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Scuola Internazionale Neoreichiana

Anoressia
Bulimia
Obesità (da iperfagia)
-Documenti
-Teorie
-Terapia

WALDO A. BERNASCONI
Direttore Scientifico Forum Crisalide
Edizione per Internet – Anno 2000

1
Indice
Prefazione 4
Cap. 1 - Quel maledetto cordone ombelicale ! 6
La mamma “tipo S”: la sognatrice 6
Il terreno relazionale “tipo S” 7
La mamma di “tipo O”: l’intellettuale 8
Il terreno relazionale “tipo O” 8
La mamma “tipo M”: la chioccia 9
Il terreno relazionale di “tipo M” 9
La mamma “tipo P”: la seduttrice 10
Il terreno relazionale di “tipo P” 11
La mamma “tipo R”: la tradizionalista 12
Il terreno relazionale di “tipo R” 13
La mamma-mamma 13
Mamma-mamma è ... 14
La mamma “fredda” ... 15
La mamma calda ... 15
La mamma verde ... 17
Scopriamo il vero Sé di mamma-mamma 18
Terreno relazionale e cordone ombelicale 20
Il padre ... chi l’ha visto? 21
Le “belle famiglie” 22
Cordone ombelicale e patologie 24
W. Reich: il masochismo è richiesta d’amore ... (Scheda 1) 27
La Teoria dei Cinque Movimenti (Scheda 2) 28
L’affettività negli esperimenti di HARLOW (Scheda 3) 29
Il terreno relazionale (Scheda 4 – Scheda 4.1) 30
Il Carattere (Scheda 5) 32
Cap. 2 - Quando a governare il Sé è la “bellezza della mente” 33
Anoressia: dal greco anoreksía 34
Armonia del corpo - armonia della mente 35
Il “Tu”partorito dalla mente 37
La “coppia” partorita dalla mente 39
La “bellezza” partorita dalla mente 40
La “femminilità” sotto la lente della mente 42
La sessualità partorita dalla mente 44
Il “progetto esistenziale” partorito dalla mente 45
Su, nel regno della mente ... 45
Ma Santa Veronica Giuliani era anoressica? (Scheda 6) 47
Galleria XX Secolo (Scheda 7) 49
L’Uomo a Cassetti (Scheda 8) 50
Cap. 3. Un’occhiata dentro il male 51
Alexia - 16 anni, anoressica: una “brava” bambina 51
Feliciana - 17 anni, anoressica: una ragazza del sud... 55
Stefania - 25 anni, bulimica: vomitare in eterno ... 58

2
Federica - 27 anni, anoressico-bulimica: sola! 62
Irene - 33 anni, iperfagica: ...sotto la ciccia tante cose da raccontare 66
Storie ... 69
Dossier Genitori 70
Cap. 4 - Facciamo un poco di luce ... 72
L’approccio analitico 72
L’approccio comportamentale 73
L’approccio umanistico 74
La terapia di famiglia 74
Il sostegno psicologico 74
Criteri diagnostici per l’anoressia nervosa 76
Criteri diagnostici per la bulimia 78
Criteri diagnostici per l’obesità da iperfagia 80
Sull’obesità 82
Condizioni patologiche più frequenti negli obesi 82
Diete e Disturbi Alimentari Psicogeni 83
Disturbi Alimentari Psicogeni e conflitti familiari 84

Parte Il “Progetto Crisalide” 87

Cap. 5 - La vita è la materializzazione di un pensiero 87


Dalla teoria alla pratica rieducazionale 90
Inquinamento e disinquinamento 91
Entriamo nella Crisalide 92
Sviluppare le potenzialità 93
Il corpo ed il Tu 94
Il corpo e la coppia 95
Il corpo e la bellezza 98
Il corpo e la femminilità 99
Il corpo ed il sesso 101
Il corpo e il progetto esistenziale 103
Il “Progetto Crisalide” in azione 104
La giornata di Crisalide 105
Epilogo 110
Ringraziamenti 111

3
Prefazione

Le storie di bulimia e di anoressia o obesità iniziano molto, molto prima dell'apparire del sintomo:
hanno radici nei primi anni di vita del bambino.
Tuffandoci nell’alba della vita, osserviamo come nell’immaginario di un bambino, quindi nel suo
istinto, sia presente la figura della madre ideale. Una madre “prevista dalla natura”, ossia nutriente e
calda, presente, accogliente e protettrice. La madre ideale lo aiuta a svilupparsi in modo creativo,
ad essere colmo di fiducia e di autostima. In questa fase della sua crescita, per lui tutto e “Io”: Io è
Io(bimbo)+Tu(madre), ovvero la madre ideale è incamerata nel suo mondo, è parte del suo Sé.
Questo Sé è armonia. Poi qualche cosa si rompe: la madre reale non risponde alle aspettative
dell'Io. Tu(madre) “abbandona” o “tradisce” Io ed Io perde la fiducia in se stesso e quindi nel
Tu(madre). Si sviluppa, su questo terreno, un’intensa angoscia, poi la certezza di essere stato
abbandonato. Ed è smarrimento, rabbia verso il Tu-che-ha-tradito-la-fiducia.

Poi è fuga: fuga da quell’insopportabile senso di solitudine. Fuga in un mondo fasullo nel quale
ricostruire l’armonia perduta, nel quale inventarsi una madre sempre accogliente, calda, amorevole;
una madre che ha però un grande difetto: è partorita dall’intelletto. All’osservatore esterno nulla
sembra cambiato: ma “dentro” tutto ora è diverso. Il Sé del bimbo vive sopra la realtà degli affetti
(che lo hanno tradito!) e si relaziona con un mondo che la sua mente via via costruisce.

Per un certo tempo la non-fiducia-nel-Tu (in tutti i Tu!) si accuccia in qualche angolo del cervello: il
bambino si propone – è la regola – come un pargoletto modello: i suoi punti di riferimento sono però
immateriali, eterei. Primeggia nello studio, nell’arte, nella musica, nello sport o nella danza classica.
Perciò è bravo! Poi un giorno – fulmine a ciel sereno – l’angoscia repressa si fa viva. Invade il tutto il
Vivente. La mente è lucida, freddamente lucida. Vuole distruggere. Distruggere quel corpo che
reclama carezze, abbracci, sessualità. Quel corpo che anela il materiale e che spinge verso un Tu.
Con l’onniscienza di chi ha perso il contatto con il reale, quel Sé respinge la fisicità, regredisce,
torna piccino, perde di peso, di consistenza, di corporeità.
E’ attratto dall’immateriale (“... l’affettività che un tempo rivolgevo verso un Tu-materiale è stata
tradita; la chimera che io costruisco non mi abbandonerà mai!”) oppure si “gonfia” fino ad
esplodere per poi scaricare la tensione vomitando oppure ... continua ad ingrassare, per creare una
difesa fatta di ciccia nei confronti di un corpo che pretende affetto.

La vita - a questo punto - è un continuo scontro tra Io-mente ed Io-corpo. Uno scontro esclusivo, nel
quale il raziocinio non può “entrare”: il raziocinio è frutto di un’analisi cognitiva, logica. Cosa può la
logica, limitata nelle sue forme e nei suoi contenuti, contro l’immensità del pensiero? del magico?
dell’astratto? Nulla. Ma - se non nutrito - anche l’intelletto muore.

Tutte le attenzioni, le dimostrazioni affettive che genitori, mariti e fidanzati riversano sul Sé-
ammalato non fanno che aumentare le difese connesse all’idiosincrasia fissata nei meandri della
psiche, che collega affetto ad abbandono e che evoca rabbia verso chi abbandonerà (“chi ha
tradito una volta ...”).

4
Perciò, l’ “entrata” nel sistema ammalato deve avvenire al di fuori dell’affettività della famiglia; deve
improntarsi sulla istintualità propria del rapporto azione é emozione. L’emozione è legata alla
relazione. Fare leva sull’emozione, cioè su di una costante insita in ogni comunicazione tra soggetto
e (s)oggetto, è la via maestra per accedere alla parte sana, integra del Sé. E se la comunicazione
si colloca “fuori” dal giudizio soggettivo/affettivo, dunque dal concetto di bene o male, per incentrarsi
sulle percezioni fisiologiche inequivocabili quali contrazione=frustrazione, rispettivamente
distensione=piacere, allora lo sbarramento costituito dalla paura d’amore è aggirato.

L’Autore

Lugano, ottobre 2000

5
Cap. 1 - Quel maledetto cordone ombelicale !

“Il cordone ombelicale unisce il feto alla madre per mezzo della placenta. Ha la grossezza di un
mignolo ed una lunghezza che varia da 40 a 60 centimetri. Il c. ombelicale unisce due esseri, il
feto e la madre. (...) Il cordone ombelicale viene tagliato 2 - 3 minuti dopo la nascita..”. E qui
l’Enciclopedista erra! Lungi dall’essere mozzato, quel cordone, che fino al lieto evento fu veicolatore
di linfa vitale, ora si trasforma “... 2 - 3 minuti dopo”, in uno “psicocondotto” attraverso il quale
transitano, dalla madre al bimbo, tutte le nefandezze che la cultura del nostro e dei precedenti
millenni ha prodotto.
L’ovvia conseguenza è un importante inquinamento del Sé di un cucciolino che - senza fare i conti
con le aspettative di mammà - si presenta, sic et simpliciter, sulle soglie del mondo con la pretesa
di poter “essere”.
Ma ecco profilarsi la prima fregatura. Il nascituro - ovviamente - non è consapevole che mammà già
ha previsto il tipo di relazione che dovrà instaurare con il bebè: non è conscio del fatto che mammà
conosceva, già molto prima che egli stesso ne prendesse coscienza (grazie ecografia!) il suo sesso
e che, grazie a questi ed altri miracoli della scienza - come ad esempio gli “utili” insegnamenti della
onnipresente televisione - ha le idee molto chiare (almeno pensa!) su quello che sarà il suo meglio.
Altro che diritto ad “essere”!

Le mamme si possono caratterizzare in base al loro immaginario (i loro sogni), quindi in funzione di
quel senso del Bene e del Male che costituirà il terreno relazionale nel quale collocare il pargoletto
e, se possibile, tenercelo fino alla senescenza.

Ma procediamo per gradi ed osserviamo dapprima le possibili “nature” di mamma, poiché - come
vedremo - queste sono di estrema importanza nello sviluppo delle patologie che danno il tema a
questo libro:

La mamma “tipo S”: la sognatrice

E’ questa una donna che - a sua volta - è stata partorita da una “mamma S”, quindi una “cosa”
afisica, lontana. Per difendersi da quel “nulla”, ha costruito un suo mondo immaginario nel quale si è
rifugiata per fuggire dall’ansia e dall’angoscia che la disconferma (...tu non esisti!) generano nel Sé.
La mamma “tipo S” è dunque una donna che nulla sa del rapporto duale armonioso. “Io ti ho messo
al mondo - pensa - però sia chiaro: Io sono Io e Tu sei Tu.” Il suo agire è perciò freddo, distaccato,
scientifico se non addirittura scocciato per essere costretta da pianti e lamenti di un inerme
cucciolino e più tardi da “assurde” richieste d’attenzione, a staccarsi dal suo universo fittizio ed
occuparsi di qualche cosa che le-appartiene-pur-non-appartenendole.

6
La madre di “tipo S” difende il suo “mondo sognato” scindendo la propria esistenza da quella della
figliolanza. Per lei le grandi passioni o i grandi affetti sono sinonimo di pericolo; un Tu-che-si-
avvicina la mette in allarme rosso; la “psicopenetrazione” (ossia la fusione tra Io e Tu) genera in lei
angosce profonde. Tu è uguale a pericolo (Tu fu mamma che l’ha negata, che non l’ha accolta).
Dimenticare questo dramma.
Negare il Tu.
Divenire Tu di se stessa. Essere il centro del suo universo.
Soltanto il rapporto Io-Io è controllabile, sostenibile, affrontabile, soddisfacente.
Le caratteristiche della mamma di “tipo S” sono:

• sostanzialmente fredda, distaccata, meccanica però - a volte - irosa;


• affettività da debole ad assurdamente passionale, comunque assente di calore emotivo;
• portata verso il mistico o le arti;
• abbastanza trasandata nel suo apparire (... all’esteriorità do poca importanza!);
• combattiva nel difendere le proprie idee (“... ho ragione sempre io!” - tipo suffragetta marca ‘68);
• raramente ha i “piedi per terra” (scarso senso della realtà).

Alcune sottospecie della mamma di “tipo S” abbandonano il bambino appena nato in qualche
paniere che collocano davanti alla porta di un pio convento. E fanno fondamentalmente bene poiché,
se lo allevassero, sarebbe per quel figlio una “megadisgrazia”.

Il terreno relazionale “tipo S”

Il bimbo di mamma “S” deve apprendere al più presto l’arte di arrangiarsi. Già nei primi giorni di
vita, stufo di quel cordone ombelicale che al posto di trasportare cibo ed ossigeno gli convoglia
elementi freddi, non confermanti, non nutrienti, si rifugia in un mondo-tutto-suo. L’energia è chiusa
nel suo plesso solare ed importanti blocchi muscolari impediscono che sentimenti ed emozioni
travalichino il suo corpicino per dirigersi verso il mondo. Là - nel mondo - c’è mamma “S”, quindi il
freddo, il rifiuto, la disintegrazione. E così la relazione madre-figlio muore. Al suo posto si instaura un
rapporto tra due “Io” che si propongono non comunicanti, un non-legame tra due corpi e tra due
menti che hanno paura di incontrarsi, di amarsi.
Rabbia e sfiducia governano il mondo “tipo S”. Paura di esprimere e di esprimersi (exprimere =
premere per far uscire [emozioni e sentimenti] ). I desideri vanno compressi dentro un corpo che
non vive, ma pensa ... ed è il deserto: “...in qualunque punto io mi muova c’è ad attendermi la
paura ed allora io fuggo in me stessa, cancello la vita che è desiderio e mi nascondo nel pensiero
“logico”, nell’essenza del materiale. La materia non ha anima, quindi non richiama né affetto, né
amore, né passione. Costruisco cattedrali nel deserto. Un giorno lì ci marcirò”. (Giovanna T., 32
anni, anoressica).

7
La mamma di “tipo O”: l’intellettuale

Sofisticata ed intellettuale, la mamma “O” vive la sua esistenza come se fosse un’eterna prima della
classe. La sua meccanica psichica è retta dalla paura di essere fisicamente abbandonata
(ricordiamoci: la paura di mamma “S” è quella di essere respinta, rifiutata!), perciò rivolge la sua
attenzione alla vita ed alle scienze dello spirito, negando - laddove possibile - l’essenza della
materia-che-abbandona (... lo spirito non mi abbandonerà mai!). Nel suo rincorrere le verità
dell’intelletto, diviene dotta. E’ quindi ovvio che sa tutto su come allevare la bambina (o il bambino). Il
frugoletto, appena varcato l’utero, si trova sterilizzato come prescrive “Mamma moderna”, nutrito
secondo le ricette del Prof. Plasmon; unto (“... per dare alla sua pelle lo splendore del sederino di
un bebè” [ma, Dio mio, io un bebè lo sono davvero!]) con gli ultimi ritrovati dell’ingegner’ Johnson,
vestito con la linea Chicco. Piange di notte? “... seguo i consigli del Dr. Spock che sa tutto sui
bambini”; piange di giorno? “... niente paura, l’Enciclopedia del Bambino Malato l’ho imparata a
memoria ... sono meglio del dottore”. Quindi non possiamo certo affermare che la mamma “tipo O”
non si occupi del proprio figlio. Anzi. Purtroppo ... “anzi”! Il suo “cordone ombelicale” è un tubo
percorso da teoremi scientifici, efficienza, strane pratiche curative. Ma questa sapienza è una via,
incolore, ricca di parole, ma povera d’affetto, priva di spontaneità.
La mamma “O” ostenta fiducia in se stessa e nel Tu-di-riferimento, ma in verità vive la propria
esistenza nell’ansia di essere abbandonata. Eccola, perciò, ad aggrapparsi alla non-materia
dell’intelletto ed agli pseudointellettualismi; ad affogare nella cerebrotonia1; eccola negare la
bellezza del fisico, l’empatia2, la fusione dei corpi. Ma eccola soprattutto sola, sola con la sua
angoscia del domani! Molti uomini e donne di “tipo O” fuggono dai loro drammi esistenziali
immergendosi nell’iperconsumo: droga, alcool, cibo. Paradisi dell’intelletto. Morte del corpo.

Le caratteristiche della mamma di “tipo O” sono:


• ciarliera fino a logorroica;
• intellettuale (pseudointelletuale), divoratrice di cultura; (... sa tutto lei);
• da depressiva a maniacale (... cambia l’umore nel giro di pochi secondi);
• viaggiatrice “Turisanda” (tendenza a fuggire da se stessa!);
• apparentemente distaccata (“... mia figlia ha sempre potuto fare quello che voleva”), ma in
realtà ansiosa di perdere il sostegno;
• frequenti patologie da iperconsumo.

Il terreno relazionale “tipo O”

Una mamma-bambina è una cosa non facilmente gestibile, specialmente se il problema si presenta
ad un bimbetto di qualche mese d’età. Che farsene di una madre-enciclopedia, di una falsa
aquilotta immatura dalla quale dipende la sopravvivenza? Distruggere e ricostruire ... distruggere e
ricostruire ... in eterno. Come? Si prendono le pappettine di mammaplasmon, si impastano con
qualche brandello di memoria genetica che esige una madre calda, affettuosa, accogliente e si
edifica, nel mondo sfilacciato dell’intelletto, una genitrice nuova, bella, dolce, ma - soprattutto -
immateriale perciò costruibile e smontabile a seconda delle necessità (o delle angosce del Sé).
Questa operazione esige però un importante accorgimento: l’annullamento del Sé-corporeo, poiché
il corpo è fisico, non mente e non permette che gli si menta. Così, per il bimbo di mamma “O” è la
fine del “sentire”, la fine della fiducia nel corpo (la realtà) e la ricerca di calore ed appagamento nel

1
Cerebrotonia: primato del pensiero sulle sensazioni del corpo.
2
Empatia: vivere il pathos, la sofferenza (o le gioie) del Tu-di-riferimento. Essere tutt’uno con il “Tu”.

8
fittizio mondo dell’astratto. O la ricerca di sensazioni mentali, frutto di realtà deformate. Quelle
inquietanti immagini che accompagnano il “pensare” ed il penare del drogato.
“... poi ho deciso di annullarmi. Il mio corpo non serviva. Io ero la mia mente. Con gioia
partecipavo all’annullamento di quel covo di serpi che nidificava dentro il corpo e voleva calore,
che andassi verso un Tu. Man mano diminuivo di peso, la mia mente era sempre più libera, più
grande ...” (Maria R. 18 anni, anoressica).

La mamma “tipo M”: la chioccia (vd. anche scheda 1 pag. 27)

Se è chioccia, protettiva, mangiona, un poco popolana, aggressiva se si toccano la sua casa o i


suoi pulcini, remissiva dinnanzi al signore-padrone-marito, quasi maniaca dell’ordine e della pulizia
e fa la mamma a tempo pieno, allora è di “tipo M”. Nulla sfugge al suo controllo. E’ sempre presente
... molto presente. Opprimente. “...bimbo grasso, bimbo sano, è il suo motto!”. E così trascorre il
suo tempo a controllare l’alimentazione del pulcino ed ovviamente... presta le necessarie attenzioni
al ruttino ed alla defecazione. E` esperta in cacchine: se si presentano “troppo dure” o non si
presentano affatto, allora via con i clisterini o le prugnette (“...sono molto meglio dei lassativi”,
decreta). Il pulcino, al quale può anche fare piacere “tenere la cacchina” o sputacchiare in giro i
pisellini (...che mamma fa tanto buoni!), viene sistematicamente castrato in ogni sua
manifestazione di indipendenza fino a che comincia a credere di essere un perfetto imbecille e che,
senza mammina, si perderebbe persino all’interno delle mura domestiche. Quando diverrà più
grande allora mammina (che comunque sovrintenderà la sua alimentazione e le sue cacchine anche
dopo il matrimonio) scodellerà il fardello ad una sconosciuta (non è vero; la conosce perfettamente
e sa che è la scelta migliore per il suo figliolotto!), ma non senza le dovute raccomandazioni: “...
guarda che a lui il freddo al pancino fa male; non sopporta le cozze, nella pasta metti sempre un
filo d’olio d’oliva ma, mi raccomando, extravergine che lo fa andare di corpo ... e così via”.
Le caratteristiche della “mamma M” sono:

• chioccia;
• cianciona;
• panciuta (qualche volta anche irsuta);
• sottomessa (apparentemente), ma anche “casinista”;
• lamentosa (...con tutto quello che faccio per te ....), piagnucolona;
• opprimente, pesante (in tutti i sensi).

Il terreno relazionale di “tipo M”

Assolviamo subito mamma “M”. Ella è - come potrebbe non esserlo? - figlia di una “mamma M” e,
non conoscendo altri modelli relazionali, dà vita a figli e figlie di “tipo M”. Il leitmotiv della tipologia
“M” è costituito dal trattenere. Mamma “M” trattiene la propria rabbia, la prole di tipo “M” trattiene la
propria rabbia. E il marito di mamma “M” ? E’, solitamente, abbastanza ”M” anche lui! L’ambiente
relazionale, va da sé, è falso. E’ dettato dal “devo” e non dal “voglio”. E` falsamente ossequiente.
Poi - tutto d’un tratto - il “trattenuto” esplode. Ed è come il rigurgito di una fogna. Gli insulti, le illazioni,
le rivendicazioni sono inenarrabili. Poi - scaricato l’immondezzaio - tutto torna come prima. Quiete.
Trattenere. Fino alla prossima tempesta. Lo psicologo definisce questa sequenza “catena
(sado)masochistica”. (vd. riquadro a pag. 27).

9
Mamma “M” educa i figli ad essere ributtanti, grassi, mangioni, le figlie ad essere obese. E sotto la
montagna di grasso tanta rabbia!
Fagocitare. Subire. Trattenere. Vomitare, nell’accezione globale del verbo. Poi di nuovo trattenere.
E così di seguito. Sempre ... così di seguito!
E’ verso il secondo anno d’età che il bambinetto si scontra con quella cappa che si fa chiamare
mamma, con quella campana di bronzo che sì protegge, ma soprattutto opprime. Mette i denti.
Vorrebbe mordere... ma non può: “... sennò la mamma muore, si ammala, non mi vuole più
bene!”. Mamma “M” questo messaggio glielo ha inculcato e glielo inculca quotidianamente (con il
cibo della mattina, del mezzogiorno e della sera). Roso da sensi di colpa il bimbo “M” diviene il
perfetto gregario di mammà. Ma, non dimentichiamolo, anche mamma fu la “serva” di qualcuno e
non conobbe altre possibilità esistenziali. E il mondo è stracolmo di tipi “M”, poiché sul loro
gregarismo poggiano gli Stati, le religioni, i partiti politici. Questi “lavoratori forzati” del XX.mo
secolo sono amorevolmente assistiti dai Potenti. L’assistenzialismo-che-rende-sudditi e che
imperversa a tutte le latitudini geografiche, politiche e religiose ne è una prova tangibile.
“... mangiavo, mangiavo e mi dicevano “.. bello di mammà, guarda come mangia bene” ed io ero
fiero di quanto ingurgitavo. Dire “no?” - manco morto. Non ho mai detto “no!”. A 12 anni fui
violentato da un mio prete-insegnante. Non dissi “no”. Nemmeno lì.” (Luciano, 42 anni, obeso).

La mamma “tipo P”: la seduttrice

Il controllo, la ricerca di potere attraverso il controllo determinano l’azione della mamma “tipo P”. A
questo tipo di madre appartengono quasi tutte le “donne in carriera”. Il movimento 3 del quale si
avvale per conquistare il successo (potere) è la seduzione. Sedurre = condurre, attrarre verso sé,
conquistare. Quindi anche l’infante va attirato nella sua sfera di influenza. Lusingare, fare sentire
l'“altro” importante, appagarne i bisogni: queste sono le armi della seduttrice. Far dapprima apparire
il Tu come grande, indispensabile. Poi capovolgere le carte: “... tu sei importante perché io ti ho
fatto importante! Senza di me non sei nessuno!”. Seduzione riuscita. Zoomiamo sulla scena:
“...figlia mia, tu non sai quanto mamma abbia bisogno di te, quanto conti sul tuo supporto, sul tuo
sostegno ... un giorno capirai ... sarai il bastone che mi reggerà negli anni della mia vecchiaia.”
Questo discorso, fatto ad una signorina di 18 anni, può (forse) avere un senso, anche perché
l’interessata potrebbe replicare con un salutare “..mavvammuriammazzata!”; se però è rivolto ad
una bimbetta di 4-5 anni crea un certo sgomento. Comunque la destinataria di tante attenzioni non
potrà che pensare “... se mammà ripone in me così importanti aspettative, ciò significa che sono
grande, potente, affidabile ... mammà mi ama sopra ogni cosa. Io per lei sono tutto. Quanto sono
brava!” ed inizierà a comportarsi come se fosse realmente “grande e potente”. Immaginiamoci ora
lo sconquasso che queste dinamiche provocano all’interno di una bambinella ella stessa bisognosa
di sostegno:

3
Movimento: la Scuola Neoreichiana distingue l’agire umano in cinque precisi movimenti: il movimento di pianificazione, quelli di
seduzione, sottomissione e diffidenza ed infine il movimento aggressivo.

10
1. fiera del suo ruolo di “salvatrice della madre” ne diverrà una accanita sostenitrice (specialmente
nei confronti del padre);
2. siccome mammina - conquistata la rampolla - dirigerà altrove la sua seduttività, alla fierezza si
sostituiranno la gelosia, la rabbia proprie di chi ha perso la potenza, di chi non può vivere senza
Tu-d’appoggio;
3. ormai avvezza ad essere l’assoluto no. 1 farà di tutto per riconquistare l’oggetto
d’amore/supporto perduto, diverrà a sua volta seduttiva! (“mammina, sei la più bella del reame,
però...”) e via con richieste più o meno ragionevoli;
4. la mamma “tipo P” che vive solo se adulata, se sostenuta, se confermata nella sua
pseudoimportanza (che altro non è che la facciata di un’estrema fragilità), non potrà che via via
soddisfare i vari “però”, pena la perdita dell’oggetto di supporto che con tanta fatica si è
conquistata;
5. ora è la bimbetta a dominare la scena. Tutto le è dovuto. Poche le regole. Niente limiti per la
nuova “regina della casa”.

Avviciniamoci ancor più alla scena. Sullo sfondo della lotta per il dominio intravediamo insicurezza e
solitudine, un insaziabile bisogno di tanti Tu disponibili, soggiogati, pronti ad accorrere a sostegno
di quella “padrona” dal debole Sé: Tu che vanno a loro volta assiduamente sostenuti, continuamente
sedotti, controllati. E’ questo il destino degli appartenenti al “tipo P”: eterni bambini, bisognosi di
supporto, dominati dall’ansia di essere lasciati soli. Solitudine = perdita di potenza. Delicati ninnoli
con le sembianze di giganti, di uomini e donne tutti-di-un-pezzo. Nessuno può o deve vedere la loro
debolezza, la loro dipendenza dall’applauso del mondo esterno.

Le caratteristiche della “mamma P” sono:

• lotta per mantenere il controllo;


• è molto interessata all’apparire, al suo aspetto fisico;
• nel profondo dominano il senso di solitudine e l’insicurezza;
• seduzione, coercizione, coartazione;
• tendenza a portare l’attenzione su di sé (“... il mio mal di denti è sempre più importante del tuo
mal di denti!”);
• freddezza e formalità con i quali tratta coloro che - nel suo immaginario - l’hanno abbandonata;
• sportiva, competitiva.

Il terreno relazionale di “tipo P”

Ansietà, competitività, falsità ( o pseudoverità?), gelosia permeano il terreno relazionale di “tipo P”.
Se nella “famiglia M” la regola è il “trattenere”, qui ogni gesto, ogni azione è determinata dal
desiderio di controllare. L’agire è raramente spontaneo: la paura di perdere l’oggetto di supporto
permea ogni tipo di relazione. Mamma “P” è in lotta continua per determinare chi sta sopra
(ovviamente lei) e chi sta sotto (ovviamente il mondo circostante!). Scrutiamo i suoi “movimenti” che,
lo ricordiamo, sono tutti sottesi ad ottenere controllo é supporto e sfuggire così da un suo profondo
senso di impotenza e solitudine: 1) presunta genialità alla quale l’ “esterno” deve chinarsi; 2)
seduzione dal “basso” (“...quanto ho bisogno di te, di voi!”); 3) seduzione dall’ “alto” (ovvero
coercizione, coartazione fino a violenza); 4) aggressività fino a distruzione ... del Tu-che-nega-il-
supporto (“... non vali più niente, sei un miserabile ... esci dalla mia/nostra vita!”).

11
Se di tipo “P” è il padre, le cose sono meno drammatiche. Il “padre P” governa il terreno relazionale
per decreti: Lui sa quale è il Bene e quale il Male. Il suo influsso sulla prole è però meno appestante.
Lui, l’uomo-quasar, è tutto preso dal socializzare la sua insicurezza: lavoro, amici, Rotary Club,
amanti. Il tempo per appestare la famiglia è - relativamente - poco. (A proposito: sui padri torneremo
in un successivo capoverso).

Ma rivediamo il nocciolo: mamma “P” alleva figlie/i “P”. Il “controllo” diviene così circolare. Come ai
tempi della Ceka4, tutti controllano tutti. Tensioni, litigi, poi di nuovo “grande amore”, poi nuove
tensioni, litigi. Le tendenze paranoidali che dominano l’ambiente accrescono le insicurezze e le
ansie presenti nel Sé. Ed un Sé insicuro cerca supporto. Il circolo si chiude.
“... ero certa di non farcela senza mia madre, anche se ufficialmente la snobbavo. Mamma era
l’unico porto sicuro. Con lei, solo con lei ero serena, ma non glielo facevo capire. Mio marito si
sforzava, è vero. Ma io non lo sentivo. Facevo però come se fosse il centro del mio universo.
Compensavo l’ansia di rimanere alla fine sola, con dolciumi a dosi industriali. Un notte scappai
da casa e tornai da mamma. Mi disse: “...lo hai voluto quello lì? Mi hai fatto tanto male... ma sai
che la tua casa è sempre aperta”. Non sapevo più cosa fare. Mi sentivo in colpa. Amavo Carlo e
non potevo immaginarlo tra le braccia di un’altra. Volevo Carlo, volevo mamma, li volevo tutti e
due per me. Ebbi la visione di perderli. Quella stessa notte tentai il suicidio.” (Anna, 25 anni,
iperfagica).

La mamma “tipo R”: la tradizionalista

Ansiosa, sessuofoba, moralista, rigida, xenofoba (...donne e buoi dei paesi tuoi!), autoritaria, fino
ad ossessiva, da calda a fredda, razionale, qualche volta del genere casa-famiglia-chiesa, fobica
(... se non fai questo o quello ti ammali), lavoratrice, poco appariscente: questo, per
approssimazione, il quadro personologico di “mamma R”. La “mamma R” è il prodotto della famiglia
tradizionale borghese o della cosiddetta aristocrazia rurale. Quel milieu che avversa ogni
innovazione. Nel quale la parola sesso è una bestemmia, che pone il padre sempre a capotavola
(anche quando è assente), poiché Lui (maiuscolo!) è l’incarnazione dell’Autorità terrena e divina.
Quella società che - per intenderci - ha prodotto i “figli dei fiori”, che - una volta cresciuti - sono
divenuti yuppies ed oggi siedono ai rispettivi capotavola.
La “mamma tipo R” è quindi vittima di un ambiente fondamentalmente misogino, sessuo-
reppressivo, autoritario, conservatore. Il suo agire non potrà, perciò, che rispecchiarne i valori. E il
valore supremo è l’apparenza (... i panni sporchi si lavano in casa). La “famiglia R” furoreggia sulle
copertine di Famiglia Cristiana e di Svegliatevi! E questo è tutto dire. Nietsche bene descrive le
radici morali della famiglia “R”: “... in tutti i tempi si è voluto migliorare gli uomini: soprattutto a
questo si è dato il nome di morale. Ma sotto la stessa parola sta nascosta la massima diversità di
tendenza. Sia l’addomesticamento della bestia uomo, che l’allevamento di un certo genere di
umanità, sono stati detti miglioramento: solo questi termini zoologici esprimono la realtà: certo,
realtà di cui il tipico miglioratore, il prete, non sa nulla, non vuole sapere nulla .... Chiamare
miglioramento l’addomesticamento di un animale è quasi una facezia per le nostre orecchie. Chi
sa che cosa avviene nei serragli dubita che quivi la bestia venga migliorata. Essa viene
infiacchita, viene resa meno nociva, diventa, grazie al sentimento depressivo della paura, grazie
al dolore, alle ferite, alla fame, una bestie malaticcia. Non diversamente stanno le cose per

4
Ceka: Polizia Segreta Sovietica al tempo di Stalin.

12
l’uomo addomesticato, che il prete (la morale, N.d.A.) ha migliorato.” (da “Crepuscolo degli idoli”, F.
Nietsche).
Cresciuta in questo clima addomesticante, mamma “R” ne diviene l’esponente formato famiglia. La
figlia è bombardata dalle sue ansie (... di trasgressione), perché il trasgredire della fanciulla
equivale al suo trasgredire. L’esperienza individuale va repressa, in quanto il Diavolo è in agguato
dietro ogni angolo. Bene è quello che si dice, quello che si fa. Male è quello che tu senti (i famosi
“panni sporchi” si accomunano qui alle passioni ed agli istinti. Tutta roba da tenere dentro!).

Le caratteristiche della “mamma R” sono perciò:

• rigida (...i giovani direbbero bacchettona);


• conservatrice dei cosiddetti valori morali ed etici;
• ansiosa fino ad ossessiva;
• pseudo-razionalizzante (il suo pensiero è la realtà e, come tale, sempre razionale);
• poco appariscente;
• “...l’avere, l’apparenza sono più importanti della sostanza dell’essere”.

Il terreno relazionale di “tipo R” (vedi anche scheda 2 a pag. 28)

Sul “terreno relazionale R” edificano la voglia di trasgredire (passiva) e la paura di trasgressione


(attiva). Ne derivano ambitendenze ed ambivalenze che si traducono in angoscia ed ansietà. Se
agito all’interno delle “regole” e della tradizione, il clima relazionale può essere anche gioioso ed
affettuoso, ma - nello sfondo - si nascondono le tensioni proprie di chi ha immolato individualità,
passionalità ed istintualità al totem 5.
Ed il totem vuole il suo quotidiano tributo: castrazione dei desideri del corpo, rispetto delle regole.
E’ l’eterna partita tra i bisogni del corpo e le ambizione di un Io-ideale immateriale, malaticcio ed
inquinato, che si gioca dentro la relazione, ma anche dentro ogni singolo Sé. Ansia. Ansia di
superare il limite concesso dal totem e perdere - di conseguenza - l’appartenenza al clan. Questo è
il terreno “R”: un ricettacolo di costanti umiliazioni (del corpo) ed esaltazioni (della morale); di scontri
intestini, di realtà fatta di bolle di sapone. E le relazioni? Come bolle di sapone non reggono il
contatto con la materia: sono brillanti, multicolori, leggiadre nella loro breve esistenza, ma si
disintegrano nell’unione, nella fusione con le loro simili.
“Li chiamo i “santi”. Mi amano, credo, ma di un amore tutto spirituale. Mai mi hanno detto “...ti
voglio bene”, mai mi hanno abbracciata con passione. Le relazioni sono fugaci, veloci, quasi ci
fosse la paura di contaminare l’uno con l’essenza dell’altro. Sono i miei genitori”. (Vittoria, 17 anni,
bulimica).

La mamma-mamma

La mamma-mamma, quella nostra, quella vera, quella che amiamo (spesso non in quanto donna ma
perché mamma) e - a volte - odiamo, non risponderà a nessuno degli identikit sopra configurati,
perché la mamma-mamma è sempre qualche cosa di speciale. Ma se facciamo il “gioco della
verità”, scopriremo che anche la personalità di mamma-mamma è riconducibile a molte delle
caratteristiche che abbiamo attribuito ai vari “tipi” di mamma. E poiché dal Sé di mamma-mamma
sgorga quel maledetto cordone ombelicale che determina i nostri rischi patologici, vale la pena di
capire chi si cela dietro ad un personaggio tanto importante.

5
Totem: nella nostra accezione sono totem le istituzioni dello Stato e della Chiesa. I relativi taboo sono l’etica e la morale.

13
1. Iniziamo con una classificazione - si fa per dire - rudimentale e “calcoliamo” il colore6 di mamma.
2. Prendiamo un foglio e suddividiamolo in 5 colonnine.
3. In testa a ogni colonna indichiamo uno dei colori seguenti 1. Nero, 2. Blu, 3. Verde, 4. Giallo,
Rosso.
4. Esaminiamo le descrizioni sotto riportate e qualora corrispondessero ad una caratteristica di
mamma-mamma, segniamo una crocetta nella relativa colonna sul foglio testé approntato:

• mamma è molto ansiosa


• mamma è distaccata
• mamma, nel suo genere, è una intellettuale
• mamma è (stata) avara nel toccarmi, nel vezzeggiarmi
• mamma è socialmente poco integrata
• mamma, a volte, nega la realtà
• mamma non è molto appariscente
• mamma è una sognatrice
• mamma è (stata) emozionalmente distante
• mamma è autoritaria...quando non c’è papà
• mamma sovrintende o sovrintendeva a tutto ciò che mi concerne
• mamma esercita molte attività
• mamma è spesso succube di papà
• mamma è sentimentalmente calda ma a volte opprimente
• mamma è gelosa di me
• mamma è seducente
• mamma è spesso depressa
• mamma è vanitosa e/o appariscente
• mamma nasconde la sua ansia dietro ad una maschera distaccata
• mamma è tradizionalista
• mamma è spesso diffidente
• mamma parla raramente di sesso e/o di sensualità
• mamma è moralista
• mamma è spesso lamentosa ... rompiscatole
• mamma è fredda

Mamma-mamma è ...

Procediamo dapprima con una analisi sommaria: mamma-mamma, quindi il terreno relazionale nel
quale siamo stati allevati, è fredda o è calda?
• sommiamo le scelte di colore nelle cinque colonnine.
• dividiamo i colori freddi (blu, nero) da quelli caldi (giallo, rosso), il verde lo consideriamo a sé
stante:
nero + blu = ? ; giallo + rosso = ?; verde = ?
• Se la somma dei colori nero + blu prevale sulla somma di giallo + rosso, allora mamma-
mamma è fredda; se i colori caldi (giallo, rosso) prevalgono su quelli freddi mamma-mamma è
calda; se il colore verde prevale sugli altri singoli colori il terreno relazionale è ambivalente,
• ansioso, ossessivo. (Nel caso i colori freddi equivalgono a quelli caldi, il terreno relazionale
andrà considerato come se fosse verde).

6
Colore: la psicologia neoreichiana ha attribuito ad ogni tipologia caratteriale uno specifico colore. La sperimentazione che sta
alla base di questa classificazione è riportata in miei numerosi scritti (vd. bibliografia elencata alla fine del libro).

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La mamma “fredda” (vedi anche scheda 3 a pag. 29).

... appartiene al “tipo S” o al “tipo O”. Si approccia al bambino con modalità intellettive. La sua
energia non valica la superficie del corpo, non transita quindi dall’ Io-mamma al Tu-figlio. La
relazione è supportata dalla “mente” e non dal “cuore”. Nel regno della mente, i bimbi si perdono. Il
loro minuscolo Sé, non avvezzo a leggere Proust o Marcuse, ma nemmeno attrezzato per capire le
saggezze di “Donna moderna”, vorrebbe un appiglio solido, caldo, confortevole, accogliente. Il
biberon sterilizzato, i “Pampers” a tripla protezione non bastano per farne un essere felice. (Vd.
anche riquadro “Harlow” a pag. 29).
Lo sfondo della psiche della mamma-fredda è dominato dall’angoscia di essere abbandonata. Per
ovviare alle tensioni che ne derivano, ella tende a comportarsi come se l’abbandono fosse già
avvenuto, mettendo in azione un meccanismo di difesa dell’Io che la psicologia ha chiamato
intellettualizzazione:

Intellettualizzazione: meccanismo inconscio per mezzo del quale i problemi, quindi la realtà,
vengono analizzati in termini intellettuali, mentre gli affetti, i sentimenti e le emozioni cadono in
secondo piano.

Cerchiamo ora di capire la mamma-fredda. Non è costei un individuo senz’anima, ma il suo Sé è


condizionato da “fantasie abbandoniche” che si sintetizzano nella seguente equazione:

attaccamento = abbandono é angoscia.

Come fa rilevare l’analista Leopold Szondi, questo tipo di carattere tende, come abbiamo
accennato, a comportarsi - al di là della situazione reale - come se già fosse stato abbandonato, il
che lo costringe ad un rapporto Io-Io (l’energia non transita verso l’esterno), relegando il Tu nello
sfondo dell’esperienza. Il Tu è perciò vissuto con sentimenti di ambivalenza: da un lato diviene un
indispensabile oggetto d’appoggio (intellettualizzato ergo afisico), dall’altro fonte d’angoscia
d’abbandono (nella sua fisicità).
Da questa scomoda posizione, mamma-fredda tende ad uscire attraverso quella meccanica che la
psicologia definisce spostamento (trasferimento dell’interesse, dell’intensità emotivo-
sentimentale un tempo provato verso il Tu, su oggetti originariamente di scarsa rilevanza, ma che
ora assurgono a veri e propri elementi di sostegno del Sé che nega il rapporto Io-Tu-Io). Ecco
come l’arte o la religione o il misticismo o il lavoro o il cibo o la droga divengono più importanti
dell’affettività. Ciò che è afisico è controllabile, poiché non esprime alcuna volontà propria, quindi
non “... mi abbandonerà mai!”.

La mamma calda ...

... è - anzitutto - soffocante. Contrariamente alla mamma-fredda, questa dirige - ahinoi! - tutta, ma
proprio tutta, la sua energia verso il(i) Tu-di-riferimento. Costei è consapevole della sua estrema
dipendenza dal mondo esterno e non esita, perciò, a fare del Tu l’obiettivo di tutto il suo vigore.
Mamma-calda è iperpresente, è una cappa molto tangibile, che si piazza sopra la prole e pretende
di proteggerla dalle asperità della vita senza rendersi conto che il maggior perturbante della loro
sanità psichica è proprio lei! In verità tutte le sue premure, la sua seduttività (volta a reprimere
l’individualità dell’Altro) sono espedienti per fuggire al suo profondo senso di solitudine ed a
rinforzare il suo Sé debole e bisognoso di acritici “adoratori”.

15
Solitudine é Angoscia é Repressione.

Come scrive W. Reich “... è l’angoscia che produce la repressione e non la repressione che
produce l’angoscia”. Il calore della donna-stufetta si propaga a 360 gradi e definisce da un lato il
campo di “libera” azione dei suoi oggetti di riferimento affettivo (che comunque è sempre molto
stretto), dall’altro - di conseguenza - i suoi limiti esistenziali: “... sono felice solo se i miei pulcini
sono a casa, sotto la mia ala protettrice”. E questo atteggiamento crea insicurezza.
Mamma-calda è specialista nello scrutare (si fa per dire!) il profondo di ogni singolo componente la
sua figliolanza e scoprire pecche caratteriali, peccati originali, comportamenti “anormali” che le
consentono: 1. di erigere su queste “colpe”, reali o non reali, il suo diritto di dominio; 2. creare un
profondo senso di insicurezza e di impotenza, un’ansia costante di essere in fallo, che porterà i figli
a rifugiarsi sotto l’ala di mamma-chioccia ogni qual volta incapperanno in una situazione
particolarmente difficile (... mamma che fò ? la mia ragazza mi ha lasciato! - Mamma che fò - sono
ingrassato di 3 chili - Mamma che fò ? il professore di italiano non mi vuole bene - eccetera,
eccetera).

