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principali teorie
organizzative
A.A. 2009-2010
(appunti di alcune
lezioni)
1 INTRODUZIONE ............................................................................................................................ 4
3 LE TEORIE CLASSICHE............................................................................................................... 8
1 INTRODUZIONE
Il primo ciclo di lezioni ha lo scopo di analizzare i diversi paradigmi teorici che si sono
succeduti nel corso del tempo sul tema dell’organizzazione aziendale.
Occorre tuttavia avanzare una precisazione: perché si parla di organizzazione aziendale?
Perché l’organizzazione aziendale è quella disciplina che si occupa dell’organizzazione
dei processi e delle funzioni tradizionalmente all’interno delle aziende e le aziende,
come sapete, sono delle istituzioni che sviluppano delle attività economiche, di
produzione di beni e servizi, di commercializzazione dei medesimi.
Una visione come questa (l’organizzazione aziendale limitata alle problematiche di
organizzazione dei processi e delle funzioni delle attività delle imprese) è però una
visione limitante e anche restrittiva. Oggi, e non solo da oggi, il problema di organizzare
i processi e le funzioni riguarda uno spettro più vasto di istituzioni che non sono solo le
aziende (al di là dei concetti di economia aziendale che sottolineano o meno la
differenza fra impresa o azienda in senso economico aziendale o giuridico). Il problema
dell'organizzare abbraccia, infatti, uno spettro di attività svolte da istituzioni che aziende
non sono. Pensate ai problemi organizzativi che si riscontrano anche nell’ambito delle
associazioni, ad esempio di un'associazione sportiva che ha una sua base di soci, dei
suoi scopi, degli strumenti per perseguire l’attività che svolge, dei problemi di
coordinamento tra i diversi individui che presentano aspettative diverse. Pensate anche
ad altre organizzazioni, come l’organizzazione sanitaria, una fondazione, un tribunale.
Sapete benissimo che nei tribunali ci sono problemi organizzativi. Vi sono, infatti,
montagne di fascicoli accumulati e si capisce che, in alcuni casi, la reperibilità dei
documenti non è certo l’attività più semplice. Oppure, il fatto che i processi in Italia
durino decenni può essere considerato un altro aspetto che sottolinea la probabile
presenza di qualche problema organizzativo.
Il problema organizzativo abbraccia quindi diverse e numerose istituzioni e non solo le
aziende. La denominazione organizzazione aziendale, se la interpretassimo nel senso
riduttivo del termine, avrebbe una portata limitata.
Questa circostanza risulta vera soprattutto con riferimento a questa prima parte del
corso, dove andiamo a parlare dei paradigmi teorici dell’organizzazione. Ci accorgiamo
infatti che questi paradigmi ci aiutano a comprendere il problema organizzativo
indipendentemente dall’istituzione di cui si tratta, sia essa un’associazione sportiva o
una grande azienda, ovviamente con le peculiarità che queste due tipologie presentano.
E allora perché si parla di organizzazione aziendale e non di organizzazione delle
istituzioni? Perché il problema organizzativo si è posto storicamente per primo
all’interno delle istituzioni, che per caratteristiche, per finalità e per dimensioni,
avevano questi tipi di problematiche. Tali istituzioni sono rappresentate soprattutto dalle
aziende nelle quali, a partire dalla rivoluzione industriale, si sono manifestate nuove
problematiche organizzative che, nel corso della storia dell’umanità, non si erano mai
incontrate.
Nella storia dell’umanità, il problema organizzativo si era limitato a tre aspetti:
all’organizzazione delle entità statuali, che fossero regimi monarchici o di altra natura,
all’organizzazione della religione come istituzione e all’organizzazione degli eserciti.
La rivoluzione industriale pone un problema nuovo. Anche se l’economia è sempre
esistita nella storia dell’umanità, essa non presentava le problematiche organizzative
che, a partire dalla rivoluzione industriale, si cominciano a manigestare. L’economia
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
rappresentavano una fonte della supremazia degli Stati nella costruzione di cannoni e
così via). Ma non solo. Per poter avere un esercito forte, Francia e Germania
stimolarono anche la formazione e la costituzione di grandi imprese. Tali paesi
favorirono, per esempio, l'industria dell’abbigliamento per l’esercito (che doveva avere
coperte, capi d’abbigliamento, ecc.), stimolarono la formazione di un'industria chimica
e di una prima industria di mezzi di trasporto (le ferrovie avevano bisogno di vagoni di
locomotori e di tanti altri strumenti).
La rivoluzione industriale comincia, allora, ad evidenziare che gli Stati moderni hanno
bisogno di grandi imprese per operare in questi settori. Non è casuale che, mentre
l’Inghilterra aveva avuto a disposizione dei tempi più lunghi per immettersi nel
processo di industrializzazione, perché era stato il primo paese a creare spontaneamente
la rivoluzione, la Francia e la Germania favorirono la creazione di un capitalismo
diverso, sin dall’inizio, un capitalismo sussidiato e protetto dallo Stato. A differenza
dell’Inghilterra, dove le imprese nascono in modo spontaneo, senza l’aiuto dello Stato,
Francia e Germania, per poter recuperare il ritardo, sono costrette a sussidiare e
proteggere le loro imprese. Nasce, infatti, il protezionismo di questi Stati, per far
decollare le loro industrie metallurgiche, chimiche dell’abbigliamento. Nasce, per la
prima volta, un capitalismo protetto. In Gran Bretagna, la rivoluzione avviene senza che
lo Stato intervenga finanziariamente per supportare le proprie imprese e le banche non
hanno un ruolo centrale nello sviluppo economico. In Germania, invece, nasce quella
che oggi viene chiamata la banca mista o, in altre parole, la banca che interviene
direttamente nel capitale di rischio dell’impresa. Viene detta mista in quanto svolge due
attività: da una parte fa prestiti, come fanno le banche italiane e, dall’altra parte, diventa
proprietaria delle imprese industriali possedendone le azioni. Il ruolo di tale banca è
quello di capitalizzare le imprese per farle crescere, anche dimensionalmente, così da
recuperare il gap di competitività rispetto alle imprese inglesi. La storia ci insegna
quindi che il capitalismo tedesco è diverso, nelle sue regole di funzionamento, dal
capitalismo inglese perché i processi storici di genesi e di sviluppo dei due capitalismi
sono profondamente diversi. Così, in Germania, lo Stato interviene proteggendo e
sussidiando le proprie imprese ed imponendo dazi alle importazioni.
E il sentiero dei paesi mediterranei? I paesi mediterranei, tra cui l’Italia, presentano un
gap anche verso la Francia e la Germania che viene recuperato con un intervento dello
Stato ancora più incisivo, mediante la creazione dell’impresa pubblica. In questo modo,
le imprese di proprietà dello Stato stesso possono avere sufficienti risorse finanziarie
per svilupparsi e competere con quelle di altri paesi più avanzati. Sappiamo dalla storia,
infine, che sia la banca mista, sia l’impresa pubblica generano disfunzioni.
Il punto centrale del discorso è che la rivoluzione industriale induce alla crescita
dimensionale delle imprese in diversi settori, con la conseguente nascita del problema
organizzativo.
Sintetizziamo quindi i punti chiave di questa introduzione.
Prima della rivoluzione industriale il problema organizzativo non riguardava le imprese
perché erano di modeste dimensioni, erano delle botteghe artigiane o dei mercanti e non
c’era bisogno di organizzare grandi processi di produzione.
Con la rivoluzione industriale si afferma un nuovo modello di impresa, inizialmente in
Gran Bretagna, con un modello di capitalismo definito spontaneo, cioè senza supporto
dello Stato, e poi in Germania e Francia, due Stati che capiscono di avere un gap di
competitività e che inducono uno sviluppo capitalistico facendo nascere imprese private
supportate dal nodo delle banche miste.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
La grande impresa pone quindi, per la prima volta nella storia dell’umanità, il problema
organizzativo in maniera nuova. In precedenza, tale problema aveva riguardato tre
aspetti: gli stati, gli eserciti e le religioni. Non si poteva però imparare da quei modelli
perché le regole erano diverse, vi erano problematiche differenti nelle aziende rispetto
agli eserciti. Il problema è nuovo e nascono quindi le teorie che cercano di aiutare a
capirlo e di proporre soluzioni. Le teorie, raramente, nascono prima dei fatti. Nel campo
delle scienze umane, le teorie arrivano spesso dopo i fatti. Si sviluppano le grandi
imprese che presentano una notevole complessità organizzativa e allora nascono i
teorici dell’organizzazione delle grandi imprese. La teoria generale di Keynes nasce
dopo alcuni particolari eventi economici ovvero a seguito della depressione che ha
afflitto il mondo nel 1936 e, allo scopo di uscire dalla stagflazione, propone la teoria
dell’intervento dello Stato.
In sintesi, è possibile affermare che prima accadono i fatti economici, poi arrivano le
teorie e in seguito le implementazioni da parte dei politici, se si parla delle ricette
Keynesiane, o da parte dei manager, se si parla delle teorie organizzative.
Questo pone uno specifico problema Le teorie sono basate su fatti anteriori e vengono
implementate addirittura in tempi successivi rispetto alla loro formulazione. Il rischio è
quello, allora, di implementare le ricette in ritardo, in un contesto ormai mutato che
rende le soluzioni inappropriate.
Ci troviamo quindi di fronte a grandi imprese con grandi problemi organizzativi. Da qui
nasce il problema dell’organizzazione aziendale e da questo momento storico iniziano a
succedersi una serie di paradigmi, una serie di scuole di pensiero.
2 I PARADIGMI TEORICI
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
3 LE TEORIE CLASSICHE
Tutti e tre osservano però la grande impresa, che oggi chiameremmo fordista
(novecento).
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
2. Selezione scientifica della manodopera: studio del carattere, delle attitudini e del
rendimento di ogni lavoratore (l’uomo giusto al posto giusto). Ad esempio, ci sono
mansioni fisicamente più impegnative che sono più adatte agli uomini mentre altre,
come la rifinitura, più adatte alle donne. La selezione comporta quindi l’aumento
della produttività dell’azienda.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Istruttore
Ordini di Fogli di Tempi e Rapporti Capo Ispettore
Velocità Riparazioni
Lavoro istruzione Costi Disciplinati Reparto Qualità
Esecuzione
Operai
In dettaglio, per quanto attiene alle funzioni di progettazione e controllo, attribuiti alla
direzione, è possibile evidenziare l'introduzione e l'utilizzo di:
• ordini di lavoro: ad ogni operaio giornalmente, o quasi, viene data una distinta nella
quale c’è la programmazione del lavoro che deve eseguire in base alla produttività
che l’azienda si aspetta;
• fogli di istruzione: sono delle distinte dove viene indicato come eseguire il lavoro
(tecniche, materiali, ecc.) nei minimi dettagli;
• tecniche per la rilevazione di tempi e costi mediante l'operato di cronometristi, ossia
di persone addette a misurare i tempi di esecuzione delle lavorazioni;
• rapporti disciplinari: sanzioni per gli operai che non rispettano il livello minimo
della produttività;
D'altro canto, l'organizzazione scientifica del lavoro prevede anche l'introduzione di
figure con specifiche funzioni di progettazione e controllo quali:
• capi reparto: coloro che sorvegliano gli operai;
• istruttore della velocità di esecuzione: persone che si occupano di variare, ad
esempio, la velocità della catena di montaggio, tenendo conto del diverso grado di
attenzione degli operai nell’ambito della giornata, così da massimizzare la
produttività;
• ispettore di qualità: controlla la qualità del prodotto realizzato;
• riparatori: coloro che riparano le macchine che si bloccano.
Per Taylor, quindi, affinché una "fabbrica" possa essere definita efficiente, necessita,
oltre agli operai, di diverse professionalità.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Le critiche che sono state mosse a Taylor e all'organizzazione scientifica del lavoro
sono riconducibili principalmente al fatto che:
1. non si considerano adeguatamente le carenze motivazionali derivanti dalla
parcellizzazione del lavoro (alienazione sociale e psicologica, ecc.). Questo aspetto,
relativo alla dimensione sociale del lavoro, favorisce la diffusione del trattamento
dell'uomo come macchina e genera, nel lungo periodo, una diminuzione della
produttività;
2. l’incentivo al lavoro è esclusivamente monetario (possibilità di far carriera, ecc.);
3. esiste una gerarchia verticale che non stimola la partecipazione dei lavoratori al
miglioramento della produttività aziendale (barriera al dialogo). In questo senso, si
verifica una tendenza all'autoritarismo e quindi un orientamento marcatamente pro-
manageriale;
4. esiste il rischio di burocratizzare il processo di controllo della produttività e
dell’esecuzione delle mansioni (cartellini, ordini di lavoro, ecc.) con conseguente
aumento dei costi;
5. è possibile che si verifichi uno sfruttamento dei lavoratori, misurato dallo scarto tra
aumento di produttività e aumento retributivo, ma anche dall'intensificazione dei
ritmi di lavoro;
6. viene assunta una posizione idealmente antisindacale.
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L’esigenza e l’importanza della funzione direzionale scaturisce dal fatto che, nelle
grandi imprese, si è andato stratificando un modello organizzativo di specializzazione
per funzioni aziendali. Fayol, infatti, afferma che, all’interno di queste realtà, sono state
istituite tutta una serie di funzioni, per cercare di migliorare il lavoro:
1. la funzione tecnica, che si occupa del processo manifatturiero, della fabbrica;
2. la funzione commerciale, che si occupa di cercare nuovi clienti, di gestire le
transazioni e a capo della quale ci sarà un direttore generale (oggi è la funzione di
marketing);
3. la funzione finanziaria, che si occupa del reperimento, della gestione e
dell’investimento delle risorse finanziarie;
4. le funzioni di sicurezza, che assicura adeguati livelli di sicurezza nell’ambiente di
lavoro, nelle emissioni inquinanti, negli standard di sicurezza relativi ai prodotti
realizzati, ecc., tutelando i consumatori ed evitando il rischio dell’impresa di
incorrere in sanzioni penali;
5. funzione contabile, che si occupa di registrare i fatti economici di gestione, (dagli
acquisti di merce alla vendita dei prodotti ,crediti ecc.).
La grande impresa è andata stratificandosi in diverse funzioni aziendali, per far meglio
funzionare le proprie attività, creando queste diverse funzioni tra loro di pari grado.
