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Giovanna Righini Ricci

Ziridöni

Racconto tratto da:


G. RIGHINI RICCI, Nel cavo della mano, Bologna, Ponte Nuovo, 1970 pp. 40-45, poi ristampato col titolo “Un pugno di terra”.
ZIRIDÖNI
di Giovanna Righini Ricci 1

Godeva fama di stregone e quando passava per le stradette


di campagna qualche vecchia superstiziosa si segnava,
furtivamente. Noi bambini invece ci si fermava incantati
davanti alla sua bicocca a contemplare le strane cose
sparpagliate nel cortiletto: bambole dalla faccia nera,
mostruose, appese ad un trave, che oscillavano come
impiccate, segnando ogni variazione del tempo; pietre
sepolcrali, raccolte nei cimiteri; ampolle allineate al sole,
lungo il muro, piene di un liquido nero che vibrava appena
quando vi saettava sopra una lucertola, risvegliata dal suo
sonno al sole, lungo il muro, piene di un liquido nero che
vibrava appena sdrucite, e stracci, migliaia di stracci, sparsi
ovunque, fra la gramigna.
Aveva una moglie, Giorgina2, che non usciva mai di casa.
Si diceva nelle stalle che fosse sciancata e quasi nana; io
ricordo di lei solo una gran testa di capelli bianchi scarruffati
che appariva fuggevolmente nel pertugio della finestra se
qualcuno di noi si avvicinava troppo per curiosare. Subito
Giovanna Righini Ricci
però si ritraeva, e si sentiva la voce roca di un pappagallo che
si agitava sul trespolo.
Vivevano lì, da sempre: nonno Tranquillo ricordava di averli sempre visti così; senza età: lei con la faccia
spiritata, lui vestito di una lunga tunica che gli sbatteva sopra i talloni ad ogni passo, i grigi capelli unti che
d’inverno sparivano dentro un altissimo colbacco nero.

Andava e andava, per stradette sassose, con Teresina 3, un’asina decrepita, o issato sopra un bizzarro
velocipede dalle ruote grossissime che lasciava spenzolare un campanaccio sotto la sella. Un lento rintocco
funebre si snodava per tutta la strada, gemeva nelle buche alzandosi di tono, mentre lui, Ziridöni, procedeva
imperturbabile, gli occhi foschi, le spalle erette, avvolto nella pellegrina.
In paese si sussurrava che avesse scovato un tesoro vicino a un cimitero e che fosse enormemente ricco; ma
i contadini non ci credevano e continuavano a vendergli pelli di coniglio, ossi e stracci. Le loro donne
contrattavano poco e in fretta, desiderose di vederlo andar via. I cani abbaiavano furiosi quando sentivano la
sua voce incitare Teresina o il rintocco del campanaccio.
I bambini si mettevano a piangere, se avvicinava loro la nera mano ossuta.
Io no! Io lo aspettavo intrepida sul cancello, sentendolo venire, le mani dietro la schiena; lo lasciavo
passare e poi mi ci mettevo alle calcagna mentre si inoltrava con il suo carico sbilenco sull'aia, pesava,
contrattava, tramestava tra la sua merce. Una volta, mentre mi passava vicino, lo guardai dritto negli occhi e
lui, inaspettatamente, mi posò una mano ossuta e leggera sulla testa; l’ombra di un sorriso accese un istante
la sua lunga faccia triste. Dentro di me vibrò, caldo, un sentimento nuovo, una misteriosa amicizia per quel
vecchio solitario e non amato.
Qualche giorno dopo riapparve, sul suo velocipede, con una gazza, legata per le zampe al manubrio.
L’uccello nero dall'occhio selvaggio faceva sforzi violenti per sollevarsi e liberarsi.

