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1.

CONTRATTO E NEGOZIO GIURIDICO

Art. 1321 c.c.: il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale.
Il codice civile prevede una disciplina generale all’Art. 1323 comune a tutti i contratti, tipici e atipici, ed una disciplina specifica per alcuni
singoli contratti
 l’Art. 1324 estende la disciplina generale del contratto anche agl’atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale, salvo per le
norme che presuppongono la struttura bilaterale del negozio

NEGOZIO GIURIDICO: atto giuridico lecito le cui conseguenze giuridiche sono preordinate, nei limiti del rispetto delle norme
imperative, dai soggetti agenti → la volontà del soggetto è volta non solo al compimento dell’atto, ma anche alla determinazione degli
effetti. Il negozio giuridico è quindi un atto di autonomia privata, in quanto consente al soggetto di curare i propri interessi personali e
patrimoniali, disciplinandoli autonomamente, nel rispetto della legge

La TEORIA DEL NEGOZIO nasce come parte della teoria del soggetto di diritto: il NEGOZIO era un’unica categoria che abbracciava
molteplici manifestazioni, basata sull’unico denominatore comune costituito dall’ATTO inteso come manifestazione di volontà privata.
L’evoluzione della teoria del negozio cominciò quando si ipotizzò la rilevanza del dichiarato prima ancora del voluto. La
DICHIARAZIONE acquistava così una propria autonoma funzione a fianco della VOLONTÀ, prevalendo su di essa in caso di contrasto.
Tale evoluzione terminò quando nel 1942 il legislatore ignorò la categoria negoziale, ponendo piuttosto il CONTRATTO al centro del
sistema del diritto privato, svincolandolo dalla proprietà e collegandolo alla situazione di scambio, come motore della imprenditorialità.

La disciplina codicistica del contratto risente dell’unificazione degli antichi due codici, anche riguardo alla disciplina dei singoli contratti
tipici di impresa, in quanto non ha tutelato la controparte del produttore dei beni e servizi, che contrattualmente è più forte ed esperto, in
presenza di clausole vessatorie predisposte unilateralmente. Questa realtà è stata modificata in virtù di leggi di attuazione delle direttive
comunitarie, a tutela del CONSUMATORE che si presume più debole, con l’introduzione dell’Art. 1469bis.

Nel Codice Civile del 1942, al centro del sistema del diritto privato, non vi è più la teoria del negozio, bensì il CONTRATTO: non può
più aversi riguardo a qualsivoglia manifestazione di autonomia privata, ma solo a quelle intrinsecamente omogenee.

L’Art. 1324 estende con il criterio della compatibilità, la disciplina del contratto al negozio unilaterale inter vivos a contenuto patrimoniale,
escludendo i negozi di diritto familiare ed il testamento. Tale disposizione parla di ATTO e non di negozio, ma deve ritenersi che il
legislatore abbia utilizzato questa terminologia al solo fine di non perdere la possibilità di dar vita alla categoria negoziale. La disciplina
del contratto ha una forza espansiva che va al di là dell’Art. 1324 c.c.:
– La P.A. può scegliere il modello convenzionale per realizzare i propri interessi pubblici: può concludere con l’interessato accordi al
fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento amministrativo o, nei casi previsti dalla legge, di sostituirlo.
– La forza espansiva della disciplina contrattuale si manifesta anche sul patteggiamento della pena, in particolare con riferimento
all’applicazione dei principi sulla conclusione del contratto.

Disciplina del negozio unilaterale


Il codice civile disciplina il negozio unilaterale in alcune norme di carattere generale:
L’Art. 1334 stabilisce che gl’atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza del destinatario (negozi
recettizi). Il negozio unilaterale, sul piano del perfezionamento della fattispecie, dipende in ogni caso dall’emissione della dichiarazione.
La RECEZIONE da parte del terzo si attua sul piano degli effetti costituendo la condizione essenziale; la dichiarazione solo se recettizia
può essere revocata, purché la revoca pervenga al destinatario prima della dichiarazione stessa. La RECETTIZIETÀ risponde all’esigenza
di tutela del destinatario, il quale solo venendo a conoscenza della sua esistenza, potrebbe rifiutare l’atto unilaterale, impedendo la
produzione dei suoi effetti. La conoscenza della dichiarazione, costituisce un mero fatto giuridico, per cui sarà del tutto irrilevante che essa
sia acquisita in seguito a violenza o frode esercitata dal dichiarante, così come non potrà dirsi conosciuta, una dichiarazione ricevuta da un
soggetto che dimostri di essere stato in quel momento incapace di intendere e di volere.

L’Art. 1335 fissa una presunzione relativa di conoscenza per il fatto che la dichiarazione pervenga all’indirizzo del destinatario, salvo che
questi provi di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia.
Poiché la normativa speciale che disciplina il negozio unilaterale è tendenzialmente lacunosa, si ricorre all’applicazione diretta, e non
analogica o estensiva, della disciplina generale del contratto, temperata dal criterio di compatibilità stabilito all’Art. 1324 c.c. La
compatibilità è riferita alla diversa struttura e al fatto che il contratto sia il risultato di un incontro di consensi.
 Il criterio della compatibilità strutturale non elimina la rilevanza della vicenda funzionale: es. l’Art. 1414 c.c. estende la disciplina
della simulazione anche agli atti unilaterali recettizi destinati a persona determinata, che siano simulati per accordo tra dichiarante e
destinatario.

Si discute, inoltre, sulla necessità della FORMA SCRITTA del negozio unilaterale, non quando si produca immediatamente uno tra gli
effetti previsti dall’Art. 1350 c.c. (es. trasferimento della proprietà di beni immobili), né quando sia prevista la forma volontaria ex Art.
1352 c.c. per gli atti che seguono la conclusione di un contratto, bensì nel caso in cui il negozio unilaterale sia collegato ad una vicenda che
rientri nella previsione dell’Art. 1350 c.c. (atti che debbono farsi per iscritto).
2. FONTI DEL REGOLAMENTO CONTRATTUALE

Autonomia significa facoltà di autoregolamentare i propri interessi. È autonomo chi può decidere sul se e sul come perseguire e
raggiungere un certo scopo. In termini giuridici, il problema è quello di verificare il rapporto che sussiste tra autonomia ed ordinamento,
cioè a dire tra volontà del privato e volontà della legge, nel senso di accertare come ed a quali condizioni i privati possono giuridicizzare
una data operazione economica e far si che essa assuma rilevanza sul piano giuridico.
Bisogna inoltre individuare se gli effetti giuridici sono effetto della volontà delle parti o si producono soltanto in seguito al comando
normativo.

Secondo una prima impostazione ottocentesca, è la volontà privata a dar vita agli effetti giuridici. Il ruolo svolto dall’ordinamento è
unicamente quello di porre dei limiti esterni all’autonomia contrattuale, limiti costituiti dalla contrarietà a norme imperative, ordine
pubbliche o buon costume. All’interno del perimetro delineato dall’ordinamento, la volontà del privato può spaziare, dando vita, essa
stessa, ad effetti pienamente vincolanti, che l’ordinamento si incarica di proteggere e tutelare.
Tale impostazione confonde, però, un’idea naturalistica di volontà con la configurazione giuridica dell’autonomia contrattuale e pertanto
comporta il ricollegarsi degli effetti giuridici direttamente ed immediatamente alla volontà privata.

Altre dottrine hanno tentato di dimostrare la medesima tesi ricorrendo ad una più complessa costruzione che investe gli stessi rapporti
esistenti tra l’area del diritto privato e la posizione ed il ruolo assunto dallo Stato.
a) Teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici. Costruisce il contratto come un ordinamento a sé stante, disciplinato dalla regola
posta dai contraenti. Tale ordinamento è caratterizzato da elementi propri ed autonomi, ma cede all’ordinamento statuale attraverso la
potestà giurisdizionale e sanzionatorie di pertinenza esclusiva di quest’ultima. Tutto ciò implica che l’esistenza dell’ordinamento
costituito dal contratto e l’efficacia della regola privata possono essere affermate solo prescindendo dal momento autoritativo, proprio
dell’ordinamento statuale. All’ordinamento statuale è, quindi, affidato il compito precipuo di tutelare l’accordo e finisce così per dettare,
esso stesso, le condizioni alle quali una data operazione economica può divenire giuridica.

b) Teoria della costruzione per gradi. L’ordinamento risulterebbe la risultante di una sorta di scala costruita in ordine decrescente dalla
Costituzione, dalle leggi, dalla giurisdizione etc. con il contratto, le parti pongono norme concrete per regolare il comportamento
reciproco in attuazione delle regole statuali con attuazione del diritto di grado superiore e creazione di una nuova regola attua, però, a
disciplinare il solo rapporto intersoggettivo. Il giudice dovrà accertare l’osservanza o l’infrazione.

c) Altre teorie, invece, attribuiscono all’ordinamento giuridico in via esclusiva il potere di fissare gli effetti negoziali. L’iniziativa privata
viene è ridotta ad un mero schema di fatto. Il contatto apparterrebbe al privato solo per il tempo della sua realizzazione, ma una volta
raggiunto il necessario sviluppo, esso rientrerebbe nel dominio della legge a cui spetterebbe di fissare, in via esclusiva, gli effetti
giuridici.
 Tra queste teorie la più accreditata è la Teoria precettiva (Betti): all’autonomia privata spetterebbe il ruolo di fissare il
regolamento vincolante. Si assiste, così, ad una netta separazione tra i due momenti sociale e giuridico. Il primo è caratterizzato dal
fatto che il vincolo tra i privati già nasce ed è riconosciuto come impegnativo ed è l’ordinamento statale a divenire ordinamento
giuridico, in quanto conforme al dettato della socialità.
L’autoregolamento dei privati è in grado di dar vita ad un precetto, cioè ad un ordine, il quale, però sarebbe originario ed indipendente
rispetto alla statualità, non si porrebbe in alternativa ai poteri ed alle funzioni statali, né darebbe vita ad un ordinamento in senso tecnico.
È, quindi, dato un valore sociale all’autoregolamento. Solo l’ordinamento stabilisce quali effetti, nel campo giuridico, possono essere
prodotti dall’autoregolamento.

Art. 1374: Il contratto obbliga le parti, non a quanto nel medesimo è espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la
legge, gli usi e l’equità.
 La tesi tradizionale ritiene che dal contratto non possono derivare conseguenze che non si riallacciano alla volontà delle parti,
salvo che sia presente nella pattuizione privata una lacuna che la legge, gli usi e l’equità hanno la funzione di colmare con un
intervento, dunque, di carattere esclusivamente suppletivo; tipico il caso di mancata previsione del luogo o del tempo
dell’adempimento (Art. 1182-1183 c.c.), ovvero di attribuzione ad un terzo del potere di determinare l’oggetto del contratto (Art.
1349 c.c.).
 Si riafferma così il principio secondo cui il contenuto del contratto non potrebbe che essere frutto della volontà dei privati, mentre la
legge e le altre fonti di integrazione, operando solo in presenza di pattuizioni lacunose, non potrebbero giammai porsi in contrasto con
l’autoregolamento, fissato in base al solo consenso.

L’Art. 1374 assume un diverso significato: quello di indicare quali sono nel nostro ordinamento le fonti che disciplinano il regolamento
contrattuale, intendendo con tale espressione l’insieme dei precetti che vincolano i contratti, non solo in base a ciò che essi hanno pattuito,
ma anche in base a ciò che detta la legge o, se del caso, l’usi o l’equità.

Accanto alla fonte autonoma si pongono dunque le fonti eteronome. Il legislatore ha considerato l’Art. 1374 come volto a disciplinare gli
effetti del contratto; è anche vero che la rubrica dell’Art., indica la funzione della norma nell’integrazione del contratto, facendo riferimento
ad un criterio oggettivo di individuazione, che prescinde dalla scissione, ha aspetto contenutistico ed aspetto della determinazione degli
effetti.
Sul piano concreto, l’autonomia contrattuale ha modo di esplicarsi pienamente da più punti di vista:
1. libertà di concludere o meno il contratto;
2. libertà di fissarne il contenuto;
3. libertà di scegliere la persona del contraente;
4. libertà di dar vita a contratti atipici.
A fronte di queste libertà, il legislatore a posto delle limitazioni:
Libertà di concludere o meno il contratto
Talvolta il soggetto è OBBLIGATO A CONTRARRE o per legge o per stessa volontà privata. In caso di inadempimento all’obbligo di
contrarre per volontà privata consegue non il mero obbligo di risarcire il danno, ma la possibilità per la parte adempiente di ottenere
una sentenza costitutiva che sostituisca il contratto non concluso. Mentre in caso di inadempimento dell’obbligo di contrarre per
legge, la questione è più complicata: es. nell’ipotesi di obbligo posto a carico di chi esercita un’impresa in condizione di monopolio
legale, l’imprenditore è obbligato a contrarre con chiunque richieda le prestazioni tipiche della sua impresa, esercitando la parità di
trattamento. La ratio della limitazione normativa è quella di garantire e tutelare il consumatore di fronte al soggetto obbligato.

Libertà del contenuto


L’Art. 1322 c.c. stabilisce che le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge. I
contraenti possono utilizzare uno schema tipico, recependo i contenuti normativi, ma nel contempo, ampliandone la portata, ovvero, se la
disciplina è derogabile, stringendone la portata. La libertà di modellare il contenuto da parte dei privati si rileva particolarmente nei c.d.
contratti misti atipici ed anche collegati.

– Misti: i privati utilizzano una pluralità di schemi tipici al fine di dar vita ad un assetto di interessi che risulta mutuato in parte da una
disciplina tipica, in parte da un’altra.
– Atipici: libertà massima di contenuto, ma sempre limitata dalla possibilità d’intervento della legge.

Limitazioni:
Giudizio di liceità: L’autonomia contrattuale può anche scontrarsi con l’ordinamento giuridico, quando i privati travalichino i limiti di
confine posti a tutela degli interessi collettivi, limiti costituiti dalla contrarietà a norme imperative, ordine pubblico e buon costume.
È prevista dall’Art. 1339 c.c., a favore dei privati, la sostituzione di clausole difformi con la legge inserite dalle parti. Ciò consente di
mantenere in vita il contratto evitando la sua nullità.
Ulteriori ipotesi di ampliamento del contenuto del contratto sono le clausole d’uso, condizioni generali di contratto, moduli e formulari.

Libertà di scelta del contraente


La legge, talvolta, interviene, non già obbligando il soggetto a contrarre, ma obbligandolo qualora intenda addivenire al contratto, a
stipulare con una data persona.
 Es. prelazione legale: il coerede che vuole alienare la sua quota di eredità è tenuto prima nei confronti degl’altri coeredi e poi
eventualmente può alienare a terzi (cd. retratto successorio).
 Es. assicurazione obbligatoria: la legge indica una serie di soggetti con cui il proprietario del veicolo può contrarre, ma questi dovrà
scegliere una sola delle compagnie con cui concludere il contratto.

Libertà di contrarre per schemi atipici


Le limitazioni a tale libertà non derivano da norme puntuali, ma da ricostruzioni dell’intero sistema ad opera della giurisprudenza.

L’autonomia contrattuale è tutelata, rispetto ai limiti posti dalla legge, dalla costituzione. L’Art. 41 Cost. stabilisce la libertà di iniziativa
che viene riconosciuta dai privati. I limiti imposti dalla legge devono rispondere a ben precise esigenze di carattere contingente e non
arbitrario. Deve essere determinato al fine di garantire interessi più vasti e rendere possibile l’adempimento di quella funzione sociale che
non può discostarsi dall’esercizio di ogni attività produttiva.

Usi normativi ed usi negoziali


Gli usi normativi, disciplinati dagli artt. 1, 8 e 9 delle preleggi, sono le fonti di cognizione, ultime nella gerarchia delle fonti; infatti questi
hanno efficacia nelle materie espressamente richiamate dalle leggi e dai regolamenti. Essi sono quelli che costituiscono la parte sussidiaria
del diritto nelle materie in cui manca del tutto la regolamentazione legislativa. Questi sono detti anche consuetudini, poiché si formano
tramite la ripetizione costante di un dato comportamento (aspetto oggettivo), associato alla convinzione, da parte dei consociati, di
osservare un comportamento avente valore giuridico (aspetto soggettivo).
Bisogna prendere in considerazione due ordini di problemi:
1. Efficacia dell’uso normativo. L’Art. 1374 c.c. non attribuisce agli usi un valore vincolante, che gli deriva dall’essere previsti tra le
fonti del diritto.
2. Ambito di tale efficacia. Se si prescindesse dall’Art. 1374 c.c., si dovrebbe affermare che l’efficacia degli usi in materia contrattuale
sarebbe limitata ai singoli richiami operati da singole norme che disciplinano il contratto in generale, tipico ed atipico, ed i singoli
contratti tipici.
È possibile l’applicazione di usi normativi anche là dove la legge non dispone il rinvio, purché non siano contra legem. Questi usi possono
essere derogati dalla volontà dei privati. Gli usi negoziali sono previsti dall’Art. 1340 c.c., essi si intendono inseriti in modo automatico
nel contratto “se non risulta che non sono stati voluti dalle parti”. L’uso negoziale ha una funzione integrativa dell’accordo e dovrebbe
prevalere sulle disposizioni legali suppletive e derogare alle norme di legge dispositive, nonostante la giurisprudenza sia contraria. La
differenza rispetto agli usi normativi è che essi non hanno carattere generale ed obbligatorio, di conseguenza integrano il contenuto del
contratto solo quando siano esplicitamente o implicitamente richiamati dalle parti.

L’equità
Il richiamo all’equità, secondo alcuni, sembra avere carattere sussidiario al fine di prendere in considerazione punti che nella contrattazione
non sono stati presi in considerazione dalle parti ma, che non possono considerarsi come conseguenza naturale di quanto convenuto.
L’intervento equitativo, quindi, sembrerebbe essere possibile solo in funzione suppletiva, cioè come ausilio dell’autonomia privata allo
scopo di ricercare la volontà dei contraenti. Per questo motivo,l’intervento del giudice sembra avere una funzione del tutto marginale ed
eventuale, infatti, quasi mai il punto è richiamato all’interno delle sentenze in concreto.
Quindi il problema è comprendere se e come può intervenire il giudice. Ci sono casi in cui il giudice è autorizzato espressamente dalla
legge pensiamo ad esempi, agli Art. 1384 che impone al giudice di ridurre ad equità la clausola penale manifestamente eccessiva.
Altre volte, invece, non è previsto dalla legge, indi per cui bisogna procedere con cautela visto che si tratta di ampliare il potere giudiziale
al di là del mero intervento di tipo residuale o suppletivo. È possibile tale apertura, ad esempio, nel caso in cui il giudice debba intervenire
al fine di determinare l’oggetto della prestazione, sempre che le parti abbiano indicato i criteri per la determinazione o sussistano dei criteri
obiettivi di mercato.

La definizione dei criteri è necessaria perché non può esserci un intervento del giudice autonomo così come il giudice non potrà prevedere
un assetto regolamentare diverso da quello delle parti, sostituendo clausole che appaiono inique con clausole eque allo scopo di garantire la
parità nello scambio. In realtà, l’intervento del giudice di questo tipo è ammesso solo quando si tratta di eliminare le condizioni più
svantaggiose per una parte, dovute a discriminazioni razziali, religiose, etniche.

Gazzoni, esponente di una dottrina isolata, ha da tempo posto il problema del se il giudice possa comminare la nullità ex Art. 1374 di una
singola clausola o dell’interno contratto quando una singola operazione economica appaia contraria al principio d’equità. Se così fosse,
l’equità si porrebbe al pari del buon costume e dell’ordine pubblico e delle norme imperative a presidio di principi superindividuali anche
se, non opererebbe a priori m, cioè in ogni caso ma, posteriori solo quando il giudice, anche d’ufficio, ritenga esserci in concreto un grave
squilibrio regolamentare a danno di una parte.
a) L’iniquità dipenderebbe dal regolamento contrattuale e da come questo regolamento, seppure di per sé lecito, è costruito ed opera
in concreto come illecito. Di conseguenza, l’iniquità non può considerarsi come clausola generale.
b) L’illiceità consegue a violazioni di regole predeterminate ed opera in astratto.

Quindi, sia l’illiceità che l’iniquità comportano la caducazione dell’elemento illecito o iniquo ma, la differenza è proprio nella concretezza
della iniquità e astrattezza dell’illiceità. La nullità come conseguenza della iniquità è prevista nel caso di clausole abusive che determinano
uno squilibrio significativo a danno del consumatore, il cd. contraente debole. Anche in questo caso, però, la loro nullità non è comminata
in astratto cioè con riguardo a qualsiasi contratto ma, in concreto dipendendo dalle condizioni esistenti al momento della conclusione del
contratto o delle altre clausole del contratto.

La buona fede esecutiva


Secondo la dottrina tedesca, la buona fede esecutiva sarebbe un’ulteriore fonte di integrazione del contratto occupando il posto dell’equità.
Invece, secondo il diritto romano, che la distacca dall’equità, la buona fede esecutiva è un criterio di valutazione del comportamento tenuto
dalle parti al momento dell’adempimento secondo una sorta di “codici comportamentali” previsto dalla legge.
 La differenza tra equità e buona fede esiste ed è anche netta:
a) Equità → attiene al profilo regolamentare e obbiettivo e si rivolge alla regola come tale;
b) Buona fede → attiene al profilo attuativo e comportamentale, e si rivolge ai soggetti che hanno concorso a porre in
essere tale regola, in modo esclusivo o determinato
Di sicuro è necessario un nesso tra attuazione del rapporto obbligatorio e principio di buona fede dal momento che è essenziale che vi sia
un costante adeguamento in sede esecutiva viste le circostanze mutevoli. Ad esempio, l’abuso del diritto è collegato alla buona fede dal
momento che è sanzionata con l’inammissibilità la domanda del creditore di una somma di denaro da parte del debitore, nel caso in cui sia
stato egli stesso con il proprio comportamento a determinare indirettamente l’insolvenza del debitore.

Non è però, contrario a buona fede l’ipotesi in cui il soggetto decida di stipulare rapporti di lavoro con trattamento retributivo migliore
rispetto ad altri all’interno di un’impresa perché l’Art. 1375 opera nell’ambito dei rapporto singoli e non in relazione a comportamenti
esterni. In base all’Art. 1375 si teorizza l’exceptio doli generalis che, oggi si ritiene essere consistente in un comportamento malizioso e
scorretto. Si ricollega alla buona fede anche il principio secondo cui non si può esercitare il diritto in contrasto con un precedente
comportamento affidante. Dalla buona fede esecutiva nascono doversi ed obblighi di protezione, i quali non sono integrativi della regola
contrattuale perché non la arrochiscono ma, servono solo ad attuarla correttamente e a preservare la sfera giuridica dei contraenti da fatti
lesivi. Spesso, tali doveri sono previsti dalla legge ma, possono anche considerarsi inseriti di volta in volta a seconda delle circostanze nei
singoli contratti tipici.
L’illiceità: ordine pubblico e buon costume
Secondo quanto disposto dall’Art. 1343 la regola contrattuale è illecita se contraria all’ordine pubblico ed al buon costume. L’ordine
pubblico ed il buon costume sono contenuti oggettivamente desumibili, a differenza di quanto accade con riguardo ad equità e buona fede,
dove, invece il margine discrezionale del giudice è piuttosto ampio. Nel caso in cui il giudice ritenga che una determinata norma sia
contraria all’ordine pubblico ed al buon costume, il giudice seppure sempre obbligato a motivare, non dovrà esprimere opinioni ma dovrà
limitarsi semplicemente ad applicare i principi e le clausole al riguardo.
 Un’altra differenza che esiste tra ordine pubblico, buon costume ed equità è che l’ordine pubblico e buon prescindono dal
giudizio concreto, invece l’equità lo presuppone.

Ordine pubblico
La nozione di ordine pubblico compare la prima volta, nel codice Napoleonico. Inizialmente, esso si configurava come manifestazione
della volontà della classe dirigente di assicurare la stabilità del regime contro ogni attività condotta sul piano giuridico e diretta a porre in
discussione le fondamenta su cui la società si basa. L’ordine pubblico opera come ultima ratio quando una determinata operazione non è
vietata di per sé da specifiche norme imperativa, ma si presenta in opposizione o è reputata eversiva rispetto alle strutture sociali.
 Il pericolo, però, insito in questa definizione tendente a legittimare ogni soluzione politica, ha condotto la dottrina a
ridimensionare l’ampiezza di tale nozione fino ad identificarla direttamente con le norme imperative o con i principi da essa deducibili.
Ma, questa soluzione non è apparsa convincente ed è per questo che si è optato per una soluzione del problema alla luce dell’ingresso
del nostro ordinamento di una costituzione che indicasse in modo chiaro le direttive, i principi, i valori da seguire e da difendere. Infatti,
la funzione attuale dell’ordine pubblico non è più politica ma, è quella di impedire che i provati possano darsi un assetto di interessi non
conforme a quelle direttive e a veri principi.

Buon costume
La nozione di buon costume appare per la prima volta nel diritto romano e nei boni mores. Le esigenze della moralità non sono o meglio,
non dovrebbero essere legate all’assetto politico ma, è impossibile che ci sia un’interferenza di queste a anche a livello giuridico.
Il buon costume, a differenza dell’ordine pubblico è un criterio di giudizio che si pone dalla parte della realtà sociale e non
dell’ordinamento giuridico. Quindi, la sua nozione non può essere desunta da un’indagine positiva seppure solo lo Stato, tramite le norme
giuridiche, potrebbe dettare regole di buon costume valide per tutti.

Infatti, se da una parte è impossibile prescindere dalla natura sociale del criterio per l’identificazione delle pratiche immorali, al tempo
stesso, non può negarsi un ruolo insostituibile dell’ordinamento nel suo ruolo negativo, nel senso che non potrà essere accolta quella
nozione che risultasse essere contraria a precise statuizioni normative. Quindi, il giudice è legittimato ad applicare il criterio del buon
costume solo in assenza di una contraria disposizione di legge.
 Proprio a causa di questa tendenziale osmosi tra ordine pubblico e buon costume, ci si è chiesti in alcuni casi se alcune pratiche
debbano configurarsi come immorali o come illegali per violazione dell’ordine pubblico. Pensiamo, ad esempio, alle convenzioni
elettorali, con cui alcuni candidati alle elezioni politiche si impegnano a far convergere i voti dea lori espressi, su un altro candidato della
stessa lista in cambio di denaro. Risulta illegale il contratto di claque se, ha ad soggetto la programmata denigrazione di un artista.

La differente configurazione di una pratica come illegale o immorale comporta delle diversità legate alla disciplina da applicare. E sempre
più spesso l’immoralità ha ceduto il passo all’illegalità, nel senso che quelli che prima erano dei precetti di ordine morale sono poi stati
positivizzati ed entrati a far parte dell’ordine pubblico. Ciò vuol dire che più si amplia l’interesse dello stato più si restringe quello dei boni
mores che, ad oggi ricomprendono quasi esclusivamente le prestazioni sessuali (ed il gioco).

3. LA CAUSA DEL CONTRATTO

Art. 1325 c.c.: I requisiti del contratto sono l’accordo delle parti, la causa, l’oggetto, la forma (quando risulta che è prescritta dalla legge
sotto pena di nullità).

Storicamente, la CAUSA fu inizialmente riferita all’obbligazione, secondo quanto era stabilito dal Codice Napoleone, e di conseguenza
anche dal Codice del 1865, nei quali il contratto era concepito esclusivamente come fonte dell’obbligazione: secondo questa concezione era
inammissibile concepire una causa del contratto che non fosse causa dell’obbligazione. Così, la causa del contratto finiva sempre per
identificarsi solo con lo scopo perseguito dal contraente nel momento in cui assumeva un certo obbligo: per cui, la causa si riferiva non al
contratto, ma alla volontà del contraente, assumendo una connotazione soggettiva data dall’utilità perseguita dal singolo individuo.

Gradualmente si iniziò a superare la concezione soggettiva della causa a favore del dato oggettivo: si cominciò a sostituire
all’obbligazione, la PRESTAZIONE (di derivazione tedesca), che si prestava maggiormente ad indicare e ricomprendere vicende non
necessariamente obbligatorie, ma immediatamente traslative.
 Tale prospettiva oggettiva della causa era incentrata sull’unità del contratto: la causa si identificava quindi con la funzione stessa cui
assolve il contratto dal punto di vista economico – sociale, ed era legata anche ad un’analisi della socialità e del ruolo svolto
dall’autonomia contrattuale. Secondo questa impostazione, la causa sarebbe l’astratta tipica ragione economico – giuridica del
contratto, intesa come strumento di controllo dell’operare dei singoli soggetti all’interno dell’ordinamento giuridico.
 Secondo un’altra prospettiva, invece, la causa sarebbe la sintesi degli effetti giuridici essenziali del contratto.
Nel Codice del 1942, la causa è intesa come sinonimo del tipo contrattuale, ma vi è stata una commistione concettuale che ha determinato
notevoli equivoci, al punto che la dottrina è giunta a negare la rilevanza della causa come elemento autonomo, sostenendo alcuni autori che
questa finirebbe per confondersi con lo stesso atto di autonomia.

Più fondato è invece il tentativo di recuperare l’impostazione soggettivistica della causa, non più identificando la causa con lo scopo
soggettivo perseguito dai singoli contraenti, bensì evidenziando la funzione economico – individuale, e quindi l’identificazione tra causa
e tipo. Questa impostazione, pertanto, è l’unica che consente di intendere la causa come ragione dell’affare (Bianca), ossia come
giustificazione dei movimenti dei beni da un soggetto ad un altro.

Causa e tipo
Il legislatore si è preoccupato di predisporre una regolamentazione uniforme dei contratti, che nel suo contenuto disciplinare può essere
derogabile o inderogabile, a seconda che l’ordinamento ritenga necessario tutelare taluni aspetti anche contro la volontà dei privati, o in
caso contrario ammetta la possibilità che i contraenti dettino una regola difforme.

I tipi contrattuali sono la continuazione dei tipi di diritto romano, cui si sono aggiunti nuovi tipi nati dalla pratica commerciale. Il tipo
legale, quindi, corrisponde all’id quod plerumque accidit, ossia ciò che di regola accade. Al tipo legale si giunge attraverso la tipicità
sociale, rappresentata dalla tipicità giurisprudenziale, la quale presuppone una reiterazione di comportamenti, una pratica generale che se
anche non già consuetudine, ne potrebbe costituire la base, dettando una regola. Rimangono al di fuori di questo ambito i comportamenti
individuali, non ancora socialmente generalizzati, i quali dal punto di vista della tipicità sono stati ritenuti immaturi.

Il tipo legale è uno schema regolamentare astratto che racchiude in sé la rappresentazione di una operazione economica ricorrente
nella pratica commerciale (es. Art. 1470c.c.: la VENDITA è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il
trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo). La norma con cui il legislatore apre la serie di disposizioni è quasi
sempre quella che delinea la nozione del contratto (es. 1470), ossia quella che descrive il tipo contrattuale: ciò al fine di stabilire il
riferimento normativo con cui dovrà misurarsi l’operazione privata per verificare se rientra o meno in quel tipo contrattuale, o se debba
essere ricompresa nell’ambito dell’atipicità.

Questa attività di confronto tra l’operazione concreta dei contraenti ed il tipo astratto elaborato dal legislatore, è detta qualificazione, e va
condotta oggettivamente e a prescindere dalla volontà privata: ad esempio, i contraenti non possono pretendere di dar vita ad una
compravendita che non corrisponda allo schema definito dal legislatore.

Definito l’ambito di rilevanza del tipo legale, può dirsi che la causa va identificata con la funzione economico – sociale del contratto, e
quindi con il tipo?
Il legislatore sembra aver confuso causa con tipo nel momento in cui, ad esempio, stabilisce la nullità del contratto per assenza di causa,
attraverso il rinvio da parte dell’Art. 1418 all’Art. 1325: in realtà, in tal caso si tratterebbe non di assenza di causa, quanto piuttosto di
assenza di tipo. Infatti, gli esempi che comunemente vengono fatti per l’assenza di causa, costituiscono ipotesi di inconfigurabilità del tipo
e quindi di impossibilità di qualificare l’operazione dei contraenti: non si configura il tipo del contratto a prestazioni corrispettive quando
una parte riceve nulla in più di quanto le spetterebbe per legge (es. consenso a titolo oneroso alla cancellazione dell’ipoteca dopo l’integrale
pagamento), non essendo ipotizzabile lo scambio.

Problemi posti dal tipo legale:


a) bisogna verificare l’esistenza di una pattuizione che risponda in astratto ai requisiti posti da uno degli schemi tipici, per stabilire la
normativa applicabile;
b) si dovrà, quindi, verificare se quello schema tipico esiste in concreto, cioè se sia presente o meno nell’ordinamento giuridico;
c) infine, occorre verificare la presenza o l’assenza dell’accordo: ad esempio, nel caso del dissenso circa il contenuto tipico del contratto
(es. proposta di acquisto di 3 maiale, accettazione di vendita di 3 vitelli), il quale riguarda proprio l’inesistenza dello schema vincolante,
nonostante sia astrattamente chiaro quale tipo contrattuale le parti volessero utilizzare.

Questi problemi, nulla hanno a che vedere con la causa del contratto, che invece riguarda i concreti interessi dei contraenti. Quindi causa e
tipo non possono identificarsi, in quanto:

a) con riguardo al tipo contrattuale rileva lo schema astratto delineato dal legislatore: l’indagine è essenzialmente astratta e statica; si
pone problema di configurabilità dell’operazione, per cui si opera un raffronto statico tra lo schema costruito dai privati e quello
disciplinato dal legislatore;

b) mentre riguardo alla causa l’indagine è concreta e sempre dinamica, e un problema di liceità degli interessi perseguiti, quindi si
opera un raffronto dinamico tra gli interessi perseguiti dai privati e gli interessi ritenuti leciti e protetti dall’ordinamento; con la causa si
deve quindi indagare sui concreti risvolti dell’operazione economica nel suo complesso, comprendendo sia gli aspetti soggettivi che
oggettivi, che non rilevano invece ai fini dell’indagine condotta per schemi o tipi.
Oggi, trova un seguito sempre maggiore sia in dottrina che in giurisprudenza la teoria della causa in concreto, secondo la quale la causa
del contratto non coincide con la funzione economico – sociale che il contratto è astrattamente in grado di perseguire, bensì si identifica
con la funzione pratica che le parti concretamente perseguono attraverso l’accordo contrattuale.

Coloro che invece identificano la causa con la funzione economico – sociale, e quindi con il tipo, devono negare che si possa porre un
problema di liceità della causa in presenza di contratti tipici (ponendosi riguardo al tipo contrattuale solo un problema di configurabilità):
così si limiterebbe l’applicazione dell’Art. 1343 c.c. (illiceità della causa) ai soli contratti atipici.
 ad esempio, seguendo tale impostazione, è stato dichiarato nullo ma non illecito, un contratto di lavoro che tendeva all’assunzione di
forza lavoro nonostante il divieto di nuove assunzioni, posto da una delibera regionale: tale contratto non è illecito perché lo scopo era
quello di assicurare il corretto funzionamento sul piano amministrativo dell’ente locale, e quindi era applicabile l’Art. 2126 c.c.
configurandosi un contratto di lavoro nullo ma non per illiceità della causa.

L’Art. 2126 c.c. stabilisce che la nullità o l’annullabilità del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha
avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa. Da tale norma si può desumere che la causa non può
identificarsi con il tipo, perché altrimenti il legislatore non avrebbe potuto ipotizzare l’illiceità della causa di un contratto tipico, come
quello di lavoro. Tuttavia, non è sempre facile stabilire se il contratto è nullo per illiceità della causa o dell’oggetto o del motivo comune, o
se si limiti a violare una norma imperativa che non riguarda il profilo causale.

Il contratto atipico
L’Art. 1322 c.c. prevede il potere dei privati di determinare il contenuto del contratto, all’interno del tipo contrattuale:
– arricchendo il regolamento rispetto a quanto già fissato dalla legge;
– restringendone la portata attraverso l’eliminazione di statuizioni dettate da norme derogabili.

L’assetto di interessi di un contratto tipico può quindi non essere identico allo schema prefissato dal legislatore, ma anzi spesso i problemi
di liceità si pongono proprio perché l’interesse perseguito si articola in strutture troppo distanti dallo schema astratto.
Il co. 2 Art. 1322, prevede la possibilità che la determinazione del contenuto possa essere esercitata anche all’interno di schemi atipici,
creati dai contraenti, che meglio si adattano all’interesse perseguito. In tali ipotesi, il contratto atipico è soggetto alle norme generali sul
contratto, a condizione che l’interesse perseguito sia meritevole di tutela (come prescritto dall’Art. 1322).

Secondo alcuni autori, tra cui Sacco, tale disposizione avrebbe la funzione di permettere ai privati di costruire modelli di regolamentazione
di interessi non previsti tipicamente: si tratterebbe di una norma meramente autorizzatoria e sostanzialmente garantista. Tuttavia, una
norma di tal genere non avrebbe senso nel nostro ordinamento: solo una norma con previsione opposta, che vietasse esplicitamente si
privati di regolare i propri rapporti attraverso contratti atipici, sarebbe in grado di limitare i poteri dei contraenti in tal senso.
 È il caso dell’Art. 1173 c.c., il quale ha posto fine al sistema delle fonti delle obbligazioni, introducendo il principio
dell’atipicità delle fonti dell’obbligazione, riconoscendo tra le fonti anche il contratto atipico ad effetti obbligatori.

In realtà la atipicità assoluta in materia contrattuale non esiste, in quanto gli assetti privati richiamano sempre i tipi legali, anche per
necessità di mercato; è il caso dei contratti socialmente tipici, come:
• contratto di portierato: presenta i caratteri del lavoro subordinato e della locazione
• contratto di convenzionamento: per cui la banca eroga finanziamenti per l’acquisto di beni ai clienti di un imprenditore, il quale
istruisce la pratica ricevevendone un compenso: è un contratto analogo alla mediazione

Secondo la dottrina che individua nella causa la funzione economico – sociale del contratto, l’Art. 1322 co. 2 c.c., va interpretato nel senso
che l’interesse perseguito dai contraenti è meritevole di tutela se socialmente utile. In questo modo, però, si determina una sorta di
funzionalizzazione degli interessi privati, che verrebbero protetti solo se coincidenti con gli interessi dell’intera collettività, ossia con gli
interessi pubblici.

Leggendo la Relazione al Re del Guardasigilli, si osserva che seguendo questa impostazione, non potrà essere protetto l’interesse
individuale sporadico, in quanto solo le pretese sociali costanti che hanno già ricevuto una tipizzazione in chiave sociale, meritano una
tutela giuridica, essendo suscettibili di essere ordinate in modo regolare e pertanto di evitare uno stato di insicurezza giuridica.
 La Relazione ha, dunque, introdotto il concetto di utilità sociale, individuando tra i criteri di giudizio della meritevolezza, oltre a
quelli propri della liceità, anche la coscienza civile e politica ed i principi ispiratori dell’economia nazionale, ossia del corporativismo.
In questa visione, l’interesse privato si dissolve in interesse pubblico, ed il contraente diviene funzionario dello Stato.

Tale impostazione, tuttavia, se dal punto di vista teorico stravolge la visione dell’autonomia privata, dal punto di vista pratico non ha alcuna
rilevanza, in quanto dimostra che il contratto atipico in senso assoluto non esiste. È stato infatti osservato che qualsiasi interesse
economicamente rilevante non può essere sporadico o individuale, proprio perché, per il fatto stesso che nasce e si sviluppa, esso è per
forza di cose comune ad una molteplicità di soggetti, che costituiscono la base della collettività sociale. Per questo motivo è inevitabile che
l’interesse privato finisca per raccordarsi ad uno dei tipi legali. Con riguardo, invece, all’utilità sociale come ulteriore strumento di
controllo del contenuto disciplinare, accanto alla liceità, è alquanto impossibile ipotizzare contratti socialmente dannosi che non siano
anche illeciti. Per quanto riguarda, poi, i contratti socialmente futili (es. accordo sull’orario in cui suonare il violino), il problema che si
pone rileva solo ai fini della giuridicità del vincolo contrattuale, o della patrimonialità della prestazione.
L’ex Art. 1322 co. 2, inoltre, stabilisce la libertà di concludere contratti atipici, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di
tutela secondo l’ordinamento giuridico → prevede accanto al giudizio di liceità anche un giudizio di meritevolezza circa gli interessi dei
contraenti.
– il giudizio di liceità ha la funzione di salvaguardare l’ordine giuridico dalla presenza di accordi impegnativi che contrastino con
norme di legge;
– il giudizio di meritevolezza, invece, riguarda la valutazione dell’idoneità dello strumento contrattuale utilizzato dai contraenti, come
modello giuridico di regolamentazione degli interessi, non essendo riferito ad uno schema tipico legislativo.
La meritevolezza, quindi, opera a livello di tipo contrattuale e non di causa, perché bisogna valutare solo se lo schema astratto è
accettabile o meno sul piano giuridico: logicamente tale indagine non va compiuta in caso di contratti tipici, essendo già inquadrati in
schemi prefissati dal legislatore.

Uno schema atipico è meritevole di tutela quando abbia un significato economico – sociale, in termini di scambio di utilità, non in
riferimento alla causa, ossia al concreto interesse dei contraenti, ma nel senso che sia idoneo ad essere considerato schema normativo,
adottabile dalla collettività, e quindi socialmente utile. È ad esempio, immeritevole di tutela lo schema del contratto con un
mago/cartomante, per farsi predire il futuro, perché nonostante sia socialmente uno schema tipico, secondo il nostro ordinamento è
considerato alla pari della scommessa pura.