In opposizione a mamma-fredda, la mamma “giallo/rossa” è fisica. Molto fisica. Per lei, che è
un’anti-intellettuale, la tua pretesa di individualità è una porcheria inventata dalla scienza. Lei è
centrata sulla materia. E ad ogni problema c’è la soluzione materiale (sei depresso? Canta che ti
passa!). Benessere è abbondanza. Lei è spesso abbondante in tutto e così lo sono i suoi figli e le
sue figlie.
Ma anche il comportamento di mamma-calda ha dei “perché” che ci permettono di capirla:

l’azione dei soggetti a carattere “caldo” è incentrata sugli schemi dinamici legati alla retroflessione
(o rivolgimento contro di sé) o all’egotismo.

Retroflessione: è quel processo automatico ed inconscio attraverso il quale una persona devia
l’aggressività inizialmente rivolta verso un’altra persona, dirigendola contro se stessa.
Egotismo: immaginare e mantenere un’alta considerazione di se stesso. Questa nozione del
concetto è condivisa dal termine egoistico; egoistico si riferisce a coloro i quali si considerano al
centro delle cose. Egotista è colui che tende ad avere, in aggiunta, un irrealistico senso della
propria importanza.

Mamma-calda è vittima di tutta una serie di introietti etici, morali e culturali, che ne hanno mutilato
l’individualità. E’ una gregaria per eccellenza: un essere triste e compresso, torturato da sensi di
colpa e di impotenza. Nella fase dello sviluppo (attorno ai 3 anni), nella quale ella stessa avrebbe
dovuto apprendere la bellezza della libertà, ha esperienziato che l’aggressività quando è diretta
verso il Tu ha, per conseguenza, il ritiro dell’affetto. Ha imparato così a trattenere, ad essere
ordinata, composta, sempre pronta a dire sì. La sua posizione di “serva” nei confronti della società
si tramuta, per reazione (decompressione), in quella di “padrona” nel rapporto con i figli. Oppure la
mamma-calda può essere quella che deve “stare sempre sopra” (egotismo). Il suo Sé è debole,
solo e bisognoso di sostegno, ma impossibilitato a “chiedere”, a sottomettersi, poiché - ne è
convinta - nella sottomissione perderebbe quei supporti che così faticosamente ha conquistato e - di
conseguenza - il proprio senso di potenza.
La sua esistenza è centrata sull’ottenimento di consensi, quindi sull’apparire, sul ruolo.
Questa madre costruisce la sua grandezza sulla sua debolezza (“...devo farmi vedere forte, così
nessuno scopre le mie debolezze”).
Certo: mamma calda “... va verso”; conquista il Tu-figlio con regali, con la sua presenza. Non gli fa
mancare niente ... salvo che l’amore. Quello vero, quello che è dettato dall’istinto e non dalla febbre

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di controllo o dall’ansietà di rimanere sola. Questi comportamenti hanno effetti deleteri: il bimbo e la
bimba sono consapevoli dell’opportunismo o delle ansietà materne. Non riescono però a mettere a
fuoco la situazione, non sanno dire cosa manca. All’apparenza è tutto okay. Ma, ciò malgrado, il
bimbo è sempre più insicuro, fragile, dipendente ed allora ... anche lui vorrà strumentalizzare,
apparire: apparire sfuggendo l’essere! Allora si presenterà “forte” sul palcoscenico della vita, ma
labile, debole e vulnerabile nel profondo del suo Sé. Sarà - anche lui - alla ricerca di più o meno
facili consensi. Consensi formali, opportunistici. Ma non vuole di più. Anche lui crede che nella
troppa vicinanza il Tu-di-riferimento scopra la sua vera, fragile indole. E sposterà la sua affettività
sul lavoro, sulla potenza sociale. Ma con più sale per gli irti sentieri che portano al vertice, più si
sentirà interiormente lacerato, fobico, incerto, indeciso. Le tensioni, che si genereranno tra l’essere
e l’apparire, potranno trovare sfogo nell’intontimento dei sensi che accompagna l’azione maniacale
che è propria dell’iperfagico, dell’alcolista e del cocainomane.

La mamma verde ...

... è la quintessenza di quella particolare ansietà che scaturisce dall’ “essere rigida”, inibita. Lei è la
costanza, la reazione. Lei ha le certezze. Lei è la depositaria dell’etica e della morale. Lei è la
famiglia. Lei è la moglie. La donna di “tipo verde” è, solitamente, scelta come compagna da “uomini
di tipo verde”, ossia uomini che nella famiglia rappresentano il carattere nazionale. Questo tipo di
padre, assieme al padre di “tipo M” “... sono gli strumenti più preziosi dello Stato. Il padre ha infatti
nella famiglia la stessa posizione che il padrone ha nel processo produttivo. Egli riproduce nei
propri figli la sottomissione all’autorità. La posizione patriarcale del padre esige la più rigida
inibizione degli impulsi sessuali sia nei bambini che nella compagna. La donna sviluppa un
atteggiamento ansioso che copre una ribellione sessuale rimossa; e i figli - oltre un
atteggiamento sottomesso (inibito) - verso l’autorità, sviluppano una forte identificazione con il
modello Stato” (W. Reich).
Mamma verde è a sua volta “figlia di mamma verde”, figlia dello stato, dell’autorità. Il suo nucleo
psichico è sconvolto da passioni inibite, da amori viscerali inespressi. Il puritanesimo del sociale si
è intrufolato nella sua coscienza e così, ella stessa, è divenuta parte della repressione della
sessualità. Sesso è bello, quindi, “...se è bello non può che essere peccato, cattivo, ergo brutto”. E’
la trasformazione. L’alchemia al contrario. Quella che tramuta l’oro in ferro. Rigidità è allora dubbio,
ambivalenza, ossessione: da una parte il corpo reclama armonia, dall’altra la mente rifiuta la
bellezza dell’orgasmo (nel senso più ampio del termine), la distensione, lo scorrere dell’energia
attraverso il Vivente.
I meccanismi di difesa che ne reggono il carattere afferiscono all’annullamento retroattivo.

Annullamento retroattivo: meccanismo psicologico con cui il soggetto si sforza di fare in modo che
pensieri, parole, gesti, atti passati (vissuti, ad esempio, come belli durante l’infanzia e la
fanciullezza) non siano avvenuti; egli utilizza a tale scopo un pensiero o un comportamento che
ha un significato opposto. Ne consegue che bello = brutto: saliamo sulle barricate del brutto!

Il piacere sessuale, l’erotismo, la sensualità vengono negati (... non ha mai provato cose del
genere); la morale autoritaria che inibisce il desiderio sessuale diviene il nuovo oggetto d’amore. Il
desiderio negato agisce nello sfondo e - paradossalmente - fornisce l’energia necessaria a
costituire la morale, quindi l’inibizione.
La sorte del “bimbo verde” è segnata dalla nascita. Egli è destinato ad essere la Nazione. A fare
propri i dettami dell’etica nazionale e della morale che ne scaturisce. Egli sarà il funzionario, il
soldato, il padre. Uomo? ... mai! Interpreterà al meglio la matrice “verde”. Fuggirà le lusinghe
dell’amore, il canto delle Sirene, la voglia di cambiare.

17
Di regola la sua infanzia trascorre, più o meno serenamente, ma... :
L’educazione di Francesca fu essenzialmente “perbenistica”. Un’educazione “verde”. A 17 anni ebbe le prime
esperienze sessuali. Non sapeva cosa fosse un orgasmo, così le ritenne “soddisfacenti”. “Non mi aspettavo di più”,
riferisce. Solo più tardi pensò: “ ...qui manca qualcosa”, anche perché - nel frattempo - i suoi rapporti erano
accompagnati da importanti dolori al basso ventre (“...alle ovaie”). Mamma le spiegò che era “normale” e che,
comunque, non vedeva di buon occhio che lei facesse quelle cose. Il suo ragazzo la convinse a consultare uno
psicologo.
“Fu un’esperienza negativa sotto tutti gli aspetti. Non ero in grado di riferire le mie fantasie. Mentre frequentavo le
consultazioni, i rapporti sessuali si facevano sempre più difficili, così che al solo pensiero di essere penetrata sentivo
un forte dolore alle ovaie”.
Alla ricerca di una soluzione del problema, Francesca si presentò al nostro Centro. Ci occupammo del “dolore delle
ovaie”.
L’esame miografico del segmento addominale ci permise di identificare l’origine del disturbo. Al solo pensiero di un
rapporto sessuale, Francesca irrigidiva inconsapevolmente i muscoli dell’addome (retto addominale), fino a creare quel
dolore che le avrebbe poi resa difficile la copulazione.
Le prime sedute furono caratterizzate da visualizzazioni di scene a sfondo sessuale che la vedevano protagonista. E, a
conferma di quanto avevamo costatato, l’esperienziare il “bello” dell’amore era annullato dal “brutto”, dal “male” che si
manifestava con forti spasmi addominali. Cominciammo con le associazioni:
“Vedo un uomo, occhi spalancati... ha pochi capelli, un lungo naso. Ha un sorriso simpatico... È MIO PADRE, CHE
COSA C’ENTRA MIO PADRE?”. Forti spasmi. “Vorrei fare l’amore, ma ho paura che mio padre mi picchi”.
Prese, quasi inconsapevolmente ad accarezzarsi i fianchi ed a muoverli leggermente.
“Cosa c’entra mio padre? Lo vedo mentre è affettuoso con la mamma. Sento rabbia e gelosia.”
“...Quando da piccina mi avvicinavo a lui, mi accarezzava dolcemente ... i capelli, le braccia, le cosce. Sentivo piacere.
Io mi dimenavo sulle sue ginocchia, diventavo tutta rossa, respiravo affannosamente. Certo ... credo ... ero eccitata.
Penso che il mio eccitamento lo mettesse a disagio. Ricordo infatti che - sempre al massimo del mio piacere - lui
interrompeva tutto bruscamente e mi lasciava lì sola. Credo si vergognasse. Capii che se volevo avere le sue coccole
non dovevo arrossire, dovevo respirare calma. Dovevo controllare. Non volevo perdere l’amore di mio papà.
Quando fui più grandicella i rapporti con i miei familiari si formalizzarono. Avevo altri interessi. Poi i primi ragazzi. Tutto
bene finché non si entrava nell’intimo. Sentivo disagio. Fuggivo. Poi il primo vero amore ... volevo, volevo con tutta me
stessa fare l’amore. Non fu facile: era il primo rapporto. Però mi piacque. Continuando, mah ... questa storia già la
conosce. Comunque fu in quel periodo che iniziai ad ingrassare. Tornavo a casa e ... via verso il frigo. Mangiavo e mi
sentivo tranquilla. Mia mamma era contenta perché non ero più un grissino (veramente ero semplicemente una ragazza
snella, bel fisico). Mi diceva: “... vedo che stai mettendo la testa apposto!”. Bene: e via verso il frigo.”

La morale nazionale penetra con tutta la sua immondizia la “famiglia verde”. Determina le regole del
comportamento. Proibisce. Nega. Interrompe il fluire dell’affetto. Conforma. Inibisce l’espandersi
dell’energia legata all’amore. Regole. Regole. Angoscia di punizione accompagna ogni e qualsiasi
piccola o grande trasgressione.

Trasgressione é angoscia é malattia.

Scopriamo il vero Sé di mamma-mamma

Torniamo alle nostre schede-colore. L’operazione per avvicinarci alla meccanica del Sé di mamma-
mamma è relativamente semplice. Sommiamo i colori sulla nostra scheda. (Ad es. 5 volte nero, 4
volte rosso, 2 volte blu, 1 volta verde).
I due colori di maggior valore numerico (nel nostro esempio il nero ed il rosso), indicano il
carattere, i colori successivi i sub-caratteri di mamma-mamma. Non ci resta che confrontare i
nostri risultati con le schede ed ecco affiorare l’identikit psicologico di mammà.
Per addentrarci meglio nella dinamica psichica della nostra genitrice dobbiamo capire il concetto di
regressione:

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Regressione: meccanismo di difesa dell’Io in cui la persona, incapace di affrontare i problemi del
presente, spera di risolvere i conflitti “tornando indietro” ed usando meccanismi di difesa in
precedenza sperimentati come “vincenti”.

Analizziamo dapprima il carattere. Ogni carattere ha un proprio, privilegiato meccanismo di difesa:

• il tipo S nero è fuga nell’irrealtà, nel sogno, nell’eterna pianificazione


• il tipo O blu è fuga nel mondo dell’intelletto, nella sottomissione ad un Tu-irreale
• il tipo M rosso è ricerca di un Tu-che-lo-domina, lamentazione, scoppio
(decompressione)
• il tipo P giallo è si pone al di sopra della situazione, seduzione, controllo materiale
• il tipo R verde è si ripara sotto l’ala protettrice dello Stato. Dubbio.

Il movimento di difesa caratterizza il terreno relazionale, ma se i meccanismi propri di un


determinato carattere si rivelano inefficienti a fronteggiare una determinata situazione ansiogena,
allora il Sé regredisce su di una difesa propria del sub-carattere e qui entra in gioco la
regressione. Allora vediamo come ...

...il Sé di mamma-mamma è composto da elementi caratteriali


ed elementi sub-caratteriali ai quali può ricorrere in momenti di particolare tensione.
Il terreno relazionale è il riassunto dei meccanismi di difesa propri del suo Sé.

“Queste sono ricette populistiche, poco scientifiche. Fai della demagogia. Riduci i grandi teoremi
della psicanalisi a numeri circensi. Vergogna”. - Già li sento i colleghi dell’Accademia. Loro, i Papi
della Scienza, vorrebbero avere l’esclusiva sul Sapere. Preferiscono, questi Signori, azzuffarsi tra
loro per stabilire quale è la sola verità, il vero Maestro. Il popolo non deve vedere dietro le quinte. La
scienza va somministrata a dosi omeopatiche. Meglio se non la si somministra affatto. Credere.
Avere fede. Basta questo. Ma il “popolo” del XX.mo secolo ne ha le scatole piene di credere, di
avere fede. Vuole fatti, vuole capire. Ed io, non senza immodestia, do loro un modo per capire.
Capire il perché delle proprie miserie, capire cosa rende la vita una valle di lacrime, comprendere
perché al corpo si sostituisce un frigorifero, conoscere perché talune scelgono (con fierezza!) di
vivere un’esistenza da scheletro ambulante. E, se per fare ciò devo ricorrere a “giochi di prestigio”,
allora ben vengano anche questi. Io voglio che chi mi legge capisca l’essenza di una relazione e
l’importanza del cordone ombelicale.
La malattia psichica va compresa, i meccanismi che la generano “detabuizzati”. Certo, c’è di mezzo
il bene maggiore della Nazione: la famiglia. Poi il bene della famiglia: la mamma. Ma io non sono
disposto ad immolare una sola esistenza per il bene dello Stato o dell’istituto familiare. E, se per
rendere felice un individuo, devo deflagrare una bella e sana famiglia borghese o operaia, lo faccio
senza il minimo indugio, perché sono convinto che se questo agglomerato di persone chiamato
famiglia fosse realmente bello e sano, non produrrebbe feccia, malattia, nevrosi. Credo fermamente
che l’Io vada posto sopra il Noi. Credo che un Io-sano possa far coppia con altri Io-sani e dare vita
così ad un mondo nuovo, migliore.

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Terreno relazionale e cordone ombelicale (vedi anche scheda 4 / 4.1 a pag. 30 / 31)

Introduciamoci perciò senza paura nei meccanismi di difesa di mamma-mamma e nel terreno
relazionale che generano. Da Platone ai filosofi della New Age, tutti sono concordi nell’affermare
che il bimbo null’altro è che il prodotto del terreno relazionale nel quale mette radici. Il legame tra
carattere e terreno relazionale è stato scientificamente messo a fuoco dalla psicoanalisi dapprima
ed in seguito da altre correnti psicologiche.
Géza Rohéim, psicanalista ungherese ed allievo di Freud, attribuisce, ad esempio, più importanza
alla figura materna che a quella paterna come fondamento della società umana: la vittima del
banchetto totemico7 sarebbe stata la madre, non il padre.
Secondo la “teoria Ontogenetica”, la cultura, quindi tutti le norme etiche o morali che formano
l’essenza del terreno relazionale, sono, secondo Rohéim, la conseguenza di un’infanzia troppo
prolungata: l’interruzione tardiva della dipendenza dalla madre e la perdita dell’oggetto d’amore
primario, sarebbero eventi cruciali e molta attività umana verrebbe impiegata per sanare queste
ferite.
Ogni formazione sociale, quindi anche la formazione della coppia o della diade madre-figlio,
avrebbero la funzione di compensare l’angoscia di separazione e lenire la ferita primordiale.
Istituzioni, economia, rapporti sociali e commerciali all’interno di un qualsiasi gruppo, sono, sempre
secondo Rohéim, un sistema di formazioni reattive che si instaurano in risposta al trauma della
separazione.
Diversamente da Freud, per Rohéim le variazioni culturali - quindi i vari terreni relazionali - si
spiegano a partire dalle differenti pratiche educative volute dai singoli caratteri nazionali e dai
relativi traumi vissuti nell’infanzia.

Anche i “profeti” della Nuova Era attribuiscono la stasi, quindi la nevrosi nella quale si crogiola il
genere umano, a conflitti irrisolti nella famiglia d’origine:
“ ... lo chiamo dramma perché si tratta di una scena familiare, la scena di un film di cui noi, da
giovani, abbiamo scritto le battute. (N.d.A. “difese dell’Io”). Poi la ripetiamo più volte nella nostra
vita quotidiana senza rendercene conto. Sappiamo solo che lo stesso tipo di avvenimenti
continua ad accaderci. (...) Ricordati, la maggior parte dei membri della nostra famiglia svolgeva
una parte in un dramma (...) e questo è il primo motivo per cui noi stessi abbiamo sviluppato una
forma di dramma del controllo, creando una strategia per riprendere quanto ci viene strappato. Ed
è sempre in relazione alla nostra famiglia che sviluppiamo una particolare forma di dramma”.
(James Redfield, “La Profezia di Celestino”, 1994).

7
La concezione antropologica di S. Freud sulle origine della cultura e sulle cause della sua evoluzione si basa sull’idea di un’entità
psicologica fra tutti gli individui umani più diversi. Edipo, secondo Freud, è il primo nucleo dell’umanità che si è manifestato
originariamente nella storia sotto forma di un evento primordiale: l’uccisione del padre. L’ipotetica lotta che si svolge nell’orda fra
i figli ed il padre per il possesso delle donne termina, afferma Freud, con il parricidio. Il senso di colpa che ne deriva, insieme alle
sanzioni ed alle regole interne al gruppo inerenti la circolazione delle donne, sarebbero gli elementi costitutivi dei due pilastri del
patto sociale originario, il totemismo e l’esogamia: fattori questi, che, sancendo l’alleanza fra fratelli, segnerebbero il sorgere della
civiltà e della società umana.
Non volendo generare al lettore che si avvicina, con questo libro, alla teoria neoreichiana, confusioni di sorta, ci sembra utile
spiegare, qui di seguito ed in poche parole, la tesi che l’Autore contrappone a quella di S. Freud: l’avvento della cultura è da
collegare con la tappa evolutiva che porta l’uomo dal pensiero cognitivo, cioè quello legato all’osservazione del reale, a
quello astratto, ossia collocato nel futuro, nello spazio-tempo. La conquistata capacità mentale di astrarre, quindi di
“pianificare”, estende il dominio del pensiero all’infinito e lo porta a prendere coscienza della propria transitorietà e del
fenomeno morte. L’angoscia che ne deriva (angoscia di morte) lo conduce verso una visione mistica della vita (ideazione del
Aldilà), che ha per conseguenza la nascita del concetto di premiazione/punizione (Bene e Male). Premiato con l’ingresso nel
Nirvana sarà colui che ha vissuto nel “Bene”; nell’inferno sosteranno quelli che hanno infranto le leggi del totem. E’ questa
protomorale che genera la cultura, le regole e le leggi. Leggi e regole sanciscono la fine della sana istintualità e premiano la
servitù al potere.

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Se spreco tanto inchiostro è per dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la malattia
psichica, non è - come vogliono alcuni - la conseguenza di non si sa quali combinazioni
cromosomiche, ma il frutto - la risposta del Sé - ad un determinato ambiente familiare e sociale.

Senza questa premessa, la mia proposta di rieducazione non avrebbe alcun credito.

Riassumiamo:
• La permanenza di figli e figlie nella famiglia d’origine tende a prolungarsi oltre le necessità
naturali (cordone ombelicale). La prole è integrata nella dinamica familiare e funziona da
elemento omeostatico. Su di essa possono ricadere le tensioni proprie del sistema.
• Le tensioni presenti nel Sé materno si socializzano in moduli educativi che si situano alla base
della relazione con i figli/e.
• La risposta a determinate caratteristiche del Sé materno è la malattia.
• Malattia è sinonimo di disarmonia, di bassa autostima, di sfiducia nel prossimo e nel proprio Sé.

Il padre ... chi l’ha visto?

Nelle famiglie di pazienti affetti da disturbi alimentari psicogeni c’è una figura che brilla ... per
assenza: il padre! Lui non è. Semplicemente non è. Il conflitto che oppone madre a figlio o figlia lo
vede come arbitro-non-partecipe. I suoi rapporti affettivi con la ragazza o il ragazzo sono inesistenti.
A volte - nelle emergenze - può fungere da figura-porto, ossia una nicchia nella quale rifugiarsi di
fronte alle “sempre” irragionevoli pretese della madre. Comunque il suo ruolo è il non-ruolo. La sua
presenza è marcata dall’assenza. Ogni tanto spunta dallo sfondo per “arrangiare le cose”: in pratica
- preso da manie di onnipotenza - sbraita: “... ora basta; ora prendo IO in mano la situazione!”. La
famiglia ha un attimo di smarrimento, poi - si sa - ai propositi non segue l’azione. Lui è buono a
pagare. E’ l’unica cosa che sa fare. Oppure è un oppositore. La sua opposizione non è lucida. E’
opposizione tout-court. E’ il no! alla medicina, il no! alla psicologia; il no! al ricovero. Ma - anzitutto -
è il no! all’ammissione della sua impotenza. E’ il no! alla paura di perdere il malato prezioso che
catalizza su di sé le tensioni insite nel suo sistema-famiglia. E’ il no! alla sua volontà di crescere, di
assumere responsabilità. No! ... e basta.
Senza essere un esperto di sistemi familiari, egli è ben cosciente che il sintomo prodotto dalla figlia
(bulimia, anoressia, iperfagia) tende a mantenere il gruppo familiare nello status quo e che,
persistendo, il sintomo promuove tra i familiari un’insana coesione, al di là di barriere caratteriali o
ideologiche (“ ... nel bisogno si deve rimanere tutti uniti”).

Anche i padri possono essere suddivisi in cinque tipi. (E’ sufficiente rileggere i “tipi materni” e
riportarli, con le dovute cautele, al maschile). Quelli più insidiosi, quelli del “no!” si trovano - di regola
- nelle tipologia “P” e “R”. L’uomo “S” non dà fastidio, in quanto non vuole essere infastidito. Quello
“M” fa ciò che dice la mamma: è perciò innocuo. Con l’uomo “O” le cose si complicano. Egli è
solitamente coniugato ad una donna “R” o “P”. La sua pretesa è quella di essere il primus, ma né le
sue doti intellettive, né quelle pratiche giustificano questa aspirazione. Allora mamma “P” o “R” deve
mediare. Deve dargli la sensazione di essere l’unico, il vero, l’UOMO, ma - dietro - agire come se
non ci fosse. Il “padre O” ha sempre la soluzione per tutto. Solo che l’esecuzione dei suoi mirabolanti
progetti è affidata SEMPRE alla moglie o ai figli. Egli è lo spettatore. Il giudice. Poi fa l’incazzato,
poiché nessuno si sogna di mettere in pratica le sue fantasie.

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Le “belle famiglie”

L’amore esiste. Ma è errato rappresentarlo con il classico cuoricino. Meglio sarebbe simboleggiarlo
attraverso l’effigie di una “stampella”. Fondamentalmente uomini e donne “in amore” sono
handicappati: handicappati in cerca di sostegno, di un punto d’appoggio in un partner che possa
rimediare alle mutilazioni caratteriali conseguenti alla lunga permanenza in un terreno relazionale
tutt’altro che salubre. Quando il fatidico partner si profila all’orizzonte (spesso dopo ricerche durate
un quarto di vita), ecco, anzi ECCOLO (o eccola!), è lui, LUI (o lei) la tanto agognata gruccia. Ed è
amore!
Questo processo è inconscio: gli innamorati non sono quindi imputabili di machiavellismo.
“...l’innamoramento costituisce la soluzione di una situazione bloccata, il sovraccarico depressivo.
(...) Sovraccarico depressivo significa che i meccanismi depressivi non funzionano più. (...) Lo
stato nascente (dell’innamoramento) è caratterizzato da uno sdoppiamento fra due piani, due
livelli. Uno è quello della realtà, del dover essere, del piacere, dell’amore, della fusione. L’altro è
quello dell’esistenza, povera, contraddittoria, infelice.” (Francesco Alberoni, “L’erotismo”, 1986).
Secondo Alberoni, l’uscita dal sovraccarico è - appunto - l’innamoramento. “ ...l’oggetto assoluto
d’amore non è un oggetto fra gli altri. La persona amata (...) è la strada verso la perfezione,
l’assoluto.” Ma, come dice Lou Andreas Salomè (“La memoria erotica”, 1985), “ ... in fondo
l’amante non si interessa di come è veramente l’amato ... gli basta sapere che l’altro lo rende
miracolosamente felice. In che modo non si sa. I due rimangono un mistero l’uno per l’altro.”

Bene. Ora occupiamoci delle conseguenze dell’innamoramento. Quasi sempre accompagnati dalla
benedizione del parentado, da quella religiosa e quella statale, gli innamorati convolano a nozze.
Dal caos depressivo nasce l’ordine. L’ordine genera routine. E routine significa fine
dell’innamoramento. Quell’essere unico, adorabile, irripetibile, meravigliosamente sensuale che
abbiamo impalmato, diviene sempre più grigio. Sempre più normale. L’aura misteriosa,
affascinante, non c’è più. Quella (o quello) che doveva essere la soluzione alla solitudine, alla
depressione, quella - o quello - che avevamo investito di tanta “divinità”, si rivela inadeguata(o) a
sorreggerci, a nutrirci, a sollazzarci nella camera da letto.

Lo sfacelo, la delusione sono insiti già nell’instaurarsi della coppia. Come il nocciolo dentro la
pesca. Facciamo bagaglio delle saggezze scientifiche sopra esposte e cerchiamo di ampliarle con
le nostre conoscenze dei meccanismi che generano il carattere.

Mamma-mamma, come tutte le mamme-mamme ed i papà-papà, entrano prima o poi (e poi


ancora!) in quello che Alberoni ha definito sovraccarico depressivo. Con gli occhi un poco spenti,
andatura insicura, falsa spavalderia, si aggirano allora per le contrade come una lettera “c” che
aspira essere una “o8”. Le strade sono piene di lettere “c”: minuscole, medie, grandi, intermedie,
piccole. Ognuna - come dicevamo - con una sola aspirazione: trovare il giusto pendant per chiudere
il suo cerchio energetico e sentirsi, finalmente “o”. Anche se in questa fase la vista non è molto
aguzza (spesso una bella fanciulla si accoppia con un campione che sembra uscito dalla galleria
degli orrori!), l’istinto (o meglio il carattere) è infallibile nella scelta del partner. Ma la scelta si
rivelerà, sempre, fatale.
Torniamo sulla nostra famiglia d’origine ed attraverso il grafico che segue cerchiamo di scoprire
con chi mamma-mamma si è appaiata per completare la sua personale “c”.

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“o” è qui inteso come circolo energetico chiuso, come complementarietà tra “c” e “c-specolare”. Non ha quindi nulla a che fare
con il “tipo O”. “c” è il simbolo della non completezza dell’essere umano che per realizzarsi, per divenire completo, abbisogna,
come suggerisce la filosofia cinese, di integrare nel suo Sé forze contrapposte ma reciprocamente funzionali (vd. Yin e Yang).

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Tipo “S”
Tipo “O”
Tipo “M”
Tipo “P”
Tipo “R”

Mamma “S”, quella che sembra vivere in un mondo tutto suo, fa parte delle partners non molto
ricercate: da lei attratti sono gli uomini di tipo “S” (ognuno vive per sé, siamo una bella coppia!) e di
tipo “R” (Eureka! Non mi penetra, siamo una bella coppia).
Mamma “O”, l’intellettuale-bisognosa-di-sostegno, è soprattutto appannaggio dei sostenitori
professionisti: gli uomini “P” (lei è così fragile ed ha tanto bisogno di me: siamo una bella coppia!),
ma talvolta è anche scelta dal tipo “M” (lei è la mia guida, sa tutto meglio di me, siamo una bella
coppia).
Mamma “M” è ricercata da maschio “M” (ci amiamo, ci picchiamo, poi ci amiamo di nuovo, siamo
una bella coppia) e dal tipo “P” (è quasi la mia schiavetta [in modo affettuoso, si intende], certo è un
poco casinista, però fa tutto per me e per i figli. Siamo proprio una bella coppia!).
Mamma “P” è ambita: seduttrice-protettrice-maliarda-che-si-occupa-di-tutto. La cercano
disperatamente gli uomini “O” (non sai come mi sostiene, non sai quanto mi dà: siamo una bella
coppia); gli uomini “R” (si assume propria tutte le responsabilità, le avances? Le fa sempre lei,
siamo una bella coppia) e gli “M” (per fortuna c’è lei che manda avanti la baracca, siamo una bella
coppia!).
Mamma “R” è decisamente la più richiesta. La sua stabilità, la sua fermezza, la sua indiscussa
attendibilità, la sicurezza che emana, la sua fedeltà ma anche il suo esser donna-della-norma
agiscono sugli uomini (salvo che quelli del tipo “M” che non cercano una donna ma piuttosto una
mamma), come la melassa sulle mosche.

Così, sull’altrui bisogno inappagato, sul proprio senso di incompletezza si forma la “bella famiglia”.
Ma fin qui non c’è niente di male. Il problema ha inizio quanto le “c” divenute “o” decidono di
incrementare il tasso di natalità nazionale.
Il desiderio di “figliare” è sintomatico di due situazioni:

• la coppia è in amore e vuole perpetuarsi (fondersi) concependo un bambino;


• la coppia è in crisi e ritiene che l’avvento di un figlio risolva i problemi.

Esaminiamo il primo caso. L’innamoramento, lo ribadiamo, è frutto di due precisi meccanismi


psicologici volti ad uscire da uno stato solitudine (sovraccarico depressivo): la proiezione e la
distorsione.

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“Per una moglie alle prime armi, per una sposina fresca di viaggio di nozze, la gelosia del marito
è sempre qualcosa di molto lusinghiero e di cui andare orgogliosa. “Egli è geloso dell’aria che
respiro, dunque mi ama!”. Non sa la colombella, che l’amore c’entra poco, perché il più delle volte
la gelosia è provocata da attacchi di insoddisfazionite, da gravi forme di sospettosi (...), da
croniche febbri possessive (...). Capita ancora di incontrare nelle boutiques sposine cinguettanti
che, provando un abito smodatamente sexy, dicono con un certo orgoglio: “Mi sta bene, ma se
me lo metto mio marito mi sfregia...”. (Antonio Amurri, “Come ammazzare il marito senza tanti
perché”).
Queste poche righe racchiudono, in chiave umoristica, la quintessenza dei citati meccanismi: la
proiezione (gelosia = amore); la distorsione (violenza = amore). Dunque: proiettando e distorcendo,
i due si sono innamorati. Poi il cosiddetto lieto evento: le “c” divenute “o” aspettano con ansia i primi
vagiti del bambino, poi è tutto un cicici, che dura di regola fino a che il neonato comincia, a modo
suo, a reclamare una fetta di “c”. E la frittata è fatta. Mentre nella “o” l’energia scorreva quasi
armoniosa ed i colombelli vivevano in una pseudo-complementarietà (pseudo poiché inquinata dai
meccanismi succitati), ora - con la venuta del terzo incomodo - la “c”-mamma è costretta a dividere
le sue attenzioni tra due esseri immaturi, il primo appena fresco di nascita, il secondo con una
trentina o forse più primavere. E l’ “o” gradualmente si disintegra. E l’angoscia prende il posto
dell’armonia: tre “c” vagano sul “terreno relazionale” in cerca di supporto, di accoglienza, di calore.
Ed in questo clima prende forma il sentimento di deprivazione che, più tardi, sfocerà in malattia.

Secondo caso. La coppia in crisi che crede di trovare stabilità con l’avvento di un erede, si
comporta come quel commerciante che, confrontato con bilanci in rosso, assume, sperando in
tempi migliori, nuovo personale, senza minimamente preoccuparsi di riflettere sul come avvengono
le perdite. Il fallimento è quasi garantito. Il terreno relazionale diviene sempre più arido. La delusione
domina la scena. Poi la solitudine: “c” torna “c”. Ma ora le “c” sono tre. (vedi anche scheda 4 a pag.
30)

Cordone ombelicale e patologie

Ricapitoliamo per concludere:

1. Il bimbo nasce tabula rasa. L’unica sua aspirazione è essere.


2. La tipologia caratteriale materna permea il terreno relazionale sul quale prospererà il Sé del
nascituro; inoltre:
• Il carattere della madre ricerca - a complemento delle sue debolezze - un partner-gruccia.
• Lo scenario familiare è determinato perciò dall’incompletezza, dall’immaturità di padre e madre.
3. Il bimbo diviene - su questo terreno - il ricettacolo delle tensioni (meccanismi di difesa) proprie di
un Sé-materno, secondariamente vittima del sistema imperfetto che lega padre a madre.

Il Sé del bimbo vive come deprivazione/mutilazione lo scollamento dell’agire materno dalla linea
comportamentale armoniosa prevista dalla natura e, mettendo in atto meccanismi di sopravvivenza
(istinto di sopravvivenza), atti ad attutire l’impatto dell’irrealtà del non-naturale sul suo fragile Io,
instaura proprie dinamiche di difesa, allontanandosi così dall’armonia del rapporto Io(bimbo) -
Tu(donna).

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Contestualmente all’instaurarsi dei moduli di difesa del Sé, l’unità psicheécorpo predispone
l’armatura caratteriale (blocchi muscolari) che avrà la funzione di
1. mantenere le ansie e le angosce relazionali legate alla corazza muscolare (inconscio) (vd.
riquadro);
2. impedire al Sé quei “movimenti” che lo ricondurrebbero al conflitto originale con la genitrice
(evitamento).

L’energia “congelata” nei singoli segmenti propri della corazza muscolare, predispone il Vivente a
patologie di tipo organico o a precise psicopatologie.

Terreno relazionale Risposta del vivente Rischi psicopatologici

Senso di deprivazione; Autismo. Narcisismo.


relazione con il mondo Anoressia.
dell’irreale. Negazione.

Senso d’abbandono. Da melanconia a maniacalità.


Depressione. Compensa- Anoressia e/o bulimia.
zione intellettuale.

Compressione. (S.)masochismo. Autodistruzione


Gregarismo. Depressione. Iperfagia. Bulimia.

Solitudine. Senso di Maniacalità. Nevrosi d’ansia.


“dovere essere potente”. Bulimia.

Angoscia. Ossessione. Nevrosi ossessive. Fobie.


Ansia di penetrazione. Compulsione. Iperfagia.

E’ ovvio - ma mi sembra utile sottolinearlo - che non necessariamente il “terreno” di un certo tipo
debba produrre le patologie indicate. L’apparire della patologia è legato alla qualità ed alla quantità
delle tensione che quello specifico “terreno” produce. Lo stesso dicasi per la tipologia materna:
essa sarà tanto più appestante, quanto più spiccati saranno i meccanismi di difesa del carattere
oppure dei sub-caratteri, laddove il clima familiare si presenti particolarmente stressante.

Abbandoniamo il tema famiglia-patologie con una necessaria ed importante precisazione: la


relazione tra carattere e terreno relazionale chiarisce la dinamica nella quale nascono i cosiddetti
Disturbi Alimentari Psicogeni.
Detto questo teniamo però anche conto del fatto che la “natura” di mamma è conseguenziale a
dinamiche psichiche inconsce, quindi inaccessibili al raziocinio. “Mamma” è il mestiere più difficile
al mondo: nessuno lo insegna. Mamma non può quindi essere colpevolizzata o

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criminalizzata per i “movimenti” che il suo inconscio partorisce. Le mamme - in generale - fanno del
loro meglio per allevare i propri figli ed esse stesse sono fabbricate da altre mamme imperfette, ma
munite di tanta buona fede. Semmai in questa storia ci fosse un’imputata, questa è la cultura di
Stato. Una cultura stupidamente “assistenziale”. Una cultura che ha creato una strana scala di valori
indirettamente responsabile di criminalità, soprusi, disoccupazione e malattia. Una cultura che ama
“apparire” liberale ma non lavora per la libertà, per la vera crescita dei suoi accoliti. Una cultura che
si limita ad insegnare l’abc, ma castra la spontaneità, la creatività e l’estro che solo l’individualità sa
esprimere. Una cultura che ha un unico, supremo fine: la conservazione dello Stato stesso.
Conservazione al di là del Bene del cittadino. Lo Stato prospera sull’infelicità. Ed è quindi esso
stesso una creatura infelice. E lo Stato siamo noi tutti!
Ma è ora tempo di addentrarci nel mondo del disturbo alimentare e scoprire le connessioni tra rifiuto
del cibo, vomito, abbuffata, terreno relazionale ... e Stato!

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Scheda 1

W. Reich: il masochismo è richiesta d’amore

Wilhelm Reich 1897 - 1957

Alle tesi freudiane che concepiscono il masochismo come “l’istinto di morte che il Sé volge verso se stesso”,
Reich replica “...il comportamento masochistico e la richiesta d’amore aumentano sempre proporzionalmente
all’accentuarsi della tensione interiore, dell’angoscia e del pericolo di perdere l’oggetto d’amore. (...) Il desiderio
di punizione e di percosse ha nel masochista lo scopo seguente: consentire la scarica tanto necessaria e, con
un espediente, addossare la responsabilità del fatto alla persona punitrice.”
I tratti caratteriali tipicamente masochisti sono: soggettivamente una sensazione cronica di sofferenza, che
manifestandosi in modo particolare, si esprime come tendenza a lamentarsi; tendenze croniche all’autolesione
ed all’autoumiliazione ed una intensa mania di tormentare gli altri, mania questa che fa soffrire l’individuo in
questione non meno del Tu-tormentato.
Ma cosa provoca questi atteggiamenti? Essi trovano la loro origine in una particolare angoscia vissuta nella
prima infanzia: l’angoscia di essere lasciati soli.
Il carattere masochista non sopporta l’idea di potere perdere un rapporto d’amore, inoltre non sopporta l’idea di
rinunciare ad un oggetto, così come non riesce a spogliarlo del suo ruolo di protettore. Non sopporta la perdita di
contatto psichico che cerca di rinsaldare in modo inadeguato, ossia quello di mostrarsi infelice.

Diamo uno spazio particolare al “tipo M”, poiché raramente la letteratura ne ha approfondito l’eziopatogenesi e le
sue relazioni con l’Autorità. Facilmente l’amore provato per la madre e la successiva difficoltà a “stare in piedi
con le proprie gambe” vengono spostati su una qualunque struttura di Potere che abbia - anche in senso lato -
caratteristiche simili a quelle materne quali l’esigere obbedienza e punire la trasgressione legati, comunque, al
ruolo di protezione.
La nostra struttura sociale può essere concepita perciò come un rapporto sadomasochistico traslato dall’oggetto
d’amore primario alla società autoritaria tenuto anche conto che, come indica Reich: “...tratti masochisti sono
presenti sporadicamente in tutte le persone”.
Allora, la nostra caratterialità (vd. i “cinque tipi”) non può non essere disgiunta dalle regole e dalle norme dettate
dallo Stato!

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Scheda 2

La Teoria dei Cinque Movimenti

La Terapia dei Cinque Movimenti (o terapia neoreichiana), il cui ideatore è l’Autore di questo libro, è efficace e,
come tutte le cose vere, nella sua essenza è semplice. Non intellettualizza, ma porta ad una realtà
fondamentale: ogni organismo vuole innanzitutto vivere! E vivere è piacere, è gioia.
Il nascere di un bisogno (i bisogni secondo la teoria neoreichiana sono: appartenenza [sicurezza], conferma
[bisogno di considerazione],sensorialità [bisogno di essere fisici], sessualità e nutrizione anche nell’accezione
estesa del termine) è indice di una mancanza e viene vissuto fisicamente come contrazione o dolore:
l’organismo si ritrae, si contrae, cerca l’appagamento del bisogno e, quindi, la distensione:

BISOGNO è CONTRAZIONE è MOVIMENTO è APPAGAMENTO è DISTENSIONE

Questo vale per tutti gli organismi, ma l’uomo nella sua evoluzione sviluppa la razionalità, crea la cultura che gli
impone l’appagamento dei bisogni secondo tempi e regole dettati dal NOI, ossia dalla struttura sociale.
E’ la nascita del BENE e del MALE non secondo l’armonia con se stessi, gli altri, la natura, ma dipendenti
astrattamente da una inafferrabile, ma onnipresente Autorità.
La contrazione si fa contrattura e si consolida con spasticità muscolari più o meno croniche che formano
l’armatura caratteriale e rendono la distensione una chimera.
I bisogni il cui appagamento resta negletto, generano una costante tensione. Una tensione dove alligna ansia. E
l’ansia è alla base del disagio psichico dell’uomo moderno.
La Terapia dei Cinque Movimenti entra in questo meccanismo evidenziando i cinque movimenti primordiali che
governano la vita dell’uomo sano (pianificazione, sottomissione, diffidenza, seduzione, aggressione) e che sono
cinque modi differenti e basilari di modulare l’energia vitale verso l’appagamento dei bisogni.
L’analista neoreichiano valuta i flussi energetici osservando empaticamente il linguaggio analogico e ne evidenzia
le incongruenze rispetto a quello logico.
Incongruenza è ingorgo: l’origine della limitazione della capacità di essere felici.
I cinque movimenti attuati in modo armonioso rispetto a se stessi e alla realtà inequivocabile, che è propria del
mondo che circonda l’individuo, portano alla distensione, alla gioia di vivere, al piacere.
Individuare i blocchi energetici, rimuovere gli ingorghi e riaprire il flusso verso la vita: questa è la Terapia dei
Cinque Movimenti.
L’individuo (in-dividuus = non diviso) ritrova in tal modo la propria integrità oltre gli ingorghi e le incongruenze:
psiche é corpo.
(Franco Casarin, analista neoreichiano, Lugano).