1
La scrittrice Giovanna Righini Ricci (Lugo di Romagna, 7 settembre 1933 – Bologna, 24 ottobre 1993) è stata una scrittrice italiana
di libri per ragazzi, di saggi e articoli su problemi educativi. Nata a S. Bernardino, poi residente a Conselice e a Bologna, sposò l’ing.
Ido Righini, filese della famiglia dei Picìno e fratello di Mario, noto collezionista di auto d’epoca. A lei sono stati assegnati molti
riconoscimenti in ambito letterario ed è stata dedicata la biblioteca di Conselice. Per una biografia completa si veda in:
http://it.wikipedia.org/wiki/Giovanna_Righini_Ricci. Le note di corredo al testo qui riportato sono di Agide Vandini.
2
In realtà Teresina: Teresa Rambelli.
3
La mula, sappiamo da Loris Rambelli, era chiamata in realtà la Céca. Teresina, come già precisato, era la moglie di Ziridöni.
«E’ tua! » mi disse, porgendomela per le zampe.
Rimasi a bocca aperta, con un rimescolio dentro, non sapendo cosa dire, la gazza in mano a testa in giù.
« Non è una bestia domestica, ma puoi provare. » Aggiunse Ziridöni gravemente, e se ne andò lasciandomi
come un allocco ad ascoltare il rintocco del campanaccio che si faceva via via più fioco.
Per un bel pezzo non lo vidi più e ne fui contenta perché non avevo il coraggio di dirgli che la gazza era
fuggita, dopo avermi beccato a sangue.
Quando, dopo molto tempo, passò da casa nostra per le pelli di coniglio, io mi feci sulla soglia con
apprensione; ma lui continuò a pesare e a riporre le sue pelli, curvo e pensoso, ignorandomi, e io gli fui
silenziosamente grata del suo silenzio.

D’inverno calzava pesanti zoccoli che sbucavano dalla tunica ad ogni falcata delle lunghe gambe. Alla
cintura portava, legato con una funicella, uno scaldino di terracotta pieno di brace che avvampava a ogni
folata di vento e sembrava animato da una potenza diabolica: non si spegneva mai!
Nelle stalle, durante le lunghe sere nevose, i vecchi parlavano di lui sottovoce; sussurravano che si cibasse
di carne di cane, che parlasse agli spiriti; e un lungo brivido passava nell’aria.
Qualche volta, quando la neve cadeva più fitta e nella stalla tutti tacevano, assorti, si udiva il suo scalpiccio
vicino alla porta e un rauco, furibondo abbaiare di Perù.
Zio Angelo andava ad aprire, sollecito, l’uscio e Ziridöni entrava, allampanato, il colbacco inanellato di
ghiaccio, gli occhi lucenti sotto le sopracciglia cespugliose. Si scrollava la neve dalla pellegrina e un
impacciato silenzio cadeva su tutti. Zio Angelo allora si affrettava a domandargli che tempo avrebbe fatto
l’indomani.
Ziridöni puntava un indice alla fronte, meditava un lungo istante, poi rispondeva gravemente.
«Vento di bora!»
Non si sbagliava mai! Anche per questo i contadini lo temevano.

Due viti si aggrappavano al muro calcinato della sua bicocca e in autunno Ziridöni pigiava, nella larga
bigoncia, la sua uva, la tunica arrotolata sopra i fianchi. Quando veniva a trebbo nella nostra stalla, portava
sempre nelle profonde tasche una piccola bottiglia di vino che offriva silenziosamente a tutti. Nessuno osava
accettare, tranne nonno Tranquillo e lo zio Angelo che tracannavano coraggiosamente, sotto gli occhi
impressionati delle donne.
« Vino da re! » esclamò una volta nonno Tranquillo, asciugandosi i baffi con il dorso della mano; gli occhi
di Ziridöni ebbero un lampo di fierezza. Le mie zie e la nonna continuarono tuttavia a stare in apprensione
nel timore che fosse stato avvelenato!
Nella stalla di Ziridöni con il passare del tempo il letame si era ammucchiato progressivamente sotto
Teresina, ma egli non se ne curava.
Quando la povera bestia non riuscì più a salire sulla sua montagna, Ziridöni smise di metterla al coperto,
semplicemente!
La lasciava fuori, sotto un albero.
Durante l'inverno la riparava sotto un graticcio disseminato di stracci e Teresina tremava, tremava, sopra il
suo strame, le ossa irte sotto la pelle consunta.
Poi una notte più rigida delle altre, l’asina gli morì. Il giorno dopo Ziridöni la seppellì dietro casa e pose un
cippo sopra la sua fossa. Le vecchie gridarono al sacrilegio; nonno Tranquillo ci fece sopra una grande risata.
Nessuno però ne fece parola con Ziridöni che continuava i suoi giri per viottole erbose, in bicicletta,
sempre più magro, pedalando sempre più lentamente.