In presenza di uno schema individuale e non sociale, quindi atipico in senso assoluto, acquista rilevanza l’accertamento dell’effettiva
intenzione dei contraenti di dar vita al vincolo giuridico, in termini di coercibilità. Infatti, se da un lato la giuridicità del vincolo può
presumersi nel caso in cui si utilizza uno schema tipico, dall’altro non può dirsi la stessa cosa nei casi di schemi sporadici e individuali. In
tale ipotesi, l’indagine va compiuta in termini soggettivi ed oggettivi, considerando il concreto regolamento contrattuale, i rapporti
intercorrenti tra i soggetti sia a livello personale che patrimoniale, le circostanze obbiettive in cui è nato l’accordo, ecc. Pertanto, uno
schema contrattuale atipico, benché socialmente inutile, può essere meritevole di tutela se sia accertata una indiscussa volontà dei
contraenti di autovincolarsi secondo le regole giuridiche, a condizione che l’ordinamento non si disinteressi di quella materia.
 Dunque, lo schema ideato dai privati, relativamente ad una operazione atipica in senso assoluto ed economicamente futile, sarà
inidonea non perché asociale, ma perché la futilità è di per sé sintomo dell’assenza di una reale volontà giuridica delle parti.

Il contratto misto
Talvolta, lo schema contrattuale realizzato dai privati presenta alcuni elementi di un tipo e altri elementi di un altro tipo contrattuale: in tal
caso, dottrina e giurisprudenza non parlano di schemi atipici, bensì di contratti misti, i quali, a differenza di quelli atipici che pretendono
una disciplina autonoma, non avendo una propria fisionomia non avranno neanche una propria autonomia. Sul piano ricostruttivo, il
contratto misto di configura come la risultante di una combinazione di una pluralità di elementi di schemi tipici che si fondono in un’unica
causa e si condizionano a vicenda.
 La dottrina, in particolare Bianca, ha osservato che in alcuni casi un unico rapporto contrattuale può presupporre una duplicità di
autonomi tipi, per cui il contratto si presenterà come uno schema autonomo ma peculiare, perché sarà riferibile ad una pluralità di tipi
legali.
Ad esempio, nel caso di una vendita con prezzo volutamente basso, per donarne con donazione indiretta la differenza all’acquirente, si
osserva una incompatibilità dei due schemi contrattuali, vendita e donazione: in tal caso infatti non è ipotizzabile un contratto misto, in
cui i diversi tipi confluiscono nell’unicità della causa, proprio perché da un lato vi è unicità di causa, ma dall’altro vi è concorrenza dei
tipi, che mantengono comunque la propria autonomia. Si applicherà quindi la disciplina della vendita per le garanzie e
l’inadempimento, mentre quella della donazione per tutto il resto (tenendo conto che in caso di donazione indiretta è applicabile il solo
Art. 809 c.c.).

Il contratto misto non ha una disciplina tipica, e quindi si pone il problema di individuare i punti di riferimento normativi, accanto alla
previsione generale dell’Art. 1323 c.c., il quale nulla statuisce circa il contenuto. A riguardo si contrappongono due teorie:
1) teoria dell’assorbimento: si applica la disciplina del tipo contrattuale prevalente
2) teoria della combinazione: si applica ai vari elementi la disciplina del tipo cui appartengono; per evitare eventuali conflitti tra le
diverse norme, è necessario operare sempre sulla base della compatibilità e dell’integrazione tra le varie discipline.

Il collegamento negoziale
L’operazione economica dei privati può essere realizzata anche attraverso una pluralità di negozi strutturalmente autonomi ma collegati
tra loro, nel senso che le sorti dell’uno influenzano le sorti dell’altro in ordine alla validità ed efficacia: l’interesse perseguito è unico,
perché pur avendo la pluralità dei contratti cause diverse, sono comunque preordinati ad uno scopo pratico unitario. Il collegamento
negoziale rileva a livello funzionale, in quanto pone in relazione e influenza i rapporti giuridici che nascono dai singoli contratti, i quali
sono e restano tipologicamente e causalmente autonomi e diversi.
 il collegamento si distingue dal contratto complesso, in cui vi è una pluralità di elementi ma la causa è unica (es. promessa di vendita
con immediata locazione).
Oltre alla pluralità il collegamento presuppone anche un legame tra i negozi, che sia giuridicamente rilevante e non occasionale né
puramente formale. Il collegamento può essere unilaterale o bilaterale, a seconda che la dipendenza sia o meno reciproca.
La dottrina distingue tra:
a) collegamento necessario: se è insito nella stessa funzione assolta dal contratto; è il caso dei negozi preparatori (il negozio di procura è
presupposto per la conclusione del contratto per rappresentante), oppure dei negozi modificativi o revocatori (se il collegamento opera sul
piano del contenuto), o dei negozi accessori (es. negozio di garanzia, conferma del testamento, il cui collegamento è tipicamente
funzionale).
b) collegamento volontario: se è instaurato dai contraenti tra negozi di per sé perfettamente autonomi. In queste ipotesi l’indagine
sull’esistenza e sulla portata del collegamento va condotta caso per caso, considerando la volontà di tutti i contraenti, anche se diversi da
contratto a contratto, come risulta dall’operazione economica complessivamente posta in essere. Una volta accertato il collegamento, va
valutato l’interesse sotteso all’operazione nel suo complesso, e non ai singoli negozi (es. per stabilire se il recesso ex Art. 1373, sia
esercitato secondo buona fede).

Il collegamento negoziale è frequente soprattutto nella pratica commerciale, come nel caso di alienazione dell’immobile e cessione
dell’azienda in esso gestita, o di leasing con patto di riscatto, o in caso di contratti reciproci (quando gli stessi soggetti sono parti di due
contratti con posizioni contrattuali invertite: es. due compravendite in cui i soggetti sono in una venditore e nell’altra acquirente).

Il negozio indiretto
I contraenti possono adoperare un tipo negoziale anche per raggiungere uno scopo ulteriore o diverso da quello proprio del tipo in
questione, come nel caso del mandato irrevocabile e senza rendiconto ad alienare un bene: in tal caso, infatti il contratto non produce
effetti reali ma consegue lo stesso risultato economico della compravendita. Si può dire, quindi, che le conseguenze giuridiche del negozio
indiretto sono di per sé quelle proprie dei negozi posti in essere, ma il raggiungimento dello scopo ulteriore si attua sul piano del motivo
individuale che rimane estraneo al profilo causale del negozio stesso. Pertanto, il negozio indiretto non viene considerato come una
categoria giuridica autonoma, e viene in rilievo per l’ordinamento solo nel caso in cui lo scopo ulteriore sia illecito, per cui è prevista la
nullità.
Il negozio indiretto si distingue dalla simulazione, in quanto è effettivamente voluto dalle parti, e dal negozio fiduciario, perché non si
ravvisa una riduzione o limitazione dell’effetto tipico del negozio.

Il contratto in frode alla legge


Art. 1344 c.c.: si reputa illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa.
Il contratto in frode alla legge è un negozio in cui i contraenti utilizzano un dato schema contrattuale per raggiungere un risultato
economico vietato dalle legge e difforme da quello tipico del contratto concluso. Tale operazione mira quindi a frodare la legge attraverso
l’elusione di una norma imperativa che vieta il conseguimento di quel risultato. È un contratto in fraudem legis, e non contra legem, perché
la legge non è violata direttamente ma indirettamente.
 Esempio è il caso del debitore che alieni al creditore un bene, collegandolo il trasferimento della proprietà all’inadempimento
dell’obbligazione, aggirando in tal modo l’Art. 2744 c.c. che vieta il patto commissorio: tale contratto sarà nullo.
 Anche la frode fiscale determina la nullità del contratto, se è posta in essere allo scopo di aggirare una norma tributaria.

Ai fini della nullità del contratto, oltre all’elemento oggettivo dell’aggiramento del divieto di legge e realizzazione dello scopo vietato, è
necessario anche un intento fraudolento, inteso come illiceità del motivo, che si presume comune alle parti.

Secondo la dottrina, bisogna interpretare oggettivamente l’Art. 1344 c.c., la fine di stabilire l’avvenuta elusione: in tal modo si può rilevare
l’illiceità della causa. Il legislatore, nel dettare questa disposizione ha seguito l’impostazione della causa come funzione economico –
sociale del contratto, ossia come tipo: quindi se il tipo legale non può mai essere contra legem, non essendo ipotizzabile l’illiceità di un
contratto tipico, si dovrà trovare un’altra via per determinare la nullità del contratto nel caso in cui il concreto risultato raggiunto sia vietato
dalla legge. Per cui, non potendosi ammettere che la causa è illecita, si dirà che la causa si reputa illecita.

Secondo un’altra impostazione, invece, ciò che rileva ai fini della nullità è proprio lo scopo della complessiva operazione economica, e
quindi è ammissibile che un contratto tipico sia illecito sul piano causale. In questo modo l’ipotesi di frode alla legge rientrerebbe
nell’illiceità della causa, con la quale ha in comune la sanzione della nullità predisposta dell’ordinamento.

Il principio della causalità negoziale. Il pagamento traslativo


Ai sensi dell’Art. 1325 c.c., causa è uno degli elementi essenziali del contratto e come tale non può mai mancare. Fa eccezione l’ipotesi
singolare dei titoli di credito astratti, dove l’astrattezza è legata alla circolazione del documento o della consegna: si può parlare in tal
caso non di astrazione materiale intesa come irrilevanza della giustificazione causale del negozio, bensì di astrazione processuale, che
opera nel senso di invertire l’onere della prova in ordine all’esistenza del rapporto sottostante, che giustifica la promessa di pagamento o la
ricognizione del debito.
Il principio di causalità rileva in modo più o meno incisivo a seconda dei casi e si atteggia in modo diverso sul piano degli effetti:
a) si parla di causa dichiarata, quando le parti stipulano un contratto ad effetti reali avente ad oggetto un bene immobile: non solo è
richiesta la forma scritta, ma si ritiene che il contratto sia nullo se dal suo contesto non sia desumibile la giustificazione causale
dell’operazione;

b) in materia di obbligazioni, invece, si parla di causa presunta: ad esempio si presume la causa solvendi negli atti esecutivi, in ordine
ai quali spetta al solvens la prova contraria in sede di ripetizione dell’indebito.

Il principio di causalità può facilmente essere aggirato con un accordo simulatorio che faccia apparire esistente una causa in realtà
inesistente. È il caso del contratto di transazione con cui le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già iniziata o
prevengono una lite che può sorgere: le reciproche concessioni possono consistere anche nel trasferimento della proprietà, che trova la sua
giustificazione causale nella composizione della lite; se però, in realtà, la lite non esiste, il trasferimento risulta senza causa, quindi si parla
di causa simulata.

La giustificazione della causa si atteggia in modo particolare quando non è desumibile dal contesto dell’atto ma da elementi esterni: si
parla in tal caso di negozio astratto, in cui appunto la causa esiste ed è rilevante anche se esterna. In realtà piuttosto che astrattezza si tratta
di neutralità della causa, nel senso che l’atto di per sé potrebbe essere giustificato da una o da altra causa, in specie solvendi o donandi.
Ciò accade nell’ipotesi di pagamento traslativo, che si configura quando il trasferimento di proprietà avviene solvendi causa, cioè in
adempimento di un obbligo preesistente. L’obbligo di dare si risolve nell’obbligo di porre in essere un atto consensuale e non reale, idoneo
a trasferire la proprietà inter partes: ecco perché tale atto è traslativo è concluso solvendi causa del precedente obbligo. Si utilizza
l’espressione pagamento traslativo in riferimento ad un adempimento diretto a trasferire il diritto di proprietà di un bene.

In generale, i contraenti possono scindere la fase obbligatoria da quella traslativa, derogando all’Art. 1376 (contratto con effetti reali),
quando il trasferimento è senza corrispettivo, più precisamente quando è esso stesso corrispettivo di una prestazione già ricevuta: Tizio si
obbliga a trasferire gratuitamente la proprietà di un bene a Caio, il quale aveva acquistato un bene dalla moglie di Tizio pagando un prezzo
più alto del suo valore commerciale. In questi casi vi p scissione tra fase obbligatoria e fase traslativa: dall’atto di trasferimento, infatti,
non si desume la causa in quanto non è interna bensì esterna (causa solvendi). Quindi è necessario che dalla dichiarazione attributiva del
solvens sia desumibile lo scopo per il quale si adempie.

Riguardo l’atto di attribuzione, che essendo solvendi causa è unilaterale e non negoziale, se da un lato si afferma la sua negozialità
dall’altro non si può negare la neutralità causale che lo caratterizza. Così si distingue tra negozi fondamentali e negozi di attribuzione
patrimoniale, perché a seconda della giustificazione causale, interna o esterna, corrisponde un diverso modo di reagire dei vizi e
dell’assenza della causa stessa:
a) nei negozi fondamentali, la conseguenza dell’assenza di causa è la nullità dell’atto, essendo colpita la struttura stessa qualificata dalla
causa;
b) nei negozi di attribuzione patrimoniale, invece, l’atto di per sé non è strutturalmente inidoneo a produrre effetti in quanto la causa
esiste, anche se esterna ad esso; la validità dell’atto è subordinata alla presenza dello scopo, che costituisce il momento soggettivo di
imputazione (expressio causae), il quale è necessario per individuare la giustificazione causale dell’operazione. La mancata
individuazione dello scopo determina la nullità dell’atto, in quanto fondamento giustificativo dell’attribuzione.
Sull’argomento ci sono opinioni discordanti in dottrina, anche se tale conclusione sembra da accogliere in quanto, nel caso delle
prestazioni isolate, ciò che può difettare non è la causa interna del contratto, bensì quella esterna dell’attribuzione patrimoniale, la cui
mancanza costituisce il presupposto per la condictio indebiti.

Talvolta, anche i negozi fondamentali (con causa interna) presentano un collegamento con un rapporto pregresso, ad essi esterno: si tratta
però di un collegamento complesso, nel senso che il rapporto pregresso integra la causa del negozio successivo, che è quindi la risultante
delle due operazioni. Ciò avviene ad esempio nelle ipotesi di negozi estintivi, modificati e risolutivi. L’assenza del rapporto pregresso o la
sua nullità si ripercuoterà di conseguenza sulla validità del negozio successivo, e non determina la ripetibilità della prestazione. In questi
casi, non si è in presenza di negozi di attribuzione meramente esecutivi, quanto piuttosto di ipotesi di collegamento negoziale per volontà
di legge.

I motivi
La causa costituisce lo scopo oggettivo concreto e immediato che le parti perseguono stipulando il contratto; mentre il motivo è costituito
da una rappresentazione soggettiva che induce la parti a concludere il contratto, ossia costituisce uno scopo ulteriore irrilevante.
 Es.: lo scopo immediato del mutuo concesso dal casinò al giocatore che perde, è quello di permettere che questi continui a giocare,
mentre il motivo ulteriore è quello, per il giocatore di recuperare la perdita pregressa, e per il casinò di guadagnare ancora: il contratto
avrà una causa illecita, per contrarietà al buon costume, ma il motivo del gioco è di per sé lecito.

Per la dottrina che identifica la causa con il tipo contrattuale, è facile distinguere la causa dal motivo, in quanto tutto ciò che non rientra
nella funzione economico – sociale del contratto è causalmente irrilevante. Quindi si tratterà solo di verificare se il motivo si sia risolto in
una clausola accessoria del contratto, e come tale rilevante, o se sia rimasto del tutto estraneo allo schema contrattuale, non rilevando ai fini
della nullità del contratto.
Per coloro che, invece, sostengono la tesi della causa in concreto, i motivi possono penetrare all’interno dello schema causale, proprio
perché la causa va dedotta dalla concreta operazione economica realizzata dai privati, e caratterizzata sia da circostanze oggettive che
soggettive. Così, il mutuo al giocatore sarebbe lecito se concesso, anziché dal casinò, da un terzo non giocatore, pur conoscendo questi
quale sarà il suo impiego: infatti l’immoralità deriva dalla posizione soggettiva del mutuante, in quanto interessato alla continuazione del
gioco; quindi l’interesse del casinò, inteso come motivo, rientra nello schema contrattuale qualificando la causa del contratto.
Diverso discorso si pone nel caos di motivo illecito, il quale rileva ai fini della nullità del contratto, anche se non entra a far parte della
struttura negoziale. È però necessario che il motivo illecito sia esclusivo, ossia determinante ai fini della contrattazione, comune alle parti,
nel senso che lo stesso abbia spinto entrambe a contrarre, e infine sia attuale e oggettivamente realizzabile, in quanto l’ordinamento non
colpisce il mero intento, per cui il negozio non sarà nullo in caso di motivo illecito ma non attuale e oggettivamente irrealizzabile. Inoltre,
il motivo illecito è irrilevante ai fini della nullità, quando il contratto sia in contrasto diretto con una norma imperativa e la legge preveda
una sanzione diversa.

Tipologia dei contratti


Nell’ambito del tipo contrattuale, si può fare una classificazione accanto alla distinzione classica tra contratti tipici e atipici.
1) In relazione al modo in cui le prestazioni si intrecciano, si distingue tra:
• contratti a prestazioni corrispettive: il contratto svolge la funzione di scambio, in quanto una prestazione è in funzione
dell’altra, e il vizio o difetto che colpisce una, ricade di conseguenza anche sull’altra; si parla in tal caso di prestazioni
sinallagmatiche, per cui il vizio del sinallagma comporta la rescissione o risoluzione del contratto.
• contratti unilaterali: in cui le prestazioni sono a carico di una sola parte, quindi non sussistendo scambio non si parla di
sinallagma; il contratto unilaterale segue una disciplina speciale non solo riguardo alla conclusione (Art. 1333 c.c.: proposta
irrevocabile una volta giunta a conoscenza del destinatario; conclusione del contratto in mancanza di rifiuto della proposta), ma
anche relativamente ai vizi funzionali, in particolare per la risoluzione per eccessiva onerosità (Art. 1468).

• Lo scambio non sussiste nemmeno nei contratti associativi o di collaborazione, in cui le prestazioni non si incrociano bensì
mirano a perseguire lo stesso scopo comune ai contraenti, come nel caso del contratto con cui si costituisce una società o
associazione.

2) Nell’ambito dei contratti a prestazioni corrispettive, si distingue tra:


• contratti commutativi: sono caratterizzati da un nesso di corrispettività non solo tra le prestazioni, ma anche tra il loro valore
economico, ed hanno la funzione di attuare uno scambio tra prestazioni economicamente equivalenti (entrambe le parti conoscono
l’entità del vantaggio o svantaggio che riceverà dal contratto).
• contratti aleatori: in cui alla prestazione certa di una parte corrisponde la prestazione incerta dell’altra (l’incertezza può riguardare
sia la prestazione sia la parte contraente); le parti quindi non sono in grado di prevedere il vantaggio/svantaggio che deriverà dal
contratto. L’elemento del rischio qualifica la stessa operazione economica sul piano della giustificazione causale. I contratti
possono essere aleatori per loro natura (es: assicurazione) o per volontà delle parti, che possono rendere aleatorio un contratto che
tale non è (es. il caso dell’acquirente che paga un prezzo fisso per la vendita dell’intero futuro raccolto, che potrà essere più o meno
ricco).

3) Sul piano dei vantaggi che si ricavano dalla contrattazione, si distingue tra:
• contratto a titolo oneroso: in cui i vantaggi sono reciproci al pari dei benefici; non sono necessariamente a prestazioni
corrispettive, nel senso che non sempre sussiste un sinallagma (es. il caso del mandato in cui la prestazione del mandatario è
collegata alla fiducia, che è alla base del rapporto, e non al compenso: infatti il mandato può anche essere gratuito).

• contratto a titolo gratuito: in cui il sacrificio è supportato da un solo contraente a vantaggio dell’altro; in realtà, tale contratto
non è privo di utilità per chi sopporta il sacrificio, in quanto è sorretto da un interesse economico che non si esprime né consegue ad
una prestazione dell’altro contraente. Pertanto occorre distinguere tra gratuità (negozio gratuito) e liberalità (donazione).

Il negozio gratuito è sempre caratterizzato e giustificato causalmente da un interesse patrimoniale di chi si obbliga o trasferisce, che sia
giuridicamente rilevante, ossia non rilevi come semplice motivo dell’attribuzione gratuita (es. una società cede un credito ad altra società
appartenente allo stesso gruppo). Il negozio gratuito può essere, come la donazione, ad effetti reali o ad effetti obbligatori. In quest’ultimo
caso, si tratta di promessa unilaterale interessata, che si conclude con un negozio unilaterale rifiutabile (Art. 1333 c.c.); mentre nel caso sia
ad effetti reali, è necessario il contratto ad esempio nel caso in cui l’università conceda gratuitamente alla diocesi un diritto di superficie su
un terreno, vincolando il superficiario a costruire la cappella dell’università.
 La donazione, invece, eccetto quella obnuziale, è sempre un contratto, in cui il donatario accettando espressamente l’attribuzione,
ne condivide il carattere liberale e quindi si sottopone alla disciplina della donazione (es. revoca per indegnità);
 Il negozio gratuito si distingue anche dal rapporto di cortesia, in quanto non è ravvisabile un interesse né patrimoniale né non
patrimoniale giuridicamente rilevante di colui che opera l’attribuzione. Il comportamento di cortesia trova la sua motivazione e
giustificazione in considerazioni di carattere sociale, di per sé irrilevanti.
Non è sempre facile distinguere la gratuità dalla liberalità o dalla cortesia, soprattutto in presenza di un contratto gratuito tipico. Ad
esempio, il comodato può essere:
a) di cortesia, nel caso di prestito di un libro ad un amico;
b) a titolo gratuito, quando si da in godimento un bene per risparmiare i costi di manutenzione, che saranno a carico del comodatario;
c) può configurarsi come una donazione indiretta, se il proprietario di una villa al mare, anziché locarla, la da in comodato per
un’estate al parente.

La qualificazione del negozio come liberalità o gratuità, e la stessa giuridicità del vincolo, risulta da una valutazione dell’interesse sotteso
all’operazione economica, così come emerge dall’entità dell’attribuzione, dalla durata del rapporto, dalla qualità dei soggetti, dalla
prospettiva di subire un depauperamento collegato o meno ad un guadagno o risparmio di spesa, sia pure indiretto.
Il negozio gratuito è a forma libera, salvo quando produce gli effetti previsti all’Art. 1350 c.c., per i quali è prevista la forma scritta, come
nel caso di costituzione di un diritto reale.

4. LA CONCLUSIONE DEL CONTRATTO


L’Art. 1321 c.c. stabilisce che “il contratto è l’accordo tra due o più parti per costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico”.

Parti del contratto: autori del regolamento negoziale ed anche i destinatari delle conseguenze che ne derivano, potendo avere il contratto,
ex Art. 1372, forza di legge tra le parti. Si distingue tra:
a) parte in senso formale: autore dell’atto.
b) parte in senso sostanziale: destinatario degli effetti.

La parte può inoltre essere: monosoggettiva o plurisoggettiva, cioè più soggetti e quindi parte intesa come centro di interessi. La parte
formale deve essere assolutamente formata al momento della conclusione dell’accordo, mentre quella sostanziale può anche essere
determinata in un momento successivo alla conclusione dell’accordo. L’identificazione della parte è necessaria nei contratti intuitu
personae, là dove la persona del contraente rileva sotto il profilo delle qualità personali (es. il contratto di mandato).
 Il nome falso non impedisce la conclusione del contratto, perché le parti sono determinate nella loro identità fisica. L’utilizzo del
nome altrui, senza autorizzazione, produce comunque effetti, ma non nella sfera del soggetto a cui è stato usurpato il nome.

Per accordo si intende il c.d. idem placitum, cioè l’incontro di due atti di volontà, proposta e accettazione. All’accordo si perviene tramite:
trattativa, ovvero senza nessuna discussione, perché il contenuto del contratto è già prefissato, quindi viene meno la libertà indicata
dall’Art. 1322 c.c. La formazione del consenso può essere istantanea o progressiva, a seconda che le parti si impegnino in via preliminare,
prima del raggiungimento di un accordo.

La proposta è la predisposizione di un programma negoziale destinato ad un altro soggetto, l’oblato, il quale può:
a) accettare: conclusione del contratto.
b) rifiutare: la conclusione del contratto è impedita.
c) controproporre: si ha una nuova proposta.
La proposta deve essere completa e contenere tutti gli elementi del contratto che si vuole concludere.

Sul piano soggettivo, poi, dal contesto della dichiarazione deve desumersi l’intenzione di volersi vincolare incondizionatamente a quel dato
assetto di interessi. La forma è per relazionem, ovvero quella del contratto che si andrà a concludere. La posizione del proponente è più
vantaggiosa, potendo revocare la proposta; ovvero, imporre oneri temporali e formali all’oblato, con riguardo all’accettazione.

L’accettazione è l’atto di adesione al programma e deve essere conforme alla proposta , un accettazione non conforme è una nuova
proposta. La proposta e l’accettazione sono, di regola, le dichiarazioni o i comportamenti che permettono alle parti di raggiungere
l’accordo sul contratto. Di regola, i contratti si perfezionano nel momento in cui si forma l’accordo tra le parti (principio consensualistico):
sono dichiarazioni recettizie. Quando la contrattazione avviene tra persone presenti nello stesso luogo, il contratto è concluso nel tempo e
nel luogo in cui la proposta è accettata; quando, invece, le parti non si trovano nello stesso luogo, l’accordo si raggiunge nel momento in
cui la parte che ha fatto la proposta viene a conoscenza dell’accettazione.

In considerazione della difficoltà di provare l’effettiva conoscenza, il legislatore ha previsto una presunzione legale di conoscenza, in base
alla quale, l’accettazione si reputa conosciuta nel momento in cui perviene all’indirizzo del destinatario, a meno che quest’ultimo non
dimostri di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia (superamento della presunzione iuris tantum). Tale
presunzione vige anche per la proposta, per la sua revoca e per ogni altra dichiarazione recettizia.

È previsto un termine di efficacia della proposta, questo viene stabilito dal proponente, oppure è richiesto dalla natura dell’affare o dagli
usi. L’accettazione dovrà essere tempestiva, cioè dovrà pervenire entro tale termine, altrimenti non avrà più effetti giuridici, cioè il
contratto non potrà concludersi, a meno che il proponente non l’accolga lo stesso, dandone immediato avviso alla controparte.
L’accettazione dovrà avere la forma richiesta dal proponente, quindi, non avrà effetto se è in forma diversa; tuttavia il proponente potrebbe
rinunciarvi e accontentarsi dell’adesione manifestata in modo diverso. Ovviamente questa regola non vale se la forma è richiesta ad
substantiam .

Si discute se il silenzio di una parte di fronte ad una proposta abbia valore positivo o negativo. Generalmente il silenzio non ha nessun
valore giuridico. Si ritiene, però, che il silenzio valga come accettazione della proposta, quando sia accompagnato da particolari
circostanze, oggettive e soggettive, che portino ad escludere una volontà diversa dall’accettazione della proposta (c.d. silenzio
circostanziato). La dottrina sostiene che il silenzio esprime una positiva volontà negoziale quando la legge, il contratto o la consuetudine
impone alla parte il dovere di parlare nel caso in cui voglia esprimere una volontà diversa da quella dell’accettazione della proposta.

Proposta e accettazione si caducano nel caso in cui il proponente o l’oblato muoiano o diventino legalmente incapaci prima della
conclusione del contratto, salvo che esse siano state fatte dall’imprenditore nell’esercizio della sua impresa e purché non si tratti di piccoli
imprenditori o che diversamente non risulti dalla natura dell’affare o da altre circostanze; infatti in questi casi la conclusione del contratto è
influenzata dalle qualità personali di questi ultimi, il cui venir meno fa cadere l’interesse alla conclusione del contratto (Art. 1330 c.c.).

Revoca (Art. 1328 c.c.)


Il proponente può modificare la proposta inviata finché questa non arriva a conoscenza dell’oblato e l’oblato può modificare l’accettazione
finché questa non arriva a conoscenza del proponente. Il proponente invia una proposta e fino a quando non ha notizia dell’accettazione
può sempre revocarla, l’accettante può revocare l’accettazione solo fino a quando il proponente non avrà conoscenza dell’accettazione,
poiché solo la conoscenza dell’accettazione da parte del proponente comporta la conclusione del contratto.

È previsto, in ogni caso che, sebbene la revoca della proposta avvenga prima della conclusione del contratto, qualora l’accettante abbia
intrapreso l’esecuzione del contratto prima che la revoca gli venga trasmessa e non ne sia venuto altrimenti a conoscenza (buona fede), il
proponente sarà tenuto a rimborsarlo delle spese e delle perdite subite per l’iniziata esecuzione. Questa è una responsabilità per atto
lecito, visto che il potere di revoca è riconosciuto illimitatamente dalla legge.

La proposta può essere revocata anche senza giusta causa, ma in caso di revoca ingiustificata si avrà responsabilità precontrattuale (Art.
1337) quando l’oblato, pur non avendo ancora intrapreso l’esecuzione del contratto, aveva ragionevolmente fatto affidamento sulla
conclusione dello stesso. Eccezioni alla revocabilità della proposta sono: la proposta irrevocabile, l’opzione, la proposta con obbligazioni
del solo proponente.

Parte della dottrina sostiene che la revoca della proposta non ha carattere recettizio, per cui si applica la regola della spedizione, in base alla
quale si reputa sufficiente che la revoca della proposta venga inviata all’accettante (e non necessariamente ricevuta) prima della
conclusione del contratto. In ogni caso, il proponente ha l’onere di comunicare direttamente la revoca all’oblato, cioè di curare, con
diligenza, la spedizione di una dichiarazione. La diligenza andrà misurata in relazione ai mezzi idonei secondo le consuetudini.
L’accettante a sua volta può revocare l’accettazione finché non si è concluso il contratto, per cui la revoca deve giungere a conoscenza del
proponente prima dell’accettazione (es. dopo che è partita la lettera di accettazione, viene dato immediatamente un contrordine telegrafico).

La revoca della revoca è ammessa nel casi di accettazione, trattandosi di un atto recettizio, nel caso della proposta dipende dalla soluzione
che si sceglie: se la revoca si considera un atto indirizzato non recettizio, essa produce effetti immediati, a prescindere dall’effettiva
recezione, quindi non potrà essere revocata, nel caso contrario sarà possibile.

Proposta irrevocabile (Art. 1239 c.c.)


L’Art. 1329 prevede che se il proponente si è obbligato a mantenere ferma la proposta per un certo tempo, la revoca è senza effetto.
Laddove il proponente dovesse revocare, nonostante l’irrevocabilità, la revoca non ha effetto: il proponente perde il potere di revoca.

In dottrina sono stata elaborate due teorie riguardanti la struttura della proposta irrevocabile:
a) Teoria dualistica o atomistica: secondo tale teoria la figura di cui all’Art. 1329 può essere sezionata, perché fusione di due atti,
proposta semplice (Art. 1326) e dichiarazione di rinuncia al potere di revoca da parte del proponente.
b) Teoria unitaria: un negozio unitario dalle caratteristiche peculiari che lo distinguono dalla proposta semplice, al punto tale che,
mentre la proposta semplice è atto prenegoziale, la proposta irrevocabile sarebbe negozio giuridico unilaterale di per sé capace di
produrre effetti.

Aderire alla prima o alla seconda teoria ha differenza si ha:


1) pretermissione del termine, da un lato;
2) possibilità di stabilire due termini, di efficacia e di irrevocabilità, dall’altro.

Pretermissione del termine: cosa accade se le parti non hanno stabilito un termine?
1) Per la Teoria unitaria, se il proponente non fissa un termine, il negozio unilaterale dovrebbe considerarsi nullo, poiché manca un dei
suoi elementi essenziali, salvo convertirsi in proposta semplice.
2) Per la Teoria dualistica, (della doppia dichiarazione) si ritiene che il termine di irrevocabilità riguarda la dichiarazione di rinunzia al
potere di revoca, quindi se il proponente non fissa il termine la rinunzia è nulla e la proposta potrà essere revocata.

Cosa accede se scade il termine? Ipotizziamo una proposta di vendita della villa a Capri e decido di mantenere ferma la proposta fino al
31/12/2009, l’accettazione arriva il 1/1/2010: il contratto è concluso?
1) Secondo la Teoria unitaria l’unico termine sarà sia termine di efficacia che di irrevocabilità e quindi, scaduto tale termine, la
proposta perderà effetto.
2) Secondo la Teoria dualistica non è detto, poiché sarebbe astrattamente possibile ipotizzare due diversi termini:
– termine di efficacia: termine entro il quale la proposta può essere accettata.
– termine di irrevocabilità: termine entro il quale il proponente si impegna a non revocare.

Può accadere che tali termini non coincidono, ovvero io mi impegno per un certo termine a non revocare la proposta, ferma restando la
possibilità che la proposta resti in vita anche alla scadenza del termine. Tale teoria, essendo basata sulla doppia dichiarazione, fa si che ciò
che riacquisisce il proponente è il potere di revocare la proposta. Ciò che è sottoposto a termine è la possibilità di esercitare tale potere,
cosicché se il proponente non fissa il termine la rinunzia a tale potere è nulla e la proposta non sarà irrevocabile, ma semplice ed il termine
sarà ex Art.1326 2°co. È lo stesso proponente a stabilire se tali due termini coincidono o meno.

Offerta al pubblico
È una proposta contrattuale che si caratterizza per il fatto di essere rivolta ad una generalità di destinatari. Il requisito della pubblicità si
intende soddisfatto da ogni forma che renda l’offerta facilmente conoscibile al pubblico.

Questa non va confusa con la promessa al pubblico, con la quale ha in comune solo l’indeterminatezza del destinatario.
 Offerta: si ha riguardo a comportamenti negoziabili, cioè a prestazioni in senso tecnico; in più il vincolo è successivo ad un atto di
accettazione.
 Promessa: è un negozio unilaterale, quindi l’obbligazione nasce ed è vincolante non appena è portata a conoscenza del pubblico (Art.
1989).

L’offerta deve anche essere distinta dall’invito ad offrire, il quale è contenuto nei prezzari, nei listini ed in generale nei materiali
pubblicitari; questo non è un atto giuridico rilevante, ma solo un atto lecito, nei limiti in cui non divenga un atto di concorrenza sleale o non
violi i diritti della personalità, soprattutto il diritto di immagine o di reputazione. Si tratta di notizie portate all’attenzione del pubblico senza
vincolo per le parti e senza possibilità di un’accettazione. Chi risponde all’invito, non accetta, bensì propone la conclusione di un contratto.

L’offerta, a differenza dell’invito, deve contenere gli elementi necessari per la conclusione del contratto (deve essere completa). È in invito
se prevede il gradimento circa la persona che risponde, come nei contratti intuitu personae (es. il contratto di lavoro).
 Si ritiene che il bando di concorso per l’assunzione di lavoro sia offerta e non promessa, però. Se chi bandisce si riserva
insindacabilmente l’assunzione si ha invito. È invito, secondo un giurista, l’esposizione di merci in vetrina, perché il negoziante è libero
di decidere a chi vendere. In realtà questo è un classico caso di offerta al pubblico.

In caso di offerta al pubblico, qualora sopravvenga un numero esuberante di accettazioni, si applica il criterio temporale. Se c’è
contemporaneamente, in difetto di una riserva in sede di offerta, non è possibile attribuire all’offerente il potere di scelta, quindi, o ci si
orienta verso l’attribuzione pro-quota, in ipotesi di divisibilità (es. titoli di Stato), o si ipotizza la costruzione di un diritto comune.

La stessa forma di pubblicità prevista per l’offerta è richiesta per la sua revoca, la quale, ove è assolto quest’onere di pubblicità, è efficace
anche nei confronti di chi non ne abbia avuto notizia (è una forma per relationem). Secondo una parte della giurisprudenza, la
prenotazione di una stanza d’albergo vale come accettazione di un’offerta al pubblico da parte dell’albergatore che includerebbe il
contratto alberghiero, sottoposto a condizione sospensiva della disponibilità della stanza, con obbligo dell’albergatore (Art. 1358) di
confermare o comunicare l’indisponibilità della stanza, quindi la revoca della prenotazione obbligherebbe il cliente a risarcire il danno se la
stanza non è poi più utilizzata.

In realtà, la prenotazione, se accordata, crea un vincolo unilaterale per l’albergatore, contrattuale (opzione o preliminare unilaterale) o
precontrattuale (proposta irrevocabile) a seconda dei punti di vista. Se il cliente paga la somma al momento della prenotazione questa può
valere come:
• caparra, confirmatoria o penitenziale;
• corrispettivo dell’opzione, eventualmente da imputare a prezzo o come parziale anticipazione del prezzo.

Contratto plurilaterale
Qualora le parti del contratto siano più di due, il contratto si qualifica plurilaterale e si conclude con l’incontro dei consensi di tutte le parti
interessate (Art. 1420). Qualora l’interesse sia riferibile a due sole parti, che prevedano che terzi si aggiungano a uno di essi, non si avrà
questo contratto, perché l’intervento del terzo varrà come cooperazione all’adempimento. Esso si configura quando è ravvisabile una
pluralità di interessi diversi e contrapposti che confluiscono verso il conseguimento di uno scopo comune (es. contratti associativi. Esempio
tipo contratto di costituzione di una società).

Altri ritengono che questo contratto sussiste anche quando non sia ravvisabile uno scopo comune, come nel caso di un contratto di
divisione, al quale non si può applicare l’Art. 1322, o quando è la legge a fissare il numero dei contraenti, come nel caso di cessione del
contratto (Art. 1406).

Il problema è di stabilire quali regole del bilaterale si applicano al plurilaterale. Non si può ritenere che il contratto si perfezioni solo
quando tutte le parti hanno manifestato la loro volontà, perché solo la loro partecipazione è condizionante per la nascita del contratto.
Quando si tratta di contratti in cui non c’è uno scopo comune è indispensabile la partecipazione di tutti gli interessati, i quali devono
manifestare la conforme volontà. Nei contratti con unicità di scopo, invece, è possibile che si pervenga alla conclusione anche se una di
esse resti esclusa, anche avendo partecipato alle trattative.

Bisogna stabilire se l’accettazione di ogni parte deve essere portata a conoscenza delle altre e se chi ha accettato è in qualche modo già
vincolato ed eventualmente entro quali limiti, prima che il contratto si perfezioni con l’accettazione di tutte le altre parti,m la cui
partecipazione è essenziale. La proposta deve essere indirizzata agli interessati con la precisa indicazione di tutti gli oblati e ciascuno di
essi, a loro volta, deve in dirizzare l’accettazione non solo al proponente, ma anche agli altri oblati.
L’unico DUBBIO riguarda la possibilità che l’accettazione non sia notificata personalmente dall’interessato, ma sia portata a conoscenza
degli altri oblati da uno di questi, a cui è stata indirizzata l’accettazione. Secondo la dottrina, in questo caso, il contratto ugualmente si
perfeziona, perché si deve distinguere tra indirizzamento e recezione. Ogni parte si comporterà come mandataria dell’altra nel momento in
cui comunica l’avvenuta accettazione.

L’irrevocabilità dell’accettazione, anche prima della conclusione del contratto, vale anche per la proposta, con la conseguenza che
proponente ed oblato, che hanno accettato, potrebbero revocare solo raggiungendo un accordo tra di loro per poi notificarlo agli altri oblati.
Se, invece, si ritiene che la proposta sia revocabile fino a quando non giunga l’ultima accettazione, la revoca impedirà la conclusione del
contratto, se è fatta da una parte la cui partecipazione era essenziale. Se la proposta è revocata solo nei confronti di un oblato, la cui
partecipazione era essenziale, il contratto non si concluderà, ma se la sua partecipazione non era essenziale, la revoca non impedisca la
conclusione del contratto. Ai sensi dell’Art. 1328, il proponente dovrà indennizzare gli oblati che hanno già iniziato l’esecuzione, per le
spese sostenute e le perdite subite.

Queste regole valgono anche in caso di DICHIARAZIONI PLURISOGGETTIVE, qualora esse provengano dai singoli soggetti che
formano la stessa parte. Per l’accettazione, tutti i soggetti devono esprimere una volontà conforme, perché la partecipazione di ognuno è
essenziale. La revoca opererà solo se tutti i soggetti manifestano una volontà conforme in tal senso.

Il contratto aperto
Se ad un contratto possono aderire altre parti e non sono determinate le modalità dell’adesione, questa deve essere diretta all’organo che è
stato costituito per l’attuazione del contratto o, in mancanza, a tutti i contraenti originari (Art. 1332).
Questi sono i c.d. contratti aperti a cui appartengono i contratti associativi, i quali prevedono, mediante la clausola di adesione, la
successiva adesione di nuove parti. Tale clausola è tipica dei contratti con comunione di scopo, dove le parti del contratto perseguono un
interesse comune. Se la clausola contenuta nel contratto, prevede la possibilità per i contraenti di rifiutare l’adesione, allora quest’ultima è
una proposta, altrimenti si parla di accettazione di un’offerta al pubblico.

Secondo altri, si tratta di un negozio unilaterale, perché la clausola non diviene inefficace in caso di morte o sopravvenuta incapacità di uno
dei contraenti.
La clausola non ha natura recettizia. È sempre possibile revocare l’adesione, nei limiti in cui la revoca pervenga all’organo o all’ultimo dei
contraenti originari, prima dell’adesione stessa.