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Scheda 3

L’affettività negli esperimenti di HARLOW

Per 20 anni il Dott. Harry Harlow, uno psicologo dell’Università del Wisconsin, ha utilizzato piccoli di scimmia nei
suoi studi sulle problematiche legate allo sviluppo umano.
Molti ritengono che, dopo Freud, il Dott. Harlow sia stato lo scienziato che maggiormente abbia contribuito a
rivelare come la vita adulta sia plasmata ed influenzata dalle esperienze legate alla prima l’infanzia.
In un esperimento classico, i piccoli di scimmia rhesus vengono divisi dalla madre sin dalla nascita. Fatti
crescere in semi-isolamento, non viene dato loro il permesso di vivere secondo natura, bensì nell’ambiente
controllato di un laboratorio, dove si possono ricreare e isolare tutte le influenze psicologiche tipiche dell’infanzia.
Essi sono in grado di vedere e sentire altri individui, ma senza sviluppare con loro contatto fisico alcuno,
nessuna interazione. La figura materna è rappresentata da un fantoccio di plastica e tessuto, una bambola inerte
e tuttavia capace di nutrire il piccolo.
La scimmietta finirà con il dipendere da questo pupazzo e sviluppare con lui una relazione affettiva, così da
soddisfare le sue primarie necessità fisiche e psicologiche che, come sappiamo, non si limitano al
soddisfacimento del bisogno di nutrizione, ma comprendono anche l’appagamento degli altri bisogni profondi del
Sé: quelli di appartenenza (sicurezza), di sensorialità e di conferma. Infatti, come nel cucciolo di uomo, anche
nei piccoli dei primati vi è un bisogno istintivo di aggrapparsi ad un altro corpo morbido, caldo e nutriente. Ma - si
chiede il ricercatore - cosa è più importante per il piccolo nel rapporto con la madre: il cibo o il calore e
l’accoglienza?
Il rhesus viene posto davanti a questa difficile scelta: è preferibile una mamma calda e morbida fatta di panno ma
non nutriente o una bambola di rete metallica senza alcun calore che però dispensa il cibo?
L’esperimento prevede che il piccolo venga deposto su di una calda madre di panno, priva di latte. Sposterà il
suo affetto verso la madre di metallo quando si accorgerà che questa gli offre cibo e quindi la vita?
Dalla madre di rete metallica riceve una cosa sola, il cibo, ma nessun calore e tanto meno nessun senso di
sicurezza quindi ... appena soddisfatto il suo bisogno di nutrizione la scimmietta si riaggrappa dalla madre-calda
sulla quale trascorre fino a 22 ore al giorno.
La traduzione dei risultati di questi esperimenti sul mondo degli umani è assai semplice: il “materiale”,
l’efficienza, il contatto formale non bastano a dare sicurezza al bambino. Sarà solo lo scorrere armonioso
dell’energia, il contatto caldo e costante, la fisicità dalla madre a garantirne una crescita sana ed un avvenire
radioso.

Nella cultura questa solidarietà fisica tra madre e figlio si è persa. Sopravvive laddove la cultura - nel senso
moderno del termine - non è (fortunatamente!) arrivata. Nelle sperdute lande dell’Africa nera, nell’inferno verde
che si estende intorno al Rio delle Amazzoni, nelle piccole isole del Mare dei Coralli, il rapporto madre-figlio è
quello voluto dalla natura. I piccoli boscimani, yanoama, trobriandesi vivono nei primi anni di vita sulla propria
madre. L’interazione attiva tra i loro corpi ne fa uomini armoniosi, naturali, potenti, fisici. Solo marginalmente il
loro carattere è inquinato dalla religione e dalla cultura. Il corpo ed i bisogni del corpo imperano sul suo agire.
L’uomo è uomo. La donna è donna. Insieme formano la relazione duale armoniosa. Insieme creano il “terreno”
nel quale crescere i figli.
Il sano mondo della natura trova la sua dimensione nella non-cultura, nella comunione tra corpi, tra corpo e
bisogni, tra corpi e natura.

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Scheda 4
Il terreno relazionale
Nelle loro relazioni gli umani sono come le patate: hanno radici in un particolare tipo di terra dentro la quale custodiscono,
gelosamente nascosto da sguardi indiscreti, il loro frutto e traggono l’aria per vivere dal fogliame che emerge dal terreno.
Sempre come le patate, usano la loro energia per rinforzare il nucleo (il frutto), cedendone ben poca all’ambiente circostante.
Eppure, contrariamente alle patate, l’uomo vive in gruppo. Meglio: può vivere solo in gruppo! Ma, come la patata, anche l’uomo
ha subito nel corso della sua evoluzione non pochi cambiamenti. La patata per divenire un tubero universalmente apprezzato,
ha dovuto attraversare l’Atlantico. L’uomo per proporsi come specie eletta ha voluto attraversare i confini che separano il
naturale dall’innaturale.
Forse qualche decina di migliaia di anni orsono l’uomo non era simile ad un patatone. Allora viveva in armonia e la sua
energia scorreva liberamente dal suo corpo ad altri corpi, generando felicità. Ma questa è retorica.
Se ci proponiamo di analizzare il terreno sul quale prosperano le relazioni umane, non possiamo esimerci dall’addentrarci in
quella che ho definito nevrosi di potere.
Secondo la mia teoria dei bisogni, la distensione (il piacere) del Sé transita inequivocabilmente da un Tu-di-riferimento. Di
conseguenza, nelle regioni psichiche più profonde, ogni individuo cela, parimenti al principio di piacere ed al principio di
realtà, un indomabile principio di potere.
Nel soggetto armonioso la sete di dominio (potere) si estingue nel momento in cui il Tu-mèta appaga il bisogno presente nel
Sé (distensione del Sé).
Nelle società arcaiche che - con tutta probabilità - erano governate dal principio di potere, non esisteva, paradossalmente, il
concetto di possesso, in quanto il (s)oggetto-mèta diveniva ininfluente per il benessere del Sé una volta che questo aveva
raggiunto la distensione (piacere).
Diverso è l’uomo falsamente detto “civilizzato”. Al principio di potere esso ha sostituito la nevrosi di potere. Egli non è più pago
di usufruire in modo privilegiato dei soggetti e degli oggetti che gli danno piacere. Egli ne vuole il possesso incondizionato. In
eterno! Così il pianeta tutto è in continua lotta per definire chi controlla chi. Una lotta dalla quale non sono certo esenti gli
appartenenti ad una stessa famiglia o le relazioni tra amici o tra fidanzati, né - tanto meno - quelle tra genitori e figli. Il terreno
relazionale è in primis dominato dalla lotta per il potere!
Un potere che però esce dall’oggettività per entrare nella soggettività: non è più soddisfacente avere - ad esempio - una
compagna. No! É necessario controllarla, possederla. E per ottenere il controllo assoluto, è indispensabile renderla
dipendente, starle sopra. Solo quando “sta sopra”, il Sé si distende: ha l’illusione del controllo sul tempo e sullo spazio.
In questo gioco sottile agiscono importanti meccanismi psicologici legati ai vari tipi caratteriali.
Per il carattere schizoide (tipo “S”) la distensione avviene nel non-rapporto, nel rifiuto del Tu-fisico, quindi nell’isolamento in
quanto lui ha paura della fisicità; il carattere orale (tipo “O”) si distende solo in una relazione mediata da valori intellettuali, ma
nega la realtà corporea delle emozioni e dei sentimenti, infatti questo carattere odia il Tu-fisico “...perché abbandona!”; il
(sado)masochista (tipo “M”) trova piacere nelle relazioni di amore-odio, ossia su quel terreno che gli permette di comprimersi
nella figura di gregario per poi esplodere (distensione) nella rivendicazione dei suoi presunti diritti. Individuo compresso, il
“tipo M”, non affronta l’esperienza nell’armonia, poiché l’armonia gli precluderebbe la via verso l’esplosione. Il carattere
psicopatico (tipo “P”) è “in piacere” quando controlla di terreno relazionale (...paura di rimanere solo), mentre il carattere rigido
(tipo “R”) vive con ansietà la sensazione di “libertà” sentimentale/emozionale (...paura di essere penetrato) e si distende nel
mondo delle regole e dei precetti.
Lo “stare sopra” si concreta, come abbiamo visto, nel manipolare il mondo esterno o il Tu-di-riferimento, affinché si realizzi, a
seconda del carattere, una delle dinamiche sopra accennate.
La relazione che implica il coinvolgimento armonioso di pensiero, ruolo, sentimenti, emozioni e sessualità è morta: giace
sotto le macerie della nevrosi comune, sotto la maschera di quello che W. Reich ha definito homo nevroticus normalis.

Le relazioni tra umani sono riconducibili alla formula seguente:

P=CxS

P = personalità (modulo di relazione); C = carattere; S = stimoli ambientali.

La “battaglia” ha inizio quando gli stimoli provenienti dal mondo esterno (S) turbano gli equilibri interni del Sé (o omeostasi
caratteriale). Il ruolo (P) riflette la paura del Sé (paura di uscire dalla omeostasi) ed evidenzia i suoi meccanismi di difesa che
si concretano nell’interruzione del libero scorrere energetico nella relazione. Il “circolo affettivo” è mutilato. Il “vissuto” - ossia la
somma di sentimenti, pensieri ed emozioni che si sviluppano nel corso di una qualsiasi relazione - da inizialmente gioioso si
tramuta in sofferenza.
Ogni “vissuto”, ogni atto della nostra vita che implichi un “passaggio affettivo”, costituisce un’esperienza. Ogni esperienza è
racchiusa tra un inizio ed una fine.
All’inizio dell’esperienza si situa il bisogno inappagato (1) che genera una pulsione (2); la pulsione eccita l’organismo (3);
nell’organismo l’eccitazione si trasforma in movimento (4); attraverso il movimento il Sé entra nell’esperienza (5). Appagato il
bisogno, il Sé si distende: è la fine dell’esperienza (6). Segue un “periodo senza bisogni” (distensione post-coitum).

30
Scheda 4.1

Un carattere si distingue da un altro per due dinamiche tra di loro connesse: 1. il desiderio di “stare sopra” (controllo, nevrosi
di potere); 2. la paura di affrontare “scenari esistenziali” vissuti come potenzialmente pericolosi e la conseguente interruzione
del “circolo dell’esperienza”:

Carattere Interruzione Relazione

Schizoide all’apparire della pulsione Io - Io. Esclusione del Tu e del


(la pulsione non si trasforma Sé-corporeo.
in eccitazione). Compressione
della pulsione.

Orale Nella fase dell’eccitazione. L’organismo è eccitato (“...voglio!”)


ma non agisce sul Tu-mèta per appagare
il proprio bisogno ed attende
passivamente che sia il/un “Tu” ad
appagarlo (“...tutto mi è dovuto!”).

(Sado)masochista Nel “movimento” verso il Tu. Compressa. Gregaristica, poi


esplosione di rabbia. Sadomasochismo.

Psicopatico Nel corso dell’esperienza. Dall’alto (Io) verso il basso (Tu),


domina l’ansia di perdere il controllo
sul/sui Tu-di-riferimento.

Rigido Prima della fine dell’esperienza. Diffidenza. Paura di lasciarsi


andare (“...se mi lascio andare sarò
castrato perché ho infranto un tabù!”).

Il terreno relazionale è, quindi, la sintesi dello scontro tra caratteri, ognuno sotteso a conservare il proprio equilibrio a scapito
dell’equilibrio del Tu-di-riferimento, ad evitare l’incontro con le proprie paure, con i propri limiti imponendo alla relazione una
scenografia, a tale fine, studiata.
Analizzando la dinamica delle relazioni si può facilmente osservare come la maggioranza delle azioni non siano intese a
creare armonia, ma piuttosto a conservare la propria stabilità. Argomenti “pericolosi” vengono interrotti o squalificati; desideri
di affermazione presenti nel Tu-di-riferimento bruscamente etichettati e confrontati con la cosiddetta normalità (“... non è
normale. Guarda, gli altri ...”); la troppa vicinanza viene vissuta come minacciosa e quindi evitata (paura di perdere il controllo).
Questo è il terreno relazionale: un caos di sentimenti castrati, emozioni bloccate, paura, ruoli assolutamente incongruenti con i
veri bisogni del Sé. E’ il palcoscenico dell’apparenza. La sostanza rimane sotto terra. Come la patata.

31
Scheda 5

Il Carattere
Al carattere non possiamo che avvicinarci per approssimazione, servendoci di metafore. Infatti, poco o nulla serve la
sapienza dell’Enciclopedista che recita: “... il carattere è l’insieme dei tratti psichici morali e comportamentali di
una persona, che la distingue dalle altre...”, per comprendere a fondo l’essenza di quell’Insieme, che fa l’individuo.
Il carattere è il regno delle realtà irreali. E’ la sede dell’Ideologia. Entrare nel carattere è come varcare la soglia del
Parlamento: sugli scranni siedono strani esseri - che qualcuno ha definito homo politicus - ognuno armato di un
proprio programma, di una propria filosofia dell’essere. Ci sono i “neri isolazionisti”, i “blu intellettuali”, i “rossi
aggressivi”, i “gialli espansionisti” ed infine i “verdi reazionari”.
Una Triade siede sulle poltrone presidenziali: Sua Eccellenza dux Corpo, Sua Eccellenza dux Società e Sua
Eccellenza dux Realtà.
Il Parlamento è riunito in seduta: passionale, vivo come sempre, il dux Corpo annuncia le sue esigenze. Come
sempre il suo collega Società ha da obiettare.
“Io voglio amore!” - esordisce Corpo.
“Ed io voglio che il tuo amore non turbi la mia armonia” - ribatte Società. Il tutto potrebbe finire lì. Ma così non è: i
Parlamentari si calano nella questione. Ai “neri” il problema sembra non interessare. Ai “rossi” nemmeno. Prende la
parola l’esponente del Partito - che nel nostro ipotetico Parlamento - detiene la maggioranza:
“Colleghi” - esordisce - “a nome di noi “verdi” vorrei rendere attento dux Corpo che amore significa perdizione,
deflagrazione dell’ordine costituito e, se ciò non bastasse, è l’equivalente di gabbia e di sudditanza!”.
Dux Corpo ha un sussulto:
“Come, IO, dovrei rinunciare all’amore per le vostre folli paure? ... IO vi paralizzo!”.
“Calma” - interviene l’esponente dei “gialli” - “forse una via d’uscita c’è: l’oggetto del tuo amore lo possiamo rapire,
ingabbiare e regalartelo come schiavo”.
Si fa sentire dux Società:
“Ma questo non è morale. Nessun uomo ha diritto di schiavizzare un suo simile!”
“E’ vero!” - conferma il rappresentante della maggioranza.
Corpo tuona che lui di queste storie non ne vuole sapere. Minaccia di scagliare tutti i suoi accidenti su quel
consesso. La diatriba si inasprisce.
“Sei un egoista” - urla Società - “per un tuo bisogno metti in pericolo la nostra armonia”.
Zittisce tutti il capogruppo dei “blu”, uno che si fa sentire solo nei momenti di emergenza:
“Tranquilli Signori. Io che qui rappresento l’Estrema Sapienza, dico che questo amore si può soddisfare ma, tenuto
conto degli illustri pareri testé espressi, propongo che abbia a viversi con modalità platoniche, che abbia a
realizzarsi nel sublime.”
Scrosciano gli applausi. Tutti d’accordo, salvo il “nero” che fa come se la cosa non lo toccasse in nessun modo.
Corpo, melanconico, soggiace e meditando rivincita si accosterà - castrato - all’oggetto del suo ardore. La Realtà si
abbuia: è lei la vera perdente!

Ecco il carattere: un’essenza instabile, vociferante, ambigua. Una presenza scomoda per l’equilibrio del Sé. Una
fonte di tormenti, di esaltazione del futile. Una biblioteca che racchiude mille verità: ed ogni verità è frutto di una
paura.

32
Cap. 2 - Quando a governare il Sé è la “bellezza della mente”

Ricordate la scimmietta di Harlow? Doveva scegliere tra una madre-fredda-che-nutre e una madre-
che-dispensa-calore. Ebbene, il piccolo rhesus aveva una scelta reale. La figlia di una madre-
fredda-che-nutre, no!

Il “terreno freddo” ha generato la non-fiducia nel “sentire”, ha prodotto il blocco di quella gioiosa
eccitazione che dà il via al “movimento”, ha costretto il Sé a prodursi nella magica sfera dell’irreale:
nella bellezza della mente!

Questo Sé vaga ora nell’oceano della vita senza una bussola e senza un sestante. Al timone si è
posta la mente. Una mente che si confronta con se stessa. Che non cerca - non vuole cercare - nella
terreneità un riscontro alle proprie astrazioni.

Terreneità significa essere “terreni”; essere fisici, appartenere a questa terra, porre le radici nella
realtà del momento. Significa “sentire”, quindi vivere di “sentimenti” o, come scrive S. Keleman, (Il
corpo è lo specchio della mente, 1979): “ ... essere terreni deriva dall’essere nati. Deriva
dall’essere nel mondo con un corpo. Noi ci impiantiamo nel mondo. La nostra funzione naturale
fa crescere radici ad un’estremità e rami e foglie - relazioni sociali - dall’altra”.

Persa la terreneità, annullata la fisicità: il mondo si presenta senza orizzonti, senza punti di
riferimento. Le radici sono tagliate. Cessa la vita:

“...il corpo è dove è energia. Quelle parti del corpo energeticamente non inondate sono vacui
involucri.
Senza energia l’occhio guarda senza vedere, la mano tocca negando il contatto, l’orecchio ascolta
senza veramente trasmettere il messaggio al cervello. La bocca parla senza esprimere.
Questa è la dimensione nella quale Id è: la non ebbrezza delle pareidolie. E’ giù, nel plesso
solare, e si comunica non comunicante. Vive nel labirinto delle immagini, della fantasia, del
sogno.
Fetale: in quella grotta, dove dolore e gioia, caldo e freddo, sensualità e continenza sono mere
espressione del pensiero senza riferimento alcuno alla realtà del corpo, contempla se stesso.
Ora, ora, ora, il mondo è ora. Ora è sogno.
Realtà: dimensione che Id pianifica per un corpo che ora ha costretto all’atonia. Ed il tempo
annega come un futile narciso nello stagno delle ninfe.9”

Nel deserto degli affetti, l’energia, la linfa che crea vita, si chiude nell’abiogeno circuito dell’Io-mente
è Io-mente. Circolo vizioso: Io analizza Io. Io crede in Io. Io nutre energeticamente il non-reale che
produce irrealtà. E l’irrealtà diventa Io. Io accetta Io-irreale. Questa dinamica, pur contorta, pur
lontana dalla realtà, pur estranea alla fisicità, si àncora nel Sé come se fosse l’unico, vero,
inequivocabile copione di vita. Così l’equivoco si tramuta in certezza.
La mente bella, generata dal terribile scontro che oppose le esigenze di naturalità del corpo ad una
realtà inappagante, ha ora la certezza che emuovere10, che sentire11, che scorrere12, ricondurrebbe
il Sé all’angoscia che deriva dalla consapevolezza di vivere su un “terreno freddo”, inaccogliente,
distante dai desideri della materia-corpo.

9
(W.A. Bernasconi, “Id: storie dell’evoluzione, 1994).
10
Emuovere, da emozione é muovere verso ... l’esterno.
11
Sentire, da sentimento.
12
scorrere = il rapporto tra il Sé ed il mondo esterno implica lo scorrere di bionergia.

33
Allora è no! No alla fisicità. Meglio essere tutto mente. Essere intrisi di intelletto. Ed è in
conseguenza di queste “certezze” che si instaura nel Sé delle ammalate di anoressia o di bulimia un
senso di onniscienza, di pretesa di conoscenza totale e illimitata che è propria della natura divina, in
quanto l'assoluta perfezione esclude la possibilità di una ignoranza anche minima. Onniscienza,
perché il pensiero è onnipotente. Il pensiero è libero e non ha limiti se non fosse per quel noioso
ancoramento ai modesti confini del corpo. Non è perciò assurdo che le giovinette che vomitano
quaranta volte al giorno o quelle che pesano 30 chilogrammi per un metro e sessanta affermino:
“...io sto bene così, mi sento libera! ... cosa faccio di male? Non do fastidio a nessuno. Lasciatemi
in pace!”.
Ed è specialmente l’ultima di queste affermazioni che ci riconduce alla realtà dell’irreale: quel
lasciatemi in pace ha valore assoluto. Pace: pace dai sensi, dall’obbligo di relazioni con l’esterno,
dal “dare”, dallo scorrere della vita, dalle pretese del corpo.
Su - nel cassetto del pensiero13 - turbinano immagini di neri fantasmi. Lassù c’è puzza di morte!
Morta l’esuberanza della gioventù, morta la spontaneità, morta la creatività. Lassù i pensieri si
ingrovigliano: controllo bilancia, rendimento a scuola, via al supermercato, abbuffata, vomitare,
controllo bilancia, controllo specchio, tuffo nel balletto, controllo bilancia, frigorifero, vomitare,
performance sul lavoro, prima assoluta nello sport, controllo pancia, frigorifero, vomito, controllo
cibo, ancora vomito, ricerca del lassativo, movimento nella ginnastica, controllo bilancia, controllo
peso, controllo specchio, attenzione alle calorie, palestra, abbuffata, senso di pienezza ... via con il
vomito, controllo bilancia, controllo cibo, controllo pancia ed ancora il lassativo. Frigorifero (“..dove
ho nascosto il cibo?”). Vomito.
Poi i “no!”. Sono “no!” l’alimentazione normale, l’acqua, l’amore, la femminilità, la sessualità, le
relazioni armoniose, la cena con gli amici, il lasciarsi cullare dalle onde del vivere. No! alle
sensazioni, alle delusioni, all’andare verso, alla bellezza.

Anoressia: dal greco anoreksía, derivato di óreksis ‘appetito', col prefisso an-privativo
(non appetito).
Troppe volte - ed erroneamente - si è descritto questo male in modo riduttivo, prendendo alla lettera
la descrizione dell’etimo. Vero è che anoressia è si la mancanza di appetito, ma non dell’appetito di
cibo - che della malattia è un epifenomeno - ma dell’appetito di vivere che rappresenta il vero nucleo
del disturbo!
Il credere che sia solo mancanza di appetito (o ripugnanza per il cibo), ha spesso conseguenze
nefaste sulla terapia del disturbo alimentare. Infatti medici e genitori sono lì a scrutare il verdetto
della bilancia che se segna “... il chilo in più” suscita atteggiamenti di compiacimento nei confronti
dell’ammalata (“...guarda che brava, ha messo su 350 grammi!), ma se marca qualche grammo in
meno produce costernazione o rabbia. Ma c’è di peggio: in alcuni mestieranti della psicologia si fa
strada una nuova insulsa tendenza che è quella fregarsene “ ... del chilo in più o del chilo in meno!”.
Certo: la cura dell’anoressia non deve transitare soltanto dalla statistica del peso, ma ciò non
significa che l’importanza - seppur relativa - di questo fattore debba essere disconosciuta o,
addirittura, negata. Solo un corpo armonioso che sente vibrazioni e sentimenti è in grado di
provare appetito di vita, è ricettivo agli stimoli del mondo esterno ergo alla realtà; solo un corpo nel
quale l’energia scorre può aprirsi alla rieducazione, alla terapia, se questa è intesa come un training
alla vita e non come palestra del pensiero o luogo nel quale far ballare il corpo come una marionetta
sostenuta dai fili dell’irrealtà.
Io credo che solo il corpo possa sanare le proprie ferite, sono convinto che solo un fisico aperto,
ricettivo possa produrre pensieri legati alla ineluttabilità del vivere. E un corpo non può

13
Waldo A. Bernasconi, “L’uomo a cassetti”, 1996.

34
consistere di sola pelle, ossa e qualche organo interno che, a fatica, mantengono in vita quel cereo
mozzicone che stenta a dare luce.

Armonia del corpo - armonia della mente (vedi anche scheda 6 a pag. 47)

La maggioranza dei ricercatori in materia di “disturbi alimentari psicogeni” cercano affannosamente


il luogo nascente della malattia. Basta digitare “anoressia” su qualche macchina che conduce nel
ciberspazio per trovarsi confrontati con interessanti proposte:

“ ... il problema è fatto scattare da qualcosa ancora difficile da individuare: di solito una dieta per
calare qualche chilo e non si smette più, a volte subentrano altri fenomeni. Ad esempio
nell’obeso possono instaurarsi cicli jo-jo. La persona inizia una dieta drastica con un certo calo
ponderale, non riesce a mantenerla quindi tralascia e recupera peso, poi si pente e riprende una
dieta ....” (Dott. Chiara Baraldi, 1997).

“... come nasce? Di solito con una dieta dimagrante senza controllo medico, oppure con una
iniziale perdita di fame legata ad un evento doloroso ... normalmente vi sono problemi di famiglia:
un padre estraneo alla vita della figlia, una madre possessiva che induce nella figlia un forte
senso di dipendenza...” (Gruppo ABA, Milano, 1997).

“...l’accentuazione della coscienza razionale in cui viene privilegiato l’aspetto consumistico e


tecnico che, assorbendo troppa energia, ha fatto perdere e dimenticare all’uomo moderno
occidentale la parte corrispondente alla sfera dei sentimenti e della spiritualità, e di fatto annulla i
rituali collettivi che segnavano ogni cambiamento, particolarmente quelli presenti nella pubertà.
Questi cambiamenti e distorsioni dei valori sociali del collettivo hanno un loro peso anche nei
nuovi valori assunti dalle famiglie, riscontrabile nelle famiglie con patologie anoressiche in cui
domina la tensione verso l’evoluzione economica senza una parallela evoluzione culturale ...”
(Dott. Francesco Montecchi, Roma, 1997).

I temi in discussione sono grossi: dalla dieta selvaggia, alle madri possessive, al consumismo. Ma
ogni “spiegazione” evoca nuovi “perché”.

E’ certamente un luogo comune quello che vuole l’anoressia legata ad una dieta selvaggia. “...poi la
dieta prende il sopravvento sulla volontà e l’ammalata è guidata dalle proprie ossessioni”.
Nella fase in cui la dieta ha inizio la ragazza, come documentano tutte le nostre ricerche, è,
ovviamente, in sovrappeso (se lo specifichiamo è perché non vorremmo che chi ci legge credesse
che la sensazione di obesità sia - in quel momento - frutto di una fantasia malata). Il corpo, quindi è
nutrito, ha appetito. Come mai, allora - quasi d’un tratto - questo po’ po’ di ragazza sceglie di ridursi
ad uno stato di magrezza spettrale?
E’ sintomatico della nostra scienza ridurre ogni fenomeno a problemi di tipo meccanicistico. Eppure
- ed è il caso di molte patologie - la malattia (ma anche la sanità) non può essere che compresa
unendo la meccanica del corpo a quel sistema inafferrabile e sempre nuovo che chiamiamo psiche.

Le nostre teorie sull’eziopatogenesi di anoressia, bulimia ed obesità da iperfagia, ci riconducono al


terreno relazionale, quindi al “circolo dell’esperienza” ed ai momenti di interruzione (dell’esperienza)
e scopriamo che quel mangiare che ha reso “cicciottella” una graziosa ragazza, non era
determinato da un “sano appetito” o “dall‘appetito di vivere”, ma dall’interruzione dall’esperienza nel
momento di “muovere” verso il Tu-di-riferimento. L’incontro con il Tu e con quel “terreno” suscitò,
tempo addietro, sentimenti di ansia ed infelicità e fornì il primo impulso al crescere della “bella
mente”. Dall’inconscio (ma a volte anche dal conscio) nacque il rifiuto a fondersi con Tu e con

35
l’ambiente e l’energia deviò dalla mèta naturale e si spostò su qualcosa di eccitante ma
controllabile, di caldo ma non invadente, di nutriente ma non sfuggente. Comunque di rigettabile: il
cibo! Ed il cibo diventò “Tu”. E nella relazione con il cibo vennero trasferite le peculiarità che
caratterizzarono e caratterizzano la relazione, malata, con il Tu-di-riferimento.

Cibo = TU

• Cibo = relazione-con-Tu, quindi da trattare con non-fiducia (se il Tu-cibo mi penetra, mi


abbandonerà! é angoscia);
• rifiuto del cibo (anoressia) = rifiuto di relazione con il Tu, paura di fusione, di rapporto duale.
(...mi lascio andare, ho fiducia, mi fondo nel Tu ... poi sarò abbandonata!);
• ambivalenza nei confronti del cibo (bulimia) = permetto al Tu di penetrarmi parzialmente,
“...voglio controllare il Tu.” (nello sfondo l’ansia d’abbandono); penetrazione + diffidenza =
mangiare (penetrazione) é vomitare (rifiuto di fondersi con il Tu-[cibo]);
• iperfagia = sfiducia (“...se ti trattengo dentro di me, non mi abbandonerai!”).

La lettura del rapporto che l’ammalata o l’ammalato hanno con il cibo è indicativa della relazione
che essi sviluppano nei confronti del mondo esterno e del Tu-di-riferimento.

Torniamo alla nostra ragazzina “cicciottella” che tanto piace a mammà ed alla quale tutti dicono:
“...ma come stai bene!”. Qui l’apparente salute del corpo non è in armonia con il regno dell’anima!
La relazione tra psiche e corpo è relazione tra il pensiero e sentimenti, pensiero ed emozioni,
pensiero e sessualità. Se - come nei casi che stiamo prendendo in esame - l’interazione tra
sentimenti/emozioni/sessualità e mondo esterno ha avuto sul Sé conseguenze mutilanti, allora
sull’armonioso scorrere dell’energia da cassetto a cassetto, cala il gelo . Un “inverno” psicofisico
che si materializza in blocchi muscolari 14 dentro i quali si ghiaccia la voglia di relazione con il(i) Tu.
E quei blocchi racconto storie. Storie di solitudine, di tradimento, di inganno, di distruzione:

“... sono la spettatrice di me stessa. Nel sogno siamo in quattro. E’ una prova di tuffo. Non voglio
tuffarmi, poi arriva Lei (N.d.A. il “Lei” sarei io) che con dolcezza mi incita a partecipare. Ho paura.
Sono sul trampolino. Dietro di me una ragazzina molto minuta e molto dolce mi dice “...buttati!”.
Prendo la rincorsa ... mi tuffo ... ma al posto di entrare in acqua mi schianto sulla terra. Sangue. Il
mio corpo è morto. La mia anima invece è viva e prova piacere nel vedere tutto quel sangue”.
(Stefania, anni 24, anoressico-bulimica)

Per capire i simboli presenti in questo sogno non ci vuole un novello Freud. E’ tutto evidente. La
fiducia una volta propria del Sé (ragazzina minuta). Il tuffo (cadere, lasciarsi andare), lo schianto (se
mi lascio andare mi schianto, muoio: non-fiducia), la liberazione dell’anima dal corpo. L’anima
esulta.
Storie di una comune anoressico-bulimica. Sullo sfondo sempre il tradimento del Tu (“...Lei mi
incita a partecipare...”).

***

14
Secondo la Scuola neoreichiana, che si riferisce alle intuizioni di Wilhelm Reich, la nevrosi ha un suo agganciamento al Sé-
somatico nella forma di blocchi muscolari cronici. (Blocco caratteriale o armatura caratteriale).

36
Per comprendere a fondo la personalità di anoressiche e bulimiche, ma anche quelle delle obese
da iperfagia, dobbiamo scrutarne i modelli di pensiero ed analizzare i meccanismi inconsci che
governano il loro “cassetto della mente”. Mente, mentale è bello: come un filo d’Arianna questo
motto sta all’inizio ed alla fine di ogni storia che andremo a raccontare. Chi prescinde da questo
schema, difficilmente potrà affrontare i disturbi dell’alimentazione di origine nervosa con la dovuta
cognizione di causa. E’ quindi più per i familiari, per mariti o mogli, spose e fidanzate, amici ed
amiche, ma anche insegnanti, educatori e medici che scriviamo le righe che seguono. Loro - le
ammalate o gli ammalati - queste cose, in fondo, le sanno già, anche se fanno finta di “...non
capire”.

Il “Tu”partorito dalla mente

Il Tu non esiste. E se esiste è qualche cosa di minaccioso dal quale allontanarsi. Parliamo - è chiaro
- del Tu-che-ha-un-fisico. Per contro TU (quello tutto in maiuscolo), è perfetto, è l’ideale, è l’assoluto
... peccato che non esista. Non esiste perché quel TU non ha un corpo che lo sostiene, non ha
sentimenti se non positivi, non ha emozioni se non calde. Accoglie questo Tu. Accoglie sempre. Non
ha diritti. Solo doveri. Non è, LUI, partorito da una donna: è nato dalla spuma della mente. E guai se
esce dal copione, dall’ideale; guai se perde la sua totale accondiscendenza: sarà punito con
disconferma15!

“ ... io sono sana. Ho 17 anni. L’ammalata è mia sorella. Si chiama Anna. Lei è anoressica. Odia
mia madre. Mia madre vive da qualche settimana in cantina, perché Anna non vuole vederla e
dice che è lei la colpa di tutti i suoi problemi. Glielo ha detto lo psicologo. Anna ha freddo perché
pesa 35 chili. Io devo scaldarla con l’asciugacapelli. Io vorrei uscire con le mie amiche. Ma Anna
non vuole. Senza di me si sente sola. Dice che se è sola le viene voglia di morire. Allora io vivo
accanto ad Anna. Ma non ne posso più. Anna urla, si strappa i capelli se una sera dico che voglio
uscire. Allora io sto a casa. A scaldarla con l’asciugacapelli. Mi aiuti.” (Lettera trasmessami per
posta elettronica nel settembre del 1997).

Per il Sé-governato-dalla-mente il Tu altro non è che “... qualche cosa che tutto mi deve, ma al
quale io devo poco o nulla!”.
Il progetto-mentale-che-esclude-il-Tu fa dell’Io il centro dell’universo:

“Io-io-io-io-io-io-io-io-iiiooo-iiiooo-iiiooo ...Nel suo laboratorio di immagini oniriche Io partorisce


uno strano homunculus, un essere androgino con il quale interloquire: l'Alter-Io. Io ed Alter-Io si
fondono in un unico personaggio. Gioia di onnipotenza nell'onania. Tronfio, quell'involucro vacuo,
va raccontandosi ad un mondo che non vede, ma dal quale vuol essere visto: «...io, io, io, io, io, io
...», all'infinito.
Io pontifica sul Tu, sui Tu, sul Noi, sul Voi. Poiché Io ed Alter-Io sono divenuti Tu, Noi, Voi! E lo
sguardo assente, l'orecchio sordo, la mano fredda non vogliono cogliere la psiche del Mondo,
che osserva stupita quel bizzarro essere che si pavoneggia incurante del tempo.

15
Disconferma: negazione dell’esistenza del Tu. “...tu non esisti!”.

37
Nel laboratorio del pensiero, l'irreale diviene realtà. Eccolo a vagare sopra il pianeta degli uomini,
sempre comunicante la sua assenza, il suo dispregio per la vita, lontano da Tu, con Alter-io. Ed il
Mondo é Io, io, io, io, io!” 16

Interruzione dell’esperienza
nel momento dell’eccitazione

Fig. A

Figura A: l’interruzione che determina lo spostamento dal Tu-reale al cibo è conseguenza della paura del soggetto ad uscire
dalla fase dell’eccitazione e muoversi verso il Tu-di-riferimento affettivo.

Conoscere Tu, uscire dall’Io, implica l’accettazione del movimento di sottomissione: sottomettersi
alla realtà inequivocabile, alle esigenze naturali del proprio Sé, quindi sottomettersi ad un Tu-di-
riferimento ed appagarne i bisogni, poiché solo su questa base nasce lo scambio; quello scambio
e quella complementarietà che contrassegnano la coppia armoniosa. Ma, se il “terreno relazionale”
è segnato dalla non-fiducia o dall’ambivalenza, allora si materializzano le interruzioni che
contrassegnano il carattere e la personalità della paziente bulimica o anoressica.

Le loro superfici di contatto sono erogenizzate, ma il trauma d’abbandono che fa da sfondo,


impedisce il movimento verso il Tu, poiché

Tu = abbandono.

Allora, l’andare verso, il sottomettersi sono delegati al Tu: solo dal suo comportamento dipenderà
l’appagamento dei loro bisogni. Fin che “Tu” provvede ad accontentarne gli animi, allora sarà
“maiuscolo”, ideale. Quando a sua volta reclamerà il movimento di sottomissione, esigerà il diritto
ad una sua individualità, verrà respinto in quanto fisico, reale. Ed il Tu-reale abbandona ... quindi
meglio non coinvolgersi, meglio allontanarsi! Non entrare nel movimento, quindi nell’esperienza.
Non assumere responsabilità, delegare. Delegare ed osservare e ... se è il caso ... fuggire.
Fuggire nell’Io-Io.

Non è perciò strano che anoressiche e bulimiche si approccino al Tu con le stesse pretese che
rivolgono al frigorifero. Il “frigo” deve essere sempre pieno (qualcuno deve incaricarsi di tenerlo
sempre pieno, sennò sono isterismi!), deve essere sempre disponibile, il suo contenuto appetitoso,
soddisfacente, caloricamente giusto, asettico, pulito. Meglio se freddo.

Ecco il Tu che è stato partorito da una mente che nega il corpo!

16
W.A. Bernasconi, op. cit.

38
La “coppia” partorita dalla mente

Torniamo al circolo dell’esperienza: il Sé è eccitato, l’organismo reclama nutrizione (in senso


esteso) o sensorialità o sessualità. Ma di dare forma ad un movimento congruo per soddisfare il
bisogno ... non se ne parla neanche!
Va da sé che un Tu dovrà provvedere ad accontentare quell’esigente organismo. E, visto che né le
anoressiche, né le bulimiche sono mostri - troveranno il modo di contraccambiare.
Il problema si pone quando la prima mossa tocca a loro o il Tu avanza “irragionevoli” richieste
(...vuoi fare l’amore, bene ... seducimi!). Ad un simile affronto la Nostra reagisce con ostilità, con
rabbia (...non mi merita, ma che vuole da me? Questo è tutto scemo!). Ma vero è, che ella non
conosce quel “movimento”. Non sa andare verso ... Se tiene veramente alla relazione, cosa che
difficilmente ammetterà, cercherà dapprima rifugio nei sofismi e nelle intellettualizzazioni, tentando
di generare sensi di colpa in quell’essere abietto che osa anche pretendere. Imperativo importante
è non muoversi! Imperativo è escludere il proprio fisico dalla vicenda. Ma quando tutte le
“stregonerie” crollano allora non resta che il “buco nero”.
Buco nero: stelle un tempo splendenti diventano invisibili, inghiottite dalla loro stessa massa a
cui nulla riesce a sfuggire, nemmeno la luce. L’energia è altissima, ma concentrata nel centro del
“buco nero”. E’ così alta che inghiotte, fagocita anche i campi energetici circostanti!

L’energia che irrorava la superficie di contatto (fig. a) si contrae nel centro e nel “pensiero” del
Vivente (fig. b). Il contatto con il Tu è cancellato.

fig. a fig. b

Crollano gli ideali e le idealizzazioni davanti al Tu-che-diventa-vivo. E quel Tu-vivo va ora rifiutato,
demonizzato. “Francamente ho sempre pensato di non essere all’altezza di fare coppia con te” -
oppure - “... non potrai capire i miei desideri, le mie aspirazioni più profonde” - o ancora “... vorrei
avere una vita nuova. Ricominciare tutto da capo con un compagno che mi stia accanto
condividendo le mie esperienze!”.
Analizzando il “profondo” scopriamo abbastanza velocemente che le citate dichiarazioni non
corrispondono né ai veri bisogni del Sé, né al pensiero reale (pseudologia phantastica17). Sono

17
Pseudologia phantastica: difesa del Sé. Il soggetto mente con la consapevolezza di mentire a se stesso ed al mondo
circostante.

39
perciò inveritiere. Rappresentano una via di fuga, una via di scampo dalla responsabilità legata al
“crescere”. Il mondo va perciò invertito: il Bene diventa Male, il Male diventa Bene:
“... le sue richieste suscitavano in me un senso terribile di panico, dentro gelavo tutta. Mi vedevo
come dall’esterno e dicevo delle cose che non so come mi venivano in mente. L’irreale diveniva
reale. Molto reale. La realtà della bellezza vissuta si trasformava in qualche cosa di lontano, quasi
me la fossi inventata. Una cosa dalla quale fuggire. Da schiacciare, da mantenere “sotto
controllo”. Il mio intelletto partoriva distorsioni. Sembravano, queste, la quintessenza dalla verità.
Sapevo del mio essere falsa, disarmonica. Sapevo di volere solo succhiare. Ma non potevo farne
a meno. Solo ora sono consapevole che fuggivo. Sai come ci rimaneva male ogni volta? E’ come
se io l’avessi tradito. Tradito nei sentimenti, nella fiducia. Invece sono io che tradisco me stessa.
Ci ricadrò, lo sento e poi un giorno sarà stufo di me e mi lascerà”. (Virginia, 28 anni, bulimica).

Prima di lasciare il capitolo è utile effettuare un excursus a ritroso nel tempo fino a cogliere l’attimo
nel quale Virginia forma la sua “coppia”.
Lei si sentiva una “c-minuscola 18”, piccola, piccola, affamata di un “Grande-C” che la proteggesse e
la guidasse attraverso gli irti percorsi della vita, senza troppo pretendere “...perché troppo
affascinato dalla mia bellezza intellettuale!”. Lui, in verità, un “Grande-C” non lo era mai stato, ma
quel corpicino esile lo attraeva, quella apparente fragilità lo conquistava e gli dava una sensazione
di vera grandezza. Così prese a fare come se “grande” lo fosse veramente.
Lei era appagata. Lui anche. E furono “coppia”. Una “o” vacillante, ma pur sempre una “o”. Poi ...?
Poi, con il tempo, lui divenne fisico, reale e tornò ad essere quella “c-piccola” che era sempre stato.
Lei si sentì tradita, umiliata e si difese chiudendosi nell’Io-Io. E nell’Io-Io la “c-piccola” si trasformò in
una “Grande-C” che in un momento di sconforto, di debolezza ... eccetera, eccetera, eccetera. E la
storia finisce qui.

Postscriptum: da vent’anni lavoro con ragazze affette da disturbi alimentari psicogeni. E - salvo qualche rara eccezione
- i loro compagni sembrano fatti tutti con lo stesso stampino: aria perennemente innamorata, protettiva, ma mancanti di
quella grinta, di quell’aggressività e di quell’energia che rende una “c” veramente grande! Ma se le osservazioni di
Moreno19 riguardanti il telé sono esatte, allora è vero che l’istinto di lei aveva individuato, senza possibilità d’errore, che
quel maschio non avrebbe intaccato le difese che il suo Sé aveva accuratamente costruito. E che quella femmina si
sarebbe presto rivelata il vero leader della coppia, di cui quel cucciolo aveva tanto bisogno.

La “bellezza” partorita dalla mente

La bellezza è la qualità capace di appagare l'animo attraverso i sensi, divenendo oggetto di


meritata e degna contemplazione.
Raramente l’anoressica o l’iperfagica si sentono “belle”. Anzi: sanno che il loro corpo è
inappagante, repellente. E lo sottopongono ad immani martiri: il corpo non si lava con dolcezza ma
si frega con forza, fino a che la pelle sputerà sangue, il corpo non deve essere ascoltato; lui è un
giocattolo della mente da sottoporre a continuo stress. Le anoressiche, poi, invidiano le rotondità, la
bellezza del Monte di Venere, le cosce affusolate, i seni prosperosi, l’armonia delle natiche messe
in mostra dalla maggioranza delle ragazze. Ma, per quel che riguarda la loro fisicità, il discorso
cambia: a loro basta essere “intelligenti”, “forti”, “onniscienti”, “belle di mente” o “belle di dentro”. Gli
uomini? Sono dei tu-che-abbandonano, quindi: “... o gli piaccio così o chi se ne frega!”

18
Vd. capitolo 1, “Le belle famiglie”.
19
Jacob L. Moreno (1892-1974) ha ipotizzato che le relazioni tra individui e tra individui e cose, fondano su un legame emotivo
elementare di simpatia ed antipatia (telé). Queste emozioni evolvono nel Sé in modo progressivo. Il telé stabilisce a distanza (a
prima vista), quindi ancor prima che la relazione prenda forma, quali interazioni saranno utili (simpatia), quali pericolose (antipatia)
per l’equilibrio del Sé.