Dal punto di vista gerarchico, questa strutturazione comporta l’emergere di grossi
problemi di coordinamento strategico tra i responsabili delle funzioni (direttori). Per far
si che prevalga l’interesse comune dell’impresa viene istituita una funzione
sovraordinata rispetto a tutte queste: la funzione direzionale.
La funzione direzionale nasce con l’obiettivo di mettere d’accordo le distinte direzioni e
di risolvere i problemi di coordinamento (oggi questa posizione corrisponderebbe a
quella del direttore generale). Essa è quindi chiaramente distinguibile dalla altre
funzioni e i suoi elementi costituitivi consistono in: prevedere, organizzare, comandare,
coordinare e controllare.
I compiti di tale funzione sono riconducibili allo sviluppo delle attività di pianificazione
strategica, alla definizione degli obiettivi che l’azienda intende perseguire (ad es.
crescita del fatturato) e alla definizione delle strategie aziendali.
La funzione direzionale presenta due caratteristiche essenziali:
1) E’ universale, nel senso che nella gestione di tutti i tipi di azienda è indispensabile
prevedere, organizzare, comandare, coordinare e controllare; di conseguenza, anche
la teoria direzionale o organizzativa è unica.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
2) E’ diffusa, nel senso che non può essere attribuzione esclusiva del solo vertice, ma
che interessa invece, sia pure in misura diversa, tutti i dipendenti.
La funzione direzionale, al pari delle altre funzioni, necessita, per un suo efficace
svolgimento, di competenze specifiche (nel senso di combinazione particolare di qualità
e di conoscenze) che saranno tanto più rilevanti quanto maggiore è la dimensione
dell’impresa.
Inoltre, la funzione direzionale, pur essendo migliorabile con la pratica, è apprendibile
attraverso programmi di insegnamento formale. Tale funzione ha bisogno quindi di
essere appresa fuori dalle aziende, con un insegnamento formale. In questo modo,
Fayol, per la prima volta, professa la necessità di istituire delle scuole (quelle che oggi
chiameremo Business School) volte alla realizzazione di corsi di management.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Per potere si intende “qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale,
anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa
possibilità”, ossia la capacità di fare eseguire un ordine, anche a fronte di
un’opposizione (ad esempio, nel caso di una rapina, il rapinatore ha la capacità di fare
eseguire il proprio ordine anche a fronte dell’opposizione del soggetto rapinato).
Il potere si basa su:
a) relazioni specifiche di comando e obbedienza che legano tra di loro più persone;
b) un apparato amministrativo di uomini di fidata obbedienza;
c) per essere esercitato in modo continuativo nel tempo, necessita di una fonte di
legittimazione alla quale i sottoposti credono.
L’autorità invece è la “possibilità per specifici comandi di trovare obbedienza da parte
di un determinato gruppo di uomini”, ossia potere legittimato, accettato e atteso in un
determinato contesto organizzativo.
Pertanto, ciò che differenzia il potere dall’autorità è la legittimazione e quindi il
riconoscimento del diritto di comandare e del dovere di obbedire.
Le basi di legittimazione sono diverse e quindi si hanno tipi diversi di autorità. Secondo
Weber, i tipi di autorità comprendono: l’autorità carismatica, l’autorità tradizionale,
l’autorità legale:
1. l’autorità carismatica poggia sulla “dedizione straordinaria al carattere sacro o alla
forza eroica o al valore esemplare di una persona”. Essa si basa su qualità
eccezionale e talvolta sovrumana (forza, coraggio, intelligenza) attribuita ad una
persona riconosciuta come capo. Il riconoscimento del carisma porta quindi ad una
dedizione di fede e di entusiasmo in un clima altamente emozionale. Non è detto
tuttavia che tale potere carismatico sia durevole: esso ha bisogno di continue
conferme (miracoli, successi, vittorie) altrimenti rischia di scomparire. Nella sua
forma pura, il potere carismatico è irrazionale nel senso che manca assolutamente di
regole ed è rivoluzionario in quanto rovescia il passato. “L’apparato
amministrativo” del potere carismatico è rudimentale, non basato su corpi di
funzionari e tanto meno su preparazione specializzata e su carriere definite ma è
formato da discepoli, uomini di fiducia che sono a contatto diretto con il capo, gli
sono stati vicini nelle prove più ardue, con dedizione e eroismo. Questa forma di
potere si riscontra nelle forme più pure nella sfera religiosa, ma anche in quella
politica (grandi leader rivoluzionari) oppure in quella economica (grandi
imprenditori, come Adriano Olivetti). Il maggior problema del potere carismatico è
legato alla successione del capo e alla routinizzazione del carisma (gli eventi
eccezionali e rivoluzionari che hanno legittimato un individuo passano!);
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
2. l’autorità tradizionale si fonda sulla “credenza quotidiana nel carattere sacro delle
tradizioni valide da sempre… pertanto si obbedisce alla persona designata dalla
tradizione e vincolata alla tradizione”. Il capo tradizionale, dunque, può non avere
qualità specifiche di comando ma nonostante ciò i sottoposti sono tenuti
all’obbedienza e riverenza in virtù della tradizione. Nel regime della monarchia
assoluta e del feudalesimo si riscontra tale modello di potere: il sovrano ha un potere
sui suoi sudditi in funzione di una tradizione dinastica codificata dalla tradizione. Ne
consegue che nel potere tradizionale il criterio prevalente per l’assegnazione di
cariche non è la competenza ma l’appartenenza ad un gruppo privilegiato. Di
conseguenza, la debolezza del potere tradizionale consiste nel rischio dell’insorgere
del carisma locale di capi che si ribellano alla tradizione nonché dall’argomento
razionale che occorre avere capi scelti in base alla competenza;
3. l’autorità legale si fonda sulla “credenza nella legalità degli ordinamenti statuiti e
nel diritto di comandare di coloro che sono chiamati a esercitare il potere in base ad
essi”. In altri termini, nel potere legale si obbedisce al superiore perché si presume
che egli eserciti la carica in virtù di una nomina legale, che sia competente e che i
suoi comandi siano conformi ad ordinamenti legali. A loro volta si presume che tali
ordinamenti siano stati statuiti razionalmente per uno scopo, costituiscono un cosmo
di regole astratte e universali (applicabili ad una universalità di casi simili) e anche il
detentore del potere legale sia tenuto a rispettare lo stesso ordinamento impersonale
(in caso contrario si entra nel dispotismo e nell’arbitrio).
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stabilità nell’attività. Tali regole possono essere apprese e quindi configurano una
preparazione specialistica.
Queste caratteristiche da un lato danno motivo della rispondenza della burocrazia come
organizzazione all’autorità legale e, dall’altro, ne spiegano la superiorità rispetto agli
altri tipi di apparati amministrativi. Secondo Weber, infatti, la burocrazia si “presta alla
più universale applicazione a tutti i compiti” e, anzi, sul piano storico, lo sviluppo delle
forme moderne di organizzazione si è tradotto in tutti i campi economici, sociali, politici
e religiosi nella continua diffusione di soluzioni burocratiche.
La burocrazia weberiana si adatta, pertanto, sia all’amministrazione pubblica che alle
imprese private. Essa, infatti, si riscontra nelle imprese, nei partiti, nei sindacati,
nell’esercito, negli ospedali, nei tribunali, nelle Chiese e così via.
Per Weber, la superiorità della burocrazia (rispetto agli apparati non burocratici)
dipende dal fatto che la prima si basa sulla “precisione, la rapidità, l’univocità degli atti,
la continuità, la discrezione, la coesione, la rigida subordinazione, la riduzione dei
contrasti, le spese oggettive e personali”.
Weber non ignora le inefficienze della burocrazia, ma la grande novità è che nella
burocrazia le inefficienze possono apparire ed essere denunciate in quanto esistono
norme che le sanzionano, mentre nelle amministrazioni pre-burocratiche la mancanza di
norme per definire efficienza ed obiettività impediva la stessa denuncia giuridica degli
arbitri.
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4 LE TEORIE MOTIVAZIONALISTE
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Percezione di
adeguatezza
delle ricompense
Valori
legati a Ricompense
Competenza estrinseche
ricompense
Questo autore riflette il pensiero di Barnard. Per Lawler, lo sforzo che l’individuo fa è
legato ai valori, connessi alle ricompense ma anche alla possibilità che lo sforzo porti ad
una ricompensa morale. Per esempio il lavoro di uno studente è quello di preparare un
esame. Per un esame, lo studente può decidere di puntare ad un elevato sforzo perché la
tematica gli piace, perché ritiene che vi siano dei valori legati a delle ricompense (un
docente che potrebbe darvi la tesi su queste tematiche e così via). Ma ci vuole anche la
probabilità che lo sforzo porti ad una ricompensa. Per esempio, un docente che non da
mai trenta, rappresenta un disincentivo allo studio per gli studenti perché la probabilità
che lo studente raggiunga il massimo della ricompensa è pari a zero. Lo sforzo è
determinato dall’aspettativa della ricompensa a sua volta statisticamente data da questi
due aspetti: dall’entità del valore della ricompensa, moltiplicato per la probabilità del
suo accadimento. Questo sforzo dipende anche dal fatto che gli individui hanno
competenze diverse, hanno capacità di lavoro diverse, hanno abilità di lavoro diverse.
C’è quindi chi ha la capacità di leggere un libro al giorno e chi impiega una settimana.
Lo sforzo genera una prestazione che dipende dal grado di competenze, di capacità e
abilità che gli individui possiedono e, siccome gli individui possiedono capacità diverse,
lo sforzo si traduce in prestazioni diverse. A parità di sforzo, due individui generano
prestazioni diverse. Anche quando gli studenti preparano un esame in coppia, alcuni
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hanno una marcia in più e alcuni una marcia in meno. Lo sforzo e il tempo impiegato
nello studio è lo stesso, l’esame è stato preparato insieme, ma i risultati sono diversi. Lo
sforzo è una cosa diversa dalla prestazione. La prestazione naturalmente ci darà poi
delle soddisfazioni, ci saranno delle ricompense intrinseche ed estrinseche. La
ricompensa intrinseca sarà la mancetta che il genitore darà allo studente se supererà
l’esame. La competenza intrinseca, banalizzando, consisterà nel fatto che lo studente
sarà riuscito a mandare a quel paese il docente durante l’esame perché non gli stava
simpatico. In azienda di estrinseco che cosa c’è? I quattrini che il lavoratore riceve alla
fine del mese. Di intrinseco ci può essere, invece, la promessa di una carriera, (“stai
lavorando bene, sto apprezzando il tuo lavoro e sto riflettendo se tra un paio di anni non
sia il caso di farti passare di ruolo”). Anche semplicemente il fatto di dire ai propri
dipendenti che hanno lavorato bene e che si è contenti di loro, già rappresenta una
ricompensa intrinseca. Certe volte, alle persone basta poco per sentirsi gratificati. Per
esempio, dire alle persone grazie è una cosa banalissima ma caduta in disuso nelle
organizzazioni. Nella gerarchia tutto è un atto dovuto. Il grazie contribuisce ad un atto
di gratificazione. La gratificazione psicologica ha il suo valore. Queste ricompense
intrinseche ed estrinseche contribuiscono alla soddisfazione dell’individuo. La
soddisfazione contribuisce, di nuovo, ad alimentare i valori legati alle ricompense e
quindi a riattivare il circuito che può divenire virtuoso. Quindi, alla fine, secondo
Lawler, questa idea di sforzo-prestazione-soddisfazione può creare, nell’organizzazione,
un circuito virtuoso ai fini della produttività.
In questo modo, si torna a Barnard e a quest'idea del compenso che deve gratificare.
L’altra cosa che afferma Barnard è che ci sono gratificazioni che non sono solo
monetarie, ma di vario genere. Banalmente, imparare a dire “grazie” o imparare a dire
“sono contento del lavoro che hai svolto”, “sei stato veramente bravo”, sono
gratificazioni importanti. L’elemento sottostante a queste frasi, ma non solo a queste
frasi, diventa per Barnard, la rilevanza strategica della comunicazione nelle
organizzazioni.
Di conseguenza, compito del dirigente, per Barnard, non è quello di trasmettere gli
ordini gerarchici della proprietà agli operai (fai questo entro oggi, esegui questo…), ma
piuttosto quello di coinvolgerli e di farli aderire ai fini dell’organizzazione. I dirigenti
devono quindi imparare a comunicare le idee e non a trasmettere ordini.
Questa è una figura diversa di direzione. I dirigenti devono imparare a "comunicare" le
idee (che devono essere capite, per certi aspetti condivise e accettate) e non a
trasmettere gli ordini, è un mondo diverso dal punto di vasta organizzativo: “la
comunicazione è necessaria per tradurre il fine nei termini dell’azione concreta richiesta
per attuarlo”. Trasmettere gli ordini è una cosa semplicissima, comunicare le idee è
molto più impegnativo. Mentre il trasmettere ordini consiste nel dire “fai questo e non
chiedermi perché devi farlo e non accetto scuse sul fatto che non hai assolto il tuo
compito”, comunicare le idee è molto più impegnativo soprattutto perché le idee devono
essere capite e le idee sono fatte di due cose: il problema e la soluzione. Comunicare le
idee vuol dire comunicare il problema e comunicare la soluzione, cioè dire all’operaio:
“dobbiamo rapidamente fare questo perché mi ha telefonato il cliente e vuole
assolutamente che questo sia fatto”, e questo il problema; la soluzione è “cerchiamo di
raggiungere assolutamente questo obiettivo”. Comunicare le idee, cioè il problema e le
soluzioni, è impegnativo perché richiede più tempo, perché le idee devono essere capite,
devono essere comprese, per certi aspetti devono essere condivise ed accettate. Però,
come dice Barnard, la comunicazione è necessaria per tradurre il fine istituzionale,
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l’efficacia nei termini dell’azione concreta richiesta per attuarla. Comunicare le idee
anziché trasmettere gli ordini, per Barnard vuol dire aumentare la ricompensa,
aumentare la gratificazione e quindi aumentare la produttività. Un meccanismo che
porta a migliorare la gratificazione dell’individuo non è ricevere ordini, ma ricevere
idee e in questo modo il grado di coinvolgimento diventa maggiore. E’ importante il
coinvolgimento e la persuasione dei dipendenti rispetto ai processi decisionali, anche
quelli di minore valenza strategica. Tuttavia, è chiaro che la comunicazione verticale,
discendente, cioè dall’alto verso il basso, dal dirigente agli operai, non è un processo
organizzativo semplice, è un processo organizzativo molto articolato, è un processo
organizzativo complesso. Perché è complessa la comunicazione discendente, verticale?