Conclusione mediante inizio dell’esecuzione


L’Art. 1327 detta una regola che si discosta da quella generale secondo cui il contratto è concluso nel momento in cui, chi ha fatto la
proposta giunge a conoscenza dell’accettazione dell’altra parte; infatti, nel caso in cui ci sia esigenza di prontezza della prestazione, il
destinatario della proposta contrattuale può eseguire la prestazione prima di comunicare la sua accettazione al proponente.
 In tal caso, il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione; da questo momento il proponente non
potrà più revocare la proposta. In ogni caso l’accettante deve dare prontamente avviso all’altra parte dell’iniziata esecuzione, altrimenti
risponderà dei danni arrecati al proponente che aveva confidato nella mancata accettazione.

Poteri diversi riguardano la natura giuridica. Una parte della dottrina ritiene che si tratti di un negozio di attuazione, altra parte osserva
che la mera esecuzione non può da sola integrare gli estremi della fattispecie negoziale, perché essa si inserirebbe nel procedimento di
formazione di un contratto e sottolinea che si è in presenza di un’accettazione per comportamento concludente o tacita e, dunque,
eccezionalmente non recettizia; altra dottrina parla di OPERAZIONE PARTECIPATIVA; infine si, si teorizza l’esistenza di un
comportamento legalmente tipico.
 In ogni caso, vi è concordanza nel ritenere rilevante la volontà di chi esegue, cosicché, costui potrà dimostrare l’assenza
dell’intenzione di concludere il contratto, nel caso di negozio di attuazione; mentre nel caso di accettazione per comportamento
concludente, non si ravvisa nessuna diversità di disciplina, in tema di tutela della volontà, rispetto alla disciplina generale.

L’Art. 1327 è applicabile solo ai contratti che non richiedono la forma scritta ad substantiam e nemmeno nei contratti laddove un’ingerenza
non sia configurabile, es. contratti di non facere.

L’inizio dell’esecuzione deve avere rilevanza esterna, quindi, fino a quando l’esecuzione resta nella sfera di disponibilità dell’oblato, non
si potrà dire che il contratto si è concluso, perché è dubbio se il suo atteggiamento sia destinato a produrre effetti per sé o per il proponente
o per un terzo.

È prevista la possibilità di una protestatio, cioè una dichiarazione con cui l’oblato manifesta di non voler ricollegare a quel dato
comportamento, che si configura oggettivamente come inizio dell’esecuzione, il valore di conclusione del contratto. La tutela del
proponente è prevista dal 2° comma dell’Art. 1327, che prevede l’obbligo di avviso a carico dell’accettante; infatti quest’ultimo dovrà dare
prontamente avviso all’altra parte dell’iniziata esecuzione, altrimenti potrebbe rispondere dei danni arrecati al proponente che aveva
confidato nella mancata accettazione. L’accettante sarà tenuto al risarcimento del danno e non ad un’indennità, perché si tratta di un caso di
responsabilità contrattuale; infatti l’inadempimento concerne un dovere legale, visto che la contrattualità o la legalità dell’obbligazione è
del tutto indifferente. I danni saranno risarcibili in base al c.d. interesse positivo.

Rapporti contrattuali di fatto


I rapporti contrattuali di fatto sono rapporti la cui fonte non è il contratto come scambio di consensi, ma un comportamento di fatto. Con
l’aggettivo “contrattuale” si vuole alludere al fatto che il regolamento di questi rapporti resta (di fonte) contrattuale (e non legale).

La dottrina tedesca ha tipizzato tre possibili circostanze in cui questa vicenda di fatto potrebbe realizzarsi:
1. rapporti derivanti da un contratto sociale. Quindi all’ingerenza nell’altri sfera giuridica fa riscontro la nascita di un vincolo
che va al di la di un semplice dovere neminem ledere, perché si deve collaborare per realizzare le aspettative ingenerate
nella controparte dall’avvenuta ingerenza, con applicazione della disciplina contrattuale.

2. rapporti derivanti dall’INSERZIONE IN UN’ORGANIZZAZIONE COMUNITARIA. Esempio classico della società nulla
(Art. 2332). la nascita del rapporto è giustificata dalla solidarietà che deve unire gli appartenenti ad una stessa famiglia.

3. rapporti derivanti da OBBLIGHI DI PRESTAZIONE, ricollegati all’esistenza di un’offerta, a tutti i cittadini, di servizi di
interesse generale. Es. il trasporto ferroviario.
Si tratta di prestazioni “tipizzate” destinate alla massa, per le quali non c’è bisogno di un preventivo accordo sullo scambio delle
prestazioni, visto che è sufficiente l’offerta della prestazione e l’utilizzazione di essa da parte dell’utente.

Altre fattispecie sono ricondotte a questa tematica:


1. contratto nullo di lavoro: in base all’Art. 2126, la nullità o l’annullamento del contratto produce effetto per il periodo in cui il
rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi da illiceità dell’oggetto o della causa.
2. nullità di una società per azioni: questa non produce effetti con riguardo agli atti compiuti in nome della società dopo l’iscrizione
nel registro delle imprese (Art. 2332). quindi9 i rapporti intercorsi tra la società ed i terzi sono validi ed efficaci, pur se è stata dichiarata
la nullità del contratto di società.
Al di fuori di queste ipotesi, viene in rilievo, non l’atto, ma il rapporto nella sua qualificazione sociale, prima che giuridica.

In varie circostanze l’ordinamento prende in considerazione direttamente il rapporto di una disciplina che può anche essere indipendente
dalla disciplina di un atto correlato, nel senso che può crearsi un rapporto che determina effetti corrispondenti a quelli contrattuali, pur in
assenza di un accordo, con conseguente svalutazione dello strumento contrattuale.

Chi segue la dottrina contrattualistica, avverte che, rispetto alla disciplina generale, ci sono delle eccezioni. Ad es. il requisito della
capacità di agire non è ritenuto indispensabile e quello della volontarietà è sostituito dall’effettiva e consapevole esecuzione. Secondo altri,
in questi comportamenti si ravvisano fatti giuridici rilevanti ai fini della nascita di determinate obbligazioni soggette alla disciplina
contrattuale. Secondo un’altra dottrina, l’accordo è solo l’esito di un dialogo linguistico, quindi di trattative, quindi, nelle vendite ad es. in
esercizi commerciali esso è costituito da una coppia di atti unilaterali distinti e distanti, che non si fondono, ma si trovano nell’identità della
merce, che li combina e ne fa una decisione di scambio. Quindi sarà necessaria solo la capacità naturale.

Contratto con obbligazioni del solo proponente


Anche se implica l’esistenza di due parti e di due distinte manifestazioni di volontà, esso genera l’obbligo della prestazione per una sola
parte, che si trova nella posizione esclusiva di debitore. In tali contratti, l’unilateralità delle attribuzioni fa si che la legge non richieda
l’accettazione espressa del beneficiario, consentendo a quest’ultimo il rifiuto richiesto dalla natura degli affari o dagli usi (Art. 1333).
questa fattispecie si situa a metà strada tra il contratto bilaterale ed il negozio giuridico unilaterale; infatti esso è definito negozio
unilaterale a rilievo bilaterale.

La proposta è irrevocabile, ex lege, non appena perviene a conoscenza dell’oblato, però, differisce dalla disciplina generale perché la legge,
in questo caso, prevede un termine di efficacia della proposta. Il termine è posto dal 2° comma dell’Art. 1333, il quale, trascorso invano,
determina la conclusione del contratto. L’accettazione si identifica qui con un mero comportamento di astensione.
Bisogna distinguere:
1) RINUNZIA: è un negozio unilaterale che produce effetto abdicativo, la rinunzia c.d. traslativa è in realtà un negozio bilaterale di
attribuzione, cioè un contratto. La rinunzia di un diritto reale su cosa altrui non incrementa l’altrui patrimonio, ma solo depaupera quello
del rinunziante.
2) RIFIUTO: non consuma il diritto, che ritorna nel patrimonio del dichiarante o perviene nel patrimonio di un terzo. In ogni caso, deve
distinguersi tra due tipi di rifiuto:
a) impeditivo: il soggetto impedisce un acquisto al proprio patrimonio (es. rinuncia all’eredità);
b) eliminativo: il soggetto rimuove con effetto retroattivo effetti che si sono già prodotti, ma non si sono ancora stabilizzati (es.
rinunzia al legato).
L’effetto tipico del rifiuto è quello eliminativo, che presuppone una situazione già sostantivata, cioè già operante.

Secondo alcuni, il mancato rifiuto è un’accettazione presunta o tacita. Si sarebbe in presenza di un contratto a formazione unilaterale, cioè
frutto della volontà di un solo soggetto, tesi discutibile, perché, in questo modo, si approda al negozio unilaterale. Secondo altra tesi, il
comportamento omissivo non è dichiarazione tacita, ma un comportamento con valore e significato legalmente tipico, cioè è la legge ad
attribuirgli valore di accettazione.

Da queste contrapposte posizioni derivano conseguenze diverse relative al momento in cui si producono gli effetti della c.d. PROPOSTA.
– Nel 1° CASO: si avranno nel momento in cui l’oblato ne viene a conoscenza.
– Nel 2° CASO: dopo che è decorso il tempo utile all’esercizio del potere di rifiuto.

Per quanto riguarda il COMPORTAMENTO OMISSIVO, bisogna fare una distinzione:


a) se viene valutato come un’accettazione, allora saranno applicabili le regole sulla capacità, sui vizi del consenso, sulla rilevanza
dell’intento, con possibile protestatio.
b) se si considera come negozio unilaterale, la non intenzionalità del contegno da parte dell’oblato non si sostanzia in un mancato
rifiuto, ma non vale nemmeno come accettazione, esso non nessun valore, restando irrilevante la volontarietà o meno di tale
situazione che rivelerebbe solo se riferita alla decadenza del potere di rifiuto.

Contratti consensuali e reali


Il contratto è di regola consensuale cioè il mero accordo è atto a produrre gli effetti voluti. Nel nostro ordinamento infatti vige in materia di
trasferimento di diritti reali il principio consensualistico o del consenso traslativo ex Art. 1376 "basta il consenso legittimamente
manifestato" (non può quindi esistere l’obbligo di trasferimento di un diritto perché questo discende immediatamente dal consenso, quindi
la causa dell’effetto obbligatorio e dell’effetto traslativo è la stessa).

Altri ordinamenti invece hanno ripreso la distinzione di tradizione romanistica tra titulus adquirendi (accordo obbligatorio) e modus
adquirendi (successivo negozio di trasferimento).
 Nell’ordinamento tedesco, infatti, al contratto obbligatorio si accompagna in caso di cose mobili, alla consegna, in caso di diritti
immobiliari alla iscrizione nei libri fondiari. Tuttavia Gazzoni sottolinea che nel nostro ordinamento il principio del consenso traslativo
non vige integralmente,soprattutto in materia di acquisto di diritti reali a titolo derivativo per la sua opponibilità a terzi.

I CONTRATTI CONSENSUALI, sono quindi quelli si perfezionano col un semplice consenso, cioè con una manifestazione di volontà
delle parti coinvolte nella stipulazione, la consegna vale solo ad effetti possessori.

I contratti consensuali possono essere:


a) contratti ad effetti reali (o traslativi): Art. 1376 → Producono come effetto il trasferimento della proprietà di un bene determinato o
la costituzione o il trasferimento di un diritto reale su un bene determinato del trasferimento di un altro diritto,ad es. di credito
b) contratti ad effetti obbligatori: (locazione, mandato, comodato,deposito) che creano obbligazioni, cioè pongono a carico delle parti
l’obbligo di eseguire la prestazione

I contratti consensuali si differenziano dai contratti reali, che richiedono per la loro perfezione, non solo il consenso ma anche la traditio
cioè la consegna della cosa che forma oggetto dell’accordo. La consegna non è però effetto obbligatorio del contratto,ma un elemento
strutturale sul piano della formazione e non solo dell’esecuzione del contratto. Essi possono essere sia ad effetti obbligatori (il comodato, il
deposito) sia ad effetti reali (il pegno, il contratto di riporto, il mutuo).
Il senso della consegna in tale fattispecie si ritrova nella particolare rilevanza sul piano sociale della datio con conseguente
spossessamento, nonché nella particolare funzione che ad essa può ricco legarsi es. nel caso di riporto la consegna mira ad evitare possibili
speculazioni in borsa

Contratto a distanza
Molto spesso il procedimento di conclusione del contratto tra un professionista ed un consumatore può iniziare con tecniche di
comunicazione a distanza. Gli Artt. 50 ss. del D.Lgs. 05/206 hanno disciplinato la materia con norma derogabili, attribuendo al
consumatore alcuni diritti, tra i quali:
1) il diritto di ricevere dal fornitore in tempo utile e per iscritto complete informazioni sui termini soggettivi ed oggettivi del contratto
prima della sua conclusione.
2) diritto di recesso con comunicazione scritta entro 10 giorni, variamente decorrenti e salvo talune eccezioni.
3) esecuzione del contratto entro 30 giorni successivi a quello in cui il consumatore ha trasmesso l’ordine al fornitore, salvo
indisponibilità del bene o servizi richiesto, tempestivamente comunicata.
4) divieto di fornitura di beni o servizi al consumatore in mancanza di sua previa ordinazione, qualora la fornitura comporti un
pagamento.

Questa disciplina non si applica ad alcuni contratti quali ad es.:


– quelli relativi a servizi finanziari
– quelli conclusi tramite distributori automatici
– quelli conclusi con operatori delle telecomunicazioni, impiegando telefoni pubblici
– quelli relativi alla costituzione o alla vendita o altri diritti relativi a beni immobili, con esclusione della locazione
– quelli conclusi in occasione di vendita all’asta.

Il consumatore può liberamente recedere, secondo modalità speciali, garanzie, in caso di vendita tramite televisione o altri mezzi
audiovisivi. Per il commercio elettronico, salvo per i contratti conclusi solo mediante lo scambio di messaggi di posta elettronica, il
prestatore del servizio deve fornire alcune informazioni e mettere a disposizione le clausole e le condizioni generali del contratto proposte,
in modo che sia consentita la loro memorizzazione e la riproduzione dal parte del destinatario, il quale inoltra il proprio ordine per via
telematica e il prestatore deve accusarne ricevuta, riepilogando i termini del contratto.

5. LA FORMAZIONE PROGRESSIVA DEL CONSENSO

I contratti a formazione progressiva sono quelli con i quali alla stipulazione si arriva attraverso una serie, spesso complessa, di negoziati. I
negoziati che precedono la stipulazione del contratto prendono il nome di TRATTATIVE. Queste hanno carattere preparatorio e
strumentale e NON SONO vincolanti per le parti, perché acquistano valore solo nel caso si pervenga ad un accordo, mentre perdono ogni
valore nel caso contrario.

La legge impone alle parti l’obbligo giuridico di comportarsi secondo buona fede (Art. 1337), quindi, con correttezza e lealtà. Ipotesi
contrarie alla buona fede sono ad esempio:
– trattative non serie: cioè iniziare a trattare senza avere intenzione di concludere.
– recesso ingiustificato: cioè, costituisce comportamento in violazione del principio di buona fede, quello di interrompere le trattative
senza un giusto motivo.
– conoscenza di cause d’invalidità: cioè, quando una parte, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa d’invalidità del
contratto, non ne ha dato notizia all’altra, che confidava nella sua validità, salvo che costei potesse conoscerla usando l’ordinaria
diligenza.
– reticenza: si può agire contrariamente alla buona fede, anche quando una parte abbia causato ritardo nella conclusione o sia stato
reticente tacendo all’altro informazioni rilevanti ai fini della contrattazione.

La violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede comporta una responsabilità (cioè il dovere di risarcire il danno) che prende il
nome di RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE, secondo cui il danno risarcibile comprende sia il vantaggio che la parte avrebbe
potuto procurarsi con altre contrattazioni, c.d. lucro cessante, sia le spese strettamente connesse con le trattative, c.d. danno emergente.

Per quanto attiene alla natura della responsabilità, si esclude che si tratti di un tertium genus; taluni la ricomprendono in quella
contrattuale, altri in quella extracontrattuale.
– Secondo la 1° TESI, l’obbligo di buona fede violato è lo stesso di quello di cui all’Art. 1375 (esecuzione in buona fede), perché
dall’inizio delle trattative discende la nascita di un contratto sociale.
– Secondo la 2° TESI, invece, che poi è condivisa dall’orientamento prevalente, si tratta di responsabilità extracontrattuale (Art. 2043),
perché trova il suo fondamento nella violazione di un dovere generale di condotta.

Non è facile stabilire quando le trattative possono ritenersi concluse positivamente, perché se l’accordo riguarda l’insieme degli elementi
essenziali, alla stregua del tipo legale, può darsi che sia nato un contratto, ma si dovrà stabilire se sia preliminare o definitivo.
Quindi si devono distinguere due ipotesi:
1) Le parti hanno raggiunto l’accordo sugli elementi essenziali del contratto ed inoltre hanno ritenuto esaurite le trattative, quindi
concluso il contratto, senza regolare alcuni punti non essenziali. In questo caso interverranno le c.d. FONTI ETERONOME, cioè
disposizioni suppletive, in mancanza di espressa previsione delle parti.
2) Le parti si sono riservate di decidere su quei punti non essenziali in un altro momento. In questo caso il contratto non può dirsi
concluso, nemmeno considerandolo sottoposto a condizione sospensiva.
Questa riserva di ulteriori trattative determina l’essenzialità in concreto di quelle pattuizioni. Del resto, la distinzione tra clausole
essenziali in astratto o in concreto, è tracciata dall’Art. 1419, in tema di clausole che condizionano o meno la conclusione del contratto.

CONTRATTO PRELIMINARE
Il CONTRATTO PRELIMINARE è il contratto con cui le parti si obbligano a stipulare un successivo contratto definitivo (Art. 1351).
Nel preliminare deve essere determinato il contenuto essenziale del contratto definitivo e le eventuali aggiunte devono essere consensuali.
Esso è un contratto con effetti obbligatori, perché non trasferisce la proprietà o un altro diritto reale, ma produce, a carico delle parti,
l’obbligo di concludere il contratto definitivo.

L’Art. 1351 c.c. prevede che il preliminare deve avere gli stessi requisiti di forma richiesti per il contratto definitivo, ovviamente
quest’obbligo attiene solo alla forma ad substantiam e non a quella ad probationem.
 Se si sottolinea che il preliminare produce solo effetti obbligatori, il negozio che li risolve o il recesso avrà sempre forma libera, anche
se questo pretendesse la forma scritta.
 Al contrario, se si sottolinea l’incidenza che il preliminare ha sugli effetti finali, allora la forma scritta sarà necessaria ove questo la
pretenda.

Il preliminare è ammesso per qualsiasi tipo di contratto, fatta eccezione per la donazione, perché l’assunzione di un vincolo preliminare
sarebbe in contrasto con la necessaria spontaneità che caratterizza l’atto di liberalità.

Se uno dei due contraenti non adempie al preliminare, all’altra parte è concessa la facoltà di ottenere, qualora sia possibile, una sentenza
costitutiva che realizzi gli effetti che avrebbe dovuto produrre il contratto. Si tratta di una sentenza che sostituisce il consenso della parte
inadempiente.

L’affermazione qualora sia possibile, è da ricondurre soprattutto a due casi:


1. inutilità: l’Art. 2932 non è sempre utilmente applicabile, infatti, per i contratti con prestazioni di fare non ha molto senso sostituire
all’obbligo preliminare quello definitivo, che resterebbe comunque inadempiuto.
2. impossibilità: ad es. Nei contratti reali non può concepirsi una consegna coattiva, perché in questi contratti la consegna è un
coelemento della conclusione. La sentenza, quindi, non sarebbe sufficiente; inoltre non potrebbe, ad es., essere pronunciata in presenza
di un preliminare di vendita di un immobile abusivo o insuscettibile di trasferimento inter vivos.

In questi casi sembra, dunque, preferibile, più che richiedere la pronuncia di una sentenza costitutiva, chiedere la risoluzione del contratto
preliminare per inadempimento, con la condanna dell’inadempiente al risarcimento del danno.
Precedentemente si sosteneva che la sentenza non potesse modificare il preliminare, recentemente c’è stata un’inversione
dell’orientamento. Si ritiene ad es. che il preliminare di vendita con riserva di usufrutto se, nelle more della stipula del definitivo, il
promittente venditore muore, il promittente acquirente, se gli eredi si rifiutino di concludere il definitivo, può ottenere una sentenza
costitutiva variante, rispetto al preliminare, che comporti la riunione dell’usufrutto e della nuda proprietà.
 La morte, però, deve intervenire DOPO LA SCADENZA del termine, perché solo così potrà operare la perpetuatio obligationis che
giustifica la fictio della riunione. Se la morte interviene PRIMA, la soluzione sarà quella della risoluzione per impossibilità
sopravvenuta.

Nel caso in cui ci siano vizi o difformità della cosa o di oneri, il promittente acquirente può ottenere una sentenza che diminuisca il prezzo
pattuito nel preliminare o che condanni il promittente alienante ad eliminare i vizi o le difformità . Il regime dei vizi del preliminare è
quello ordinario, ma possono sorgere dei problemi nei rapporti con il contratto definitivo. Si deve ritenere che il preliminare può fornire
elementi, non solo per identificare la natura e l’oggetto del contratto definitivo, ma anche per la ricerca del contenuto dei singoli patti e
quindi per l’interpretazione dell’intero assetto di interessi emergente dal contratto definitivo.

Rapporti tra preliminare e definitivo


Il problema che sorge è quello di stabilire cosa accade se, l’eventuale invalidità del preliminare, possa considerarsi superata nel caso in cui
il contratto definitivo nasca, di per sé, validamente.
Gazzoni propone due teorie:
1) Il contratto definitivo ha CAUSA INTERNA, quindi la sua giustificazione causale va ravvisata avendo riguardo della produzione dei
suoi effetti tipici. Di conseguenza, i vizi del preliminare saranno irrilevanti per il definitivo, qualora questo sia validamente concluso.
2) Il definitivo trova la sua giustificazione causale nell’adempimento dell’obbligo di contrarre sorto con il preliminare, quindi ha
CAUSA ESTERNA. Di conseguenza, se il preliminare è invalido, viene meno la giustificazione esterna dello spossessamento
patrimoniale, la quale legittimerà la ripetizione di quanto prestato, perché oggettivamente indebito.

Es.: preliminare di vendita. la causa della vendita sarebbe già nel contratto preliminare. Il definitivo è, quindi, un atto solutorio sorto dal
preliminare. Questo si ricollega al pagamento traslativo, che si ha quando la proprietà di un bene viene trasferita a titolo solutorio, cioè in
adempimento di un obbligo preesistente. Il trasferimento della proprietà è quindi un atto di adempimento.
Nel caso di contratto definitivo, il trasferimento della proprietà sarebbe posto in essere non venditoris causa, ma solutionis causa, cioè a
titolo solutorio.
Il collegamento tra pagamento traslativo ed i negozi che generano l’obbligazione, è dato dall’expressio causae. La causa del contratto
definitivo non è una compravendita, ma la causa solutoria, poiché, con il definitivo, viene trasferita la proprietà del bene a titolo di
adempimento di un obbligo che sorge con il preliminare.
 Ciò crea un legame tra preliminare e definitivo, in quanto entrambi realizzano un’operazione economica unitaria, con la conseguenza
che, aderendo a questa teoria, i vizi, che eventualmente inficiano il preliminare, si riverseranno sul definitivo.

Bisogna però fare alcune considerazioni.


Ipotesi: se il preliminare di vendita immobiliare è nullo perché orale, ma le parti concludono il definitivo con atto scritto, dobbiamo
distinguere:
– se le parti sapevano della nullità, quindi sapevano di non essere obbligate a contrarre, e concludono lo stesso il definitivo,
quest’ultimo sarà comunque valido, perché è come se le parti abbiano voluto recidere il rapporto tra preliminare e definitivo.
– se le parti ignorano la nullità, e concludono il definitivo:
a) per la teoria della causa interna, il definitivo sarà valido ed efficace, al massimo annullabile per errore sull’esistenza dell’obbligo
di concludere.
b) per la teoria della causa esterna, in difetto di causa solvendi, per insussistenza dell’obbligo di contrarre, il definitivo sarà nullo e
legittimerà l’azione di ripetizione.
Ipotesi: il preliminare era annullabile per errore, l’errante lo scopre e conclude lo stesso il definitivo:
a) per la teoria della causa interna, il definitivo non nasce viziato, perché l’errore è stato scoperto.
b) per la teoria della causa esterna, la conclusione del definitivo, essendo atto di esecuzione dell’obbligo di contrarre, vale come
convalida del preliminare, perché si era a conoscenza del motivo di annullabilità.

Ipotesi: il preliminare è stato concluso in stato di bisogno o di pericolo:


Secondo l’Art.1449, l’azione di rescissione si prescrive decorso un anno dalla conclusione del contratto. Il problema è quello di stabilire da
quando decorre l’anno.
a) Per la teoria della causa interna, lo stato di pericolo e di bisogno si concretizza al momento della stipula del definitivo; quindi,
qualora tra preliminare e definitivo intercorra più di un anno, si porrebbe nel nulla il termine annuale di prescrizione, perché l’azione,ove
prescritta per il preliminare, sarà riproponibile entro un ulteriore anno dal definitivo.
b) Per la teoria della causa esterna, (Gazzoni), i presupposti vanno guardati con riferimento al momento in cui è stato stipulato il
preliminare, quindi è da tale termine che inizia a decorrere il termine di prescrizione.

Per la revoca?
a) Se si aderisce alla teoria della causa interna, sarà revocato solo il definitivo.
b) Se si aderisca alla teoria della esterna, verranno revocati insieme, a condizione che, se il preliminare è un atto di adempimento, deve
essere fraudolento.

Vizi della sentenza


Dobbiamo distinguere la sentenza-atto dal rapporto giuridico che ne deriva. La prima si può impugnare con i rimedi giurisdizionali e
non con quelli negoziali. Contro gli squilibri del rapporto si utilizza la risoluzione per inadempimento, per eccessiva onerosità ed
impossibilità sopravvenuta.
 In caso di fraudolenza, i creditori potrebbero agire ex Art. 2901 (azione revocatoria), esistendo contro la sentenza il rimedio
dell’opposizione di terzo revocatoria.

L’eventuale invalidità o rescindibilità del preliminare dovrebbe essere eccepita in giudizio. In difetto, la questione sarebbe coperta dal
giudizio pur se l’errore o il dolo fossero scoperti solo dopo che l’eccezione è preclusa.

Vi sono differenti tipi di preliminare:


a) unilaterale: è quel preliminare che comporta l’obbligo di addivenire alla stipula di un contratto definitivo per una sola delle parti;
b) bilaterale;
c) ad effetti anticipati: le parti, non solo determinano l’obbligo del definitivo, ma iniziano ad anticiparne gli effetti. Nel senso che ad es.
l’acquirente paga una parte del prezzo e l’alienante ad es. per qualche periodo da le chiavi di casa per esempio per prendere le misure.

Preliminare di vendita di cose altrui


Si ha quando il promittente venditore stipula un preliminare di vendita avente ad oggetto un bene altrui. Tale preliminare determina, in
capo al promittente, un obbligo di dare, ovvero quello di procurare al promittente acquirente l’acquisto della proprietà della cosa:
1) sia acquistando a sua volta, previamente, il bene dal terzo proprietario per poi rivenderlo alla controparte;
2) sia inducendo il proprietario a dare il proprio consenso alla vendita in sede di stipula del definitivo;
3) sia inducendo il proprietario a vendere direttamente al promittente acquirente, così che non si procederà alla stipula.

Nella 3° ipotesi, il promittente alienante risponde per l’evizione, per i vizi e gli oneri che dovessero gravare sul bene, perché il promittente
acquirente non può rifiutarsi di acquistare direttamente dal terzo.

Viceversa, se l’acquirente ignorava l’altruità e ne viene a conoscenza nelle more della stipula del definitivo, potrebbe anche chiedere la
risoluzione del preliminare, ma se accetta di contrarre con il proprietario, lo fa liberamente, quindi, salvo espressa riserva all’atto di
acquisto, non potrà agire contro il promittente alienante.

Questo tipo di preliminare non genera l’obbligo di prestare il consenso, bensì genera l’obbligo di dare, con scissione del titulus
(preliminare) dal modus acquirendi (definitivo).
 Secondo Gazzoni, il preliminare di vendita di cosa altrui è una vendita obbligatoria, in cui l’obbligo è quello di far acquistare al
promittente acquirente la proprietà. La stipula del definitivo costituisce solo adempimento delle obbligazioni assunte con il preliminare,
con la conseguenza che esso, e non il definitivo, è l’unica fonte degli obblighi e dei diritti tra le parti.

Trascrizione del preliminare


In passato il problema della TRASCRIZIONE era fortemente sentito, perché non veniva tutelato a sufficienza chi stipulava un
preliminare, es. se Tizio stipulava un preliminare e nel frattempo veniva realizzato un atto pubblico trascritto, la proprietà era trasferita. Per
ovviare a tutto questo, nella pratica era invalsa l’usanza di trascrivere immediatamente la domanda giudiziale ex Art. 2932, a prescindere
dall’esistenza effettiva di un inadempimento. Questo garantiva un effetto prenotativo, per cui, laddove vi fosse stato inadempimento, si
otteneva una sentenza i cui effetti retroagivano fino al momento della trascrizione della domanda giudiziale; quindi, eventuali trascrizioni
successive alla trascrizione della domanda giudiziale non avrebbero avuto effetto di inopponibilità.

Attualmente i preliminari di contratti risultanti da atto pubblico o scrittura privata autenticata o accertata giudizialmente, anche se
condizionati o aventi ad oggetto fabbricati da costruire o in costruzione, possono essere trascritti. L’efficacia della trascrizione è, però,
limitata nel tempo → fino ad un anno dalla data convenuta per la conclusione del definitivo o comunque non oltre 3 anni.
Se in uno di questi termini interviene la trascrizione del definitivo o di un altro contratto ad effetti reali, questa prevale sulle trascrizioni o
iscrizioni curate contro il promittente alienante dopo che il preliminare è stato trascritto.

Secondo l’opinione dominate, la trascrizione avrebbe funzione di prenotazione, quindi, l’opponibilità deriverebbe dalla successiva
trascrizione del definitivo, atto esecutivo o domanda giudiziale seguita da sentenza ex Art.2932, i cui effetti retroagirebbero alla data della
trascrizione del preliminare.
In caso di mancata esecuzione del preliminare, la relativa trascrizione attribuisce il privilegio sull’immobile per i crediti del promittente
acquirente, purché non sia scaduto il termine di opponibilità.

Ipotesi particolare di trascrizione del preliminare in caso di edifici da costruire → il D.Lgs. 05/122 prevede che:
1) il contratto preliminare deve avere il contenuto tipizzato dalla legge.
2) a pena di nullità, che può essere fatta valere solo dall’acquirente, il costruttore è obbligato a consegnargli fideiussione
bancaria o assicurativa.
3) la fideiussione può essere escussa, a richiesta scritta, se, prima della conclusione del definitivo, sia iniziata, contro il
costruttore, una procedura esecutiva individuale, con pignoramento dell’immobile oggetto del contratto, o concorsuale. L’acquirente
sarà soddisfatto, salvo l’indennizzo del fondo della società.
4) in caso di pignoramento, ove il preliminare abbia avuto esecuzione anticipata e l’immobile consegnato sia stato destinato
ad abitazione per sé o un proprio parente, all’acquirente pur se abbia escusso la fideiussione è riconosciuto il diritto di prelazione
nell’acquisto dell’immobile, al prezzo d’incanto. Se il prezzo è inferiore, la differenza dovrà essere restituita al fideiussore.
5) il costruttore, al momento della conclusione del definitivo, deve consegnare all’acquirente la polizza assicurativa
indennitaria decennale.
6) non può essere soggetto a revocatoria fallimentare il contratto posto in essere al giusto prezzo, da valutarsi alla data della
stipula del preliminare.
L’OPZIONE

L’Art. 1331 c.c. stabilisce che “quando le parti convengono che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l’altra abbia
facoltà di accettarle o meno, la dichiarazione della prima si considera quale proposta irrevocabile per gli effetti previsti dall’Art. 1329”.
 Se per l’accettazione non è stato fissato un termine, questo può essere stabilito dal giudice; pertanto, quando le parti convengono che
una di loro (CONCEDENTE) rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l’altra (OPZIONARIO) abbia la facoltà di accettarla o
meno, la dichiarazione della prima si considera quale proposta irrevocabile.

L’opzione determina la nascita, in capo all’opzionario, di un diritto che, se esercitato, determina l’immediata conclusione del contratto.
Tale diritto è potestativo, in quanto prevede l’assoggettazione del concedente, dovendo egli subire la conclusione del contratto.
È necessario che venga fissato un termine di efficacia, alla scadenza del quale, l’opzione decade.

Differenza tra opzione e proposta irrevocabile


1) ART. 1331: OPZIONE → si ha quando contrattualmente due soggetti stabiliscono che una di queste (concedente) mantenga ferma la
sua proposta relativamente ad un contratto e l’altra parte (opzionario) ha diritto di pensarci, per cui, laddove l’opzionario decida di
esercitare l’opzione e concludere il contratto, questo sarà concluso e il concedente subirà la conclusione.
2) ART. 1329: PROPOSTA IRREVOCABILE → si ha quando il proponente si è obbligato a mantenere ferma la proposta per un certo
tempo.

Le differenze si riscontrano nella STRUTTURA:


a) L’opzione ha una struttura bilaterale, è frutto dell’accordo delle parti. La proposta irrevocabile non è un contratto, ma il segmento di
un contratto. La proposta non è un negozio giuridico unilaterale, ma è un atto prenegoziale.
b) L’opzione può essere onerosa, con pagamento da parte dell’opzionario al concedente, di una somma (premio), quale corrispettivo per
la concessione del diritto e conseguente soggezione. La proposta irrevocabile per la sua unilateralità è gratuita.
c) L’opzionario può dichiarare di non voler esercitare il diritto e poi farlo, purché il termine non sia scaduto o vi sia stato accordo tra le
parti di estinguere l’opzione. In caso di proposta irrevocabile al rifiuto consegue la revocabilità della proposta o, per la tesi del negozio
unilaterale, la sua caducazione.

L’opzione può essere gratuita, cioè senza corrispettivo, ma ugualmente non si avrà proposta irrevocabile, perché resta comunque un
contratto con prestazioni corrispettive. La corrispettività c’è tra il mantenimento della proposta ed il pagamento del corrispettivo.

Ulteriori differenze vi sono con riguardo agli EFFETTI:


a) Nella proposta irrevocabile vi sarebbe solo un diritto soggettivo di accettare da parte dell’oblato.
b) Nell’opzione le situazioni soggettive sarebbero quelle del diritto potestativo e della soggezione. In tal caso la situazione è più forte, in
quanto l’opzionario sarebbe titolare di un diritto potestativo e quindi, il concedente è portatore di una situazione giuridica passiva molto
afflittiva, cioè la SOGGEZIONE che consiste nel dover accettare che nella propria sfera giuridica altri compiano modificazioni
attraverso l’esercizio del diritto.

Quindi:
1. proposta irrevocabile → diritto soggettivo → obbligo.
2. opzione → diritto potestativo → soggezione.

Differenza tra opzione e contratto preliminare


1) Per l’OPZIONE, l’accettazione determina la conclusione del contratto, senza collaborazione del concedente.
2) Per il PRELIMINARE, per determinare l’effetto finale, le parti devono incontrarsi nuovamente e concludere un altro contratto. La
parte può rendersi inadempiente e quindi vi sarà una sentenza ex Art. 2932 che prevede l’esecuzione forzata in forma specifica.

È più difficile distinguere l’opzione dal preliminare unilaterale, in quanto entrambe le figure prevedono il vincolo per una sola parte. La
differenza attiene alle modalità di conclusione dell’effetto finale; poiché, nel caso in cui ho concluso un opzione di vendita, l’accettazione
dell’opzionario conclude il contratto e quindi comporta il trasferimento della proprietà, nel caso in cui, invece, sia stato stipulato un
contratto preliminare unilaterale, cioè un contratto nel quale uno solo dei soggetti si obbliga a concludere, l’accettazione della controparte
(libera di accettare o meno) non determina la conclusione del contratto e quindi il trasferimento della proprietà; infatti, bisognerà comunque
concludere il definitivo.

La differenza, quindi, sta nelle modalità di formazione.


– L’OPZIONE conclude il contratto
– Nel caso di PRELIMINARE UNILATERALE, se l’altra parte non è obbligata a decidere di concludere, il contratto non è già
concluso, per cui le parti dovranno rincontrarsi.

Tutto ciò vale quando si raffronta il preliminare unilaterale con l’opzione di definitivo.
Si discute se sia ammissibile un contratto preliminare di opzione o un’opzione di preliminare.
IDEA D’ORIGINE → è ammissibile un preliminare di opzione, mentre non è ammissibile un opzione di preliminare in quanto:
a) nel preliminare di opzione si passa da un preliminare ad un contratto di opzione; quindi, si passa da un vincolo più labile ad uno più
forte, quale l’opzione. Infatti, l’opzione è già un segmento di un contratto definitivo (anche se però bisogna considerare che attualmente
il preliminare si trascrive).
b) l’opzione di preliminare non sarebbe ammissibile perché non rappresenta una progressione nella formazione del consenso, bensì una
regressione che allontana dagli effetti definitivi.
Gazzoni ritiene che bisogna effettuare una distinzione, in quanto, se è vero che l’opzione di preliminare unilaterale rappresenta una
regressione, sarebbe ammissibile un’ipotesi di opzione di preliminare bilaterale, perché, nel passaggio da un opzione ad un contratto
preliminare bilaterale, è vero che passiamo da una fonte più forte ad una più debole, però, si avrà un vincolo che riguarda entrambi i
soggetti.

Rimedi riconosciuti all’opzionario


Se il concedente aliena il bene a terzi, l’opzionario, esercitato il suo diritto, potrà agire solo per il risarcimento del danno. In caso di
alienazione a terzi, il concedente risponde ex Art. 1337 nei confronti dell’opzionario soccombente. La responsabilità non è contrattuale,
perché, a differenza del preliminare bilaterale, dove è applicabile l’Art. 1218 (responsabilità del debitore al risarcimento del danno), il
contratto è solo eventuale.
L’opzionario è libero di esercitare o meno il diritto di opzione, ma se il suo comportamento ingenera nel concedente l’affidamento
incolpevole sull’esercizio e poi non lo esercita, risponderà per culpa in contraendo.

LA PRELAZIONE
La PRELAZIONE è il diritto di essere preferiti, a parità di condizioni, nella stipulazione di un contratto. Si ha quando un soggetto
(PROMITTENTE o concedente) promette ad un altro (PRELAZIONARIO) di preferirlo, QUANDO e SE deciderà di stipulare il
contratto.
Il concedente non è, quindi, obbligato a concludere il contratto, come invece accade nel preliminare e in parte nell’opzione.
 Es. prelazione di vendita: il venditore non è obbligato a vendere, ma se vende dovrà preferire il prelazionario a parità di condizioni.

La libertà di contrarre caratterizza la posizione, non solo del prelazionario, ma anche del promittente; il vincolo attiene solo alla scelta del
contraente a parità di condizioni. Dunque, in ogni caso, è garantita la libertà in ordine all’an e al quo modo del contratto, perché nel patto
di prelazione non viene fissato il contenuto del futuro (eventuale) contratto; infatti concedente è libero di trattare come meglio crederà.
L’assoluta libertà di cui gode chi concede la prelazione, induce a ritenere possibile qualsivoglia comportamento da cui derivi l’impossibilità
di addivenire alla conclusione del contratto, come la trasformazione o la distruzione del bene. Così, ad esempio, l’appartamento oggetto
della vendita, potrebbe essere diviso in due o il suolo edificatorio edificato, con conseguente libera vendita a terzi degli appartamenti.

Dal patto di prelazione non nasce, dunque, per il promittente un obbligo a contrarre, ma nascono due obblighi diversi:
1. di carattere positivo (facere), di rendere nota al prelazionario l’intenzione di concludere il contratto a certe condizioni, c.d.
DENUNTIATIO.
2. di carattere negativo (non facere), di non stipulare il contratto stesso con terzi, prima o in pendenza della denuntiatio.

Secondo altra, meno attendibile, impostazione, il patto di prelazione, ad esempio di vendita, sarebbe un contratto preliminare unilaterale
con contenuto coincidente con le condizioni di acquisto offerte in futuro da un terzo, purché il promittente decida di vendere e quindi
condizionatamente a tale volontà (si volam).

Pertanto:
Nella PRELAZIONE, devo scegliere, se vendo devo vendere a te.
Nel PRELIMINARE sono obbligato a vendere a te.