40
Bellezza e mass-media (vedi anche scheda 7 a pag. 49)

Molti vedono negli “ideali femminili” propagati dai mass-media, l’elemento scatenante i Disturbi
Alimentari Nervosi: chiariamo subito che moda e ideali femminili stanno ad anoressia e bulimia
come i famosi “cavoli a merenda”. L’anoressia e la bulimia sono sempre esistite e - purtroppo -
sempre esisteranno. Il disturbo alimentare psicogeno è il frutto di una società sempre più orientata
verso il consumo, verso l’avere e sulla conseguente svogliatezza di molte donne di fare la mamma.
La mamma a tempo pieno. Sull’argomento relativo alla responsabilità dei mass-media relative al
dilagare di anoressia e bulimia ho pubblicato - tempo fa - un articolo sul quotidiano milanese “ Il
Giorno” che credo sia utile qui riprodurre per intero.

Sindrome di Barbie o disturbo alimentare nervoso?

Colui (o colei) che non è alla ricerca di conferme ed approvazioni, scagli la prima pietra! Il ’68 ci
ha lasciato in eredità - oltre che la rinascita del femminile - un brutale ritorno al materialismo. Un
materialismo che mette in secondo piano i cosiddetti “valori interiori” e premia l’apparenza.
Apparenza soprattutto. Apparenza come must. Se ciò che appare coincide con i “modelli che
vincono”, allora conferme ed approvazioni sono garantite.
Credo che con questo semplice teorema si possa capire l’espandersi di palestre, consultori di
dietetica, riviste specializzate, centri di bellezza, videocassette, ginnastiche varie e tutto quel po’
po’ di roba che si enuclea attorno all’apparire.
Non è quindi assurdo, né semplicistico, il dividere il mondo tra belli e brutti: ai primi un’ampia
possibilità di soddisfare le proprie ambizioni ed aspettative, ai secondi vita da “Cenerentola prima
della venuta del Principe”.
C’è forse da stupirsi se - specialmente nell’età della maggior competizione, ossia l’adolescenza -
il giovanotto e la giovanotta facciano di tutto per appartenere alla prima categoria?
Assolutamente no!
Anche se malcelati da un’obbligata nonchalance, sguardi indagatori scrutano l’universo dei
possibili rivali, pronti a coglierne il minimo difetto, sul quale costruire poi la propria potenza. E il
“difetto” è subito evidente, se ha a che fare con il fisico: gambe magre o grasse, sederi grossi o
flaccidi, girovita abbondante o tipo “Ape Maya”, seni ... meglio non parlarne.
Quella che vuole essere la più bella del reame ha perciò davanti a sé un’agenda molto
impegnativa: massaggi, diete, palestra, estetista, sauna, bagni turchi, cremine mezzogiorno-
mattina-sera e chi più ne ha, più ne metta. Che poi a fine giornata sia sfinita, al punto da preferire
di gran lunga i guanciali del proprio lettuccio alla discoteca, è un altro discorso (... resta sempre il
sabato sera!). Quando i contenuti esistenziali di ragazze o ragazzi girano attorno alla bellezza ed
alla prestanza fisica, allora possiamo essere certi che hanno contratto la “Sindrome di Barbie”
(rispettivamente di “Ken”).
Se la “sindrome” è particolarmente virulenta, allora per familiari, fidanzati e fidanzate inizia un
momento difficile: il Bello o la Bella non parlano altro che di centimetri, chili, calorie, belletti,
vestiti. Ed è tutto un controllare, pesare, toccare, paragonare. Comunque la “Sindrome di Barbie”
ha, solitamente, un decorso benigno: una volta “in forma”, le Barbie ed i Ken si accasano e -
emozionalmente appagati - rientrano nella vita normale dei “belli”.
Spesso però, purtroppo, il “controllo” si tramuta in “mania” e non è più l’individuo a controllare il
cibo e le esteriorità, ma è l’apparire che controlla il Sé. In modo particolare, il rapporto con gli
alimenti non dipende più dalla volontà, ma è come se fosse il cibo ad imporre un suo particolare
e pesante giogo alla giovane o al giovane. Quello che era un benevolo “controllo della forma
esteriore” diviene rito, compulsione, ossessione: la benigna “Sindrome di Barbie” si è trasformata
in anoressia o bulimia. Per il gruppo d’appartenenza le difficoltà a relazionarsi con l’ammalata

41
divengono un vero incubo. E’ lui, il cibo, che detta le leggi. Genitori e fidanzati assistono impotenti
alla disintegrazione fisica e psichica di coloro che amano. Il più delle volte, sperano che “... poi
passi”. Ma non è così! Una volta conclamato, il disturbo alimentare nervoso si radica nella
personalità e sconquassa tutte le relazioni: sia quelle che con il proprio Sé, che quelle con
l’ambiente circostante. Infatti, emozioni e sentimenti hanno un solo destinatario: LUI, il cibo-corpo.
Il resto non esiste. Poi il pudore, la vergogna (... nessuno deve sapere!). Ed il tempo passa. Il
male si ramifica: investe la vita sociale, quella sessuale e l’intelletto. Disperazione! Questa è la
storia di migliaia di ragazze e ragazzi malati. Malati di qualche cosa che non capiscono, né
riconoscono, ma che ... come in un delirio di onnipotenza, si ostinano a volere fronteggiare da
soli. Ma in questo dramma la “stampa” non c’entra. Sarebbe apparso anche senza le bellezze del
cinema o delle sfilate di moda. Il tarlo era da anni racchiuso nelle profondità del Sé e non
aspettava altro che presentarsi in tutta la sua virulenza.

La “femminilità” partorita dalla mente

Femminilità è - nel “cassetto della mente” delle ragazze di cui tratta questo libro - una cosa informe,
indefinita oppure un mito irraggiungibile, o meglio ancora da non raggiungere. Femminilità è
qualche cosa da nascondere. Non direi di “sporco”, ma con un “certo non so che di perturbante...”.
Femminilità è mamma: un essere da amare (o forse no?), da odiare (o forse no?), comunque
presente solo nella vita eterea del pensiero e non in quella reale del fisico. Mamma-fisica è donna.
Mamma-fisica è femmina. Mamma-fisica abbandona o comprime appunto in quanto fisica! No! a
mamma-fisica. No! alla femminilità.

Chiariamo cosa significa femminilità. Prima di tutto è il contrario di mascolinità. Maschio e femmina
sono stati creati dalla natura come esseri complementari. Poi - in una società che premia la potenza
sociale - i ruoli si sono confusi. Non sarebbe, a volte, affatto male se taluni signori assumessero il
ruolo di signore e ponessero al loro fianco signore-con-caratteri-maschili. Ma non è così. Tutti,
signore e signori, vogliono essere uomini. Chi a ragione, chi a torto. Ed è il caos.

42
Per i ricercatori dell’Università di Giessen (Germania) il Sé-femminile ha i seguenti contenuti
psicosociali:

• pedanteria • abilità nel maneggiare il denaro


• ordine • onestà
• stabilità (affettiva) • incapacità a distendersi
• zelanteria

Per gli analisti di “lingua szondiana”20 essere femmina significa:

• mollezza • intuitività
• desiderio di gratificazione • influenzabilità
• tendenza a fondersi nel Tu-di-riferimento • difficoltà ad affrontare da sola le
• sentimentalismo problematiche esistenziali
• solitudine • impossibilità di accettare la
• senso di castrazione separazione
• remissività • tendenza all’esibizione
• calore affettivo

Le scienze psicologiche evidenziano come l’essere femmina non sia (più) gratificante. Le femmine
degli psicologi assomigliano ad anime perse, lavoratrici, bisognose di eterno supporto. Per me non
è così. Io credo che la femminilità debba essere caratterizzata da simbologie vincenti. Donna è sì
calore, ma anche determinazione, è sì seduzione, ma anche pragmatismo; è essere remissiva, ma
è sapere anche - quando le circostanze lo impongono - mettersi al timone e fare andare avanti la
barca. Essere maschio (lo dico con una certa rabbia!) è meno. A noi manca l’intuito, il calore e quel
senso del pratico che è proprio del cervello femminile. Ma per le nostre fanciulle questa non è una
consolazione. Quando le guardo durante il primo colloquio sono tutto meno che femmine e ciò a
prescindere dal peso. Sono infagottate, informi. Tutte o quasi avvolgono le gambe in larghissimi
pantaloni, il “sopra” in maglioni di quattro misure superiori al necessario. Camminano alla John
Wayne.
La negazione della femminilità, della sessualità femminile è strettamente legata alla rinuncia alla
bellezza. Essere belle, femminili, implica l’essere attraenti. Attrarre è però legato alla gestione dell’
“attratto”. Pericolo. Difesa. La paura dell’abbandono si sveglia dal pisolino che schiacciava sotto
quei panni informi e invade la coscienza. No! all’essere attraenti. Conclusione? Meglio non essere
femminili. Meglio il “bozzolo”. Meglio sembrare un bruco.

20
Leopold Szondi, analista zurighese di origine ungherese. Ha fondato la corrente analitica chiamata “Analisi del
destino”. E’ l’autore di un noto test proiettivo (Szondi Test).

43
La sessualità partorita dalla mente

Abbiamo già fatto qualche accenno alla sessualità di anoressiche, bulimiche ed iperfagiche. Ma è
questo un tema importante che merita un capoverso a sé.

Forse il mio senso morale rifiuta questi discorsi:


eppure, in base alla mia esperienza
ed all’osservazione di me stesso e degli altri,
sono arrivato alla persuasione che la sessualità
è il centro di gravitazione attorno al quale ruota
non solo la vita intima dell’individuo, ma anche tutta la vita sociale.
(W. Reich)

E’ vero. La maggioranza degli atti che compiamo sono direttamente o indirettamente connessi al
bisogno sessuale. Ma io sono dell’avviso che la potenza orgastica, quindi la capacità
dell’organismo di liberarsi dalle tensioni legate all’armatura caratteriale (vd. blocchi muscolari), non
transiti solo dalla libertà nei confronti di principi religiosi ergo etico-morali.
Affinché uomo e donna possano appagare a pieno il loro bisogno sessuale e raggiungere la
distensione nell’organismicità 21, dovranno dapprima soddisfare i loro bisogni di sicurezza
(appartenenza), di conferma (trasparenza, accettazione del proprio e dell’altrui Sé), di sensorialità
e di nutrizione22. Solo dopo avere assolto queste premesse, la coppia raggiungerà l’armonia duale
necessaria ad una totale intesa sessuale.

Ahinoi! Quanto è lontana la realtà delle nostre pazienti dal concetto di relazione armoniosa. Loro
appartengono alla mente; disatteso è il bisogno di conferma (non accettano la realtà fisica dei loro
bisogni sociali e narcisistici; figuriamoci le esigenze del TU); nutrizione? no comment!
Sensorialità? (“...il mio corpo mi fa schifo, toccarlo, sentirlo dà sensazioni di raccapriccio”). Povera
sessualità! Nella anoressica il bisogno sessuale scompare o è vissuto come “separato dal resto del
Sé” (masturbazione compulsiva). Nella bulimica le cose non si presentano molto diverse: ansia di
penetrazione, disaffezione alla propria femminilità, alterazione del sentimento (che è indirizzato al Tu
idealizzato, non reale).
L’amplesso è ridotto ad un esercizio ginnico o - nel migliore dei casi - ad un rapporto Io-Io nel quale
il Tu fa da sfondo! La regola è l’anorgasmia.
Questa è la sessualità che il governo-della-mente vuole. Quella stessa mente che nel carattere
organismico produce immagini erotiche, sensuali, quelle fantasticherie senza le quali l’atto sessuale
diverrebbe insipido, qui propone un modello d’amore difensivo, una sessualità amorfa, bloccata.
Quanto è lontana l’armonia duale.

21
Organismicità: essere organismici. Il Sé segue il primato del corpo, ne ascolta le esigenze e traduce le tensioni in movimento che
tengano conto dei principi dettati dalla bioeconomia in primis e della socioeconomia in secundis. Organismicità: sinonimo di
perfezione equivalente della genitalità freudiana (vedi anche scheda 8 a pag. 50).
22
Nutrizione: sia nel senso compiuto della parola, sia nel senso esteso (nutrizione dello spirito, armonia nelle scelte culturali ed
esistenziali. Nutrizione attraverso la parola. Vd. anche conferma).
44
Il “progetto esistenziale” partorito dalla mente

Progettare significa entrare nel domani. Domani è astratto. Domani è un foglio bianco sul quale
scrivere ogni tipo di storia. Domani è - nella “mente-che-si-pensa-pensante” - simbolo di
ambivalenza.
Come per ogni homo nevroticus normalis, anche per bulimiche, anoressiche ed iperfagiche il
domani è anzitutto una cosa sfocata. Forse una semplice continuazione dell’oggi (... che bello:
mangio o non mangio o mi abbuffo e vomito o mi abbuffo e basta!) Forse un fulmine esploderà nel
ciel’sereno e guarirà la malattia. Poi ...il domani si deposita sulla realtà ed è oggi.
Oggi è pensare. Pensieri di cibo, poi - in subordine - di camminate, di palestre, di chilometri, di
cavalli, di balletto, di studio, di lauree, di viaggi, di lavoro. Allori per il “cassetto della mente”! La
mente lavora per la mente. La mente mangia il tempo, si abbuffa di ore, di minuti, di secondi. Si
gingilla con la vita. Il corpo, i sentimenti, gli affetti sono esclusi dal gioco, dal progetto dell’esistenza.
L’essenza di questo vivere è “saturnina”:

“Saturno è un antico dio detronizzato, un lontano pianeta che regge ancora i destini di molti fra noi, gettando una luce
tenebrosa e paradossale sulle nostre vite.
Saturno era stato l’architetto del mondo: aveva inventato un tempo l’agricoltura: aveva regnato sulla Terra nell’Età
dell’Oro - quell’età senza leggi, senza giudici, senza timori, senza scritti incisi sul bronzo, quando non c’erano le navi e
i commerci, fossati intorno alle città, le trombe e i corni di guerra, le spade e i soldati, e una primavera eterna
accarezzava con i suoi tiepidi venti i fiori nati senza semenza.
Ma quest’eterno dio dell’utopia era stato anche un dio “odioso, superbo, empio, crudele”: un divoratore di figli e di dei;
Giove l’aveva detronizzato, esiliandolo forse alle gelide estremità della terra e del mare, forse nel Tartaro o sotto il
Tartaro, dove viveva in catene, come uno schiavo. (...) Saturno era il pianeta più alto, quindi conservava l’eccellenza e la
sovranità nel sistema solare. Ma era anche nero e sinistro, ostile alla Terra e agli uomini. Freddo, bianco e ventoso,
lontano, lento ed enigmatico, mandava sulla Terra una luce debolissima e fioca, suscitava il ghiaccio e la neve, i fulmini
e il tuono. (...) con il suo sguardo delicatissimo ai rapporti cosmici, l’astrologo antico rintracciava l’influsso del lontano e
ghiacciato pianeta-dio nella milza, dove si raccoglievano gli umori della “bile nera”, la tenebrosa melanconia. (Ora) la vita
si è arrestata.
Il cielo soffoca come la pietra di un sepolcro. Tutto diventa irreale.
(Ma) l’altro polo della malinconia ha l’ardore e i colori del fuoco. Quando la bile nera è calda, il saturnino diventa vivace e
brillante. La salute sembra tornare. Si tratta soltanto di una euforia opposta e identica alla fase di abbattimento. (...)
questa alternanza sembra non avere mai fine. (...) Da un lato egli ha la sensazione che tutti i suoi sentimenti siano
fittizi: non sono vere la noia o la felicità, la luce o la tenebra che lo percorrono, ma soltanto quest’alternante
ondulazione, quest’incessante su e giù che assume forme psicologiche provvisorie e casuali.” (Pietro Citati, “ La luce
della notte”, Ed. Mondadori 1996)

Questo ciclo melanconiaéeuforiaémelanconia che caratterizza il Disturbo Alimentare Psicogeno,


impossibilita scelte durature, pianificazione reale. La mente lavora per conto proprio: avida di
effimero potere, paurosa d’essere.

Su, nel regno della mente ...

...ogni forma è sfuggente, eterea. Quello che oggi è buono, domani è marcio ... a seconda
dell’umore. L’umore non è prodotto dal confronto con il mondo reale, quindi dall’esperienza, ma è la
sintesi di giochi elettrici, di sinapsi che collegano e scollegano immagini come vuole il copione del
non-essere: freddezza e meccanicismi come all’interno di un elaboratore elettronico. Come l’uomo
di creta al quale è stato negato il soffio d’amore che genera la vita.
Remoto il luogo delle passioni, quello del naturale, quello della materia, del sangue che fluisce nel
basso ventre ed irrora i genitali, del respiro che - nell’eccitazione - diventa affannoso, delle pupille
che si dilatano, del capezzolo che si fa turgido. Quello che precorre la gioia che conduce alla
maternità, frutto del desiderio di unione. Remoto. Trattenuto.

45
Su, nel regno della mente, ... è contenere. E’ assenza che appare come timidezza: quella timidezza
di chi non conosce la vita, che si oppone al fondersi delle energie, che cancella la vitalità.

Su, nel regno della mente, ... è sogno. Sogno di incontri mai fatti, di passioni platoniche, di incontri
mai avvenuti.

Su nel regno della mente,... infine è anche dolore, vomito, calorie, peso, lassativi, nascondere: fare
come se tutto fosse okay. E’ fingere: fingere l’orgasmo, fingere l’appetito, fingere la passione. E’
fredda felicità, è disperazione nascosta dietro panni informi!

46
Scheda 6

Ma Santa Veronica Giuliani era anoressica?

Un articolo apparso su “La Voce” del 6 giugno 1997 a firma Fausto Santeusanio, mi dà modo di affrontare taluni luoghi
comuni, nonché di “entrare dentro” quei sentimenti di onniscienza, di quasi santità, che caratterizzano il quadro clinico
di anoressiche e bulimiche. Mi perdoni l’autore di questo interessante “pezzo” se, in questa occasione, dialogherò con
lui senza offrirgli l’opportunità di risposta.

“Vi è un aspetto che caratterizza la personalità di Veronica Giuliani: il suo rapporto con il cibo. Il comportamento, sotto questo
aspetto, in qualche modo è simile a quello di altre sante soprattutto del Medioevo, caratterizzato da digiuno protratto ed intenso.
Bell, uno psicologo di Chicago, ha studiato a fondo questa peculiarità delle Sante del passato, trovando in esse descrizioni molto
simili ai moderni malati di anoressia nervosa, e chiamandola per analogia "Santa anoressia". La magrezza significava assenza di
desideri ed estrema privazione. Le sante anoressiche, con la ricerca di purezza morale e fisica, potevano raggiungere un rapporto
più diretto con Dio.”

Ben dice, il Bell: la tipologia “S” tenta di sublimare le proprie angosce di contatto, spostando il suo interesse dal
concreto all’astratto. Non è raro che le (e gli) esponenti di questa caratterologia incorrano - nel corso della propria
esistenza - in vere e proprie “crisi mistiche” che, se debitamente rinforzate da un ambiente intriso di religiosità come
quello Medioevale, possono produrre i “segni” della “santità”, quali stigmate (forma di conversione di tipo isterico),
visioni (allucinazioni), ma anche produrre fenomeni paranormali che ben si collegano con il nostro concetto di
bionenergia. La bioenergia, liberata dai blocchi muscolari, fuoriesce dall’organismo e può lenire o addirittura guarire
disturbi a carattere psicosomatico. In altri testi l’ho anche chiamata “energia dell’amore”. Devo fare inoltre notare che -
ai tempi d’oggi - la pretesa di “santità” si trasferisce sulle performance di tipo lavorativo, sportivo o scolastico.
Partoriamo “mostri d’efficienza”. Nulla di cambiato: società che vai, aberrazioni che trovi!

47
Scheda 6

“Bell ha esaminato sotto questo profilo anche la figura di Veronica Giuliani. A 17 anni Veronica entrò nel monastero delle
cappuccine a Città di Castello. Questo periodo fu pieno di tormenti e di ansie. In monastero si sentiva "sconvolta", "incarcerata",
non sapeva come calmare i suoi impulsi carnali”.

Gli impulsi carnali sono propri dell’istinto di sopravvivenza, quindi di un Sé armonioso. La volontà di reprimerli è - al di là
di ogni ragionevole dubbio - sintomatica di un elevato stato nevrotico.

“Era in conflitto con l’Abbadessa e le altre novizie. Cominciò a digiunare. In effetti questa esperienza di digiuno fu per Veronica
non un fatto mirabile da essere imitato, ma piuttosto una sofferenza che si trasformò in occasione di crescita spirituale attraverso
volontà e fortezza, accettando le punizioni di chi le stava intorno e cercava di spezzare la sua volontà. Infatti Veronica vinse,
almeno interiormente, perché superò questo comportamento anoressico e fu in grado di affrontare in modo più normale le pratiche
del digiuno del suo severo ordine”.

Se non credessi nell’assoluta onestà intellettuale dell’autore, direi che le affermazioni sopra esposte sono, a dir poco,
mistificanti e non vogliono tenere conto della patologia di Veronica. Il conflitto che vede opposta Veronica alla Madre
Badessa ed alle sue conviviali è comune a tutte le anoressiche. E’ la stessa conflittualità che si instaura nei confronti
delle proprie genitrici e degli altri membri della famiglia se - in un modo o nell’altro - si oppongono ai loro rituali
maniacali. Inoltre la “guarigione” di Veronica (se di guarigione si può parlare, ma io la definirei una remissione del
sintomo, quindi un fenomeno solo esteriore e non interiore!) è stata certamente frutto più della rieducazione coercitiva
praticata nel convento, che non di una sua personale crescita con la conseguente vittoria sulla malattia. Infine non deve
essere stato difficile, per questa “santa anoressica”, far proprie le severe pratiche del digiuno imposte dal suo ordine.

“Ed in questo Veronica può essere portata ad esempio alle anoressiche moderne, dimostrando che con grande volontà è possibile
guarire.”

Caro Collega: Lei deve sapere che di anoressia, da soli, raramente si guarisce. Anzi l’autorevole American Psychiatric
Association indica un tasso di mortalità pari al 15-20% delle ammalate. Personalmente credo che la più importante
prova di volontà - per queste ammalate - consista nel rinunciare al proprio sentimento di onnipotenza e (analogamente
a Veronica) sottoporsi allo stress della rieducazione.

“Dopo aver superato la sua anoressia Veronica metteva in guardia le giovani novizie dal ricercare segni estremi della grazia
soprannaturale. Insomma Veronica aveva capito che la strada di Sante eroiche poteva portare una giovane sprovveduta ad
esercitare la propria volontà in modo fuorviante ed autodistruttivo; era molto meglio accettare le regole collaudate e lasciare che la
volontà di Dio si compisse nel modo più opportuno.”

Qui Santa Veronica si comporta molto umanamente: sono molte le ragazze (o i ragazzi) che dopo avere superato le
proprie problematiche alimentari, scelgono di aiutare coloro che sono ancora nel tunnel della malattia.

“La Santa anoressia può essere accostata alla anoressia nervosa del nostro tempo? Non vi è dubbio che molti elementi della
anoressia di Veronica Giuliani, sotto il profilo dei segni fisici e del comportamento, sono simili a quelli della anoressia nervosa.
Alcuni elementi rimangono simili, anche se le motivazioni sono del tutto differenti. Entrambe le condizioni sono caratterizzate dal
rifiuto del cibo, ma l’una è causata dal desiderio di essere santa e l'altra dal desiderio di perdere peso; vi è un desiderio di
immagine estremamente esile del corpo in un caso, desiderio di immagine di estrema santità nell'altro.”

No, no, no! Le motivazioni sono identiche. L’anoressica comune e la santa anoressica fuggono il contatto. Ognuna -
nella sua onniscienza - con modalità diverse. Con una diversa socializzazione della loro nevrosi. Lei sa, Collega, che
presso talune tribù di primitivi moderni anche l’epilessia è considerata segno di santità?

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Scheda 7

Galleria XX Secolo

Bellezza anni Venti Bellezza anni Trenta

Bellezza anni Sessanta Bellezza anni Novanta

49
Scheda 8

L’Uomo a Cassetti

Ecco l’ “Uomo a Cassetti”! E’ - questi - un essere che vive sopra alla realtà. Poiché le sue
realtà sono scisse: il suo pensiero è sconnesso dalla sua persona e così non è mai se
stesso, ma solo un buffo clown che cerca di compiacere quegli spettatore che - come lui -
disdegnano l’essere e preferiscono apparire; i suoi sentimenti sono scollati dalle emozioni.
Caldi o freddi che siano divengono qualche cosa di cui vergognarsi e vanno quindi ben
celati. Lo stesso vale per le emozioni.
Il sesso? serve a “fottere”, poiché l’ “uomo a cassetti” non conosce l’amore, ovvero quel
sentimento che coinvolge tutto il Sé, dal pensiero alle “radici”: quella sensazione che -
nell’atto d’amore - fa di due esseri un unicum in armonia. Ha amputato le radici che lo
ancorano alla realtà: realtà è essere; lui è apparire.
Ogni “cassetto” vive un’esistenza a sé,
incurante del Vivente che esige lo scorrere fluido dell’energia.
Ogni “cassetto” è imbrigliato in potenti blocchi muscolari,
come in una morsa di gelo. E si necrotizza.
L’ “Uomo a cassetti”, chi è?
Non chiederlo, guardati allo specchio e ne vedrai un perfetto esemplare!

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Cap. 3. Un’occhiata dentro il male

Alexia - 16 anni, anoressica: una “brava” bambina


La notte

Mi chiamo Alexia, ho 16 anni. Da 2 anni sono anoressica.


Non capisco come possa essere accaduto, come possa essermi ammalata.
Forse non mi piaceva il mio aspetto fisico, ma penso che la causa sia da ricercare altrove. A dire il vero, adesso
neanche mi interessa. La mia vita è un inferno, pero’ - lo so che è assurdo - mi piace.
Non ho la minima idea di quello che significa poter vivere “normalmente”. Il solo pensiero mi spaventa terribilmente.
Sono iscritta al terzo anno di Liceo Scientifico e continuo a studiare come un’ossessa.
Non peso neanche 32 Kg., a stento mi reggo in piedi: non mangio nulla! Il cibo per me è come un veleno, qualcosa di
schifoso. Ho una paura folle di quello che potrebbe farmi il cibo....di sicuro mi farebbe ingrassare! Io sto bene così.
Quando mi guardo allo specchio mi dico: ”Beh, forse sei ancora un poco cicciottella, magari riesci a dimagrire ancora
un pochino....”.
Mi peso una volta alla settimana e, il giorno prima, cerco di mangiare pochissimo, sperando che l’ indomani la bilancia
segni almeno 100 grammi in meno rispetto alla settimana precedente. In genere, così facendo, perdo in media più di un
chilo ogni sette giorni.
Cosa mangio? Cosa NON mangio? Mangio pochissimo, praticamente nulla.
A colazione uno yogurt, a pranzo, dopo una giornata faticosissima trascorsa sui libri, un pacchetto di cracker, e a
cena? L’ora di cena è terribile perché sono costretta a mangiare con i miei genitori.
Mia madre cucina sempre qualcosa di gustoso, pregandomi: “Dai, Alexia, mangia! Ho cucinato tante cose buone per
te!”. Ed io: “No, non le mangio, piuttosto preparami delle verdure bollite!”.
Più della metà le lascio di proposito nel piatto, e, sadicamente, mi ritengo soddisfatta quando mia madre, notandolo,
mi dice: ”Ma come? Non hai mangiato nulla!”.
Durante il giorno faccio tantissime cose: pratico dello sport, frequento un corso di danza che mi impegna parecchie ore
la settimana, così anche quel poco cibo che riesco ad ingerire so dove va a finire!
Mi muovo in continuazione. E’ qualcosa più forte di me e, quando lo faccio, non me ne rendo neanche conto. Non
riesco a farne a meno. Non posso stare ferma un minuto. Spesso mi mancano le forze, e, nonostante questo, non
riesco a fermarmi.
Questa non è una “vita”, ma non capisco cosa potrei fare altrimenti. E’ ormai diventato impossibile pensare di mangiare
tranquillamente anche solo un pezzettino di pane e quando raramente, ma con fatica, ci riesco, mi vengono degli
enormi sensi di colpa e non tocco più cibo per un giorno intero!
Mi sento terribilmente in difetto per quello che sto facendo ai miei genitori: soffrono, sono disperati, tra di loro discutono
in continuazione, litigano, urlano e mi chiedono: ” Alexia, che cosa c’è? Che cosa succede?”. Io non capisco cosa mi
stia accadendo, non so cosa fare!
Le loro domande si fanno sempre più insistenti. Io cerco di rassicurarli, rispondendo che mi sento bene, che non c’è
nulla di cui preoccuparsi, ma capisco perfettamente che non è vero.
Io vorrei stare bene, guarire, ma da sola non ce la faccio!
Alla fine, disperati, papà e mamma mi costringono ad andare alla clinica San Raffaele di Milano, dove vengo seguita per
mezz’ora alla settimana da una psicologa che mi dice solamente: “Allora, tu devi mangiare due panini, la pasta, la
carne, devi fare le merende, bla, bla, bla......”.
Quando esco dalla seduta, mi ritrovo punto e a capo. Non è cambiato assolutamente nulla perché, in ogni caso, faccio
ancora di testa mia, con in più la soddisfazione di non seguire i consigli spassionati di quella lì che mi dice di fare
questo e quest’altro!
Non capisco che cosa si aspettino tutti da me! Alle volte i miei amici mi chiedono: ” Come stai?”. Mi dà molto fastidio,
ma... come cavolo faccio a dire loro che mi sento bene quando si vede lontano un miglio che sto’ malissimo?
Allo stesso tempo ho paura di confidarmi, di far capire loro che mi sento male, che sono malata, perché ho timore della
loro reazione: avranno paura, cercheranno di evitarmi, si allontaneranno da me!
Alle 13.00 esco da scuola e passeggio, da sola: un paio d’ore per evitare di tornare a casa per il pranzo.
Ore 15.00. Rientro. Mia madre mi chiede se ho pranzato ed io, pronta, le rispondo: “Si, certamente!” e le mostro gli
scontrini fiscali dei bar e dei caffè nei quali sono entrata per consumare una tazzina di the e nient’altro. A lei racconto,
ovviamente, che ho mangiato un panino con la mozzarella ed altro ancora.

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Alexia

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Io sono sempre stata una brava bambina, sono figlia unica e dai miei genitori ho sempre avuto tutto ciò che volevo e,
probabilmente, ho approfittato di questa condizione privilegiata! Sono sempre la loro bimba: protetta, coccolata e
vezzeggiata.
Alla mattina mi sveglio presto, alle 6.30.
Impiego parecchio tempo per uscire dal letto perché ho molto freddo, nonostante dorma con un pigiama molto pesante,
il piumone e lo scaldaletto. Entro in bagno, mi spoglio e mi lavo. Mi guardo allo specchio e non so neanch’io
esattamente quello che vedo. L’immagine riflessa è quella di un’altra persona, non è Alexia. Mi trucco pochissimo con
un fondotinta molto chiaro per non dare l’impressione di essere troppo sana, poi incomincio a saltellare per la stanza
con la scusa di scaldarmi un po’. Nel mio bagno c’è anche una stufetta elettrica, ma me ne guardo bene
dall’accenderla: anzi, apro anche la finestra e faccio entrare dell’aria fresca, con la speranza di consumare ancora
qualche caloria!
Arriva l’ora della colazione: mangio a fatica lo yogurt. Non mi piace molto, è acido, ma lo zucchero non lo metto
neanche morta!
Tutte le volte che mangio faccio il calcolo delle calorie. Perfino quando mastico la gomma!
Vado a piedi fino alla fermata dell’autobus. Poi immancabilmente opto per camminare fino a scuola.
Vi rimango per tutta la mattina e approfitto degli intervalli tra una lezione e l’altra per correre avanti e indietro per i
corridoi o per uscire un attimo a prendere una boccata di aria gelida.
Le giornate di sei ore sono un calvario e, quando mi sento allo stremo delle forze, quando proprio non ce la faccio più,
chiedo a mia madre di venire a prendermi.
Nel pomeriggio, a casa, spesso mi vengono delle crisi, mi metto a piangere disperatamente, urlo: mi sembra di
impazzire!
Cerco di studiare ma non capisco neppure quello che leggo. Non riesco a concentrarmi, non rendo nulla. Non posso e
non riesco ad andare avanti così! Alla fine del primo quadrimestre avevo una pagella fantastica, con voti altissimi: ero tra
le studentesse migliori della sezione.
Purtroppo adesso non ci sono più con la testa, non ragiono, non riesco a concentrarmi.
Non so quanto riuscirò ad andare avanti in questo modo. Il solo pensiero mi spaventa terribilmente, ma non voglio
lasciarmi morire cosi!
A volte cerco di uscire di casa, voglio distrarmi, cerco qualsiasi scusa per farmi accompagnare da mia madre a fare una
passeggiata e lei, naturalmente, non mi dice mai di no!
La sera è sempre la stessa domanda: ”Cosa prepariamo per cena?”
Rispondo di non preoccuparsi, che ci penserò, che mangerò qualcosa più tardi. Si arrabbiano, piangono e discutono tra
di loro credendo che io non li senta. Io però sto attenta a tutto quello che dicono! Ho la sensazione che stiano
complottando alle mie spalle.
Poi un po’ di verdure lesse o un pizzico di ricotta. Sono stanchissima, non mi reggo più in piedi, ma come impazzita
corro su e giù dalle scale. Porto avanti e indietro cose assurde. Lavo i piatti. Anche così qualche caloria se ne va.
Cerco di sdraiarmi: ogni secondo mi alzo per prendere o fare qualsiasi cosa mi venga in mente. Non riesco
assolutamente a stare ferma!
Verso le 23.00 vado a letto e cerco di dormire. La mia mente è affollata da mille pensieri.
Mi guardo, mi tocco e provo una piacevole sensazione :” Finalmente sono magra!” penso.
Io non ho mai apprezzato i complimenti. Odiavo chi mi diceva: ”Guarda che bel sedere che hai, che bel seno!
Finalmente stai diventando una signorina!”. Odio il mio sedere, il mio seno. E le cosce? Sono così grosse!
Non riesco neppure ad immaginarmi di avere un corpo da adulta. Così come sono ora tutti mi guardano, sono al centro
dell’attenzione. Se fossi normale passerei inosservata, in secondo piano e nessuno più si accorgerebbe di me.
Sarei una ragazza come tante altre. Più nulla di particolare, da guardare con curiosità!

Oggi

Il mondo oggi è diverso, più reale, più “vero”. Anche bello.


Ogni giorno scopro cose che in passato mi sono negata e di cui voglio riappropriarmi il più presto possibile: voglio
instaurare un bel rapporto con i miei genitori, avere degli amici veri, leali, ho voglia persino di trovarmi un ragazzo!
Voglio gioire di ogni momento che vivo, attimo per attimo, intensamente.
Quando mi guardo allo specchio vedo una Alexia che non avevo mai visto prima d’ora.
Finalmente mi voglio bene e mi piaccio moltissimo. Vivere così è tutt’altra cosa!
Sono aumentata di 15 Kg. in pochi mesi e, lo ammetto, mi è costata molta fatica.
Non è stato facile: ma ora, finalmente, sento il mio corpo.
Il contatto, anche fisico, mi dà sensazioni gradevoli. Prima avevo una paura terribile ad essere toccata e toccare gli altri.
Ora ho scoperto che è molto bello. Mi piace stare in compagnia, parlare ed ascoltare gli amici.
Il mio rapporto con il cibo è cambiato: non mi spaventa più. Ho capito che non è quel veleno che tanto temevo, anzi ....
adesso cucino da sola! Il cibo, l’ho capito, è come la benzina che permette il funzionamento dell’automobile.

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Senza carburante, la macchina non si muove!
Il rapporto con i miei genitori è cambiato: è onesto, trasparente, adulto, alla pari.
Sono meno bambina e meno viziata: riesco a ricevere molto e cerco di dare.
Mamma e papà hanno imparato a dirmi “ NO! “ al momento giusto, cosa impensabile fino a qualche mese fa quando
ricevevo carezze anche se mi meritavo sberle!
Mi sento libera e, per assurdo, leggera, sollevata da tutti quei pensieri paranoici che hanno rovinato parte della mia vita.
Ho riscoperto il piacere di stare con le persone o di ritirarmi nel dolce far niente!
Il mondo che mi circonda è tutto da scoprire, in continuazione. Nulla è scontato.
Ho voglia di fare nuove esperienze. Voglio crescere.
Non ho paura. Mi sento più adulta, più matura. Sono forte. Non credo che gli ostacoli che incontrerò in futuro possano
arrestare il mio percorso, il mio progetto di vita.
Il mio corpo è finalmente vivo: mi trasmette delle sensazioni piacevolissime.
Una carezza data in un certo modo può procurarmi dei brividi, la pelle d’oca o sensazioni di caldo e di freddo.
Mi piace coccolarmi, avere cura del mio corpo. Mi voglio un sacco di bene!
Riesco a superare molte difficoltà con le mie forze ma, se ho un grave problema o una grande preoccupazione, chiedo
aiuto. Non mi sento più sola!
Nel mio futuro c’è vita vera, da persona normale. Poter tornare a scuola, uscire con gli amici... mi sembra un sogno!

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Feliciana - 17 anni, anoressica: una ragazza del sud...
Quotidianità

Mi chiamo Feliciana, ho 17 anni. Vivo con i miei genitori. Ho un fratello di 9 anni ed una sorella di 15. Frequento il terzo
anno di Liceo Socio-Psicopedagogico.
Soffro di disturbi alimentari da circa un anno: sono anoressica.
Ogni volta che mi siedo a tavola è un incubo: i miei genitori mi osservano con attenzione. Sono molto preoccupati; ogni
loro sguardo sembra volermi dire: “Mangia, ti prego, mangia....”. Io non capisco neppure se ho fame.
Dietro al rifiuto del cibo si nasconde altro: le mie ansie, le mie paure, la sensazione di essere oppressa, non capita.
Mia madre mi ha sempre costretta a mangiare bene ed abbondantemente: per lei mangiare significa stare bene.
Sono alta 167 cm. e, prima di ammalarmi, pesavo 63 Kg. Ero un troppo robusta. Decisi di seguire una dieta
dimagrante. Giorno dopo giorno riuscivo a perdere peso; salivo sulla bilancia ed ero contentissima quando segnava
anche solo 100 gr. in meno. Poi i pensieri legati al cibo, al mangiare, alla dieta sono diventati una vera e propria
ossessione: mattino colazione, a pranzo mangio pochissimo e a cena non tocco nulla! Ho paura di mangiare, ho paura
di ingrassare. Ho perso completamente il controllo della situazione!
Mi guardo allo specchio: sono troppo magra, non mi piaccio e, nonostante questo, non riesco a dire basta! Come un
drogato.
Eppure ogni giorno mi ripeto: “Da oggi mangio un po’ di più!”. Ma non ce la faccio. Penso di rimandare a più tardi, a
pranzo o a cena, a domani...
E’ diventata una sfida. Voglio staccarmi completamente dal cibo, da tutto quello che esso rappresenta; allo stesso
tempo mi metto alla prova per vedere fino a che punto posso arrivare. Voglio capire per quanto tempo posso resistere
alla tentazione di mangiare e se con la volontà riesco a dominare la sensazione di fame.
La situazione familiare è complessa. Io non mangio. Mio padre ha problemi sul lavoro. Il comportamento di mia madre è
molto cambiato: credo che sia sull’orlo di un esaurimento.
Mi martella: “Dai Feliciana, mangia! Non darci altri problemi. Non complicare una situazione già difficile!”.
Quando mi siedo a tavola il cibo è argomento di continua discussione: E’ causa di lite tra me e i miei genitori. Cibo, non
si parla d’altro. Da qualsiasi parte inizi una discussione si finisce sempre sul cibo, sul mio problema con il mangiare.
Io sono sempre molto nervosa. Sto male. Non vorrei più sentire la parola “CIBO”!
Non voglio parlarne e tanto meno vederlo! Il rapporto con i miei genitori è sempre più difficile: mia madre mi assilla, mi
controlla. E’ una presenza costante, ossessiva.
Mio padre è poco presente. Lui lavora. Il suo carattere è chiuso: mai manifesta i suoi sentimenti. Anche se non parla, lo
sento molto preoccupato.
Lo sento discutere con mia madre. E’ alla ricerca di spiegazioni, non capisce cosa stia accadendo: si sente impotente.
Non capisce perché io voglia distruggermi.
Mio fratello è piccolo, ha 9 anni; credo che la mia malattia lo abbia fatto maturare in fretta.
Mia sorella è sempre stata la “pecora nera” della famiglia. E’ irrequieta e dispettosa, ma da quando sono anoressica è
cambiata moltissimo.
Probabilmente molte delle responsabilità che in passato mi venivano accollate, si sono trasferite su di lei.
I miei rapporti di amicizia e quelli con i compagni di scuola sono molto superficiali.
Esco con loro solamente per non sentirmi sola, per evadere dall’ambiente domestico, dalle ansie, dalle paure e dalle
angosce.
Spesso si preoccupano; mi chiedono che cosa succede, mi fanno notare ogni mio piccolo cambiamento fisico, ogni
sbalzo di umore. Con loro non riesco a parlare: la parola “anoressia” non viene mai menzionata!
Credo che, anche loro, abbiano paura di guardare in faccia la realtà. Quella realtà che dice: Feliciana, sei molto
ammalata!
Usciamo a pranzo o a cena. Cercano di aiutarmi, di spingermi a mangiare un po’ di più. Mi danno dei buoni consigli. Ma
a me non interessano. Non ce la faccio! E’ più forte di me!
Le giornate sono tutte uguali. Mi alzo la mattina ed il primo pensiero vola alla colazione.
DEVO mangiare perché i miei genitori mi obbligano a farlo. Un vero supplizio!
Questo è il momento in cui riesco a mangiare un po’ di più.
Esco da casa e vado a scuola: non riesco a concentrarmi, tutti i miei pensieri sono già al pranzo.
“Oddio”, penso, “fra poco devo mangiare di nuovo!”. Il pensiero si inchioda lì.
Pomeriggio: cerco di studiare ma, con le liti e le discussioni che accompagnano il pranzo mi riesce difficile.
Nervosismo!
Trascorro il tempo pensando a come ingannare i miei genitori: tra poco è l’ora di cena.
Architetto le cose per benino, fino nei minimi particolare, dirò: “... ho già mangiato un toast” - e poi via di corsa fuori di
casa.

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Feliciana

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Vado in cucina e lascio il tostapane in bella vista; spargo le briciole di pane, nascondo due fette di pancarrè, del
prosciutto e del formaggio. Tutto bene. Ci sono cascati.
Oppure racconto bugie: “Esco a cena con degli amici, non preoccupatevi!”. Vero è che incontro gli amici, ma di cenare
neanche se ne parla!
Rientro a casa. Vado a dormire: il pensiero è rivolto a domani: colazione, pranzo che dovrò per forza affrontare, poi
come evitare la cena.
Mettendomi di impegno, so che potrei mangiare un po’ di più, ma c’è qualcosa dentro di me che proprio mi impedisce
di farlo!
Il cibo? E’ veleno e tentazione.
Ci sono giorni in cui non posso neppure vederlo, in altri mi lascio tentare e cerco di mettermi sopra di lui, di controllarlo.
Nel frattempo perdo peso rapidamente. Se ho la sensazione di aver mangiato troppo, il giorno dopo mi impongo una
dieta ferrea perché mi sento tremendamente e terribilmente in colpa. Ho il terrore di pesarmi: prima di salire sulla
bilancia spero sempre di non essere ingrassata malgrado non mangi quasi nulla!
La bilancia non mente: perdo peso costantemente, 100 - 200 - 300 grammi al giorno e anche oltre! Sono contenta,
sono dimagrita! Continuando così posso scendere ancora di più.
Mi sento molto forte e, sembra strano ma più dimagrisco e più le mie forze aumentano.
Mi sento in grado di fare di tutto. Mi piace andare in bicicletta, praticare dello sport, ma i miei genitori, preoccupati,
cercano di impedirmelo: hanno paura che il mio fisico non me lo permetta, hanno il terrore che mi senta male.
Loro mi vorrebbero tranquilla in casa e che non faccia nulla che comporti un particolare dispendio di energie.
Quando mi guardo allo specchio alle volte mi faccio un po’ impressione: ho il viso scavato, le ossa dello sterno in
evidenza.
Non mi piace in modo particolare la parte superiore del mio corpo, mentre, per assurdo, le gambe e le cosce sono
enormi!
Ciò nonostante capisco che non posso andare avanti così. La mia vita non ha più senso! E’ solo cibo.
Non esiste un futuro!