In primo luogo, perché quando il fine istituzionale non è semplice, è necessaria una
comunicazione maggiore. Quando il fine istituzionale è aumentare la quota di mercato
del 3%, il fatturato del 5% e i profitti del 2%, diventa un fine istituzionale molto
complesso. Questo fine resta ancora molto astratto in quanto risulta difficoltoso farlo
discendere verso gli operai e tradurlo nella produttività del singolo operaio. Comunicare
e tradurre al singolo operaio il fine istituzionale, in modo da definire quello che sarà il
suo impegno lavorativo, richiede una strategia di comunicazione molto complicata.
In secondo luogo, bisogna anche considerare che ci sono molti aspetti che risultano
difficili da comunicare a parole. In alcuni argomenti è addirittura impossibile. Quando
la difficoltà è grande, è evidente che il tempo necessario può limitare il numero di
coloro tra i quali la comunicazione può essere efficacemente scambiata. Certe volte, ci
sono dei segreti aziendali che non possono essere riferiti. Per esempio, si sta cercando di
fare un campione per la Ferrari (una variante del motore) che può andare bene oppure
no. Questa trattativa, diretta alla realizzazione e proposta di un prototipo, è una cosa
segreta, che solo l’alta direzione conosce e che in questo momento non può essere
estesa a tutti. Se l'informazione andasse sui giornali, si rischierebbe di pregiudicare la
relazione che l'azienda sta costruendo. Ci cono quindi comunicazioni che non si
possono esternare. Altre comunicazioni sono oggettivamente difficili da trasferire a
parole e allora, quando il tempo necessario a trasferire a parole tali informazioni è
limitato, si limita inevitabilmente anche il numero di interazioni che riescono ad avere
con un certo numero di persone.
In terzo luogo, se ciascuno dei lavoratori può vedere ciò che l’alto sta facendo e può
vedere la situazione nel suo insieme, la quantità di comunicazione necessaria è inferiore.
Se ogni lavoratore può vedere il lavoro degli altri e può vedere i miglioramenti che gli
altri operai apportano nel lavoro che svolgono, la quantità di lavoro necessaria è
inferiore perché lui impara guardando gli altri e non c’è bisogno di comunicazione. E’
un apprendimento visivo per cui la comunicazione verbale può essere minore.
Il quarto punto è costituito dal fatto che è evidente che in qualsiasi gruppo la
complessità della comunicazione cresce con grande rapidità con il crescere del numero
delle persone nel gruppo. Per esempio, quando sono arrivato il primo giorno a lezione,
vi ho dato le regole del gioco di questo corso: come si faranno gli esami, quali saranno i
docenti, quale sarà il programma del corso ecc. In realtà, voi siete molti e mi dimostrate
che non avete capito o che alcuni di voi non hanno capito queste regole del gioco perché
la complessità della comunicazione cresce con grande rapidità con il crescere del
numero delle persone in quanto ci sono sempre delle persone che hanno distorto la
comunicazione o che non l’hanno capita e che vengono quindi a chiedermela di nuovo.
Il punto centrale di Barnard è che i dirigenti devono imparare a comunicare le idee e
non a trasmettere gli ordini. Comunicare le idee è un processo complesso che richiede
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Altri importanti contributi sono quelli forniti da Blake e Mouton. Qui siamo già molto
più vicini a noi, siamo nel 1969. Questi autori fanno sempre parte della scuola
motivazionalista e si pongono un problema: bisogna avere capi di prima linea (capi
reparto o capi officina) di tipo autoritario o democratici e collaborativi?
Secondo Blake e Mouton, il percorso della scuola motivazionalista sembrerebbe
indicare l’affermarsi di dirigenti che non ordinano ma che comunicano, di gruppi di
lavoro che si auto organizzano e non di gruppi gerarchicamente organizzati. La scuola
motivazionalista sembrerebbe quindi indicare una linea rossa nell’evoluzione della
grande impresa e nella sua organizzazione che va verso una sorta di democrazia, di pace
sociale, dove la conflittualità viene meno perché la motivazione al lavoro viene
incentivata tramite gli strumenti descritti in precedenza.
Blake e Mouton si chiedono, allora, se ci sia un modo giusto e uno sbagliato di dirigere
da parte dei capi reparto, sovra ordinati rispetto agli operai ma direttamente a contatto
con loro. Tali autori fanno delle ricerche empiriche ed individuano due tipologie di capi:
i capi orientati al dipendente e i capi orientati alla produzione.
I primi sono orientati agli operai, al dipendente e quindi sono capi collaborativi,
chiamiamoli democratici, ragionevoli. Danno direttive di massima e lasciano decidere
sui dettagli. I capi orientati alla produzione sono molto rigidi, sono autoritari, danno
ordini, obbligano ad eseguire, sono anche certe volte arbitrari sui giudizi che danno sui
singoli individui. Quello che Blake e Mouton arrivano ad affermare è che in realtà
servono tutte e due le tipologie di capi e queste due tipologie di capi servono a seconda
dei contesti produttivi, a seconda della congiuntura economica. Così, i capi orientati al
dipendente hanno un difetto: rischiano di diventare una caricatura dai connotati
filantropici e assistenziali, cioè una sorta di buonismo organizzativo che rischia di
mascherare delle inefficienze. Per esempio, è meglio avere un professore buono o un
professore cattivo? L’aspetto più importante dovrebbe essere quello di avere un
professore competente. Poi, se il professore è competente, è meglio un professore
buono. Il professore buono è uno che quando uno studente gli dice che non può
sostenere l’esame in quel giorno, perché ha avuto dei problemi, glielo rimanda. Questo
tipo di professore finisce però per assumere un’immagine caricaturale perché la voce
circolerà e tutti gli altri studenti potrebbero avvalersi della stessa scusa. Alla fine, questa
scusa, diventerebbe un disincentivo alla produttività perché qualcuno, con questa
scappatoia, potrebbe rimandare l’esame. Un professore buono è un professore che
dialoga con gli studenti, che cerca di capire anche i loro problemi di studio, che cerca di
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
diventare collaborativo e di proporre nuovi stimoli, mostrando quindi anche dei pregi. I
capi orientati alla produzione sono, invece, rigidi, autoritari, assimilabili ai professori
cattivi, che non rimandano l’esame. Questi capi organizzativi sono però anche più
dinamici, veloci, decisi nelle loro scelte perché non le comunicano, le assumono e basta.
Allora, cosa è bene avere in una fabbrica, i primi o i secondi? Non esiste un bene e un
male secondo questi autori perché in alcune aziende, in alcuni momenti della loro storia,
c’è bisogno di capi orientati al dipendente. Per esempio, quando c’è da ridurre la
conflittualità o quando c’è da incrementare la produttività in maniera incrementale. Ma
quando sono necessarie delle drastiche ristrutturazioni, quando c’è anche da licenziare
alcuni dipendenti, ci vogliono dei capi cattivi, orientati alla produzione.
Per esempio, il capitalismo tedesco e il capitalismo anglosassone hanno regole
completamente diverse, sono due capitalismi diversi. Quello tedesco è un capitalismo
che si caratterizza per un modello di compartecipazione degli operai nel processo
decisionale delle aziende. Nelle grandi aziende tedesche, all’interno del consiglio di
amministrazione, ci sono i rappresentanti dei sindacati, quindi i rappresentanti dei
lavoratori. Nel modello capitalistico americano, invece, non esiste niente di tutto questo
perché nel consiglio di amministrazione ci sono i rappresentanti della proprietà, del
capitale azionario. Allora, è migliore il capitalismo americano o il capitalismo tedesco?
Il capitalismo tedesco è un modello che, prevedendo anche i rappresentanti dei
lavoratori nel consiglio di amministrazione, si presenta come un tipo di capitalismo che
favorisce la pace sociale e che riduce la conflittualità tra operai e proprietà aziendale. È
un capitalismo che, nei momenti in cui la congiuntura economica è positiva, funziona
bene perché ha dei livelli di produttività molto elevati, dovuti alla situazione di pace
sociale che si instaura e alla relativa mancanza di boicottaggi. Però, quando si è in
presenza di una congiuntura negativa, ossia quando arrivano momenti recessivi e nelle
aziende si impongono le “cure dimagranti” che prevedono, per esempio, la necessità di
procedere a licenziamenti, questo modello non funziona. Tali ristrutturazioni possono
essere realizzate, per esempio, a seguito della necessità di introdurre nuove tecnologie
che richiedono competenze professionali diverse, cioè operai che sanno lavorare con
una tecnologia elettronica e non operai che sanno lavorare con una tecnologia
meccanica. In questi casi, è evidente che la grande azienda tedesca si blocca perché non
riesce a operare i licenziamenti necessari. Nel consiglio di amministrazione dell’impresa
tedesca ci sono, infatti, i rappresentanti dei lavoratori che non appoggiano queste scelte
radicali di ristrutturazione che penalizzerebbero prima di tutto gli operai. La grande
impresa tedesca presenta quindi un’inerzia organizzativa alla sua ristrutturazione molto
forte. L’impresa americana, dove il consiglio di amministrazione è basato sulla
proprietà, dove c’è la libertà di licenziamento e dove quindi vi è quindi tutta un’altra
serie di condizioni, risulta essere molto meno efficiente di quella tedesca nei periodi di
congiuntura economica positiva. Di fronte a periodi di alta incertezza economica, di
fronte a periodi di recessione, l’industria americana è però molto più rapida nel dare
luogo a processi di ristrutturazione radicale. Il ragionamento intorno a questi due esempi
diventa, per certi versi, analogo a quello relativo al capo orientato alla produzione e al
capo orientato al dipendente. Sicuramente, i capi orientati al dipendente sono i capi
tipicamente del modello capitalistico tedesco; quelli orientati alla produzione sono
quelli del modello americano. Non è che l’uno sia migliore dell’altro in assoluto ma, a
seconda del contesto, è preferibile avere quelli di tipo “A” o quelli di tipo “B”.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
che sono caratterizzati da una forte affiliazione, cioè da un comportamento volto alla
ricerca dell’accettazione all’interno di un'organizzazione.
Leggendo una qualsiasi organizzazione secondo un'interpretazione di questo tipo, si
possono quindi ritrovare queste due figure: c’è sempre il personaggio che cerca il
successo e che di conseguenza non scende a compromessi, che predilige l’operatività e
che compie determinate azioni assumendosi anche un significativo livello rischio e c’è
sempre, d'altro canto, la persona il cui obiettivo è quello di farsi accettare da tutti e che
limita le occasioni di conflitto con i propri colleghi o con le altre persone.
In conclusione, andiamo a contestualizzare questa visione. Non è difficile infatti
intravvedere, dietro la tesi dell'autorealizzazione attraverso la soddisfazione del need for
achievement, uno dei caposaldi della ideologia diffusa, negli anno '50, presso la classe
media americana: imprenditorialità, amore per il successo, nessun timore per il lavoro
duro purché via sia guadagno e risultato. In altri termini, questo contributo di natura
psicoanalitica trova conferma rispetto ad un determinato periodo storico e ad uno
specifico contesto sociale: l'America degli anni ’50, in cui l'elevato sviluppo industriale
favoriva l'affermazione degli achiever, degli individui alla ricerca di una realizzazione
da conseguire attraverso il lavoro.
Nel contesto appena descritto, uno dei modelli principali che veniva preso come
incentivo, dei modelli che potevano essere considerati ideologici, dei valori
fondamentali, era costituito dal denaro. Nella gestione delle organizzazioni, il denaro
rappresentava il principale incentivo. Il contributo di Abegglen (1958) può quindi
considerarsi una continuazione del precedente ed è finalizzato ad esprimere riserve sulla
centralità del denaro e sulla sua natura di motivatore.
Ora, immaginate il denaro e quello che può rappresentare per voi. Il denaro può avere
due significati: il primo è quello di considerare il denaro di per se, in termini di
ricchezza; l’altro è rappresentato dalla funzione che viene svolta dal denaro come mezzo
di scambio, per poter acquisire tutti i beni che a loro volta esprimono ricchezza, agio e
miglioramento dello stile di vita.
Le funzioni del denaro sono quindi queste due: sia come valore simbolico, sia come
strumento necessario per acquisire beni che verranno poi utilizzati per il
soddisfacimento dei propri bisogni e, più in generale, per aumentare il proprio tenore di
vita. Per questo motivo il denaro viene considerato come motivatore.
All’interno di una organizzazione il denaro ha, inoltre, un significato particolare.
Pensate a due individui che lavorano all'interno della stessa azienda: il primo guadagna
750 euro e l'altro guadagna 3000 euro. Da questa semplice indicazione, è possibile
desumere che il soggetto che guadagna 3000 euro è presumibilmente più importante per
l’organizzazione e svolgerà ruoli, funzioni o compiti più complessi rispetto al soggetto
che guadagna 750. Molto probabilmente, il soggetto che guadagna di meno sarà un
addetto alle funzioni operative e quindi un operaio o una persona che è entrata da poco.
Nelle organizzazioni, il denaro assume quindi un significato classificatorio. Esso è un
dato di sintesi che va a riassumere lo status di quella persona all’interno
dell’organizzazione, la storia pregressa dell'individuo, la propria carriera personale, le
proprie competenze, la propria capacità e il contributo che il soggetto conferisce
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mangiare nei giorni successivi); dopo di che potrà soddisfare i bisogni propri sociali
(abitare e lavorare in un posto gradevole); cercare poi l'accettazione da parte dei propri
colleghi, e soltanto nell’ultimo stadio, cercare l'affermazione e la realizzazione sul
lavoro.
Ad esempio, un emigrante con il titolo di laurea, generalmente, cerca nell’immediato di
soddisfare il primo gradino (sopravvivenza) ma, successivamente, aspira, in modo
legittimo, a soddisfare bisogni di ordine superiore.
L'approccio proposto da Maslow si presenta quindi abbastanza automatico e meccanico:
solo coloro che hanno soddisfatto i bisogni precedenti sentono il bisogno di realizzarsi e
di crescere psicologicamente.
