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Linea Italia in Cucina
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Linea Italia in Cucina

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About this ebook

Le peculiarità, i cuochi e le ricette della cucina regionale italiana raccontati attraverso la storia di "Linea Italia in Cucina".
Negli anni '80, dalla passione di 8 cuochi nasceva questo movimento, con l'obiettivo di difendere la cucina italiana dalla Nouvelle Cuisine, renderla più moderna e valorizzarne le caratteristiche.
Il ruolo della rivista "La cucina italiana", i convegni del Touring Club Italiano, la storia di famosi ristoranti, aneddoti e decine di intriganti ricette per scoprire l'attualità della più amata cucina al mondo.
Un fantastico e originale spaccato dell'Italia in cucina, da leggere tutto d'un fiato.

LanguageItaliano
Release dateMay 2, 2012
ISBN9788890692345
Linea Italia in Cucina
Author

Massimo Ghidelli

"I like to explore, observe, get curious"Passionate about tourism, travel and cooking, when Massimo is not out and about with his motorbike he lives in Desenzano del Garda (Italy). His books are printed in Italian, English and German and also available in eBook format on major international platforms.Follow me on Smashwords.

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    Linea Italia in Cucina - Massimo Ghidelli

    IL SOLE, BRERA, LA BASSA

    Si sentivano i suoi passi, mentre saliva la scala di legno, venendo dalla cantina.

    Il rumore tradiva l’andatura dinoccolata (la sua, inconfondibile) con la gamba un po’ trascinata che sembrava manifestare una stanchezza antica, ma più interiore che fisica. In cucina tutti avevano smesso di lavorare e, con l’orecchio teso, ascoltavano immobili. Ma durava solo un attimo quella sospensione, perché ognuno riprendeva subito il rispettivo lavoro dietro ai fornelli, al tavolo o preso dalle mille incombenze che travagliano il lavoro di una cucina. La conoscevano bene quell’andatura e sapevano che, una volta uscito, Franco sarebbe sbucato in sala da pranzo con in mano un salame, una coppa o con una bottiglia tenuta per il collo. Avrebbe raggiunto il tavolo e catturato l’attenzione dei presenti.

    Senza bisogno di affacciarsi e guardare la scena dal vero, tutti lo immaginavano nell’atto di mostrare la bottiglia impolverata a quegli ospiti che, con le mani appoggiate al tavolo e il piatto fumante abbandonato per un istante a sé stesso, si giravano a guardarlo, pronti ad ascoltare le sue illustrazioni. Di fronte a lui questi estranei diventavano dei giovani inesperti, dei novizi alle prime armi, degli aspiranti buongustai imbarazzati e confusi, seppure consapevoli di stare per partecipare a un rito straordinario e molto più grande di tutti loro messi assieme. Qualcosa di più di una semplice operazione da cucina: una liturgia inconsueta dalla quale sarebbe nato un accostamento di profumi, un tripudio di colori, un’esperienza gustativa, un’illustrazione di storia e arte e lavoro; un cumulo di sensazioni di cui far partecipi, in seguito, gli amici più cari.

    Franco Colombani era fatto così. Teneva la bottiglia senza apparente cura, ma in realtà anche la semplice operazione di pulirla dalle ragnatele e rimuovere dall'etichetta la polvere che si era accumulata nel tempo lui la trasformava in qualcosa di sacro. Si metteva in un angolo della stanza, quasi a proteggere la creatura con il suo corpo; nessuno doveva molestarlo durante quei pochi, intensi secondi. Prendeva uno straccio e lo passava con delicatezza sul vetro, come per eliminare lo sporco seppur desiderando di lasciarne una traccia. In effetti, non voleva, non riteneva giusto cancellare i tempi lunghi durante i quali quel vino era maturato, si era fatto pozione, nettare, bevanda pregiata; elemento unico di una tavola in cui si sarebbe accostato a piatti altrettanto nobili e dei quali avrebbe contribuito ad esaltarne le qualità. La bottiglia e la lunga storia che si portava dietro andavano preservati; e così tutta la sua vicenda umana e professionale, la sua filosofia del mangiar bene, l’ossessione della tipicità.

    I ragazzi di cucina, i camerieri, tutti tenevano il capo chino, continuando il rispettivo lavoro; ma facilmente sfuggiva un’occhiata di straforo a quel che lui stava facendo, seguita – fra loro - da uno sguardo d’intesa silenzioso e cauto. Franco si avvicinava al cliente e con le sue mani curate mesceva il vino. Attendeva con silenziosa deferenza il primo responso; ma in realtà erano ben pochi quelli che si avventuravano in valutazioni tecnico-sensoriali, assai rischiose sia a motivo della sua competenza in materia, sia per il carattere non facile.

