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Ottavio MIRBEAU

Il giornalismo

Ho trascorso otto mesi, in un villaggio della Bretagna, lontano da Parigi,


in mezzo a contadini e marinai. Per quanto potevo, mi sono mischiato a loro,
alla loro esistenza e al duro lavoro che la contraddistingue. Tutto questo è
davvero salutare, ve lo assicuro, per chi ha i nervi troppo tesi e l'animo troppo
irritato: si sente il bisogno, talvolta, di ritremprarsi nella solitudine e nel
silenzio. Il mio pensiero vagava, senza rimpianto per ciò che mi ero lasciato
alle spalle e le mie uniche preoccupazioni nascevano dal fatto di sapere che,
dopo poco tempo, avrei dovuto tornare al mio lavoro ingrato. Di giorno, non
facevo altro che camminare sulle spiagge, accompagnando in mare i pescatori
; correvo sulle rocce e per le strade e la sera, finalmente, potevo dedicarmi a
rileggere i libri che più avevo amato. Leggevo poco i giornali – soltanto quelli
che il caso trasportava su queste coste selvagge – ma il poco che leggevo
bastava ad affliggermi profondamente. A distanza, in luoghi che non vengono
toccati dai rumori e dalle convulsioni delle grandi città, si giudica meglio ; le
impressioni che se ne ricevono sono prive di malizia, più forti e più giuste, e si
ha il tempo di riflettere e comprendere. Mi spaventai molto quando mi accorsi
che impresa futile e, soprattutto, nefasta fosse il giornalismo, lavoro a cui
avevo dedicato i miei giorni migliori.

Politici screditati e disprezzati, letteratura ridotta alle misure standard


del mercato, arte sminuita ogni giorno a un rango inferiore, generose
aspirazioni soffocate, incredulità dilagante, spazi pubblicitari pagati a suon di
denaro contante o con strette di mano, la franchezza messa a tacere,
vigliaccherie che fanno inginocchiare le coscienze davanti ai sacchi di monete.
Si riduce dunque a questo il giornalismo ? Siamo sicuri che sia proprio così ?
Che sia una cosa che, senza ribellarsi mai, il pubblico si beve tutte le mattine,
visto che gli offre le sue opinioni, le sue preferenze, i suoi disgusti. Sono molti
anni, ormai, che al pubblico non viene concesso altro che questo pasto di
banalità indigeste e di menzogne avvelenate. Come può non accorgersi che lo
stanno raggirando, defraudando e avvilendo ? Quand'è che i lettori
chiederanno al giornalismo franchezza o, detto in altri termini, ciò che manca
dappertutto e che nessuno – né nell'arte, né nel teatro, tanto meno nella
sociologia – riesce a trovare ? Quand'è che i lettori cercheranno un diversivo al
ripugnante spettacolo del mercimonio dei parlamentari, dei trasformismi
politici, delle antipatie che, un tempo, avrebbero fatto litigare, mentre oggi,
seduti fianco a fianco, fanno bere dallo stesso calice e fraternizzare queste
stesse persone fra loro ? Ci vorrebbe una protesta accesa e, all'occorrenza,
persino violenta contro la snervante influenza di Parigi : la città cosmopolita,
quella delle « moltitudini di senza radici », quella che fa a pezzi le anime,
ammazza la professionalità e l'onestà, svilisce le energie, riduce ogni cosa e
ogni vita a pensieri di poco conto. Quando ci si ribellerà ? A quando una
reazione contro gli intrallazzi e il corporativismo, questo ladro di successo che
taglia le ali alle persone migliori, a quelle con più talento, e le ributta giù nella
polvere e nel mucchio delle mediocrità rampanti ?

* * *

Reso anemico dalla sofisticazione del cibo che gli viene dato in pasto,
nauseato dall'odore vomitevole sparso nell'aria da tutte le « cucine » letterarie,
spaccato in due alla vista dello schifo che si sta diffondendo, il pubblico non
dovrebbe cercare altrove che nei giornali, reclamando qualcosa che sappia
almeno di onestà ? [...] Non so. Forse il pubblico è ormai stanco, fiaccato da
tutto quello che viene cacciato a forza dentro i giornali, dove ogni colonna
nasconde un piccolo assalto al suo portafogli, dove ogni riga cela una esca
lanciata verso di lui, dove tutto appartiene al migliore offerente e serve al più
scaltro, dove non si fa che replicare la cupidigia e gli interessi che muovono,
dall'alto in basso, la scala sociale. Si dovrebbe essere stanchi di questi
fantocci che i notiziari mondani fanno passare continuamente sotto i nostri
occhi, di questi buffoni che spopolano a teatro e in tutta la città. Una città
chiusa, che sembra occuparsi soltanto di fantasie di poco conto, nate in
qualche bar, nei club sportivi, agli ippodromi o a teatro. Nulla sembra avere un
reale interesse.