Ed è proprio in relazione a questa ipotesi di "funzionamento" della scala dei bisogni che
sono state avanzate le principali critiche. In particolare, tali critiche sono relative ad un
implicito evoluzionismo dell'approccio. In altri termini, si ha un impostazione un po’
meccanicistica che consente il passaggio da uno stadio all’altro soltanto dopo aver
soddisfatto il bisogno precedente.
Contro questa ipotesi di evoluzionismo e di sequenzialità semplice e semplicistica dei
bisogni, possono essere però avanzate molte prove contrarie: esistono soltanto questi
tipi di bisogni o possono essere definite ulteriori categorie? È necessario, inoltre, che si
segua un determinato ordine nel soddisfacimento di questi bisogni o c’è la possibilità di
che due o più bisogni possano essere soddisfatti contemporaneamente? A queste
domande è possibile dare una risposta affermativa (si pensi, ad esempio ad un individuo
che si priva di beni di prima necessità per acquistare un'automobile costosa, di grossa
cilindrata, che rappresenta un particolare stile di vita, un determinato status).
Al di là di queste critiche condivisibili, rimane il merito di questo approccio di aver
proposto un'interpretazione e una contestualizzazione del concetto di autorealizzazione.
Negli anni ’50 altri autori contribuirono a definire il quadro organizzativo della
valorizzazione delle risorse umane come capitale fondamentale della competitività delle
imprese.
Tra questi, un importante contributo è quello di Argyris (1971) che si incentra sul
concetto di sviluppo organizzativo. La tesi di fondo di questo approccio è costituita dal
fatto che, in molti casi, le motivazioni, gli interessi di sviluppo individuale, di ogni
singolo individuo facente parte di un’organizzazione, non coincidono con gli interessi
dell’organizzazione stessa: l’organizzazione contrasta direttamente gli interessi di
sviluppo individuale, soprattutto ai livelli più bassi. Ad esempio, ad un operaio nessuno
ha mai chiesto cosa volesse fare, come lo volesse fare e perché e quindi di contribuire
allo sviluppo dell’organizzazione. L’operaio veniva sempre considerato “manodopera”
e doveva soltanto ricevere ordini ed eseguire e realizzare ciò che gli era stato chiesto: ai
livelli più bassi non c’è decisione né ricerca di soluzioni, si lavora come se si fosse
bambini, sopprimendo la propria creatività.
Per Argyris, questi modelli prevalenti di organizzare il lavoro nelle imprese sono
incongruenti rispetto ai bisogni di un adulto responsabile, soprattutto se si considera che
l’essere umano cresce attraversando i seguenti sette stadi di sviluppo:
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Sulla base di queste due teorie, si profilano quindi due distinti modelli di
organizzazione: quella vecchia, con persone controllate in cambio di una retribuzione e
quella nuova, in cui si collabora e al cui interno gli individui tendono ad autoregolarsi.
La prima costituisce un modello appartenente al passato, rivolta prevalentemente ad
individui con qualifiche basse. La seconda, invece, è il modello dell’anarchia
organizzata.
È necessario precisare, però, che, con questo termine, Mc Gregor non intende far
riferimento ad una forza lavoro indisciplinata. Non è che ognuno può fare quello che
vuole all’interno dell’organizzazione. Una persona non può entrare in fabbrica e fare
quello che gli passa per la testa o, addirittura, non svolgere alcuna attività. Quello che si
vuole affermare è ben altro.
La forza lavoro deve essere, infatti, basata sull’autoregolazione e la disciplina
interiore. L’organizzazione deve cioè basarsi su comportamenti di collaborazione
volontaria da parte dei dipendenti. Con questo si afferma che ognuno possa decidere o
almeno avanzare proposte relative alle attività che intende realizzare. Ogni dipendente
deve innanzitutto sapere quello che sa fare meglio per poi dialogare con la direzione che
gli andrà ad affidare la realizzazione di quella specifica attività.
Anche secondo questo approccio, quindi, bisogni individuali e bisogni aziendali non
sono incompatibili: “l’idea è che il dipendente dovrebbe gestire in autonomia relativa
una piccola porzione di azienda, avendone in cambio sia la retribuzione, sia una
possibilità di crescita”.
I riflessi che tale contributo produce, in merito al comportamento che devono tenere i
dirigenti nei confronti dei propri dipendenti, è coerente con il messaggio generale della
scuola motivazionalista (istanze antiautoritarie). In particolare, i dirigenti devono avere
mano leggera nel comando e nel controllo, porre pochi veti, dare fiducia senza
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Le principiali critiche che sono state rivolte alla teoria motivazionalista sono le seguenti:
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
elementi di contesto della scuola classica ossia la fabbrica vista come ambiente di
lavoro ostile e degradante.
Attualmente, però, si sta assistendo ad una rivalutazione di alcuni concetti della scuola
motivazionalista che stanno subendo un’evoluzione non solo terminologica ma anche
nel loro significato in quanto il contesto in cui tale teoria è nata ed è stata sviluppata non
è assimilabile a quello attuale. Oggi, ai concetti di motivazione o di autorealizzazione si
sono sostituiti quelli di empoweerment, commitment, identificazione.
Considerate, ad esempio un’organizzazione non profit (per organizzazione, infatti, non
bisogna considerare soltanto un’impresa ma anche altre strutture all’interno delle quali
le persone non vengono necessariamente pagate).
Considerate, inoltre, un individuo che lavora all’interno di un’azienda tradizionale che è
in una situazione disastrosa dal punto di vista finanziario, quasi al fallimento e che
continua a lavorare lì anche se non riceve lo stipendio da svariati mesi, pur avendo
valide alternative.
In questi casi, cadono i presupposti alla base della teoria motivazionalista in quanto non
si hanno condizioni di lavoro disumane, non si ha sfruttamento della forza lavoro.
C’è stata quindi un’evoluzione dei concetti di motivazione o autorealizzazione, un
ripensamento delle motivazioni che spingono i soggetti a partecipare all’interno delle
organizzazioni. Questi concetti sono rappresentati dalle nozioni di commitment
(affettività, attaccamento ad una determinata causa), di epowerment (miglioramento
continuo), di identificazione (investimento affettivo), di cultura o di clima organizzativo
che, attualmente, stanno configurando nuove prospettive di sviluppo della teoria
motivazionalista.
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5 LE TEORIE CONTINGENTI
La terza scuola che andremo ad analizzare, dopo la scuola classica e dopo quella motivazionalista, è
la scuola delle teorie contingenti.
Le teorie contingenti, sviluppate soprattutto tra gli anni ‘50 e gli anni ’70, si basano sulla rottura del
presupposto della scuola classica secondo cui esiste un solo modello universale di organizzazione,
cioè che esista un unico modo ottimo di essere e di funzionare delle organizzazioni.
Si basa inoltre sulla rottura del presupposto che un’organizzazione “ottima” si basa unicamente su
specifici aspetti motivazionali e su stili di leadership dei dirigenti (come prospettato dalla scuola
motivazionalista).
Voi forse ricordate quei principi scientifici di funzionamento della scuola classica, teorizzati da
Taylor, da Fayol e da Weber, ebbene quei principi scientifici di funzionamento andavano proprio a
configurare un modello ottimo di funzionamento dell’ organizzazione: esiste, secondo le scuole
classiche, cioè un “ottimo”, un po’ come ci viene insegnato dalla microeconomia.
Ebbene la scuola contingente dice “…secondo noi questo ottimo non esiste”, lo dimostra anche il
fatto che all’interno di ogni settore esiste una varietà di modelli organizzativi che hanno
comportamenti strategici diversi; perché se trovo un “ottimo” la concorrenza dovrebbe eliminare
tutti quei modelli organizzativi d’impresa che sono obsoleti, che sono inefficienti, che non
funzionano bene, e invece non è così.
Se voi prendete, ad esempio, il settore automobilistico voi trovate grandi imprese conglomerate che
fanno, oltre alle automobili, camion, macchine movimento terra, trattori, con le loro regole, con la
loro organizzazione, ma trovate anche aziende di nicchia, specializzate nel produrre solo delle
vetture con certe caratteristiche: pensate alla Maserati, o alla Ferrari; è evidente allora che come nel
settore preso ad esempio non esiste un modo“ottimo” di organizzare, e la dimostrazione è che
esistono una varietà di modelli organizzativi che nel tempo persistentemente operano nel settore
senza che l’uno elimini l’altro.
Vi ricordate approssimativamente il concetto evoluzionistico darwiniano nella sua forma
pura?…esiste solo un ottimo perché questo ottimo all’interno della specie riesce ad eliminare tutti
gli altri che hanno dei difetti, anche di funzionamento. Ebbene questo modello darwiniano puro
applicato alle aziende non funziona, perché in realtà fanno parte dello stesso settore (per analogia
con la teoria potremmo dire habitat) diverse specie animali, cioè diverse organizzazioni che operano
nello stesso settore che hanno caratteristiche completamente diverse.
Ecco questa mi sembra l’analogia più logica.
E, riconosciuta questa varietà, non è possibile avere una teoria, come quella classica o come le
teorie motivazionaliste, che stabilisca un unico modello organizzativo “ottimo”.
Questa varietà dimostra che queste teorie non bastano, anzi:
“la società ha pagato un prezzo enorme nel nostro secolo alla ricerca dell’ “unica via ottima” di
organizzare. ed il prezzo è stato pagato dalle sue organizzazioni che sono state indotte ad adottare
soluzioni alla moda piuttosto che soluzioni funzionali” (Mintzberg, 1989).
Cioè si sta pagando un prezzo altissimo alla ricerca dell’ottimo, e ad inseguire questo ottimo erano
spesso soluzioni alla moda (Es. negli anni ’90 tutti ad inseguire il mito della flessibilità).
Questa idea che fissa un modello ottimo è una finzione ideologica basata su delle colpe manageriali.
Dunque se non esiste un’organizzazione ottimale, nel senso di ottimo che avete studiato anche nella
microeconomia, vuol dire che si deve passare da un concetto di one best way, un unico modo ottimo
di essere, a un one best fit, dice la scuola contingente, cioè l’idea è che esiste un migliore ma che è
un migliore relativo, è il modello organizzativo più adatto date quelle condizioni di contorno, è il
modello organizzativo più adatto dato il contesto in cui quell’impresa opera; quindi non è un ottimo
assoluto, ma un ottimo relativo, relativo al contesto in cui l’organizzazione opera.
Allora l’idea all’interno della quale le teorie contingenti si pongono è questa: non esiste più l’ottimo
assoluto ma esiste un ottimo relativo, esiste il migliore adatto. Anche nell’ideologia evoluzionistica
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
non esiste più il migliore, esiste il fitest, cioè il più adatto rispetto al contesto. E il contesto è molto
relativo perché se il contesto cambia tu non sei più il fitest, potresti essere il peggiore e quindi un
lower, un perdente nella competizione.
Se cambia il contesto, il contesto condiziona anche il dirigente sul modello organizzativo più adatto.
Questa è l’idea chiave della teoria contingente.
Le teorie contingenti cercano quindi di spiegare la diversità organizzativa come indotta, influenzata,
condizionata dal contesto ambientale.
E’ un’idea che qualcuno definisce “situazionalista”, cioè è la situazione dell’azienda che modella,
plasma i suoi modelli organizzativi.
Da cosa è dato, da cosa è fatto questo contesto?
Con le teorie contingenti si cerca di spiegare la diversità organizzativa indotta da un contesto
ambientale diverso. La “situazione”, il contesto dell’impresa è la variabile indipendente e la
struttura organizzativa quella dipendente.
In particolare esiste una connessione tra la forma organizzativa ed alcune variabili “dure”, che
possono essere:
• Interne: la scuola contingente studia in particolare il ruolo della tecnologia e come questa
condiziona il modello organizzativo aziendale e come la dimensione aziendale condiziona il
modello organizzativo;
• Esterne: la scuola contingente studia in particolare i caratteri dell’ambiente esterno in termini di
prevedibilità e incertezza.
L’idea delle scuole contingenti è che non esiste un modello organizzativo ottimo ma ogni modello
organizzativo dipende da dei fattori contingenti legati al contesto. Quali sono i fattori contingenti?
Alcuni sono interni, come la dimensione e la tecnologia, altri sono esterni come il cambiamento
della competizione, che può essere prevedibile o non prevedibile con alti e bassi gradi di incertezza.
Un modello organizzativo in un certo momento, in un certo contesto, con certe tecnologie è ottimo,
ma può diventare perdente dieci anni dopo perché cambiano alcuni fattori.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Si sono sviluppate quattro sottoscuole rispetto alla Contingency Theory, quattro scuole diverse che
partono dagli stessi presupposti di base ma mettono in correlazione elementi diversi:
1. La scuola sulla Tecnologia;
2. La scuola sulla Dimensione;
3. La scuola sull’Ambiente;
4. La scuola sulla Strategia.
5.2 LA TECNOLOGIA
Allora partiamo da quella legata alla tecnologia. Per partire dalla scuola sulla tecnologia bisogna
partire da un antefatto che ha stimolato l’attenzione di due studiosi che sono Trist e Bamforth.
Trist e Bamforth negli anni ’50 presso il Tavistock Institute di Londra hanno fatto uno studio su
come una nuova tecnologia che convertiva il taglio meccanico del carbone all’interno delle miniere,
quindi applicato al settore dell’estrazione del carbone, aveva portato la direzione aziendale ad
implementare un nuovo modello organizzativo di tipo tayloristico. Ovvero, è uscito questo nuovo
modo di tagliare il carbone, che cerca di automatizzare il processo di lavorazione del carbone, che
consente quindi di implementare il modello tayloristico: non più quindi squadre di operai ma
ognuno specializzato in un compito.
Questo modello parcellizzato di lavorazione del carbone, questa nuova tecnologia ha comportato
anziché un aumento della produttività, come ci si aspettava dalla direzione aziendale, una brusca,
forte caduta della produttività.
Cioè una migliore tecnologia che consentiva di implementare finalmente un modello tayloristico dal
quale la direzione aziendale si attendeva logicamente, grazie alla nuova tecnologia e grazie al
modello tayloristico, un aumento di produttività, aveva invece generato una brusca caduta
complessiva della produttività. Quindi in contraddizione, come dire, con tutto quello che avevano
studiato finora le teorie.
Si dimostrava che il modello tayloristico aveva distrutto la coesione precedente tra gli operai, con i
loro gruppi di lavoro, generando forti tensioni e minore produttività. Cioè gli operai avevano
rifiutato il nuovo modello organizzativo, avevano rifiutato le nuove tecnologie appena state
introdotte.