Il nostro ordinamento distingue tra:


a) prelazione legale
b) prelazione volontaria o patto di prelazione

La differenza sta nella:


1) fonte: La prima è imposta dalla legge, la seconda è una libera scelta dei contraenti.
2) tutela: (cosa accade se il concedente non rispetta la prelazione?)se è volontaria, il prelazionario non potrà far altro che richiedere il
risarcimento ex Art. 1453 per inadempimento contrattuale. Se è legale, il prelazionario gode di una tutela reale, quindi, potrà inseguire il
bene anche nei confronti del terzo acquirente e godrà del diritto potestativo di riscatto.
 Esempio: qualora uno dei coeredi vende una quota ereditaria ad un terzo, senza prima averla offerta agli altri coeredi, questi
ultimi potranno rimborsare il terzo della somma che ha speso per riprendersi la quota. In questo caso si avrà una tutela molto forte.
3) effetti: nella volontaria sono obbligatori, nella legale sono reali. Ad esempio, sui beni di interesse storico – artistico vi è una
prelazione legale dello Stato.
Disciplina
Il concedente, quando decide di concludere il contratto, dovrà notificarlo al prelazionario informandolo sul contenuto dell’accordo
eventualmente raggiunto con il terzo. Qualora il prelazionario possa offrire la stessa condizione del terzo, il concedente dovrà concludere
con il prelazionario.
La DENUNTIATIO è quell’atto con il quale il concedente mette a conoscenza il prelazionario della propria volontà di contrarre. Si
discute sulla natura giuridica della denuntiatio.
 Secondo alcuni bisogna ricostruire la prelazione con un ipotesi di un vero e proprio preliminare unilaterale sottoposto a condizione
sospensiva potestativa si volam (se vorrà). Si conclude un atto e si accetta un avvera mento della condizione. Tale teoria non ha avuto
seguito. La condizione si volam è più che potestativa, infatti è una condizione meramente potestativa ed opera, quindi, differentemente
dal preliminare.

 Secondo altri è una PROPOSTA CONTRATTUALE, per cui l’accettazione del prelazionario determinerebbe la conclusione del
contratto. La denuntiatio dovrà quindi avere la forma del contratto che andiamo a stipulare (forma per relationem). Denuntiatio di
compravendita → forma scritta.
 Secondo altri ancora, è un MERO ATTO INVESTIGATIVO, cioè un atto volto a sondare, un atto di interpello. Il concedente deve,
quindi, solo sapere le ragioni del prelazionario. Se il prelazionario vuole concludere, non per questo il contratto è già concluso.
La volontà del prelazionario non sarà accettazione, ma proposta, per cui, per la conclusione, è necessaria l’accettazione del
concedente. Non vi sono requisiti di forma.
(Quest’ultima è la teoria dominate.)

Termine di efficacia
Il rifiuto di contrarre da parte del prelazionario non consuma il diritto di essere preferito ove alla denuntiatio non segua la vendita al terzo,
ovvero se essa segua a tale distanza di tempo che le condizioni di vendita risultino sostanzialmente modificate.
 L’estinzione del diritto, invece, consegue alla scadenza del termine fissato convenzionalmente dalle parti nel patto di prelazione,
dovendosi quindi distinguere tra il termine di efficacia del patto e termine per l’adesione alla denuntiatio.

La differenza tra i due termini sta nel fatto che, se il termine per la risposta del prelazionario non è stato fissato dal promittente, esso sarà
fissato avendo riguardo alla natura dell’affare o agli usi; al contrario il termine di efficacia può essere omesso, senza necessità di interventi
giudiziali, dal momento che con il patto di prelazione non si limita, ma semplicemente si disciplina la libera disposizione del diritto, quindi
non si viola la regola posta dall’Art. 1379. Il promittente, infatti, resta libero di disporre e di fissare le condizioni dell’alienazione, con
l’unico limite della scelta non libera della persona del contraente, che si verifica, però, solo se vi è parità di condizioni.

Differenza tra opzione e prelazione


L’opzione si distingue dal patto di prelazione, che è un contratto dal quale deriva solo l’obbligo a carico di un soggetto (promittente) di
dare precedenza ad un soggetto (prelazionario), a parità di condizioni, nell’eventualità che intenda stipulare un contratto.

CONTRATTO NORMATIVO

Il CONTRATTO NORMATIVO si ha quando due soggetti raggiungono un accordo nel senso di fissare il contenuto dei futuri contratti
che essi saranno poi liberi di concludere tra loro. L’accordo può riguardare:
– singole clausole;
– l’intero contratto, es. contratto-tipo, quando tra le parti si instaurano rapporti contrattuali sempre identici (es. impresa e fornitori
abituali).

Qualora una delle parti non rispetti l’accordo, non si potrà agire ex Art. 2932, ma solo per il risarcimento del danno precontrattuale.
L’accordo, infatti, è un pactum de modo contrahendi, e non un pactum de contraendo. L’accordo normativo fa, dunque, venir meno, non
la libertà di contrarre, ma in tutto o in parte, le trattative per i successivi contratti.

Le imposizioni legislative
In talune ipotesi è previsto dalla legge l’obbligo a contrarre, ad esempio in materia di monopolio legale. Il monopolista legale deve
osservare la parità di trattamento, contraendo alle stesse condizioni nell’ambito della stessa categoria. In caso di rifiuto a contrarre, il
richiedente ha come rimedio il risarcimento del danno; inoltre, in caso di situazioni abnormi, la P.A. potrebbe revocare la concessione
all’imprenditore inadempiente.
Secondo la giurisprudenza, l’ENEL potrebbe rifiutarsi di contrarre nel caso in cui i costi da sopportare nel singolo caso siano eccessivi,
dovendo tale ente operare secondo criteri di economicità. Il rifiuto potrebbe anche conseguire al fatto che l’utente occupa abusivamente
l’immobile sul quale l’ENEL è chiamato ad operare.
 In caso di inadempimento da parte dell’utente, per esempio mancato pagamento del canone o manomissione del contatore, l’ENEL
non può chiedere la risoluzione del contratto, perché successivamente potrebbe essere obbligato a contrarre di nuovo, ma può
sospendere l’erogazione dell’energia avvalendosi dell’Art. 1460 (eccezione di inadempimento), fermo restando la richiesta di
risarcimento del danno.
6. IL REGOLAMENTO CONTRATTUALE
La dottrina ha elaborato la più ampia nozione di CONTENUTO CONTRATTUALE, che assorbe in sé quella di oggetto. L’Art. 1346
stabilisce che l’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile.
a) POSSIBILITA’: l’impossibilità può essere:
1. fisica: va valutata sul piano materiale.
2. giuridica: dipende da una valutazione normativa (non conseguente alla violazione di divieti posti dall’ordinamento giuridico o dai
principi del buon costume, ricadendo nell’illiceità). E’ così quando il bene non è suscettibile di essere dedotto in contratto o
quando l’oggetto è inidoneo a realizzare lo scopo perseguito.
La possibilità dell’oggetto va riferita al momento della produzione degli effetti.

b) LICEITA’: l’illiceità dell’oggetto va valutata al momento in cui il contratto è stipulato.

c) DETERMINATEZZA: si ha determinatezza anche quando esso non sia indicato con assoluta precisione, purché sia chiara
la volontà delle parti. Si ha determinabilità quando l’oggetto è individuabile in base a criteri oggettivi (es. calcoli
matematici) o comunque quando le parti abbiano previsto il procedimento mediante il quale pervenire alla determinazione.
Le parti possono stabilire in un contratto che uno degli elementi debba essere determinato d’accordo fra loro in un momento successivo,
purché dal contratto emergano i criteri per la determinazione. L’oggetto si ritiene, inoltre, determinato anche nel caso in cui le parti lo
abbiano indicato per relationem, abbiano cioè operato il rinvio ad una fonte esterna, es. altri contratti tra le parti, listini ufficiali etc.
L’Art. 1348 stabilisce che la prestazione di cosa futura può essere dedotta in contratto salvo particolari divieti della legga. Es. Art. 458
(divieto di patti successori: taluno dispone di diritti che gli possono derivare da una futura successione) e Art. 771 (divieto di donazione di
cosa futura: la donazione può comprendere solo beni presenti). Il contratto di cosa futura è perfetto ab initio, essendo presenti tutti gli
elementi essenziali, ivi compreso l’oggetto, che va identificato nella res sperata o in fieri. La non attualità comporta solamente la nascita di
un obbligo a carico della parte volto a rendere possibile il venir ad esistenza dell’oggetto.

Determinazione ad opera del terzo → la prestazione può, inoltre, essere determinata da un terzo (arbitratore), al quale le parti,
congiuntamente, deferiscano tale compito. L’arbitratore è un prestatore di opera intellettuale e non un mandatario, il cui incarico altro non
sarebbe se non una procura, che pretenderebbe la stessa forma scritta del contratto, perché egli svolge un’attività non solo nell’interesse, ma
anche nei confronti delle parti e non già di terzi, e ciò è incompatibile con lo schema del mandato. Il terzo deve procedere alla
determinazione con equo apprezzamento, avuto riguardo a tutte le circostanze obiettive e prescindendo da considerazioni in ordine alla
posizione soggettiva delle parti. Sul piano della verifica, il giudice può intervenire, con sentenza determinativa, ogni qualvolta la
determinazione sia manifestamente iniqua o erronea, in caso di equo apprezzamento ovvero, in caso di mero arbitrio, se la decisione del
terzo sia viziata da mala fede, per aver egli intenzionalmente agito in danno di una parte. L’intervento del giudice è anche previsto qualora
il terzo non proceda alla determinazione.

Le condizioni generali del contratto → l’Art. 1341 stabilisce che le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei due contraenti
sono efficaci nei confronti dell’altro se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle,
usando l’ordinaria diligenza.
 Per condizioni generali si intendono quelle clausole che un soggetto predispone al fine di regolare in modo uniforme una serie
indefinita di rapporti di cui egli diverrà parte. In altre parole, se un soggetto, per l’attività svolta, ha necessità di contrarre reiteratamente
con riguardo alla stessa materia, potrà predisporre unilateralmente una serie più o meno ampia di clausole contrattuali che si
considereranno inserite nei futuri contratti, se gli altri contraenti le hanno conosciute o avrebbero dovuto conoscerle usando l’ordinaria
diligenza (es. imprese bancarie, assicurative).
 In ogni caso non hanno effetto se non sono specificatamente approvate per iscritto le condizioni che stabiliscono, a favore di colui
che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono, a
carico dell’altro contraente, decadenze, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria.

Il contratto concluso mediante moduli o formulari → in caso di condizioni generali, parte del contratto è predeterminata unilateralmente.
Quando a contrarre sono imprese che stipulano contratti sempre identici con una massa di clienti, il contenuto de3l contratto è predisposto,
sempre unilateralmente, mediante moduli o formulari prestampati, come nel caso di contratti bancari o assicurativi. Il contratto si conclude,
in ogni caso, con la sottoscrizione da parte dell’aderente.
Clausole vessatorie → sono quelle che importano limitazioni di responsabilità, sanciscono decadenze, limitano la facoltà di opporre
eccezioni, restringono la libertà contrattuale dei soggetti. Bisogna distinguere:
a) Contratti tra professionisti o consumatori. Cioè tra soggetti che si presumono di pari forza, le clausole vessatorie contenute in
condizioni generali o moduli o formulari, sono stabilite tassativamente. L’approvazione del contraente non predisponente è richiesta ad
substantiam, deve essere specifica, ma può essere anche cumulativa. Nell’ipotesi in cui non venga rispettato tale requisito, ci sono due
pareri:
1. vi è nullità dell’intero contratto.
2. vi è soltanto inefficacia della clausola, che non va ad inficiare la validità del contratto.
L’approvazione scritta non è pretesa se la clausola vessatoria è prevista da legge, regolamenti e usi.

b) Contratto tra professionista e consumatore. Se costoro concludono un contratto è fortemente tutelata la posizione del consumatore;
infatti, si ritengono vessatorie tutte quelle clausole dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.

Contro le clausole vessatorie, la normativa disciplina, oltre ad un’azione giudiziaria, successiva al sorgere della controversia, anche
un’azione inibitoria preventiva. Quest’ultima è affidata solo alle associazioni rappresentative, ed ha lo scopo di far eliminare talune
clausole vessatorie dai prestampati, al fine di evitare l’affettiva conclusione di contratti vessatori. È un rimedio preventivo e collettivo,
attuabile, non dal singolo, ma da alcune categorie individuate dall’Art. 37 del D.Lgs. 206/2005.
 L’urgenza si configura non in relazione al pregiudizio irreparabile del singolo consumatore, ma, più in generale, all’idoneità della
clausola abusiva ad incidere, in termini qualitativi, su diritti soggettivi fondamentali della persona o su beni primari.
Sostituzione automatica di clausole
Le clausole, i prezzi dei beni o di servizi, imposti dalla legge, sono di diritto inseriti nel contratto, anche in sostituzione delle clausole
difformi apposte dalle parti. La norma dà al legislatore il potere di limitare l’autonomia privata per favorire il contraente più debole.
L’Art. 1339 non opera solo in chiave sostitutiva, infatti la clausola legale è inserita de iure nel contratto anche quando le parti non abbiano
pattuito una clausola difforme.

Si avrà una duplice operazione:


a) nullità della clausola pattuita per illiceità derivante da contrarietà a norme imperative.
b) sostituzione della clausola nulla con quella legale.

Non si può parlare di conversione, perché è del tutto assente un qualsiasi tipo di indagine sulla volontà dei contraenti di mantenere in vita o
meno il contratto così modificato.

La tecnica normativa è quella della conservazione affidata all’Art. 1419, secondo cui la nullità di singole clausole non comporta la nullità
dell’intero contratto, quando queste vengono sostituite di diritto da norme imperative.
La moderna dottrina spiega, invece, la norma o come volta a perseguire il presumibile interesse delle parti o in chiave di pluralità delle
fonti di regolamentazione del contratto, ovvero in chiave di esistenza di obblighi di comportamento imposti dai privati già prima della
conclusione del contratto e che se inadempiuti, comportano la modifica dell’assetto pattizio, o in caso di rifiuto di contrarre alle condizioni
di legge, è prevista una responsabilità analoga a quella precontrattuale prevista per l’ingiustificato recesso dalle trattative.
Per legge deve intendersi qualunque norma avente valore di legge in senso sostanziale, quindi anche i regolamenti; inoltre la legge può
rinviare anche ad un atto amministrativo.

Clausole d’uso
Si intendono inserite nel contratto se non risulta che non sono state volute dalle parti. L’Art. 1340 fa riferimento agli usi negoziali, che si
distinguono da quelli interpretativi previsti dall’Art. 1368, da quelli individuali e da quelli normativi previsti dall’Art. 1374. Essi
costituiscono delle pratiche comunemente e costantemente osservate nelle operazioni contrattuali in un dato luogo o ramo del commercio.
Questi non hanno il carattere generale ed obbligatorio proprio degli usi normativi, per cui integrano il contratto solo quando sono
esplicitamente o implicitamente richiamati dalle parti. Gli usi normativi sono previsti dall’Art. 1374.

A metà strada tra l’uso individuale e quello contrattuale, vi è l’uso aziendale, che può formarsi all’interno di un’azienda a seguito di un
reiterato comportamento del datore di lavoro, purché spontaneo. Esso si inserisce automaticamente nei singoli contratti individuali di
lavoro, con attitudine ad integrare o derogare, solo in senso più favorevole per il dipendente, la disciplina fissata dalla contrattazione
collettiva.
7. LA FORMA
La forma è il modo con cui l’atto umano si esteriorizza. Essa è quindi la veste esteriore della volontà, è, infatti, giuridicamente rilevante
soltanto la volontà che viene portata all’esterno attraverso o la dichiarazione o comportamenti concludenti. Non ha infatti valore la riserva
mentale.
L’Art. 1325 c.c. individua la forma come requisito essenziale del contratto soltanto quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di
nullità.
La forma assolve ad esigenze particolari dell’ordinamento:
a) Certezza: richiama l’attenzione dell’autore dell’atto sulla portata giuridica e sulle esigenze economiche che da esso discendono.

b) Pubblicità: offre l’opportunità di rendere pubblici certi atti a causa degli effetti prodotti, specie ad es. quando si tratta di diritti reali
immobiliari. Pertanto, attraverso la pubblicità l’atto, che ha efficacia tra le parti, può essere opponibile anche ai terzi. Talvolta è lo
stesso legislatore che riferisce la necessità della forma alla pubblicità e non alla conclusione del contratto. Es. in caso di trasferimenti di
autoveicoli il contratto si perfeziona anche oralmente, ma è pretesa una dichiarazione scritta del venditore con firma autenticata ai fini
della trascrizione al PRA , anche le società di persone nascono da un accordo orale, ma l’atto costitutivo deve avere la forma dell’atto
pubblico per poter essere inserito nel registro delle imprese.

c) Certificazione: la forma è in questi casi collegata all’attività di certificazione di un fatto storico già accaduto. Es. verbalizzazioni di
assemblea.

d) Opponibilità: rendere opponibile al terzo gli effetti dell’atto concluso dalle parti come ad es. per la vendita di beni.

e) Notificazione: dirime le controversie tra i terzi, come nel caso di pluralità di cessione del credito, là dove prevale il creditore che per
primo ha notificato al debitore la propria cessione nelle forme e nei modi previsti dalla legge.

La legge talvolta prevede la forma scritta a pena di invalidità dell’atto → forma scritta ad substantiam. Essa è imposta dalla legge al fine
di giuridicizzare l’operazione sottraendo così ai privati la libertà di scelta in materia. La forma assurge, quindi, ad elemento essenziale del
contratto. Ex. Art. 1418 2°co, si avrà nullità dell’atto per mancanza di uno dei requisiti previsti dall’ex Art. 1325.

La conseguenza è che i privati non potranno convalidare l’atto carente di forma perché, in base all’Art. 1423, l’atto nullo non può essere
convalidato. Si potrà avere rinnovazione dell’atto con efficacia ex nunc. Il documento dovrà, però, contenere l’estrinsecazione formale e
diretta della volontà delle parti di concludere quel determinato negozio. Non è possibile, pur osservando la forma dovuta, un accertamento,
una confessione, una ricognizione, una ripetizione, perché il negozio da riconoscere, accertare, ripetere non è viziato, ma inesistente.
 Secondo una parte della dottrina, dal contratto nullo per vizio formale nasce un’obbligazione naturale con un’eccezione in base alla
quale non si può pretendere l’adempimento, ma neppure si deve restituire ciò che si è ricevuto a titolo di pagamento.
 Secondo Gazzoni tale obbligazione risulterebbe contra legem, quindi non protetta dall’ordinamento, onde è sempre prevista l’azione
di ripetizione nei limiti fissati dalla legge.
 La giurisprudenza tende comunque ad attenuare il rigore formale, infatti è ammessa la conferma della donazione orale e pertanto
anche in questo caso la nullità della donazione non può essere fatta valere dagli eredi o aventi causa del donante che, conoscendo la
causa della nullità, hanno, dopo la morte di lui, confermato la donazione o vi hanno dato volontariamente esecuzione.

Si ha, invece, un’accentuazione del rigore formale per quei negozi cd. integrativi, ovvero quelli che risolvono, revocano o comunque
vengono ad incidere sui diritti nati da un precedente contratto con forma scritta ad substantiam: cessione del contratto e convalida espressa.
→ Viene in questi casi applicato il principio di simmetria formale. A questi atti verrebbe estesa l’applicazione dell’Art. 1325 4°co.
Bisogna però sempre tener conto che il principio che permea la disciplina della forma è quello della libertà della forma. L’eccezionalità
della forma ad substantiam non può non condurre ad una interpretazione restrittiva delle singole norme, anche perché il limite formale si
atteggia, a ben vedere, come un vero limite all’autonomia delle parti, principio cardine in tema di contratti.
Secondo un autore, Natalino Irti, non è valido il principio della libertà delle forme e quindi dall’Art. 1325 si desumerebbe l’esistenza di due
categorie di contratti:
• a struttura debole, in cui la forma sarebbe assorbita dall’accordo.
• a struttura forte, dove la forma sarebbe pretesa dalla legge.
Non è, quindi, possibile stabilire qual è la regola e qual è l’eccezione. Secondo Grasso, invece, si può osservare che l’Art. 1325 contempla
due ipotesi:
a) prevede quale requisito del contratto la forma quando essa è prevista a pena di nullità.
b) non prevede tale requisito, implicitamente lo esclude in tutti gli altri casi, essendo così la regola laddove l’altra è l’eccezione.

Bisogna sicuramente sottolineare che quando si fa riferimento alla forma non si intende esclusivamente la forma scritta, in quanto anche
l’oralità, il comportamento omissivo o commissivo rilevano sul piano della forma. La scrittura è forma della dichiarazione espressa, ma
non può esserlo nel contempo di quella tacita o indiretta. Quando è richiesta la forma scritta è necessario che vi sia tra volontà e scritto una
corrispondenza immediata e diretta, se non altro per esigenze di certezza. È necessario che lo scritto esprima la volontà negoziale. Es.
volontà di disporre.

Bisogna inoltre distinguere:


• Contenuto minimo del contratto: si rapporta agli effetti tipici che le parti intendono produrre ed è quello atto a rivelare l’intento di
conseguire il risultato corrispondente a quel tipo di effetto e quindi allo schema tipico dell’atto. Es. in caso di compravendita immobiliare
dall’atto scritto deve risultare chiaramente l’intento dispositivo e l’oggetto. Non è ad es. necessaria l’indicazione delle clausole accessorie
di carattere esecutivo, quali quelle che fissano il tempo o il luogo dell’adempimento, in quanto non sono rilevanti per l’individuazione del
tipo contrattuale.

• Contenuto effettivo del contratto: l’insieme delle pattuizioni concluse concretamente, di volta in volta dai privati, in base al potere di
autonomia riconosciuto alle parti.
Ovviamente tale distinzione rileva solo sul piano della forma, poiché ad es. sul piano sostanziale una clausola accidentale può risultare
essenziale in concreto. Tale distinzione ha una sua rilevanza quando si tratta di risolvere il problema dei limiti della relatio nei negozi
formali. La relatio è quel richiamo, nel corpo del contratto, ad un dato esterno già esistente in rerum natura.

In dottrina si ammette, entro certi limiti, la relatio, perché solo il contenuto minimo deve risultare dal documento, cosicché quello ulteriore
può anche essere fissato con riguardo ad una fonte esterna, tanto più se si considera che la clausola contenente la relatio è in regola con il
requisito formale, essendo essa prevista nell’accordo scritto. Bisogna distinguere:
a) quando la fonte esterna consiste in un accordo formale già raggiunto dalle parti, nulla quaestio.
b) quando si tratta di un contratto stipulato da essi in un giornale, un modulo, la dottrina risolve questo problema in chiave probatoria
osservando che, ferma restando la validità della relatio, se il contenuto de relato si è inserito automaticamente, in virtù della relatio, nel
contenuto documentale, valendo anche come pattizio, dovrà sottostare alle limitazioni probatorie, che prevedono l’esclusione della prova
per testi e quella presuntiva al fine di garantire l’esigenza di certezza che è alla base della prescrizione sulla forma.

Per quanto riguarda le modalità dell’atto scritto, esso può anche non essere redatto dalle parti, che devono però in ogni caso
sottoscriverlo, es. contratto concluso mediante moduli o formulari, contratto redatto dal notaio. Un’ipotesi particolare è quella del bianco
segno. Se le parti controvertono su di una determinata questione ed intendono raggiungere un accordo di carattere transattivo, possono
deferire ad arbitri irrituali il compito di comporre la lite. Essi fisseranno il contenuto dell’accordo che sarà riprodotto in un foglio
consegnatogli previamente sottoscritto dalle parti stesse. È questa un’eccezionalità poiché non è ammissibile una dichiarazione in bianco
non sorretta da un’adeguata volontà, non potendosi ritenere tale quella di accettare previamente ogni regolamento degli interessi disposto
da terzi.

Telegramma: non ha efficacia probatoria della scrittura privata se non è stato sottoscritto in originale, salvo che sia stato consegnato o fatto
consegnare dal mittente.
Telefax: è mezzo idoneo per la conclusione di contratti formali; infatti è idoneo per la trasmissione di copia della dichiarazione sottoscritta
in originale. Le parti possono prevedere che l’efficacia del contratto sia condizionata dallo scambio, sempre mediante fax, degli originali.
Sul piano probatorio, il fax potrebbe essere disconosciuto trattandosi di copia fotografica di scrittura.

La forma ad probationem → la legge può prevedere che la forma scritta non vada a rilevare sulla validità del contratto, ma a fini
probatori. Es. transazione, patto di non concorrenza. Non è pertanto ammessa la prova per testi, salvo che il documento sia smarrito senza
colpa poiché in questo caso la prova per testimoni è ammessa in ogni caso, né di conseguenza quella per presunzioni, cosicché residua
solamente la possibilità della confessione e del giuramento.
 La dottrina sostiene che il legislatore, richiamandosi alla forma ad probationem, in realtà ha voluto introdurre taluni limiti probatori
o nulla avrebbe, dunque, a che fare tale forma con la forma vincolata che mira ad esteriorizzare la volontà. Bisogna quindi sottolineare:
• che al pari della forma ad substantiam è una forma vincolata.
• che opera esclusivamente sul piano processuale.

Essa è una forma della prova, non forma dell’atto; si tratta di un ulteriore funzione della forma che non può dirsi sempre e solo necessaria
ai fini dell’esteriorizzazione; pertanto, al di fuori del piano processuale, il contratto sarà efficace in qualsiasi forma realizzato, non andando
ad incidere la forma ad probationem sul piano sostanziale.
La sottoscrizione quando si stipula per iscritto un contratto, assume carattere essenziale la sottoscrizione ad opera dei contraenti. Ha una
duplice funzione:
• individuare gli autori della scrittura.
• attesta circa l’assunzione degli impegni risultanti dal testo scritto.

Pertanto, la sottoscrizione deve essere idonea ad individuare inequivocabilmente il soggetto e l’autografa può essere apposta, con uno
pseudonimo etc., purché non generi incertezza circa il sottoscrittore. È il momento finale della sequenza perfezionativa del contratto
formale e la sua mancanza impedisce che l’accordo possa ritenersi raggiunto se la forma scritta è richiesta ad substantiam, ovvero possa
essere provato se la forma scritta è richiesta ad probationem. Essendo un elemento a sé stante, non facente parte del contenuto del
contratto, si discute in dottrina se essa debba osservare le forme pretese dalla legge per gli atti rigidamente formali.
 L’assenza di sottoscrizione impedisce la conclusione del contratto, pertanto un soggetto, sia per ottenere la conclusione del contratto,
sia per dimostrare che esso è stato concluso, non può produrre in giudizio una copia del contratto non sottoscritta da tutte le parti, in
quanto esibisce una proposta contrattuale ancora non accettata.
Il problema sta nello stabilire se l’accettazione della proposta anziché della sottoscrizione può derivare dell’esibizione, e quindi
l’accettazione come atto prenegoziale.
 non ammette equipollenti in caso di forma ad substantiam cosicché l’esibizione in giudizio collegata alla domanda di esecuzione potrà
avere solo valore confessorio con riguardo all’esistenza ed al contenuto del contratto, ma non può costituire titolo per l’esecuzione.
 l’equipollenza è ammessa in caso di forma ad probationem se la parte che non ha sottoscritto chiede l’esecuzione. Ciò è possibile
poiché:
a) le sottoscrizioni non devono essere contestuali;
b) equivarrebbe a sottoscrizione l’inequivocabile manifestazione di volontà di avvalersi del negozio documentato dalla scrittura
incompleta, sia perché varrebbe la sottoscrizione della procura rilasciata al difensore, essendo la domanda giudiziale
inscindibilmente legata e dipendente dalla scrittura prodotta. Allora il contratto si dovrebbe concludere al momento della notifica e
non dell’esibizione.

Esistono dei limiti a tale equipollenza, infatti l’esibizione deve avvenire nei confronti di chi ha sottoscritto ad opera del legale della parte
che non ha sottoscritto e non di un terzo, anche se erede. Infatti, poiché qui si ha accettazione, la morte della parte fa venir meno la facoltà
di accettare la proposta. La produzione non vale accettazione quando la controparte abbia nel frattempo manifestato in modo non equivoco
la volontà di non eseguire il contratto, revocando il proprio consenso, o vi sia stata morte della parte o incapacità sopravvenuta.

La giurisprudenza ammette anche un’accettazione stragiudiziale che può essere operata dalla parte che non ha sottoscritto il contratto,
qualora costei manifesti anche implicitamente il consenso, purché tale manifestazione risulta da uno scritto indirizzato alla controparte che
ha sottoscritto, quale, ad esempio, una lettera con cui si sollecita l’adempimento degli obblighi previsti nella scrittura che, in tal caso, opera
il limite della revoca, della morte e della sopravvenuta incapacità della controparte. Tale limite non opera se la seconda sottoscrizione è
espressa in un documento separato, ma coevo, purché inscindibilmente collegato al primo. Es. preliminare sottoscritto dal solo promittente
venditore, ma con dichiarazione che il promittente compratore ha consegnato un assegno in conto del prezzo; l’assegno infatti racchiude in
sé la seconda sottoscrizione atta ad integrare l’accordo formale.
Gazzoni non concorda con questi orientamenti giurisprudenziali, in quanto l’accettazione deve sempre giungere al proponente nel termine
da lui stabilito o in quello ordinariamente necessario, secondo la natura degli affari o degli usi, sicché la produzione in giudizio risulterebbe
sempre tardiva. Sembra, quindi, più corretto fissare la conclusione del contratto, non al momento dell’esibizione, ma della stipulazione,
cioè non già ex nunc, ma ex tunc, pur mancando agli atti del giudizio la prova documentale dell’intervenuta conclusione.

Il documento informatico è la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti. La firma elettronica è l’insieme dei
dati in forma elettronica, allegati oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici utilizzati come metodo di
autenticazione informatica. Il documento informatico, cui è apposta una firma elettronica, sul piano probatorio è liberamente valutabile in
giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza. Il documento informatico sottoscritto con firma digitale o
con un altro tipo di firma elettronica qualificata ha valore di scrittura privata se autenticata.

L’Art. 1352 stabilisce che se le parti hanno convenuto per iscritto di adottare una determinata forma per la futura conclusione di un
contratto, si presume che la forma sia stata voluta per la validità di questo. La forma è quindi richiesta ad substantiam. Ciò vale anche per
gli atti unilaterali che seguono alla conclusione di un contratto, es. recesso dal rapporto di lavoro. In dottrina si discute se questa norma
pone:
• una vera e propria presunzione iuris tantum di validità;
• detta una regola di interpretazione oggettiva da utilizzarsi subordinatamente alle regole di interpretazione soggettiva.

Il patto ha carattere con figurativo e non dispositivo poiché con esso le parti fissano le regole che esse stesse dovranno osservare in materia
di forma nella futura contrattazione. È con la contrattazione che dispongono dei loro interessi, si ha quindi tra le parti un accordo, non un
contratto. Viene richiesto come requisito formale la forma scritta, comportando un limite all’autonomia privata ed alla libertà formale. Se
vi è inosservanza della forma volontaria: secondo la dottrina dominante la nullità è rilevabile ex officio, mentre secondo altra parte è
inefficacia.
 Ci si chiede inoltre se il contratto che non rispetta la forma volontaria sia davvero concluso e quindi suscettibile di esecuzione o non
giustifichi, invece, se eseguito, una ripetizione dell’indebito per difetto di titolo attributivo. È ammesso che il patto sulla forma può
essere risolto solo con un altro patto formale in difetto di forma scritta, quindi potrebbe operare la sottoscrizione formale o sostanziale
quando anche tacitamente per facta concludentia è provata la volontà di concludere il contratto in forma diversa da quella pattuita.
Pertanto, Gazzoni non condivide la tesi secondo cui si avrebbe in questo caso nullità del contratto, poiché non si ha violazione di norme
inderogabili, poiché la fissazione della forma ad substantiam è frutto di un accordo privato. Pertanto la nullità può essere fatta valere sola
dalla parte interessata, la quale potrebbe anche rinunciarvi mediante esecuzione spontanea o altrimenti non essendo per tale rinunzia
necessaria la forma scritta.

La ripetizione del contratto


La ripetizione si ha quando le parti si vincolano alla futura ripetizione in altra forma del contratto già concluso. Da questa si deve
distinguere la riproduzione, con la quale le parti riproducono integralmente il testo di un contratto già concluso per sostituire il documento
andato smarrito o per disporre altre copie originali da poter utilizzare, per esempio, per la registrazione del contratto o per depositarlo
presso una banca.

Altra cosa ancora è la ricognizione, con la quale le parti operano un mero accertamento dell’esistenza e del contenuto di un contratto, come
nel caso di ricognizione operata dal concedente enfiteutico nei confronti di chi si trova nel possesso del fondo, per evitare il maturarsi
dell’usucapione. L’atto di ricognizione ha una funzione meramente probatoria, così come la riproduzione, però, mentre quest’ultimo non
fa sorgere problemi di difformità poiché l’atto sarà identico a quello riprodotto, questo problema sorge, invece, per la ricognizione, risolto,
però, dall’Art. 2720 in chiave di errore, con la produzione dell’originale.

L’Art. 2720 accomuna, sul piano disciplinare, l’atto di ricognizione a quello di rinnovazione, che può essere usato per indicare una
situazione diversa rispetto alla prima, che si verifica quando le parti hanno posto in essere un contratto nullo ed intendono rinnovarlo. Di
rinnovazione si parla anche nel caso in cui il primo contratto sia valido, ma venga sostituito, con efficacia ex nunc, da altro contratto di
contenuto identico, in tal caso si più vicini alla ripetizione.

La ripetizione si distingue dalla ricognizione, perché non ha funzione meramente probatoria, si distingue dalla rinnovazione perché il
contratto ripetuto è di se per se valido ed efficace. Il negozio successivo non ha valore di esecuzione del precedente, né è una mera
integrazione formale, quindi si nega l’esistenza di un’autonoma volontà e di un’autonoma causa; il negozio successivo è identico al primo,
quindi non si può manifestare di nuovo un identico consenso.
 Secondo altri, il negozio successivo costituirebbe un ulteriore fonte del rapporto. La ripetizione dimostrerebbe la possibilità di
ipotizzare la pluralità di fonti contrattuali equivalenti, con la conseguenza che uno steso rapporto potrebbe anche avere titolo in più
manifestazioni di consenso.

Se i privati possono dar vita ad una pluralità di documenti che rappresentano lo stesso titolo (riproduzione) non si comprende perché essi
dovrebbero dar vita ad una pluralità di fonti equivalenti. In realtà spesso ipotesi di ripetizione apparente racchiudono in se una
giustificazione diversa. Così i contraenti possono ripetere per rimuovere dubbi o incertezze, avendosi così un negozio di accertamento,
oppure per interpretare o per superare un vizio che avrebbe comportato annullabilità del primo contratto, essendo così in presenza di
convalida.

Al di fuori di questi casi, i contraenti potrebbero operare una rinnovazione per rinnovare il rapporto o mantenerlo in vita, o per rendere
il contratto opponibile a terzi.
1) Il primo caso si verifica, ad esempio, quando essi, per evitare ogni discussione sul potere di rappresentanza e sulla procura, stipulano di
nuovo, ma questa volta personalmente, un contratto già precedentemente concluso tramite i propri rappresentanti. Il secondo contratto
estinguerà il primo e si sostituirà con effetto ex nunc.

2) Il secondo caso si verifica quando le parti hanno concluso per scrittura privata un contratto soggetto a trascrizione ai sensi dell’Art.
2643, obbligandosi a ripeterlo per atto pubblico al fine di renderlo opponibile ai terzi. Il successivo contratto notarile varrà come
autenticazione della precedente scrittura privata. Se una delle parti si rifiuta di stipulare il successivo atto pubblico ripetitivo, la parte
adempiente non potrà invocare l’Art. 2932, come se l’obbligo venisse da un preliminare. La parte dovrà agire in giudizio per
l’accertamento dell’autenticità delle sottoscrizioni, e questa domanda è trascrivibile, se la scrittura privata contiene uno degli atti di cui
all’Art. 2643.

L’azione è imprescrittibile (nel caso in cui si tratti di vendita) perché è di accertamento e non perché è un atto di esercizio di una facoltà del
diritto di proprietà già acquisito per scrittura privata, come ritiene la giurisprudenza. L’obbligo che le parti assumono con la scrittura
privata di presentarsi alla ripetizione notarile, non si prescrive, nemmeno in 10 anni. È un obbligo che non attiene al profilo dispositivo del
contratto, ma accertativo dell’autenticità delle sottoscrizioni.
8. GLI ELEMENTI ACCIDENTALI

Mentre gli elementi essenziali (Art. 1325) sono richiesti dal legislatore, a pena di nullità, per l’esistenza e la validità del negozio giuridico,
gli elementi accidentali sono rimessi alla volontà delle parti, ma una volta inseriti costituiscono parte integrante del regolamento negoziale
e incidono sugli effetti del negozio giuridico. In sostanza gli elementi accidentali sono clausole accessorie, mediante le quali i privati
danno rilevanza giuridica ai motivi individuali, inserendoli espressamente nel contenuto del contratto. Tali elementi sono: la condizione, il
termine ed il modus.

Condizione
In base all’Art. 1353, le parti possono subordinare l’efficacia o la risoluzione del contratto o di un singolo patto ad un avvenimento futuro
ed incerto.
1) La condizione alla quale le parti subordinano l’efficacia del negozio è detta condizione sospensiva; finché l’evento dedotto in
condizione non si verifica 8pendenza della condizione), il negozio giuridico non produce effetti. Quando l’evento si avvera, gli effetti si
considerano prodotti ex tunc, cioè dal momento della formazione del negozio e non da quello del verificarsi della condizione. Se l’evento
non si verifica, il negozio resta privo di effetti.
2) La condizione alla quale le parti subordinano la risoluzione del negozio è la condizione risolutiva; finché l’evento dedotto in
condizione non si verifica, il negozio produce effetti. Quando l’evento si avvera, cessano gli effetti negoziali ex tunc, cioè dal momento
della formazione del negozio. Se l’evento non si verifica gli effetti diventano definitivi.

Oltre a dover essere certa e futura, la condizione deve essere anche:


– Possibile: L’impossibilità può essere: fisica (es. toccare il cielo con un dito), o giuridica (es. vendita di un bene demaniale). La
condizione impossibile rende nullo il contratto se è sospensiva, invece se è risolutiva, si considera come non apposta.
– Lecita: Cioè conforme alle norma imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume. Se la condizione è illecita, il contratto sul quale
è apposta si considera nullo, questo però se ci si riferisce agli atti tra vivi, mentre nel caso di atti di ultima volontà la condizione illecita
è nulla, ma l’atto resta valido, purchè la condizione non sia stata l’unico motivo che ha indotto il testatore a disporre.

Il 3° comma dell’Art. 1354 regola la nullità parziale, per cui la condizione illecita o la condizione sospensiva impossibile apposta ad un
singolo patto del contratto, rende nullo l’intero contratto, salvo il caso in cui, dall’interpretazione della volontà contrattuale, risulti che le
parti avrebbero concluso il contratto anche senza tale patto.

La condizione, sia sospensiva che risolutiva, può essere:


a) causale: se il suo avvera mento dipende dal caso o dalla volontà di terzi, ad es. se scoppierà la guerra.
b) potestativa: se il suo verificarsi dipende dalla volontà di una delle parti che ha un apprezzabile interesse al suo compimento.
c) mista: se il suo verificarsi dipende in parte dalla volontà di un terzo o dal caso ed in parte dalla volontà di una delle parti.

Dalla condizione potestativa pura, dobbiamo distinguere la condizione meramente potestativa, prevista all’Art. 1355, che è una
condizione il cui verificarsi dipende dal puro arbitrio di una delle parti che non ha alcun apprezzabile interesse al suo avvera mento.
In base a questa norma, è nullo il trasferimento di un diritto che è subordinato alla mera scelta del soggetto che trasferisce il diritto, così
come è nulla l’assunzione di un obbligo subordinato alla mera scelta del debitore. La ratio della norma è evidente: non si può far dipendere
l’assunzione di un obbligo dal mero capriccio dell’obbligato; viceversa, non c’è nullità quando l’acquisto del diritto o del credito è
subordinato all’arbitrio del soggetto che non assume una posizione di obbligo, ma di diritto.
L’evento in condizione non può identificarsi con uno degli elementi essenziali del contratto. Si discute, in particolare, se la prestazione
contrattuale può essere dedotta come evento che condiziona l’efficacia del contratto, c.d. condizione di adempimento. Una parte della
dottrina ritiene che non sia ammissibile, mentre un’altra parte sostiene il contrario, affermando che, in virtù del principio dell’autonomia
contrattuale, i contraenti possono prevedere come evento condizionante l’adempimento o l’inadempimento di una delle obbligazioni
principali del contratto stesso. Quindi, in questo caso, nel comportamento della parte che non esegue la prestazione non si ravviserà un
illecito contrattuale, bensì il legittimo esercizio di una potestà convenzionalmente attribuita, per concorde volontà di entrambe le parti. Il
caso tipico di condizione di adempimento riguarda l’ipotesi in cui il trasferimento del bene, in un contratto di compravendita, viene
subordinato al pagamento integrale del prezzo da parte del compratore.

Dalla condizione, deve distinguersi la condizione legale, che non è una clausola accessoria del regolamento contrattuale, bensì è prevista
dal legislatore ed è un requisito necessario di efficacia del negozio. Es. la donazione fatta in riguardo di un futuro matrimonio (c.d.
donazione obnunziale) non produrrà effetto finché non ci sarà il matrimonio, quest’ultimo è la condizione legale del negozio.

La condizione volontaria si distingue anche dalla presupposizione. Questa figura ricorre quando le parti, nel concludere il negozio, fanno
riferimento ad una circostanza esterna, attuale e futura, che, senza essere espressamente menzionata nel negozio, ne costituisce il
presupposto oggettivo. L’esempio tradizionale è quello di chi prende in locazione un balcone che affaccia sulla strada dove si verificherà
una manifestazione per assistervi. Anche se le parti non hanno esplicitamente pattuito al riguardo, lo spettacolo si presenta come evento
condizionante. Per dare rilevanza alla presupposizione si deve aver riguardo dell’Art. 1374 e 1467.

