lettimi e
legato da fraterna amicizia a Giovanni Pascoli.