E allora da questo fatto i due studiosi avevano intuito che non è vero che una nuova tecnologia e un
modello organizzativo di tipo teyloristico significa sempre maggiore produttività.
Secondo i due studiosi il problema è l’integratività di due cose: il sistema tecnico, cioè le
tecnologie, con il sistema sociale, cioè con il modello organizzativo che è fatto di persone che
hanno le loro routine, le loro convinzioni, le loro abitudini di lavoro, le loro competenze. Se non
riesci a far integrare dal punto di vista organizzativo il sistema tecnico con il sistema sociale ma le
due cose le metti in contrapposizione, la produttività subisce una brusca caduta.
Pensate, ad esempio, all’introduzione del computer nelle procedure amministrative; il computer non
è nato nel 2000 ma diversi anni fa e le procedure amministrative dal punto di vista contabile
avrebbero potuto essere informatizzate 20 o 30 anni fa; ma questa nuova tecnologia che
indiscutibilmente avrebbe aumentato la produttività, e avrebbe anche reso forse più semplice il
lavoro di tanti impiegati, ha impiegato molti anni perché molti amministrativi rifiutavano di poter
informatizzare alcune procedure: il sistema tecnico, il computer, non integrava con la struttura, con
la tradizione, con le competenza perché la gente si era formata sulla carta e sulla penna; quindi
abbiamo dovuto aspettare quasi una generazione, 20 anni, affinché nelle imprese ci fosse questa
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
larga diffusività dell’uso del PC per le procedure; se si fosse introdotto subito il computer, la
produttività nel settore impiegatizio sarebbe calata, non sarebbe aumentata.
Il concetto di tecnologia per questi due autori comincia ad assumere due facce, due facce tra loro
diverse: una faccia è la conoscenza tecnologica di base; una cosa è, cioè, il prodotto tecnologico di
base, ad es. il telaio elettronico, che più o meno è uguale; altra cosa sono le conoscenze tecniche ed
organizzative per utilizzare quel telaio elettronico, cioè in tutte le aziende che utilizzano lo stesso
telaio elettronico non avrete la stessa produttività del telaio…Perché? Allora la produttività non è
determinata solamente dalla conoscenza tecnologica di base, è determinata da qualcos’altro, è
determinata cioè dalle condizioni tecniche e organizzative, da come gli operai sono abili a lavorare
su quei telai, da come gli operai sono capaci, da come gli operai accettano quel modello
organizzativo di divisione del lavoro, che può essere tayloristico o non tayloristico; quindi bisogna
tener presente l’integrabilità di queste cose; e quindi alla fine abbiamo livelli di produttività diversi
pur avendo le stesse tecnologie nelle aziende, perché abbiamo condizioni tecniche organizzative
diverse e non perché abbiamo diverse tecnologie.
Ecco, con queste premesse e a queste accezioni della tecnologia si riferisce il contributo successivo
di Joan Woodword, che adesso andremo a vedere.
Cosa disse questa autrice? Questa autrice fece una ricerca su 100 imprese inglesi e raccolse molti
dati, molte informazioni, molti numeri sulla produttività di queste imprese, sui prodotti che
facevano, sui loro impiegati, sui loro clienti, sui modelli organizzativi di queste imprese; e quando
arrivò ad analizzare i dati della ricerca empirica non riusciva a capire nulla per la varietà del
fenomeno; utilizzando un po’ di analisi statistiche però cominciò ad individuare le possibili
correlazioni, e cominciò ad accorgersi che c’erano delle correlazioni tra alcune caratteristiche della
tecnologia, adottate da queste imprese, e alcuni modelli organizzativi; per la prima volta lei istituì
una correlazione forte tra le caratteristiche della tecnologia e il modello organizzativo.
Per cercare di trattare statisticamente i dati suddivise le tecnologie in tre categorie:
4. le imprese che svolgono una produzione di singole unità o piccole serie;
5. le imprese che fanno una produzione di massa o di grande serie;
6. le imprese che fanno processi di produzione continua ossia di processo, detto tecnicamente.
Le caratteristiche dell’ambiente sono molto diverse però se io le riconduco a queste tre categorie e
vado a vedere il modello organizzativo che hanno adottato trovo un’elevata correlazione tra i due
fenomeni.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Secondo la Woodword la tecnologia che adotti, il processo di produzione che hai, condiziona la
componente organizzativa.
Per es. nella produzione di massa nell’automobilistico la forza lavoro è poco qualificata: si tratta di
una forza lavoro che svolge un lavoro di basso profilo dal punto di vista qualitativo, si tratta di un
modello tayloristico in un clima organizzativo spesso conflittuale; se poi andate a vedere gli stessi
operai in un’azienda che produce piccoli lotti l’organizzazione cambia radicalmente; se voi pensate
in un’azienda che produce scarpe, queste persone sono operai altamente qualificati nel senso che
non solo sanno perfettamente realizzare le calzature ma si adattano a aggiustare e riparare le
macchine; sono operai che sono abituati a lavorare utilizzando più macchine, non solo a tagliare la
pelle ma anche ad incollare i tacchi alla calzatura ecc., quindi non è la parcellizzazione della catena
di montaggio della produzione di massa, ma sono operai qualificati, polivalenti.
Inoltre nella produzione di massa ci sono molti gradi gerarchici; nella produzione per piccoli lotti ci
sono pochi gradi gerarchici; e cosi’ via. E allora è vero che prendendo produzioni di massa o per
piccoli lotti, voi trovate situazioni organizzative completamente diverse e quindi è dimostrato per la
Woodword che la tecnologia condiziona l’organizzazione.
5.3 LA DIMENSIONE
Vediamo ora la Dimensione che era il secondo fattore analizzato dalla teoria contingente: la
dimensione dell’azienda influenza le caratteristiche dell’organizzazione. Questo è quello che voi
intuitivamente sapete, pensate, da sempre; è chiaro che un’ azienda che ha dimensione molto
elevata ha un modello organizzativo che non può che essere diverso da un’azienda che ha
dimensioni minori. Intuitivamente vi è chiaro, vediamo allora in maniera più dettagliata come siamo
arrivati a questi contributi.
La scuola di Aston nel ’76 fa una ricerca dove la variabile principale per spiegare l’assetto
organizzativo dell’impresa è la dimensione: quanto più grande è l’azienda tanto maggiore tende ad
essere la specializzazione dei compiti, la standardizzazione delle procedure e la formalizzazione
delle comunicazioni interne. Cioè loro dicono: se l’azienda è grande, inevitabilmente si va verso la
specializzazione dei compiti, mentre in una di minore dimensione non c’è una direzione marketing,
una direzione della produzione, una direzione che si occupa di approvvigionamenti, è
l’imprenditore che si occupa di tutte queste attività, quindi non c’è la specializzazione dei compiti
ma c’è un forte accentramento decisionale e la figura del soggetto imprenditoriale che assume un
ruolo dirigenziale, decisionale rispetto a tutte quelle attività; nelle grandi imprese, invece, una sola
persona non può assolvere a tutti questi compiti anche per ragioni di tempo, oltre che di
competenza; in una grande azienda si presume che non ci siano 100 clienti ma ci siano 10.000
clienti, quindi come può un individuo gestire i problemi della produzione, i problemi
dell’amministrazione, i problemi degli acquisti?…quindi si va verso la specializzazione dei ruoli.
Allora abbiamo un modello organizzativo che è condizionato dalla dimensione dell’organizzazione.
Standardizzare le procedure, specializzare i compiti e formalizzazione le comunicazioni interne
erano i tre dei presupposti della burocrazia weberiana. Quindi alla fine la burocrazia diventa un
modello essenziale, necessario anche per la teoria contingente.
5.4 L’AMBIENTE
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
competitivo nel quale le aziende si muovono è diverso; e questa diversità si riflette nel sistema
organizzativo.
L’ambiente può essere:
1. semplice o complesso; a seconda del numero degli elementi che influiscono sull’azienda;
2. l’ambiente può essere alternativamente “uniforme-differenziato”, cioè il grado di varietà
dell’ambiente, varietà intesa nel senso non del numero degli elementi ma quanto questi elementi
sono simili o distanti, diversi tra loro;
3. la terza variabile dell’ambiente è “stabile-dinamico”: un ambiente stabile è un ambiente che non
cambia, dove gli elementi che lo compongono non subiscono particolari perturbazioni; in un
ambiente dinamico invece dobbiamo capire come gli elementi che lo compongono compiono
variazioni, quale è la velocità del cambiamento e quando questo cambiamento può rappresentare
una discontinuità rispetto al passato;
4. Infine l’ambiente può essere “favorevole-ostile”, ovvero ci possono essere elementi
dell’ambiente che possono avvantaggiare l’azienda ed elementi dell’ambiente che possono
renderle più difficile la vita.
Con riferimento al primo punto (semplice/complesso) facciamo due esempi molto semplici, allora
prendiamo un negozio a Perugia che vende ortofrutta. Quale sarà il suo ambiente di riferimento?
Sarà un ambiente complesso…sarà un ambiente dinamico…sarà un ambiente imprevedibile….come
sarà? E poi prendiamo un’impresa farmaceutica che produce dei farmaci ma contemporaneamente
fa anche ricerca per cercare nuovi farmaci per combattere le nuove patologie… Bene che ambiente
avrà? Un ambiente semplice o complesso?
Il commerciante di ortofrutta che ambiente ha? Probabilmente molto semplice …perché? Cosa deve
controllare? Quali sono gli elementi che impattano sulla sua competitività? Beh, quattro o cinque
cose: l’atteggiamento della pubblica amministrazione locale, è un elemento che può impattare
sull’attività del commerciante; supponiamo che la Pubblica Amministrazione impone un orario
continuato dalle 8 alle 20, questa imposizione pesa e impatta sulla sua competitività; innanzitutto
perché magari il commerciante da solo non ce la fa a stare 12 ore in negozio e deve assumere una
commessa; un secondo elemento che impatta sulla sua competitività è il livello degli acquisti; un
altro elemento che lui deve controllare è la concentrazione demografica degli abitanti del centro
storico; un altro elemento che dovrà controllare è che non apra un altro negozio di ortofrutta vicino
a lui. Insomma la sua competitività si basa su quattro o cinque elementi, quindi è un ambiente molto
semplice.
D’altra parte un’impresa farmaceutica deve poter avere un mercato di sbocco dal punto di vista
geografico molto più ampio, che non è nazionale, magari è europeo, e quindi 1) deve poter
controllare regolamentazioni nazionali legate al prezzo dei farmaci a livello europeo; 2) magari
quello che in Italia è obbligatorio vendere in farmacia, se andate in Germania o in Gran Bretagna lo
posso trovare anche nei grandi magazzini, e quindi devo poter attrezzare una rete di vendita diversa
a seconda delle diverse realtà nazionali; 3) ci sono farmaci che vengono prescritti da medici e altri
no, magari devo coltivare le relazioni con i medici, per cercare di incentivare i medici a fare in
modo che prescrivano i farmaci della mia azienda farmaceutica e non quella della concorrenza; 4) la
ricerca scientifica, le decisioni riguardanti la gestione della ricerca di nuovi farmaci; a questo
proposito ci sono dei grandi problemi perché tutti sanno che esistono delle patologie, prendete
l’AIDS, tutti sanno che la cura dell’AIDS sarà un grandissimo business farmaceutico e che la prima
impresa farmaceutica che riuscirà a presentare un farmaco che combatte il problema dell’AIDS farà
miliardi di profitti; è un business straordinario; quindi tutte le aziende farmaceutiche in questo
momento stanno investendo miliardi per cercare di scoprire il nuovo farmaco contro l’AIDS; ma
tutte le aziende che stanno investendo miliardi sanno che la gara competitiva sarà vinta da una sola,
cioè la prima che arriverà a scoprire un farmaco che combatte l’AIDS, dopodiché la gara
competitiva è finita, tutti i miliardi che le altre aziende farmaceutiche hanno speso sono soldi persi.
46
I paradigmi teorici dell'organizzazione
Allora il numero degli elementi per un negozio di ortofrutta che impattano sulla sua competitività
sono quattro o cinque; nel caso dell’impresa farmaceutica sono moltissimi.
Consideriamo il secondo aspetto (uniforme/differenziato). Per un negozio di ortofrutta l’ambiente
non è molto vario perché riguarda il contesto locale a Perugia: la pubblica amministrazione, il
fornitore che mi dà la frutta, i clienti…la varietà è minore. Nell’impresa farmaceutica oltre che
esserci fattori più numerosi, essi sono diversi e più vari tra loro.
Consideriamo il terzo aspetto (stabile/dinamico). Per un negozio di ortofrutta tutto sommato
l’ambiente è stabile, non ci sono cambiamenti improvvisi e repentini; per un’impresa farmaceutica
invece la dinamicità dal punto di vista commerciale, tecnologico (cioè tecnologie per produrre
farmaci), scientifico è elevata; pensate che la vecchia partizione dei farmaci era tutta basata per
esempio su farmaci di origine chimica, adesso stiamo andando verso altre traiettorie scientifiche,
completamente diverse, quindi ci troviamo di fronte ad un ambiente molto dinamico, pieno di
discontinuità e nessuno possiede…come dire…la palla di cristallo per capire la direzione del
cambiamento. L’impresa farmaceutica affronta un elevato livello di incertezza; insomma se voi
foste l’amministratore delegato di una grande casa farmaceutica e doveste decidere il vostro budget
per la ricerca e lo sviluppo (avete ad es. 100milioni di euro da investire), li investite tutti nella
ricerca contro l’AIDS? oppure neanche 1 euro nella ricerca contro l’AIDS e vi indirizzate su altre
patologie? Perché voi sapete che se vincete la gara fate soldi ma se la perdete è finita, quindi non
c’è una razionalità che vi guida. Quest’ultimo è drammatico come ambiente di riferimento per la
sua dinamicità.
Quarto aspetto (favorevole/ostile). E’ estremamente favorevole il fatto che ci sia una grande
attenzione nella ricerca sull’AIDS ma c’è un alto livello di ostilità ad esempio, per la competizione;
nel caso dell’ortofrutta tutto sommato l’ambiente è favorevole anche considerando che l’ortofrutta
viva di una rendita localizzativa.