Oggi

Mi sento un’altra persona e capisco ora quanto erano vuote la mie giornate. Assaporo i piaceri della vita: mi danno
soddisfazione le più piccole cose. Apprezzo anche quello che, dall’esterno può sembrare banale: uscire in compagnia,
parlare con qualcuno al telefono!
Mi piace discutere, condividere sentimenti ed emozioni. E’ cambiato il mio modo di vedere: esiste un mondo là fuori che
è tutto da scoprire! Un mondo che non è solo fatto solo di cibo, ma di tenerezza, di affetti.
Mi piace il contatto fisico con le persone che sento vicine, amo accarezzarle, toccarle.
E’ cambiato il rapporto con il mio ragazzo: prima non gli davo nulla, quasi mi infastidivano le sue coccole e le sue
attenzioni. Adesso lo abbraccio forte e mi stringo a lui. Provo sensazioni nuove, diverse.
Mi piace il mio corpo. Un corpo che ora invia importanti messaggi. Capisco quando ho fame ed il rapporto con il cibo è
“normale”: non ci penso più di quel tanto! Mi siedo a tavola e mangio tranquillamente, di tutto. Non mi interessa quanto
e cosa mangio. Non mi preoccupo delle calorie. Mangio fin che sono sazia.
Sono meno chiusa e nervosa, più espansiva, dolce e femminile. Ho scoperto dei lati del mio carattere che prima
neppure conoscevo.
Ho sempre portato una maschera: quella dell’intoccabile, dell’inscalfibile, della “forte ed aggressiva”.
Oggi so che non posso fare tutto da sola, ho bisogno di aiuto per risolvere i miei piccoli e grandi problemi quotidiani.
Credo dovrebbe essere così per tutti.
Mi sento libera, in pace con me stessa.
Riesco a pensare al mio futuro, cosa che prima mi riusciva difficilissimo, se non impossibile.
Alle volte mi chiedo: “Cosa farò da “grande”?”.
Fantastico, sogno di poter frequentare un corso di disegno: mi piacerebbe diventare grafico pubblicitario. Mi sento più
matura: non mi importa dell’approvazione dei miei genitori per quel che riguarda le mie decisioni.
Sento che sono pronta ad assumermi le mie responsabilità, sono in grado di decidere da sola per il mio futuro.
E’ la mia vita e la voglio vivere fino in fondo, anche a costo di commettere degli errori.

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Stefania - 25 anni, bulimica: vomitare in eterno ...
Dentro la malattia

Mi chiamo Stefania, ho 25 anni.


Lavoro per una società multinazionale nel campo delle consulenze ambientali.
Sono diplomata contabile, ho frequentato la scuola per Perito Commerciale, non tanto per volere mio, ma piuttosto
spinta dai miei genitori, soprattutto da mio padre.
Avrei voluto fare tutt’altro nella vita: mi sarebbe piaciuto frequentare il Liceo Linguistico.
Amo viaggiare, conoscere luoghi nuovi ed entrare in contatto con gente diversa.
Soffro di disturbi alimentari da circa 3 anni: sono bulimica.
Non ce la faccio più! Il pensiero fisso e costante del cibo mi ossessiona: mi sta’ rovinando l’esistenza!
Vivo in famiglia. Ho un fratello di 21 anni che, a volte, proprio non sopporto.
Sono arrivata perfino a provare dell’odio nei suoi confronti: lui, a differenza di me, ha instaurato un buon rapporto con
mia madre. Con lei riesce ad arrabbiarsi, a dirle apertamente quello che pensa. Io no. Da mia madre non ho mai
ricevuto particolari attenzioni: carezze, affetto o tenerezze, ma ultimamente i nostri rapporti sono di molto peggiorati: è
assillante, preoccupata. Finalmente si è accorta di me. Segue alla televisione i programmi sull’anoressia e la bulimia.
Non fa altro che ripetermi che - al giorno d’oggi - le ragazze hanno tutto e pretendono chissà cosa!
A confronto il rapporto con mio padre è quasi idilliaco. Con lui posso parlare di tutto: sport, politica, ma i sentimenti
sono un tema tabù. Lui è troppo chiuso, molto riservato! A volte gli rimprovero di non prendere decisioni. Secondo me è
molto insicuro.
Non credo di avere dato mai particolari problemi ai miei genitori: non sono stata una ragazzina capricciosa; al contrario,
avevo sempre il timore di chiedere troppo!
Ma ciò malgrado, non ho mai ricevuto una carezza, mai un abbraccio o un apprezzamento.
Solo e sempre critiche, specialmente da mia madre. A lei non confido nulla, non mi capirebbe. Quando cerchiamo di
parlare è come se non ci ascoltassimo l’un l’altra.
Va perciò da sé che ogni incontro si conclude con uno scontro. Allora urliamo, litighiamo.
Poi cerco di riappacificarmi, ma sento che dentro qualche cosa continua a rodermi... ed i rancori si trascinano nel
tempo.
Motivo principale dei litigi è sicuramente la mia malattia: mamma non è stupida, capisce che c’è qualcosa che non va.
Mi aggredisce, si arrabbia; non capisce quello che voglio, non sa cosa penso e mi chiede perché mi sto rovinando la
vita.
Mi dice che faccio ribrezzo, che faccio schifo, che sono troppo magra, che penso solo al mio aspetto fisico, alla mia
linea.
Non capisce il perché del mio comportamento. In fondo - all’apparenza - a me non manca nulla!
Papà non parla. Forse ha paura.
Quando mia madre alza il tono, lui scappa via, dicendo che è troppo stanco.
L’unica persona con cui posso parlare è mia nonna: con lei ho un rapporto particolare, le parlo con chiarezza, mi
ascolta. Cerca di farmi capire perché mia mamma è fatta così.
La mia malattia sta rovinando tutto: distruggo non solo me stessa, ma anche la mia famiglia.
Il rapporto con il cibo è terribile. Alle volte, ma capita raramente, riesco a non mangiare e mi sento tranquilla.
Da più di tre mesi ho però perso completamente il controllo sulla situazione: mi abbuffo e vomito più volte al giorno,
facendo i “salti mortali” per riuscire a rispettare gli “impegni” quotidiani: andare in ufficio, in piscina, uscire con gli amici.
Stare in casa non mi va. Li è un continuo litigare; allora esco con gli amici. Quando non trovo nessuno allora mi abbuffo
e vomito in continuazione.
La sera, a letto, penso a come riuscire ad organizzare le abbuffate del giorno dopo.
Mi sento male all’idea, ma sono certa che lo farò.
La mattina sono in casa da sola e la giornata inizia con la prima abbuffata: subito, immancabilmente ed
immediatamente.
Tutto ciò che mi serve l’ho acquistato il giorno precedente: biscotti, cioccolata, latte.
Mi preparo, mi vesto e vado in ufficio. In queste condizioni non è facile lavorare, trovare la concentrazione. Non posso
permettermi di sbagliare ma non ho né la forza, né la concentrazione necessarie per continuare: penso solo ed
esclusivamente al cibo, alle abbuffate.
Durante il pomeriggio scappo dall’ufficio: alle 15.30 aprono i negozi di generi alimentari.
Mi “organizzo” facendo attenzione a non entrare nel negozio dove sono andata il giorno prima. Vado a rotazione: mi
vergognerei tantissimo ad entrare nello stesso negozio dove, il giorno prima, ho acquistato chili e chili di biscotti,
cioccolata, torte e pasticcini.

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Stefania

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Rientro in ufficio. Sono sola: ora posso abbuffarmi e vomitare e tutto questo con l’ansia del telefono che squilla, della
porta che si può aprire.
Esco dall’ufficio molto tardi perché non voglio tornare a casa all’ora di cena.
Alle volte telefono a mia madre, che mi aspetta con il cibo pronto, per dirle che sono molto impegnata, che ho del lavoro
da portare a termine e che, quindi, rientrerò molto tardi.
Sono scuse: compero cibo, poi entro in un ristorante e mangio, un altro ristorante e mangio ancora. Poi rientro in ufficio
e ... vomito tutto!
Ormai la mia vita è tutta qui: mangiare e vomitare, mangiare e vomitare, mangiare e vomitare. In eterno, credo. Ho perso
il controllo! Non capisco più nulla!
Nulla può fermarmi. Sento crescere il desiderio pazzesco ed irrefrenabile di mangiare, di mangiare quantità enormi di
cibo. Perché? E’ come una molla che scatta nel mio cervello e non ragiono più.
Mangio tantissimo, sento lo stomaco che mi scoppia, mi sento malissimo, ho le vertigini e mi sembra di svenire da un
momento all’altro.
Devo assolutamente ed immediatamente andare a vomitare. Lo faccio con rabbia, provo dell’ira e dell’odio nei confronti
di me stessa.
Mi racconto delle bugie quando penso: “Basta, basta, questa è l’ultima abbuffata!”, ma in fondo so che ce ne sarà
un’altra nel giro di poco tempo, magari fra qualche minuto, poi un’altra e un’altra ancora!
Mia madre è disperata: sono dimagrita molto. Ora peso 41 Kg. Non sto bene. Ma non stavo bene neanche quando
pesavo 58 Kg., quando ero iperfagica, ciòé mi abbuffavo senza vomitare.
Tutti mi fanno notare che sono magra, scheletrica: non ho più nulla addosso.
Quando mi guardo allo specchio mi vedo grassa, brutta e deforme: le mie cosce ed il mio sedere sono enormi,
grossissimi.
Salgo sulla bilancia con la speranza di aver perso del peso. Il timore è di essere ingrassata. Con tutto quello che
mangio!
Non ho mai la certezza di essere riuscita a vomitare tutto, ma quando l’ago della bilancia segna anche solamente un
etto in meno sono felicissima.
Da una parte vorrei fermarmi, non perdere altro peso, dall’altra vorrei essere sempre più magra, più esile.
Ricordo un episodio accaduto molti anni fa quando a scuola la maestra ci fece svolgere un compito relativo alla
valutazione di peso ed altezza.
La mia compagna di banco risultò essere “esile”, io “normale”.
Lei, l’“esile” era sempre coccolata, vezzeggiata, portava dei bei vestitini e sua madre era molto orgogliosa di avere una
figlia così. Le diceva in continuazione che era bella, che era brava. A me queste cose non le hanno mai dette: né mia
madre, né mio padre, né i miei nonni. Insomma, proprio nessuno.
Per me la magrezza è una ricerca di protezione, di tenerezza, di coccole. Perciò, fin’ da piccola, sono sempre stata
molto attenta a ciò che mangiavo: se prendevo un dolce, non mangiavo altro.
Facevo molta ginnastica, correvo e mi muovevo in continuazione.
Quando, cresciuta, sono stata libera di decidere cosa mangiare e cosa no, mi sono controllata moltissimo.
Sono sempre stata attenta alla mia alimentazione, calcolando continuamente le calorie assunte, praticando tanto sport
per non aumentare di peso.
Il risultato? Oggi sono bulimica, non mi trovo a mio agio in nessun ambiente, mi sento osservata, giudicata.
So di essere inadeguata: chiunque è migliore, più bello, più bravo, più simpatico di me.
Spesso mi chiedo come faccio ad andare avanti. Sono cosciente dei rischi che corro: la bulimia è una malattia terribile
che colpisce la mente e distrugge il corpo.
Vado in piscina e sono 100 vasche per rassodare e tonificare cosce, glutei, fianchi e braccia e non penso ai danni che
provoco al mio stomaco, ai reni, al fegato!
Mi sto distruggendo, annientando. Ho bisogno di aiuto, altrimenti non so proprio come andrà a finire!
La settimana scorsa ho conosciuto un Professore che tratta casi di ragazze anoressiche e bulimiche.
Quando l’ho visto, nonostante la sua arroganza, ho capito che è l’unica persona in grado di aiutarmi.

Oggi

Penso sempre meno al cibo, non lo temo. Più passa il tempo, più il mangiare diventa una abitudine: colazione, pranzo,
cena. E’ naturale: ho fame e mangio.
Riesco a gustare, assaporare il cibo: capisco se è dolce, amaro, salato o insipido.
Oggi lavoro in cucina e, pensando al passato di bulimica, tutto ciò non mi sembra vero!
Quando devo preparare un gelato, non ci penso: è come se avessi composto un mazzo di fiori, lavato un vestito, cucito
un bottone.
Ho tagliato molte relazioni inutili - rami secchi - ed ho rinforzato i rapporti con quelle persone che so mi possono dare
qualche cosa. Le mie relazioni sono adesso oneste e sincere come mai avevo avuto in precedenza.
Con mia madre e mio padre riesco finalmente a parlare: discuto, litigo, ma, a differenza di prima, riesco a “chiudere”
senza animosità, senza nulla in sospeso.

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Accetto le loro opinioni e loro accettano le mie.
Ho scoperto che mio padre è una persona stupenda: finalmente parliamo di sentimenti, di emozioni e quando torno a
casa, mi corre incontro, mi abbraccia forte, mi coccola e mi accarezza con dolcezza.
Sento, ora come non mai, il bisogno di affetto: ho imparato a chiederlo e a darlo.
Capisco solamente adesso che, se si vuole ottenere, bisogna dare qualcosa in cambio.
Sono critica nei miei confronti: quando commetto degli errori cerco di capire dove sbaglio.
Ho imparato ad accettare il giudizio delle persone: valuto ogni critica o complimento.
E il mio corpo è finalmente vivo! Ascolto i suoi messaggi. E’ stupendo: quando mi sento eccitata l’intestino si
aggroviglia, lo stomaco batte, il cuore palpita forte.
Quando mi arrabbio i muscoli si tendono, lo stomaco si chiude.
Non sono più una bambolotta vuota. Esisto, sono viva, utile: a me e agli altri!

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Federica - 27 anni, anoressico-bulimica: sola!

La solitudine

Mi chiamo Federica, ho 27 anni. Vivo in famiglia, con mia madre, mio padre. Ho un fratello di 25 anni.
Sono diplomata Perito Commerciale e lavoro nell’azienda paterna. Mi occupo di contabilità.
Sei anni fa mi sono accorta di soffrire di disturbi alimentari, alternando periodi di anoressia a periodi di bulimia.
Dico mi sono accorta perché, credo, che durante tutto il periodo dell’adolescenza abbia sofferto di tali disturbi.
Ogni volta che mi sedevo a tavola, avevo paura di aumentare di peso: mi controllavo, mi trattenevo in tutto; ero sempre a
dieta.
Dieta di ordinaria amministrazione, fin quando questa piccola “mania” non si è trasformata in una vera e propria
ossessione.
Pian piano, ma progressivamente quello che mangiavo - quantità e qualità, divenne sempre più importante, fino a
diventare il centro dei miei pensieri quotidiani.
Ora non mi interessa nulla, niente riesce a distogliere il mio pensiero dal cibo.
Mi sveglio la mattina, mi addormento la sera pensando alle abbuffate.
Mangio, mangio tanto, tantissimo, fino a sentirmi scoppiare. Poi vomito tutto con rabbia, rigetto, rifiuto che il cibo
rimanga nello stomaco, che “inquini” il mio corpo. Oppure non mangio: non voglio mangiare nulla perché IO sono forte,
perché IO riesco perfettamente a controllare tutto e non cedo, neanche morta, alla tentazione di quel piatto di pasta!
Cibo: amore e odio.
Lo voglio, lo desidero, ma nel momento in cui lo ottengo non lo voglio più; non mi piace, non mi soddisfa.
Odio il cibo, odio me stessa e odio il mondo intero.
Ho tanta rabbia dentro. Sono alla ricerca disperata di qualcosa che non riesco a trovare.
Angoscia e ansietà fanno cerchio attorno a me.
Mi chiudo, mi nascondo nel mio piccolo mondo fatto di solitudine, dove l’unico vero amico è il cibo.
Nessuno mi capisce, nessuno mi è vicino ed io mi allontano sempre di più dal mondo.
Sono sola e sono forte, molto forte. Comando IO!
Mi alzo la mattina, mi guardo allo specchio e vedo uno scheletro: ossa, solamente ossa, ma sono contenta così! Mi
compiaccio: sono bravissima! Controllo perfettamente tutto!
Domani posso anche smettere, ma non lo voglio. IO non sono malata: chi mi circonda è “malato”!
La disperazione dei miei genitori è ingiustificata, perché mi sento bene, sono felice e non ho bisogno di essere curata.
I pazzi siete VOI!
Lasciatemi vivere così o lasciatemi morire così, basta che mi lasciate fare!
Tutti voi non mi capite. Non ho bisogno di voi, non ho bisogno di nessuno!
Nel mio stomaco non vi è nulla: o non mangio per niente, o mi abbuffo e vomito tutto; non bevo neppure perché posso
fare a meno anche dell’acqua.
Cammino per le strade, mi gira la testa e mi sento svenire.
Non posso assolutamente farmi vedere debole, non posso! Sono fortissima, cammino più veloce, corro, mi muovo
rapidamente. Non riesco a fermarmi, non voglio riposare.
Devo annullarmi, diventare trasparente, invisibile, un fantasma: non esisto, non ci sono più!
Sparisco e nessuno mi vede. Dov’è Federica? Non c’è, non è mai esistita. Sta per morire!
Sì, sto proprio per morire.
Peso 35 Kg. per 170 cm. di altezza e, nonostante questo, continuo a lavorare a ritmo frenetico. Pratico dello sport, amo
cavalcare. Ho voglia anche di sciare, ma è troppo freddo!
Soffro moltissimo il freddo: mi imbacucco fino a sembrare una persona “normale”, ma sotto a tutti quei maglioni non vi è
quasi più nulla.
Ho il viso scavato, la pelle giallognola. Mia madre mi dice: ”Ti si vedono solamente gli occhi!”.
Sì, solo due grandi occhi grigi, spenti, privi di vita che chiedono disperatamente aiuto! Non riesco quasi più a muovermi,
a camminare.
Le mie gambe, ormai prive di muscoli, sono perennemente indolenzite. Mi fanno tanto male, ma sono talmente
orgogliosa che non mi lamento di nulla.
Per montare a cavallo devo prendermi il piede sinistro con le mani, infilarlo nella staffa e poi - non so dove vado a
prendere la forza - riesco ad aggrapparmi alla sella e faticosamente salgo in groppa.
Una volta in sella mi guardo intorno per controllare se qualcuno ha assistito a questa scena pietosa, faccio un gran
sorriso: ”Va tutto bene, cosa credete? Pensavate che non ce la facevo da sola?”, mentre il cuore sta per scoppiare, le
mani tremano, la testa gira, la vista si annebbia.

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Federica

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Riesco a stare in sella per circa un’ora. Non posso assolutamente farmi vedere debole!
Devo andare avanti, continuare, anche se mi costa uno sforzo sovrumano.
Ma gli altri non devono capire... e nascondo le mie sofferenze dietro a sorrisini stupidi e parole rassicuranti.
Mi peso tutti i giorni, di nascosto. Quando salgo sulla bilancia ho una paura terribile, folle.
Sono quasi certa di non essere aumentata perché non mangio nulla oppure, quando mi abbuffo, riesco a vomitare quasi
tutto; ma il dubbio rimane. Poi il rassicurante: “meno 100 grammi”. Sono contenta. Il gioco al massacro continua:”Dai,
ancora un chilo e poi basta”.
Ma è più forte di me, non riesco o, forse, non voglio smettere.
Quando sono a tavola la tensione è tangibile: la si può tagliare con il coltello. Mi sento osservata, spiata, controllata.
Roba da impazzire.
Se mangio poco non va bene, se mangio tanto idem: sguardi attentissimi scrutano ogni mio movimento.
La mattina, appena apro gli occhi, penso immediatamente al cibo, a come riuscire ad organizzare le mie abbuffate
quotidiane.
Nascondo il cibo negli armadi, nei cassetti, in mezzo alla biancheria. Poi cambio i nascondigli per il terrore che mia
madre se ne accorga.
I miei genitori sono disperati, ma io faccio come se non sapessi il perché. Sono viva, mi sento bene, di che cosa si
devono preoccupare?
Oramai mi lasciano fare: non sanno più a che santo votarsi.
Non ho molte amicizie vere, importanti. E quelle poche che ho, le ho distrutte, annullate, annientate, come sto
distruggendo, annullando ed annientando me stessa.
Così non esco più di casa salvo che per andare in ufficio o in scuderia. Evito di incontrare i miei amici e quando,
raramente, mi cercano o mi telefonano per uscire la sera, invento mille scuse e non esco di casa.
Quando sono sola posso abbuffarmi e vomitare sette o otto volte al giorno. Non mi interessa nient’altro!
In sei anni: mamma mi ha portato da medici, psicologi e non so che altro ancora.
Ho raccontato la mia vita talmente tante volte che ne ho la nausea!
La sfiducia nei loro confronti aumenta e, al tempo stesso, crescono le mie difese e si innesca quel perverso circolo che
non mi permette di lasciarmi andare, di chiedere aiuto, rafforzando quella sensazione di onnipotenza che mi impedisce
di ammettere di essere ammalata. I medici internisti dell’Ospedale Civile della mia città mi sottopongono ad una serie di
esami: gastroscopia, ecografia, analisi dettagliata dello stomaco, esofago, fegato, pancreas, e “... già che ci siamo!!!”,
anche ai reni. Mi viene consigliata l’assunzione di un farmaco, il Motilium, che altro non serve che ad alleviare “...quella
sgradevole sensazione di nausea che ti provoca il vomito!”. Penso che non capiscono niente: del fatto che io mangio
come un maiale ed il vomito me lo provoco mettendomi due dita in gola, nessuno se ne frega. Le mie condizioni non
migliorano, anzi peggiorano di giorno in giorno. Mia madre, disperata, contatta la Clinica San Raffaele di Milano, uno dei
più illustri centri di cura. Lì, gli psicologi, dopo aver verificato la grave condizione in cui mi trovo (se ne sarebbe accorta
anche la moglie del mio macellaio!), decidono, di comune accordo con i miei genitori, un ricovero a lunga scadenza. “A
lunga scadenza” significa sei mesi, durante i quali altro non faccio che assumere “pillole della felicità” e rimango chiusa
in una stanzetta asettica, cercando di non impazzire (ma questa volta nel vero senso della parola). Ogni mattina, i
medici effettuano il rituale “giro”: “.....allora, come stai? Mangi? Non mangi? Perché non mangi? Perché pensi sempre al
cibo? Hai fame? Sei diminuita di peso! Da domani aggiungiamo uno spuntino a metà mattino, la merenda al
pomeriggio, e, forse è il caso, anche un “dolcettino” prima di andare a dormire. Cosa ne pensi?” Come se, in quel
momento, avessi il diritto di pensare !!!! Penso, penso, penso tutto il giorno. Cerco di distrarmi leggendo, guardando
stupidi programmi alla televisione, ma la mia mente è altrove: “...tra un’ora c’è lo spuntino, tra due il pranzo, tra quattro
la merenda, tra sei la cena, tra sette quello stramaledetto spuntino serale. E domani? di nuovo mega-colazioni, mega-
pranzi, mega-cene....”. Cerco di stare calma, di collaborare, pensando che tanto, prima o poi, me ne sarei andata. Sì,
sarei aumentata un po’ di peso e nulla di più. Poi, una volta fuori da quel “manicomio”, avrei ripreso la vita di tutti i giorni,
sarei ritornata bella “in forma” come prima e ciò alla faccia di tutto lo staff medico del Centro Disturbi Alimentari, che mi
costringe ad ingurgitare chili e chili di cibo a tutte le ore del giorno, modello “oca all’ingrasso”, senza capire che la
radice del mio malessere non è da ricercare nell’esultanza di un chilo acquistato o nella disperazione del chilo perduto.
Fingo. Fingo che tutto proceda per il meglio. Fingo di raggiungere risultati ... ma sono solo menzogne! La mia
ossessione per il cibo è alle stelle, mi sento “in gabbia”, tradita, abbandonata, cavia di qualche strano esperimento
scientifico, un’altra ex ragazza anoressico-bulimica guarita grazie alla divina intercessione del “S. Raffaele da Milano”.
Guarita? Guarita un cavolo! Riesco a vomitare abbastanza facilmente anche in Clinica, nonostante il bagno chiuso a
chiave. Il bagno chiuso non è un problema, anzi! Esistono mille trucchi per aggirare l’ostacolo: l’inserviente che passa la
mattina a pulire la camera, mi “illumina” sulle geniali “trovate” di ragazze che, prima di me, hanno avuto l’onore di
incontrare il San Raffaele: “... pensa che ce n’erano alcune che vomitavano in giro per la camera, negli angoli della
stanza. Io trovavo di tutto......persino sotto il letto: sacchetti legati alle reti...”.
Il giorno delle dimissioni non mi sentivo diversa rispetto a sei mesi prima: sono solo aumentata di peso (e poi neanche
molto!). Una volta tornata a casa, inserita di nuovo nell’ambiente in cui è nato e cresciuto il mio malessere, tutto torna
nella normalità, anzi nell’anormalità! Non è cambiato assolutamente nulla: nel giro di poco tempo ricomincio ad
abbuffarmi, vomitare, non mangiare, mangiare tantissimo. Tutto questo sotto gli occhi dei miei familiari

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che, ben consigliati dagli psicologi del San Raffaele, mi danno ora carta bianca perché “.....è meglio che Federica
adesso faccia ciò che si sente, voi non dovete preoccuparvi di nulla!....”. E così non dando noia e fastidio a nessuno,
ho ricominciato a vivere da “non vivente”.
Ho paura, tanta paura di guarire, di dover affrontare il mio problema seriamente.
Mi accorgo che, non solo sto distruggendo me stessa, ma anche i miei genitori, mio fratello e tutte le persone che mi
circondano, rovinando non solo la mia vita, ma anche la loro!
Adesso è il momento giusto: sento una forte spinta crescere in me. Voglio a tutti i costi guarire, sento il bisogno
disperato di farmi aiutare. Da sola non riesco.
“Questa”, mi dico, “è la volta buona!”.
Sono IO a volerlo! Tempo fa conobbi l’autore di questo libro.
Mi guarda negli occhi. Io abbasso subito lo sguardo:
Ho avuto paura. Panico. “Scappa” - mi dissi. Ma dal modo con cui mi stringe la mano e mi abbraccia capisco che mi
posso fidare.
Finalmente ho trovato un uomo forte e sicuro che mi avrebbe aiutata!

Oggi

Mi sento un’altra persona. Quella ammalata non ero io - mi vien da pensare!


Ho fiducia in me stessa e negli altri. Mi guardo allo specchio: vedo una bella ragazza.
Finalmente mi piaccio, mi piace il mio corpo e riesco ad accettarne anche le imperfezioni.
A proposito di corpo: è una cosa nuova. Non solo piacevole da guardare, ma un importante trasmettitore di segnali.
Bene. Male. Prima era solo una scatola, un involucro da portare di qua e di là; ora è vivo, mi parla. Mi dice quando ha
fame, quando ha sete, quando ha bisogno di coccole e carezze, quando è affaticato e stanco, quando è energico e
frizzante.
Ho imparato ad ascoltarlo e a volergli bene.
Il cibo non è più una droga. Mangio quando ho fame e bevo quando ho sete.
Mi accorgo quando sono sazia e - come tutti - dico basta.
Esprimo liberamente i miei sentimenti, le mie emozioni, tutto quello che sento. Una volta non capivo niente.
Mi piace stare in compagnia, ridere e scherzare. Svaniti i problemi di relazione con le persone, non sono più inutile,
inadeguata.
Se c’è qualcosa che non mi sta bene, che mi dà noia, lo dico, butto fuori ansie e tensioni.
Sono arrabbiata? Divento aggressiva.
Sono triste? Piango.
Sono felice? Rido.
Ho capito che è inutile nascondermi dietro una maschera: posso mostrare ciò che sono e quello che sento in realtà.
Mi piace farmi toccare, accarezzare e coccolare. Mi piace il contatto fisico.
Ho un corpo che sente, che è vivo e reagisce agli stimoli esterni.
Sento le emozioni e i sentimenti; nascono nella pancia e salgono fino allo stomaco, al cuore ... poi fuori verso il mondo.
Sento l’energia che mi scalda: la lascio scorrere e provo piacevoli formicolii alle braccia, alle mani, alle gambe e ai
piedi.
Sono viva, finalmente VIVA!

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IRENE - 33 anni, iperfagica: ...sotto la ciccia tante cose da raccontare
Il rifugio dentro il grasso

Mi chiamo Irene. Ho 33 anni. Sono obesa da iperfagia.


In verità non sono mai stata magra. Quando ero piccola, mia nonna mi faceva mangiare parecchio: essere “cicciottella”,
“paffutella” significava, per lei, non essere ammalata.
Avevo circa 15 anni quando iniziai la prima dieta. Buon risultato: 55 Kg.
Non ero “magra”, anzi ero sicuramente in sovrappeso. Però mi piacevo, mi sentivo bene, come una ragazza “normale”.
Alla sera, prima di andare a letto, facevo un’ora di ginnastica.
Mi faceva sentire bene, ma il peso non scendeva.
Terminati gli studi superiori, mi sono iscritta a medicina. Studiavo intensamente, frequentavo diversi corsi. Nessuna vita
privata. In tutti i sensi. Dalla mattina alla sera ero impegnata in Università. Andavo a casa solamente per dormire.
Vivevo, e vivo ancora adesso, in famiglia perché in Bulgaria - Paese in cui sono nata - è costume che una donna debba
essere sempre protetta: dalla famiglia prima e dal marito poi.
Avevo 25 anni quando, terminati gli studi universitari, sentii il desiderio di indipendenza. Iniziarono i problemi con i
genitori.
Il rapporto con mio padre è stato difficile fin’ da quando ero piccola. Lavorava fuori Sofia e non era mai a casa. Aveva
una vita sua, al di fuori della famiglia: aveva storie con altre donne per le quali mia madre soffriva. Ero piccolissima,
avevo 4 anni e la mia vita era dominata dalla paura. Avevo paura di lui, di quello che faceva, di quello che diceva. Lui
aveva sempre ragione. Il suo comportamento era sempre da giustificare.
Io, per tenere il passo con le mie amichette, avrei voluto dei giocattoli nuovi, dei bei vestiti, ma tutto questo era
impossibile: mio padre, con l’esistenza che conduceva, buttava via una barca di soldi! Era una cosa brutta da mandare
giù, anche perché - oltre che lesinare nelle cose materiali - affettivamente non c’era.
Poi, diventando più vecchio, capì il suo errore o almeno così me la diede ad intendere. Cercò di rimediare, ma era
troppo tardi!
Tentò di sedurmi con i soldi. Voleva semplicemente comperarmi.
Ero un medico capace, lavoravo con passione e con ottimi risultati: i miei pazienti erano soddisfatti. Malgrado ciò il mio
carattere rimaneva riservato. Ero chiusa. A volte - addirittura - indisponente. Mi sforzavo di apparire. Mi facevo “violenza”,
cercando di essere sempre al centro dell’attenzione, di essere la ragazza più simpatica ed estroversa di tutta la
compagnia. Avevo paura di non essere accettata, di non essere interessante.
Iniziai a lavorare presso l’Ospedale di Sofia: eravamo una compagnia di 20 colleghi e facevamo una vita goliardica:
uscivamo, ci divertivamo, andavamo a ballare, a divertirci in tutti i modi. Il “ruolo” che mi ero imposta funzionava: facevo
la carina, ballavo e mi muovevo bene. Ricevevo molti complimenti ed apprezzamenti.
Decisi di specializzarmi in neurologia. Mi impegnai parecchio. Mi sentivo preparata. Al momento dell’esame di
specializzazione mi bloccai. Le cose le sapevo, ma tutto era svanito.Il mio cervello era carta bianca. Panico completo.
Bocciatura.
Anche l’unico legame sentimentale che abbia mai avuto in vita mia si stava sgretolando.
Un disastro. Mi rilassavo bevendo.
Non molto, però qualche goccetto mi “tirava su di morale”!
Poi dissi basta. A tutto. Tornai a casa sotto l’ala protettrice della famiglia. Al sicuro “qui nessuno può farmi del male” -
pensavo.
Protezione, sicurezza sì: ma di nuovo quel senso d’oppressione, d’ansia che molti anni fa mi indusse a fuggire.
Cambiamento: la ragazza allegra e di compagnia non esiste più.
Sbuca la “vera” Irene: una ragazza sola, triste, terrorizzata dalla vita. Sento il bisogno irrefrenabile di mangiare.
Mangiare e riempirmi di qualche cosa.
Quando cerco di non mangiare sento male allo stomaco ed a tutti i muscoli del corpo.
Sono come una tossicodipendente in crisi di astinenza.
Non ce la faccio. Allora via verso dolci, pasticcini, cioccolata, gelati e torte.
In mancanza di dolci ogni cosa è buona: basta che sia commestibile.
Mangiare dolce è per me come ricevere affetto, carezze. Infatti, dopo l’abbuffata mi sento distesa, rilassata come lo si è
tra le braccia dell’uomo che si ama.
Senso di colpa. Domani dieta. Invece “domani” corro ed acquisto quantità enormi di dolci.
Sono golosissima: mi piace soprattutto un tipo particolare di torta al cioccolato, farcita con della crema molto grassa.
Volo a casa e mangio tutto. Non paga, apro il frigorifero e lo svuoto completamente. Non mi servono né piatto, né
posate: mangio velocemente, con le mani. Nel mio cervello si fa il vuoto.

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Irene

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Alle volte preferisco “abbuffarmi” davanti alla televisione, oppure mentre leggo o studio: in questo modo non vedo quello
che mangio, né quanto, né cosa. Non provo fame. Non sento il senso di sazietà. Dopo la mangiata mi sento un po’
gonfia, ma sono beata: la sensazione passerà nel giro di poche ore. Non ho mai vomitato: è vero, ci ho provato, ma non
sono riuscita.
Quanto peso? Non lo so. La bilancia - per me non esiste.
Davanti allo specchio metto a fuoco gli occhi, i capelli, la bocca. Il resto non esiste.
Si, sono grassa, ma con l’abbigliamento giusto, posso ancora apparire carina, penso.
Così sono arrivata ai 100 chili.
Buon Dio: 100 chili! Dieta. Perdo 5 o 6 chili. Soddisfazione e subito una bella mangiata per festeggiare.

Oggi

Ho scoperto che vivere è bello! Avevo paura di vivere, paura della solitudine, delle responsabilità. Mi illudevo di riuscire
ad appagare i miei bisogni, quelli affettivi, quelli sessuali, con il cibo. Errato. Se voglio qualche cosa devo
conquistarmelo.
Sono più egoista, un egoismo “sano”: ho smesso di preoccuparmi del rapporto tra i miei genitori. Io ho la mia vita, i miei
problemi quotidiani da risolvere e non voglio più entrare nelle problematiche che non mi riguardano.
Ho gettato la maschera ed ho scoperto che “dietro” c’è un mare di positività. Sono naturale e spontanea. Credo nelle
mie possibilità e non mi interessa il giudizio degli altri.
Ho acquistato fiducia in me stessa, anche sul lavoro.
Mi piace moltissimo e mi impegno per dare il massimo.
Alle volte sbaglio: è “umano”, nessuno è perfetto! Finalmente sono contenta di pagare per i miei errori.
Il rapporto con gli altri è onesto e sincero.
Voglio dimagrire ancora; mi piacerebbe arrivare ai 55/60 Kg. Ma non è una ossessione. Sono a dieta... ma il cibo è un
amico.
Perdo peso e sono molto orgogliosa di me stessa.
Non ho nemmeno paura dei dolci: riesco a mangiarne, anche se in quantità minime, li assaporo lentamente e li gusto a
fondo!
E dietro la ciccia che scompare, appaiono contestualmente ai miei bisogni di carezze e coccole e di sesso, quelli di
socialità, di sicurezza.
Il mio futuro è luminoso perché ora credo nelle mie possibilità, nelle mie forze e nei miei mezzi.
Voglio avere una vita mia e viverla fino in fondo. Voglio apprezzarne i momenti piacevoli ed imparare a gestire quelli
negativi.
Spero di riuscire a trasmettere il mio nuovo “credo”, la mia riconquistata armonia, ai miei pazienti.

68
Storie ...

Quanto sono affascinanti le storie di “malattia”: l’uomo spreca più tempo a raccontare dei suoi dolori che delle sue
felicità. Sembra che il soffrire dia un senso alla vita; nel soffrire si realizzano la valle di lacrime e l’Inferno dantesco (chi
ha mai letto il “Paradiso”?). Caino muove gli animi. Abele no!
Questo è il nostro mondo: un mondo che ci costringe ad ammalarci per avere la considerazione e la conferma dei “Tu”
che ci circondano.
Avrei voluto lasciare senza commento le storie che hanno scritto le mie ragazze. Ma una cosa mi è saltata all’occhio:
benché non avessi dato indicazione alcuna su contenuti o proporzioni, loro tutte hanno enfatizzato i momenti bui,
mentre poche righe raccontano della bellezza e della riconquistata salute.
L’armonia, la salute, la bellezza del naturale non fanno cronaca, non fanno testo. Nessuno si mobilita davanti allo
scorrere euritmico dell’energia. Nessuno fa caso al meraviglioso canto del bosco autunnale.
Quanto invidio i viaggiatori del mondo antico, che si estasiavano davanti al “nuovo”, che si soffermavano ad apprezzare
gli splendidi panorami della natura incontaminata. Che ci raccontano di cose piccole, uniche, ma vissute fino in fondo: il
colore del cielo, l’odore degli eucalipti, le piume variopinte di un uccellino. Cose piccole, ma immense nello stesso
tempo.
Noi viviamo nella grandeur, quindi nella decadence. In declino il bello, in declino la salute, in declino la moralità della
natura.
Viaggiamo per il mondo fuggendo da noi stessi, ma come un’ombra ci insegue la nostra decadence. Un tramonto
tropicale è roba da fotografare, non da vivere, da gustare. Usi e costumi di popoli lontani vanno fissati su “cassetta”,
forse derisi, ma mai compresi, mai condivisi o apprezzati.
Quanto sembreranno noiose, al nostro lettore decadente, le fotografie delle mie ragazze “in felicità”. Manca l’horror,
manca la suspence. Ho un archivio pieno di immagini che ritraggono scheletri ambulanti, di corpi che - se non fosse
per l’ambiente - potrebbero essere scambiati per quelli dei reduci dai campi di sterminio di triste memoria. Taluni le
avrebbero volute pubblicare. Io no!
Io preferisco il sorriso alle lacrime. Preferisco la salute alla malattia. Preferisco la morale della natura a quella dello
Stato e della Religione. Preferisco il canto della cinciallegra che sosta nel mio giardino, al gracchiare di un volatile
tropicale che racconta le sue storie in una lingua che ancora non conosco.
Non posso certo dire che questo modo d’essere incontri molti consensi. Ma è il mio. Ed è quello che vorrei trasmettere
a chi - ancora - mi frequenta.

69
Dossier Genitori

“Da più di due anni ormai mia figlia soffre di anoressia/bulimia. Ha 17 anni.
Raramente ci ha nascosto il suo male. All’inizio era l’anoressica: diete molto rigide.
Poi, nell’arco di pochi mesi, è passata alla bulimia. Ha sofferto terribilmente e ha chiesto aiuto, ma il
desiderio di guarire si alternava alla paura di uscire dal rifugio-malattia: guarire significava dovere
affrontare con coerenza e con quella maturità che dovrebbe essere propria di una diciassettenne, il
mondo esterno.
Ero disorientata e molto diffidente nei confronti degli “specialisti” a quali avrei dovuto affidare mia figlia.
Tra me e mio marito ci fu una spaccatura: io speravo che E., se inserita in un contesto sociale “umano
e disponibile”, avrebbe potuto superare i suoi problemi e credevo che una cura “insieme ad altri
ammalati” avrebbe provocato un rallentamento della guarigione. Mio marito considerava risolvibile la
malattia della nostra ragazza solo attraverso un ricovero.
Ci furono scontri che - credo - danneggiarono ancora di più il già precario equilibrio di nostra figlia.
Alla ricerca di compromessi tentammo varie “terapie”. La conseguenza fu un peggioramento dello stato
di nostra figlia: si isolava, si abbuffava e rimetteva in continuazione. Fino a cinquanta volte al giorno. Fu
un incubo.
Le nostre abitudini familiari furono sconvolte. Noi siamo genitori ansiosi, apprensivi, concentrati sulla
nostra unica figlia. Ci sentimmo impotenti di fronte a queste strane richieste d’aiuto e - di conseguenza
- incapaci di capire, di arginare il male che affliggeva tutti noi.
E - nostra figlia - si gettò nella danza classica: una speranza, ma troppo poco per superare la malattia.
Credo che E. abbia soprattutto sofferto di mancanza di affetto: non dell’affetto che le abbiamo dato con
la “ragione”, ma di quello che non siamo riusciti a darle col cuore.”

*****

S
“ olo chi ha provato che cosa vuol dire “vivere male”, essere in preda ad un incubo, potrà capire cosa
si prova a vivere questo dramma che ti colpisce e ti devasta.
La nostra era una famiglia che viveva una esistenza armoniosa, serena: proprio non riesco a capire
come si possa imputare alla famiglia e alla madre, in particolare, l’origine del male.
Portarsi dentro anche il peso di questa colpa rende tutto più difficile.
Come madre mi sono allarmata al primo sintomo: quel frazionare, selezionare, ridurre sempre più le
porzioni, la maniera sbrigativa di consumare quel poco cibo o nasconderlo nella propria stanza. I
frequenti sbalzi di umore, il chiudersi in se stessa, mi facevano capire che qualcosa di molto grave
stava accadendo. A questo stato di cose avevo persino paura di dare un nome.
Molto presto lei divenne il centro delle nostre attenzioni. I fratelli e sorelle, forzatamente trascurati,
subivano la situazione. Contemporaneamente cresceva in F. la determinazione a non mangiare.
Tentammo in tutti i modi farle prendere coscienza dell’assurdità del suo comportamento, ma il peso
continuava a diminuire. Era perennemente irritata, la situazione sempre più conflittuale. Cercavamo di
circondarla d’affetto, ma lei ci respingeva. Rifiutava tutto.
Ci rivolgemmo a psicologi: F. accettò di “sentirli” tanto per farci piacere. Le psicoterapie sortivano un
unico effetto: quello di permettere a nostra figlia di farci capire che il problema era “nostro” e non “suo”.
Mi rivolsi a varie associazioni, ma vivendo in un piccolo paese lontano da centri e strutture
specializzate, non ricevetti aiuto alcuno. La situazione era aggravata dal fatto che i miei interlocutori
pretendevano che fosse la diretta interessata ad interpellarli: hai voglia!
Intanto nella famiglia crescevano le sensazioni di impotenza, di disperazione. Il nostro ambiente sociale
reagiva, alla malattia di F., con i pregiudizi che sono propri dell’ignoranza.
Approdammo poi in un Centro situato in Svizzera. Una decisione sofferta, accompagnata da timori e da
tanta confusione: era giusto allontanare da casa la nostra figliola? Avremmo fatto veramente il suo
bene?
Molti ci sconsigliarono, altri ci sostennero, infondendoci coraggio.
La lontananza fu terribile. Inizialmente F. ci incolpava di averla “tradita”, di averla indotta con l’inganno a
sostare, per un periodo indeterminato, lontano da casa.
E’ vero. La “costringemmo” a curarsi. Fu doloroso, ma necessario.
Da oltre due mesi manca da casa. L’abbiamo vista qualche giorno fa e nei suoi occhi abbiamo colto
una luce diversa.