    Nella sua vita, Franco aveva ricoperto la carica di presidente dei sommelier italiani e poi di quelli mondiali e, seppur senza vanto né ostentazioni, quelle cariche avevano per lui un grande significato: erano una sorta di riconoscimento morale, la presa d’atto di una autorevolezza che non era legata semplicemente a motivazioni tecniche (la capacità di sezionare ogni elemento di ciascun vino, il riconoscerne il nome, il tipo, l’annata), ma al sentirsi parte di un’idea, una storia, un esser dentro (e da protagonista) alla grande vicenda della tradizione enogastronomica italiana. E questa sua autorità la manifestava con gli occhi e lo sguardo severo, pronto a intimidire l’incauto bevitore.

    L’unico che col Franco poteva permettersi considerazioni di ogni tipo era Gianni Brera, scrittore dalla voce tonante e dalla prosa diretta. Ma lui era un’altra cosa. Lui amava questi luoghi; andava dai Santini (a Canneto sull’Oglio), veniva al Sole, girava fra ristoranti titolati e trattorie della peggior specie, purché fossero luoghi veri, sinceri, autentici come la cucina, l’atmosfera e la cultura che proponevano.

    Gioann Brera fu Carlo spesso e volentieri capitava al Sole. Ci veniva perché sia la qualità della cucina che l’atmosfera dell’ambiente (e di tutti gli altri che era solito frequentare) erano i suoi, semplici, diretti, genuini come deve essere il luogo ideale dove sedersi e condividere un pasto e un’amicizia. Era, il Brera, un povero diventato ricco, come raccontava ogni volta che si affacciava all’ingresso del ristorante e i camerieri lo salutavano allegri.

    Era ancora un ragazzo quando da San Zenone Po (nebbioso borgo della provincia di Pavia) era emigrato a Milano a far fortuna ed era diventato giornalista famoso grazie a uno scrivere diretto, estraneo all’imperante ortodossia giornalistica. La sua prosa originale coniugava (un po’ troppo spensieratamente) cultura sopraffina e proverbi paesani (questo, almeno, è quel che dicevano i colleghi gelosi del suo successo); ma questa scrittura si faceva leggere, intrigava, colpiva duro e aveva ribaltato i canoni dell’informazione classica.

    Quando arrivava al ristorante, Brera si divertiva a raccontare ai commensali una storia che, spiegava, va detta col sorriso sulle labbra. Diceva che i poveri sono gente felice. I poveri veri, quelli autentici, vivono come estraniati dal mondo reale. Campano nella sbadata inconsapevolezza della loro condizione di indigenza; ma è proprio per questo che campano bene. Sono poveri, ma non si lamentano perché non se ne curano, forse neanche se ne accorgono. Non è quella la loro prima preoccupazione. Anzi loro, i poveri, ti dicono che è solo la cultura che gli manca, perché per il resto possiedono tutto. Non avranno potuto studiare, ma a quello fortunatamente ha provveduto la buona educazione, i sani principi e l’insegnamento dei genitori (pedagoghi autodidatti dello sganassone alternato ai rosari: tanti gli uni e tanti gli altri, variabili a seconda della gravità del misfatto e delle contingenze educative); i poveri dormono dove trovano e la carità di un pane omaggiato o di un pollo fregato da un gabbia basta a farli tirare avanti.

    Diceva il Brera che da questa indifferenza rispetto al denaro derivano insegnamenti di cui dovremmo far tesoro: primi fra tutti l’essenzialità, il rispetto, i sani principi. E invece noi ci perdiamo in cose che hanno senso e importanza solo nella visione a tempi brevi che caratterizza l’agire moderno. Questa lezione andava applicata anche ai cibi, che devono essere sani, semplici, genuini; quelli della nostra terra, insomma.

    Un giorno capiremo diceva ma sarà molto più avanti e, purtroppo, ormai troppo tardi.

    Sorrideva amaro, dicendo queste cose; non gli sorridevano gli occhi, invece, fissi a infuocarti la coscienza e ad ammonire sulla dura verità delle cose che aveva appena raccontato. E tutti restavano lì silenziosi, a sentirsi in colpa e a far segno di sì con la testa.