La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta è accordata per il verificarsi di avvenimenti straordinari o imprevedibili, dovendosi
così ritenere presente in ogni programma contrattuale la clausola rebus sic stanti bus, in base alla quale l’efficacia del contratto per il futuro
è subordinata al fatto che le posizioni contrattuali di partenza non si modifichino.
Il venir meno o il non verificarsi del fatto presupposto, sposta gli equilibri contrattuali e determina una distribuzione del rischio
contrattuale, difforme da quella prevista e voluta dalle parti con la conseguente possibilità di risolvere il rapporto.

La pendenza della condizione è l’intervallo di tempo che decorre dalla formazione del contratto sino al momento in cui si verificherà o non
si verificherà l’evento dedotto in condizione. Durante tale fase, anche se gli effetti tipici non si sono ancora prodotti o possono essere posti
nel nulla, dal contratto condizionato scaturiscono alcuni effetti preliminari:
a) le parti si trovano in una condizione di aspettativa, in forza della quale hanno diritto a che la situazione non venga modificata durante
la pendenza della condizione;
b) chi ha acquistato un diritto sotto condizione sospensiva può compiere atti conservativi (diretti alla conservazione materiale e
giuridica del diritto);
c) chi ha acquistato un diritto sotto condizione risolutiva può esercitare il diritto, ma l’alienante può compiere atti conservativi dal
momento che ha anche lui un diritto sottoposto allo stesso evento, per cui per lui l’evento è una condizione sospensiva;
d) entrambe le parti hanno la disponibilità del diritto condizionato, ma è ovvio che gli effetti di questi atti di disposizione sono
subordinati al verificarsi della condizione;
e) entrambe le parti devono comportarsi secondo le regole della buona fede, ossia osservare un comportamento corretto, tale da non
danneggiare l’altra parte. In caso contrario è prevista la sanzione specifica della finzione di avveramento della condizione, per cui la
condizione deve considerarsi verificata se colui che aveva interesse contrario al suo avvera mento lo ha impedito.

Quando si verifica la condizione, la situazione giuridica diviene definitiva con efficacia retroattiva, ex tunc, cioè:
1) se è sospensiva: gli effetti del contratto si considerano prodotti sin dal momento della conclusione del contratto, cioè si considera
come se fosse nato incondizionato.
2) se è risolutiva: gli effetti del contratto cadono sin dal momento della formazione del contratto, cioè il diritto si considera come se
non fosse mai sorto.
La retroattività manca se è esclusa dalle parti o dalla natura del rapporto. Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica sottoposti a
condizione risolutiva, per le prestazioni già eseguite. Ad es. in un contratto di lavoro sottoposto a condizione risolutiva del ritorno di un
dipendente malato, l’avveramento di questa condizione, non fa cadere gli effetti delle prestazioni di lavoro già eseguite, per cui il lavoratore
“supplente” avrà diritto alla retribuzione di queste.

Termine
È un evento futuro e certo a partire dal quale (dies a quo) o fino al quale (dies ad quem) il negozio produrrà effetti. Mentre è sempre certo
che l’evento si verificherà, può essere incerto il momento del suo verificarsi. Possiamo così distinguere:
a) dies certus et certus quando (es. il 1° gennaio 2010)
b) dies certus te incertus quando (es. il giorno della morte di Tizio).

A differenza della condizione, il termine esplica la sua efficacia ex nunc, per cui, una volta verificatosi l’evento, restano salvi gli effetti
prodotti prima della scadenza del termine finale. Il termine come elemento accidentale del contratto si distingue dal termine di
adempimento che riguarda il momento in cui va esaurita la prestazione o altro adempimento (Art. 1184).
Modus
Per il modus il legislatore non ha dettato una disciplina organica. Il modus o onere è una clausola accessoria che la legge prevede
espressamente possa apporsi a tutti i negozi a titolo gratuito, inter vivos o mortis causa, allo scopo di limitarli. È un elemento accidentale, e
rappresenta un peso o una limitazione dell’attribuzione a titolo gratuito: es. ti dono un immobile con l’onere di costruire un ospedale.
L’onere quindi può definirsi come un peso gravante sulla cosa, avente la forma dell’obbligo, ma non del corrispettivo, e si costituisce
mediante un atto volitivo realizzando una vera e propria obbligazione accessoria; tuttavia, almeno in materia di donazioni, il beneficiario è
tenuto all’adempimento solo entro i limiti del valore della cosa donata.
 Mentre la condizione sospende ma non obbliga, l’onere obbliga ma non sospende.

9. IL CONTRATTO E I TERZI

Gli effetti inter partes. Effetti reali ed obbligatori.


Secondo l’Art. 1372 c.c. il contratto ha forza di legge tra le parti e non può essere sciolto se non per mutuo consenso o per cause ammesse
dalla legge. Per forza di legge si intende l’immodificabilità e l’irretratabilità unilaterale salvo i casi previsti dalla legge o dall’autonomia
privata. L’effetto immediato e imprescindibile che scaturisce dall’accordo è la nascita di un vincolo, cioè di un rapporto obbligatorio.

L’effetto di irretrattabilità è sempre presente, così come lo è, sul piano sostanziale, la nascita di una nuova situazione giuridica atta a
modificare il patrimonio dei contraenti, costituendo, modificando o estinguendo rapporti giuridici patrimoniali. Tale affermazione non è
però pacifica con riguardo alla categoria del contratto ad effetti reali ex Art. 1376, il cui ambito coincide con quello dei contratti traslativi.
 parte della dottrina sostiene che poiché il trasferimento del diritto è effetto immediato del consenso, non sarebbe ravvisabile
l’intermediazione di un effetto obbligatorio.
 altra parte invece sostiene che anche in caso di contratto traslativo nasce tra alienante ed acquirente un rapporto obbligatorio avente
ad oggetto l’obbligo per l’alienante di far acquistare il diritto all’acquirente, sia nelle ipotesi in cui ciò non è effetto immediato del
contratto, sia nel senso di assicurare all’acquirente stesso la titolarità del diritto rispetto alla rivendicazione altrui. Di qui la disciplina
della garanzia per l’evizione in caso di trasferimento della proprietà, e l’obbligo della garanzia ex Art. 1266 in caso di cessione del
credito.

Resta però vero che, in ogni caso, nei contratti traslativi l’effetto finale, quello perseguito dalle parti, non è di carattere obbligatorio ma di
carattere reale, identificandosi esso non solo in una prestazione a carico del debitore, ma nel trasferimento di un diritto che si ricollega al
mero consenso legittimamente manifestato.

L’obbligo di far acquistare il diritto si configura come mero obbligo strumentale. → In caso di contratto ad effetti reali l’obbligo di far
acquistare il bene all’acquirente si presenta particolarmente articolato quando, l’effetto traslativo non si produce immediatamente, perché
presuppone l’adempimento di una prestazione di volta in volta mutevole a seconda della fattispecie concreta, come nel caso di vendita di
cosa altrui, di cosa futura e di cosa generica. In questi casi l’effetto reale non può mai prodursi immediatamente per inesistenza del bene, in
assoluto, perché futuro o nel patrimonio dell’alienante, perché altrui, ovvero per indeterminatezza. Altre volte invece sono le parti che
impediscono il prodursi immediato dell’effetto apponendo una condizione sospensiva o un termine di differimento.

Ai fini della disciplina dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione (art 1465) è essenziale stabilire il momento in cui si produce
l’effetto reale.
a) Se la cosa trasferita è determinata e perisce per una causa non imputabile all’alienante, l’acquirente non è liberato dall’obbligo della
controprestazione anche se la cosa non gli è stata consegnata, perché l’effetto reale si è immediatamente prodotto e sul proprietario
grava il rischio del perimento del bene.
b) Se invece la cosa trasferita è generica l’acquirente non è liberato dall’obbligo di eseguire la controprestazione solo se l’alienante ha
eseguito la consegna o se la cose è stata individuata.

Il passaggio del rischio è un evento fondamentale, poiché esso è collegato al prodursi dell’effetto reale per il principio res perit domino, si
determinano complicazioni in caso di vendita internazionale di cose mobili, attesa la diversa rilevanza che assume a tal fine il consenso nei
vari ordinamenti, essendo esso talvolta, come in quello italiano, sufficiente a trasferire il diritto mentre altre volte è meramente prodromico,
perché collegato alla successiva fase della consegna.
 La convenzione di Vienna del 1980 ha fissato il momento del passaggio del rischio con riguardo alla consegna del bene che può
avvenire o nei confronti dell’acquirente o del vettore. Inoltre il rischio è a carico dell’acquirente anche quando l’alienante gli abbia messo
a disposizione il bene e egli non l’abbia ritirato.

Contratto derivativo – costitutivo → La categoria del contratto ad effetti reali non prevede solo l’ipotesi del trasferimento di diritti, ma
anche quella della costituzione di un diritto reale, si parla di contratto derivativo costitutivo atteso che non sussiste un rapporto di perfetta
derivatività non esistendo nel patrimonio dell’alienante il diritto trasferito ma un diritto più ampio. E il caso di diritti reali di godimento sul
cosa altrui. Si pensi ad esempio all’usufrutto che può essere costituito dal proprietario del fondo ma può anche essere trasferito
dall’usufruttuario (Art. 980).

Nel caso di contratto ad effetti obbligatori, invece l’effetto consiste appunto nella nascita di un rapporto obbligatorio, cioè di una
obbligazione di carattere finale, non meramente strumentale a prodursi di ulteriori effetti. Così è nel caso del contratto di lavoro (con cui
una parte si obbliga a prestare la propria opera dietro compenso) ovvero di contratto di mandato (in cui l’obbligo del mandatario consiste
nel compiere atti giuridici per conto del mandante).

Gli effetti per i terzi


L’Art. 1372 co.2 c.c. enuncia la regola della relatività degli effetti, nel senso che il contratto è di fronte ai terzi, inefficace salvo nei casi
previsti dalla legge. Questa regola è la logica conseguenza del principio di libertà su cui poggia l’autonomia privata ma va contemperato
con il divieto di intromettersi nella sfera altrui giuridico – economica ove l’attività sia priva di effetti non incrementativi.

Il concetto di terzo può delinearsi in termini negativi: sono tali tutti coloro che non sono parte del contratto. Il terzo è un non contraente,
nei confronti del quale non può valere la regola della vincolatività dell’accordo e quindi degli effetti che a tale accordo si ricollegano.
a) Gli effetti che il contratto non può di regola produrre nei confronti del terzo sono solo gli effetti diretti, cioè quelli che trovano la loro
causa produttiva direttamente del contratto.

b)Vi sono invece effetti ricollegabili al contratto soltanto indirettamente, i quali possono ripercuotersi sui terzi, si parla tal proposito di
efficacia indiretta o riflessa. pertanto anche terzi possono essere coinvolti nella vicenda contrattuale, così accade ogni qualvolta il
contratto assume rilevanza e quindi efficacia esterna. Si pensi all’ipotesi di un terzo danneggiato da un animale o dalla rovina di un
edificio: costui può agire rispettivamente ex Art. 2052 o 2053, per il risarcimento dei danni nei confronti del proprietario, il quale magari
avrà acquistato la proprietà mediante contratto di donazione o di compravendita. In tal caso il contratto o meglio l’effetto prodotto il cioè
trasferimento del diritto finisce per costituire la base su cui il terzo poggerà la propria azione giudiziaria.

A volte poi il contratto si pone come fatto giuridico nei confronti del terzo nel senso di legittimare l’esercizio di un diritto potestativo o di
credito, che nasce rispettivamente dalla legge o da un altro contratto. È il caso della prelazione, laddove il titolare di tale diritto può
esercitare in caso di mancata notifica della denuntiatio e successiva conclusione del contratto con il terzo, il diritto potestativo di riscatto se
la prelazione è legale, ovvero il diritto di credito al risarcimento del danno se essa è volontaria.
L’opponibilità
L’opponibilità si distingue dall’efficacia del contratto: mentre infatti l’efficacia per i terzi è sempre solo riflessa ed indiretta,
l’opponibilità , in quanto sussiste ,è nei confronti dei terzi sempre e solo diretta.
– l’efficacia è la situazione che ha riguardo in via diretta ed immediata alla posizione dei contraenti,
– l’opponibilità riguarda i conflitti che in seguito alla conclusione del contratto possono nascere tra contraente e i terzi, ogni qualvolta
l’acquisto di un diritto in base ad un contratto è contestato da un terzo che pretende di potersi avvalere, eventualmente anche in base ad
un atto contratto, di un titolo incompatibile.

Il conflitto che si determina è un conflitto tra titoli, da cui diritti derivano. Tale conflitto si situa all’interno di una vicenda circolatoria,
presuppone che il contratto sia un contratto traslativo.

È dubbio se un problema di opponibilità possa sussistere per i contratti ad effetti obbligatori: infatti non si vede come la funzione di
un’obbligazione possa dar luogo a conflitti.
 si può immaginare che un soggetto assuma contemporaneamente più obbligazioni sapendo di non poterle adempiere entrambe, come
nel caso di chi accetti un mandato a gestire un affare in America ed uno in Asia per lo stesso periodo di tempo,uno dei mandanti su come
soccomberà a rispetto all’altro ma non può dirsi che tra di essi vi sia un conflitto giuridico di titoli. Il problema si risolverà puramente e
semplicemente in un fatto di risarcimento dei danni da inadempimento.

Un problema di diritti incompatibili potrebbe invece prospettarsi qualora il proprietario stipulasse due contratti di opzione o due contratti
preliminari per il trasferimento di diritti reali incompatibili relativi allo stesso bene (ad esempio la vendita della piena proprietà e una
costituzione di usufrutto di servitù) ovvero stipulasse prima un contratto di opzione o un contratto preliminare e poi alienasse il bene ad un
terzo.

Se il bene è immobile o mobile registrato:


a) nel caso di duplicità di opzioni non prevale chi per primo accetta ma chi per primo trascrive l’acquisto conseguente
all’accettazione. Se l’opzione è stata concessa per atto pubblico o scrittura privata autenticata e l’accettazione riveste questa forma, l’
opzionario accettante potrà trascrivere immediatamente l’atto. Se viceversa la forma osservata è stata quella della scrittura privata non
autenticata è necessario ai fini della trascrizione ripetere il negozio per atto pubblico. ovvero iniziare il giudizio di accertamento della
sottoscrizione della scrittura privata, trascrivendo la relativa domanda. Lo stesso dicasi se con l’opzione il concedente trasferisce ad un
terzo il bene questo prevarrà purché trascriva prima della trascrizione dell’ eventuale acquisto dell’ opzionario conseguente
all’accettazione.
b) in caso di duplicità di contratti preliminari prevarrà chi trascriverà per primo il preliminare, o in difetto, o venuta meno
l’opponibilità, il contratto definitivo ovvero la domanda ex Art. 2652 n. 2.

Se il bene è mobile: in base all’Art. 1155 prevarrà l’acquirente che in buona fede avrà conseguito per primo il possesso, pur se si sarà
avvalso per secondo del diritto di opzione o per secondo avrà stipulato il contratto definitivo o ottenuto la sentenza ex art 2932 . Peraltro il
primo acquirente potrà agire finché l’alienante mantiene il possesso ex Art. 2930. Il comune autore e il terzo, se di malafede, deve
comunque risarcire il danno contrattuale, se pretermesso è un promettente acquirente, precontrattuale, se pretermesso è un opzionario.
È inoltre esperibile l’azione revocatoria se ne ricorrono gli estremi. Al riguardo la giurisprudenza ha statuito che in caso di duplicità di
preliminari non può ravvisarsi consilium fraudis ex Art. 2901 n. 2 del secondo promittente acquirente che stipula il contratto definitivo
ignorando l’esistenza del precedente preliminare ovvero essendone venuti a conoscenza nelle more della stipula del definitivo (cioè dopo
aver concluso il preliminare), perché tale stipula si configura come atto dovuto a cui il promittente acquirente non può sottrarsi. Il
consilium fraudis va dunque valutato con riferimento al momento della conclusione del contratto preliminare e non del contratto definitivo
(Gazzoni).

Per quanto riguarda il quadro dei potenziali conflitti tutelati dalla legge avente ad oggetto i contratti traslativi, può essere così sintetizzato:
1. acquisto a non domino: In questo caso il conflitto è tra chi acquista mediante un contratto a non domino e il dominus. L’acquirente
acquista il diritto da chi non è proprietario e che dunque non può vantare nemmeno un titolo di proprietà inefficace o invalido, come nel
caso di alienazione ad opera di un ladro o di un omonimo del proprietario.
Il conflitto è risolto:
a) in caso di trasferimento di diritti reali mobiliari mediante applicazione del principio possesso vale titolo (Art. 1153).
b) in caso di d trasferimento di diritti reali immobiliari, l’acquirente potrà solo opporre eventualmente l’avvenuta usucapione magari
decennale non trovando applicazione l’Art. 2644 perché non si tratta di conflitto tra aventi causa dello stesso autore.
In ipotesi di trasferimento di diritto di credito, invece l’acquisto da chi non è creditore non è mai opponibile né al vero creditore né al
debitore.
2. il conflitto tra un avente causa dell’acquirente e l’alienante: L’avente causa è in sostanza un successore a titolo particolare nella
posizione giuridica del dante causa, il quale opera il trasferimento.
a) In base al principio resoluto iure danti,s resolvintur et ius accipientis, l’invalidità o l’inefficacia del primo contratto si ripercuote
necessariamente sull’efficacia del secondo: in sostanza se il primo contratto di trasferimento cade, l’acquirente verrà a trovarsi nella
condizione di aver acquistato da chi era o appariva, ma ora non è più titolare del diritto trasferito → si avrà un acquisto a non domino,
con la particolarità che il non dominus, al momento del trasferimento, era o appariva dominus.
b) Nel caso invece di trasferimento di diritti di credito-in particolare in caso di cessione-, vale la disciplina generale, ad esempio per
quanto riguarda la salvezza dei diritti dei terzi materia di annullamento, rescissione e risoluzione.
3. il conflitto tra più aventi causa dello stesso autore: Se il diritto si collega uno degli atti menzionati dall’Art. 2643 vale il principio
fissato dall’Art. 2644. In caso di doppia o plurima alienazione mobiliare vale invece la regola fissata dall’Art. 1155.
a) In caso di conflitto tra più diritti personali di godimento prevale chi per prima abbia conseguito il godimento stesso e non chi al
momento in cui il conflitto nasce godrà della cosa non essendo necessaria l’attualità del godimento.
b) In caso di conflitto tra cessionari dello stesso diritto di credito prevale chi per primo ha notificato la cessione al debitore ovvero ha
conseguito l’accettazione, con atto di data certa (Art. 1265 co.1).

4. il conflitto tra l’acquirente o i suoi aventi causa e i creditori dell’ alienante, i quali hanno interesse a salvaguardare la propria
garanzia patrimoniale in funzione dell’azione esecutiva da esperire in ipotesi di inadempimento. In tal caso si applicano le regole dettate
per l’azione revocatoria dagli articoli 2901 seguenti. In particolare acquirente farà salvo il proprio acquisto, se in caso di alienazioni
mobiliari, potrà invocare l’Art. 1153, mentre in caso di alienazione immobiliari potrà invocare l’Art. 2652 n. 5 valendo da questo punto di
vista quanto osservato con riguardo al conflitto tra il subacquirente e l’ alienante.
Se invece l’azione esecutiva è già iniziata varranno, in caso di alienazione mobiliare, le regole in materia di trascrizione del
pignoramento, in caso di alienazione mobiliare il possesso vale titolo. La stessa regola vale in caso di cessione dei beni ai creditori.

Il contratto a favore di terzo


Le parti possono concludere un contratto ,anche preliminare o di opzione, inserendo una clausola (cd stipulazione ) in virtù della quale gli
effetti si producono in via diretta ed immediata nel patrimonio di un terzo,che è estraneo non parte del contratto .
 Il contratto a favore di terzo non è pertanto un contratto a sé stante, ma un modo d’essere del contratto di volta in volta concluso. La
disciplina del contratto a favore di terzo risulta dalla fusione della normativa di cui agli Artt. 1411 ss. con quella dettata per il singolo
contratto concluso.
Le parti contraenti sono:
– il promittente, che si obbliga alla prestazione in favore del terzo,
– lo stipulante, che designa la persona del terzo e nel cui patrimonio di regola si sarebbero dovuti produrre gli effetti ove non fosse stata
conclusa la stipulazione, con conseguente deviazione degli effetti stessi verso il patrimonio del terzo designato.

Non è sufficiente che il terzo riceva un vantaggio economico ,essendo necessario che la prestazione in suo favore sia stata prevista dai
contraenti come elemento del sinallagma. Il terzo acquista il diritto contro il promittente per effetto della sola stipulazione conclusa tra
promittente e stipulante (Art. 1411 2 ° comma).
 È errato, allora, affermare che l’adesione del terzo si configurerebbe come condicio iuris sospensiva dell’acquisto del diritto, quando
essa sarebbe un autonomo negozio acquisitivo, esercizio del potere di consolidare gli effetti instabili. L’effetto acquisitivo è infatti
immediato, pur se può venire meno ex tunc in caso di revoca o di rifiuto, che opera quindi alla stregua di una condicio iuris risolutiva. Per
questo motivo il terzo deve esistere è possedere i requisiti di legge ab initio, anche se può essere solo determinabile in un secondo
momento in base a criteri fissati o anche a discrezione dello stipulante.

Il terzo può dichiarare di voler profittare della stipulazione in proprio favore ma tale dichiarazione non è un’accettazione in senso tecnico
(cioè di una proposta contrattuale non avendo il contratto a favore del terzo una struttura trilaterale e può risultare anche per facta
concludentia), ed ha una duplice la funzione:
1)di impedire la modifica o la revoca della stipulazione stessa da parte dello stipulante (Art. 1411 co.2);
2)di consumare il potere di rifiutare in capo al terzo. La norma non fissa un termine al rifiuto come invece accade in caso di contratto
con prestazione a carico del solo proponente (Art. 1333) ove la necessità dei termini discende dal fatto che si tratta di un negozio
unilaterale irrevocabile o, secondo diversa impostazione, una proposta irrevocabile ex lege.
Il rifiuto come quello ex Art. 1333 ha carattere eliminativo ex tunc di diritti già acquisiti a momento della conclusione del contratto.
La vicenda che origina dal contratto a favore di terzo si sviluppa attraverso fasi successive: innanzitutto le parti devono comunicare al
terzo la stipulazione al fine di permettergli l’esercizio eventuale del potere di rifiuto. La comunicazione - che non richiede particolari
formalità - è successiva alla conclusione del contratto. Ciò accade quando l’individuazione del terzo dipende da un evento successivo o
quando lo stipulante si sia riservato di indicarlo.
 E’ addirittura possibile che la stipulazione sia in via alternativa e solo eventuale a favore del terzo non ancora designato. In tal caso
la vicenda sembra analoga a quella del contratto per persona da nominare ma in realtà nel caso di riserva la nomina incide
sull’identificazione stessa di uno dei contraenti mentre nel caso di attribuzione al terzo la nomina identifica solo la persona che può
ricevere la prestazione.

Per parte sua, il terzo deve comunicare l’adesione o il rifiuto ad entrambi i contraenti. In caso di revoca della stipulazione o di rifiuto del
terzo la prestazione, operando entrambe ex tunc, rimane con effetto fin dal momento della conclusione del contratto a beneficio dello
stipulante ,salvo che risulta diversamente dalla volontà delle parti o dalla natura del contratto - si pensi al contratto di servitù o a quelli di
intuitu personae - in tal caso il contratto si scioglie per impossibilità sopravvenuta dell’adempimento.

L’adesione alla stipulazione attribuisce al terzo definitivamente la titolarità del diritto ma non del rapporto contrattuale che fa sempre capo
al contraenti (stipulante e promittente) a differenza del caso di riserva di nomina laddove il nominato diviene parte del contratto.
Pertanto i contraenti non potranno disporre di diritto stesso mediante novazione, mutuo dissenso o cessione a terzi, ma potranno far valere
l’invalidità, essendo rilevanti i loro stati soggettivi in caso di annullamento, e la risoluzione che invece è preclusa al terzo.

Il terzo in quanto titolare di diritto, ma non del rapporto, potrà agire contro il promittente per l’adempimento della prestazione per i
risarcimento danni. Di comportamenti illeciti del terzo non può invece rispondere lo stipulante.
 In sede di adempimento il promittente può opporre al terzo le eccezioni fondate sul contratto dal quale il terzo deriva il proprio
diritto ma non quelle fondate su altri rapporti con lo stipulante (ad esempio compensazione) (Art. 1413).

Per quanto riguarda la prestazione completamente deducibile, giurisprudenza e dottrina dominanti affermano che non esistono limiti
riguardanti la qualità e il contenuto dell’attribuzione al terzo ,pertanto è anche concepibile un contratto traslativo a favore di terzo al
riguardo si è però obiettato che il contratto a favore di terzo non tollera oneri e obblighi a carico del terzo un diritto di chi a carico del terzo,
cosicché non è possibile a prescindere da una espressa accettazione, trasferire nel suo patrimonio diritti reali quali quelle di proprietà e di
usufrutto che comportano oneri di gestione e di custodia. A ben vedere sarebbero irrilevanti gli oneri e gli obblighi collegati alla proprietà,
come quelli fiscali o di manutenzione, che comunque incidono solo sul valore del cespite.

TRASCRIZIONE: se il trasferimento ad oggetto beni immobili o mobili registrati, il contratto sarà suscettibile di trascrizione, con
eventuale annotazione o della revoca o di rifiuto.
 L’adesione non è invece suscettibile di trascrizione perché non viene incidere sulla produzione degli effetti reali ma solo sulla
possibilità di revoca da parte dello stipulante o di rifiuto da parte del terzo, non più possibile dopo l’adesione, per consumazione del
relativo potere (Gazzoni).

Dal contratto in favore di terzo originano due diversi spostamenti patrimoniali che pongono il problema della giustificazione causale.
1)Da un lato deve giustificarsi il fatto che beneficiario della prestazione sia un terzo che non è parte del contratto → l’Art. 1411
stabilisce che intanto la stipulazione è valida in quanto lo stipulante vi abbia un interesse, anche di natura esclusivamente morale o
affettiva .L’interesse non può mai mancare, la sua assenza determina la nullità della stipulazione in favore del terzo.
L’interesse dello stipulante si spiega con il fatto che tramite il contratto in favore di terzo, egli può estinguere una preesistente
obbligazione nei confronti del terzo stesso ovvero può eseguire una controprestazione a fronte di una prestazione che il terzo compie nei
suoi confronti sulla base di un altro contratto. Infine lo stipulante può operare una liberalità in questo caso il contratto a favore di terzo
non deve rivestire la forma della donazione ma quella propria del contratto concluso in quanto con esso si realizza una donazione indiretta
ex Art. 809 → quindi per accertare l’esistenza della portata dell’interesse dello stipulante deve dunque aversi riguardo al cosiddetto
rapporto di valuta che intercorre con il terzo.
Anche il terzo deve avere un interesse in termini oggettivi all’attribuzione in proprio favore, quindi interesse dello stipulante e interesse
del terzo finiscono per coincidere sul piano funzionale nel senso che entrambi sono soddisfatti dalla prestazione eseguita dal promittente,
infatti entrambi possono agire contro il promittente per l’esecuzione della prestazione.

2)Dall’altro si deve giustificare il rapporto che nasce tra promittente e stipulante → deve sussistere un interesse del promittente con
riguardo all’eventuale rapporto di provvista che lo lega allo stipulante. Il promittente con la stipulazione può infatti estinguere
un’obbligazione che preesisteva nei confronti dello stipulante ,assumere obbligazione dietro corrispettivo, ma può anche compiere un atto
di liberalità.

In tal caso si discute circa la necessità o meno della forma dell’atto pubblico, tipica della donazione:
– La dottrina è generalmente in senso favorevole perché la forma forte sostituirebbe la causa debole garantendo l’attribuzione contro il
rischio dell’astrattezza causale che renderebbe nullo il contratto.
– In senso contrario va sottolineato che non ricorre nella fattispecie una delle caratteristiche tipiche della donazione e cioè
l’arricchimento in senso tecnico del donatario dal momento che il contratto a favore di terzo non arricchisce il patrimonio dello
stipulante ma di un terzo estraneo al rapporto.
Se la prestazione deve essere fatta al terzo post mortem dello stipulante - tipico il caso dell’assicurazione sulla vita - questi può revocare
il beneficio anche con una disposizione testamentaria pure se il terzo abbia dichiarato di volerne profittare, con atto unilaterale che deve
essere comunicato al promittente o, secondo un altro impostazione,con un accordo bilaterale con il terzo non necessariamente al titolo
gratuito e comunque esterno ed autonomo rispetto al contratto. → La prestazione deve essere eseguita a favore degli eredi del terzo se
questi premuore allo stipulante.

Il contratto a favore di terzo presenta un meccanismo analogo a quello di alcune fattispecie legali tra cui l’accollo esterno,in cui l’adesione
del creditore determina l’ irrevocabilità della stipulazione in suo favore. L’accollo nasce infatti come interno e solo eventualmente è
portato a conoscenza del creditore, là dove il contratto a favore di terzo produce immediatamente effetti per costui , e solo in caso di
revoca o di rifiuto può avere efficacia interna.
Diverso dal contratto a favore di terzo è il contratto con prestazioni da eseguire ad un terzo, che non produce effetti immediati nel
patrimonio di questo e non gli attribuisce la qualità di creditore.E’ il caso della delegatio solvendi con divieto per il delegato di adempiere
obbligandosi verso il creditore (Art. 1269).
Va infine segnalato che il contratto può avere ad oggetto una pluralità di prestazioni, in cui accanto ed oltre al diritto alla prestazione
principale è garantito rimane esigibili un ulteriore diritto, di carattere accessorio e derivante dai doveri di protezione, a che non siano
arrecati danni ai terzi estranei al contratto. Si parla in tal caso di contratti con effetti protettivi a favore di terzi, nell’ambito dei quali, in
caso di inadempimento della prestazione accessoria, può agire non solo la controparte, nella quale permanga un interesse attuale, ma anche
soprattutto il soggetto a protezione del quale è posta quella regola pattizia, ad esempio i familiari di fatto conviventi con il portiere hanno
azione contrattuale di danni contro il condominio che aveva fornito al portiere stesso un alloggio umido e malsano.

La promessa del fatto del terzo


Art. 1381 c.c.: colui che ha promesso l’obbligazione o il fatto del terzo è tenuto ad indennizzare l’altro contraente se il terzo si rifiuta di
obbligarsi o non compie il fatto promesso. Questa è in sostanza un’ipotesi esattamente opposta a quella del contratto a favore di terzo. In
questo caso, infatti il terzo non è destinatario di vantaggi ma dovrebbe assumere obbligazioni o tenere comunque un dato
comportamento.
La promessa essendo contenuta in un contratto si distingue dalla promessa unilaterale prevista dal Art. 1987, che attiene ad una
prestazione che deve essere compiuta dallo stesso promittente e non da un terzo. Si è quindi in presenza di un fenomeno analogo a quello
che la dottrina ha individuato con l’espressione contratto sul patrimonio del terzo, tra cui vi rientra tipicamente la vendita di cosa altrui e la
concessione di ipoteca su beni altrui, in entrambi i casi infatti il contratto produce effetti solo se il terzo liberamente decide di alienare il
bene o di ipotecarlo.
 La dottrina inquadra in chiave oggettivistica la fattispecie nell’ambito dei contratti di garanzia. L’obbligazione del promittente
garante sarebbe condizionata al mancato comportamento del terzo, ponendosi in primo piano la prestazione di indennità piuttosto che la
prestazione del terzo. → E’ evidente la differenza rispetto alla fideiussione, dove l’obbligazione del terzo debitore quella assunta dal
fideiussore hanno identico contenuto e la prima preesiste alla seconda.
 Secondo altra impostazione, si è in presenza di una autonoma obbligazione-non di garanzia vista l’assoluta estraneità del terzo
avente ad oggetto un facere, più precisamente il comportamento volto a favorire l’assunzione dell’obbligazione o il compimento del
fatto da parte del terzo. Si tratterebbe di un’obbligazione di mezzi e non di risultato, in realtà la responsabilità del promittente sorge
per il semplice rifiuto del terzo, a prescindere dallo sforzo di diligenza, pertanto l’obbligazione del promittente deve configurarsi quale
obbligazione di risultato.

La tesi che spiega perché la promessa si estingue in caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione del terzo, distingue tra
risarcimento e indennità:
– il promittente risponde per inadempimento dell’obbligo di fare, cioè di adoperarsi affinché il terzo non rifiuti, e quindi deve risarcire il
danno, se l’inesecuzione da parte del terzo sia lui imputabile secondo i criteri comuni, compreso un nesso di causalità
– gli dovrà solo corrispondere l’indennizzo, se l’ inesecuzione non è a lui imputabile.

La promessa può essere isolata, configurandosi quindi come promessa unilaterale ex Art. 1333, ed è giustificata solo se risponde
all’interesse patrimoniale del promittente dovendo altrimenti rivestire la forma donativa. Può anche essere contrattuale se è previsto un
corrispettivo o se essa si inserisce nel contenuto di un altro contratto a prestazioni corrispettive. La forma, se non donativa, è sempre
libera.. Il fatto del terzo, contenuto nella promessa può essere vario, può infatti consistere nell’assunzione di una qualsivoglia obbligazione,
nella stipulazione di un negozio, in un comportamento materiale, che avrà in sé la propria giustificazione causale. Inoltre se la promessa ad
oggetto l’adempimento di un’obbligazione già assunta dal terzo nei confronti del promissario non rientra nell’ipotesi ex Art. 1381, potrà
configurarsi una fideiussione, se è ravvisabile una funzione di garanzia .
L’indennità che il promittente deve al promissario in caso di rifiuto del terzo consiste nel pagamento di una somma pari al valore
dell’utilità non conseguita dal promissario stesso ed è liquidata equitativamente. Si esclude che il promittente debba adempiere la
prestazione luogo del terzo. L’indennità può essere fissata pattiziamente senza possibilità di ridurla ex Art. 1384.
Se la promessa si inserisce nel contesto di un contratto a prestazioni corrispettive, condizionandolo funzionalmente, l’autonomia dei negozi
viene meno, cosicché eventuale inadempimento del terzo è inadempimento del promittente con risarcimento del dovuto.
La promessa non è valida, per vizio della causa, se il terzo non è identificato o se essa ha ad oggetto la funzione di un’obbligazione
invalida per illiceità, impossibilità o indeterminatezza. Se il terzo è incapace, la promessa è valida se questa incapacità era nota alle parti,
altrimenti sarà impugnabile per errore. Se invece l’incapacità del terzo sopravviene non potrà assumere rilievo il rifiuto e quindi la
promessa sarà caducata.
10. I VIZI DELLA VOLONTÀ
La volontà di un soggetto a concludere un contratto deve formarsi in modo libero e consapevole. Talvolta, intervengono sul processo di
formazione della volontà dei vizi, errore, dolo o violenza, i quali non determinano la nullità del contratto, bensì la sua annullabilità. L’Art.
1427 c.c. dispone che l’errante, ossia colui che subisce il dolo o la violenza, può in ogni caso chiedere l’annullamento del contratto, ma
secondo modalità e sulla base di presupposti diversi.
Può accadere che in alcuni casi vi sia divergenza tra voluto e dichiarato, nel senso che c’è la dichiarazione ma non la volontà: è l’ipotesi di
contratto concluso da un infante che ignora il significato delle parole, di violenza fisica, di dichiarazione ioci o docenti causa, di riserva
mentale, di errore ostativo (che cade sulla dichiarazione o trasmissione). In particolare l’errore ostativo è stato assimilato dal legislatore
all’errore vizio sottoponendolo alla medesima disciplina, Art. 1433 c.c., proprio perché il legislatore ha dato rilevanza alla dichiarazione
più che alla volontà, per una maggiore tutela dell’affidamento del non errante.
 La dichiarazione emessa da un infante o per coazione fisica non è imputabile giuridicamente al soggetto, mentre quella ioci o
docenti causa è irrilevante: in questi casi il contratto è nullo per difetto di accordo o di causa.

Diversa è invece l’ipotesi della simulazione, perché non vi è discordanza tra voluto e dichiarato, ma l’intera vicenda fa capo alla volontà dei
contraenti sia riguardo il contratto simulato che quello dissimulato.
La disciplina dei vizi della volontà riguarda solo le ipotesi in cui la volontà sussiste e non è ravvisabile alcuna divergenza rispetto alla
dichiarazione, ma tale volontà non si è formata correttamente per l’intervento di fatti ed azioni che hanno influito sulla determinazione
finale del contraente: la volontà dichiarata e la volontà ipotetica non coincidono.

L’errore
L’errore, in presenza dei requisiti di legge, rende il contratto ANNULLABILE su istanza della parte che lo impugna. L’errore può essere
di due tipi:
1. errore vizio (o errore motivo): corrisponde ad una falsa rappresentazione della realtà che ha sviato il soggetto e lo ha indotto a
contrarre sulla base di una volontà non corrispondente alle sue effettive intenzioni (es. chi acquista un oggetto di bronzo reputandolo
d’oro); la dichiarazione è voluta, sia pure in base ad una volontà difforme da quella ipotetica.

2. errore ostativo: cade sulla dichiarazione o trasmissione da parte della persona o ufficio che ne è stato incaricato (es. errore di
trasmissione telegrafica dovuto al fatto che il dichiarante scrive erroneamente il testo della propria dichiarazione, oppure l’impiegato lo
trascrive male); la dichiarazione è del tutto divergente dalla volontà del soggetto.
Dall’errore ostativo si distingue la falsa demonstratio, che consiste nell’indicazione erronea di una persona o di un bene quando, tra
l’altro, non vi è incertezza in ordine alla sua identificazione: tale certezza rende l’erronea indicazione del tutto irrilevante.

La legge tutela l’errante quando l’errore sia:


a) RICONOSCIBILE: quando, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto o alla qualità dei contraenti, un soggetto di
normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo, in quanto palese (Art. 1431 c.c.);
La ratio dell’Art. 1431, è quella di tutelare l’affidamento del terzo ed è per questo che la giurisprudenza ritiene irrilevante il requisito
della riconoscibilità quando l’errore sia comune alle parti, ovvero quando l’errore abbia inciso sulla formazione della volontà del terzo
cui le parti avevano deferito il compito di determinare un elemento contrattuale.

b) ESSENZIALE: quando è tale da determinare la parte a contrarre, e riguarda ipotesi tipiche:


– la natura o oggetto del contratto
– l’identità o qualità dell’oggetto della prestazione
– l’identità o qualità dell’altra parte contraente
– trattandosi di errore di diritto, quando sia stato la ragione unica o principale del consenso: la rilevanza dell’errore di diritto non
viola il principio dell’ignorantia legis non excusat, in quanto sul piano della corretta formazione della volontà, la legge va riguardata
come un fatto giuridico ogniqualvolta un soggetto si è indotto a contrarre ignorando una certa situazione esterna, configurata da una
norma che abbia avuto incidenza diretta ed immediata → in tal caso non si perviene ad una disapplicazione normativa, bensì si
evitano attraverso l’annullamento le conseguenze ulteriori che deriverebbero dalla norma stessa, per il fatto che possa incidere
negativamente sul processo volitivo.
È necessario, tuttavia, circoscrivere l’ambito di rilevanza dell’errore di diritto: l’errore sulla denominazione o qualificazione
giuridica del contratto è irrilevante, salvo che si risolva in errore di fatto sulla natura del contratto.
Inoltre, non si può attribuire all’errore di diritto un ambito di operatività maggiore rispetto all’errore di fatto: l’errore di diritto non
solo dovrà essere determinante del consenso, ma dovrà essere essenziale per la natura del contratto o per il profilo soggettivo o
oggettivo, per cui il motivo individuale risulterà di per sé irrilevante. Sarà invece rilevante, il motivo riconoscibile ed inscindibilmente
legato al contenuto del contratto che si conclude.
Al di fuori del collegamento con l’oggetto o il soggetto del contratto, l’errore di diritto è sempre irrilevante.

L’errore di calcolo (Art. 1430 c.c.) dà luogo solo a rettifica, e non anche all’annullamento, in quanto secondo la giurisprudenza, rileva
solo come errore nelle operazioni aritmetiche ripercotendosi sul risultato finale. L’errore di calcolo non deve essere determinante, perché
altrimenti costituirebbe errore sulla quantità e come tale comporterebbe l’annullabilità del contratto; ma ad ogni modo deve essere
riconoscibile, cosicché sarà irrilevante nel caso in cui il prezzo sia stato offerto senza alcuna specificazione dell’operazione matematica.

La rettifica è un rimedio di cui può avvalersi solo l’errante e non anche la controparte. L’Art. 1432 stabilisce che la parte caduta in errore
non può domandare l’annullamento del contratto se prima la controparte non ha provveduto a modificarlo rendendolo conforme al
contenuto programmato. La rettifica costituisce applicazione del principio di conservazione del contratto e del principio di buona fede: la
parte caduta in errore può rifiutare la rettifica solo nel caso in cui, a causa di eventi sopravvenuti, possa riceverne un pregiudizio.