Queste sono le caratteristiche dell’ambiente, le caratteristiche dal punto di vista analitico…allora è
molto diverso a seconda di “dove” l’impresa operi.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Allora loro cercano di trovare una correlazione tra stati ambientali e configurazioni organizzative e
scoprirono che in presenza di ambienti stabili era più efficiente strutturare l’organizzazione secondo
un modello meccanico; loro lo chiamavano modello meccanico non perché ci sono delle cose
meccaniche ma perché seguiva il modello paradigmatico di tipo tayloristico, cioè l’idea di un
modello gerarchizzato; al contrario in ambienti complessi, dinamici, etc. la scelta migliore era
secondo loro il cosiddetto modello organico; organico perché?
Non perché fosse vitale ma perché in tale modello i capi non sono orientati alla produzione ma al
personale, perché i modelli retributivi non sono a cottimo, perché ci sono meno gradi gerarchici.
Un esempio riguarda il settore automobilistico, un settore complesso, con alto grado di incertezza,
le aziende automobilistiche hanno riformulato completamente il modello organizzativo a favore di
modelli più organici dagli anni 80 in poi (hanno ridotto il numero dei gradi gerarchici , hanno
modificato l’impianto tayloristico della divisione del lavoro tra operai e introdotto gruppi di lavoro,
squadre di operai etc).
Quando nel settore automobilistico sono cominciati i gravi problemi? Quando l’ambiente di
riferimento è cambiato e le imprese hanno dovuto rivedere il proprio modello organizzativo.
Dalla nascita dell’industria automobilistica fino agli anni ’80 le imprese automobilistiche non
avevano avvertito crisi particolari, anche rispetto allo shock petrolifero degli anni ’70 erano crisi
abbastanza modeste; il dramma è invece negli anni ’80, perché? Perché sono arrivati i giapponesi
come concorrenza, perché la domanda ha cominciato rallentare perché ha cominciato a diventare un
mercato maturo, saturo.
Quello che è importante superare è proprio l’antitesi dei diversi modelli: in uno è presente la
ricostruzione della scuola classica, ci ritrovate Fayol, ci ritrovate Taylor; nel modello organico ci
ritrovate la scuola motivazionalista; Ma allora chi ha ragione? La scuola classica o la scuola
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
messi sull’uomo, oppure i trapianti di organi da uomo a uomo); questo è un primo paradigma
scientifico oppure come si può risolvere il problema dei trapianti? Qualcuno dice le cellule
staminali. Dalle cellule staminali si possono ricavare degli organi: si può creare un cuore, un
orecchio, il fegato; non è fantascienza quello che vi sto dicendo, vi sto dicendo che in tutto il
mondo vi sono dei ricercatori, ci sono case farmaceutiche, laboratori di ricerca pubblica, università,
che lavorano su questa cosa: per creare un cuore a partire dalle cellule staminali. Il terzo paradigma
scientifico per risolvere il problema dei trapianti è di tipo ingegneristico, creiamo un cuore
artificiale con il campo della bioingegneria, si può creare il cuore artificiale.
Allora un’impresa farmaceutica che realizza farmaci a supporto per la cura dei trapianti di organi,
ebbene tra 10 anni, tra 20 anni, tra quei tre paradigmi scientifici, chi vincerà la gara competitiva?
Nessuno lo sa, ma vi garantisco che oggi la sfida per un’impresa farmaceutica è decidere dove
investire i soldi, per fare ricerca scientifica e produrre farmaci, e quindi sapere quale paradigma A,
B o C si affermerà.
Se sbagli, se hai scelto la strada sbagliata, sei fregato. E allora vi rendete conto quanto è
imprevedibile questo ambiente?
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
La Ricerca & Sviluppo dentro le imprese ha un livello alto di incertezza, mentre, sempre secondo
Lawrence e Lorsh, la produzione ha un livello molto basso di incertezza perché a questa funzione si
dirà, per esempio, quale farmaco sia da produrre.
Quindi l’incertezza per il direttore di produzione è minore rispetto a quella del direttore di Ricerca
& Sviluppo; per il direttore di marketing è invece intermedia.
Di conseguenza, la Contingency Theory legata all’ambiente, secondo Lawrence e Lorsh, sostiene
che, dati i diversi caratteri di prevedibilità dell’ambiente, all’interno della medesima impresa
coesistono strutturalmente più modelli organizzativi, proprio perché l’incertezza non è uguale in
tutte le funzioni dell’azienda.
A questo punto quindi, l’affermazione di Burns e Stalker “quanto più l’ambiente è dinamico e
imprevedibile, tanto meno è formalizzata l’organizzazione interna” secondo la teoria di Lawrence e
Lorsh diventerà: “tanto più l’ambiente è dinamico e imprevedibile tanto meno è formalizzata
l’organizzazione interna rispetto a quella determinata funzione che deve fronteggiare
quell’ambiente”.
5.5 LA STRATEGIA
Questa teoria ci suggerisce che c’è un legame profondo tra la strategia che le aziende perseguono e
il modello organizzativo che vanno ad adottare.
(Ricordiamo che tutta la Teoria Contingente sostiene come presupposto di partenza che non esiste
un modello organizzativo ottimo, ma che questo modello organizzativo dipende da qualcosa:
tecnologia, dimensione, ambiente, strategia).
Le imprese scelgono una strategia che corrisponde ad una determinata configurazione delle
variabili competitive (prodotti, mercati, tecnologie), che a loro volta determinano il tipo di
organizzazione più efficace ed efficiente in quel determinato contesto.
“L’organizzazione che serve per produrre il milionesimo esemplare di un’automobile non è la stessa
che serve per produrre il primo”. J.K.GALBRAITH (1977)
(Se la strategia fosse quella di produrre pochi prodotti l’organizzazione sarebbe elementare, ma se
producessimo di più l’organizzazione sarebbe articolata e complessa).
Tra i suoi scritti ricordiamo “La mano visibile”, in contrapposizione con “La mano invisibile” di
Adam Smith.
Economista che si è occupato della storia manageriale delle grandi imprese industriali americane e
di come sono cambiate nel corso di un secolo.
Questi grandi gruppi in un secolo hanno dovuto cambiare più volte strategia perché sono cambiate
le tecnologie, la concorrenza, le esigenze dei clienti, ecc.
Per es. I produttori di autovetture nel corso del ‘900 sono incappati in rivoluzioni tecnologiche, in
cambiamenti dei mercati.
Nel settore si sono perciò modificate le strategie di prodotto (con nuovi modelli), di tecnologia (con
nuovi robot), di mercato (con una maggior segmentazione dei clienti).
Cambiando le strategie, cambia anche l’organizzazione che necessita di nuove competenze adatte
appunto alla nuova strategia adottata.
Da questo punto di vista Chandler, studiando queste grandi imprese (non da storico, ma da studioso
di management), identifica alcuni cambiamenti di fondo. Si accorge che ci sono cambiamenti delle
condizioni ambientali che aprono nuovi bisogni ai quali le aziende rispondono adottando strategie
alternative.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Schematizzando:
Stadio di sviluppo dell’impresa e struttura (CHANDLER)
• Il cambiamento delle condizioni ambientali genera nuovi bisogni ed opportunità.
• La risposta delle imprese è una strategia di sviluppo che si snoda attraverso fasi successive, che
Chandler così elenca:
1. Sviluppo monoprodotto / specializzazione produttiva: Struttura elementare.
Secondo Chandler tutte le imprese nascono piccole e quindi con una strategia monoprodotto,
spesso semplice.
Per es. Avrò un solo modello di automobile da vendere in un mercato regionale perché,
essendo un’impresa piccola, non ho agenti e venditori.
2. Sviluppo integrato verticalmente: Struttura plurifunzionale
In questa fase comincio a distinguere la direzione di produzione, la direzione di
commercializzazione (marketing).
Per es. L’impresa comincia a svolgere una serie di fasi di lavorazione legate alla produzione
e alla commercializzazione dell’autovettura. Commercializzazione che seguirà, per esempio,
i diversi concessionari d’auto (verticalmente).
Gli errori nel rispondere ai nuovi bisogni e opportunità o nell’adeguare la struttura ai cambiamenti
di strategia dipendono dall’incapacità dei capi.
VANTAGGIO COMPETITIVO
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Secondo Miles e Snow i manager cercano di formulare strategie che possano essere congruenti con
l’ambiente esterno. le organizzazioni si sforzano infatti di trovare coerenza tra le caratteristiche
interne dell’organizzazione, la strategia e l’ambiente esterno.
Le quattro strategie che possono essere attuate sono:
1. Impresa esploratrice: innovare, assumere rischi, ricercare nuove opportunità e crescere. Questa
strategia si adatta ad ambienti dinamici e in crescita.
2. Impresa difensiva: anziché assumere rischi e innovare, la strategia difensiva riguarda la
stabilità o addirittura lo snellimento (efficienza interna). Questa strategia può essere efficace in
settori in declino o in un ambiente stabile;
3. Impresa analitica: l’azienda mira a bilanciare la produzione efficiente per le attuali linee di
prodotto con lo sviluppo creativo di nuove linee di prodotto;
4. Impresa reattiva: chi utilizza tale approccio risponde alle minacce ambientali e alle opportunità
caso per caso.
Le scelte strategiche influiscono sulle caratteristiche interne dell’organizzazione come illustrato
dallo schema seguente:
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Vediamo ora perché queste teorie contingenti hanno fatto la loro storia. O meglio, queste teorie non
del tutto superate, hanno comunque subito delle critiche:
1. Questi studi contingenti hanno raccolto molto materiale empirico, ma sono privi di una robusta
teoria. La teoria era soprattutto espressione di una razionalizzazione ex post che veniva costruita
ad hoc nel momento in cui si riuscivano a rilevare sul piano statistico alcune correlazioni.
Ma la correlazione non è una teoria, è un legame statistico che non aggiunge informazioni sul
nesso di causa ed effetto.
3. “Le configurazioni non sono solo delle strutture…esse sono culture”. (MINTZBERG 1989).
Mintzberg sostiene che la cultura che influenza la struttura organizzativa non sia data
dall’ambiente, ma dai fatti, dagli individui interni all’azienda, dai loro pensieri, dalle loro
convinzioni, dai loro atteggiamenti.
La cultura organizzativa determina la struttura organizzativa, e non i fattori contingenti. Ad
esempio, l’ambiente viene percepito attraverso le lenti di una particolare cultura e ideologia
manageriale dominante all’interno di un’impresa e, in questo modo, viene “indotto” il
cambiamento organizzativo.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
La cultura organizzativa citata da Mintzberg per noi rappresenta il link, il passaggio verso il nuovo
paradigma: il paradigma cognitivista.
Cultura organizzativa per Mintzberg significa individui, conoscenza degli individui, conoscenza
delle organizzazioni.
Le organizzazioni hanno meccanismi e processi tramite i quali selezionano, immagazzinano ed
elaborano le informazioni e assumono decisioni.
Il problema chiave è: come si crea conoscenza nelle organizzazioni?
Che cos’è, se esiste, la conoscenza nelle organizzazioni?
La conoscenza è come un recipiente dove in parte entrano informazioni, dove le si immagazzinano,
le si elaborano e dove si può decidere.
La conoscenza delle organizzazioni è quindi un contenitore in cui troviamo questo; ma chi sono
questi recipienti? Gli individui.
La conoscenza delle organizzazioni non esiste. Ma esiste la conoscenza degli individui che le
compongono.
Le teorie cognitivistiche si occupano dei meccanismi attraverso i quali l’informazione è percepita,
interpretata e trasformata in comportamento, a livello tanto di singolo individuo che di
organizzazioni.
Le teorie cognitivistiche mettono al centro della loro attenzione gli individui all’interno delle
organizzazioni, perché la conoscenza è degli individui e il problema è come gli individui
interagiscono tra loro per scambiarsi conoscenza.
La ricchezza delle aziende sta nel riuscire a far dialogare gli individui tra loro per socializzare la
conoscenza e per trasferirla.
Vediamo ora alcuni contributi.
Simon, premio Nobel per l’economia, era un giocatore di scacchi gioco in cui vi sono problemi di
interdipendenza decisionale e di capacità di preveggenza delle mosse dell’avversario. Vedremo ora
come i problemi di questo gioco siano legati alle sue teorie. Egli:
• Analizza i comportamenti umani all’interno delle organizzazioni.
Per es. I manager decidono le questioni importanti allocando una parte del proprio tempo che è
infinitesimale. Non impiegano mesi e mesi. Ci mettono più tempo per scrivere una lettera che
per dare l’ok riguardo ad una quota del budget aziendale. (è una cosa da un certo punto di vista
irrazionale ed illogica).
• Vuole nell’organizzazione una forma di divisione del lavoro tra individui in modo da
ridurre la complessità decisionale del management.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Fino a Simon l’economia era basata sul concetto della razionalità assoluta, cioè: i consumatori
sapevano tutto di tutti e le imprese sapevano tutto di tutti.
Questo era il modello paradigmatico sul quale era basata la microeconomia neoclassica.
Ma come possono conoscere tutti i prezzi di tutti gli articoli di tutti i supermercati? E’un assioma
ovviamente falso.
La forza di Simon sta nel dire che l’economia è stata costruita su degli assiomi assolutamente falsi.
Gli individui operano in un contesto che non conoscono, di cui non possiedono tutte le
informazioni. Quindi vorrebbero essere razionali, ma sono consapevoli dei loro limiti. Sono
razionali nelle intenzioni, ma in realtà lo sono limitatamente rispetto alla complessità del mondo.
La conseguenza è che gli individui sono solo intenzionalmente razionali e che si accontentano di
soluzioni “soddisfacenti” e non “ottimizzanti”.
Non esiste più l’ottimo (il first best), ma esistono delle soluzioni soddisfacenti. (Per es. Uomo o
donna che cerca il compagno ideale e ottimale ma si accontenta della soluzione soddisfacente, che
idealizzata diverrà il suo “first best”, perché incapace di individuare la soluzione ottimale).
1. Incompletezza della relazione (catena) mezzi-fini alla base dei processi decisionali.
2. Impossibilità di conoscere tutte le alternative (cioè tutti i mezzi per il raggiungimento di un
fine/scopo) e tutte le conseguenze di ciascuna di esse.
3. Incompletezza delle informazioni possedute.
4. Difficoltà di effettuare previsioni relativamente ad un numero elevato di variabili (ambiente
complesso).
5. Decisioni espressioni di gruppi, non di singoli individui, per cui si ricorre a soluzioni di
compromesso.