70
F. è oggi è consapevole della sua malattia e vuole uscirne.
A questo punto sentiamo il bisogno di fare un appello alle istituzioni, alle associazioni, alla gente in
generale: non abbandonate le famiglie che vivono questo dramma. Sostenetele, date loro forza perché
possano trasmetterla ai loro figli.”

*****

A
“ ll’inizio sono incredula, attanagliata dalla paura e mi rifiuto di credere ciò che è già realtà.
Cerco di giustificare le situazioni, ma i segni del vomito nel bagno, tutto quel cibo nascosto negli
armadi, quel dimagrire continuo, non possono avere che un solo significato.
Poi mi faccio forza, devo trovare una via d’uscita: sembra che la guarigione possa dipendere solo da
me.
Ne parlo con il medico amico, poi con lo psichiatra. E qui la realtà va affrontata, ma la malattia è
all’inizio e ancora mi sento forte, penso che tutto possa essere superato.
Gli specialisti però sono vaghi. Dicono che non c’è cura, che non ci sono risultati certi.
Intanto io “misuro” F. con gli occhi e la vedo dimagrire sempre più: i suoi vestiti sempre più larghi e lei
così fragile!
Ho avuto il terrore che potesse succedere qualcosa di irreparabile, che una influenza o una qualsiasi
banale malattia stagionale potesse portarsela via per sempre.
Intanto passano i giorni, i mesi, le stagioni.
Io sono sempre in attesa di un miracolo che non vuole succedere.
Intanto vedo le amiche di F. felici, radiose nella loro giovinezza e mi chiedo: ”Perché lei no? Dove ho
sbagliato?”
Sento le altre madri raccontare della vita delle loro figlie, di amori vecchi e nuovi, di telefonate
interminabili, di serate in discoteca, di incontri, di nottate sfavillanti ed io mi chiedo: “Cosa racconto io
di F.? Le sue serate chiusa in casa senza amici, senza interessi? Senza vita?”
Essere madre di una ragazza con problemi di bulimia e anoressia è una sconfitta.
Anche se io non voglio farmene una colpa e non sento colpa, mi ritengo comunque sconfitta in quello
che nella mia vita è stata la cosa più importante e significativa: la maternità!
Per questo, a volte, mi sento così vuota, profondamente vuota e non posso più pensare a quando F. era
piccola, perché mi sembra che sia tutto un errore: l’avevo sempre creduta felice, ma ora capisco che
non era così...... qualcosa covava in lei di subdolo ed implacabile.
Una cosa ora mi conforta: quella che fu una “crisalide” oggi è diventata “farfalla”, e, tra le farfalle, la più
bella!”

*****

“Come posso descrivere ciò che come mamma ho passato? Quello che ho provato vedendo mia
figlia, piano piano, svanire nella magrezza? Paura, paura ed ancora paura!
Mi rendevo conto che l’amore ed il buon senso non bastavano per aiutarla a risalire il baratro nel quale
era caduta. Mi sentivo impotente, in lotta contro il tempo: ogni giorno una battaglia ed ogni notte un
incubo.
Leggevo tutto ciò che riguardava l’anoressia, dei luoghi dove la curavano. Mi sono rivolta a loro con tanta
speranza, ma i risultati sono stati sconfortanti.
Poi ho ricordato un articolo apparso su una rivista. Ho telefonato: un’altra speranza. Il modello di cura
proposto era consono alle mie aspettative, mi dava più fiducia. Fissai un appuntamento. Colloquio. Io
piena di speranza, dall’altra parte mia figlia con la grinta di quella che pensa: “Io lì non ci andrò mai!”.
Poi la decisione: provare quest’altra, nuova, strada. Passarono i giorni, le settimane, i mesi. E la
speranza iniziale si è tradotta in realtà. Sei mesi fa mia figlia pesava 29 chili ed aveva 17 anni. Oggi -
diciottenne - è guarita.”

71
Cap. 4 - Facciamo un poco di luce ...

Parlare di anoressia, di bulimia, di obesità è di moda. Non c’è giornale, rivista o talk-show che - pur
con un proprio taglio particolare - non affronti quelle che, giustamente o ingiustamente, sono definite
le “malattie del secolo”.
Teoremi strampalati e vera informazione si mescolano: quello che ne esce è una confusione
generale, tant’è che non passa giorno che qualcuno telefoni alle nostre sedi chiedendo: “... scusi,
secondo voi sono anoressica?” - oppure ”... sono bulimica?” o ancora ”... sono obesa?”
Fortunatamente - nella maggioranza dei casi - possiamo rassicurare l’utenza: ... niente di tutto ciò.
Lei è affetta da “sindrome di Barbie” (vd. pag. 41); ma anche “Signora, lei è bulimica, le
consigliamo ...”.
A fare luce sulle reali connotazioni del Disturbo Alimentare Psicogeno non riescono nemmeno i
“baroni” di questa specifica branca della psicologia clinica. I più scrivono di loro personali
esperienze (purtroppo non generalizzabili) oppure barricano il loro sapere dietro formule e
teorizzazioni difficilmente comprensibili al grande pubblico.
L’emergere di figure professionali che, con la clinica del disturbo alimentare nervoso nulla - o quasi -
hanno a che fare, è sintomatico del caos che regna sovrano in questo settore. Prescindiamo da
maghi, pranoterapeuti o stregoni sui quali non vale la pena spendere inchiostro. Parliamo invece di
gastroenterologi o dietologi, i quali credono che la terapia delle malattia sopra citate, sia di loro
“speciale” competenza. Per capirci: sarebbe come affidare la cura della polmonite ad un
“febbrologo” piuttosto che ad un pneumologo o ad un internista!
Il cibo - infatti - sta’ all’anoressia, bulimia o iperfagia, come la febbre alla polmonite. Ma, mentre a
nessuno verrebbe in mente di curare la polmonite con un antipiretico (medicamento che fa scendere
la febbre), molti credono di potere affrontare le patologie del pensiero e della percezione con una
bella dieta! Roba da matti!
Ma c’è ancora di peggio. Davanti all’ovvia e conclamata impotenza di questi “scienziati”, genitori e
parenti si mettono sul ponte di comando e determinano - animati da sacro ed egoistico amore - la
rotta che dovrebbe fare guarire il figlio o la figlia. Disastro completo. Ricordate i nostri appunti sul
“cordone ombelicale”? Figli e figlie - ora ammalati - continuano a subire quella nefasta “dieta” che li
ha condotti allo squilibrio. “... l’amore guarisce tutto!” ... credono mamma e papà, ma non hanno
capito che di questo genere d’amore, a volte, si può anche morire.
Gli psicologi sono un capitolo a parte. Su di loro vale la pena spendere qualche parola in più. Gli
psicologi - come i preti - si distinguono a seconda del loro personale credo.
Ogni psicologo parla un proprio particolare linguaggio e “legge” le patologie del Vivente a seconda
della sua scienza-religione quindi - per “capire” lo psicologo - bisogna conoscerne la dottrina,
capirne limiti e grandezze anche se, va detto per onestà intellettuale, non tutti i professionisti della
psicologia sono dei fondamentalisti!

L’approccio analitico

I maggiori rappresentanti dell’approccio analitico sono Sigmud Freud, Carl G. Jung e Wilhelm
Reich.
Il trattamento freudiano classico - la psicanalisi - richiede un investimento notevole di tempo e di
denaro - da quattro a cinque giorni per settimana per tre anni o più - che pochi individui possono
permettersi. La “forza guaritrice” della psicanalisi risiede nell’antica massima: “conosci te stesso”.
Sarà quindi l’individuo con una certa capacità verbale, con la capacità di instaurare rapporti e di
condurre una vita più o meno normale a trarne i maggiori vantaggi. Se però la patologia esige
risposte rapide e prive di ambiguità, questa forma di trattamento è sconsigliabile.

72
L’approccio junghiano - detto anche “psicologia del profondo” -segue un corso notevolemente
diverso da quello freudiano: la realtà dell’inconscio, postulata da Freud, è sminuita. Il
comportamento nevrotico viene trattato su di un livello conscio, prosaico; inoltre un rapporto caldo e
positivo con l’analista viene conservato mediante l’intervento attivo da parte di quest’ultimo. Gli
junghiani sostengono che il loro metodo è particolarmente adatto ad individui normali nella mezza
età, che cercano saggezza ed illuminazione. La terapia funziona se il paziente è dotato di una certa
creatività. La tecnica fonda essenzialmente sull’esplorazione del mondo archetipico23 tramite
l‘analisi dei sogni, dei luoghi comuni, ecc., ma mostra una indifferenza assoluta per i problemi reali
della vita, prediligendo spiegazioni trascendenti all’analisi inequivocabile della realtà e dei progetti
esistenziali. Di regola, sono gli appartenenti a queste due prime fasce di analisti che tendono a
sminuire, fino ad ignorare, l’importanza del sintomo: particolarità, questa, che può essere pericolosa
nella terapia di quei disturbi che esulano dal “solo nevrotico”, ma possono portare il paziente alla
morte.
Le terapie biofunzionali 24 - o vegetoterapia - il cui caposcuola è Wilhelm Reich, basano sull’assunto
che l’essere umano vive, fondamentalmente, tramite il corpo. Perciò, sia la nevrosi che la guarigione
vanno considerate come condizioni che influenzano il nostro organismo corporeo. La teoria
reichiana si identifica in quelle “scuole psicoanalitiche” che cercano di riafferrare ricordi traumatici,
ma è - nel contempo - attenta al “qui ed adesso” quindi ai bisogni che via via appaiono nel Vivente.
Con Reich la nevrosi mostra la sua “faccia somatica”. La terapia biofunzionale fornisce il contatto
con una parte innegabile della realtà: il corpo. L’approccio reichiano enfatizza il rapporto tra
biofunzionalità e potenza orgastica; aspetto questo al quale la vegetoterapia presta particolare
attenzione. Spesso Reich è criticato per avere omesso, nel suo approccio analitico, l’analisi dei
problemi psicosociali legati all’esistenza.

L’approccio comportamentale

Tutte le terapie esaminate finora sono emerse al di fuori dei centri accademici. Il lavoro di Freud e
dei suoi discepoli non fa, almeno per quanto riguarda la sua origine, eccezione. Diverso il locu
nascendi della terapia comportamentale: questa è espressione della psicologia sperimentale e
cresce sotto l’egida della Associazione Psichiatrica Americana. La terapia comportamentale
analizza il comportamento manifesto, riducendolo a “sintomi di bersaglio”, poi applica una serie di
direttive volte ad alterare la “lesione comportamentale”. In contrasto con l’accento sulla spontaneità
che è proprio degli approcci di stampo analitico, la terapia comportamentale comincia restringendo
il problema e ponendolo così sotto controllo. Diventa perciò inevitabile l’analisi della “meccanica” del
funzionamento umano: il contenuto della scatola nera (sentimenti, emozioni, affettività) non sono, in
quanto soggettivi, degni di attenzione da parte del comportamentista. Comunque, l’approccio
comportamentale è di estrema efficacia nelle fobie semplici, ma risulta controindicato nella cura dei
disturbi dove lo psichismo del soggetto è motore e bersaglio del sintomo (come nel casi dei
Disturbi Alimentari Psicogeni).

23
Archetipi: bagaglio dell’inconscio transpersonale, ossia qualche cosa che riflette la storia della specie umana all’interno
dell’ordine cosmico e che si forma precedentemente all’esperienza dell’individuo. In modo approssimativo si possono definire gli
archetipi come temi mitici nucleari (l’Eroe, la Grande Madre, il Vecchio Saggio, ecc.).

24
L’approccio neoreichiano è di tipo biofunzionale e si ispira, modernizzandola, alla vegetoterapia proposta da W. Reich.
73
L’approccio umanistico

La terapia umanistica sfocia nel lavoro di Carl Rogers, il quale ha sviluppato qualche cosa di
fortemente psicoterapeutico, in cui la relazione tra terapeuta (o facilitatore come lo definicsce
Rogers) è l’unico mezzo di influenza terapeutica. Questa influenza non viene esercitata per scovare
fantasie infantili rimosse, inaccettabili, scisse. Al contrario: l’approccio umanistico è positivamente
esistenziale ed ha un’idea molto precisa dell’interezza del Sé. Positività ad absurdum: questa è la
chiave per comprendere Rogers. Essere positivi significa fidarsi di ciò che assurge a
consapevolezza psicofisica nel “qui ed adesso”.
La relazione tra terapeuta e paziente deve perciò essere assolutamente trasparente, coerente e
congruente. Il terapeuta è ciò che è. Il paziente ha il diritto di esserlo altrettanto e - di conseguenza -
positivamente accettato e capito nella sua complessità. Il trattamento rogersiano è sfrontatamente
ispiratorio: il suo interesse fondamentale è far sentire meglio gli individui riguardo a se stessi. I limiti
dell’approccio umanistico derivano forse dai suoi punti di forza: il positivismo tout-court si oppone
alla direttività; quella direttività che é fondamentale nella cura degli atteggiamenti nevrotici
complessi.

La terapia di famiglia

La terapia della famiglia non si concentra sull’individuo malato, ma prende in esame la struttura dei
rapporti in cui egli vive: la nevrosi costituisce una aberrazione dell’intero nucleo e sceglie il membro
più vulnerabile per esprimersi. Nel trattamento è presente tutta la famiglia: nella stanza del terapeuta
sono presenti le persone reali. Quanto “pazza” - e stabile - è la vita interna di ogni singolo
appartenente del gruppo familiare, tanto “pazzo” - e stabile - sarà il “sistema famiglia”. E la “pazzia”
altro non è che la risultanza dei conflitti espressi o inespressi nell’ambito del gruppo di
appartenenza. Infatti, nella famiglia tipica nessuno dei membri è in rapporto con l’individualità
dell’altro; ciascuno vede l’altro non come è, ma attraverso il filtro della rivalità e della posizione
gerarchica all’interno del sistema. La grandezza dell’approccio terapeutico alla famiglia consiste
appunto nell’assunto che - come abbiamo detto - l’ammalato altro non è che la “vittima predestinata”
di alleanze, rivalità, insoddisfazioni e regole proprie di un determinato sistema. D’altro canto vi è da
rilevare, specialmente alle nostre latitudini (e credo che in questo la collega Selvini Palazzoli, che ha
portato in Italia questo approccio terapeutico, non potrà darmi torto), l’incapacità del sistema a
mettersi oggettivamente in discussione: troppi i tabù da infrangere, troppe le pressioni, affinché la
famiglia rimanga “unita”: troppa cultura (o meglio noncultura) che vuole i genitori sopra ed i figli sotto,
la moglie giù ed il marito su. In questo scenario, il terapeuta familiare troppo spesso non può far
altro che assumere la funzione di supergenitore e sovrapporre questo ruolo a quello dell’analista che
“cura” un sistema andato in cancrena.

Il sostegno psicologico

La legge italiana dà ad ogni psicologo la facoltà di abilitare o riabilitare. La terapia è riservata agli
psicoterapeuti. Un giorno - forse - qualcuno mi spiegherà la differenza tra abilitazione/riabilitazione e
psicoterapia. Questa premessa è doverosa, poiché il sostegno psicologico, quindi la
abilitazione/riabilitazione è, di regola, appannaggio degli psicologi. Può essere utile specificare che
lo psicologo non possiede - è doveroso dire ancora “di regola” - una specifica formazione
terapeutica. Ha sì frequentato 5 anni di università apprendendo tutte le teorie afferenti al
funzionamento della psiche, ha sì svolto il suo stage formativo presso una pubblica struttura (durata

74
1 anno), ma quel sapere che permette un’ampia visione dinamica del disturbo psichico e che è
connesso al vivere per qualche anno - nel corso di un’analisi personale - il ruolo di paziente, ebbene,
questo sapere non ce l’ha.
Non ha quindi vissuto in prima persona le burrasche della psiche, la sofferenza che assale il corpo
quando si dischiude a nuova consapevolezza. E’, lo psicologo, un teorico del navigare che si
accinge a capitanare una nave vera in viaggio per terre sconosciute. Solo il tempo gli permetterà di
seguire rotte sicure, di orientarsi nella tempesta. Ma quando è agli inizi ... :
<<... mi diceva: ”non mi importa se non mangi.” Io ci stavo bene. Pesavo 31 chilogrammi!>>;
<<“... se sei ammalata”, concludeva, “è tutta colpa di tua madre.” Già quella mi ossessionava per
il cibo, ora avevo anche un motivo intellettuale per odiarla!>>;
<<... passava ogni giorno nella mia camera di ospedale. Io ero attaccata alla flebo. “Brava, anche
oggi sei salita di 500 grammi”. Lo avrei ucciso>>;
<<... mi sentivo attratta da quel freddo personaggio. Forse ne ero anche un poco innamorata.
Glielo dissi. Il giorno dopo mi fece ricevere da una sua collega>>;
<<“...con il tuo vomitare mi vuoi provocare” - mi diceva. “Certo”, rispondevo io. E lui: “allora vomita
pure”. Una pacchia!>>.
Ne consegue un principio di derivazione logica: chi si rivolge ad uno psicologo per “curare” disturbi
nervosi di tipo alimentare, si accerti, perlomeno, della sua conoscenza in materia.

*****

I Disturbi Alimentari Psicogeni sono, come li definisce il collega Prof. Alessandro Meluzzi, “mali
perbene”. Troppo perbene. Pur fondando le proprie radice nello stesso terreno che produce
alcolismo o tossicodipendenza, sono - appunto in quanto “perbene” - lontani dal dalla “cronaca
nera”, lontani dagli interessi della scienza-spettacolo. Anoressiche e bulimiche muoiono senza dare
fastidio. La società può fare le spallucce. Così pochi, troppo pochi ricercatori si occupano
seriamente del problema. Poche, troppo poche strutture accolgono gli ammalati e le ammalate. Se
bulimia, anoressia, obesità da iperfagia producessero criminalità o - almeno - qualche turbativa
sociale, allora sarebbe una mobilitazione generale da parte di ministri, sottosegretari, deputati,
direttori generali e scienziati in cerca di voti o pubblicità e questo male verrebbe affrontato con
coscienza ed uscirebbe dal sottoscala della scienza. Ma qui si muore senza scomodare nessuno.
Si muore “perbene”.
Quotidianamente ricevo - come ho affermato qualche riga fa - richieste di informazione che
testimoniano del buio che avvolge la vera essenza dei Disturbi Alimentari Psicogeni. Cercherò,
nelle pagine che seguono, di fare un poco di luce.

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Criteri diagnostici per l’anoressia nervosa
(Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders)

• Paura intensa di diventare grassi che non diminuisce col progredire della perdita di peso.
• Disturbi dell’immagine corporea: per esempio, il sostenere di sentirsi grassi, anche se
emaciati.
• Perdita di peso, almeno del 25% dal peso originale; oppure, se sotto i 18 anni, la perdita di
peso dal peso originale, ed il peso che si presuppone si debba acquistare secondo i grafici
della crescita, possono essere sommati per raggiungere il 25%.
• Rifiuto di mantenere il peso corporeo al minimo peso normale per l’età e per la statura.
• Nessun disturbo organico conosciuto a cui si possa attribuire la perdita di peso.
• Negazione della malattia e disinteresse per qualsiasi genere di terapia.
• Ritardo dello sviluppo psicosessuale o, negli adulti, disinteresse per la sessualità.
• Amenorrea.
• Esercizi fisici estenuanti ed ipermotricità.

Indicatori individuali

• Attività sportiva o danza svolta con ossessività.


• Rendimento scolastico o lavorativo eccellente.
• Sentimenti di inadeguatezza e di insicurezza.
• Dipendenza o totale rifiuto della figura materna.
• Pseudosicurezza. Ostinazione. Insofferenza ad accenni al cibo.
• Abuso di diuretici e lassativi.

Decorso e complicanze

• Sintomi fisici riscontrabili: pallore cinereo, acidosi, cute secca, lanugo (capelli da neonato),
ipotensione, bradicardia, ipotermia, riduzione della motilità gastrica, alterazioni enzimatiche del
sangue.
• Il decorso può essere senza remissioni fino alla morte. Studi catamnestici indicano una mortalità
media fra il 15 ed il 21%.

Età di insorgenza

• Dalla prima alla tarda adolescenza, benché si possa situare dalla prepubertà ai 30 anni.
• Il disturbo si presenta prevalentemente nelle femmine (95%). Una ragazza su 250 tra i 12 ed i 18
anni (gruppo d’età ad alto rischio) può presentare il disturbo.

76
L’Anoressia

“Sono Alexia... quando ero anoressica.”

77
Criteri diagnostici per la bulimia (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders)

• Episodi ricorrenti di eccessi nella alimentazione (con consumo rapido di una grande quantità di
cibo in un determinato periodo di tempo).
• Assunzione di cibo ad alto contenuto calorico e facilmente ingeribile durante gli eccessi
(abbuffate).
• Atteggiamento indifferente nel mangiare durante un eccesso.
• Conclusione delle abbuffate per dolori addominali o interruzione da parte di qualcuno o vomito
autoindotto.
• Tentativi ripetuti di perdere peso tramite diete severamente restrittive.
• Uso di anoressizzanti e/o diuretici e/o lassativi.
• Frequenti fluttuazioni di peso di grado superiore a 5 Kg. collegato con l’alternanza di eccessi
alimentari o digiuni.
• Consapevolezza del fatto che le modalità di alimentazione sono abnormi.
• Umore depresso e idee di autoaccusa (sensi di colpa) conseguenti agli eccessi alimentari.

Indicatori individuali

• Laddove la bulimia si presenta dissociata e non collegata dall’anoressia, alcuni individui si


presentano in una fascia di peso normale, altri possono essere sottopeso, altri sovrappeso.
• Attività sportiva o danza svolta con ossessività.
• Tendenza a far uso di barbiturici, anfetamine, alcool.
• Notevole apprensione relativa alla immagine corporea e per l’aspetto in generale.
• Mancanza di attrattiva sessuale.
• Difficoltà familiari e relazionali.
• Isolamento sociale.

Decorso e complicanze

• Il decorso è cronico e/o intermittente su un arco di molti anni.


• Sintomi fisici riscontrabili: aritmia fino ad arresto cardiaco, lesioni esofagee, dei denti e delle
ghiandole salivari, riflussi gastroesofagei e possibili formazione di diverticoli esofagei, ulcere
lineari sull’esofago che possono perforare e condurre alla morte, aerofagia, stipsi ostinata, le
nocche delle dita sono rovinate per aver provocato il vomito.

Età di insorgenza

• Il disturbo, di solito, esordisce nell’adolescenza o nella prima età adulta.

La maggioranza dei casi da noi trattati ha presentato


sintomi combinati di anoressia nervosa e bulimia.

78
La Bulimia

“Sono Federica... quando ero anoressico-bulimica. “

79
Criteri diagnostici per l’obesità da iperfagia (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders)

• Aumento, almeno del 20%, del peso originale.


• Episodi ricorrenti di eccessi nella alimentazione (con consumo rapido di una grande quantità di
cibo in un determinato periodo di tempo).
• Atteggiamento indifferente nel mangiare durante un eccesso.
• Tentativi ripetuti di perdere peso tramite diete severamente restrittive.
• Consapevolezza del fatto che le modalità di alimentazione sono abnormi.
• Umore depresso e idee di autoaccusa (sensi di colpa) conseguenti agli eccessi alimentari.
• Umore apparentemente “solare”, accompagnato - nel profondo - da sensi di inadeguatezza e
colpa.

Indicatori individuali

• Difficoltà di concentrazione.
• Calo dell’interesse sessuale oppure atteggiamento ipersessuato a compensare il cibo non
ingerito.
• Estrema dipendenza dall’ambiente sociale: sempre pronti a “succhiare”, ma anche a dare.
• Insicurezza.

Decorso e complicanze

• Il decorso può essere senza remissione.


• La situazione clinica dipende a) dal grado di obesità; b) dal grado di stress conseguente
all’obesità. Comunque tendenza a disturbi cardiocircolatori e del metabolismo.

Età di Insorgenza

• Nella pubertà fino ai 30 anni.

L’obesa da iperfagia è una bulimica che non vomita!

80
L’obesità

“Sono Irene... quando ero obesa. “

81
Sull’obesità
Non sembra vero: eppure ci furono tempi, e non tanto lontani, in cui una fetta di salame era il pranzo
della domenica. Ci furono tempi nei quali una tavoletta di cioccolato costituiva un regalo di
compleanno. Ci furono tempi in cui gli uomini si ammazzavano per un poco da mangiare.
Oggi, invece, è tutto lì: nell’ipermercato. Basta qualche lira e la droga più a buon mercato del mondo
è disponibile. Ma questo è un dato che il nostro cervello fatica ad assimilare: la fame ha attanagliato
per troppo tempo l’evoluzione della specie uomo. Così - sorretti anche da una robusta “educazione
familiare” (vd. terreno rosso) - accumuliamo.
Introduciamo nel nostro organismo un mare di calorie che non consumiamo. Nasce un tessuto
adiposo che ha il compito di raccogliere indefinitivamente, sotto forma di energia di riserva
(trigliceridi), le calorie risparmiate, per sopperire alle future necessità dell’organismo. Avidi d’affetto,
avidi d’amore, avidi di cibo.
Così il nostro quotidiano è intriso di grasso. Il dire ad un amico: “...ti trovo bene”, significa ti trovo
“abbondante”. Se l’amico dimagrisce allora lo “troviamo male”. Grasso è bello, quindi magro è
brutto (o perlomeno “brutto” perché invidiato!). Ergo dicendo “... sei ingrassato”, c’è in noi in certo
compiacimento, sentimento che manca nel dire “... sei un po’ dimagrito”. Grasso è ricco. Magro è
povero. Il “ giusto”? non esiste. Giusto è ... qualche chilo in più. In quest’era della “linea”, le
sembianze “grasse” vanno acquisite artificialmente: dieta e palestra. Giù il grasso e su la massa.
Quale nonsenso.
Non importa come. Anabolizzanti o cibo: importante non essere “povero”. Le migliaia e migliaia di
anni nei quali l’uomo ha lottato per sfamarsi, hanno creato immagini archetipiche, iconografie del
benessere. Ed il benessere è grasso. Si dice: “... i grassi sono simpatici, sono dei buontemponi!”,
ma non è vero niente:
“L’obeso ingrassa perché mangia troppo, mangia perché ha fame, che però è fame d’affetto. Non
ottenendolo a sufficienza, lo sostituisce con il cibo, che è sempre disponibile. Gli obesi, in genere,
sono insicuri (e perciò golosi poiché il cibo è vissuto come una protezione), poco attivi (tanto c’è
sempre una mamma che nutre), poco ambiziosi (preferiscono la sicurezza dell’impiego al rischio
di lavori più redditizi ma incerti), sempre pronti a chiedere e succhiare (qualcuno li ha chiamati
“sanguisughe della società”), ma anche ad offrire, sempre con la bocca, cioè parlare.” (A. Roversi,
“Manuale medico di diagnostica e terapia”).
Il problema “obesità” investe, stando alle ultime statistiche, il 18 - 20% della popolazione adulta:
stiamo diventando sempre più un popolo di “succhiatori” ad alto rischio ed ad alto costo per la
salute pubblica.

Condizioni patologiche più frequenti negli obesi

• Diabete mellito non insulino-dipendente.


• Ipertensione arteriosa.
• Aumento dei livelli circolanti dei trigliceridi.
• Arteriosclerosi coronarica o cerebrale.
• Disturbi respiratori più o meno gravi.
• Malattie delle ossa e delle articolazioni (artrosi, “ernia del disco”, ecc.).
• Insufficienza venosa degli arti inferiori.
• Ridotta funzionalità del testicolo o dell’ovaio.
• Problemi ostetrici con frequenti ripercussioni negative sul neonato.
• Calcoli della colecisti e delle vie biliari.

Le diete servono a poco. Nessuna dieta supplisce la mancanza d’amore. E nessun dietologo è
formato per fare uscire il paziente dal “terreno grasso” ed educarlo ad un progetto esistenziale che
gli permetta di toccare le origini del suo male!

82
Diete e Disturbi Alimentari Psicogeni

Ci sono medici-nutrizionisti e medici-nutrizionisti: “...in realtà” - scrive il Prof. Pietro Migliaccio,


Libero Docente Scienze Alimentazione, Università di Roma - “molti medici si improvvisano
dietologi, talvolta senza avere neanche sostenuto l’esame di Scienza dell’Alimentazione. D’altro
canto la disoccupazione medica, l’ampia possibilità di lavoro nel campo della dietologia e
l’apparente facilità del compito inducono molti a percorrere questa strada.”
Ma ci sono anche dietologi “veraci” (o forse voraci?) che, sostituendosi a psichiatri, psicoterapeuti o
educatori, e senza nemmeno avere sostenuto l’esame di Psicologia, si mettono sul “ponte di
comando” della barca ammalata e, utilizzando il proprio “carisma” personale, decidono le vie
terapeutiche da seguire e ciò a tutto danno delle ammalate e degli ammalati. Questi “signori della
dieta” non hanno capito che nel “disturbo alimentare nervoso” l’accento va messo - anche se a loro
non piace - sul nervoso, come fa rilevare il Prof. E. Del Toma (Presidente Nazionale ADI) in un suo
intervento al Convegno Regionale dell’ADI-Lazio, il quale afferma che la terapia dei disturbi
alimentari deve uscire dallo “standard della bilancia” e transitare dall’approccio multidisciplinare che
- sempre secondo Toma - deve includere dietisti, psicologi, pedagogisti, assistenti sociali e
sociologi.
Dalla dietologia alle “famose” tabelle-peso, il passo è breve. Ma c’è un primo difetto: le “tabelle”
litigano tra di loro.
Facciamo degli esempi: chi scrive (anni 53, altezza 178 cm) dovrebbe, secondo il “Build and Blood
Pressure Study”, pesare 78,7 kg; secondo il Stat. Bull. Metrop. Life Insurance Company la
maggiore speranza di vita si concreterebbe in un peso di 66,4 - 72,8 kg. La realtà è che il mio peso
reale è di 75,0 kg25. Ohibò ... per gli uni sono troppo magro, per gli altri decisamente grasso (e le
mie speranze di una lunga vita vanno in fumo!).
Lasciamo quindi stare le “tabelle” ed utilizziamo quel granum salis che, se tutto va bene, dovremmo
conservare intatto nel nostro cervello.
Personalmente credo nell’armonia: un corpo sano è un corpo armonioso. Un corpo armonioso è un
corpo bello. E - escludendo ovviamente gli eccessi e le distorture - bello è ciò che piace. Piace: ma
a chi? Anzitutto a se stessi. Un corpo che fa piacere toccare, che riceve e trasmette piacere non
può essere insano, al di là delle “tabelle”.
Se poi teniamo conto che ci rivolgiamo ad un pubblico a dir poco particolare, le “tabelle” hanno il
(dis)pregio di sortire nelle nostre pazienti un effetto-spauracchio, quindi il rifiuto totale di diventare
“normali”: la nostra anoressica (peso 32kg/165cm, 20 anni, ossatura media) avrà ben più di un
mancamento se le verrà indicato un peso forma di 57 kg.
Nel caso specifico, il mio personale granum salis fissa il peso-obiettivo (inorridite dietologi!) in ca.
48 kg. Raggiunto e stabilizzato il peso-obiettivo, sarà poi la ragazza stessa a determinare il proprio
peso sempre, però, in relazione al criterio di “piacere” che ho testé esposto.
Sono cosciente che quanto qui affermato possa essere mal interpretato, quindi pericoloso. Mi
sembra perciò necessario chiarire i concetti che stanno alla base delle mie riflessioni sul peso:

n noi, “normali”, abbiamo con il “fattore peso”, un rapporto diverso di una ragazza o un ragazzo che
soffre di anoressia, bulimia o obesità da iperfagia.
n Per noi, cento grammi sono cento grammi. Per loro cento grammi sono una tonnellata.
n Un eccessivo dimagrimento è per noi fonte di preoccupazione; per loro sinonimo di gioia.
n Per noi il corpo è (o almeno dovrebbe essere) uno strumento di piacere, per loro un’inutile
appendice della mente.

25
I dati sono tratti da Pasquale Montenero, “Dietologia Pratica”, Ed. Ferro - Milano
83
n E’ quindi inutile cercare di far prevalere le nostre ragioni sulle loro: il nostro modo di pensare, di
interpretare e di agire è totalmente diverso.
n Sulle nostre “tabelle” e sulle nostre parole deve perciò prevalere l’esperienza diretta.
n Loro dovranno accettare di fare esperienza di quanto sosteniamo, (come ad esempio “...il corpo
è fonte di piacere, ecc.”). E siccome il corpo è, pur nella sua complessità neuropsicologica, un
sistema che dà a determinati stimoli risposte univoche, adagio adagio, loro, scopriranno che il
piacere deve transitare da un massa corporea consistente e che il piacere si raggiunge solo
nella bellezza e nell’armonia. Capiranno, loro, che il piacere è qualche cosa di degno d’essere
conquistato. Allora e solo allora il comportamento distorto lascerà spazio a movimenti volti ad
ottenere benessere.
n Quando loro avranno accettato e metabolizzato queste semplici verità, le “tabelle” torneranno
negli scaffali degli esperti di statistica e sarà il famoso granum salis a governare le abitudini
alimentari, quindi la vita stessa.

Disturbi Alimentari Psicogeni e conflitti familiari

Introduciamo il tema con un curioso, ma interessante, articolo dal titolo “Per la mamma una figlia è
senza sesso”, apparso su “Occhio Clinico” del febbraio 1996, firmato da Francesco Benincasa,
medico generalista.

Ecco un'adolescente di vent'anni che si presenta dal medico con la madre. E' frequente che una ragazza di questa età
vada dal medico accompagnata dalla mamma? E' normale che una ventenne si rechi accompagnata dal medico per
parlare di un evento che, nella maggior parte dei casi, è sintomo di gravidanza?
Ognuno dei protagonisti dell'incontro raccontato nel caso evita di accennare all'eventualità che la ragazza abbia una vita
sessuale e che quindi possa essere incorsa in una gravidanza.
Se qualcuno l’avesse pensato o se così fosse, la presenza della madre sarebbe comunque un deterrente perché la
figlia ne possa parlare e perché il medico possa indagare la questione. La presenza materna è di per sé garanzia della
inutilità e della inopportunità di affrontare l'argomento.
Più realisticamente, e con un pizzico di malizia, si puo affermare di avere a che fare con un'adolescente ventenne che
forse desidera apparire asessuata alla madre; questa poi desidera dal medico rassicurazioni che la piccola stia bene e
che sia davvero asessuata. Si può immaginare la signora mentre pensa: "Mia figlia è pura e illibata. Lo sa così bene
anche il nostro medico che, di fronte a una amenorrea, non ha nemmeno bisogno di indagare su una possibile
gravidanza".
Nell'incontro seguente la madre chiede un'ulteriore rassicurazione di ordine sociale: visti gli esami che ha prescritto,
forse il medico si è permesso di pensare che la figlia possa essere incinta?
Di fronte al medico di base si svolgono due scontri: il primo riguarda una madre che ha la necessità di dimostrare,
tramite I'intervento del medico, che il recente dimagrimento della ragazza è eccessivo e irrazionale; il secondo
coinvolge una figlia che ha la necessità di sostenere l'innocuità e I'equilibrio della sua scelta.
Quest'ultimo aspetto riguarda la lotta tra un modello di donna-madre, fertile e sessualmente attiva, che ha già
dimostrato al mondo di essere in grado di generare e un modello di donna-figlia, priva di connotazioni sessuali, che
persegue un ideale estetico come un'arma che possa renderla vincente nei confronti della sua rivale. Un ideale da
perseguire anche a costo di perdere la propria connotazione femminile per eccellenza: il flusso mestruale. Ognuna delle
due protagoniste ha messo alla prova il medico e ognuna ne ha sfruttato le conoscenze a proprio vantaggio. (...) La
relazione madre-figlia che si può osservare è paradigmatica del rapporto "seno che nutre/lattante che si nutre" o, in
alternativa, dei comportamenti "esternare amore/introiettare amore".
Si assiste quindi al tipico rifiuto del cibo (ovvero dell'amore materno) caratteristico di alcune adolescenti (...), che
(producono) invariabilmente stati d'animo angosciosi. (...) Certamente, anche se non del tutto consapevolmente, (il
medico) si è accorto della lotta che si svolge nell'ambito di questa coppia madre-figlia, che presumibilmente
continuerà a usare il cibo, le diete, le bilance e quant'altro, come armi improprie di una guerra destinata a
durare ....

84
Eccoci ripiombati nella “teoria del terreno” e nella struttura psicologica di mammà. Una “mammà”
che - in piena buona fede (ed il fatto della “buona fede” non lo sottolineeremo mai abbastanza!) -
non vuole che la figlia (o il figlio) escano dal terreno da lei “seminato”, perché è “il meglio per il loro
benessere” e, in subordine, per la salvaguardia dei “giochi familiari”. A proposito di particolari
dinamiche familiari vediamo cosa scrive colei che é giustamente ritenuta una caposcuola della
terapia di famiglia, la già citata Prof. M. Selvini Palazzoli:

“Modalità relazionali nocive per i figli messe in atto dai genitori, diventarono comprensibili alla luce di esperienze
confondenti o carenzianti da loro vissute nella propria famiglia di origine. Essi non facevano altro che trattare con le
persone più care della loro vita (coniugi e figli) in base ai propri bisogni irrisolti, cercando di mettere nuovamente in atto
con loro quelle stesse strategie che nel passato li avevano protetti da una sofferenza distruttiva nei rapporti con i
genitori e con i fratelli.
Certe, per noi stupefacenti incomprensioni dei bisogni evolutivi dei figli, ci diventavano chiare se ci mettevamo nei panni
dei loro genitori. Professionisti stimati, donne efficienti e responsabili non potevano da genitori diventare – come a volte
sembrava – degli individui stupidi: erano solo dei poveri esseri umani ciecamente posseduti dai propri bisogni infantili
insoddisfatti. Per esempio, un padre può, con sottili comunicazioni analogiche, chiedere alla propria bambina di
fungergli da madre/moglie, restando del tutto inconsapevole di farle perdere così il suo diritto infantile a essere accudita
e vezzeggiata.
Con la seduttività della propria depressione egli può indurla, ispirandole un'ansia intollerabile, in un ruolo che la renderà
per sempre invisa alla propria figura di attaccamento, sua madre. Eppure quel padre cerca solo di dare un breve sollievo
alla lunga attesa, mai soddisfatta, di essere compreso e consolato nella propria anima bambina. Consolazione non
ricevuta dai propri genitori, presi a loro tempo da analoghe difficoltà, e promessagli successivarnente dalla moglie, da
cui aveva sperato il dono di una riparazione delle sue passate carenze. Ma purtroppo, gradualmente, la moglie si era
tramutata in una creatura lamentosa, colpevolizzante, rivendicativa o depressa, incapace di fornirgli calore. E’ in questo
momento che la giovane figlia diviene attraente per lui, che la sente intuitiva dei suoi bisogni, in quanto che la ragazza
solidarizza con lui nel vedere nella madre la stessa incapacità di tenerezza che lui patisce. Ma in realtà essa è resa
seducente anche al suo proprio anelito a essere accolta.
D'altro canto, che cosa mai poteva aver deformato a tal punto una giovane sposa che era apparsa così promettente?
Possiamo facilmente immaginarlo. Anche lei, nella sua parte bambina, aveva vagheggiato di ricevere dallo sposo quel
riconoscimento, quella stima, quella libertà, quella fiducia, quel rispetto che nella sua famiglia, nonostante i suoi sforzi,
le erano sempre mancati... Ma nulla, o ben poco, delle sue aspettative profonde si era avverato. I compiti, specie con la
nascita dei figli, erano divenuti sempre più pesanti, la sua capacità di essere all'altezza sempre più esausta e,
conseguentemente, l'apprezzamento e il sostegno del marito sempre più scarsi... L'evidenza del dolore infantile
nell'adulto genitore è qualcosa di sconvolgente, che spesso ci ha colto impreparati.26

Ho voluto arricchire il tema “conflittualità” con lavori di altri Autori che, se da un lato ben evidenziano
il concetto di “terreno”, dall’altro potrebbero far nascere il sospetto che le nostre bulimiche,
anoressiche ed iperfagiche, siano degli agnelli sacrificali: miti creature, mansuete, appunto, come
gli agnelli. Ma di fatto non è così. Nel loro carattere cova la rabbia. Una rabbia ingiustificata, se
osservata da un profilo razionale.
Una rabbia che non fu espressa quando l’ambiente era “rifiutante” o “opprimente” e causa di ansie
abbandoniche; una rabbia che copre ancora forti sentimenti d’angoscia e di paura, ma che le
ammalate si rifiutano di vivere, di esternare. Perciò i rapporti con i genitori e con gli oggetti d’affetto
in genere, sono intrisi di aggresvitià, di rabbia che si trasforma in sadismo o sadismo-orale 27:

ansia d’abbandono è angoscia è rabbia è sadismo.

Ciò che ne consegue è un regime di terrore. L’ammalata pretende l’accondiscendenza:


un’accondiscendenza anche nell’assurdo: “... io ho dei genitori ottimi, mi vogliono tanto bene.

26
M. Selvini Palazzoli, S. Cirillo, M. Selvini, A.M. Sorrentino, “Ragazze anoressiche e bulimiche”, Ed. R. Cortina.
27
Sadismo orale: fare male con le parole.
85
Mi hanno comperato un frigorifero tutto mio e lo tengono sempre ben rifornito!” (Francesca, 17
anni, bulimica).
Ma anche quando le relazioni all’interno della famiglia diventano una variante dell’inferno dantesco,
la madre o il padre oppongono enormi resistenze alla terapia del figlio o della figlia (e se non sono i
genitori, sono mariti, mogli, fidanzati o fidanzate). La malattia serve. Serve - lo abbiamo già detto - a
mantenere inespressi, in un gruppo familiare patologico (o una relazione patologica a due), i disagi
del singolo-che-interagisce-con-l’ambiente ed a scaricarli sull’ammalata.
Serve la malattia! Serve a mentenere mamma-protettrice nel ruolo di mamma-protettrice. Serve a
dare un reale motivo d’essere alle ansie di mamma-apprensiva. Serve a dare risonanza alla voce di
un padre che - senza quella figlia - ben poco avrebbe da dire. Serve all’impotente per assumere le
sembianze del “virile”, si “mette“sopra” e domina la sventurata con il suo potere. Serve.
E’ quasi come se, all’interno di queste famiglie, il senso d’onnipotenza (che è proprio di
anoressiche e bulimiche) fosse divenuto contagioso. E torna ... torna sempre a galla la storia-
dell’amore-che-può-guarire-ogni-malattia.
Quando mai capiranno, queste madri, questi padri, questi mariti o fidanzati, che il nucleo, la causa
vera della malattia risiede proprio in quel legame che chiamano inpropriamente amore? Quando
scopriranno che dentro questo genere d’amore cova, solo ed esclusivamente, un enorme egoismo?
Amore. Egoismo. E sotto .. l’ammalata. Onnipotente anche lei. Lei, ormai, sa “sfruttare” le tensioni,
le presunzioni, le disperazioni, gli strani legami: ma su quel “terreno” non guarirà mai! Ed è questa la
sua inespressa volontà! Guai a chi cercherà di rompere i fragili equilibri che governano il suo
mondo. Risponderà sempre con ansia, con aggressività. “Mangia!”, implorano i genitori. Ma non
capiscono che “mangiare” significa, per lei, scendere dal “regno della mente” ed affrontare la
materia, quindi deflagrare l’omeostasi interiore ed affrontare tutte le ansie che hanno prodotto la
malattia: meglio una crisi di nervi, meglio aggredire, meglio fuggire.
E questo perseverare nella malattia genera pietà o nuovo amore. E il frigo sarà sempre pieno e la
madre, pur in lacrime, sempre meno invadente, sempre più disponibile e complice del “non
mangiare”.