Dolo
Il dolo è ogni artifizio o raggiro con cui un soggetto induce un altro soggetto in errore, determinandolo a porre in essere un negozio che
altrimenti non sarebbe stato concluso o lo sarebbe stato a condizioni diverse: si parla più precisamente di dolo contrattuale o negoziale, per
distinguerlo dal dolo, quale elemento psicologico che può caratterizzare il comportamento di un soggetto.
Il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati dal deceptor sono stati tali che senza di essi il deceptus non avrebbe
concluso il contratto.
Il raggiro è ogni avvolgimento subdolo della psiche altrui tale da indurre in errore, mentre l’artificio è una finzione a dare ad altrui una falsa
percezione della realtà. Il dolo quindi vizia la volontà agendo sull’intelligenza mediante l’inganno, e lede la libertà negoziale della vittima.
 tra raggiri e conclusione del contratto deve sussistere uno stretto NESSO DI CAUSALITÀ, mentre è irrilevante lo scopo ulteriore
che si prefigge il deceptor e l’eventuale mancanza di danno

Si distingue tra dolus bonus e dolus malus.


a) il dolus malus è propriamente quello che vizia il contratto e consiste nel raggirare un soggetto;
b) il dolus bonus, invece, consiste nella semplice esaltazione pubblicitaria, che di regola in ambito commerciale si fa della propria
merce; e poiché tutti possono valutare opportunamente tale pubblicità, il dolus bonus non è considerato dolo in senso stretto e non
comporta l’annullamento del contratto.

Il dolo può essere commissivo o omissivo, determinante o incidente.


– Il dolo commissivo ricorre quando l’induzione in errore è conseguente ad un comportamento attivo della controparte o di terzi;
– Il dolo omissivo consiste nella menzogna, ossia l’induzione in errore attraverso una falsa affermazione, o nella reticenza, cioè la
omissione della comunicazione di una cosa vera;

– Il dolo determinante è quello senza il quale il negozio non si sarebbe concluso e determina l’annullabilità del contratto con annessa la
responsabilità precontrattuale dell’autore del dolo a risarcire il danno;
– Il dolo incidente, invece, è quello senza il quale il negozio sarebbe stato ugualmente concluso ma a condizioni diverse, per cui il
contratto resta valido ma il contraente in mala fede è tenuto a risarcire il danno.
Costituisce dolo, sempre che si accompagni ai raggiri, la reticenza, che consiste nel tacere circostanze che avrebbero indotto la controparte
a non contrattare e che dovevano essere chiarite in base al dovere di agire secondo buona fede.
Nel caso del dolo, rilevano anche i motivi, che invece sono irrilevanti in casi di errore: i motivi costituiscono nel dolo la spinta alla
contrattazione, su cui incide il raggiro, con nesso di causalità. Pertanto, la tutela del deceptus è più intensa rispetto all’errante, tant’è vero
che alcuni negozi sono impugnabili per dolo e non anche per errore: il comportamento del deceptor è di per sé un illecito che obbliga a
risarcire il danno, a prescindere dall’azione di annullamento.
Ai fini del risarcimento rileva anche il dolo del terzo, che usi raggiri per indurre una parte a contrarre con un altro soggetto, ma
l’annullamento può essere chiesto solo se i raggiri erano noti all’altro contraente.

Violenza
La violenza, intesa come violenza morale, consiste nella minaccia di un male ingiusto e notevole, posta in essere per indurre un soggetto a
stipulare un contratto. Il male minacciato deve essere:
a) notevole, nel senso che la gravità del male deve essere valutata in astratto con riferimento ad una persona sensata, allo scopo di
evitare che un soggetto ragionevolmente equilibrato determinare un vizio del consenso anche sotto minaccia irrisoria;
b) ingiusto, nel senso che generalmente l’ingiustizia attiene al mezzo utilizzato per la minaccia e può essere determinata secondo i
criteri generali sull’individuazione dell’illecito; ma deve anche essere diretto alla persona o ai beni dello stesso contraente.

La violenza come vizio del volere si identifica nella COAZIONE PSICOLOGICA: si parla di vis compulsiva, di violenza morale, per
distinguerla dalla violenza fisica, che impedisce la stessa imputabilità dell’atto al suo apparente autore, determinandone la nullità.
La violenza è causa di annullamento anche se esercitata da un terzo: in tal caso, a differenza del dolo del terzo, è irrilevante se il
contraente ne sia stato informato, mentre ciò che conta è esclusivamente il nesso di causalità che deve sussistere tra violenza e conclusione
del contratto. Secondo l’Art. 1436 la violenza è causa di annullamento anche quando il male minacciato riguarda la persona o i beni del
coniuge del contraente, di un suo discendente o ascendente; se invece, il male minacciato riguarda altre persone, l’annullamento del
contratto è rimesso alla prudente valutazione delle circostanze da parte del giudice. Non costituisce causa di annullamento il solo timore
reverenziale, ossia quello che incute una persona a causa della sua età, fama o per particolari rapporti personali.

L’Art. 1438 prevede l’annullamento del contratto anche nel caso in cui un soggetto minaccia di far valere un proprio diritto, mirando a
conseguire un vantaggio ingiusto, che si configura quando il fine ultimo perseguito consiste nella realizzazione di un risultato diverso da
quello conseguibile con l’esercizio del diritto: l’ordinamento intende colpire la strumentalizzazione dell’esercizio del diritto, e non
l’esercizio in sé.
11. LA SIMULAZIONE

Gli effetti tra le parti


La simulazione del contratto ha luogo quando le parti contraenti, d’accordo, pongono in essere deliberatamente dichiarazioni difformi dal
loro reale volere, nel senso che le parti pongono in essere un negozio del quale non vogliono gli effetti, o comunque vogliono realizzare
effetti diversi da quelli tipici del negozio posto in essere → apparenza contrattuale creata intenzionalmente: vi è divergenza tra
l’apparenza creata concordemente dalla volontà delle parti ed il diverso nascosto volere dei soggetti, i quali vogliono l’atto apparente ma
non i suoi effetti.
La dottrina ha elaborato varie ricostruzioni sulla simulazione:
a) Secondo una prima impostazione, il fenomeno simulatorio consisterebbe in una divergenza tra volontà e dichiarazione: le parti
non vogliono produrre alcun effetto, oppure vogliono produrre effetti diversi rispetto a quelli derivanti dalla dichiarazione.
b) In senso opposto, invece, si è sottolineato che la volontà delle parti mira a porre in essere l’intero congegno simulatorio: non può
dirsi che il negozio simulato non sia voluto, avendo la funzione di creare l’apparenza → sussistono due volontà, distinte ma collegate,
per cui gli effetti interni ed esterni del regolamento contrattuale, essendo difformi sono disciplinati separatamente (Artt. 1414, 1415, 1416
c.c.).
c) Secondo altra dottrina, la simulazione va spiegata sotto il profilo causale: il negozio simulato, infatti è privo di causa, perché sul
piano del concreto interesse perseguito, le parti hanno escluso la produzione di ogni effetto, mentre il contratto effettivamente voluto
(simulazione relativa) avendo una propria causa, è valido ed efficace → secondo questa teoria, non si deve seguire la strada
dell’incompatibilità tra la causa tipica del negozio simulato ed intento effettivo delle parti, bensì bisogna considerare che il negozio
simulato e l’effettivo intento delle parti sono tra loro collegati, perché mirano ad un unico risultato.

Gli elementi della simulazione sono due:


1) contratto (simulato) posto in essere con tutte le formalità del caso
2) accordo simulatorio tra le parti destinato a rimanere segreto, con il quale si stabilisce la natura fittizia del contratto posto in essere ed
eventualmente si determina il contenuto del contratto realmente voluto.

Con riguardo alla natura negoziale, si è discusso se l’accordo simulatorio fosse di per sé idoneo a creare, modificare o estinguere un
rapporto obbligatorio. Accanto alla dottrina che sostiene che l’accordo sia una mera dichiarazione di scienza, si pongono coloro che
sostengono la natura negoziale dell’accordo: esiste un collegamento tra accordo e negozio simulato, dove il primo mira ad eliminare o
modificare gli effetti che il secondo produce sul piano strutturale → si parla infatti di clausola accessoria del negozio.
Vi sono due forme di simulazione:
a) simulazione assoluta: ha luogo quando le parti pongono in essere un dato contratto, ma in realtà non vogliono alcun tipo
di contratto (es. simulazione della vendita di beni per sottrarli all’esecuzione forzata)
b) simulazione relativa: ricorre quando le parti stipulano un contratto simulato, ma in realtà ne vogliono uno diverso, che
copre il primo, detto contratto dissimulato, contenuto nelle contro dichiarazioni.

In caso di simulazione assoluta, il contratto simulato non produce effetti. Secondo la dottrina prevalente, il negozio simulato sarebbe nullo
nei rapporti tra le parti → in realtà non può parlarsi di nullità, perché uno stesso negozio non può essere nullo tra le parti ed efficace per i
terzi che non ne subiscano pregiudizio: si parla allora di inefficacia originaria del negozio, per cui il negozio non produce effetti non solo
tra le parti ma anche nei confronti dei terzi, qualora la vicenda simulatoria arrechi loro pregiudizio. L’unica eccezione è costituita
dall’ipotesi di terzi in buona fede non danneggiati dall’accordo simulatorio, per cui il negozio avrà un’efficacia relativa nei loro confronti.
In caso di simulazione relativa, invece, il contratto simulato non produce effetti, mentre il contratto dissimulato, in quanto voluto, produce
i suoi effetti se è lecito e redatto per iscritto, se la legge lo prevede. Il negozio dissimulato non ha una propria autonomia, essendo legato al
negozio simulato da un nesso di compenetrazione: pertanto, i requisiti di sostanza e forma del negozio dissimulato, ai fini della sua
efficacia, devono essere rispettati anche dal negozio simulato.
 se il negozio dissimulato è nullo, è esclusa la possibilità di convertirlo in quello simulato, che non può in alcun caso produrre nei
rapporti tra le parti; così come è esclusa l’ipotesi di convalida o di esecuzione volontaria.

La simulazione relativa, inoltre, può essere:


a) oggettiva, quando riguarda la natura del negozio (es. si simula la vendita di un bene oggetto di donazione), o anche un suo
elemento, come l’oggetto, il prezzo, un elemento accidentale.
b) soggettiva, in tal caso si parla anche di interposizione fittizia, che si verifica quando la parte sostanziale del contratto è diversa da
quella che appare e che invece presta solo il nome; l’adesione del terzo è necessaria, dovendo questi essere consapevole della funzione
meramente figurativa del contraente interposto, e manifestare quindi la volontà di contrarre con l’interponente.
 Talvolta, l’interposizione fittizia è presunta dalla legge, come nel caso delle disposizioni testamentarie in favore di genitori,
coniuge, discendenti di persona incapace a ricevere.
 L’interposizione fittizia si distingue dall’interposizione reale, che si verifica quando l’accordo è sempre e solo bilaterale tra
interposto ed interponente, con assoluta e totale estraneità del terzo contraente → infatti tale figura negoziale è analoga al mandato
senza rappresentanza, che obbliga il mandatario al ritrasferimento in caso di acquisti immobiliari e fa acquistare immediatamente la
proprietà al mandante in caso di beni mobili.
Effetti rispetto a terzi
La simulazione determina in capo all’acquirente simulato una situazione di apparente titolarità, di cui egli potrebbe approfittare alienando a
terzi il bene di cui appare proprietario: questi terzi sono detti subacquirenti o aventi causa dell’acquirente simulato. In tal caso sorge un
conflitto tra subacquirente ed alienante simulato, i quali cercheranno entrambi di far valere i propri diritti.
 Se tuttavia i terzi hanno acquistato in buona fede, intesa quest’ultima come totale ignoranza della simulazione, la simulazione non è
loro opponibile, per cui i terzi diventano effettivi titolari del bene e l’apparente alienante può solo chiedere il risarcimento del danno
all’apparente acquirente.

Rapporti con i creditori


La simulazione può produrre i suoi effetti anche nei confronti dei creditori del simulato alienante, che ad esempio simula la vendita di un
bene per sottrarlo all’esecuzione forzata, o nei confronti del simulato acquirente, i quali non possono vantare alcun diritto sul bene oggetto
di un’alienazione simulata, in quanto in realtà tale bene non è entrato nella titolarità del soggetto → quest’ultimi sono tuttavia tutelati se
hanno compiuto atti di esecuzione, come il pignoramento, in buona fede.
In caso di conflitto tra due creditori chirografari, un creditore del simulato alienante pregiudicato, nonostante il credito non sia liquido ed
esigibile, ed un creditore del simulato acquirente, prevarrà il creditore del simulato alienante se il credito è precedente all’atto simulato →
perché questi, al momento della nascita del rapporto obbligatorio, poteva far affidamento sull’esistenza del bene nel patrimonio del
debitore. Fa eccezione il caso dei beni immobili e beni registrati, per i quali si segue il criterio della trascrizione (Art. 2652).
 Se il creditore del simulato acquirente ha un privilegio speciale, prevarrà sempre nei confronti del creditore chirografario del
simulato alienante, avendo acquistato un diritto specifico sul bene, salvo il caso in cui ricorrano gli estremi dell’Art. 1415 (es. ipoteca
costituita in favore di creditore in mala fede).
 Si discute, invece, sul caso del creditore avente privilegio generale, che nasce ex lege in favore di certe categorie di creditori
sull’insieme del patrimonio mobiliare del debitore, quando uno di tali beni sia stato acquisito al patrimonio del debitore stesso
simultaneamente → in tal caso il creditore del simulato acquirente non è né chirografario, né è titolare di un diritto su uno specifico
bene.

Ambito di applicazione
La simulazione può essere applicata nei contratti e nei negozi unilaterali, ma limitatamente agli atti unilaterali destinati ad una determinata
persona (Art. 1414 co. 3). In dottrina si sostiene che la norma si riferisca anche ai negozi non recettizi, qualora esista un controinteressato
ben individuato, potendo tra questi e l’autore del negozio intercorrere un accordo simulatorio. Altri, invece, restringono l’ambito di
applicazione della norma ai soli negozi unilaterali recettizi, in cui l’interessato sia non l’autore del negozio bensì il destinatario.
Non è configurabile la simulazione della cambiale, per irrilevanza del rapporto sottostante per i terzi, né di una società di capitali, in quanto
si dà vita ad una autonoma persona giuridica, attraverso la quale conseguire determinati risultati voluti. Anche per quanto riguarda gl’atti
giuridici in senso stretto, deve escludersi la possibilità della simulazione, perché in tal caso gli effetti sono ricollegati dalla legge
automaticamente e immediatamente al verificarsi dell’atto. Tuttavia, in alcuni casi la portata dell’atto, pur essendo non negoziale, dipende
dall’autore e quindi si ammette la simulazione (es. quietanza e confessione).
L’azione di simulazione
L’azione di simulazione ha natura di accertamento negativo dell’inefficacia assoluta del contratto simulato:
– in caso di simulazione assoluta → è imprescrittibile;
– in caso di simulazione relativa, occorre distinguere:
a) se c’è interposizione fittizia, poiché non si mira a far riconoscere gli elementi costitutivi di un diverso negozio, ma ad
accertare il vero contraente → l’azione è imprescrittibile;
b) se mira all’accertamento dell’eventuale nullità del negozio dissimulato → è imprescrittibile;
c) se invece mira a far valere il negozio dissimulato di per sé valido → la giurisprudenza ritiene che l’azione di simulazione
sia soggetta alla prescrizione ordinaria, decennale

Con riferimento ai mezzi di prova per agire in giudizio, occorre distinguere due ipotesi: nel caso in cui sia una parte ad agire contro l’altra,
per ottenere l’accertamento della simulazione e l’adempimento del contratto dissimulato, occorre esibire la scrittura che documenta
l’accordo simulatorio, in mancanza della quale la simulazione può essere provata mediante confessione e giuramento, mentre testimonianze
e presunzione sono valide solo ai fini della liceità del contratto dissimulato.
 Invece, nel caso in cui è un terzo ad agire in giudizio per accertare la simulazione, è sempre consentito il ricorso a qualsiasi mezzo e
senza limiti, proprio perché è quasi impossibile per il terzo procurarsi l’atto che documenta l’accordo simulatorio.
Il negozio fiduciario
Si parla di negozio fiduciario quando un soggetto si accorda (pactum fiduciae) a trasferire un diritto ad un altro soggetto con l’obbligo per
quest’ultimo di esercitarlo in maniera determinata e non altrimenti (es. un soggetto, in periodo di persecuzioni politiche, trasferisce un bene
con l’obbligo a carico del fiduciario di ritrasferirgli il bene a semplice richiesta): consiste o nell’incarico di far godere ad altri il beneficio
dell’atto (fiducia cum amico), o nella prestazione di una garanzia reale (fiducia cum creditore); vi è comunque la possibilità di abuso del
fiduciario che potrebbe rifiutarsi di effettuare il ritrasferimento.
 La fiducia è diversa dalla simulazione assoluta, non producendosi l’effetto traslativo. I due istituti si distinguono anche nel caso in
cui nella simulazione assoluta il titolare apparente alieni il bene a terzi, i quali se in buona fede faranno salvo il proprio acquisto, come
avviene anche per i terzi acquirenti dal fiduciario. In tal caso, però la buona fede non rileva perché il fiduciario è proprietario e la
limitazione derivante dal pactum fiduciae è inopponibile ai terzi.

Il fiduciante, in caso di inadempimento, può agire per l’esecuzione specifica della prestazione, se ne ricorrono gli estremi trascrivendo la
domanda, da notificarsi entro 10 anni dal rifiuto del fiduciario, per ottenere il trasferimento coattivo del bene immobile (e prevalere su
coloro che hanno trascritto successivamente).

L’atto traslativo del fiduciante al fiduciario ha lo scopo di permettere a questi di amministrare il bene per poi ritrasferirlo, analogamente
all’atto con cui il mandante fornisce al mandatario la provvista per gestire l’affare, fermo restando che il fiduciario acquista la proprietà.
Non c’è, però, trasferimento nella cd. fiducia statica, che si distingue dalla fiducia dinamica perché il fiduciario è già titolare di una
situazione attiva, che con il pactum fiduciae, si obbliga a modificare.

Nel contratto fiduciario, la causa del contratto è leggermente diversa dallo scopo che le parti si propongono di perseguire, si dice pertanto,
che con il suddetto patto fiduciario, la causa ecceda i veri obiettivi per i quali il negozio giuridico è stato posto in essere.

Il TRUST
La mancanza, nel diritto civile, di un sistema di norme equitative non è di ostacolo all’utilizzo del trust. L’istituto trova anzi legittimazione
all’ingresso nell’ordinamento giuridico italiano a seguito dell’adesione dell’Italia alla Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985 resa
esecutiva ed in vigore dal 1 gennaio 1992.

Il trust è un particolare tipo di contratto con cui il settlor (costituente) trasferisce, con atto inter vivos o mortis causa, la proprietà di un
bene ad un soggetto fiduciario, il trustee, il quale tuttavia non ne ha la piena disponibilità, in quanto è vincolato da un rapporto di natura
fiduciaria che gli impone di esercitare il suo diritto reale a beneficio di un altro soggetto, detto appunto beneficiary (al quale saranno
trasferiti in piena proprietà i beni alla fine del trust), al quale appartiene il diritto di natura equitable. → Il diritto del beneficiario nei
sistemi di diritto civile non è un diritto reale, ma personale verso il trustee (non vi è nessuna doppia proprietà sul bene in trust).
 I beni, mobili o immobili, trasferiti al trustee in forza del trust non possono essere venduti né dal trustee né dal beneficiary, che
potranno operare una vendita solo con la cancellazione del trust e il trasferimento a loro della proprietà. I beni appartenenti a un trust non
possono essere oggetto di pignoramento, né da parte dei creditori personali del trustee né del beneficiary o di loro eredi.
Sono ormai numerose le sentenze di tribunali italiani di vario grado che riconoscono gli effetti del trust, con particolare riguardo al c.d.
trust interno, che presenta quale unico elemento di estraneità rispetto all’ordinamento italiano la legge regolatrice, che deve essere
necessariamente straniera (generalmente inglese), stante la mancanza nell’ordinamento italiano di norme specifiche in materia.

Esempio
Tizio prepara una disposizione testamentaria che prevede le seguenti clausole:
– nomina trustee il proprio avvocato Caio;
– dispone che il figlio Sempronio riceva i beni al raggiungimento del 18° anno di età.
All’apertura della successione si crea quindi un trust: l’avvocato Caio diviene trustee, mentre Sempronio diviene beneficiary. Tutti i
rapporti giuridici vengono intestati a Caio, il quale diviene pertanto proprietario degli immobili, intestatario dei conti bancari, e così via,
mentre Sempronio ha, secondo le regole del trust del modello inglese, la "equitable ownership"; secondo le regole giuridiche italiane, un
diritto di credito nei confronti di Caio, cioè il diritto di ricevere i beni in trust al compimento del 18° anno di età.
 Sempronio può godere dell’utilizzo dei beni e percepirne i frutti, mentre Caio -pur essendone proprietario- non può disporne in alcun
modo. Al raggiungimento del 18° anno da parte di Sempronio, Caio gli cederà i beni, e Sempronio ne diverrà pieno proprietario.
 Ovviamente le disposizioni testamentarie prevedranno che Caio, professionista di fiducia del de cuius, venga adeguatamente
retribuito per l’amministrazione dei beni. Può essere previsto che i diritti di godimento da parte di Sempronio siano adeguatamente
limitati: ad esempio egli potrebbe poter ricevere solo un assegno di importo prefissato, mentre i frutti eventualmente eccedenti
dovrebbero essere reinvestiti da Caio.

Differenze tra trust e negozio fiduciario


Si dice comunemente che il trust sia l’equivalente anglosassone del nostro mandato fiduciario di diritto continentale; ma le differenze sono
molto profonde: nel mandato fiduciario infatti la proprietà dei beni appartiene solo formalmente al fiduciario, che si obbliga ad obbedire a
tutte le disposizioni del fiduciante, ivi compreso l’eventuale ordine di restituzione degli stessi. Nel trust invece il trustee è pieno
proprietario del bene in trust vincolato nell’esercizio del proprio diritto dalle disposizioni contenute nell’atto di trust da esercitare
nell’interesse del beneficiary. Il trustee può alienare, permutare, dare a garanzia i beni in trust (alle condizioni del disponente e se ciò è
funzionale alle volontà espresse nell’atto di trust dallo stesso disponente). Rispetto ad un pieno proprietario egli non può distruggere la cosa
("salva substantia rerum"). La piena proprietà del trustee giustifica l’uso dello strumento ai fini di protezione e pianificazione successoria.
Il contraltare della protezione del bene in trust è la compressione del diritto di proprietà subita dall’apposizione di un vincolo a tutela di
interessi riconosciuti legittimi. Il trust dà garanzia di tutela giurisprudenziale ad un rapporto di fiducia che tipicamente è fuori dal mondo
delle leggi.

12. L’INVALIDITÀ

Invalidità e inefficacia
L’estinzione del contratto avviene in tutti i casi in cui questo perde definitivamente la propria efficacia; l’inefficacia può essere assoluta,
nel senso che il contratto non produce effetti in capo ad alcun soggetto, o relativa, ossia non produce effetti solo nei confronti di
determinate persone; o ancora può essere originaria, ad esempio la vendita sottoposta a condizione sospensiva, o successiva, che ha luogo
quando un contratto produce i suoi effetti ma questi per cause diverse vengono meno. Ancora, si distingue tra inefficacia pendente o
temporanea (es. negozio condizionato sospensivamente); inefficacia definitiva o permanente (es. simulazione assoluta); inefficacia totale
o parziale, a seconda dell’ampiezza del raggio d’azione.

L’inefficacia del contratto è distinta in due categorie:


a) l’inefficacia in senso stretto, che comprende tutte le ipotesi in cui la mancanza degli effetti derivi da un fattore estrinseco, ovvero
quando si verifica un’inettitudine transitoria del contratto a produrre i suoi effetti (es. un contratto valido non produce i suoi effetti
giacché è sottoposto a condizione sospensiva non ancora verificatasi) → il negozio è valido ma per un fatto esterno non produce i suoi
effetti.

b) l’inefficacia in senso ampio, che invece, riguarda tutti i casi in cui la mancanza di effetti deriva da un fattore intrinseco come un vizio,
che a sua volta può derivare:
 dalla mancanza nell’atto del minimo di elementi necessari alla sua esistenza, nel qual caso si ha la figura dell’inesistenza;
 dal fatto che il negozio pur essendo giuridicamente esistente, è manchevole o viziato nei suoi elementi o requisiti essenziali: in tal
caso si ha la figura dell’invalidità. Il codice disciplina due ipotesi di invalidità negoziale, la nullità e l’annullabilità, le quali
regolano vicende diverse così come sono diverse le conseguenze: se il negozio è nullo è del tutto inefficace, se invece è
annullabile produce effetti rimuovibili con una sentenza costitutiva con efficacia ex tunc tra le parti.

Il collegamento tra la fattispecie ed il fatto ulteriore che determina l’inefficacia, può essere:
a) collegamento strutturale: se il fatto ulteriore è un fatto impeditivo → si parla in tal caso di inefficacia originaria del
negozio, essendo gli effetti impediti fin dall’inizio.
Il collegamento può essere:
– necessario: quando la fattispecie non è intrinsecamente volta alla produzione degli effetti;
– accidentale: quando la fattispecie è intrinsecamente idonea alla produzione degli effetti, come nel caso del negozio
condizionato sospensivamente.

b) collegamento funzionale: quando il fatto è sopravvenuto e trae con sé conseguenze giuridiche proprie, che eliminano
quelle già prodotte dalla fattispecie (non si tratta di un fatto meramente impeditivo) → in tal caso l’inefficacia è successiva
Anche il collegamento funzionale può essere necessario (es. risoluzione, rescissione, revoca dell’atto di disposizione) o accidentale
(es. condizione risolutiva o termine finale).

Diversa è l’inesigibilità che si configura quando il creditore non può efficacemente pretendere l’adempimento di un’obbligazione anche se
nata da un contratto valido ed efficace. L’inesigibilità si atteggia alla stessa stregua della prescrizione.

La nullità
Nel codice civile manca una definizione ma il capo XI, titolo II libro IV prevede il regime ad essa applicabile. L’atto nullo è
improduttivo di effetti per un vizio strutturale. Si discute se questa regola tolleri eccezioni.
 In caso di risposta positiva si parla di qualificazione negativa,in caso di risposta negativa si parla di inqualificazione perché non c’è
nulla di giuridicamente rilevante. L’ espressione qualificazione è contraddittoria perché il termine qualificazione rimanda alla recezione
dell’atto dal piano sociale al piano giuridico perciò già espressione autonoma di qualificazione positiva. Avendo il negozio giuridico
rilevanza sociale nel momento in cui è dichiarato nullo in realtà il negozio non perde la sua rilevanza ma si nega la sua realizzazione.
Un negozio nullo è sempre un negozio, rimane rilevante sul piano sociale. Si parla invece di negozio inesistente quando non ha alcuna
rilevanza sociale.

Sul piano concettuale, un negozio nullo è inqualificato e dunque irrilevante sul piano giuridico. Le caratteristiche di irrilevanza e di
inqualificazione sono attribuite dalla dottrina della nullità, intesa come qualificazione negativa al negozio inesistente. Si ha inesistenza
quando il negozio è inidoneo a produrre effetti.

Cause di nullità → L’ Art. 1418 c.c. dispone che il contratto è nullo quando:
– sia contrario a norme imperative;
– se presenti un difetto strutturale o funzionale (manchi degli elementi essenziali causa, forma di cui all’Art. 1325; per illiceità della causa
o dei motivi, ecc);
– in caso di espressa previsione normativa di nullità legislativa.

Per quanto riguarda il difetto causale, ciò che può far difetto non è la causa ma il tipo contrattuale. L’illiceità discende da un giudizio di
disfavore normativo: ossia se è contrasto con una norma imperativa, l’ordine pubblico o il buon costume. L’ipotesi di illiceità va distinta
dalla generica illegalità, che si ha quando il contratto viola norme imperative secondo quanto previsto dall’Art. 1418 (nullità virtuale). In
effetti vige una distinzione tra nullità testuale, quella prevista dalla norma, e nullità virtuale, appunto quella che si ricava dalla ratio della
norma imperativa violata pur non essendoci espressa previsione.

Tale distinzione porta alla contrapposizione tra generica illegalità e specifica illiceità. L’illiceità porta sempre alla nullità al contrario della
legalità. Dalla violazione di una norma imperativa deriva la nullità quando la norma tutela interessi generali. La distinzione tra illegalità e
illiceità è molto importante in materia di contratto di lavoro per stabilire l’applicabilità dell’Art. 2126 ma non in caso di assunzione di
dipendenti pubblici.

Una classificazione delle nullità non è possibile, in quanto esse sono espressione del potere legislativo di comminare la nullità ogni qual
volta vi sia la violazione di una norma imperativa che tuteli un interesse rilevante. Ad esempio, la giurisprudenza ha ritenuto nullo, a tutela
della salute, il contratto di vendita di caffè, senza indicazione della scadenza, ed al contrario valido, il contratto con cui si pongono in
commercio uova da cova senza i dati indicati dalla l. 66/356 (non essendo la legge preordinata alla tutela generale della salute pubblica, ma
solamente al razionale e controllato svolgimento della produzione e del commercio).
– Non si ricorre alla nullità quando la legge assicura l’effettività della norma imperativa con la previsione di rimedi diversi di natura
penale o amministrativa ecc. Il contratto è nullo anche in altri casi espressamente previsti dalla legge (Artt. 1354 co 2 e 1355).
– Le clausole contrattuali nulle per contrarietà a norme imperative, in caso di successiva abrogazione delle norme stesse, non sono
suscettibili di reviviscenza, salvo che la legge non operi retroattivamente incidendo sulla qualificazione degli atti compiuti.

Si ritiene, invece, possibile la nullità sopravvenuta che consegue ad una mutata valutazione normativa relativa ai negozi ad effetti differiti
o sospesi da una parte e di durata dall’altra, operando ex nunc, e dunque sugli effetti futuri. Nel primo caso perché gli effetti non si sono
ancora prodotti, nel secondo caso per via analogica. Però parlare di nullità sopravvenuta è una contraddizione perché la nullità,
riguardando l’atto, non può che essere originaria.

La disciplina della nullità del contratto si caratterizza per il rigore delle norme applicate, che mirano ad assicurare effettiva tutela agli
interessi generali. L’Art. 1421 c.c. prevede che, salvo diversa disposizione di legge, può far valere la nullità chiunque vi abbia interesse
(legittimazione assoluta), essendo tutelati interessi superindividuali, e il giudice al quale i privati si siano rivolti per far valere quanto
pattuito. Il giudice può rilevarla d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, anche contro la volontà delle parti.
 Ciò deve avvenire nella controversia promossa per far valere i diritti che presuppongono la validità del contratto, nel rispetto di quel
potere-dovere del giudice di verificare la sussistenza delle condizioni dell’azione. Il giudice dovrà decidere nei limiti della domanda delle
parti e sulla base dei fatti dalle stesse allegate. Il giudice può rilevarla di ufficio in via incidentale anche quando la parte chiede
l’annullamento, la risoluzione o la rescissione del contratto perché non vi sono i presupposti per richiedere la nullità.

L’azione per far valere la nullità di un atto è imprescrittibile (Art. 1422) . Chiunque, legittimato ad agire, data la natura degli interessi
tutelati, può far valere la nullità in ogni momento, con un’azione di accertamento che porti il giudice a pronunciare una sentenza
dichiarativa di nullità.
La norma fa salvi gli effetti dell’usucapione e della prescrizione delle azioni di ripetizione, ciò che presuppone che il contratto, anche se
nullo, sia stato eseguito.
a) Quanto all’usucapione, matura quell’ordinaria ma non quella abbreviata. Per la prima basta il possesso protratto nel tempo e il titolo
nullo seguito da consegna per determinare l’impossessamento. Per la seconda è necessario che vi sia un titolo valido ed efficace.
b) Le azioni di ripetizione sono previste dall’Art. 2033,che stabilisce che in caso di contratto nullo, se sia stato ugualmente eseguito,
ciascuna delle parti deve restituire quanto indebitamente ricevuto (solutio indebiti). La prescrizione è decennale e si discute se essa inizia
a decorrere dalla sentenza o dal pagamento. Secondo la giurisprudenza però l’azione di ripetizione della prestazione eseguita sulla base di
un contratto nullo, non potrebbe essere iniziata qualora non sia possibile una restituzione di ciò che è stato prestato e ne conseguirebbe
che dovrebbe restare ferma anche la controprestazione.

La disciplina della nullità sancisce l’insanabilità del contratto nullo,ossia non consente che il contratto che nasce nullo possa diventare
valido, o si possa procedere ad una convalida mediante esecuzione, salvo diversa disposizione di legge (Art. 1423). La più importante
eccezione è prevista dall’Art. 799, che disciplina la conferma della donazione nulla: tale impostazione è da respingere in quanto si parla di
conferma e non di convalida. La conferma presuppone l’identità soggettiva tra autore della convalida e parte del contratto convalidato,
invece in caso di donazione nulla la legittimità a confermare spetta non al donante (che può solo convalidare l’atto) ma ai suoi eredi o
aventi causa dopo la morte.
Neanche il matrimonio putativo può essere considerata eccezione sul piano della pretesa efficacia dell’atto nullo perché innanzitutto non
può essere considerato un contratto, e poi perché gli effetti sono ricollegati non all’atto nullo ma alla più complessa fattispecie formato
dall’atto nullo, dalla esecuzione e dalla buona fede.

Si parla di sanatoria anche nell’ipotesi di trascrizione della domanda di nullità (Artt. 2652 n.6 e 2690 n.3) nel contesto della pubblicità
sanante. Ma tali norme regolano i conflitti con i terzi e non i rapporti tra le parti e riguardano la circolazione di beni immobili. Per cui in
nessun modo il contratto che è nullo tra le parti, può produrre di per sé effetti.

Nei confronti dei terzi, al fine di tutelare e garantire la certezza dei traffici, qualora un soggetto abbia acquistato con contratto valido un
bene immobile o mobile registrato da un altro soggetto, che precedentemente lo abbia acquistato con contratto nullo, l’originario venditore
non può esperire l’azione di nullità nei confronti del sub acquirente:
a) se questi avrà agito in buona fede ignorando la nullità del primo contratto;
b) se avrà, altresì, trascritto il proprio acquisto prima della domanda di nullità e siano trascorsi 5 anni in casi di acquisto di
beni immobili, o 3 per beni mobili registrati, tra la trascrizione della domanda e la trascrizione dell’atto impugnato che ha valore
costitutivo. Ma se la trascrizione sia stata successiva, allora il terzo subacquirente potrà opporre l’usucapione anche abbreviata.
Ovviamente si tratta di una norma a carattere eccezionale, per cui la trascrizione della domanda non ammette equipollenti.

Nullità protettive. Lo sforzo che ha accomunato dottrina e giurisprudenza è stato quello di sistematizzare le regole della nullità in modo da
riconoscere unità logica alla figura e permettere una corretta ed uniforme applicazione della disciplina. I principi della nullità nel codice
sono più volte stati derogati da leggi speciali che sono aumentate prevedendo non più solo la tutela di interessi superindividuali ma anche la
tutela di interessi particolari. Tra tali interessi meritevoli di tutela vi sono quelli dei contraenti che per la loro condizione di strutturale
debolezza sul mercato subiscono l’abuso contrattuale degli altri contraenti più forti.
Per una parte della dottrina la nullità va dunque qualificata come relativa, anche quando la legittimazione del solo consumatore non è
prevista dalla legge con esclusione dell’intervento ex officio del giudice ma con imprescrittibilità e insanabilità. Alla base di questa
tendenza vi è innanzitutto la necessità di adeguarsi alle modificazioni economico-sociale della realtà e poi soprattutto l’esigenza di creare
condizioni di parità contrattuali tra le parti. Esempi di legittimazione relativa espressa si ritrovano in materia di intermediazione
finanziaria,di contratto di vendita di immobile in costruzione,di contratto di assicurazione. La tutela però è comunque predisposta
nell’interesse collettivo (vedi codice consumo,ecc.)

Nullità parziale. La nullità può essere totale o parziale a seconda che il vizio che determini la nullità colpisca clausole essenziali o
secondarie del contratto. Nel primo caso si ha necessariamente la nullità totale del contratto. Nel secondo caso, invece, bisogna distinguere
se le clausole viziate siano state essenziali alla conclusione del contratto, e quindi se le parti non avrebbero concluso quel contratto in
assenza di tale clausole. Disciplina applicata anche in caso di contratti collegati tra loro per cui la nullità dell’uno può far cadere anche
l’altro. Perciò bisogna soffermarsi sul momento della conclusione del contratto e osservarlo in maniera oggettiva, valutando l’interesse e
l’utilità del contratto stesso,dal momento che la nullità di una clausola viziata non si estende al resto del contratto qualora le altre clausole
siano favorevoli. Perciò, qualora la clausola nulla non sia stata decisiva per la conclusione del contratto, non si potrà avere la nullità
dell’intero negozio se senza di essa,questo potrà produrre comunque i suoi effetti.
Qualora si intenda dimostrare che vi sia un condizionamento reciproco delle pattuizioni è necessario darne la prova libera che spetta a tutti i
contraenti o agli interessati, previa comunicazioni agli altri. Nel dubbio il giudice dovrà optare per la nullità parziale.
Ai sensi dell’Art. 1419 se le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative non si avrà la nullità del contratto. Si tratta di una
norma di carattere tecnico-ricostruttivo che permette la sostituzione a prescindere dall’intento condizionante. Questa norma si affianca alla
norma previsto dall’Art. 1339 che determina anch’essa la sostituzione, ma attiene alla costruzione del regolamento contrattuale. Ex Art.
1420 in caso di contratti con più di 2 parti,qualora vi sia una nullità che colpisce una sola delle parti, non si avrà la nullità del contratto,
salvo che la partecipazione di essa sia stata essenziale alla conclusione del contratto.

La legge consente (Art. 1424) la conversione del contratto nullo in un contratto diverso del quale contenga i requisiti di sostanza e di
forma. Ciò è possibile qualora la nuova fattispecie permetta comunque di raggiungere lo scopo perseguito dalle parti e non vi sia una
volontà contraria dei contraenti. Si parla di conversione sostanziale che opera in riferimento al contenuto in contrapposizione a quella
formale riferita ai casi in cui un atto possa rivestire più forme. La conversione opera automaticamente,non è necessario che le parti diano il
loro assenso. Unico presupposto implicito sia l’ignoranza delle parti circa la nullità del contratto al momento della conclusione.
 Sia la conversione che la sostituzione trovano la loro ragion d’essere nel principio di conservazione del contratto secondo il quale
occorre sempre cercare di bilanciare l’invalidità del contratto con regole che,per quanto possibile,assicurino la stabilità delle situazioni
giuridiche che si sono create e sulle quale i terzi abbiano fatto affidamento.
 La giurisprudenza non pone limiti alla conversione sulla base dei tipi negoziali ma solo sulla base della struttura,escludendo la
possibilità di una conversione di un contratto in un negozio unilaterale.

L’Annullabilità
Il contratto può nascere privo di vizi strutturali ma in un momento successivo può presentare diversi vizi che attengono alla consapevolezza
e volontarietà dell’atto. L’annullabilità è prevista in ipotesi tassative:
a) per mancanza della capacità di agire delle parti;
b) per presenza di vizi della volontà (dolo,errore e violenza);
c) in altre ipotesi previste dalla legge (es: conflitto di interessi nella rappresentanza,la contrattazione del rappresentato con se stesso).

Al contrario della nullità, l’annullabilità è prevista al fine di tutelare interessi individuali e può essere domandata solo dalla parte
interessata all’eliminazione degli effetti del contratto prodottisi (legittimazione relativa). Il giudice non può intervenire ex officio. L’
annullabilità presuppone l’inconsapevolezza rispetto ai vizi dell’atto. L’ Art. 1425 prevede l’ipotesi in cui l’annullabilità del contratto è
comminata nel caso in cui una delle parti sia incapace legalmente di contrarre. Il contratto non è annullabile qualora il minore abbia con
raggiro occultato la propria età (Art. 1426).

Vi sono ipotesi normative di legittimazione assoluta con l’attribuzione del potere di impugnare l’atto a chiunque abbia interesse. Ad
esempio l’interdizione legale (Art. 1441),che non è un istituto posto a tutela dell’incapace ma è una sanzione prevista dall’ordinamento che
perciò allarga la legittimazione parlando così di annullabilità assoluta.

Può il destinatario di una dichiarazione annullabile respingerla per impedire che si producano i suoi effetti?
1) Chi propende per la soluzione positiva ritiene sia inevitabile, perché se non rifiuta il destinatario dovrà subire l’attesa dell’azione di
annullamento.
2) Chi invece propende per la soluzione negativa ritiene che, essendo il giudice ad esercitare il potere di annullamento con sentenza
costitutiva, il destinatario non può eliminare la dichiarazione. Il destinatario non può neanche ridurre il periodo di incertezza con una
interpellatio al dichiarante, ossia con la richiesta dell’oblato, consapevole dell’annullabilità dell’atto, di sanare il vizio.
Infatti, in tal caso, il silenzio del dichiarante varrebbe come perdita dell’azione, però ciò può derivare dalla convalida che deve essere
espressa o per fatti concludenti ma non può essere basata sul silenzio. Tuttavia il potere di interpello potrebbe creare una situazione di
apparenza e di affidamento che legittima, in caso di esercizio successivo dell’azione, una eccezione basata sull’abuso del diritto.