Venne la guerra, partirono tanti uomini. Ziridöni non passò più sul suo velocipede. Angustiata, mi spinsi,
con il batticuore, fino alla sua casupola e lo vidi seduto nel cortile: le spalle appoggiate al muro accanto alle
sue ampolle, gli zigomi bluastri, gli occhi lontani, sembrava ascoltare il fruscio dolce delle foglie sopra la sua
testa. Giorgina non dava segno di vita nella casupola e anche il pappagallo taceva. Lo fissai sgomenta, le
mani aggrappate al cancello.
Parve sentire il mio sguardo: volse a fatica il capo verso di me e levò la mano ossuta in un segno di saluto
che mi parve un addio. Allora corsi via con grande sconforto dentro: sentivo confusamente che, per qualche
sua misteriosa ragione, quel vecchio solitario si lasciava morire, piano piano e in silenzio.

Poi un giorno arrivò un signore, in calesse. Le vicine si fecero sulla soglia incuriosite. L'uomo entrò nella
bicocca e noi bambini ci facemmo attorno al cavallo lucido e ben pasciuto.
Poco dopo l’uomo usciva e noi ci facemmo da parte, intimiditi; il signore risalì in calesse e il cavallo spiccò
il trotto, sollevando una nuvoletta di polvere.
Le vicine si perdettero in congetture.
In paese qualcuno disse che Ziridöni aveva venduto la bicocca e se ne andava.
Restammo tutti a bocca aperta, increduli; ci convincemmo solo quando arrivò un carro che si caricò di
stracci, cocci, pelli. Le vicine stettero alla finestra fino a tardi per vedere partire Ziridöni e la Giorgina4.
Ma i due andarono via a notte fonda e nessuno li vide più.
La guerra infuriava, vi furono molti lutti; Ziridöni fu dimenticato.
Le erbacce invasero trionfanti i muri, la soglia, tutta la bicocca.
Un giorno noi ragazzi ci facemmo coraggio e, praticato un pertugio nella siepe, ci avventurammo nel
cortile. Con il batticuore sospingemmo la porta di casa che si aprì piano piano ed entrammo nella
catapecchia: ragnatele lucenti e gigantesche, stracci, paglia, una sedia imputridita, un sentore di tomba.
Quell’aria di morte mi fece guizzare un brivido lungo la schiena e uscii in fretta.
I miei cugini invece rovistavano qua e là, incuriositi e anche un po’ delusi.
« Ci sarà stato davvero, il tesoro? » Domandò Nestore.
« Il tesoro! »
Uscirono tutti e con lena si misero a cercare fra le pietre sbrecciate del cortiletto: poi si stancarono e ce ne
andammo, mogi mogi.
Per tutto il giorno lottai con l'immagine di quel vecchio solitario che aveva saputo dirmi con un gesto tutta
la sua stanchezza.
Qualche tempo dopo i miei cugini tornarono alla bicocca a giocare, e Nestore, mentre correva inseguito
dagli altri, inciampò e cadde. Accorsero tutti e con stupore videro affiorare dal suolo un manico e un orlo
rossiccio: tirarono e tirarono finché venne alla luce una pentolaccia che conteneva un buon numero di
monete:
« Il tesoro! Il tesoro! »
Corsero a casa a rotta di collo e le vicine si fecero sulla soglia, invidiose.
Ci furono congetture, si formarono piccoli crocchi malevoli. Ma lo zio Angelo prese per un orecchio
Nestore e lo costrinse a riportare la pentolaccia nel cortile di Ziridöni.
Nel frattempo Bignì, il carradore, fu avvertito e accorse sul suo carretto; già le vicine si guardavano di
traverso, pronte a litigare per la spartizione del “tesoro”.
« Sono vecchie monete di rame ». Sentenziò Bignì soppesandole nella mano.
« Non sono d'oro? »
« Sempre imbroglione, quel diavolo di un Ziridöni! »
Ad una ad una le vicine si allontanarono deluse, il fazzoletto stretto con rabbia sotto il mento.
Qualche tempo dopo i miei cugini si avventurarono, non visti, nel cortiletto e presero alcune monete per
giocarci alle “marelle” e a “zoppo-galletto”..
Io me ne feci dare una, piccola piccola, e me la tenni sempre in tasca come un talismano, pulendola ogni
tanto, pensosa, finché diventò splendente come l’oro.

4
In realtà Teresina Rambelli, era deceduta all’inizio nel gennaio del ’39 e Ziridöni si era risposato con Albina Dalla Casa nel luglio
del ’40. I due lasciarono la casa nel 1941.

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