    Giovanni Brera era una personalità con la P maiuscola e un amico, così che tutto gli era concesso. Piombava in ogni cucina, rispondeva distrattamente ai saluti dei cuochi e, catturato da ben altri interessi, non resisteva: martoriava gli arrosti con una forchetta, sollevava il coperchio di una pentola per veder uscire il vapore e annusare il profumo, allungava lo sguardo su qualche sugo e toccava dove non doveva. Impossibile tirarlo indietro se sul tagliere c’era una fetta di salame nostrano o qualche invitante assaggio a portata di mano. Chiedeva un rosso, e si sedeva. Mentre il liquido scuro spumeggiava nel bicchiere, diceva (a Franco, ai camerieri, tra sé?): Se vogliamo parlare del colore che deve avere il vino, ebbene: il vino è rosso. Punto! E adesso, se volete, possiamo cominciare a discuterne.

    Quell’omone dalla barba incolta al Sole ci veniva spesso, piombando giù da Milano. Terminava il suo lavoro nella redazione de Il Giorno, alla sera, e deviava per Maleo, prima di ritornare nell’Oltrepò Pavese. San Zenone Po è simile a Maleo e a cento altri borghi della Bassa Padana. A Maleo c’è l’Adda e la zona umida che circonda Villa Trecchi; da lui, invece, l’inquinato Olona entra nel già martoriato Po e anche là l’umida nebbia autunnale non scherza.

    La nebbia è cosa buona e giusta; è lei che esalta la maturazione dei salumi: senza la nebbia ce li sogneremmo i salami cremonesi, i culatelli di Zibello, le luganighe di Parma. Agli oriundi la nebbia incute terrore perché non la concepiscono; a noi bassaioli, invece, ispira sentimenti di pace, di avvento della primavera, di colori tenui che per un momento sospendono le traversie della vita e donano un attimo di serenità.

    Si fermava volentieri al Sole. Ma non era solo la prospettiva di una cena fra amici a farlo venire sin qui; era, piuttosto, l’idea di condividere a tavola una cultura, una concezione del mondo e della cucina, una comune filosofia di vita che lo rendeva vicino, intimo dei Franco Colombani, degli Antonio Santini, di cento altri grandi ristoratori dell’epoca. E, certo, lo accomunava a questi anche una parlata che unisce tutti i bassaioli. Per chi non lo sa, la Bassa lodigiana è una terra di confine, a meno di un’ora da Piacenza, Milano, Cremona, Pavia. Il linguaggio è imbastardito dalle influenze milanesi, dalla cadenza piacentina che è simile alla pavese, dal vernacolo cremonese che si fonde con quello emiliano. A lui piaceva usare espressioni gergali, proverbi, detti popolari e frasi della mamma e immaginava un legame lessicale che sicuramente, nel lontano della nostra storia, univa tutte queste genti: un codice di suoni ed espressioni diverse che (chissà perché) quando i bassaioli le usano li fa comunque capire tra di loro.

    I ragazzi ascoltavano i suoi ragionamenti e spesso il filo del discorso (pregno di cultura e citazioni) sfuggiva loro irrimediabilmente, seppure affascinasse quel che lui diceva. Nessuno si domandava perché il giornalista fosse proprio lì; perché amasse quel tipo di posti come il Sole, appunto, e il Pescatore e l’Amelia e il Valentino e altri simili, così impregnati di localismo culinario, cultura paesana, onestà e competenze. A loro bastava sentire le parole di quell’originale poeta e persino il suo borbottio si trasformava in musica.

    Originale il Brera lo era anche a tavola. Si piccava di preferire i vini nostrani, semplici e schietti; e di questi decantava ogni sfumatura: parlava del Sangue di Giuda e gli brillavano gli occhi, neanche fosse un elisir testé prescritto dal dottor Dulcamara; elogiava il rosso torbido della Barbera dell’Oltrepò (sia l’amabile che il secco) per confrontarlo coi nobili toscani e sognarselo unito a un riso con la salsiccia; sentenziava sullo Champagne per poi girare il discorso sulle bollicine di San Colombano, quasi a stabilire una personale classifica in cui i due finivano inevitabilmente ex-aequo. Aveva nostalgia dell’onesta Croatina e gli venivano le lacrime agli occhi pensando al profumo che un bicchierone di Riesling sa conferire a un qualsiasi risotto, purché si abbia l’accortezza di versarlo nella pentola al momento giusto (Un attimo prima di servirlo in tavola, però, mai troppo presto).