Altro elemento di differenziazione tra la nullità e l’annullabilità è rappresentato dalla prescrizione, infatti mentre l’azione di nullità è
imprescrittibile, l’azione di annullamento si prescrive in 5 anni che decorrono, di regola, dalla conclusione del contratto. In caso di vizio
della volontà o di incapacità legale il termine risulta più lungo perché inizia a decorrere dal giorno in cui viene scoperto l’errore o il dolo, è
cessata la violenza o è cessato lo stato di interdizione o di inabilitazione o il minore ha raggiunto la maggiore età.
La giurisprudenza riconosce effetto interruttivo solo alla domanda giudiziale e non a qualsiasi atto stragiudiziale di messa in mora perché il
diritto all’annullamento è un diritto potestativo, che non prevede dal lato passivo di un obbligato la possibilità di richiedere l’adempimento
di una prestazione. Qualora il contratto non abbia ricevuto esecuzione oltre 5 anni dalla sua conclusione l’annullabilità può essere opposta
dalla parte convenuta per l’esecuzione del contratto anche quando è prescritta l’azione per farla valere.

L’azione di annullamento è costitutiva perché elimina ex tunc gli effetti del contratto prodottisi a differenza della nullità che è meramente
dichiarativa. Data la retroattività della sentenza vi è identità funzionale inter partes tra il contratto nullo e il contratto annullato. Se il
contratto annullato ha avuto esecuzione viene riconosciuta l’azione di ripetizione. Se è annullato perché concluso per incapacità di uno dei
contraenti, questi non è tenuto a restituire la prestazione ricevuta salvo che la prestazione sia a proprio vantaggio.
L’annullamento, che non dipende da incapacità legale, non pregiudica i diritti dei terzi di buona fede acquistati a titolo oneroso , salvi gli
effetti di trascrizione della domanda di annullamento (Art. 1445). Il regime della trascrizione è in linea generale quello della trascrizione
della domanda di nullità. L’unica differenza sta nel caso in cui l’acquisto del terzo è avvenuto a titolo oneroso e il motivo dell’annullabilità
non sia l’incapacità legale. In questo caso il terzo di buona fede fa salvo il proprio diritto se trascrive l’atto di acquisto prima della
trascrizione della domanda di annullamento.

La parte cui spetta l’azione di annullamento potrebbe preferire la conservazione del contratto. Il legislatore ha perciò previsto la convalida.
La convalida (Art. 1444 c.c.) può essere espressa o tacita. La convalida espressa è un negozio giuridico, unilaterale e non recettizio, a
carattere accessorio con contenuto tipico. La legge prevede che esso deve contenere la menzione del contratto,l’indicazione del motivo di
annullabilità e la dichiarazione che si intende convalidarlo. La convalida presuppone che il negozio viziato sia già venuto ad esistenza.
Si discute sulla recettizietà dell’atto. L’atto è una rinunzia all’azione perché non si producono nuovi effetti, ma si stabilizzano quelli già
prodottisi e la rinunzia ha carattere abdicativo. Per quanto riguarda la forma vi è una contrapposizione tra chi ritiene sia la stessa del
contratto da convalidare, per relationem (Gazzoni), altri (Bianca) ritengono sia libera, altri ancora sempre scritta (Santoro – Passarelli).
Bisogna perciò distinguere se l’atto è integrativo, volto a sostituire l’elemento viziato del contratto,dovrà avere la forma di questo. Se
invece l’atto è in realtà una rinunzia all’azione di annullamento allora la forma sarà libera. Se invece si fa attenzione alla dizione
normativa secondo cui la convalida dovrà contenere la menzione del contratto,del vizio e la dichiarazione di convalidare,si potrebbe
sostenere la necessità di una forma scritta.

La convalida tacita si ha quando il contraente, al quale spetta l’azione di annullamento, ha dato volontaria esecuzione al contratto
conoscendo il motivo di annullabilità. Per quanto riguarda la sua natura si parla di negozio di attuazione o di atto reale (operazione). Per
esecuzione del contratto si intende l’adempimento dello stesso. La giurisprudenza amplia tale concetto e vi fa rientrare anche
l’accettazione dell’altrui prestazione e l’aver compiuto un negozio incompatibile con l’intenzione di esperire l’azione di annullamento.
Il codice attribuisce al contraente nei confronti del quale è stata proposta l’azione di annullamento per errore la possibilità di inibirne gli
effetti ricorrendo alla rettifica (Art. 1432). La rettifica è un negozio unilaterale a carattere accessorio e recettizio. La parte in errore non
può domandare l’annullamento del contratto se l’altra offre di eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle modalità contrattuali con cui
l’altra intendeva concludere. Questo però se l’attore non abbia subito un pregiudizio dall’errore determinata dall’esercizio dell’azione. La
rettifica non da luogo ad un nuovo contratto, ma ad un mutamento in fase esecutiva della prestazione da eseguire, che è quella che l’errante
avrebbe dedotto al fine di perseguire il proprio fine se non fosse caduto in errore,e non quella dedotta in contratto.
 Viene così meno la possibilità di esperire l’azione di annullamento perché non c’è più danno per l’errante e non è possibile la
convalida essendo stato eliminato il vizio. Si tratterà di una gara contro il tempo, l’errante così avrà la possibilità di eliminare il contratto
in radice ovvero di convalidarlo consolidando i suoi effetti e l’altra parte potrà bloccare entrambe le iniziative, notificando
tempestivamente la rettifica. La rettifica non è applicabile nei casi di dolo e violenza.
In caso di contratto plurilaterale si applica la stessa disciplina della nullità. Si discute se si possa parlare di annullabilità parziale. La
dottrina favorevole, che ravvisa un’identità funzionale tra il contratto nullo e annullabile,pone come limite unico la divisibilità dell’oggetto
del contratto.
13. LA RESCISSIONE
La natura del rimedio rescissorio è controversa in dottrina. Ci si chiede se il contratto rescindibile sia invalido, quindi se la rescissione sia
una forma di invalidità, analoga all’annullabilità, per vizio del consenso analogo alla violenza morale.
Gazzoni sostiene che la disciplina della rescissione è diversa dall’annullabilità, la base comune si riscontra solo un due caratteristiche di
fondo:
1. prescrittibilità, peraltro con termini diversi.
2. legittimazione relativa.
Inoltre è da notare che la rescissione è un rimedio eccezionale, infatti come principio generale l’ordinamento non si preoccupa del
contenuto squilibrato di un contratto, se non c’è vizio della volontà.
Inoltre la rescissione riguarda solo i contratti sinallagmatici. Il rimedio della rescissione si applica, inoltre, a due sole ipotesi: stato di
pericolo e stato di bisogno.

L’Art. 1447 stabilisce che: “il contratto con cui una parte ha assunto obbligazioni a condizioni inique, per la necessità, nota alla
controparte, di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona può essere rescisso su domanda della parte che si è
obbligata”.
Il rimedio della rescissione è posto a tutela dell’equilibrio della contrattazione, attesa la condizione di menomazione in cui si trova un
contraente. I requisiti richiesti sono:
1. conoscenza dello stato di pericolo da parte dell’altro contraente.
2. condizioni inique.
Possiamo prendere come esempio il contratto di salvataggio concluso da chi deve salvare un proprio familiare rimasto bloccato in un
rifugio alpino. Tale contratto in sé per sé considerato, è voluto dal contraente in stato di pericolo, perché è lo strumento per uscire da tale
condizione, ma ciò che può essere non voluto è il contenuto del contratto. Il vizio, infatti, attiene al profilo dell’iniquità, che rileva in
relazione all’assenza di libertà di trattativa.
In caso di incapacità di intendere e di volere, ad esempio, è sufficiente la mala fede dell’altro contraente per annullare il contratto, infatti
l’eventuale grave pregiudizio è solo un elemento presuntivo di tale mala fede (Art. 428 2° comma).

Lo stato di pericolo coincide in buona sostanza con lo stato di necessità. Esso deve essere:
1. attuale, già verificatosi.
2. deve riguardare persone e non cose o beni.
Stato di pericolo e di necessità si differenziano sul piano funzionale:
• Lo stato di necessità è causa di esclusione dell’antigiuridicità dell’atto illecito, quindi esonera l’autore dell’atto dall’obbligo
risarcitorio, dovendo corrispondere solo un’indennità.
• Lo stato di pericolo spinge il soggetto a contrattare a condizioni inique, a tutto vantaggio del terzo.

L’Art. 1447 non chiede che il pericolo sia inevitabile, ne che esso non dipenda dal contraente che lo subisce, né che vi sia proporzionalità
tra il comportamento di costui e il pericolo.
Il pericolo però deve essere:
1. grave
2. causa efficiente della contrattazione, nel senso che la parte deve essere convinta di trovarsi di fronte all’alternatività
tra subire il danno o stipulare il contratto.

In dottrina c’è chi ritiene che anche il convincimento solo supposto (c.d. putativo) in ordine all’esistenza del pericolo conduca alla
rescissione, soprattutto quando l’altro contraente conosce la putatività. Altra parte della dottrina ritiene che in questo caso si dovrebbe
applicare l’Art. 1337 o considerare il contratto nullo per inutilità della prestazione.
Oltre ai presupposti oggettivi, si richiede la parte abbia assunto obbligazioni a condizioni inique. In ordine all’individuazione dell’iniquità
si rilevano due teorie contrastanti:
– Teoria dominante: l’iniquità va identificata con la sproporzione tra le prestazioni, quindi, in termini oggettivi e tecnici.
– Altra teoria: va valutata sul piano sociale ed etico, senza avere riguardo del valore economico dell’azione di salvataggio, la quale, di
per sé, non sembra suscettibile di una valutazione economica, soprattutto se si pensa che essa può coincidere con una scalata di una
montagna da parte di una guida che deve soccorrere un alpinista bloccato su di un ghiacciaio.
In ogni caso il giudice, nel pronunciare la rescissione, può, secondo le circostanze, assegnare un equo compenso all’altra parte per l’opera
prestata. Si tratta di una valutazione discrezionale che ha ad oggetto il valore economico della prestazione.

L’Art. 448 c.c. fa riferimento ad un’altra ipotesi di contratto rescindibile e stabilisce che “se vi è sproporzione tra le prestazioni di una
parte e quelle dell’altra e la sproporzione è dipesa dallo stato di bisogno di una delle due, della quale l’altra ha approfittato per trarne
vantaggio, la parte danneggiata può domandare la rescissione del contratto”. In ogni caso la rescissione non è ammessa se la lesione non
eccede la metà del valore che la prestazione eseguita o promessa dalla parte danneggiata aveva al tempo in cui il contratto fu concluso,
inoltre essa deve perdurare fino al tempo in cui l’azione è proposta. Il vizio va ravvisato nello squilibrio creatosi nel sinallagma, frutto
dell’approfittamento di un contraente nei confronti dell’altro. Non è ammessa la rescissione nei contratti aleatori, essendo connaturata a tali
contratti la possibilità, legata alla sorte, che nasca un vantaggio sproporzionato a favore di una parte, nei negozi e nei contratti unilaterali e
nemmeno nei contratti di società, in quest’ultimo caso perché per Gazzoni è un contratto con commissione di scopo, quindi anche se c’è
sproporzione, la rescissione non è applicabile.
I presupposti per l’azione di rescissione sono:
1. la lesione ultra dimidium, cioè il valore della prestazione deve essere oltre il doppio del valore della controprestazione.
2. lo stato di bisogno della parte danneggiata, che va inteso non come assoluta indigenza o incapacità patrimoniale, ma
come situazione di difficoltà economica, anche transitoria.
3. l’approfittamento dello stato di bisogno, che non consiste necessariamente in un comportamento attivo, ovvero in
un’iniziativa fraudolenta della parte, infatti, è sufficiente la consapevolezza del vantaggio patrimoniale che si trae dalla
situazione di bisogno della controparte. Esempio: Tizio, trovandosi in gravi difficoltà economiche, svende i propri beni
per realizzare denaro e Caio, consapevole della condizione di bisogno di Tizio, ne approfitta offrendo un prezzo
irrisorio (inferiore di oltre la metà rispetto al valore di mercato: “ultra dimidium”).
Nonostante sia l’Art. 1447 e l’Art. 1448 menzionino solo la persona del contraente, lo stato di bisogno e lo stato di pericolo possono
riguardare anche i familiari o altre persone. Contraente può anche essere una società o l’eredità giacente, perché è rilevante, nello stato di
bisogno, non lo stato psicologico del curatore, ma l’assenza di liquidità patrimoniale.

Lo stato di bisogno può consistere anche in una semplice difficoltà economica o nella carenza di liquidità transitoria e può essere stato
causato dallo stesso contraente, purché sia effettivo o non soltanto putativo, infine deve essere stato determinante per la contrattazione, nel
senso dell’esistenza di un nesso di causalità psicologica tra stato di bisogno e decisione di contrarre, che a sua volta deve presentarsi come
necessaria. Lo stato di bisogno e quello di pericolo si distinguono in base alla natura degli interessi, il primo riguarda interessi patrimoniali,
il secondo attiene ad interessi personali. In merito al concetto di approfittamento:
– Alcuni ritengono che sia sufficiente la conoscenza dello stato di bisogno.
– Altri sostengono che sia necessaria l’intenzione specifica di avvantaggiarsi a spese dell’altro contraente.
– La giurisprudenza ritiene che sufficiente il contegno passivo di chi si limita a mantenere ferma un’offerta lesiva.

Lo squilibrio tra le prestazioni va verificato sulla base di accertamenti oggettivi, facendo riferimento al valore delle prestazioni al
momento della conclusione del contratto e riguarda sia la prestazione principale che quelle accessorie e le varie modalità. I valori presi in
considerazione saranno quelli di mercato, escludendo qualsiasi rilevanza del valore personale ed affettivo.
La lesione deve perdurare fino a quando la domanda è proposta, quindi, potrebbe venire meno successivamente alla conclusione del
contratto in seguito ad un incremento del valore del bene ricevuto dal leso o da un decremento del valore di quello ceduto, in termini reali e
non per sopravvenuta svalutazione monetaria. La disciplina della rescissione è del tutto peculiare, anche se per alcuni versi è analoga a
quella dell’annullabilità. Il contratto rescindibile produce effetti provvisori, i quali, però, si consolidano a seguito della prescrizione
dell’azione, essendo inammissibile un atto di convalida, al contrario dell’annullamento.

Il divieto di convalida è importante per distinguere le due figure. La differenza trova il suo fondamento nel fatto che la rescissione è un
mezzo di tutela dell’equilibrio oggettivo del contratto sotto il profilo dell’equità. L’inammissibilità della convalida comporta anche
l’inammissibilità della rinunzia all’azione di rescissione.

La transazione è:
– Secondo la DOTTRINA vietata, perché comporterebbe comunque una rinuncia.
– Secondo la GIURISPRUDENZA questa comporta un contratto del tutto autonomo rispetto a quello rescindibile.
Se si considera che il contratto rescindibile può essere modificato dal contraente non leso con una sua offerta, finalizzata a ricondurre il
contratto ad equità, la transazione, considerata come riconduzione convenzionale del contratto ad equità, sembra ammissibile.
Mentre la rescissione si prescrive in 1 anno, l’annullamento si prescrive in 5 anni. La brevità del termine di prescrizione della rescissione
può essere superato quando il comportamento dell’altro contraente integra gli estremi del reato, ciò accade con riferimento all’usura. La
rescissione e l’usura differiscono in base ai presupposti, infatti, l’usura si configura a prescindere dallo stato di bisogno e
dell’approfittamento, che costituisce solo un’aggravante quando, in presenza di condizioni di difficoltà economica e finanziaria, c’è, sotto
qualsiasi forma, uno scambio di danaro o altra utilità con interessi o altri vantaggi usurai. Il contraente contro cui è domandata la
rescissione la può evitare offrendo una modificazione, non necessariamente pecuniaria, del contratto che sia sufficiente a riequilibrare il
sinallagma, senza che sia rilevante la volontà dell’altro contraente.

L’offerta è, infatti, un atto unilaterale recettizio che, però, ha dubbia natura:


– Processuale: eccezione in senso sostanziale, con cui il convenuto blocca l’azione dell’attore (offerta di modificazione proposta solo
nel processo).
– Sostanziale: la proposta può essere fatta sia nel processo sia in sede stragiudiziale.
L’offerta deve essere puntuale, l’offerente deve indicare esattamente le clausole da modificare ed in quali termini. Il giudice dovrà solo
accertare se l’offerta ha ristabilito l’equità, cioè l’equilibrio oggettivo tra le prestazioni senza nessuna discrezionalità. La sentenza che
pronuncia la rescissione del contratto è una sentenza ad iniziativa del solo contraente leso che si trovava in stato di bisogno o di pericolo ed
ha carattere costitutivo ed elimina gli effetti ex tunc. Le parti dovranno procedere alle indebite restituzioni, garantite sul piano processuale
dalla condictio indebiti, o, se la restituzione è impossibile, dovranno procedere al pagamento del valore di stima del bene.
La rescissione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, anche se l’acquisto è avvenuto in mala fede, e sia che siano a titolo oneroso o
gratuito. Quando la domanda di rescissione è soggetta a trascrizione, l’acquisto dei terzi è fatto salvo a condizione che sia stato trascritto
prima della trascrizione della domanda giudiziale di rescissione, in caso contrario, la sentenza di rescissione farà stato anche nei confronti
dei terzi, che perderanno il loro diritto acquisito.
14. LA RISOLUZIONE

Il fondamento
La validità del contratto attiene al momento della conclusione, però un contratto concluso validamente può anche non produrre effetti e in
quest’ ultimo caso abbiamo la risoluzione. La risoluzione si verifica quando il contratto non assicura più il soddisfacimento degli interessi
dei contraenti e tale inidoneità può essere causata dal comportamento delle parti ma può anche dipendere da eventi non prevedibili e non
imputabili.
 Sia nel caso della rescissione come della risoluzione, ad essere colpito è il sinallagma, cioè l’equilibrio delle prestazioni però mentre
nella rescissione il difetto è genetico ossia originario, in caso di risoluzione è funzionale, cioè sopravvenuto; in entrambi i casi il vizio del
sinallagma può colpire i contratti a prestazioni corrispettive, dove le prestazioni sono legate da un nesso di interdipendenza funzionale.

La risoluzione mira a riequilibrare la posizione economico-patrimoniale dei contraenti eliminando con efficacia ex tunc gli effetti del
contratto e dunque essa incide sul rapporto e non sull’atto. Vi sono una pluralità di fattispecie della risoluzione che però non sono
ricondotte ad unità sul piano disciplinare.

L’inadempimento
Di fronte all’inadempimento di una delle parti, l’altra ha la possibilità di fare 2 scelta:
1) Se non ha ancora adempiuto può opporre l’eccezione di inadempimento e così rifiutarsi di adempiere a sua volta;
2) Se invece la parte ha adempiuto può costituire in mora la controparte in vista di un adempimento tardivo o per iniziare un giudizio
volto ad ottenere la condanna ed agire, in caso di inosservanza della condanna,con l’esecuzione forzata; nel caso in cui però la parte
possiede titolo esecutivo, cioè x ex. Una cambiale, allora può agire senza aspettare la previa condanna;
Nel caso in cui la parte adempiente non abbia interesse all’adempimento tardivo o alla realizzazione coattiva del proprio credito potrà
scegliere la strada della risoluzione del contratto.
Le due strade hanno in comune: l’obbligo risarcitorio che grava sulla parte inadempiente per l’illecito contrattuale commesso (a tale
proposito la dottrina ritiene che la domanda di risarcimento possa essere chiesta anche autonomamente rispetto alla domanda di
adempimento o di risoluzione). Il danno risarcibile è quello derivante dal c.d. interesse positivo, però nel caso di pronuncia di risoluzione
per quantificare il danno risarcibile si dovrà tenere conto di ciò che il creditore lucra per non dover più adempiere la propria prestazione e
della utilità che ha ricavato dall’operazione economica effettuata prima della risoluzione.

L’Art. 1453 detta delle regole di tutela sia per la parte adempiente che per quella inadempiente in relazione sia all’adempimento che alla
risoluzione.
1) La risoluzione può essere chiesta anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento, questo succede perché
l’interesse del creditore all’adempimento può sempre venir meno con il tempo e dunque egli deve sempre poter avvalersi della
risoluzione.
La giurisprudenza ammette questo mutamento di domanda in corso di giudizio che sopravvive anche alla sentenza di condanna ad
adempiere.

2) Non è possibile chiedere l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione perché la parte inadempiente può trovarsi nella
condizione di non poter più adempiere alla propria obbligazione nemmeno volendo a causa della scelta della risoluzione. E’ esclusa la
preclusione se la domanda di risoluzione è rigettata o è dichiarata inammissibile cioè se la risoluzione è stata chiesta stragiudizialmente.

3) Si disciplina l’ipotesi di adempimento successivo alla domanda di risoluzione; in linea di massima il debitore non può più adempiere,
una volta iniziato il giudizio di risoluzione, perché il creditore ha manifestato di non aver interesse ad un adempimento tardivo.
La dottrina ritiene che il creditore non debba costituire in mora il debitore nell’ipotesi di inadempimento grave e definitivo, mentre
afferma che la costituzione in mora è necessaria se l’inadempimento è grave ma la prestazione è ancora possibile. In ogni caso si ritiene
che la stessa domanda di risoluzione notificata al debitore possa valere come atto di costituzione in mora con la conseguenza che
l’adempimento potrebbe seguire fino alla prima udienza di comparizione.

Il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza avuto riguardo all’interesse dell’altra parte (Art.
1455). La dottrina è divisa per quanto riguarda l’individuazione dell’importanza dell’inadempimento:
1) interpretazione oggettiva: secondo la quale la norma ha riguardo alle prestazioni così come dedotte in contratto e dunque si tiene
presente il profilo funzionale.
2) interpretazione soggettiva: secondo la quale si deve risalire alle volontà delle parti per valutare fino a che punto un certo
inadempimento è da valutare importante.
3) La giurisprudenza ricerca una via intermedia: può rilevare anche l’inadempimento ad una prestazione accessoria. L’importanza
dell’inadempimento va valutata con riferimento al momento in cui l’adempimento doveva essere effettuato.

Molto discusso è il fondamento giuridico della risoluzione per inadempimento e probabilmente è nel vero quella dottrina che non concede
rilevanza al problema perché dice che è nella logica delle cose eliminare gli effetti di un contratto; quindi oggetto di discussione invece
resta il modo con cui si perviene a tale risultato.

Al contrario la giurisprudenza si è posto il problema della qualificazione soggettiva dell’inadempimento, infatti ci si chiede se sia
sufficiente un inadempimento come oggettivo comportamento del debitore o sia necessario un inadempimento colposo. La giurisprudenza
risolve il problema in chiave soggettiva perché l’illecito è escluso se l’inadempimento è provocato da motivi apprezzabili e dunque in
questo modo la risoluzione diventa rimedio sanzionatorio, satisfattorio per il creditore e afflittivo per il debitore inadempiente.

Si giunge alla risoluzione per inadempimento o per iniziativa della parte adempiente o perché l’inadempimento era stato già previsto in
sede di stipula del contratto e vi era stato ricollegato la risoluzione, o infine per pronuncia del giudice.
 Sul piano procedimentale, i modi in cui si attua la risoluzione sono 2, a seconda che vi sia o non vi sia una sentenza, e si parla allora
di risoluzione di diritto e di risoluzione giudiziale.

Si giunge alla risoluzione di diritto in 3 casi disciplinati distintamente nel codice e che sono:

1) DIFFIDA AD ADEMPIERE: la parte adempiente anziché chiedere la risoluzione, fissa al debitore un termine per adempiere
trascorso il quale il contratto si intenderà risoluto.
La dichiarazione di diffida ad adempiere è un negozio unilaterale recettizio che pretende la forma scritta; deve contenere la fissazione di
un termine per l’adempimento che sia di almeno 15 giorni, a meno che per la natura del contratto risulti congruo un tempo inferiore; il
termine decorre dal momento della recezione della diffida. Inoltre la parte adempiente deve intimare l’adempimento e per questo motivo
la legge vuole che la diffida contenga l’avvertenza espressa che, in caso di mancato adempimento entro il termine, il contratto si intenderà
risolto.
In pendenza del termine di adempimento, il creditore non può chiedere né l’adempimento, né la risoluzione, né può procedere ad
esecuzione forzata a meno che il debitore dichiari per iscritto di non voler adempiere.
2) CLAUSOLA RISOLUTIVA ESPRESSA: I contraenti possono stabilire espressamente che il contratto si risolva qualora una
determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite; questa clausola risolutiva è parte del contratto, ma può anche
essere pattuita con atto autonomo che però dovrà avere la stessa forma del contratto a cui si riferisce.
Le parti devono indicare quali obbligazioni devono essere adempiute a pena di risoluzione, ma se l’indicazione è generica allora il
riferimento si riferisce al complesso delle pattuizioni e la clausola non avrà nessun valore; l’inadempimento viene imputato al debitore ma
non deve essere necessariamente grave per cui in questo caso non trova applicazione l’Art. 1455 circa l’importanza dell’inadempimento.

La risoluzione non è automatica, cioè non consegue de iure al mancato adempimento dell’obbligazione perché la parte interessata deve
dichiarare all’altra parte che intende avvalersi della clausola risolutiva; infatti rispetto al momento in cui la clausola è sta pattuita potrebbe
sopravvenire un interesse del creditore all’adempimento tardivo e questo interesse verrebbe frustrato se la risoluzione fosse automatica.
La dichiarazione di volersi avvalere della clausola risolutiva ha natura negoziale, cioè si tratta di un negozio unilaterale recettizio non
formale che può essere contenuto in un atto di citazione con cui si chiede la condanna del debitore a restituire quanto ricevuto. E’
possibile che il creditore rinunzi alla facoltà di avvalersi della clausola e questa rinunzia può essere espressa ma anche conseguente ad un
comportamento in equivoco incompatibile con la volontà di risolvere il contratto.

3) TERMINE ESSENZIALE: se si considera essenziale il termine fissato per la prestazione di una delle parti, questa se vuole esigerne
l’esecuzione nonostante la scadenza del termine deve darne notizia all’altra parte entro 3 giorni, in caso contrario il contratto si intende
risolto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione.
Questa terza ipotesi di risoluzione di diritto presenta analogie ma anche diversità con quella della clausola risolutiva espressa; in
entrambi i casi la risoluzione consegue al modo con cui è stato fissato il regolamento contrattuale o perché c’è una clausola espressa o
perché c’è un termine essenziale, ne consegue che anche nel caso del termine essenziale non si applica l’Art. 1455 circa l’importanza
dell’inadempimento che comunque viene sempre imputato al debitore.
Il termine essenziale, a differenza della clausola, opera automaticamente ma l’effetto risolutorio può essere evitato da una espressa
dichiarazione del creditore, che deve avere carattere negoziale e forma libera, con la quale il creditore dichiara, entro 3 giorni, di avere
interesse ad un adempimento tardivo.
Secondo la dottrina l’essenzialità del termine potrebbe desumersi dalla volontà dei contraenti (in questo caso si parla di essenzialità
soggettiva che risulta da una dichiarazione espressa o tacita dei contraenti), dalla natura del termine (in questo caso si parla di essenzialità
oggettiva).
Nell’essenzialità soggettiva il termine deve essere indicato in modo preciso e rigoroso e le dichiarazioni devono essere in equivoche.

Se il creditore vuole risolvere il contratto ma non ha pattuito una clausola risolutiva espressa o un termine essenziale deve agire
giudizialmente e la sentenza che concluderà il procedimento ha carattere costitutivo; se il giudice viene chiamato per risolvere una
controversia in ordine all’avvenuta risoluzione di diritto del contratto la sua sentenza sarà di mero accertamento dell’intervenuta
risoluzione, salvo che la prestazione mancata debba considerarsi essenziale (perché in caso di essenzialità non vi è motivo di negare azione
a ciascun contraente).

Nel contratto con prestazioni corrispettive ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la prestazione se l’altro non adempie o non
offre di adempiere contemporaneamente la propria, ameno che le parti abbiano stabilito termini diversi per l’adempimento. Si tratta di una
forma di autotutela affidata ad un’eccezione, però può anche accadere che entrambe le parti oppongano l’eccezione sostenendo di non aver
adempiuto in quanto la controparte a sua volta non ha adempiuto, in tal caso spetterà al giudice accertare quale dei due inadempimenti sia
più grave e tale da legittimare l’eccezione.

L’eccezione di inadempimento può anche essere opposta per paralizzare una domanda di risoluzione, tuttavia non può rifiutarsi
l’esecuzione se il rifiuto è contrario alla buona fede e questo impone che la fondatezza dell’eccezione vada valutata secondo un criterio di
equivalenza e di proporzionalità tra l’adempimento che viene richiesto e quello che non è stato eseguito.

Il codice prevede inoltre la possibilità che il contraente sospenda l’esecuzione della propria prestazione se le condizioni patrimoniali
dell’altro sono divenute tali da porre in evidente pericolo il conseguimento della controprestazione a meno che non sia presentata idonea
garanzia. La sospensione può invocarsi quando la controparte deve eseguire la propria prestazione in un secondo momento mentre
l’eccezione di inadempimento può opporsi quando le prestazioni devono essere eseguite meno contro mano. Questa diversità non
impedisce l’opponibilità dell’eccezione di inadempimento anche quando la prestazione va eseguita in un secondo momento.
 La sospensione può essere invocata se le prestazioni devono essere eseguite mano contro mano ma non possono essere
contemporanee da un punto di vista concreto.

Le parti possono stabilire l’inopponibilità di eccezioni per evitare o ritardare la prestazione dovuta; questa clausola, detta solve et repete,
non ha effetto per le eccezioni di nullità, di annullabilità e di rescissione del contratto come sancito dall’Art. 1462 che al secondo comma
stabilisce anche che se concorrono gravi motivi il giudice può decidere di sospendere la condanna all’adempimento imponendo, se del
caso, una cauzione.

L’impossibilità sopravvenuta
L’obbligazione si estingue quando la prestazione diventa impossibile per causa non imputabile al debitore; lo scioglimento del contratto
opera di diritto. Nel caso di impossibilità totale la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione non può chiedere la
controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuto; però si ha estinzione anche nel caso di impossibilità temporanea quando il
creditore non ha più interesse a ricevere la prestazione.
Al contrario nell’impossibilità parziale, l’obbligazione non si estingue e il debitore è liberato se esegue la prestazione per la parte che è
rimasta possibile.

In caso di contratto a prestazioni corrispettive non si può applicare questa disciplina perché creerebbe un grave squilibrio del sinallagma e
quindi l’Art. 1464 introduce un correttivo legittimando la controparte o a pretendere una riduzione della propria prestazione o a recedere
dal contratto se non ha interesse all’adempimento parziale. In caso di impossibilità totale della prestazione di una delle parti di un contratto
plurilaterale non si ha scioglimento del contratto a meno che la prestazione mancata sia da considerarsi essenziale.

L’Art. 1465 detta una disciplina particolare per l’impossibilità sopravvenuta nei contratti che trasferiscono o costituiscono diritti reali
(contratto traslativo): se l’impossibilità sopravviene al trasferimento l’acquirente non è liberato dall’obbligo di eseguire la
controprestazione anche se la cosa non gli è stata consegnata ( questo vuol dire dunque che la custodia della cosa non costituisce una
controprestazione e non fa parte del sinallagma); se il trasferimento ha ad oggetto una cosa generica l’acquirente non è liberato dall’obbligo
di eseguire la controprestazione se l’alienante ha operato la consegna o la cosa è stata individuata (applicazione del principio res perit
domino).

Comunque l’acquirente è liberato dalla propria obbligazione se il trasferimento era sottoposto a condizione sospensiva e l’impossibilità è
sopravvenuta prima che si verifichi la condizione.

L’eccessiva onerosità sopravvenuta


Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa, e sempre che
questa onerosità non rientri nell’alea del contratto, per il verificarsi di avvenimenti straordinari o imprevedibili la parte che deve tale
prestazione può chiedere la risoluzione del contratto (e questo succede perché si crea uno squilibrio patrimoniale che comporta
un’alterazione del rapporto di valore tra le due prestazioni). In questo modo il legislatore ha voluto porre rimedio ad una situazione non
prevista al momento della conclusione del contratto e appunto per ciò il rimedio si applica ai contratti corrispettivi la cui esecuzione non sia
immediata ma protratta nel tempo, mentre non si applica ai contratti aleatori per loro natura o per volontà delle parti.
Questo rimedio dunque serve per tutelare l’equilibrio delle prestazioni e dunque il sinallagma e può essere applicato anche quando la
prestazione è differita nel tempo,cioè in caso di contratto ad esecuzione immediata dove però le parti hanno rinviato l’adempimento della
prestazione con accordo tacito o quando la prestazione è divenuta temporaneamente impossibile: in questo caso l’obbligazione non si
estingue.
Secondo la dottrina tale norma si applica anche al contratto preliminare che preveda la stipula differita del contratto definitivo e questo
perché le conseguenze negative sono già insite nelle conseguenze negative del preliminare, per lo stesso motivo è impugnabile per
eccessiva onerosità sopravvenuta anche il contratto di opzione. La norma però non si applica nei casi in cui esiste una speciale disciplina
normativa, come nel caso previsto per l’appalto; tuttavia la giurisprudenza ritiene che anche in questi casi si possa applicare la norma
dell’Art. 1467 se gli eventi imprevedibili e straordinari sono stati tali da porre nel nulla i8 rimedi previsti dalla legge o dai privati.
L’eccessiva onerosità deve essere dedotta e accertata giudizialmente e può essere opposta in via d’eccezione nei confronti di una domanda
di adempimento o in via riconvenzionale sotto il profilo della risoluzione. L’eccessiva onerosità non giustifica la sospensione
dell’esecuzione, però se viene eccepita nei confronti di una richiesta di adempimento il contratto si risolverà per la parte ineseguita e
l’inadempimento di chi ha sospeso l’esecuzione sarà giustificato ex tunc; tuttavia la parte alla quale è chiesta la risoluzione può evitarla
offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto.

n caso di contratto con obbligazioni a carico di una sola parte questa può chiedere una riduzione della sua prestazione sufficiente per
ricondurre il contratto ad equità (la norma non si applica alle obbligazioni che nascono da atto mortis causa). In quest’ ultimo caso la
riconduzione ad equità del contratto è opera del giudice che userà un criterio discrezionale e non oggettivo in quanto manca l’offerta della
parte contro interessata perché stiamo parlando di un contratto unilaterale.

Gli effetti
L’Art. 1458 (effetti della risoluzione) è applicabile anche nel caso di impossibilità sopravvenuta e di eccessiva onerosità sopravvenuta. La
risoluzione del contratto ha effetto retroattivo tra le parti, tranne per i contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo ai quali
l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite; essa non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti della
trascrizione della domanda di risoluzione. Questo vuol dire che il terzo sarà salvo solo se avrà trascritto il proprio acquisto prima della
trascrizione della domanda di risoluzione o della domanda che mira ad accertare l’avvenuta risoluzione di diritto.

La risoluzione deve essere annotata ai fini della continuità a margine della trascrizione del contratto risolto anche quando è il frutto di un
atto che accerti il fatto risolutorio (come nel caso della clausola risolutiva espressa). Come conseguenza della risoluzione, i contraenti
hanno l’obbligo di restituire quanto hanno ricevuto secondo le regole fissate per la ripetizione dell’indebito.

Lo scioglimento volontario
I privati possono sciogliere il contratto per mutuo consenso o per meglio dire per mutuo dissenso. Se il contratto traslativo o costitutivo
non ha ancora prodotto i suoi effetti è possibile scioglierlo con mutuo dissenso, in caso contrario si dovrà stipulare un contratto uguale e
contrario a quello che si intende eliminare. In caso di contratti ad effetti obbligatori il mutuo dissenso ha efficacia ex nunc perché opera
sulle prestazioni non ancora eseguite, però la dottrina sostiene anche la tesi dell’efficacia ex tunc del mutuo dissenso come negozio
eliminativo.

Il contratto risolutorio deve avere la stessa forma del contratto che viene sciolto, mentre se la forma è libera lo scioglimento può anche
conseguire ad un comportamento concludente. L’Art. 1373 prevede la possibilità che il contratto sia sciolto ad iniziativa di una delle parti;
il recesso è possibile se questo potere è stato attribuito in sede di contratto e può essere esercitato solo se il contratto non ha avuto un
principio di esecuzione e comunque deve intervenire dopo la conclusione del contratto.
 La dottrina ritiene che il recesso non è possibile in caso di contratti traslativi quando l’effetto reale si sia prodotto, perché in questo
caso non vale nemmeno il patto contrario che è ammissibile solo per i contratti obbligatori.

Nel caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica, il recesso può essere esercitato anche dopo l’inizio dell’esecuzione, però sono
fatte salve le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione: in questo caso il recesso opera ex nunc. I contraenti possono stabilire un
corrispettivo per il recesso che se viene versato anticipatamente si chiama caparra penitenziale mentre se viene versato al momento del
recesso prende il nome di multa penitenziale: entrambi non hanno nulla a che vedere con la clausola penale perché sono corrispettivi del
recesso, mentre la clausola penale presuppone un inadempimento (il quale in questo caso è da escludere perché recedendo si esercita un
diritto potestativo).

La legge a volte attribuisce il recesso ad entrambi i contraenti mentre in altri casi lo attribuisce ad uno solo dei contraenti. La legge inoltre
tutela la posizione dell’altro contraente e quindi prevede un preavviso, il cui difetto può condizionare l’efficacia stessa del recesso, cioè può
obbligare al pagamento di un’indennità o ad un risarcimento.

Chi recede infatti per il principio di buona fede deve preavvisare l’altro contraente con un congruo anticipo di tempo, e il più delle volte la
legge collega il recesso alla presenza di una giusta causa, cioè di un grave motivo, il cui difetto è insuperabile e non sostituibile con il
pagamento di un’indennità.

I contratti negoziati fuori dei locali commerciali


La legge detta una disciplina particolare del diritto di recesso nel caso in cui tra un consumatore ed un operatore commerciale sia stato
concluso, fuori dai locali commerciali di costui, un contratto di fornitura di beni o di prestazione di servizi; la negoziazione del contratto
può anche avvenire sulla base di offerte effettuate al pubblico o mediante mezzi televisivi. La tutela del consumatore consiste nel fatto che
l’operatore deve informare per iscritto del suo diritto a recedere dal contratto indicando termini, modalità ed eventuali condizioni per il
relativo esercizio, nonché l’indirizzo del soggetto contro cui va esercitato il recesso.
La dichiarazione di recesso deve essere spedita nel termine non inferiore di 7 giorni per lettera raccomandata con avviso di ricevimento. In
caso di vendita di beni, condizione essenziale per l’esercizio del diritto di recesso è l’integrità della merce da restituire e quindi anche del
diritto di riavere entro i successivi 30 giorni il rimborso delle somme pagate comprese quelle versate a titolo di caparra.
Il diritto di recesso è irrinunciabile e il foro competente per le controversie civili insorte tra le parti è quello del giudice del luogo di
residenza del consumatore.
15. LA CESSIONE

La struttura
Si ha cessione del contratto quando un soggetto (cessionario) si sostituisce ad un altro (cedente) in tutti i rapporti nascenti da un contratto a
prestazioni corrispettive non ancora eseguite purché l’altro contraente (ceduto) vi consenta. La dottrina ritiene che la cessione del contratto
sia un contratto trilaterale e che si concluda con l’incontro dei consensi del cedente, del cessionario e del ceduto e questa trilateralità si
spiega se si considera che mediante la cessione si viene a modificare la persona del debitore cosicché non potrà prescindere dal creditore
ceduto.

Il perfezionamento del contratto coinciderebbe allora con la conoscenza da parte del contraente proponente (che può essere anche il
cessionario) dell’ultima accettazione e fino a quel momento la proposta è revocabile. Il consenso del contraente ceduto può essere anche
tacito, però deve essere provato da chi vuole avvalersi della cessione; deve risultare da atto scritto se il contratto di cessione pretende la
forma scritta; infatti la dottrina ritiene che la cessione del contratto pretenda la stessa forma del contratto ceduto in base alla regola secondo
cui i negozi modificativi devono rivestire la stessa forma del negozio a cui si ricollegano (forma per relationem).

Il consenso può essere manifestato dal contraente ceduto anche prima della cessione mediante una clausola inserita nel contratto e in questo
caso la sostituzione è efficace dal momento in cui essa viene notificata al ceduto o dal momento in cui egli la ha accettata; l’accettazione
della sostituzione non ha nulla a che vedere con il consenso che deve manifestare anche il contraente ceduto: questo dunque vuol dire che
non siamo in presenza di un atto prenegoziale ma siamo in presenza di una mera dichiarazione di scienza.

La notifica non è necessaria se tutti gli elementi del contratto risultano da un documento nel quale è inserita la clausola all’ordine perché in
queste ipotesi la girata del documento produce la sostituzione del giratario nella posizione del girante.

La legge prevede spesso casi di cessione del contratto però se si prescinde dal consenso del contraente ceduto dovrà parlarsi di successione
ex lege che è un fenomeno diverso dalla cessione volontaria. Esempio di successione ex lege è quella prevista in caso di trasferimento di
azienda.
L’ambito
Con la cessione si attua la successione inter vivos a titolo particolare di un soggetto nella stessa posizione contrattuale di un altro
soggetto, questo vuol dire che tale posizione ricomprende tutti i diritti potestativi, le aspettative e le azioni che competono ad un soggetto in
quanto parte di un contratto.