Questi cinque fattori che limitano la razionalità ci portano a dire che le decisioni nelle
organizzazioni portano a soluzioni non ottimali, ma a soluzioni soddisfacenti, di compromesso (a
dei second best).
1. Incompletezza della relazione (catena) mezzi-fini alla base dei processi decisionali.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Quanto più il fine è remoto, tanto più debole diventa l’integrazione tra le varie azioni. Questo limite
vale sia per i singoli individui che per le organizzazioni. Spesso la connessione tra le attività
quotidiane ed i fini ultimi sfugge.
Noi veniamo da una formazione classica dove ogni ragionamento deve avere un suo substrato
logico. Il suo substrato logico è una catena mezzi-fini, è una logica di causa-effetto. E anche nel
processo di ragionamento che porta ad una decisione, ci dovrebbe essere questa consequenzialità
classica. Il problema è che questi nessi di causalità nella logica delle argomentazioni che portano
alle decisioni, hanno molti salti logici. C’è un incompletezza logica continua nei processi
decisionali, che rende assolutamente limitata la razionalità.
5. Decisioni espressioni di gruppi, non di singoli individui, per cui si ricorre a soluzioni di
compromesso.
Le decisioni sono prevalentemente espressione di comportamenti di gruppo. Le decisioni possono
quindi essere prese in una situazione cooperativa oppure in una situazione di competizione tra i
membri. In ogni caso, quanto maggiore è il gruppo di partecipanti reali alla decisione, tanto
maggiore è la loro probabilità che si giunga a dei compromessi e a degli aggiustamenti tra le diverse
convinzioni e i vari interessi in gioco. Da qui l’importanza dello studio delle coalizioni e delle loro
dinamiche.
Per es. Dentro ad un’azienda le decisioni sono prese da coalizioni fatte, per esempio, da uomini di
marketing, uomini della produzione, quindi da coalizioni diverse. Le decisioni, pertanto, saranno di
compromesso e soddisfacenti, non ottimali.
Le coalizioni possono essere anagrafiche (di giovani, di anziani, ecc.), possono essere date dalle
caratteristiche degli individui (di laureati in materie scientifiche, di laureati in materie letterarie,
ecc.).
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Alla fine non ci saranno decisioni ottime, ma decisioni che scaturiscono da soluzioni di
compromesso tra le coalizioni contrapposte (questo sia nelle aziende che in tutte le altre
organizzazioni).
Per tutte queste ragioni nelle aziende non esiste la razionalità assoluta, ma si decide in maniera
razionalmente limitata, collegialmente, prendendo decisioni soddisfacenti.
Quali sono allora le tipologie di decisioni?
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
March è un altro teorico degli aspetti organizzativi all’interno del paradigma cognitivo.
Si è occupato di diversi temi organizzativi:
1. conflitto organizzativo
2. regole decisionali
3. attenzione e ambiguità dei processi decisionali
Prima di March a proposito delle regole sapevamo solo ciò che aveva affermato Simon, e cioè che
le regole in un’organizzazione possono essere programmate o non programmate.
Dove sono le regole in un’organizzazione? Esiste un manuale delle regole? Ovviamente no.
Le regole sono cose che stanno nell’aria che si respira in un’organizzazione. Certo ci sono regole
formali,codificate (contratto di lavoro), ma le regole su come comportarsi, su quali decisioni
assumere non sono scritte da nessuna parte. Le regole si imparano sulla base dell’esperienza,
dall’interazione face to face tra gli individui. E il capo gerarchico ha un compito fondamentale
nell’organizzazione: quello di aiutare i suoi dipendenti a capire le regole dell’organizzazione. Ogni
azienda ha delle regole precise e specifiche, regole in cui la decisione umana è indispensabile.
Es. Se in un’azienda chiama un cliente tedesco e ordina 40 seggiole, come ci si deve comportare?
Si deve operare uno sconto o no? Bisogna richiedere una lettera di credito o no? Il comportamento
varia da azienda ad azienda e le regole per decidere derivano dalla storia passata dell’azienda. A
seconda che l’azienda abbia maturato l’opinione che il cliente sia più o meno serio si comporterà
in un modo o nell’altro.
Es. Se un azienda ha maturato la convinzione che gli argentini non pagano mai le fatture a causa di
esperienze passate essa avrà astrattamente codificato la regola per cui con i clienti argentini
bisogna andarci con i piedi di piombo.
Le decisioni in un’azienda non vengono prese ogni volta partendo da zero,ma si basano sulla storia
passata. Naturalmente ogni qualvolta ci si rifà alla storia passata si rischia di commettere degli
errori madornali, però fino a quando le esperienze del passato vengono convalidate positivamente
dalle decisioni che andiamo ad assumere noi non le metteremo mai in discussione.
All’interno di un azienda si crea, sulla base dell’esperienza passata, un archivio di soluzioni che
stanno nella conoscenza tacita delle persone, nella loro memoria storica. Queste conoscenze
vengono trasmesse attraverso degli aneddoti sulla storia passata dell’azienda.
Le regole per decidere basate sulla storia passata possono essere straordinarie in quanto accelerano
i processi decisionali, riducono l’incertezza decisionale ma rischiano di far commettere dei grandi
errori. Ciò accade perché queste regole, che si basano sulla storia passata, vengono adottate in un
contesto mutato.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Attenzione:
Qual è il tempo che i manager dedicano alla risoluzione dei problemi ?
Al contrario di ciò che razionalmente dovrebbe accadere, i manager si trovano ad adottare in fretta
e con pochissimi elementi informativi decisioni di grande importanza strategica. Queste vengono
infatti assunte sulla base dell’intuito. Invece dedicano tanto tempo alle procedure burocratiche, ai
cerimoniali, procedure routinarie.
Ambiguità:
Le decisioni sono volutamente ambigue, cioè lasciano a chi le riceve un certo margine di
indeterminazione,di ambiguità interpretativa e valutativa. Le decisioni sono ambigue da tanti punti
di vista:
• Ambiguità delle preferenze: le persone non agiscono per perseguire obiettivi precisi definiti
ex-ante,ma al contrario gli obiettivi vengono in un certo senso scoperti dall’individuo nel corso
dell’azione (razionalizzazione ex-post per giustificare il proprio comportamento).
Quando si fa una pianificazione strategica si ritiene che si debbano prima esplicitare gli
obiettivi e a partire da ciò si fa poi discendere il resto. Ma in realtà nessuno ha il coraggio di
definire gli obiettivi in maniera chiara, esplicita. Per es. si ha l’obiettivo di far crescere il
fatturato del 5%, questo è un obiettivo molto ambiguo perché se è un azienda molto grande
l’incremento può dipendere da molti fattori. Chi deve agire concretamente per realizzare tale
obiettivo, come può interpretarlo? Quindi appare chiaro che gli obiettivi si scoprono in itinere e
per ciò si fanno dei processi di razionalizzazione ex-post.
• Ambiguità della pertinenza: in situazioni decisionali di particolare complessità l’individuo
può agire in modo insensato (irrazionale, lasciando spazio al caso, alle soluzioni incognite, alla
sorpresa); Nei processi decisionali talvolta siamo ambigui perché vogliamo che i nostri
collaboratori propongano qualcosa di innovativo, abbiano dei margini di discrezionalità nel
decidere. Ciò consente di individuare anche i collaboratori più validi, più creativi lasciandogli
un margine di manovra.
• Ambiguità della storia: un evento del passato con le regole decisionali assunte può essere
ambiguo e quindi può essere “richiamato” tramite l’analogia dei fatti, per sostenere decisioni
attuali tra loro intrinsecamente non compatibili. Gli aneddoti a seconda di come vengono
raccontati servono a prendere decisioni diverse tra loro e anche contraddittorie
• Ambiguità dell’interpretazione: non solo le decisioni organizzative sono ambigue, ma spesso
anche l’interpretazione che se ne da e, quindi, diventa importante il processo di attribuzione
simbolica.
Simon ci aveva già detto a tale proposito che nelle organizzazioni esistono le coalizioni con
obiettivi diversi, anche convincenti e spesso ne scaturiscono soluzioni soddisfacenti. March
recupera e condivide tutto ciò e per certi aspetti va anche oltre. Lui sostiene che il conflitto
organizzativo non dipende dalle differenze di potere ma è il risultato di obiettivi individuali
diversi. Per es. obiettivi di carriera. Es. In molte organizzazioni si adotta ancora il principio della
seniority dove la carriera segue un automatismo che è l’anzianità di servizio (carriere militari,
magistrati ecc.) tale criterio è aberrante per vari motivi: non riconosce i meriti personali, è un
disincentivo alla produzione, alla motivazione al lavoro. Inoltre questo criterio crea conflitto tra la
coalizione dei più giovani e quella dei più anziani.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Gli scopi di un’organizzazione sono determinati dalle coalizioni di individui contrapposti tra loro.
All’interno di una coalizione bisogna distinguere tra membri attivi e passivi: sono attivi coloro che
prendono posizione, sono dei leader, sono invece passivi coloro che non fanno mai sentire la loro
voce critica e seguono la coalizione senza profondi convincimenti.
Quali sono le conseguenze nel processo decisionale di un’organizzazione?
1. L’impresa è una confederazione d’interessi che possono entrare in conflitto. Ne deriva che
l’attività più critica nel governo dell’azienda è quella di formare una coalizione
sufficientemente larga per determinare gli scopi da perseguire. Es. se si vuole governare
un’azienda ci si deve appoggiare a una coalizione molto larga in modo da avere un consenso
molto largo, così come funziona negli schieramenti di governo.
2. Gli scopi organizzativi sono sempre il frutto di un negoziato tra le parti in causa. Siccome si ha
bisogno di una coalizione molto larga si mettono al suo interno persone che tra loro non
sempre sono convergenti negli interessi e ciò rende più ambiguo lo scopo della coalizione
stessa. Così facendo è impossibile prendere decisioni chiare ed efficaci. Quindi le decisioni
sono volutamente ambigue per far reggere una coalizione che all’interno è intrinsecamente
conflittuale su alcuni obiettivi. Di conseguenza le grandi aziende sono molto lente a prendere
decisioni,non perché sono burocratizzate ma perché hanno paura di prendere decisioni chiare e
determinate che potrebbero far perdere pezzi della coalizione.
3. Questo modo di procedere non elimina l’incertezza, il prendere decisioni ambigue non elimina
i problemi aziendali, li rimanda.
4. Poiché gli scopi esprimono l’equilibrio esistente in un dato momento tra i partecipanti alla
coalizione, ne deriva che essi di norma cambiano se cambiano i rapporti di forza o se escono
alcuni partecipanti e ne entrano altri. Es. se alcuni manager improvvisamente vanno in
pensione e ne arrivano altri bisogna ridefinire i confini della coalizione.
Il contributo di Cyert e March ci spiega qualcosa in più sul concetto di coalizione rispetto a ciò che
sapevamo e sul perché le grandi aziende hanno una grande massa inerziale a cambiare e sono lente
nel prendere decisioni chiare.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Razionalità limitata, ambiguità del decisore, dissonanze cognitive tra i soggetti della decisione
ecc… portano al contributo di Weick;
Secondo Weick, il mondo esterno non possiede un suo senso intrinseco ma ha sempre e soltanto il
senso che noi gli attribuiamo tramite i nostri processi di creazione di senso. Alla nostra mente
arriva un flusso di esperienza caotico ed informe, al quale noi diamo ordine e forma man mano che
procede il processo cognitivo. In questo processo noi sviluppiamo delle deduzioni che vengono
sistemate in mappe causali o cognitive, ossia in costruzioni dotate di senso e di ordine logico. Tali
mappe predispongono il nostro comportamento futuro e sono a loro volta modificate
dall’ininterrotto flusso di nuova esperienza;
Da questa impostazione derivano due conseguenze:
1. La centralità dell’analisi dei processi di creazione di senso (sense making);
2. La totale equivalenza tra processi di creazione di senso e processi di organizzazione
(organizing).
Questa prospettiva cognitiva postula che l’organizzazione esiste solo in quanto degli individui la
percepiscono come struttura e conferiscono ad essa un significato. Non esiste quindi una realtà
organizzativa esterna ai soggetti e da questi indipendente. L’organizzazione è una realtà costruita
dai soggetti attraverso processi interpretativi che possono essere di tipo individuale o, più spesso,
di tipo collettivo.
L’organizzazione “attiva” (enactment) certi aspetti dell’ambiente esterno e agisce su di essi,
attribuendo loro un significato anche in modo retrospettivo, ossia dopo che l’azione si è
effettivamente svolta.
Weick sostiene che non soltanto la realtà è percepita in modo soggettivo dall’individuo, ma che
può anche verificarsi che sia l’individuo stesso a costruire, letteralmente, la propria realtà.
La capacità degli individui di plasmare, anche involontariamente, l’ambiente, si esplicita
attraverso:
• La percezione: L’ambiente di un’impresa è scelto, “deliberato” da un soggetto, tramite la sua
percezione;
• Profezie auto-avverantesi: Spesso gli individui e le aziende pongono limiti a se stessi e così
facendo confermano tali limiti. Tutto ciò che, come organizzazioni, pensiamo di non poter fare,
è in realtà la conseguenza del fatto che non abbiamo mai tentato di farlo o non abbiamo
dedicato tempo a imparare a farlo (prove evitate). Evitando la prova, confermiamo quindi il
nostro giudizio di non poter fare quella determinata cosa. “Ognuno vede che un altro evita
determinate procedure, obiettivi, attività, frasi e passatempi e conclude che quell’evitare è
motivato da reali elementi di pericolo esistenti nell’ambiente” (Weick, 1993);
• Interazioni e cicli che si autoalimentano: se alcuni individui hanno maggiori possibilità
rispetto ad altri di riunirsi e occuparsi di un certo tipo di problema, avranno maggiori
possibilità di sviluppare un linguaggio specifico e le competenze necessarie per affrontare
problemi complessi; questo renderà sempre più difficile far parte del gruppo a degli esterni o a
coloro che hanno una minore frequenza di partecipazione. “Persone che hanno tempo da
dedicare a un problema hanno trasformato quel problema in qualcosa che solo delle persone
con tempo da dedicare al problema possono gestire” (Weick, 1993);
• Costruzione sociale della realtà: E’ legata non solo alla percezione ma anche alla
modificazione concreta dell’ambiente da parte del soggetto.