    Di un vino o di una pietanza il Gioann diceva semplicemente buono o non buono: una bella abitudine che nessuno oggi usa più e che invece servirebbe, se non altro, a contenere gli sproloqui di sedicenti esperti, usi a maneggiar aggettivi e a mescolarli ad autentiche stupidaggini.

    Quando nel ristorante capitava qualcuno di questi, anche l'amico Franco ne avvertiva l’odore. Entrava in cucina e, pur senza averne la certezza, sembrava di intuire fra le sue labbra la parola: coglione!

    Provocatore lo era il Brera, e tanto. Forse un po’ ci marciava o forse ci era costretto; un modo come un altro per essere oggetto delle chiacchiere o dei commenti della cronaca giornalistica, i quali danno la misura (qualunque sia il giudizio) della tua notorietà. E siccome aveva deciso di provocare fino all’ultimo, quando qualcuno la contava troppo spessa in fatto di vini bordolesi o toscani o piemontesi, lui lo guardava storto e ricordava ai commensali un aneddoto su suo padre che, d’estate, usava mettere qualche cubetto di ghiaccio nel bicchiere di rosso, per renderlo più beverino. E siccome di quel Carlo lui era figlio, allora anche lui, provocatoriamente, qualche volta ripeteva la stessa operazione: con sicurezza e garbo e sfidando l’ironia dei critici, infilava nel rosso un paio di cubetti di ghiaccio e poi invitava gli esperti a vedere se era vero o no che con questo sistema andava giù meglio.

    Franco scuoteva la testa nel sentirlo parlare, e sorrideva. Tutto questo bastava a renderlo simpatico, quel giornalista. Simpatico e d’animo sincero Gioann lo era e sia Franco che sua moglie Silvana gli volevano un bene dell’anima.

    Ma a lei, alla Silvana, il fatto che lui gli toccasse le polpette proprio non gli andava giù.

    TRAVERSIE DEL RINASCIMENTO

    Un libricino del 1968, a cura di F. Contardi, racconta la storia dell’Antica Osteria del Sole.

    Sono molti gli spunti di interesse ripresi in questa pubblicazione e che riguardano sia Maleo (borgo della bassa lodigiana situato lungo il fiume Adda, al confine fra le province di Lodi e Cremona) sia questa locanda la cui nascita risale a circa sei secoli fa, nel Quattrocento.

    Come poteva essere una locanda in quel lontano periodo? Immaginiamo un viandante che arriva a Maleo, scende da cavallo, lega l’animale a un gancio di ferro cementato fra i mattoni del muro. E’ un'antica consuetudine quella di attaccare gli stanchi animali agli anelli, mentre i loro padroni si rifocillano nelle locande; ma in questi postacci gli uomini ci restano il meno possibile e ne escono al più presto, per addormentarsi vicino all’animale o direttamente sui carretti, per evitare furti irreparabili. Con le mani il nostro cavaliere si batte i calzoni e le vesti impolverate e cerca di eliminare dal viso i segni della fatica, lo sporco del viaggio, i turbamenti degli incontri che le perigliose strade di allora riservano agli audaci. Lo vediamo che si infila silenzioso dentro la locanda e cerca una panca dove sedersi alla ricerca di ristoro e del contatto con volti che, seppure sconosciuti, gli consentono lo scambio di due parole e la sensazione di sentirsi finalmente fra amici.

    La locanda si trova nel feudo di Maleo, un borgo di qualche centinaio di anime dedite all’agricoltura, all’allevamento delle vacche e a scarsi commerci che consentono null’altro che un’umile sopravvivenza. Ed è una posa, cioè un luogo di sosta, una locanda che originariamente si chiamava osteria granda o maggiore. La frequentano coloro che da Cremona si dirigono verso Lodi a vendere i prodotti dell’agricoltura, la poca frutta che i signori proprietari terrieri gli hanno omaggiato e gli ortaggi che le leggi vigenti ammettono di coltivare, oltre a qualche capo di selvaggina cacciata di frodo durante la notte, nei boschi che costeggiano l’Adda o lungo il vicino Po. Nell’osteria si incontrano i poveracci che tentano di raggiungere Pavia in cerca di lavoro e, magari, finiscono arruolati al soldo di qualche milizia, rischiando la vita per pochi denari; c'è qualche miliziano che pattuglia la zona; vi giungono i fedeli in movimento lungo la direttrice per Milano, spinti dal bisogno di trovar conforto all’anima e ascoltare le omelie di qualche venerabile vescovo che esorta tutti noi peccatori a seguire le parole del Signore.