Contratto a prestazioni corrispettive significa contratto oneroso, e questo vuol dire che non sono cedibili i contratti gratuiti. Possono
essere ceduti anche i contratti eseguiti da una sola parte ed in particolare i contratti traslativi, infatti in tal caso il trasferimento del diritto si
attua automaticamente e la posizione contrattuale di chi si rende cessionario è ben diversa dalla posizione di colui il quale si limita ad
acquistare il bene. Per esempio il cessionario di un contratto di compravendita dovrà pagare il prezzo all’alienante ceduto da cui dovrà
essere fatto salvo per tutto ciò che attiene alle varie garanzie dovute per legge.

Limitazioni alla cedibilità possono derivare invece dalla natura stessa del contratto, come nel caso in cui i contraenti debbano rivestire
particolari qualità; non sembra logica l’incedibilità dei contratti intuitu personae perché la valutazione di convenienza viene fatta dal
contraente ceduto che può anche accordarsi in tal senso con il cedente che deve eseguire la prestazione e con il cessionario.

La cessione fa subentrare il cessionario nella stessa posizione del cedente e questo significa che non è possibile una cessione parziale e che
il cedente e il cessionario non potranno modificare in nessun modo il contenuto del contratto oggetto di cessione: si può solo ipotizzare un
accordo novativo tra ceduto e cessionario dopo la cessione.

Si può avere la cessione della proposta contrattuale semplice o irrevocabile e anche la cessione del diritto di opzione, però la cessione deve
essere sempre autorizzata, dal proponente o dal concedente, e il contratto da concludere deve rientrare tra i contratti suscettibili di cessione.

Gli effetti
Gli effetti della cessione si inquadrano nell’ambito delle vicende circolatorie; infatti il contratto di cessione non ha una propria causa e sotto
questo aspetto può definirsi come un contratto di alienazione, così parleremo di vendita se il cessionario corrisponde al cedente un
corrispettivo, mentre parleremo di donazione se oltre al fatto che non vi sia un corrispettivo il contratto arricchisce il cessionario e per finire
parleremo di transazione se la cessione si inserisce nel contesto di una lite.

L’effetto della cessione è quello di operare una successione a titolo particolare nella qualità di parte contraente e questo effetto produce
delle conseguenze tra le parti.

1) RAPPORTI TRA CEDENTE E CEDUTO: l’Art. 1408 regola i rapporti tra cedente e ceduto e stabilisce che il cedente è
liberato dalle sue obbligazioni nel momento in cui la sostituzione diventa efficace nei confronti del ceduto. Tuttavia il ceduto può
evitare questo effetto naturale dichiarando di non liberare il cedente, con la conseguenza che in caso di inadempimento del
cessionario potrà poi agire nei suoi confronti: questa disciplina è inversa a quella dell’espromissione e dell’accollo perché là la
regola era la solidarietà e non la liberazione.
La dottrina ritiene inoltre che quando il ceduto non liberi il cedente, quest’ultimo non risponde solidalmente, né può essere usato il
beneficio di escussione, ma si verifica una responsabilità del cedente che è subordinata a quella del cessionario.
In caso di mancata liberazione dunque il ceduto dà notizia al cedente dell’inadempimento del cessionario entro 15 giorni da quando esso
si è verificato, però all’omessa comunicazione non consegue la liberazione del cedente ma solo l’obbligo di risarcire il danno.

2) RAPPORTI TRA CEDUTO E CESSIONARIO: questi rapporti sono disciplinati dall’Art. 1409 in base al quale il ceduto può
opporre al cessionario tutte le eccezioni derivanti dal contratto, ma non quelle fondate su altri rapporti con il cedente.

3) RAPPORTI TRA CEDENTE E CESSIONARIO: l’Art. 1410 disciplina i rapporti tra cedente e cessionario e stabilisce che il
cedente deve garantire la validità del contratto, perciò è irrilevante che egli fosse o non fosse a conoscenza di eventuali cause di
invalidità.
Se il cedente assume la garanzia dell’adempimento del contratto risponde, come un fideiussore, per le obbligazioni del contraente
ceduto. L’assunzione di garanzia in mancanza di scrittura può essere provata in qualsiasi modo,anche tramite presunzioni.
Il subcontratto
Il subcontratto è distinto dal fenomeno della cessione del contratto ed è il contratto stipulato da un soggetto, che a sua volta è parte di un
altro contratto, con un terzo e questo subcontratto è dello stesso tipo e ha ad oggetto lo stesso oggetto del contratto precedente. La legge
prevede diversi tipi di subcontratto come la sublocazione, la subenfiteusi, il sub mandato, subappalto, ecc.

Il subcontratto è legato al contratto base da un rapporto di derivatività e di subordinazione e quindi non può vivere se il contratto base
fosse invalido o risolto: questo dato lo differenzia dalla cessione che determina solo successione nel rapporto.

Nel nostro codice civile l’unica regola desumibile è l’azione diretta che il titolare della posizione attiva ha nei confronti del titolare della
posizione passiva del subcontratto e che si ricava dall’Art. 1595. In pratica nel caso della sublocazione il locatore ha azione diretta contro
il sub conduttore per esigere il pagamento del prezzo della sublocazione e per costringerlo ad adempiere a tutte le altre obbligazioni
derivanti dal contratto di sublocazione.

16. LA RAPPRESENTANZA

La rappresentanza si ha nelle ipotesi in cui si determina la sostituzione di fronte ai terzi di un soggetto(rappresentante) nell’attività giuridica
di un altro soggetto (rappresentato o dominus) Art. 1388.
Il rappresentante è legittimato ad agire per nome e per conto del rappresentato (spendita del nome, rappresentanza diretta), rimane
estraneo all’affare nei rapporti con il terzo e non assume la qualità di parte. Gli effetti dell’atto si producono direttamente nella sfera
giuridica del rappresentato. Ciò che conta per la qualifica dell’istituto è l’altruità dell’interesse. La rappresentanza è dunque caratterizzata
da un incarico attribuito dal rappresentato al rappresentante per la gestione degli interessi del rappresentato.

Diversa è la rappresentanza indiretta. Essa si ha quando un soggetto agisce per conto ma non in nome del rappresentato per cui l’altruità
dell’interesse non appare all’esterno. In questo caso gli effetti degli atti conclusi dal rappresentante indiretto si producono nella sfera
giuridico-patrimoniale del rappresentante il quale avrà l’obbligo di ritrasferirli successivamente in favore del rappresentato. Si avrà
modificazione patrimoniale mediata e indiretta.
 Una parte della dottrina tende ad unificare i due fenomeni, ma secondo Gazzoni ciò non è possibile, perché nel caso di
rappresentanza indiretta non si può propriamente parlare di rappresentanza in senso stretto, in quanto alla base del rapporto vi è un
incarico che nasce da un mandato. Questo è un accordo contrattuale autonomo caratterizzato dall’agire nell’interesse di altri, a differenza
della rappresentanza caratterizzata invece dalla spendita del nome.

È necessario che il rappresentato affidi l’incarico al rappresentante previa autorizzazione consistente nell’attribuzione di un potere di agire,
di spendere il nome altrui, al rappresentante nel rapporto con il terzo. Per il terzo l’autorizzazione fonda la legittimazione del
rappresentante in via sostitutiva.

Il potere rappresentativo può essere conferito dall’interessato (rappresentanza volontaria) o dalla legge (rappresentanza legale). La
rappresentanza legale, regolata da un’autonoma disciplina, consiste nel conferire ad un soggetto idoneo la rappresentanza di soggetti
incapaci legalmente,non in grado di gestire i propri interessi (minore di età per cui rappresentati dai genitori; interdizione legale,
rappresentanza attribuita ad un tutore) ed è un istituto posto a tutela di interessi generali e superindividuali.

La rappresentanza organica invece è il potere di compiere atti giuridici,in nome di un ente giuridico,e spetta a colui che ricopre l’ufficio
rappresentativo dell’ente. Bisogna però distinguere a seconda che, in base all’organizzazione normativa interna dell’ente, il soggetto che
manifesta la volontà dell’ente sia anche colui che la forma (es: amministratore unico di una società a responsabilità limitata, che assommi
in sé i poteri di amministrazione ordinaria e straordinaria) o vi sia una distinzione tra organo deliberante e organo che dichiara la volontà
dell’ente all’esterno (es: società per azioni in cui la volontà dell’ente è formata dal consiglio di amministrazione, mentre è il presidente a
manifestarla all’esterno). In quest’ultimo caso più che di rappresentante dovremmo parlare di nuncius in quando, essendovi una
dissociazione tra potere di rappresentanza e potere di gestione , chi manifesta la volontà all’esterno si limita a trasmetterla, essendosi già
formata precedentemente.

La rappresentanza è sempre ammessa salvo che per gli atti personalissimi quali il testamento, il matrimonio e più in generale gli atti di
diritto familiare. Alcuni ritengono che un’eventuale esclusione dell’agire rappresentativo debba essere prevista e accettata espressamente.

Si discute se l’istituto della rappresentanza debba essere limitato ai soli atti negoziali. Una parte della dottrina propende per una soluzione
negativa perché, essendo la rappresentanza preordinata alla realizzazione della volontà altrui, con conseguente produzioni di effetti, non
può che limitarsi ad atti negoziali. Mentre chi propende per la soluzione positiva ritiene che il rappresentante possa porre in essere qualsiasi
atto negoziale e non, essendo fondamentale solo la spendita del nome. Invece per gli atti non dichiarativi, cioè materiali o reali
(trasformazione,invenzione,perdita del possesso ecc), la rappresentanza è ammessa ma piuttosto che parlare di rappresentanza in senso
tecnico,poiché manca la possibilità di spendere il nome altrui, si può parlare di generica sostituzione o di gestione sostitutiva.

Per quanto riguarda la rappresentanza passiva, ossia la possibilità di ricevere atti o prestazioni in nome del rappresentato,si può dire che
in generale la rappresentanza attiva contempla anche quella passiva.

Sul piano processuale si distingue la rappresentanza sostanziale nel processo alla rappresentanza processuale. La prima fa riferimento alla
possibilità per un soggetto di scegliere di stare in giudizio tramite rappresentante il quale potrà compiere tutti gli atti necessari al processo.
Mentre la rappresentanza processuale è affidata al procuratore legale che dovrà compiere tutti gli atti di natura processuale e dovrà
difendere il rappresentato.

Il potere rappresentativo
La rappresentanza presuppone il potere di spendere il nome (contemplatio domini). Il rappresentante ha la facoltà di dichiarare che il
negozio rappresentativo è compiuto in nome del rappresentato e di formare la volontà negoziale, attenendosi alle direttive ricevute
dall’interessato. Si parla di facoltà e non di obbligo perché il rappresentante ha si un potere,conferitogli dal rappresentato,ma anche un
dovere che attiene alle modalità di esercizio dello stesso potere,ma che non è libero perché gestisce un interesse altrui.

Il rappresentante esercita un potere di secondo grado che gli deriva dal rappresentato. Il rappresentante con la spendita del nome esercita
l’altrui autonomia senza però privare il rappresentato del suo potere di agire. In effetti, egli non assorbe il potere dell’interessato che in ogni
momento può agire, revocando tacitamente la procura. Il rappresentante liberamente non può cedere il proprio potere perché si tratta di un
incarico attribuito intuitu personae, ma il rappresentato può autorizzare il rappresentante a delegare a terzi il proprio potere, determinando
così una subprocura.

Da distinguere dal rappresentante è il nuncius che si limita a trasmettere la volontà altrui mediante semplice comunicazione,senza
assumere alcuna iniziativa. Esso non partecipa alla formazione della volontà e, poiché si limita a trasmettere la volontà altrui, incontra
meno limiti. A volte il rappresentante può assumere sia la veste di rappresentante che di nuncius.

La procura
Il potere rappresentativo viene conferito mediante procura che è un negozio unilaterale a carattere autorizzatorio. Esso produce i suoi
effetti se riveste le forme del negozio che il rappresentante dovrà concludere (forma per relationem). Se la forma è libera la procura può
essere anche rilasciata in base a comportamenti concludenti,imputabili ed effettivamente tenuti.

Differente è la procura apparente, che si configura quando il contraente ingeneri nei terzi, mediante un comportamento colpevole, la
convinzione di agire per conto di un altro soggetto. In tal caso gli effetti dell’azione del rappresentante si produrranno nel patrimonio del
rappresentato, che perciò sarà responsabile dell’operato del rappresentante,per l’affidamento ingenerato nei terzi . Con la procura il
rappresentato affida un potere al rappresentante che ha la facoltà e non l’obbligo di esercitare. Un aspetto fondamentale riguarda la
recettizietà. La tesi maggioritaria rileva il carattere recettizio della procura per cui per la produzione dei suoi effetti è necessario che il
destinatario e quindi il rappresentante dia il proprio consenso. Mentre una parte della dottrina(Bianca) ritiene che la procura non sia
recettizia,ma che essa si perfeziona con la sola volontà dell’autore, prescindendo dal consenso del rappresentante e che la conoscenza
dell’atto non sia funzionale all’effetto.

La procura può essere generale o speciale. È speciale quando conferisce al rappresentante l’incarico di compiere un determinato atto. È
generale quando al rappresentante viene affidato il compito di gestire qualsiasi atto al di fuori di quelli personalissimi e degli atti che
richiedono una specifica autorizzazione. Nel campo della straordinaria amministrazione solo gli atti indicati dalla procura (Art. 1708).
Non si ritiene implicita nella procura la rappresentanza in giudizio.
Qualora il rappresentato neghi di aver rilasciato procura spetta al terzo offrirne la prova e in caso di forma libera la prova potrà essere
raggiunta per presunzioni. Anche se il terzo può sempre chiedere che il rappresentante dia prova della procura conferitagli.
Come abbiamo più volte detto, il rappresentante non ha l’obbligo di gestire l’affare in nome e per conto del rappresentato. Per cui
quest’ultimo, per obbligare il rappresentante ad eseguire il compito affidatogli con procura, potrà stipulare un contratto con il
rappresentante. Questo contratto solitamente è il mandato con il quale una parte(mandatario) si obbliga a compiere uno o più atti giuridici
per conto dell’altra parte (mandante). Quindi ad un rapporto esterno che è la procura, con cui si attribuisce il potere di spendere il nome, si
somma un rapporto interno, con cui si obbliga il rappresentante a gestire l’affare. Il mandato può essere con rappresentanza se
accompagnato da procura che autorizzi la spendita del nome del mandante da parte del mandatario,ovvero senza rappresentanza se non è
accompagnato da procura.

In caso di modificazioni o di revoca della procura,queste dovranno essere portate a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. In caso contrario
non sono opponibili ai terzi, salvo prova della loro conoscenza da parte degli stessi al momento della conclusione del contratto. Però
piuttosto che di revoca in senso tecnico, dovremo parlare di recesso unilaterale perché mentre la revoca agisce retroattivamente, in questo
caso gli atti compiuti dal rappresentante prima della revoca sono efficaci. La modificazione invece è una revoca parziale distinta dalla
integrazione con cui il dominus amplia o specifica i termini della procura. L’atto di revoca o di modificazione è recettizio nei confronti del
rappresentante ma non dei terzi.
 Per la pubblicità si ravvisa un onere a carico del dominus di curare la pubblicità cui corrisponde un onere di diligenza dei terzi nel
venirne a conoscenza. La prova della conoscibilità spetta al rappresentato.
 Per quanto riguarda la forma della revoca e della modificazione,non richiedono la stessa forma della procura per cui è possibile
revocare tacitamente una procura scritta ,salvo diversa pattuizione ,anche designando un nuovo rappresentante per lo stesso affare o
concludendolo direttamente.

Il potere di rappresentanza si può estinguere oltre che per revoca della procura, per rinuncia da parte del rappresentante, per incapacità
sopravvenuta del rappresentante o del rappresentato, per il fallimento del rappresentato, per la scadenza del termine o per il verificarsi della
condizione risolutiva e per l’estinzione del rapporto di gestione. Queste cause ad esclusione della revoca, non sono opponibili ai terzi che in
buona fede, senza colpa, le hanno ignorate (art 1396 c.c.).

Quando i poteri del rappresentante sono cessati egli dovrà consegnare il documento che attesti l’attribuzione degli stessi. E in caso di
procura speciale con forma ad substantiam, il rappresentato ha un mezzo sicuro per evitare che il rappresentante possa proseguire nella
gestione dei suoi affari, nonostante l’estinzione della procura. Ma il semplice ritiro non fa salva la responsabilità del rappresentato nei
confronti dei terzi e i terzi hanno la facoltà di prendere visione del documento.

Capacità: il rappresentato deve avere la capacità di agire sia per attribuire la spendita del nome, sia per l’attività gestoria posta in essere dal
rappresentante. Il rappresentante, parte formale del contratto, non deve necessariamente essere capace di agire, perché gli effetti dell’atto si
produrranno nella sfera patrimoniale del rappresentato, ma deve essere capace di intendere e di volere. L’incapacità naturale del
rappresentante comporterà pertanto l’annullabilità del negozio, in applicazione dell’art 428. L’ incapacità naturale sopravvenuta del
rappresentato al momento della conclusione del contratto sarà irrilevante.

La scissione tra parte formale e sostanziale dell’atto rileva ai fini della disciplina dei vizi della volontà e degli stati soggettivi rilevanti.
Infatti il negozio rappresentativo è annullabile se è viziata la volontà del rappresentante. Invece qualora il vizio riguardi elementi
predeterminati del rapporto, l’atto è annullabile solo se era viziata la volontà del rappresentato. Se si tratta di un nuncius, poiché questo si
limita a trasmettere la volontà altrui, è a quest’ultima che si fa attenzione in caso di vizi della volontà. Nel rispetto di tale ratio in caso di
buona fede o mala fede, di scienza o di ignoranza, si guarda sempre alla persona del rappresentante salvo il caso che riguardi elementi
predeterminati dal rappresentato.

In caso di vizi della volontà o in caso di incapacità naturale del rappresentato al momento dell’attribuzione della procura al rappresentante,
il primo non può ottenere l’annullamento della procura e ricorrere alla disciplina del falsus procurator. Ma quando è intervenuta la spendita
del nome, il rappresentato può revocare la procura, venuto meno lo stato di incapacità o il vizio. Si impugnerà il negozio rappresentativo e
avrà effetti nei confronti del terzo, il cui affidamento è tutelato secondo le regole ordinarie.

Abuso di potere
Il potere rappresentativo va esercitato nel rispetto dell’interesse del rappresentato. Qualora il rappresentante persegua un interesse proprio o
di un terzo,in violazione dell’obbligo di rispetto dell’interesse del dominus, si ha abuso di potere rappresentativo. L’abuso del potere
implica esclusivamente la responsabilità per inadempimento del rappresentante ex. Art. 2043, e legittima il rappresentato all’azione
risarcitoria. Sull’efficacia dell’atto non avrà effetti in quanto rimarrà valido nei confronti del terzo per il principio dell’affidamento.

Per aversi abuso di potere è necessario che il rappresentante persegua l’interesse proprio o di un terzo in via esclusiva, non è
indispensabile l’esistenza di un danno patrimoniale attuale del dominus. Il danno può conseguire anche alla lesione di un interesse morale
del rappresentato o essere solo potenziale ma comunque è insito nel fatto che l’interesse perseguito è contrastante con quello del dominus.
Una tipologia di abuso di potere sussiste se c’è un conflitto di interessi (Art. 1394). La situazione conflittuale la si ha quando l’interesse del
rappresentato non coincide con l’interesse del rappresentante. Il rappresentato in questo caso può chiedere l’annullamento se il conflitto era
conosciuto o riconoscibile dal terzo,a prescindere dalla prova di un vantaggio personale del rappresentante o del terzo.
Per quanto riguarda la natura del vizio, bisogna guardare non al rapporto di gestione ma al potere di spendita del nome. Il vizio è legato
alla legittimazione all’esercizio del potere del rappresentante di fronte ai terzi incidendo inevitabilmente sull’atto.
Tipici casi di conflitto di interessi si riscontrano quando il rappresentante è partecipe dell’interesse del terzo contraente, e in caso di
contratto con se stesso (Art. 1395). In quest’ultimo caso il rappresentante assume la posizione di parte sostanziale,contrapposta al
rappresentato, ovvero stipula in rappresentanza delle parti contrapposte (doppia rappresentanza). La disciplina sul contratto con se stesso
prevede l’annullabilità del contratto. Sono fatti salvi i casi in cui vi è stata una specifica autorizzazione del dominus, con l’esatta
indicazione dei termini del contratto e nelle ipotesi in cui il contenuto del contratto sia stato predisposto in modo da escludere un conflitto.
L’ autorizzazione nel primo caso si configura come un negozio autorizzatorio e volto ad ampliare i poteri della procura .

Il difetto di potere
L’ipotesi di eccesso o difetto del potere rappresentativo si ha nei casi in cui il rappresentante appare tale, ma nella realtà opera senza
conferimento di potere gestorio o perché non lo abbia ab initio o perché eccede i limiti della procura (falsus procurator).
Una parte della dottrina ritiene che in questi casi il contratto è invalido o meglio nullo. La legge non prevede la possibilità per il falso
rappresentato di esperire alcuna azione, ma si ha solo la possibilità di agire per ottenere la nullità.

Secondo Gazzoni il contratto non è nullo, anzi è perfetto ma inefficace nei confronti del falso rappresentato. Il vizio è esterno, incide
sulla legittimazione che non c’è al momento della conclusione, ma potrebbe sopravvenire in seguito, con la ratifica del falso rappresentato,
operando come condicio iuris. La ratifica che è un negozio unilaterale autorizzativo, è volto ad accettare l’operato del falso rappresentante
e ad integrare il difetto di legittimazione. Esso è diretto non al falso rappresentante, ma al terzo. Il falso rappresentato nel momento in cui
procede con la ratifica, sul piano funzionale dichiara la propria volontà di far propri gli effetti dell’atto concluso dal falso rappresentante
con il terzo e di assumere la qualità di parte, per cui la ratifica opera come procura a posteriori. Essa deve rivestire la forma (per
relationem) del contratto ratificato, sia ad substantiam che ad probationem. Quanto alla prima la dichiarazione di ratifica può avvenire
anche mediante dichiarazione scritta, quanto alla seconda può aversi anche tramite fatti concludenti. In giurisprudenza si dice che sia un
contratto in via di formazione.

Nella prospettiva della nullità, la ratifica sarà un negozio autonomo con cui il rappresentato fa propri gli effetti del contratto anche se una
parte della dottrina ritiene che ciò non sia possibile,in quanto il contratto non esiste. In caso di contratto nullo, al di là della ratifica del falso
rappresentato, sia il terzo che il falsus procurator potrebbero recedere unilateralmente.

Una parte isolata della dottrina, invece, ritiene che lo scioglimento debba avvenire prima della ratifica. Ad ogni modo il contratto non è
irrilevante, dato che lo scioglimento è conseguenza di un accordo tra falsus procurator e terzo ovvero o della mancata ratifica. In effetti, per
evitare di rimanere legato il terzo può chiedere al rappresentato di pronunciarsi entro un termine da lui indicato. La ratifica ha effetto
retroattivo fatti salvi gli effetti acquistati dai terzi. In caso di circolazione di beni mobili vale la regola possesso vale titolo. In caso di
circolazione di beni immobili,data la nullità dell’atto, più che applicare la disciplina della trascrizione,si dovrebbe parlare di una sorta di
prenotazione.

Conclusione condivisibile anche se accettiamo l’idea che il contratto è comunque valido e la ratifica successiva opera come procura a
posteriori. In caso di alienazione dello stesso bene da parte del falsus procurator e del falso rappresentato, chi acquista da quest’ultimo
prevale se ha trascritto prima della ratifica, anche se dopo la trascrizione dell’acquisto dal falsus procurator.

Il falsus procurator è responsabile ex Art. 2043 per il danno cagionato al terzo contraente che ha fatto affidamento, senza sua
colpa,all’efficacia dell’atto (Art. 1398). Questo vale anche in caso di avvenuta ratifica qualora il danno si sia già verificato. Il terzo potrà
chiedere anche il risarcimento del danno. La responsabilità del falsus procurator ha natura precontrattuale,secondo la giurisprudenza
extracontrattuale essendo stata lesa la libertà contrattuale del terzo. Il risarcimento del danno avrà ad oggetto l’interesse negativo.

Il contratto per conto di chi spetta


Si tratta di un contratto concluso da un soggetto nell’interesse di un altro soggetto di cui si ignora l’identità c.d. rappresentanza in incertam
personam. L’identità sarà manifestata al contraente soltanto in un momento successivo. Sono varie l’ipotesi ma è da escludersi il contratto
per persona da nominare.
17. IL CONTRATTO PER PERSONA DA NOMINARE

Al momento della conclusione del contratto una parte, detta stipulante, può riservarsi la facoltà di nominare successivamente la persona
che deve acquistare diritti e assumere gli obblighi nascenti dal contratto stipulato con altra parte, detta promittente (Art. 1401). In difetto di
nomina gli effetti si producono tra i contraenti originari (Art. 1405) cioè tra promittente e stipulante.
 La formula della riserva può essere indifferentemente quella " per persona da nominare" o " per sé o per persona da nominare".

La nomina è sempre libera per lo stipulante, mentre il terzo designato può trovarsi in condizione di non poterla rifiutare, ciò avviene in
particolare quando egli abbia preventivamente autorizzato lo stipulante a nominarlo. La legge parla a riguardo di procura (Art. 1402 2°
comma) ma si è al di fuori dell’ipotesi di rappresentanza.
 Da punto di vista storico l’istituto nasce come risposta ad una precisa esigenza pratica: le persone di un certo rango sociale non
desideravano apparire acquirenti nelle vendite all’asta ma ben presto questo strumento si rivelò ottimo mezzo di evasione fiscale . Per
questo motivo la legislazione impose la fissazione di un termine brevissimo per sciogliere la riserva, trascorso il quale un’ eventuale
nomina equivaleva ad un nuovo trasferimento.
 Il codice del 1942 ha disciplinato l’istituto ma la norma che lascia ai privati la facoltà di fissare un termine convenzionale derogando
ai tre giorni di legge (Art. 1402)è marginale, perché a fronte dei vantaggi di un termine di nomina anche lungo, stanno gli svantaggi di
vedersi tassare doppiamente l’atto, trascorsi solo tre giorni.
Secondo Gazzoni, non è un caso che l’indagine giurisprudenziale dimostra che, in concreto, questo meccanismo è applicato ai contratti ad
effetti obbligatori, in particolare al contratto preliminare che sfugge facilmente alla registrazione e dunque all’imposizione fiscale. In sede
di contratto definitivo infatti il terzo, una volta nominato, si troverà a contrarre direttamente con il promittente proprietario, dando così
esecuzione ad entrambi i contratti preliminari. Lo stipulante, dunque, finisce per svolgere una funzione di semplice intermediario,
trattandosi in concreto di una vera e propria vendita all’affare. In ogni caso, quando non è ravvisabile un intento speculativo dello
stipulante, l’istituto mira a tutelare il promittente al quale garantisce la vincolatività dell’accordo, a prescindere dal vizio o dai difetti di
procura che possono renderlo inefficace qualora la controparte agisca a mezzo di rappresentante.

Natura giuridica
Il contratto per persona nominare non è un tipo contrattuale a sé stante, ma presenta uno speciale modo di atteggiarsi sotto il profilo della
individuazione di una delle parti: nasce ambiguo sul piano soggettivo, perché fino alla scadenza del termine utile per la nomina, non si sa
chi acquisterà il diritto e chi assumerà gli obblighi derivanti dal contratto. Il potere dello stipulante di procedere alla nomina o di
autodesignarsi è effetto immediato e caratteristico del contratto per persona da nominare. Il problema centrale resta quello di spiegare
l’ambiguità soggettiva: al riguardo sono state elaborate varie teorie. Gazzoni non condivide né la teoria di surrogazione legale, né della
fattispecie complessa o a formazione progressiva, né la teoria condizionale secondo cui l’atto di designazione fungerebbe da condizione
risolutiva dell’acquisto dello stipulante e da condizione sospensiva dell’acquisto del terzo.
1) Secondo Gazzoni, la teoria più accreditata è quella secondo cui lo stipulante sarebbe un rappresentante in incertam personam del
designando, il quale in caso di difetto di preventiva procura, ai sensi dell’Art. 1402, opererà con l’accettazione una vera e propria
ratifica.
2) In senso contrario si può però osservare che lo stipulante è, all’origine, parte del rapporto, a differenza del rappresentante e che si
dovrebbe concepire una comtemplatio domini insita in un contratto di per se all’origine ambiguo.
3) Ne si può parlare della riserva di nomina in termini di contratto per conto di chi spetta: in questo contratto, infatti, l’individuazione del
soggetto, che sarà parte sostanziale del rapporto, non dipende dall’esercizio del potere di nomina ma da circostanze oggettive.
4) Un avvicinamento verso la spiegazione del fenomeno è invece operato dalla teoria della cosiddetta concentrazione soggettiva:
nell’ambito della categoria dei negozi con persona incerta, si individua la peculiarità del contratto per persona da nominare nel fatto della
designazione alternativa che spetta allo stipulante la quale costituisce non tanto una condizione quando la fonte stessa dell’ imputazione,
dal momento che essa ha come conseguenza l’assunzione di una persona nella posizione di destinatario nella sostituzione effettuale.
Questa teoria richiama il fenomeno dell’obbligazione alternative, per comprenderlo appieno deve allora ricordarsi che contratto per
persona da nominare produce immediatamente l’effetto di attribuire allo stipulante il potere di nomina, pertanto non si può scindere la
titolarità del diritto di scelta dalla titolarità del contratto: il primo in capo allo stipulante,il secondo invece in capo alternativamente allo
stipulante o al terzo. Consegue, da ciò, che il contratto nasce sempre solo tra promittente e stipulante ed è esclusa ogni forma di
alternatività, e dunque di concentrazione soggettiva.
Per Gazzoni, se non vi è alternatività vi è però facoltà alternativa di sostituzione nel rapporto → la clausola di riserva autorizza dunque lo
stipulante a modificare il profilo soggettivo del rapporto, mediante la sostituzione del terzo designato a sé: gli attribuisce cioè un ius
variandi.

Gli effetti
Per lo stipulante → in pendenza del termine di nomina, non si producono effetti per lo stipulante a prescindere da un suo comportamento
che possa valere rinuncia alla nomina, e quindi autodesignazione, come sostengono i fautori della tesi della rappresentanza. La tesi opposta
ritiene invece che gli effetti si producono immediatamente, ma si risolvano in caso della nomina invocando esigenze di certezza.
Per il promittente → non può parlarsi di un semplice vincolo obbligatorio di indisponibilità ma di una vera e propria opponibilità
dell’accordo. Non a caso del resto il contratto per persona da nominare è suscettibile di immediata trascrizione sempre che produca uno
degli effetti previsti dall’Art. 2643 (Gazzoni).

Si discute circa la legittimazione alle azioni giudiziali volte ad impugnare il contratto. I sostenitori della teoria della condizione risolutiva,
attribuiscono in capo allo stipulante tale legittimazione. Coloro che, invece, sottolineano che gli effetti sono sospesi per lo stipulante ma
non per il promittente, sostengono che quest’ultimo potrà iniziare immediatamente ogni azione, avendo come legittimato passivo lo
stipulante, il quale viceversa se iniziasse il giudizio prima della nomina decadrebbe dal relativo potere, per avere formulato un giudizio di
convenienza che presuppone la titolarità del diritto.
 L’Art. 2935 stabilisce che la prescrizione non decorre prima della nomina o dell’autodesignazione né per lo stipulante né per il
designato, il quale è legittimato sia attivamente che passivamente solo dopo la nomina o l’accettazione.

Il potere di nomina
La situazione giuridica soggettiva, di cui è titolare lo stipulante, deve essere valutata avendo esclusivo riguardo ai rapporti esterni con il
promittente e non già ai rapporti interni che possono preesistere con il designato nel caso di preventiva autorizzazione; i rapporti interni,
invece, rilevano solo in un secondo momento, quando lo stipulante ha operato una scelta, nei limiti in cui essa non si risolve un’auto
designazione o nella designazione di un terzo diverso da colui che aveva rilasciato l’autorizzazione. In questi casi, questo non ha alcuna
possibilità di agire in forma specifica nella nomina, avendo solamente il rimedio del risarcimento del danno(Gazzoni).
 La causa donandi (al pari della causa solvendi e di quella di scambio) è invece pienamente configurabile quando l’electio è non già
preceduta autorizzazione ma seguita da accettazione.

La scelta potrebbe configurarsi, a seconda delle varie tesi propugnate, come adempimento dell’obbligo assunto in sede contrattuale di
addivenire alla cosiddetta concentrazione soggettiva, o anche come adempimento di un onere. Per Gazzoni la scelta è esercizio di un diritto
potestativo, ma il promettente, pur se in soggezione, potrebbe invocare l’Art. 1461.
Il potere di nomina è trasmissibile mortis causa; mentre la trasmissione inter vivos è concepibile solo a seguito di cessione del contratto →
infatti la cessione del solo potere di nomina si configurerebbe come una delega, e gli effetti del mancato esercizio ricadrebbero comunque
nella sfera dello stipulante.

Si discute se i creditori dello stipulante possono agire in surrogatoria o revocatoria contro l’inerzia o contro l’esercizio positivo della scelta
. I dubbi nascono dal fatto che:
a) nel caso di azione surrogatoria, non sembra possibile parlarsi di mancato esercizio del diritto verso terzi ai sensi dell’Art. 2900,
trattandosi piuttosto di un atto di esercizio di un potere di godimento della propria situazione soggettiva;
b) nel caso di revocatoria, invece, può discutersi se si tratti di un atto di disposizione o non piuttosto come preferibile di una omissio
adquirendi, come tale non suscettibile di revoca ai sensi dell’Art. 2901.
Il procedimento di nomina
La dichiarazione di nomina è atto unilaterale dello stipulante, non surrogabile da un accordo con il terzo, fonte di diritti e obblighi
autonomi → si pone come presupposto di legittimazione ai fini dell’accettazione, come condizione di rilevanza esterna dell’autorizzazione
preventiva: non sembra avere pertanto natura negoziale, se non altro perché l’electio implica una valutazione di interessi, discendente da
una precisa volontà del soggetto.

Per la validità della nomina, si richiede la piena capacità di agire → tuttavia secondo i fautori della teoria della rappresentanza sarebbe
sufficiente la capacità di intendere e di volere, dovendosi applicare l’Art. 1389. La dichiarazione di nomina sarà impugnabile in caso di
violenza, errore e dolo. In particolare, rileverà l’errore ostativo, mentre vi sono dubbi riguardo l’errore in persona. Il dolo, invece, rileverà
in termini di induzione alla nomina, più che di scelta di un dato soggetto (Gazzoni).
 Nel caso di invalidità della dichiarazione, gli effetti si produrranno in capo allo stipulante, sempre che il termine stabilito dalla legge
o dalle parti sia scaduto, altrimenti lo stipulante potrà procedere ad un’altra nomina. Il termine convenzionale deve essere certo e non
può essere rinnovato prima della sua scadenza, e va osservato a pena di decadenza per quanto riguarda la comunicazione.

La dichiarazione di nomina deve essere comunicata alla promettente, ma non necessariamente indirizzata a lui (è valida anche la
dichiarazione resa al notaio). Ci si è chiesti se la dichiarazione di nomina possa ottenere condizioni o termini → si è risposto
negativamente. La sequenza perfezionativa del meccanismo di nomina non si realizza sempre istantaneamente ma può anche proiettarsi nel
tempo, purché entro il termine fissato dalla legge o dal contratto. Ciò accade quando lo stipulante non riceve una preventiva autorizzazione
alla nomina e quindi si assiste a una duplice dichiarazione: da un lato la nomina, dall’altro l’accettazione del designato. Entrambe le
dichiarazioni dovranno essere comunicate al promittente. L’accompagnamento di cui all’Art. 1402, secondo comma, va infatti inteso in
senso giuridico e non fisico, a sottolineare che senza la accettazione, la dichiarazione di nomina è inefficace. Non si discute la natura
negoziale dell’accettazione. Il terzo designato può anche venire a conoscenza della nomina mediante meccanismi della pubblicità di fatto.
A differenza della dichiarazione di nomina, l’accettazione va costruita come negozio recettizio (la nomina, invece, non è recettizia). Si
tratta infatti di un atto non meramente strumentale, come è l’atto di nomina, ma di un atto in sé compiuto, che svolge una funzione finale
nella sequenza. Da ciò deriva che lo stipulante potrà sempre revocare la dichiarazione di nomina prima della notifica dell’accettazione.
Il criterio della priorità della notifica dell’accettazione allo stipulante, vale anche a risolvere il conflitto tra più nominati. L’Art. 1403
secondo comma richiede la trascrizione anche della dichiarazione di nomina, con l’indicazione dell’atto di accettazione, ma tale onere
deve essere assolto a soli fine di poter opporre ai terzi aventi causa del promettente l’acquisto dei diritti. Tale possibilità presuppone che sia
stata curata tempestivamente la trascrizione del contratto, senza la quale non varrebbe a nulla una trascrizione della mera dichiarazione di
nomina pure se precedente a quella dell’acquisto da parte dei terzi .
 Questa formalità non può valere a dirimere le controversie tra più nominati, ma assolverà ad un compito proprio, autonomo e atipico
rispetto a quello di cui all’Art. 2644, perché in questo modo si attribuirebbe all’Art. 1403, secondo comma, il significato ulteriore che
non ha, atteso che quei gli stessi effetti a cui la norma rinvia possono essere solo quelli previsti dai articoli 2644 e 2650 in connessione
con una vicenda circolatoria, che in tal caso invece non esiste (GAZZONI).

18. L’INTERPRETAZIONE

L’interpretazione è un’operazione volta ad accertare il contenuto sostanziale del contratto, cioè ciò che le parti hanno stabilito in ordine alla
vicenda patrimoniale.
Le norme che regolano l’interpretazione si distinguono in due gruppi:
1. quelle che attengono all’interpretazione soggettiva
2. quelle che attengono all’interpretazione oggettiva

In base all’Art. 1362, nell’interpretazione del contratto il giudice deve valutare la comune volontà delle parti; quindi, l’interprete non dovrà
limitarsi al SENSO LETTERALE che emerge dalle parole adoperate, ma deve valutare anche il comportamento complessivo delle parti,
guardando quello anteriore alla stipulazione, quello al momento della stipulazione e quello successivo alla stessa. → L’interpretazione
della volontà contrattuale deve risultare da una valutazione complessiva delle disposizioni contenute nel contratto, quindi, anche se il testo
di una clausola appare chiaro, questo dovrà essere interpretato alla luce del significato che emerge dalla lettura coordinata di tutte le altre
clausole, sia valide che invalide (interpretazione sistematica).
 Sempre in tema di interpretazione soggettiva, si deve ricordare che, per quanto siano generali le espressioni usate nel contratto, non
bisogna perdere di vista gli interessi che le parti intendono realizzare con il contratto.
 Se nel contratto sono presenti clausole contrattuali che contengono esempi esplicativi, la loro portata sarà estesa a tutti i casi che, pur
se non espressi, rientrano nel patto stesso (interpretazione estensiva).

Secondo l’opinione comune, i criteri oggettivi sono sussidiari rispetto a quelli soggettivi. Tra questi rientra l’interpretazione secondo
buona fede, intesa come generale dovere di correttezza e di reciproca lealtà di condotta nei rapporti tra le parti. Questa regola interpretativa
esprime l’esigenza di tutelare l’affidamento di ciascuna parte sul significato dell’accordo, quindi si dovranno escludere quelle
interpretazioni cavillose e formalistiche che ogni parte effettua nel proprio interesse, ma contrarie allo spirito dell’intesa.
Quando il senso del contratto resta oscuro, nonostante l’applicazione delle regole interpretative menzionate, la legge stabilisce che si dovrà
preferire il senso che produce effetti giuridici. Questa regola è espressione del principio generale di conservazione degli effetti degli atti
giuridici, che si applica anche ai contratti invalidi (Art. 1419, 1420, 1446).
Sempre in tema di clausole ambigue, la legge (Art. 1368) prevede la possibilità di ricorrere agli usi interpretativi, cioè quei comportamenti
dai quali è possibile ricavare il significato che gli individui di un certo luogo danno nella pratica a clausole di per sé ambigue, questo
perché normalmente il contratto si adegua al significato che gli viene riconosciuto in un dato ambiente socio-economico.
 In base all’Art. 1369, le espressioni polisensi vanno interpretate adeguandole alla funzione economico-sociale di quel tipo
di contratto (interpretazione funzionale).
 Le clausole inserite in condizioni generali o moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti, nel dubbio, si
interpretano a favore dell’altro contraente, perché si tutela sempre la parte più debole.

Se nonostante l’applicazione di queste regole interpretative, il contratto resta oscuro, questo dovrà essere inteso in senso meno gravoso per
l’obbligato. Nei contratti a titolo gratuito si favorisce l’obbligato, poiché questi non riceve alcuna ricompensa per il suo sacrificio. Nei
contratti a titolo oneroso, invece, si utilizzerà l’interpretazione equitativa, cioè gli interessi delle parti si considereranno alla stessa stregua,
poiché al vantaggio economico di ognuna corrisponde un sacrificio economico.

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