*****
In Italia le anoressiche sono ca. 70'000 (e se pensiamo che il 18% non sopravvivono alla malattia,
ciò significa che quasi 13'000 ragazze e ragazzi moriranno di questo male); le bulimiche sono oltre
90'000, moltissime di loro incorreranno in disturbi che ne causeranno il decesso.
Cinque giovani su mille si ammaleranno, anche quest’anno di anoressia e due ragazze su cento
incontreranno la bulimia.
Queste sono cifre nude e crude.
Così, mentre noi ci stiamo arabattando tra teoremi scientifici, loro muoiono. Muoiono senza
chiedere aiuto. Muoiono perché il loro male non viene capito. Muoiono perché non ci sono strutture
per accoglierle. Muoiono, mentre gli “scienziati” litigano per accapparrasi la cura dei Disturbi
Alimentari Psicogeni, senza avere compreso che solo nella multidisciplinarietà sta la soluzione del
problema. Muoiono perché in molte famiglie l’egoismo prevale sul buonsenso.
Ma che importa l’analisi dei “perché”? I “perché” non hanno mai ridato una figlia morta alla famiglia o
una compagna agli amici o una moglie ad uno sposo o una madre ad un figlio. Muoiono. E basta.

86
Parte II

Il “Progetto Crisalide”

Cap. 5 - La vita è la materializzazione di un pensiero

Sbaglia chi crede che il pensiero28 sia una cosa assolutamente astratta: “Non esiste alcuna
opposizione tra idee e organi: pensiamo con un organo del nostro corpo, fatto di cellule viventi e
sensibili a tutte le modificazione del nostro interno equilibrio psicosomatico. Possiamo anche
affermare che pensiamo con il nostro corpo, non soltanto perché il pensiero, con il suo aspetto
emotivo, fa sentire a distanza la sua influenza sul corpo, ma perché il nostro corpo, con i suoi
organi, è presente nel cervello sotto la forma di quelle immagini elettriche indotte attraverso i
messaggi dei sensi.29”
In altre parole: noi pensiamo ed il pensiero si trasforma immediatamente in materia. Così il pensiero
è fisico: tensione muscolare, calore, freddo, ritmo cardiaco, sensazione di oppressione o di gioia.
Ma - mentre in natura - distensione è sempre gioia e tensione è sempre dispiacere, nel Vivente
Umano le cose cambiano. Il “cassetto del pensiero” e non la realtà inequivocabile determina il
vissuto. E il “cassetto del pensiero” processa in modo molto singolare i messaggi che giungono sia
dall’esterno che dall’interno del Vivente.
L’equazione

(stimolo) x = (comportamento) x

trova raramente riscontro nell’agire dell’uomo. Essere umani significa essere soggettivi. E la
soggettività umana è “effetto” delle idiosincrasie30 che si sono ancorate nel “cassetto del pensiero”.
Per meglio capire cosa intendo per soggettività voglio ricorrere ad una metafora:
se, ad esempio, applicassi all’occhio di un neonato delle lenti a contatto colorate, la sua percezione
verrebbe falsata dal colore delle lenti; così - se le lenti fossero gialle - non potrebbe capire il
concetto di grigio o di nero e confonderebbe il blu con il verde. Sarebbe comunque certo che la sua
“visione” è l’unica possibile; l’unica vera.
In ugual modo il “cassetto del pensiero” analizza situazioni, stimoli, movimenti (azioni) e “vissuti”.
Pertanto le risposte (azioni) che seguono un senso di realtà alterato saranno - ovviamente - alterate
quanto alterato è il senso di realtà. L’analisi cognitiva o intellettuale delle risposte inadeguate
produrrà - da qui - poco o alcun effetto (ricordiamo le lenti colorate). Ne deriva che un’azione
oggettivamente inadeguata, ma soggettivamente corretta, può essere modificata soltanto
attraverso una “nuova” soggettività.

Torno a fare esempi: se una ragazza di 17 anni, alta cm. 168, 35 chili, ritiene il suo peso adeguato,
incorre in un errore oggettivo di valutazione della realtà. Soggettivamente - però - si dirà adeguata.
A niente serviranno comunicazioni oggettive relative alla situazione-peso, poiché - il “cassetto del
pensiero” - ha stabilito che quel valore è consono alle necessità globali del Sé.
Cosa è successo? Se il “terreno” sul quale ha prosperato quel determinato tipo di Sé è - ad
esempio - di tipo “blu”, allora questo specifico Sé negherà tutti i “bisogni” connessi, in modo

28
Vd. anche Waldo A. Bernasconi, “L’uomo a cassetti”, op. cit.
29
Paul Chauchard, “La nostra mente”, Ed. Sansoni.
30
Idiosincrasia: mescolanza di interruzioni ed introietti che determinano il carattere, vd. anche “Il carattere”, pag. 32 e segg.
87
diretto o indiretto, alla sensorialità, quindi alla percezione della fisicità propria e di quella degli altri.
(Ricordate? Il Sé-fisico, la materia abbandonano; la mente no!).
Nel Sé si sviluppa ora una vera e propria lotta tra “istanze”: da un lato la psiche che nega i “bisogni”,
dall’altro il corpo che soffre ed esige l’appagamento dei “bisogni” stessi.

La psicologia mette la mente dello psicologo (un nemico!) a confronto con un’altra mente. E la
“mente psicologica” è destinata a soccombere di fronte ad un “cassetto del pensiero” corazzato e
strutturato, poiché non saprà far altro che fornire alternative intellettuali a, seppur soggettive,
certezze del Sé. Quindi - ed è un fatto dimostrato - l’approccio psicologico raramente si rivela
vincente nella cura dei Disturbi Alimentari di tipo Psicogeno. Più utile allearsi con la parte sana del
Vivente: il corpo.
E’ su questi presupposti scientifici che ha mosso i primi passi, quello che più tardi prenderà il nome
di “Progetto Crisalide”.

*****

E’ l’inizio degli anni ’70. Una ragazzina di 16 anni, che chiamerò Ornella, figlia di una mia paziente di
tipo “blu/verde”, seduta di fronte alla mia scrivania, mi osserva con aria di sfida. E’ alta un metro e
sessanta; peserà, si e no, una trentina di chili. So tutto di lei: è brava a scuola, educata in famiglia,
ottima nello sport. Ma, da qualche mese, ha smesso di mangiare. Lo “scheletrino” è addobbato con
la classica “divisa da anoressica”: pulloverone girocollo, jeans ultralarghi, scarpe da ginnastica. Mi
punge con lo sguardo e declama: “... sono ammalata; voglio rimanere ammalata perché sto bene
così. Poi non sono come mia mamma che si fa strizzare il cervello. Detto questo posso anche
andarmene!”. Roba da fare perdere la pazienza ad un Santo. Figuriamoci a me! Comunque non mi
scompongo più di quel tanto. La provoco con voce tagliente: “... mi sa che ti ci vuole un
cambiamento d’aria, visto che l’ambiente in cui vivi è inquinato da una mamma nevrotica e
bisognosa di uno strizzacervelli!”. La reazione è del tutto inaspettata: “Credo che hai ragione, in
quella casa non resisto più!”.
Ora si poneva il problema sul come avrebbe dovuto avvenire il prospettato “cambiamento d’aria”.
Pensai a casa mia: da anni funzionava da “porto tranquillo” per vari pazienti problematici provenienti
però dall’area della tossicodipendenza. (A questo punto è anche doveroso ringraziare i miei
congiunti per lo spirito di collaborazione dimostrato in quegli anni. Mia figlia aveva pochi anni di vita,
eppure, a modo suo, mi era di prezioso aiuto!). Tornando al dunque: fino a che punto - mi chiedevo -
il modello educativo che applicavo alla tossicodipendenza sarebbe stato trasponibile alla
rieducazione alimentare? Congedai Ornella ed entrai nel mondo delle riflessioni.
Tossicodipendenza, anoressia e bulimia vengono prodotti dallo stesso terreno relazionale.
Dipendenza è sempre dipendenza: in eccesso o in difetto. Lo schema doveva quindi funzionare.
Il giorno dopo Ornella entrò a fare parte della mia famiglia. Visse in casa mia per quasi 6 mesi.
Apprese nuovi modelli comportamentali, scoprì schemi esistenziali fino ad allora a lei sconosciuti.
Capì l’importanza dei “movimenti” e dei “bisogni”. Poi tornò alla “base”. E la “base” deflagrò. Molto
semplice: quella “bella famiglia” si era nutrita per anni delle sostanze vitali della madre. Quando
questa, dopo un’analisi durata ca. 18 mesi, ruppe gli schemi ed iniziò a vivere con criteri
bioeconomici, il “sistema” cercò una nuova vittima. Fu il turno di Ornella. Anoressia nervosa.
Guarigione. Il sistema dovette adattarsi, mettersi in discussione. Terapia di famiglia. Oggi Ornella è
sposata ed è madre di una bella bambina. Suo padre e sua madre vivono l’uno accanto all’altra
un’esistenza felice. Sono individui che si collocano al di fuori del concetto di “amore=stampella”!
Da allora anoressiche e bulimiche hanno continuato a transitare dalla mia abitazione. Vivendo a
stretto contatto con la loro malattia, sentendo i loro pensieri e le loro paure, osservando i limiti

88
del loro percepire e di conseguenza del loro comportamento, appresi il funzionamento della loro
meccanica psichica. Alleandomi con le pretese del loro corpo le vidi rinascere, crescere, fiorire.

I risultati pratici fin qui raggiunti, necessitavano adesso di un robusto fondamento teorico. Mi
vennero in aiuto le mie ricerche sul colore31, ma soprattutto l’esperienza clinica e quel sapere che
avevo acquisito lavorando al fianco di grandi Maestri. Nacque un approccio clinico-psicologico
innovativo: la terapia neoreichiana 32. Ci vollero altri anni di esperienze, di confronti, di dubbi, di
certezze, di ricerche prima di arrivare al “Progetto Crisalide”: ma proprio in questo “progetto” è
confluita tutta la sapienza mia, dei miei collaboratori e di quei colleghi che hanno fatto propria la mia
proposta terapeutica.
La Scuola Neoreichiana non è una scuola psicologica stricte sensu, ma agglomera nel suo interno
le conoscenze dell’antropologia, della psico-antropologia, della psicologia sociale, della medicina
generale e di quella psicosomatica. Ecco perché può anche uscire dall’area propria della
psicologia e muoversi nel campo dell’analisi esistenziale e della rieducazione.

31
Waldo A. Bernasconi, “Colore e bioenergia”, Ed. Ottaviano.
32
L’approccio terapeutico neoreichiano è rappresentato dalla Scuola Internazionale Neoreichiana che, fondata in Svizzera nel
1985, ha oggi sedi di studio e scuole di specializzazione in Italia, Francia, Germania e nei paesi dell’est europeo.
89
Dalla teoria alla pratica rieducazionale

E’ un fatto inconfutabile che un comportamento non rinforzato nel tempo o dall’ambiente si estingue;
per contro un comportamento può essere indotto nel Vivente, se il tempo o l’ambiente lo premiano.
L’essere umano è un sistema a retroazione:

Ed è appunto attorno alla qualità della retroazione che si svolgono i temi afferenti a salute e malattia.
Questa verità, già intuita da John B. Watson nei primi anni del 1900, si colloca alla base di qualsiasi
concetto di apprendimento e di evoluzione o crescita, coinvolgendo non solo il micro (quindi
l’essere umano), ma anche il macro ossia la società che egli stesso permea e dalla quale è
permeato. Ne deriva un semplice assioma: modello societario, cultura ed ambiente condizionano e
sono condizionati dallo psichismo individuale (comportamento individuale); da qui una società, una
cultura bio- e sociopositiva influisce sullo psichismo e sul comportamento, quindi direttamente sulla
salute umana.

Il nucleo del “Progetto Crisalide” è perciò costituito da un ambiente nel quale l’individuo può
esprimere appieno le proprie peculiarità, ma deve - contestualmente - servire alla socioeconomia
del gruppo al quale appartiene. E, come più volte sperimentalmente dimostrato, il “gruppo” (o
appartenenza) non ne vuole sapere di comportamenti sterili o abiogeni o comunque sottesi a
minarlo nella sua stabilità. Il gruppo può essere - negli umani come negli altri primati - fonte di
piacere o di frustrazione. Il gruppo può appagare i bisogni del Sé aprendo la via alla distensione
(piacere) o ignorare le aspirazioni del singolo. Ma il gruppo, come scrive Carl Rogers, può essere
anche un importante elemento terapeutico, considerato che solo in un gruppo che si comporta in
modo bioeconomico, quindi sano, diviene possibile il soddisfacimento dei bisogni: “Mi sembra che
il gruppo sia come un organismo, che possiede il senso della propria direzione anche se non la
può definire intellettualmente. E’ la reminiscenza di un film di medicina che mi aveva fatto
un’impressione profonda. Era una ripresa al microscopio in cui si vedevano dei globuli bianchi
che si muovevano a caso nella corrente sanguigna; a un certo punto compariva il batterio di una
malattia; essi allora si muovevano contro il batterio in maniera che potrebbe essere definita
soltanto con il termine intenzionale. Lo circondavano e gradatamente lo inghiottivano e lo
distruggevano, per tornare poi a muoversi a caso. Analogamente, mi sembra che nel suo

90
procedere il gruppo riconosca gli elementi malati, si concentra su di essi, li rimetta a posto o li
elimina, per avviarsi poi a diventare un gruppo più sano. Intendo dire in questo modo che a ogni
livello, dalla cellula al gruppo, ho visto espressa la saggezza dell’organismo33”.

Inquinamento e disinquinamento

Un giovane papero naviga tranquillo sulle acque di un grande stagno. Non ha coscienza, poveretto
lui, che la superficie è inquinata da larghe chiazze di petrolio. Finché un giorno fatica a prendere il
volo: le sue piume hanno perso la loro leggerezza. Panico si impadronisce di Baby Papero. Poi -
finalmente - qualcuno si accorge del flagello che si è abbattuto su quell’ecosistema. Preleva il
papero dallo stagno, lo ripulisce amorevolmente e poi lo getta nuovamente nello stagno: “... passo
tra una settimana per ridarti una pulitina...”, e se ne va. Papero non conosce altri luoghi che quello
e, pur potendo volare, preferisce rimanere in un habitat sporco, avverso, ma conosciuto, piuttosto
che avventurarsi verso l’ignoto.

Appurato che ogni nevrosi è il prodotto di un sistema; stabilito che il comportamento


nevrotico è una risposta a quello specifico sistema, allora constato che psicologi,
psichiatri, psicoterapeuti, dietologi, medici e le istituzioni sanitarie in generale, si
comportano come pulitori-di-paperi-che-vivono-in-stagni-inquinati. E ciò non ha senso
alcuno.

Rieducare, riabilitare o curare devono perseguire uno scopo primario: quello di rendere il paziente
abile a imporre all’ambiente che lo circonda la propria individualità. Una individualità che è fatta
soprattutto di bisogni, di ambizioni, ma anche di sogni e di aspirazioni. Ogni individuo deve avere il
diritto di realizzare se stesso: realizzarsi con piena libertà di scelta; dentro o fuori il sistema
d’origine. Ogni essere umano possiede un corpo. E la consapevolezza di possedere un corpo va di
pari passo con la disponibilità ad ascoltarne i segnali. Ma questo vale per i “corpi” sani ed
armoniosi. Quando il corpo è emaciato, scheletrico, gonfio, allora i suoi messaggi non sono più
immediati, ma vanno letti per analogia. E quel corpo sarà perdente. Perdente perché l’ambiente,
con le sue regole, la sua morale, le sue prescrizioni, la sua etica e le sue leggi si mette al di sopra
del corpo. E decreterà: “... siccome sei ammalato, NOI (l’ambiente) ti guariremo, proteggeremo,
ameremo, ti rimetteremo in sesto. Diverrai sano COME VOGLIAMO NOI e riprenderai il tuo posto
nel NOSTRO sistema!”. Il corpo dirà allora “... no!”. Ma a nulla serviranno le sue proteste. Lui è
ammalato, lui è disarmonico, lui è fragile. Bene. E’ il momento della mente. Mente è raziocinio,
mente è regole, mente è egoismo, mente è pseudostabilità, è intelligenza artificiale (quella vera è
quella del corpo!), è disponibilità al compromesso. Mente è Stato, chiesa, famiglia. Quindi mente è
bene. E mentre il corpo muore imbottito di “pillole della felicità”, la mente trionfa. E trionfano i pulitori-
di-paperi-che-vivono-in-stagni-inquinati: “...avete visto che si è ben reintegrato?”. E tutto l’ambiente
vive felice e contento. Che importa se, giù nei “cassetti”, nelle profondità dell’organismo, l’energia
ingorgata, fredda o bollente, prima o poi ucciderà il Vivente? “La morte è la logica fine della vita!”,
decreterà l’Ambiente. Ma forse qualche morte è intempestiva, forse l’appuntamento con la Dama in
Nero avrebbe potuto essere rinviato.

*****

Nel ’68, o giù di lì, qualcuno di noi fece l’errore di credere: credere in un mondo nuovo, in una civiltà
civile, credere nella libertà. Errore. Finita la battaglia, il sistema si presentò più reazionario che mai.
Il lupo perde il pelo .... e si traveste da agnello. Ma sempre lupo è. Il sistema vive delle nostre
infelicità, quindi - coscientemente o non - è tenuto a limitarci, a sottoporci a costrizioni, quindi a

33
Carl Rogers, “Gruppi d’incontro”, Ed. Astrolabio.
91
renderci infelici. Nella felicità il sistema crolla. Nella felicità l’assistenzialismo non ha più scopo
d’essere. Nella felicità nessuno sta perennemente sopra, poiché la felicità è sinonimo di
complementarietà, di mutualità quindi di bio- e socioeconomia. E il sistema socioeconomico si
regola da sé: non ha bisogno di carabinieri, leggi, polizia, finanzieri, ordinamenti, vigili urbani, multe
e galere. Non ha bisogno di uno Stato che uniforma, di una pseudomorale che entra nelle famiglie e
insidia l’armonia del Bene e del Male che la natura regala all’uomo al momento della sua nascita.
Però così non deve essere. Nella mia vita ho avuto l’opportunità di vedere mondi sani, anche se
questa sanità viene definita, nel nostro emisfero, primitiva, selvaggia, amorale, caotica o aculturata.
Sarà vero. Però funziona. E funziona nel pieno rispetto del singolo. E non conosce l’odio, la nevrosi,
la malattia psicosomatica. Funziona senza Stato. Funziona senza chiese. Funzione perché la gente
funziona e pensa con il corpo. E, presso questi “selvaggi”, nulla è più importante del sentimento
(quindi del sentire), dell’emozione (quindi dell’esprimere), dell’onestà (ma di quella che non conosce
le regole). Queste sono le verità che ho voluto trasfondere nel “Progetto Crisalide”.

*****

“Crisalide” non è una cura, è un’esperienza. E’ riapprendere. E’ consapevolezza che ieri è ieri ed
oggi è tutto nuovo, tutto da scoprire. Nel “progetto Crisalide” la teoria neoreichiana si trasforma in
modo di vivere. Chi opera nelle unità che si riconoscono nel “progetto” avversa la teoria del
“disinquinare il papero per poi ricondurlo allo stagno puzzolente”. Chi rieduca in osservanza al
“progetto”, lo fa con cognizione di causa; si allea con il corpo, con il vivere, con l’amore, con
l’individualità. Vuole che l’eterna crisalide si trasformi in farfalla.
Conduce perciò l’ammalato fuori dal nucleo inquinato ed inquinante. Propone nuovi moduli
esistenziali, propone una nuova moralità ed un nuova etica, propone la rivisitazione dei luoghi
comuni, propone modelli di comunicazione alternativi, propone l’ascolto del corpo ossia delle
emozioni e dei sentimenti. Propone senza imporre! Poiché “Crisalide” è una scelta e non
un’istituzione o uno Stato o una chiesa o una scuola d’obbligo.

Entriamo nella Crisalide


Come ho avuto modo di descrivere nelle pagine precedenti, l’ammalata di Disturbi Alimentari
Psicogeni è un individuo che - per accondiscendere alle pretese di un ambiente inquinato - ha
cessato di crescere, di portare avanti l’esperienza-vita ed ha scelto, come oggetto d’amore, qualche
cosa di controllabile e fedele: il cibo.

Deviazione dal Tu-mèta verso il cibo ha come prima conseguenza l’interrompersi della gioia e
lo svilupparsi di una depressione esistenziale.

92
Ma mentre si abbuffa o mentre rinnega il “nuovo” oggetto d’amore(-odio), il suo animo diviene triste
e frustrato. Bassa è la stima nelle sue possibilità e di se stessa. Depressione. Tutto diventa difficile.
Oggetto delle ossessioni: il cibo. Ieri. Oggi. Domani. Questa è la crisalide. Questo è il tetro mondo
di un essere che ha delle reali potenzialità, ma ha paura di portarle alle luce, di esplicitarle. Meglio
negare. Meglio affogare.

Sviluppare le potenzialità

Il corpo costituisce il centro dell’esperienza della mia proposta rieducativa. Il corpo ed i suoi blocchi.
Una volta isolata la paziente dal nucleo inquinante, avvengono due importanti modifiche:

1. non è più paziente, ma ospite. Sono estranei alla politica dei “Centri Crisalide” l’approccio
medico-psichiatrico (al quale si ricorre solo nei casi di estrema necessità), quello psicologico
che, se necessario avviene all’esterno dei “centri”.
2. non è più una “ammalata da curare”, bensì un essere umano con grandi potenzialità, tutte da
scoprire.

Con questi presupposti inizia la giornata-rieducativa. Il corpo, sempre lui, è il protagonista della
prima esperienza mattutina: la ginnastica biofunzionale.
Già negli anni 30 di questo secolo, Wilhelm Reich ipotizzava la relazione tra carattere e blocchi
muscolari:

“Nella pratica analitico-caratteriale incontriamo la funzione dell’armatura (blocchi muscolari,


N.d.A.) anche sotto forma di atteggiamenti cronici di irrigidimento muscolare. (...) L’armatura ha la
funzione di rendere l’individuo meno sensibile al dispiacere, ma limita anche la mobilità
libidinosa e aggressiva e diminuisce in questo modo la capacità di realizzazione e di piacere. (...)
L’armatura caratteriale consuma energia perché si mantiene con il continuo consumo di forze
libidinose (ricerca di piacere N.d.A.), ovvero vegetative, che altrimenti produrrebbero angoscia.
(...) Ogni aumento del tono muscolare verso la rigidità è un segno che una eccitazione vegetativa,
l’angoscia o la sessualità è stata legata. (...) I pazienti avvertono la resistenza (il blocco
muscolare, N.d.A.) quando impediscono che un pensiero o un moto pulsionale diventi conscio,
una tensione nel cranio, nelle cosce, nella muscolatura del sedere, eccetera. (...)”.

La giornata non può iniziare con l’energia chiusa nei “cassetti”. Con la collaborazione di colleghi
fisiatri e chinesiologi, ho messo a punto una tecnica per lo sblocco temporaneo delle difese
muscolari-caratteriali. Un metodo attraverso il quale i vari “cassetti” si congiungono armoniosamente
permettendo alla bioenergia di scorrere attraverso l’organismo e prepararlo alle esperienze che il
programma rieducativo offre. La riduzione della tensione facilita l’accesso al vivere, quindi alle
emozioni ed ai sentimenti, che accompagnano il Sé attraverso ogni sperienza.

93
Energia verso il mondo: una prerogativa del contatto con il proprio Sé e con l’esterno.

La ginnastica biofunzionale ha inizio con la smobilitazione del cuoio capelluto, della mascella e
della gola, quindi dei segmenti cervicale, toracico (respirazione) ed addominale. Di particolare
rilievo lo sblocco del segmento pelvico, delle articolazioni superiori ed inferiori. L’energia, che ora si
propaga dal “centro” alla “periferia” dell’organismo, invita al contatto con il proprio corpo e con il
mondo esterno. E l’energia “scende” dal “cassetto del pensiero” e vivifica il corpo. Ed il corpo fa
sentire la sua voce.
Dentro la crisalide qualche cosa si muove. Ritirarsi o andare verso? La “bellezza della mente” o la
realtà del corpo? Io verso Tu o Io verso Io? Passano i giorni, le settimane e dentro l’involucro serico
cresce la farfalla 34. Ci vorrà del tempo per librarsi nello spazio infinito, nuovo, seducente perché
imprevedibile. Ma quando giungerà quel momento, allora l’universo brillerà di luce nuova e vivere
sarà uno straordinario esercizio di consapevolezza. Sarà poi il senso di realtà e non il “destino” a
guidare la vita. Esistere sarà scegliere. Scoprire nuove dimensioni.

Il corpo ed il Tu

Il Sé ha ora consapevolezza che, senza una conferma dal Tu, la via verso l’appagamento dei suoi
bisogni gli sarà preclusa. Il Tu impera sulla vita del Sé. Al Tu il Sé fa dono della sua energia, ma non
animato da falso altruismo (a proposito: l’altruismo è sempre falso!), ma in quanto egoisticamente
orientato al piacere. Ora è il Tu che “nutre”, che vezzeggia, che soddisfa il bisogno sessuale. Il cibo
è tornato nella sua naturale dimensione.
In lunghe ore di “teatroterapia” e di “educazione alla biofunzionalità”, il Sé ha cozzato contro i limiti
del proprio pensare ed il suo corpo gli ha insegnato a superarli. Ha appreso a sottomettersi ai
desideri del corpo (e del Tu), ad aggredire chi (o cosa) si pone tra i bisogni ed il loro

34
“Progetto Crisalide”; maggiori dettagli relativi ad “Una giornata in un Centro”, vd. appendice 1, pag. 104 e segg.
94
soddisfacimento (ma anche nell’aggressività ha un occhio alla socioeconomia!), a sedurre il Tu-di-
riferimento rispettando l’unicità dei suoi desideri.
Sa discernere tra Bene e Male: bene è distensione, piacere; male è contrazione, malattia.
E’ conscio che dare al Tu è dare a se stesso, poiché anche il Sé è il “tu” di qualcuno. E realizza così
l’armonia duale. L’armonia di due corpi che anelano al piacere. Nel “regno del corpo” il Tu è
sorgente di piacere e non fonte di ansie abbandoniche. Così, quando Sé incontra Tu, ha inizio un
nuovo ciclo vitale: ma se un giorno l’armonia si assopisse, se la dualità divenisse routine, sarà
tristezza e non tragedia. Tristezza per un Tu che ha cessato di confermare, di “amare”; ma sarà
anche il momento di una nuova sfida, una nuova alba. Così “pensa” e vive il Sé della “farfalla”.
“... non mi era mai successo. Mi sono innamorata. Lui è tutto. Faccio cose che prima manco
pensavo. Sai che ho persino imparato a sedurre? Sono triste quando sono sola. Ma ho la
certezza che il “poi” sarà meraviglioso: Il cibo? facciamo delle bellissime cene insieme. A volte mi
viene l’angoscia se penso che potrebbe mollarmi. Farei di tutto per riconquistarlo, ma se proprio
non andasse ... va beh ...dietro l’angolo ci sarà un altro amore” (Maria, 20 anni, ex-bulimica).

Il corpo e la coppia

Il corpo non conosce il “se” ed il “ma”. Il corpo è sì o no. Il corpo non produce sensi di colpa: è un
sistema attualizzante non analizzante. L’intelligenza naturale di miriadi di cellule e di fibre nervose
cerca di orientarsi in un mondo convulso, ma la loro mèta è chiara e si chiama distensione. Credo
che di questa realtà ognuno può fare esperienza, seguendo l’esperimento qui di seguito presentato:

1. mettetevi comodamente seduti e chiudete gli occhi;


2. ascoltate il vostro corpo, il battito del cuore, il ritmo del respiro e cercate di rilassarvi;
3. pensate ad un avvenimento che vi ha dato gioia, piacere ed ascoltate la “risposta” del vostro
corpo (respirazione, battito cardiaco, tensione muscolare);
4. rilassatevi nuovamente;
5. Pensate ora ad una circostanza sgradevole; ascoltate la risposta del vostro corpo.

Dopo questi esercizi di consapevolezza preliminari, indirizziamoci ora verso il/i Tu.

1. Mettetevi, nuovamente, comodi e rilassati. Cercate di lasciare che i vostri pensieri scorrano liberi.
2. Visualizzate ora alla vostra sinistra la presenza di una persona che vi è molto antipatica.
Osservate le reazioni del vostro corpo: lo sentite andare “verso” o “via” da quella visione?
3. Rilassatevi nuovamente.
4. Visualizzate, sempre alla vostra sinistra, una persona che vi è molto simpatica. Osservate le
reazioni del vostro corpo: va “verso” o ”via”?
5. Rilassatevi.
6. Visualizzate ora, sempre alla vostra sinistra, un persona o una situazione per la quale avete
sentimenti ambivalenti. Il vostro corpo si sposta “verso” (uscita dalla diffidenza con movimenti di
sottomissione o aggressione o seduzione) o spinge “via” (uscita dalla diffidenza attraverso la
fuga)?

Provate con varie situazioni, anche scontate (ad esempio visualizzando vostra madre, vostro padre
o mettendoli a confronto [uno a destra l’altra a sinistra], il vostro fidanzato o la vostra amica); se
imparerete ad “ascoltare” l’intelligenza del corpo, avrete scoperto una bussola pressoché infallibile.

95
Perché questo lungo preambolo? Torniamo alla “teoria del terreno” ed alle implicazioni della
caratterialità (quindi della malattia) sulla scelta del partner. Non bisogna escludere che, quando
dalla crisalide emergerà una farfalla, il “contratto di coppia” sia ancora funzionale. A volte il novum,
rappresentato dalla individualità e dalla responsabilità riscoperte, può scontrarsi con i bisogni
nevrotici di protezionismo di un partner immaturo o ammalato di “nevrosi di potere”. Allora il corpo
dirà “no!” alla coppia. In quel terreno inquinato il piacere è impossibile: qui sgorga l’abiogeno
mètapiacere35. L’esile, ma elastico corpo della farfalla, dovrà allora affrontare la prova più difficile:
l’abbandono di una appartenenza maturata “nel male”, per andare verso il “nuovo”, l’“appagante”;
insomma, verso un’ulteriore crescita. Il cambiamento nello psichismo di un uomo o di una donna
segna la fine di molte “belle famiglie”. Mi piace, a questo punto, riprodurre un articolo che, a tal
proposito, ho pubblicato nel 1995 sulla rivista della mia Accademia:

<<“Se ti garba o no, checché ne dica la tua scuola, nel momento che il paziente (o cliente) si affida alle tue “cure”,
assumi implicitamente o esplicitamente la funzione di “comandante della ... psiche”. Accettata o meno la teoria del
transfert, il paziente vede in te la soluzione dei suoi problemi. Se - per caso.- ti occupi di terapia ad orientamento
analitico e non necessariamente vedi nel sintomo una cosa da guarire, ma da interpretare, presto sentirai il “coro degli
altri”.
Gli “altri” sono genitori, parenti, amici, mogli, mariti, amanti del nostro nevrotico che hanno fatto - bontà loro - da
piattaforma all’insorgere della malattia. Inconsapevolmente, per l’amor di Dio!
Questi “altri” vivono l’entrata in scena dello strizzacervelli, dapprima come una liberazione (non dimentichiamoci che il
nevrotico è soprattutto un gran rompiscatole), poi - con il procedere dell’analisi - prendono coscienza che il Nostro non
è più quello di prima, che il suo comportamento diviene sempre più imprevedibile. Ora non accetta più
indiscriminatamente ogni cosa, ma ha scoperto di avere un cervello che pensa e decide in modo autonomo, un corpo
che - ancora prima del cervello - dice “si” o “no”.
Dopo iniziali perplessità il “coro degli altri”, che in un primo tempo ti sosteneva a spada tratta, fa sentire il suo
disappunto, poi la sua aperta ostilità.
L’analizzato, ora in piena “crescita”, quasi vittorioso sulla nevrosi, viene subissato da consigli ed avvertimenti: “attento
a non farti turlupinare!”, oppure “... non sarai innamorata di quello lì!”, o ancora “... da quando vai da quello lì mi sembri
ancora più matta di prima!”.
Ha inizio una vera e propria lotta di potere, non tanto - come si sarebbe indotti a credere - tra noi strizzacervelli e gli
“altri”, ma tra il Sé (ancora fragile dell’analizzato) ed il Sé dei nevrotici che popolano il suo ambiente.
L’idea che esista una persona con una coscienza propria, che non si assoggetta più a regole, a manierismi ed alla
“buona educazione” è, per questi, insopportabile.
Per te paziente inizia qui un periodo difficile: ascoltare te stesso, il tuo corpo, proseguire nel tortuoso cammino verso la
libertà, ergo la salute e l’equilibrio, rivedere quindi l’utilità di ogni singola relazione nell’ottica di una sana economia del
Sé e troncare quei “rami secchi” che riconducono dritti dritti alla “malattia” o riadeguarti alle norme nevrotiche di una
società nevrotica, quindi ritornare nello squilibrio per non irritare quei famosi “altri”? Ora ci vuole fede, fede in te stesso;
ora che sei padrone del “bene” e del “male”, sono necessarie ardue decisioni, decisioni che presuppongono la fiducia
del fatto che, se la scelta dovesse cadere sul “tranciare i rami secchi”, non sarai solo, ma in compagnia del tuo unico,
vero, grande amico: te stesso. Tu, che hai sofferto, che hai preferito la salute alla castrazione sappi che il dire degli
“altri” è la voce della loro disperazione.”>>

Ma non sempre deve finire così. Se la diade (e qui ampliamo il concetto di coppia alla relazione
madre/figlio(a); padre/figlia(o) o amico/amico o amante/amante), è nata nell’armonia, può
proseguire in bellezza. Certo: saranno necessari degli “aggiustamenti”. Qui è importante la
consulenza familiare36 nell’ambito della quale la coppia impara a conoscersi (forse per la prima

35
Mètapiacere: in un sistema dove “forte” è sinonimo di “vittorioso” e dove “debolezza” equivale ad emotività quindi a
personalità perdente, l’azione del Sé verso il mondo esterno sfugge alle semplici leggi biologiche dell’Io-organismico (movimento
é piacere é distensione), per arroccarsi nel mondo delle rappresentazioni. Al criterio di piacere, l’uomo a cassetti, ha sostituito il
concetto di metapiacere: sublimazione delle pulsioni, ricerca di status, dominio costante sulle cose, sul tempo e sullo spazio. Il
metapiacere si sintetizza nell’equazione: POTERE = PIACERE, così che l’uomo è sempre vigile sul proprio campo di dominio. Ne
consegue una struttura vivente ipertrofica e sclerotizzata. Domina l’illusione:” sono quello che rappresento e quello che
posseggo!”. Nel metapiacere la creatività non è fine a se stessa, ma volta alla conquista del potere; la coppia non è simbolo di
gioia, ma di status.
36
Nell’ambito del “Progetto Crisalide” la consulenza (o terapia) familiare costituisce un elemento importante dell’ultimo tratto del
processo rieducativo.
96
volta) al di fuori delle modalità proprie di una reazione opportunistica, “ammalata”. La nuova coppia
non può, né deve più essere dominata da un solo individuo. Nell’armonia duale vige il concetto di
leadership situazionale: lo scettro del comando passa a chi, in uno specifico frangente, ha
maggiore competenza e maggiore esperienza. Il “sopra” ed il “sotto” cessano di esistere: sta sopra
chi ha voglia di assumere responsabilità e, l’altro, che sta sotto, lo fa per libera scelta e non perché
è solo una donna o solo una figlia o - peggio ancora - un ex-ammalato!
Su questo palcoscenico i “buchi neri” rimangono un ricordo. Le situazioni sono reali, la coppia (o la
diade) sono reali, il corpo è reale. Non esistono più i problemi, ma solo le soluzioni!
Ma c’è altro: nell’armonia duale cessano d’essere, in quanto innaturali, concetti come “libertà” ed
“indipendenza”. Nessuno è indipendente da un sistema (bisogno di appartenenza), nessuno è libero
da un Tu che appaga i bisogni di nutrizione, sensoriali e sessuali. Il Sé armonioso ha coscienza
della sua dipendenza e della sua non-libertà. La dualità armoniosa è un punto d’arrivo. E’ la
perfezione del rapporto Io-Tu-Io. E’ la conseguenza dell’unione tra due Sé maturi. Nella dualità
armoniosa vige la trasparenza, la congruenza. Nulla è garantito: il movimento prevalente è perciò la
seduzione; l’attrarre, il condurre al Sé il Tu-di-riferimento. La dualità armoniosa disdegna i contratti: i
contratti distolgono l’attenzione dalla realtà, dal qui ed adesso, nella coppia subentra allora
l’empatia che scaccia concetti astratti quali “rispetto”, “altruismo”, “sacrificio”.

“Mamma, se questo è il vero nome che ti voglio dare. Finalmente trovo la forza di scrivere quello
che penso di te. Non ti ho mai sentita vicino a me. Tu, lo so, mi hai sempre rifiutata fin dalla
nascita. Mi hai sempre detto che non volevi che io nascessi, è stato mio padre a volermi. Allora,
spiegami tu, come posso essere una persona felice pensando che, chi mi ha messa al mondo,
ha fatto una cosa che non le piaceva e ha versato su di me la sua sottomissione facendomi
crescere in modo da sentirmi sempre una nullità e senza fiducia di me stessa. Sin da piccola ti
chiedevo un bacio o solamente una carezza da parte tua, ma la tua risposta era sempre quella
che non faceva parte del tuo carattere ed io, per questo, ne soffrivo molto. All’inizio non ti dicevo
niente. Poi ho provato a dirtelo ma per questo non è cambiato niente. Però una cosa volevo dirti,
anzi te l’ho anche detto, che se il bacio che tu rinnegavi a me te lo chiedeva mio fratello, tu ti
scioglievi come neve al sole e la tua dolcissima risposta era che io odiavo mio fratello e che per
te eravamo tutti e due uguali ed era questa una mia fissazione. Ma io lo so con certezza che non
era una immaginazione. La mia era una realtà. Siccome tu mi hai sempre detto che io odio mio
fratello, vorrei sapere il perché tu, quando entra in casa lui o cambi tono di voce se stiamo
litigando, oppure stai zitta e non vai più avanti. A me queste cose mi fanno salire la pressione al
massimo: io dico “cazzo”; non capisco perché hai paura ad essere te stessa e continuare, come

97
è iniziata la cosa che si sta trattando. E poi c’è una altra cosa che vorrei dirti: chiederti perché tu,
ogni volta che mi trovo con un gruppo di amici, vieni a controllarmi oppure fai di tutto per trovare il
modo che io mi senta una nullità e non esca più e mi richiuda in me stessa. Poi trovi il coraggio di
dirmi che non sono una persona normale e che faccio schifo. E questo, fino ad ora, mi ha fatto
molto male, ma non ero consapevole di quello che avveniva. Ho cercato anche di avere un altro
rapporto con te, cioè tra amiche, parlandoti e dicendoti tutto ma non era un dialogo molto bello. Ti
chiedevo di uscire con me e ogni volta avevi la scusa che avevi mal di testa o altri sintomi,
oppure mi rispondevi che trovassi amici con cui uscire. Ma, cavolo, lo so con certezza che se
facevo una cosa del genere poi tu avevi sempre qualcosa da dire, così io continuavo, come
sempre, a sentirmi sempre più debole e rinchiudermi e sentirmi dentro più vuota. Ora però ti dico
che è arrivato il momento, e la voglia, di ritrovare in me stessa quella forza che non ho mai avuto,
iniziando a dirmi che io sono io, il mio corpo è mio e devo avere fiducia di me ed andare avanti.
QUESTO TE LO GRIDO CON TUTTO IL FIATO CHE HO!”

(Giovanna ha 38 anni, da circa vent’anni soffre di anoressia nervosa. E’ ospite di un centro Crisalide da circa due mesi e
mezzo. Il suo peso era, all’entrata 35,6 Kg. per una altezza di 166 cm. Oggi è salita a Kg.43,2. Con il consenso di
Giovanna riproduciamo fedelmente copia della prima lettera che invia a sua madre.)

Il corpo e la bellezza

Per il corpo la bellezza è armonia, è movimento. Le esperienze con il proprio corpo hanno reso
consapevole la nostra crisalide che bellezza è energia che scorre. A volte “verso” il mondo, a volte
“via” dal mondo e ciò a seconda dei bisogni presenti nel Sé. Il corpo armonioso non è mai brutto o
goffo, non è né obeso, né gonfio, né scheletrico. L’armonia del corpo si trasmette all’anima e perciò
non esiste la “bella dentro” e “brutta fuori”. Nella mia visione corpo ed anima (o psiche) sono un
tutt’uno indivisibile e riflettono all’esterno le loro caratteristiche.
Bellezza diviene espressione del Sé: non uno stereotipo, non un’imitazione, non un modello.
Se l’attenzione si sposta dall’Io-corpo al Tu, allora la bellezza si esprime nel contatto: un organismo
“bello” cerca il calore, l’affetto, la tenerezza di un Tu-corpo armonioso.
E’ sempre stupefacente osservare nei lavori di gruppo, come i corpi cerchino - una volta superati i
tabù di contatto - la vicinanza l’uno dell’altro. E’, d’altro canto, sconfortante il vedere come le culture
monoteistiche, abbiano guastato la bellezza del corpo, infettandola con moralismi innaturali e norme
paradossali. L’“amore” che queste culture predicano è qualche cosa di brutto, di afisico, di
aberrante: è l’amore della mente. Poi c’è chi va ad incolpare gli “stilisti” per il diffondersi dei disturbi
alimentari di origine nervosa.
Quando la bellezza del contatto è negata ed il seme della cosiddetta morale contamina i
meccanismi affettivi della famiglia, quando potenti organizzazioni diffondono, ignorando la
profondità del messaggio di Cristo, il germe dell’amore mentale che - proliferando - contamina i
fragili (ma naturali) psichismi di bambine e bambini formando il “terreno” sul quale si svilupperà il
male alimentare, nessuno si ribella. Meglio gettare fango sull’effimero mondo della moda!
E’ indescrivibile, toccante la gioia e la serenità che esprime il Sé di un bimbo o di un ragazzo (o
ragazza) o di un adulto quando si sente fisicamente accolto, quando sente di potere avere fiducia,
quando sente la bellezza della sottomissione ad un Tu, quando sente il diritto di potere esprimere,
senza vergogna, le proprie emozioni ed i propri sentimenti. Ed ogni volta, quando assisto ad un
incontro di gruppo, non posso a fare a meno di provare rabbia per quel sistema, per quel gigante
dai piedi di argilla che crolla, che perde tutta la sua autorità, che si sfracella con tutte le sue regole,
nel momento in cui due corpi, senza malizia, senza lussuria, si incontrano. Questa è, ne sono certo,
la vera bellezza.