Ma alla fine che succede ? Succede che il pubblico - questo credulone -


non crede più a nulla. Troppo volte ingannato, lui che per natura dovrebbe «
prestare fiducia » è diventato diffidente nei riguardi di tutto. Nel suo disgusto e
nel suo disprezzo include tanto gli uomini d'affari che vivono sfruttando le sue
passioni e i suoi istinti, quanto i pochi cha ancora hanno il coraggio di dire
come stanno le cose. Non vuole più sentire parlare di nulla e di nessuno.
Futilità, infedeltà, venalità : sono diventate queste le virtù ordinarie che i lettori
attribuiscono ormai a quella bella istituzione parigina che si chiama la «
stampa ».

Per il pubblico, il giornalista è semplicemente un tizio che si vende a chi


lo paga meglio. Il giornalista è diventato una macchina da elogi, come le
prostitute pubbliche sono macchine da piacere. Batte il suo marciapiede anche
lui, nelle sue colonne strette, dispensa carezze e parole gentili a coloro che
vorrebbero appartarsi con lui, insulta invece le persone indifferenti ai suoi
appelli e quelle insensibili alle sue stupide polemiche. È ormai diventato un
luogo comune così radicato, quello che vede il giornalista comportarsi in
questa maniera, che nessuno può sperare di trovare posto nella redazione di
un giornale suscitando stima e ammirazione; perché, subito, diventerebbero
sospette.

Visto che tutto si compra, verreste sospettati di avere comprato i


complimenti dei colleghi o di averli, in qualche modo, ricattati. Dunque, anche
le brave persone che lavorano in un quotidiano si trovano nell'impossibilità di
sfiorare questioni importanti che tocchino direttamente problemi di grande
rilievo sociale. Lo si vede nei notiziari economici e finanziari, di cui sono ben
noti i prezzi.

Grazie all'opinione che la gente si è fatta del giornalismo – e grazie


anche alle « bande a parte » di letterati da café, da teatro o da bisca abituate a
considerare il mondo come un nemico, dimenticandosi che cosa sia in realtà il
mondo – il giornalista è diventato scorretto. Si consola facendosi venire ogni
giorno il sangue amaro, acuendo i propri rancori, dicendosi che, dato che non
ottiene il rispetto dovuto a ogni figura regolare in questa società, allora non
deve per forza di cose praticare i doveri e le virtù borghesi. Eppure, malgrado
le polemiche interne che, talvolta, gli irrigidiscono la penna fra le mani,
continua a sprofondare dentro questa massoneria dell'ammirazione reciproca,
fin dentro quella consorteria che attribuisce miraggi di successo, popolarità e
considerazione.

Ho già accennato al sentimento corporativo, a questa forma ipocrita di


indifferenza, questa maschera qualunquista fatta di scetticismo. È proprio
l'indifferenza a guidare tutto, dalla prima all'ultima riga di un giornale.

Noi giornalisti siamo autori di un'opera vana e spesso criminale, perché


la pubblicità che facciamo passa altrettanto rapidamente delle reputazioni che
creiamo con quella pubblicità. Strana epoca la nostra, se è vero che il merito
principale di uno scrittore non sembra consistere nel suo talento, ma nella sua
rettitudine. Strana anche perchè ci capita di stupirci più spesso quando
incontriamo un uomo di buona fede, che quando ci imbattiamo in un uomo di
genio.
Grazie al corporativismo, tutto è posto allo stesso livello delle critiche
sdolcinate e degli articoli di mielosa adulazione. Tutto, uomini e opere. Victor
Hugo viene confuso con Déroulède, Baudelaire con Rollinat, Musset con
Richepin, e via discorrendo. Sono le conseguenze di questo senso di
appartenenza a una corporazione che, a poco a poco, ci hanno tolto i nostri
entusiasmi letterari, le nostre passioni, ma anche le convizioni politiche e il
gusto della lotta e dell'opposizione. Così, sono stati smorzati gli odi, gli odi
fecondi, dietro i quali fioriscono le grandi idee. La bellezza viene dall'amore,
ma anche dall'odio, questo amore dolente e ferito. L'indifferenza, il credo del
giornalismo odierno, è sterile e impotente. Non produce se non opere di
modesto valore, opere destinate a morire con la rapidità con la quale sono
nate. Opere di cui nessuno si ricorderà più. Ecco che cosa è diventato il
giornalismo, oggi, e – badate bene – in un regime di libertà di stampa. Non
mancano i bravi autori, ma il sistema li disperde e li umilia, mettendoli alla
mercé di finanzieri senza capitali, di scrittoruncoli senza padronanza della
ortografia, di politici senza partito, di artisti senza anima.

* * *

Sotto l'Impero, quando la stampa era imbavagliata dal potere, abbiamo


potuto sentire comunque la voce dei grandi giornalisti. Il giornalista, allora, era
qualcosa e qualcuno. Aveva una tribuna di rispetto e un pubblico di lettori
capaci di appassionarsi, talvolta aveva anche una terribile influenza.
Ma oggi, non una voce, non una che infranga questo silenzio assordante.
Quando cambieranno le cose ? Quando ci si deciderà a strappare via questa
morbosa libertà che ci uccide ? Una libertà di meno, in fondo, è poca cosa. Ce
ne hanno tolte di più utili e care.

« Le Journalisme », Le Gaulois, 08.09.1884

http://www.scribd.com/doc/2238901/Octave-Mirbeau-Le-Journalisme-

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