Siamo partiti dalla razionalità assoluta, neoclassica, siamo passati con Simon alla razionalità
limitata e ora siamo arrivati all’ultima forma di razionalità, una razionalità molto debole.
Razionalità assoluta: per decidere bisogna avere delle informazioni, e più se ne posseggono più la
decisione sarà buona. Quindi all’aumentare dell’informazione aumenta la qualità del processo
decisionale. Tale modello già con March è stato messo da parte attraverso l’analisi di come le
aziende effettivamente decidono. Abbiamo visto come l’informazione è strumentale rispetto a
decisioni che le imprese stesse vogliono assumere. L’informazione non è un dato inequivocabile,
ma per sua natura è profondamente ambigua. Es: l’informazione che in Africa non ci sono le
calzature per un produttore di scarpe potrebbe essere una grande possibilità, per un altro, lo stesso
dato numerico, può venir interpretato come l’impossibilità di vendere calzature perché ci sono altre
priorità.
Quindi, data la natura ambigua dell’informazione,le aziende per decidere vanno a cercare le
informazioni coerenti con le loro attese. Perciò l’informazione non è, come sosteneva la razionalità
assoluta, la base per decidere in maniera più razionale.
Questo è un paradosso cognitivo: prima seleziono le informazioni coerenti con le mie convinzioni
e poi vado a dire, e me ne convinco, che ho ragione perché queste sono le informazione.
In un’azienda ogni coalizione usa questo paradosso cognitivo cercando di sostenere le proprie
convinzioni e offrendo interpretazioni diversi degli stessi dati.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
7 LE TEORIE NEO-ISTITUZIONALISTE
Questo paradigma non sopprime il paradigma cognitivo, infatti stiamo parlando di paradigmi che
convivono tra loro nella comunità scientifica e tra i manager.
Con il paradigma neo-istituzionale si parte da un assunto molto forte e strutturalista: le imprese, le
aziende, qualunque organizzazione sono conseguenze del contesto in cui vivono. Potremmo
pensare a Darwin quando diceva che una specie che nasce e si forma in un certo habitat con certe
caratteristiche ecologiche va ad assumere, evolutivamente e nel corso dei secoli, alcune
configurazioni. Invece se nasce in un contesto diverso assume configurazioni diverse.
Il punto forte del paradigma neo-istituzionale è proprio che le aziende sono condizionate nei loro
modelli organizzativi, nelle loro regole decisionali, nelle loro strategie dal contesto esterno in cui
vivono.
Se volessimo introdurre l’argomento con alcuni esempi potremmo dire che noi ancora oggi
parliamo di impresa giapponese o di impresa americana o di impresa tedesca non in relazione alla
sua nazionalità ma in relazione al fatto che nel DNA di quella azienda ci sta l’appartenenza ad un
contesto istituzionale che ha delle proprie regole e che quindi con queste modella e condiziona la
struttura organizzativa e le scelte strategiche che quell’azienda si dà.
Un’impresa industriale tedesca è un’impresa che ha alcune configurazioni organizzative, ad
esempio nel c.d.a le grandi aziende hanno dei rappresentanti dei lavoratori.
Inoltre nel modello organizzativo tedesco esiste la banca mista, cioè la banca che non eroga
soltanto credito ma che può partecipare anche nel capitale di rischio, cioè nella compagnia
azionaria di quell’impresa.
Nel modello americano tutto questo non c’è. I principi del modello capitalistico americano sono
totalmente diversi da quelli tedeschi. I rapporti tra i lavoratori e i capitalisti sono basati sul
concetto di flessibilità del lavoro che, estremizzando, vuol dire libertà di assumere e di licenziare.
Nel modello americano c’è un forte connotato finanziario, le imprese, anche piccole, vengono
quotate in borsa. Non ci sono le banche miste, magari quando un’impresa nasce ci sono delle
istituzioni finanziarie di supporto che non sono le banche tradizionali italiane ma sono quelle che
in California chiamano “buisness angels”, sono delle persone che di fronte ad imprese che hanno
un’ottima idea imprenditoriale, grandi capacità tecnologiche, grandi capacità di marketing ma non
hanno denaro offrono capitale da in vestire in quell’idea. Così in California sono nate moltissime
aziende che hanno nomi altisonanti e che sono quotate in borsa. Mentre, quindi, nel modello
tedesco è la banca mista che supporta finanziariamente l’impresa, nel modello americano conta la
finanza e soprattutto la borsa, l’azionariato. I capitali per sostenere la borsa si raccolgono tra i
capitali di tutti gli individui che investono direttamente o indirettamente in borsa come con i fondi
pensione.
Tutto questo per dire che il modello organizzativo e le scelte strategiche che un’impresa tedesca si
trova a fare nello stesso contesto competitivo sono diverse dal modello organizzativo a dalle scelte
strategiche dell’impresa americana.
Quindi il paradigma neo-istituzionalista vuole sottolineare che il contesto istituzionale condiziona
il modello organizzativo e le scelte strategiche che un’impresa si trova a fare.
Il contesto istituzionale è fatto dalle istituzioni pubbliche e non pubbliche che stanno nell’ambiente
di riferimento di quell’impresa.
Noi fino ad ora abbiamo parlato di nazionalità, ma possiamo anche parlare di contesti
territorialmente minori.
Pensiamo alla differenza tra l’essere un’impresa calzaturiera dell’area del fermano, cioè nell’area
marchigiana dove c’è un distretto delle calzature e la stessa impresa calzaturiera con la stessa
dimensione che però è localizzata in Sardegna.
Sono due imprese italiane, ma la competitività è drammaticamente diversa pur avendo la stessa
dimensione, la stessa capacità.
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Siamo nello stesso regime capitalistico e il costo del lavoro è uguale, ma il contesto istituzionale è
profondamente diverso.
Una piccola impresa localizzata in un distretto industriale come quello marchigiano gode,
beneficia delle cosiddette “economie esterne di agglomerazione”: c’è una cultura calzaturiera, si
trovano giovani specializzati e professionali che sanno lavorare la calzature, sono presenti nel
distretto aziende che sanno riparare le scarpe, aziende che producono tacchi, quindi è più facile
l’approvvigionamento di alcune componenti.
Invece nella piccola impresa sarda non si trovano giovani che sanno già lavorare le scarpe perché
in quel contesto non c’è una tradizione, una cultura, quindi bisognerà assumere giovani che non
sanno lavorare la scarpe perché non lo hanno mai fatto. Non si trovano aziende che fanno
assistenza per la riparazione delle tecnologie, non si trova nessuno che produce tacchi. Tutte cose
che nel fermano erano presenti.
Quindi, siamo nello stesso regime capitalistico, il costo del lavoro è lo stesso, perché il contratto di
lavoro del settore calzaturiero è uguale per tutti, però il contesto istituzionale è diverso e questo fa
sì che il costo medio totale di produzione della scarpa dell’impresa nel fermano sia minore di
quella dell’impresa sarda. Questo grazie alle economie esterne, cioè benefici esterni, riduzioni dei
costi, di cui l’azienda gode grazie a qualcuno che le sta vicino, grazie all’azienda che fa tacchi, a
quella che fa assistenza ai macchinari, grazie ad un mercato locale del lavoro che le offre
professionalità operaie addestrate.
Questo dimostra che non c’è solo un contesto nazionale, ma in realtà ci sono anche i contesti
istituzionali locali che condizionano la competitività delle imprese.
E’ da questo approccio che si sviluppa il paradigma neo-istituzionalista, che in realtà nasce
dall’istituzionalismo adottato da Selznich negli anni’50. Studiando la Tenesse Valley Authorithy,
Seznich aveva sostenuto che le forze locali esterne condizionano pesantemente le organizzazioni
locali e che per sopravvivere queste ultime dovevano spesso accettare dei compromessi “distanti”
dai loro scopi.
Cioè, lo scopo di un’azienda è fare profitto, ma alla fine si assumono delle decisioni, si fanno
scelte per compiacimento di altri, per ricevere, dicevano i neo-istituzionalisti, la legittimazione
sociale.
Le aziende fanno scelte, spendono soldi per conquistarsi una legittimazione nel contesto
istituzionale in cui operano.
Si potrebbero fare infiniti esempi su questo.
La Philips Morris ha una pessima reputazione, quella di una grande multinazionale americana che
ha fatto miliardi vendendo tabacco.
Così deve ottenere una legittimazione con certi rituali: spendendo soldi in sponsorizzazioni di Gran
Premi o gare motociclistiche o eventi musicali. Tutto questo per costruire una reputazione diversa
e per poter mostrare alle istituzioni un bilancio delle attività sociali fatte.
Tra le prime aziende in Italia ad aver fatto un bilancio delle responsabilità sociali ci sono le
aziende chimiche e loro lo hanno fatto per legittimarsi.
Molte aziende spendono miliardi non per essere più competitive, non per ridurre costi, non per
essere innovative ma appunto per legittimazione, per costruirsi una nuova reputazione. Questo è un
ruolo svolto dalle grandi campagne di comunicazione che le imprese usano per ripulirsi dai danni
sociali che hanno causato.
Da tutti questi esempi deve essere chiaro il concetto di neo-istituzionalismo: l’impresa è
condizionata dal contesto, il contesto dà delle regole e l’impresa adotta strategie che sono strategie
di legittimazione rispetto ai suoi interlocutori, rispetto alle sue istituzioni.
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3. Una resistenza al cambiamento, in quanto gli attori legittimati dal contesto tendono a
perpetuare le regole storicamente sedimentate, anche quando queste appaiono palesemente
inappropriate rispetto al nuovo contesto competitivo (inerzia strutturale).
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I paradigmi teorici dell'organizzazione
Che cosa abbiamo detto la volta passata sul paradigma neo istituzionalista.
Primo, come nasce, sulla scorta di quali presupposti nasce e abbiamo visto come e perché e in che
modo il contesto possa influenzare strutturalmente il modo di essere di un impresa, l’identità di un
impresa.
Secondo, abbiamo visto con il neo-istituzionalismo in che modo il contesto possa influenzare
l’identità e il comportamento di un’impresa, in maniera strutturale. Strutturale vuol dire non
episodica, non vuol dire contingente; dico questo perché anche il paradigma contingente sosteneva
l’importanza del contesto per la struttura dell’azienda, vi ricordate l’importanza del contesto
(tecnologia, dimensione, ambiente) nel paradigma contingente? Però secondo l’approccio
contingente, cambiando il contesto immediatamente l’organizzazione si adattava, mutava, quindi il
contesto era un qualcosa, come dire, legato ad un fattore contingente. In realtà con il neo-
istituzionalismo per quanto si rivaluti l’idea del contesto e quindi da questo punto di vista ci sia
analogia tra il paradigma neo-istituzionalista e il paradigma contingente, cioè tutti e due i
paradigmi esaltano il ruolo del contesto, lo esaltano in termini diversi. Nel paradigma contingente
c’era un’idea di flessibilità organizzativa nell’azienda cioè cambiava il contesto e immediatamente
l’azienda mutava, nel paradigma neo-istituzionalista invece il contesto è qualcosa che domina e
influenza in modo strutturale il modo di essere dell’azienda e quando abbiamo parlato di contesto,
ne abbiamo parlato in termini estremamente diversi da quello di paradigma contingente. Abbiamo
fatto un esempio del contesto nazionale, delle regole capitalistiche che sono diverse e che
influenzano il modo di essere delle impresa. Abbiamo parlato di contesti, invece, locali, contesti
produttivi locali vi ricordate forse l’esempio dell’impresa calzaturiera marchigiana rispetto invece
a quella di Ozieri.
Il terzo fatto era invece il contesto istituzionale di riferimento cioè il modello istituzionale
dell’impresa. Abbiamo detto che un’impresa cooperativa, agisce si comporta in modo diverso,
perché diverso è la sua identità istituzionale rispetto ad un altro modello d’impresa: quella
capitalistica. Ecco che quindi nel paradigma neo-istituzionale abbiamo ragionato in termini diversi
di contesto e del modo in cui questo influenza l’impresa.
Di Maggio e Powell, due neo-istituzionalisti, suggeriscono qualche altra cosa, cioè si chiedono: ma
perché allora le imprese si assomigliano, perché le imprese si assomiglia tra di loro.
Il processo di istituzionalizzazione o di strutturazione di un campo organizzativo si compone di
quattro momenti:
1. un aumento del grado di interazione delle organizzazioni all’interno del campo;
2. l’emergere di una definita struttura interorganizzativa;
3. l’incremento del carico informativo con cui le organizzazioni all’interno del campo devono
confrontarsi;
4. lo sviluppo di una comune percezione da parte delle organizzazioni di appartenere allo stesso
campo.
Una volta che un insieme di organizzazioni è strutturato in un campo organizzativo, entrano in
gioco potenti forze che portano a una crescente omogeneità tra le organizzazioni che compongono
il campo (isomorfismo).
Noi abbiamo dato tre spiegazioni: distinguendo il livello di analisi nazionale, il livello di analisi
locale, e il modello istituzionale.
Powell e Di Maggio, che sono due economisti americani neo-istituzionali, ci dicono: guarda ci
sono altri tre fattori, altri tre elementi che servono a spiegare perché le imprese si assomigliano:
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Vediamo invece altri due profili che le rendono simili, quello mimetico e quello normativo:
3. Isomorfismo normativo non nel senso giuridico del termine, il normativo giuridico è quello
coercitivo ovviamente. Normativo per Powell e Di Maggio vuol dire semplicemente che un
certo contesto storico e sociale comincia ad un certo punto a esprimere tutta una serie di
raccomandazioni, di suggerimenti, di idee dominanti da parte di una comunità di esperti(ad
esempio le grandi società di consulenza, i grandi studiosi di management, alcuni professori
universitari) comincia insistentemente a dire: guarda bisogna assolutamente fare la
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Queste sono un po’ le tre categorie concettuali di Powell e Di Maggio che spiegano oltre alle cose
che avevamo detto prima, perché le imprese si assomigliano.
Critiche:
L’eccessiva enfasi sulla convergenza non fa giustizia della varietà strutturale che comunque è
presente, anche a parità di contesto istituzionale, tra le organizzazioni. L’approccio istituzionale
sembra scontare una certa chiusura evolutiva e un certo determinismo sociologico nel senso che
l’unica fonte di cambiamento possibile è quella esogena e quindi le organizzazioni possono
cambiare solo come risposta a tali pressioni ambientali.
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