98
Il corpo e la femminilità

Ciò che sconcerta molti visitatori dei “centri” che hanno aderito al “Progetto Crisalide”, è la
femminilità che esprimono le nostre ospiti. La natura ha donato attributi diversi agli uomini ed alle
donne.
Ma, purtroppo, anche di questa semplice realtà, la nostra società ha perso coscienza. E’ ormai
costume che le donne esprimano tutta la loro mascolinità (una specie di animus37 che viene a
galla!), mentre gli uomini vagano nei meandri della confusione, cosicché la loro intimità é imbevuta
di perplessità: mah?, boh?.
Sembra quasi che uomo-uomo e donna-donna abbiano fatto il loro tempo. La “cultura post-
sessantottina” ci vuole tutti unisex: come i vermi o le lumache. E’ ovvio, l’ho già scritto, che questa
specie di nuova fauna, quasi-ermafrodita, favorisce il mimetizzarsi di anoressiche e bulimiche. Loro,
che proprio non hanno voglia di essere donne-donne (ma neanche solo donne), sguazzano in
questo mondo che vive all’insegna dell’unisex. E questa neutralità psicofisica è parte integrante
della malattia. Quindi un tema da affrontare con serietà.
Alcuni ricercatori sostengono che, alcune centinaia di migliaia di anni fa, le donne - come tutti i
mammiferi - entravano, ogni 28 giorni, in estro. L’estro - contrariamente alle mestruazioni - indicava
il momento della fecondità femminile. I maschi venivano attratti dal “segnale” emanato dal corpo in
“calore” e, sviluppando tra di loro una cieca aggressività, competevano per aggiudicarsi il diritto a
fecondare. E’ probabile che proprio questo comportamento ineconomico, che sfociava
presumibilmente con la morte o con il ferimento di membri della stessa appartenenza, sia all’origine
delle modificazioni che sono poi intervenute nel ciclo di riproduzione femminile.
Comunque - in quel tempo - la femmina non necessitava di particolari accorgimenti per essere
oggetto di attrazione: gli stimoli ormonali erano sufficienti a garantire il perpetuarsi della specie.
Torniamo ai nostri giorni. L’educazione ed il costume che vieta alla femmina di essere femmina, ci
ha trasformati in una società di voyeur: per averne conferma è sufficiente considerare la morbosità
con la quale spiamo gli eventi legati al sesso (o alla affettività) di questa o quella star (.. ne è
scaturita sic! una legge sulla privacy); l’insano richiamo che esercitano su di noi il seno
semiscoperto della Marini o le cosce acerbe delle “veline” di quelli di “striscia”.
La bellezza femminile è sempre stata oggetto d’ammirazione, ma tra l’ammirare e lo sbavare c’è
una bella differenza. D’altronde - se le femmine hanno voluto assomigliare in tutto e per tutto agli
uomini (che cosa insulsa - fatto salvo il giusto diritto alle “pari opportunità di lavoro e parità di
salario” - una volta erano sopra loro, e basta!) - ai maschi sono cadute le “palle” e sono cresciute le
“balle”. Mi scuso per questa licenza, ma credo di essere in buona compagnia: non era Leonardo
Sciascia che distingueva tra uomini veri, rarissimi, e la pletora dei quaquaraquà?
Detto questo, torniamo al progetto rieducazionale “Crisalide”. Educare, per me, significa condurre
verso l’armonia della natura, poiché nella natura non esiste il “disturbo nervoso” e, quindi, è dalla
natura - e non dalla cultura - che l’uomo deve apprendere.
In natura, la femminilità e la mascolinità sono condizioni e non ruoli. Ma, malgrado l’attrazione sia
qui condizionata dall’estro o dall’istinto, il gioco di coppia prevede un movimento che per il
bigottissimo “uomo a cassetti” è disdicevole, quasi sconcio: la seduzione.
Per la “morale” sedurre è male. Ma se riconduciamo questo verbo al suo etimo (sedurre = sviare,
composto di sed [via] e ducere [condurre]), ne riscopriamo il valore autentico. Sedurre diviene:
indurre un Tu ad uscire dalla sua via ed accostarsi al mio Sé. La seduzione produce effetti positivi,
bioeconomici: da un lato mette in “movimento” il seduttore, che per essere tale deve possedere un
buon senso di potenza, dall’altro lusinga il sedotto (con un notevole beneficio per la sua autostima).
Ma il movimento di seduzione, tanto comune nelle relazioni naturali, è negletto dai costumi
dell’uomo nevrotico. Perché? Dietro (o dentro) la seduzione si crede sia nascosta quella torva
sessualità simboleggiata dal serpente che sedusse Eva, inducendola al disobbedire agli editti del

37
Animus: sec. C.G. Jung è la parte maschile inconscia presente nella femmina; anima è, per contro, quella femminile del maschio.
99
Divino: “...si aprirono allora gli occhi di ambedue (Adamo ed Eva, N.d.A.) e conobbero che erano
nudi; perciò cucirono delle foglie di fico (perché provarono vergogna della loro naturale nudità,
N.d.A.) e se ne fecero delle cinture. “(Bibbia,Genesi,3.7).
Nella mia ottica Dio è Natura, quindi nulla che sia naturale può essere in contrasto con le Sue leggi.
Sedurre! Condurre via ... portare verso sé. Nel legame donna-uomo ciò che attrae è l’armonia della
bellezza. Ma - riconoscendoci nella nostra origine naturale - non possiamo fare come se il corpo,
quindi gli attributi che distinguono un sesso dall’altro, fossero degli elementi estranei alla seduzione.
Tutt’altro. In ogni cultura è una particolare zona del corpo che assurge a simbolo di femminilità o
mascolinità. Limitandoci alla prima osserviamo, ad esempio, l’importanza che il giapponese
attribuisce ai piedi; la particolare attrattiva che esercita la zona ombelicale sull’uomo arabo; la
sensualità che trasmette il segmento diaframmatico al thailandese; il fascino (non la libido!) dei
genitali sui popoli d’Africa o l’influenza che esercitano seni e cosce nelle scelte dell’uomo
occidentale.
A questo punto la ricetta del “condurre verso sé” è data e, come vedremo, estremamente
terapeutica.
Sedurre significa anzitutto uscire dal Sé ed andare verso il Tu: ma non solo. Significa capire le
esigenze del Tu-mèta (che non sono sempre e solo sessuali), poi sottomettersi: a) al proprio
desiderio di conquista, b) ai desideri del Tu. Il Sé esce così dalla dimensione Io-Io che caratterizza i
Disturbi Alimentari Psicogeni e si proietta, con maturità, sul Tu. Ma sono andato un po’ troppo
veloce. Prima che la relazione Io-Tu-Io possa prendere forma, Tu deve accorgersi di Io. Se quell’Io
è anoressico (nel senso più ampio del termine), proverà terrore al solo pensiero di essere visto
(fantasia: ”se mi vedono sarò rifiutato, abbandonato") e tenderà a camuffarsi, a mimetizzarsi.
Crescere è superare i propri limiti, avventurarsi in terre mai calpestate, andare oltre il consueto,
l’abituale. Allora l’“anoressica” si cimenterà nel calcare le orme di Mae West o l’ “anoressico” quelle
di Rodolfo Valentino. Impareranno ad apparire, ad attrarre, perché così vuole la seduzione.
L’anoressica, la bulimica e l’obesa apprenderanno a sbloccare quelle energie che impedivano loro
di muovere sinuosamente, armoniosamente i fianchi e scopriranno che l’uomo è attratto
dall’armonia del movimento del bacino. Impareranno ad imbellettarsi, a proporsi nella luce migliore,
perché anche gli animali fanno così. Impareranno ad assumersi la responsabilità del “primo passo”
e saranno cosi loro a scegliere i percorsi dell’esistenza: quindi non saranno più accomodanti verso
chi le sceglie, ma critiche nei confronti dei vari spasimanti. Crisalide diventa femmina!

100
Il corpo ed il sesso

A Freud pareva che tutto l’universo girasse attorno ai genitali (errore che commise anche Reich).
Dopo quasi vent’anni di pratica clinica, mi vado sempre più convincendo, che uomini e donne non
sono così monofissati come descritti dalla psicanalisi e da molti mass-media. E’ vero,
l’appagamento del bisogno sessuale è un elemento importante per l’economia del Sé, ma non certo
l’unico. Altrettanto essenziale è l’appartenere, l’essere confermati, il nutrirsi, il distendersi nella
tenerezza di un abbraccio (bisogno sensoriale).
A. H. Maslow giunge a conclusioni simili, affermando che un bisogno soddisfatto non è più un
motivatore di comportamento e permette quindi di salire a bisogni superiori. Precisa però che se i
bisogni inferiori sono minacciati, questo può far regredire nella scala dei bisogni. Secondo
Maslow i bisogni si suddividono in:

• bisogni fisiologici (sec. la scuola neoreichiana: sessualità, sensorialità, nutrizione);


• bisogni di sicurezza (sec. la scuola neoreichiana: bisogno di appartenenza);
• bisogni sociali (sec. la scuola neoreichiana: bisogno di conferma);
• bisogni dell’Io (sec. la scuola neoreichiana: mètapiacere).

A parte la distribuzione gerarchica che la scuola umanistica maslowiana propone (per me è


primario l’appagamento dei bisogni di sicurezza e di quelli sociali, poiché solo così si apre la via al
pieno soddisfacimento di quelli fisiologici), le due teorie - che radicano il loro sapere nell’essenza
naturale dell’uomo - concordano nel fare uscire l’essere umano dalla fissazione genitale per porlo
un gradino più su (o più giù, a seconda dei punti di vista) e ricondurlo alle leggi che governano il
mondo degli animali.
E questo è il modello rieducativo che propongo: il sesso come punto d’arrivo della relazione. Ho
ascoltato storie di ragazzi e ragazze con disturbi alimentari (ma anche quelle di “nevrotici comuni”),
che raccontavano di rapporti sessuali fatti per “dovere”, per la “paura di perdere il Tu-di-appoggio”,
per “accontentare” più che per essere “accontentati(e)” o per “dimagrire”. E da quelle storie
trapelava il disgusto, la disperazione. Il sesso si collocava fuori dal Sé: come se fosse qualche cosa
di estraneo, di “ammalato”, di “sporco”, di “amorale”, ma che comunque si doveva fare e ne ho tratto
tristezza. Una tristezza che mi ricorda l’ambiente dei postriboli, le facce tristi delle prostitute. E ho
preso coscienza che non si trattava tanto di rieducare, ma di informare, di educare:

1. Su quali basi è nato il rapporto con il partner attuale o con i partner precedenti? Se lo stimolo
principale è (era) determinato dall’attrazione sessuale e se è sempre l’attrazione sessuale a
“incollare” il rapporto, allora la coppia è ineconomica e la scarica sessuale precaria.
2. L’orgasmo è il punto di arrivo, di decontrazione del Sé. Hai l’orgasmo? Se sì, bene. Se no, devi
rivedere il tuo rapporto con il sesso (a prescindere dal partner).
3. Il tuo orgasmo coinvolge tutto il Sé o solo il segmento genitale? Se è coinvolto solo il segmento
genitale è segno di sfiducia nei confronti a) di te stesso, b) del tuo partner.
4. Il tuo partner ti dà un senso di assoluta sicurezza: metaforicamente parlando, gli affideresti la tua
vita? Se sì, la scelta che hai fatto è ottima, se in frangenti critici preferisci rivolgerti ad altri (ad
esempio ai tuoi genitori), allora la tua relazione è ineconomica e l’atto sessuale contratto, fine a
se stesso.
5. All’interno dei tuoi rapporti sessuali, appaghi a sufficienza i tuoi bisogni sensoriali (tenerezza,
“coccole”, ecc.)? Se sì, hai una buona piattaforma sulla quale sviluppare un rapporto sessuale. Se
no, l’atto d’amore degenera in “scopata” (scarica precaria).

Approfondiamo il concetto espresso al pto. 3. La maggioranza delle nostre ospiti, ha reali problemi
a vivere appieno la propria sessualità: importanti introietti ingorgano sia la percezione

101
dei loro genitali che le loro fantasie relative alla sessualità. Una prima causa va ricercata nella
mancata identificazione con la femminilità materna. Ma c’è da dire che raramente la madre di
un’anoressica o di una bulimica è una campionessa di sensualità. Poi c’è la questione della
femminilità in generale. Francesca ha 30 anni. A 22 anni si è manifestato il suo disturbo alimentare
che si conclamò con anoressia e bulimia:

“Credo di avere scoperto la mia sessualità solo adesso. Ho avuto la mia prima esperienza sessuale a quattordici anni: è
stato un incubo. Ricordo che era Capodanno. Gli amici dicevano:”...chi non fa l’amore a Capodanno non lo fa per tutto
l’anno”, così, tra un bicchiere di spumante e l’altro, mi ritrovai, quasi per gioco, a letto con Luca. Lui aveva due anni più
di me, eravamo bambini alle prime esperienze. Rammento l’ansia che ebbi nell’affrontare la “grande prova”. La paura di
non essere all’“altezza” si mescolava con il desiderio di provare quel qualcosa di “meraviglioso” di cui raccontano i
romanzi rosa. Fu una delusione. Quando realizzai che avevo perso la mia verginità, mi sentii usata, sfruttata, sporca e
terribilmente in colpa. Non una parola dolce, non una carezza. Decisi che quella sarebbe stato la prima ed ultima storia
d’amore. Poi, a sedici anni conobbi Franco. Fu amore a prima vista. Ma, malgrado tutto l’amore, mi sentivo
sessualmente bloccata: non riuscivo a raggiungere l’orgasmo, non riuscivo a lasciarmi andare. Lui non si accorgeva di
nulla. Io fingevo perbenino. La storia finì cinque anni più tardi: lui mi propose di sposarlo, io gli risposi: “...neanche
morta!”. Poi fu la volta di Alessandro e la storia si ripeteva: avevo paura quando rimanevo da sola con lui, mi infastidiva
se mi toccava i seni. Io nemmeno lo toccavo. Però si “scopava” o, meglio, mi facevo scopare: una cosa terribilmente
noiosa. Non vedevo l’ora che avesse l’orgasmo. La relazione durò qualche anno e fu proprio durante quel periodo che
iniziai a vomitare. Poi ci fu una meteora chiamata Marco. Niente di nuovo. Mi ero abituata a guardare gli altri che
facevano l’amore con me. Queste sono le mie storie sessuali. Conclusioni? Meglio mangiare e vomitare, oppure non
mangiare affatto.
Arrivai così ad un Centro Crisalide. Dovevano rieducarmi. All’inizio tutto mi era estraneo. Non capivo cosa facevo, non
capivo perché dovevo truccarmi, vestirmi da donna, portare delle scomodissime scarpe con i tacchi alti, ancheggiare,
proprio io che, fino a pochi giorni prima, andavo in giro vestita peggio di Giovanotti! Poi mi innamorai: ero in quella che
chiamano seconda fase e potevo lasciare la struttura la sera e durante i week-end. Nella vicinanza con l’uomo che
amo, scoprii il perché di quel “training di femminilità”. Capii, finalmente, che cosa significa essere “donna”, sentire il
corpo, l’eccitazione sessuale. Imparai a stringermi ad un corpo fin qui estraneo, ad accettare i brividi che corrono giù
per la schiena, ad avere fiducia e lasciarmi andare. Imparai che per prendere devo dare, che per essere al centro
dell’attenzione devo sedurre. Imparai ed esplorare con amore i miei genitali. Imparai ad avere un orgasmo. In sintesi:
imparai ad amare!”.

Conquistare la sessualità significa educare il corpo a “sentire” ed a “trasmettere” senza contrazioni


o inibizioni. L’esperienza psicocorporea è costituita da un susseguirsi di situazioni attraverso le
quali il Vivente apprende il limite dei propri transiti energetici, quindi l’essenza dei “cassetti” ed
affina così il proprio senso di realtà. Gli “scheletri escono dagli armadi”: ciò che fu vissuto come
pericoloso, come ostile, appare ora nella sua giusta dimensione. La realtà non può essere rifiutata,
appunto perché reale. La realtà è il palco sul quale si svolge la nostra vita. Negare la realtà equivale
a negare la vita. Usare la realtà è mettersi in movimento. E’ entrare nella sostanza di ogni
“cassetto”: vivere sentimenti, emozioni, istinti, pulsioni. In questo contesto, quella perfetta
organizzazione che ho definito Sé (che è lo specchio dell’interazione psiche/corpo) è chiamata
all’azione, perciò si apre o si chiude, fugge o aggredisce, si contrae o si distende, nell’intento di
preservarsi da danni irreparabili. Negare la frustrazione non equivale, purtroppo, ad evitare i
sentimenti che l’accompagnano. Certo, possiamo negare i sentimenti. Ma quel sentimento negato
diverrà una presenza costante nel nostro “profondo”, un agente inquinante che - traviando il senso di
realtà - ci condurrà verso nuove, forse più importanti frustrazioni. Ed il circolo dell’esperienza diviene
vizioso. Sarà quindi una continua ricerca di “uscite d’emergenza” che, specialmente nella sessualità,
si conclameranno in anorgasmia o in anaffettività o in impotenza o in frigidità o, peggio ancora, in
sadismo o masochismo!

102
Il corpo e il progetto esistenziale

Il corpo è un sistema attualizzante; la mente un’organizzazione tridimensionale, ossia capace di


analizzare il presente attingendo anche alle esperienze del passato. La tendenza del “mentale” è
conservatrice, quindi difficilmente disponibile a proporre nuovi progetti esistenziali che, direttamente
o indirettamente, siano collegabili a situazioni frustranti occorse in passato. Il corpo, per contro, nella
sua tendenza a vivere il “qui ed adesso”, recepisce l’eccitazione propria di una situazione e si dirige
verso l’esperienza. Da questo scontro scaturisce una realtà che ho definito equivocabile 38.
Ma mentre nel Sé governato dalla “bellezza della mente”, erano i fantasmi ad indirizzare l’esistenza,
nel mixtum compositum che nasce nell’alleanza tra psiche e soma, la realtà inequivocabile prevale
sulle ansie, le angosce, le paure. Ed il progetto esistenziale prende forma. Certo, progettare
significa assumere responsabilità, rischi, rivedere - ex novo - le certezze di ieri. Non è più Saturno
ad influire sulle scelte. Chi possiede un corpo non è più solo: è vitale, è gioioso, è disteso, è in
piacere, perché sa che, qualsiasi cosa gli potrà accadere, avrà la forza ed il vigore di riprendere la
partita, di ricominciare - se necessario - ogni volta da capo. Con questa sicurezza ora progetta, si
proietta nel tempo: e questo è l’unico modello di vita veramente vivibile!

*****

Uscire dal “male” significa riconquistare il proprio corpo, la propria disponibilità a gioire ed a
soffrire, a “sentire”. A lasciare scorrere l’energia all’interno del Vivente:

“Il modo di pensare del carattere genitale 39 si basa su dati di fatto e su processi obiettivi; esso distingue gli aspetti
essenziali da quelli non essenziali o meno importanti; esso cerca di eliminare i disturbi irrazionali ed emozionali; esso è
funzionale per sua natura; cioè capace di adattamento, è meccanicistico e non è mistico; il giudizio è un risultato del
processo di pensiero; il modo di pensare razionale è aperto agli argomenti obiettivi perché non può funzionare bene
senza argomentazioni obiettive. (...) Nel carattere genitale, motivo, meta e azione40 coincidono; le mete e i motivi sono
razionali, cioè orientati socialmente. Secondo la loro natura, cioè in base alla loro motivazione biologica primaria, essi
tendono a migliorare le condizioni di vita proprie e quelle degli altri. (...) La vita sessuale del carattere genitale è
sostanzialmente determinata dalle leggi fondamentali naturali che governano l’energia biologica; la gioia di partecipare
alla felicità amorosa degli altri, è strutturalmente spontanea; lo stesso vale per la sua indifferenza nei confronti delle
perversioni (...); si riconosce facilmente per il buon contatto che riesce ad instaurare con i bambini sani; il fatto che i
bambini e gli adolescenti siano prevalentemente interessati ai problemi sessuali, è noto ed ovvio dal punto di vista
strutturale, (ma) nella vita sociale di oggi madri e padri, a meno che non vivano in un ambiente che li sostiene, corrono il
grande pericolo di essere considerati criminali dalle istituzioni autoritarie e di essere trattati di conseguenza (se
sostengono i figli nel loro interesse nei confronti della sessualità). Per esempio una coppia di genitori che permetta che
i propri figli vivano sessualmente, seguendo completamente le leggi sane e naturali, correrebbe il rischio di essere
accusata di immoralità da qualunque asceta che detenga il potere, e di perdere (di conseguenza) i propri figli.
Il carattere genitale segue attivamente lo sviluppo di un processo lavorativo; il processo lavorativo è lasciato andare per il
suo corso; l’interesse è essenzialmente rivolto al processo stesso del lavoro; il risultato del lavoro è un prodotto
ottenuto senza particolari sforzi poiché esce spontaneamente dal processo lavorativo (...) l’anticipazione del prodotto
lavorativo e la rigida prescrizione del processo lavorativo soffoca nel bambino la sua inventiva e la sua produttività; la
gioia biologica di lavorare è accompagnata dalla capacità di entusiasmarsi; il moralismo coatto (invece) tollera solo
l’estasi mistica (ma) non tollera alcun entusiasmo autentico.”
(W. Reich, op. cit.)

38
Realtà equivocabile: ogni “realtà” si manifesta attraverso elementi inequivocabili ed elementi equivocabili. Mentre i primi
sono peculiari della “forma” percepita, i secondi costituiscono il terreno sui cui poggia la nevrosi caratteriale. I primi sono
oggettivi, i secondi soggettivi. La nevrosi nasce laddove l’equivoco primeggia sull’inequivocabile. (Ad esempio: nella
depressione l’equivoco è dato da una costante sottovalutazione del proprio Sé; nella nevrosi ansiosa da un “sentimento” di
costante minaccia del proprio campo di dominio; nell’ipomania da una sopravvalutazione del proprio Sé; nell’ossessione il
soggetto è ossessionato dal pensiero di non avere fatto qualche cosa e, di conseguenza, si sente esposto ad un costante
pericolo.
39
Carattere genitale: eq. di “carattere organismico” sec. Scuola neoreichiana; è la sintesi della perfezione caratteriale.
40
Azione = movimento.
103
Appendice 1
Il “Progetto Crisalide” in azione
Introduzione
La rieducazione prevista dal “Progetto Crisalide”, consta di tre fasi che sono precedute da un breve periodo nel
quale l’ospite soggiorna presso un Centro, al fine di permettere alla direzione scientifica di stabilire accuratamente il
“terreno” (diagnosi psicologica) sul quale è prosperata la malattia alimentare, tenuto conto che questo genere di
disturbi può presentarsi in varie forme cliniche, ossia nevrotiche, ossessive, depressive, isteriche o psicotiche. La
successiva rieducazione, o comunque le direttive rieducazionali, tengono conto dell’eziopatogenesi individuale.

Nella prima fase rieducativa, l’ospite apprende a superare la sintomatologia collegata al suo disturbo alimentare ed
inizia a prendere coscienza dei comportamenti annessi al nucleo della malattia.
Il corpo, quindi i sentimenti e le emozioni rappresentano in questa fase il “bersaglio” della rieducazione. Inoltre è
data estrema importanza all’interazione tra individuo e gruppo. La prima fase può dirsi conclusa quando il
problema alimentare è superato, l’ospite ha raggiunto il peso obiettivo, l’interazione con il gruppo e con il proprio
Sé risulta essere armoniosa. E’ utile fare rilevare che nelle prime settimane di soggiorno all’ospite è vietato qualsiasi
contatto con i parenti più stretti (teoria dell’inquinamento) e che è tenuto a soggiornare ininterrottamente e sotto
costante osservazione nella struttura. Eventuali contatti con l’esterno avvengono alla presenza di un operatore del
Centro.

La seconda fase si impernia sulla socializzazione nel mondo esterno. E’ ovvio che nella realtà del Centro, gli stimoli
sono prevedibili e che - attraverso un accurato lavoro di gruppo - eventuali problematiche trovano quasi sempre
soluzione. Diversa la realtà all’esterno: l’ospite è ora messo a confronto con la famiglia, gli amici o con situazioni
nuove. In pratica soggiorna nel Centro dalla mattina al tardo pomeriggio. Gestirà con la massima libertà41 la
preparazione della sua cena, l’organizzazione dei “dopocena” e dei week-end. Gli ostacoli, che invariabilmente
trova sul suo cammino, sono condivisi con gli operatori e nel gruppo. In questa fase hanno inizio i colloqui
strutturati con la famiglia e, di conseguenza, prende forma il “nuovo” progetto esistenziale. Quando l’ospite avrà
raggiunto la piena consapevolezza delle cause che hanno prodotto il “disturbo” e metabolizzato varianti
comportamentali con le quali ovviare alla reazione ansia è cibo è ansia, è pronto per la terza fase rieducativa.
Condizione sine qua non per l’accesso alla terza fase è - oltre la crescita personale come sopra descritta - il
mantenimento autonomo del peso obiettivo per tutta la seconda fase.

Infatti - nella terza fase - l’ospite tornerà in famiglia o darà il via al nuovo progetto esistenziale. Sarà seguito, nella
sua ulteriore crescita, da operatori esterni al Centro. Gli ex-ospiti di un Centro possono dare vita a gruppi
d’incontro autogestiti (organizzati da Forum Crisalide) e trovare così un costante elemento di supporto alle loro
problematiche.

41
La gestione autonoma del tempo libero prevede che l’ospite sia maggiorenne. In caso contrario le sue uscite saranno monitorate
da un operatore.
104
La giornata di Crisalide

Sono le 0730. E’ tempo di abbandonare il regno di Morfeo ed immergersi in una nuova giornata di
esperienze al cui centro ci sono il corpo, le emozioni, i sentimenti e le relazioni.
Nota: se nel corso della notte si sono presentati problemi, l’ospite è stato assistito da un operatore del Centro o dal
medico di picchetto.

Ore 0745: mens sana in corpore sano! L’esercizio fisico, che noi chiamiamo “ginnastica
bioenergetica”, è inteso a smobilitare le difese psicocorporee ed a favorire un armonioso scorrere
della bioenergia all’interno ed all’esterno del corpo.
Nota: l’intensità di tutti gli esercizi fisici tiene conto del peso ponderale e delle condizioni di salute generali di ogni
singolo ospite. Nella “fase diagnostica” che precede il programma rieducativo vero e proprio, ragazzi e ragazze sono
sottoposti, oltre che a molteplici testi psicodiagnostici, anche ad un accurata visita medica ed ai necessari esami di
laboratorio. Il medico responsabile, unitamente al direttore scientifico, deliberano sull’ammissibilità al Centro di ogni
singolo caso.

Le ore 0800. Colazione: per taluni un momento di stress; per altri un’occasione per recuperare le
energie perdute. La Direzione Scientifica ha messo a punto, in collaborazione con i dietologi del
Centro, un piano alimentare innovativo, che oltre a tenere conto dei giusti rapporti tra oligoelementi,
vitamine, proteine, grassi, calorie e minerali, educa gli ospiti ad una alimentazione “normale”,
fondata sulla cultura gastronomica mediterranea.
Nota: il fabbisogno calorico è calcolato individualmente e adeguato di settimana in settimana.

Tempo di relax. Ore 0900. Ansietà, depressione ed angosce sovrastano il nostro quotidiano e
rappresentano l’epifenomeno di disturbi relazionali o esistenziali più profondi. La connessione tra
tensione psichica e disturbo somatico è conosciuta in medicina fino dalla notte dei tempi. Spinoza
(1632 - 1677) è il primo pensatore a teorizzare le importanti connessioni tra pensiero astratto e
materia. Sulla sua scia nascono gli approcci terapeutici detti psicocorporei, che raggiungono la loro
massima espressione nella vegetoterapia ideata da Wilhelm Reich (1897 - 1957). Più tardi, altri
medici e psicologi trovano nuove vie per intervenire in quei complessi meccanismi che traducono il
pensiero in materia (medicina psicosomatica): tra i molti brilla Johannes H. Schultz le cui tecniche di
rilassamento fanno il giro del mondo e sono conosciute sotto il nome di Training Autogeno.
Attingendo alla metodologia di Schultz nasce un nuovo approccio allo stress che - nel tempo - può e
deve sostituire quell’atteggiamento di paura e di competizione con il sintomo, che ha fin qui
caratterizzato la reazione degli ammalati di fronte ad eventi stressanti, con modalità armoniose e
bioeconomiche.

105
Medicina Verde individualizzata: ore 1000. Laddove possibile e secondo le indicazioni dei Servizi
Medici del Centro, la farmacoterapia è sostituita da trattamenti di medicina dolce (cromoterapia,
biofeedback, riflessologia, massaggi, fitoterapia, omeopatia, oligoterapia, shiatsu o agopuntura,
aromaterapia, floriterapia. A tal proposito si segnala che a cura dell’Autore, l’Editore Mosaico-De
Agostini, ha pubblicato nella primavera 1998, un manuale di Medicina Biologica dal titolo “Come
curarsi con la Medicina Alternativa”).
Come prescritto dai canoni della Medicina Biologica, i trattamenti “verdi” sono frutto di una profonda
conoscenza della “storia” del paziente, il che comporta uno studio individualizzato della personalità e
delle disarmonie presenti e - di conseguenza - uno stretto rapporto tra operatore di medicina
biologica e utenza del Centro.

Natura sanat: ore 1100. Immergersi nella natura, fare attività sportive, passeggiare lungo i dolci
sentieri che costeggiano il Lago, fare esperienza della natura, anche questo è “terapeutico”: un
modo per riscoprire profumi ed emozioni perdute, per ossigenare un organismo spesso
ingrovigliato dalla cultura.

A proposito: un processo rieducativo non sarebbe completo se orfano di esperienze legate al


quotidiano. Rigovernare il proprio alloggio o taluni spazi di uso comune, lavorare in cucina o in
lavanderia-stireria è parte della riabilitazione di un Sé troppe volte “viziato” da sistemi familiari che
poco pretendono e molto danno! Quindi - nel corso della mattinata - sotto la guida degli addetti alle
Relazioni Interne del Centro - vengono espletati semplici lavori di economia domestica, di
economato o giardinaggio. (Un modo anche questo del vivere sano!).

M ezzogiornoetrenta! Altezza, grassi presenti nell’organismo e peso, determinano le calorie da


assumere durante i pasti principali. La tensione che più volte accompagna l’assunzione di cibo e
liquidi viene affrontata con particolari accorgimenti rieducativi, afferenti alla postura, allo sviluppo
delle capacità gustative ed a regole riguardanti una socialità che deve stigmatizzare quegli attimi di
comunione che dovrebbero caratterizzare le relazioni tra commensali.

Il momento di psiche e soma: ore 1400. Chi erano Konstantin Sergeevic Stanislawskij e Jacob S.
Moreno? Furono i precursori della “Teatro-terapia” messa a punto dall’Autore.
Il primo, un autore regista russo, vedeva nell’interpretazione teatrale la massima espressione della
natura, ossia di sentimenti ed emozioni vere (per intenderci: non espresse nel “... facciamo come
se!”, ma realmente vissute dagli interpreti).

106
Moreno - psicanalista austriaco - padre dello psico- e del sociodramma, riteneva - giustamente -
che una scena agita, piuttosto che “raccontata”, come era (ed è) in uso negli studi dei seguaci di
Freud, tridimensionalizzasse il vissuto, rendendolo più agibile alle interpretazioni.
Come Stanislawskij, anche Moreno pretendeva dai suoi pazienti-interpreti un vissuto intenso dei
loro racconti, così da liberare gli ingorghi emotivi che stanno alla base di ogni atteggiamento
nevrotico.
Sulla scorta di queste note storiche ed accenni psicodinamici, eccoci alla “Teatro-terapia”.
Premesso che la disarmonia si àncora nel corpo e non ne permette la libera espressione e che la
malattia è il risultato di emozioni o sentimenti inespressi, nulla come il “teatro” di scuola
stanislawskijana apre la strada all’acting-out del non-espresso, ai cumuli affettivi aggrovigliati dentro
il Sé. L’azione empatica del gruppo (Moreno) è più di un corollario al “dramma”: è un vero è proprio
elemento protettivo.
“Il teatro mi serve da allenamento per il dramma della vita”, dice Monica, una ragazza bulimica
ospite del Centro. Ed è esattamente ciò che la “Teatro-terapia” vuole essere: un banco di prova
protetto per l’interpretazione di nuovi ruoli, di nuovi personaggi che il corpo cova - inespressi -
dentro di sé e che costituiscono il terreno sul quale prosperano le più disparate disarmonie.
Il novum nella “Teatro-terapia” è dato dalla assoluta assenza di analisi o interpretazioni sul
personaggio interpretato. L’espressione è libera, “soggettiva” e ricalca i limiti del protagonista. La
scenografia è perlopiù lasciata alla fantasia del collettivo.
Poi l’“attore” diviene, senza volerlo, l’analista di se stesso, osserva - nel lavoro sul corpo, che è parte
integrante della “Teatro-terapia” - il materiale che affiora, lo interpreta, agisce sulle emozioni che
appaiono alla superficie, disintegra preconcetti ed introietti. Dopo ogni “prova”, la coscienza si
arricchisce di nuovi elementi. Il puzzle della vita, la cui composizione un giorno si interruppe,
riprende faticosamente forma. Ora per ora. Quello che fu lo “sfondo” irrompe nella “figura”. Le
certezze si trasformano in dubbio, poi in nuove, definitive, verità.
Il puzzle si anima: la ragnatela di affetti che costituisce l’universo sociale del protagonista viene
scossa da folate di vento nuovo. Solo i fili più sani ed economici al Sé resistono alla tormenta. E’ in
atto il passaggio da crisalide a farfalla.

Il pomeriggio è inoltre dedicato alle consulenze personalizzate: analisi esistenziali, colloqui di


sostegno, visite mediche.
Pur essendo il Centro una struttura non medicalizzata, il benessere degli ospiti è tenuto sotto
costante monitoraggio. Gli operatori condividono le loro difficoltà, le loro preoccupazioni e le loro
tensioni, mentre il servizio medico vigila sulle modificazioni fisiche che, invariabilmente, un
soggiorno al Centro porta con sé. E’ poi compito dei Servizi Interni del Centro tradurre le indicazioni
dei servizi sanitari in accorgimenti operativi.

Diner. Sono le ore 1930. Musica soffusa, ambiente signorile, lume di candela. Ed ai tavoli ragazze
e ragazzi in abiti chic. Con il diner hanno inizio le attività serali. E la sera, si sa, è il momento della
socializzazione e dello svago.
In controtendenza con le consuetudini legate all’abbigliamento proprie di chi soffre di disturbi
alimentari, che tendono a celare, a nascondere i caratteri sessuali, l’eccessiva magrezza o il
sovrappeso con abiti mal sagomati, eccessivamente informi o di stampo unisex, il Centro esige dai
propri ospiti un out-fit consono a sesso, età e circostanza.
Rieducazione alimentare assume qui un significato ontologico: una revisione esistenziale a 360
gradi. Donna è donna, uomo è uomo e non obeso o bulimico o anoressico. E uomo si comporta
107
da uomo. E donna da donna. Ciò che vale per il vestito, vale anche per il comportamento.
Rieducare ad essere, essere oltre la malattia: questo è uno dei capisaldi della rieducazione
“Progetto Crisalide”.
Chi sa comportarsi da persona sana è, fondamentalmente, sano. A volte le nevrosi sono solo una
brutta abitudine! Allora tuffiamoci nella sanità, nell’espressione della sanità. La risultante sarà un
ambiente relazionale armonioso nel quale prospera l’equilibrio di mente e corpo.

Il Gruppo. Ore 2030. La vita nel Centro educa allo spirito d’appartenenza, alla coesione di gruppo,
alla consapevolezza che Io è nessuno senza un Tu-di-riferimento.
L’attenzione che l’ospite dedicava (o dedica) al cibo, deve essere trasferita. Trasferita, appunto, su
di un Tu. La filosofia educativa dei Centri Crisalide si ispira alla Teoria neoreichiana. Per questa
“scuola” il Sé è la risultante di una lotta tra Io-organismico, ovvero la parte antica, naturale,
armoniosa dell’essere umano e Io-ideale, che è la sede della cultura e della caratterialità. Nell’Io-
organismico prendono forma i bisogni del Sé (nutrizione, sensorialità, sessualità, conferma ed
appartenenza) e si preparano i movimenti (pianificazione, aggressività, seduzione, sottomissione e
diffidenza) atti ad appagare i bisogni stessi. Nel tragitto verso l’appagamento del bisogno, il Sé fa
esperienza di tensioni, emozioni, sentimenti che - nell’individuo sano - divengono il motore che
spinge verso l’appagamento e la distensione.
Nell’individuo disarmonico, per contro, il movimento verso la distensione è frenato o bloccato da
importanti inibizioni, introietti e traumi: un insieme che, pilotato dall’Io-ideale, deforma la realtà ed
induce a movimenti errati ed ineconomici.
Privato dalla sua necessaria distensione, il Sé risponde alla realtà con comportamenti nevrotici e
cumuli affettivi inespressi che si traducono in un allontanamento dal Tu-di-riferimento, quindi dalla
società. All’esterno tutto ciò appare sotto forma di atteggiamenti “strani” o di dolore o ansia o
depressione.
L’analisi della relazione tra l’Io ed il Tu, forma oggetto di esperienza nei gruppi di incontro serali: gli
ospiti entrano in un mondo nuovo, una dimensione reale, un microcosmo in costante movimento,
dove causa ed effetto rispondono ad una realtà fisica più che etica o morale. Vivere l’accoglienza o
il rifiuto, l’aggressività e la sottomissione mette i partecipanti in grado di prendere consapevolezza
dei loro movimenti verso il Tu, della loro interpretazione della realtà, della loro capacità di
distensione. Nel Sé si fa strada la certezza che ogni limite può essere abbattuto ed il Sé acquista
stima e fiducia nei propri mezzi. Presto sarà pronto a rivolgersi con armonia al Tu.
In alternativa alla “terapia dei cinque movimenti”, come viene comunemente chiamato l’approccio
neoreichiano, il gruppo si confronta con la “cineterapia”, che è vivere in comune un’uguale realtà,
interpretarla individualmente, condividere i sentimenti e le emozioni che quel determinato “reale”
evoca, rende coscienti delle peculiarità che fanno dell’individuo un qualcosa di unico ed irripetibile.
Film d’autore, ma anche produzioni leggere, caratterizzano le serate di “cineterapia”: un momento
particolare di incontro, tra il leggero e l’impegnato, ma con la serenità di chi sa che tutto, sì tutto, nei
Centri Crisalide, è funzionale alla crescita, alla rieducazione, al superamento di quegli ostacoli che -
fossilizzatisi nel comportamento - hanno innescato il processo di malattia.

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Buona notte! Sono le 2330. Una ricca giornata volge al termine. Gli ospiti raggiungono i loro mini-
appartamenti, certi che anche durante la notte qualcuno potrà aiutarli se ne avessero bisogno.
Domani un altro viaggio fra mille nuove esperienze. Domani: e se fosse sabato o domenica? Allora
saranno gli “artisti” a prendere il posto degli educatori. Couturier, pittori, scultori, fotografi, visagisti
riproporranno in chiave nuova il tema “Io e il mio corpo”. Oppure sarà tempo di party. Ogni mese gli
ospiti organizzano un intrattenimento serale a tema, ai quali sono invitati amici e conoscenti. O
ancora: capatina al supermercato o visita a una mostra o ad un museo. Ma per adesso ... via nel
mondo del sogno!

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Epilogo

Io non volevo scrivere un libro scientifico e credo di esserci riuscito. A me premeva offrire ad
anoressiche ed anoressici, bulimiche e bulimici ad obese ed obesi da iperfagia ed ai loro genitori,
mariti e mogli, educatori, compagni e compagne, un mezzo pratico con il quale districarsi nel non
sempre comprensibile mondo delle scienze mediche e della psicologia.

Se non fosse per talune peculiarità ambientali e caratteriali, i disturbi alimentari psicogeni
sarebbero una malattia come un’altra. Ma c’è appunto di mezzo quel “se...”. E la vita diventa difficile.
Nelle intricate dinamiche familiari ho sempre incontrato qualcuno che “sapeva” come curare il
proprio o la propria cara, salvo ricoverarla poi nel più vicino pronto soccorso perché “... proprio non
ce la faceva più”.

Ora questo mio lavoro è finito. Ho raccontato quanto le mie pazienti mi hanno insegnato in venti
lunghi anni di pratica clinica.

So che le mie proposte rieducative sono scomode. Scomode per le famiglie, scomode per quelli
che pensano di avere capito tutto.

Ma io non scrivo per farmi degli amici. Io scrivo perché sono convinto che, attraverso un percorso
rieducativo adeguato, si possano salvare vite umane.

Io scrivo perché credo nel lavoro di Crisalide, credo nei suoi collaboratori che investono il loro
tempo libero per rispondere al nostro numero verde (800-546660) o per tenere conferenze nelle
scuole o per visitare medici o per seguire quello che succede sulla chatline del nostro sito Internet
(www.crisalide.com).

Io scrivo anche perché spero che qualche mia parola si configga nella parte sana che c’è in ognuno
e dia il via a nuovi modelli di valutazione per quelli che sono stati definiti i “mali del XX secolo”.

Scrivo anche per i politici e gli amministratori, affinché comincino a prendere sul serio le loro
responsabilità. Responsabilità che dovrebbero concretarsi nella salvaguardia dell’equilibrio sociale
e della salute pubblica.

Sono cosciente che questa carta stampata è una goccia nell’oceano. Ma credo che, a furia di
gocce, anche l’oceano un giorno farà piazza pulita dei luoghi comuni e dei personaggi incompetenti
che speculano sulla vita e sulla morte. Quella altrui, si intende!

L’Autore

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Ringraziamenti

Credo sia giusto ringraziare, a questo punto, chi mi ha dato una mano a compilare questo lavoro.
Anzitutto il mio pensiero va alle ragazze che hanno contribuito a redarre il capitolo “Un occhiata
dentro il male” ossia Federica, Alexia, Stefania, Feliciana ed Irene e quei genitori che hanno trovato
l’onestà intellettuale ed il coraggio civile di proporre i loro vissuti ed i loro errori ad un pubblico
sconosciuto, poi ai miei colleghi ed alunni che mi sono stati preziosi nella compilazione delle
“schede scientifiche”: il prof. Renzo Realini, il prof. Franco Casarin, Il prof. Giovanni Marchioro, il
prof. Stefano Gorghetto, la dott.a Lily Baur ed il dott. Michele Mattia.
Silvia Agoletti, psicologa e coordinatrice di Forum Crisalide e Piero Billari hanno svolto un prezioso
lavoro di verifica e correzione.
Non per ultimo un sentito grazie lo devo alla collega Dr. Ivana Consonni che con amore e attenzione,
cura tutte le mie pubblicazioni.
Spero che tutti loro mi siano accanto anche quando (qualcuno dirà “purtroppo”) scriverò nuove
“storie”.

L’Autore

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Dello stesso autore:

“Cromoterapia”, Ed. Ottaviano, Milano, 1981

“Il BBCT: analisi della personalitàe del carattere”, Ed. IRC-press, 1985, 1991

“Colore e Bioenergia”, Ed. Ottaviano, Milano, 1986

“Il potere della comunicazione”, Ed. Gli Archi, Torino, 1987

“Gloassario di Psicologia delle relazioni umane”, Ed. IRC-press, 1990

“La terapia dei Cinque Movimenti”, Ed. IRC-press, 1992

“ID; storie dell’evoluzione”, Ed. IRC-press, 1994

“L’uomo a cassetti”, Ed. IRC-press, 1996

“Come curarsi con la medicina alternativa”, Ed. Il Mosaico, 1998

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