    All’interno il vociare frastorna; e poi c’è il fumo, gli odori delle pietanze che cuociono sul fuoco, le parolacce in libertà e i lazzi dei più arditi. Eppure, nonostante tutto, questa locanda diventa il luogo indispensabile per fermarsi, trovare riposo alle membra e allo spirito, riflettere e magari decidere se continuare il corso di una vita seguendo il sentiero che essa ha già preso, oppure ribaltare quel destino e tentare la sorte attraverso l’avventura del nuovo.

    Insieme al viso pensieroso del nostro viandante, dobbiamo sforzarci di immaginare anche le fattezze dell’osteria: una casupola isolata di mattoni rossi posta di fronte a una strada polverosa e malmessa; un pergolato esterno che garantisce frescura e una corte interna con deliziosi loggiati sotto i quali si gioca a carte, si mangia, si combinano affari e malaffari. E’ curioso che anche nel confinante borgo di Gera (quattro baracche affacciate sui canneti che si immergono nell’Adda) e in altri dieci e cento villaggi dell’Italia di allora si trovino locande che, come la nostra, tengono un’immagine del sole come insegna. Forse quello era un nome comune o un marchio diffuso, oppure è da questo simbolo propiziatorio di vita e di energia che hanno tratto ispirazione i primi sconosciuti proprietari.

    Già in quel lontano Quattrocento l’Antica Osteria del Sole è un luogo di incontro, dove si radunano i palati più fini, i curiosi di novità, gli amici alla ricerca di una occasione per stare insieme e deliziare i sensi. Piace pensarla così la storia di questo ristorante e immaginare che la vita quotidiana di quei secoli travagliati segua un corso fiabesco e romantico, invece che ruvido e gramo come invece più probabilmente era.

    Possiamo anche domandarci quali fossero le caratteristiche della ristorazione di quel tempo, quali i gusti della gente nel mangiare, nel vestire, nel vivere: il formaggio maggengo, perché prodotto nel mese di maggio (il Parmigiano, insomma); il pesce di acqua dolce; le lasagne con strati di formaggio e spezie; porri, rape e aglio usati a volontà, per dare sapore al nulla. Questi erano alcuni dei piatti che imbandivano le tavole dell’epoca.

    Il libricino che ho in mano queste cose non le dice. Racconta, invece, di un antico lignaggio dell’Osteria del Sole, scoperto rovistando fra gli archivi della nobile famiglia locale, i Trecchi. E’ tra gli scaffali impolverati dei loro palazzi e negli archivi delle biblioteche e delle chiese che sono emerse memorie di una taverna iacens in burgo loci Malei (una locanda sita nel comune di Maleo) i cui riferimenti geografici e le caratteristiche generali, secondo gli storici, guidano in direzione della nostra taverna. I Signori del Ducato di Milano (proprietari dell’intero borgo) avevano ceduto i diritti di osteria, stalla e commercio a un locale feudatario il quale, a sua volta, aveva incaricato qualcun altro di gestire tali incombenze, in cambio della corresponsione di un dato compenso.

    Nell’osteria del Sole c’erano tutte le comodità che, all’epoca, sono comunemente messe a disposizione dei viaggiatori: mangiare, bere, dormire. In più c’era licenza di infornare e vendere il pane al minuto, si potevano macellare gli animali e vendere la relativa carne; si mercanteggiavano il fieno, il vino e altri prodotti. Questa attività era continuata per lungo tempo e nel corso dei secoli erano cambiate le architetture, si erano evoluti gli stili di vita e mutate le aspettative della gente; erano cambiati anche i proprietari dei muri e la denominazione della locanda si aggiornava a ogni cambio di proprietà, legandosi a nomi comuni piuttosto che a fantasiose raffigurazioni. Si alternavano anche gli affittuari e ciascuno apportava migliorie e cambiamenti.

    Nel Quattrocento lo scambio mercantile e i commerci non avevano ancora raggiunto i piccoli borghi periferici, isolati e legati alle produzioni locali; e la ristorazione italiana era strettamente vincolata ai prodotti del territorio. Solo sulle ricche tavole a cui si servono i nobili e i prelati si possono trovare generi di importazione da altre regioni come le anguille del Po, i carpioni del Garda, i formaggi toscani, i maccheroni meridionali, le mostarde cremonesi, i vini di San Gimignano, le farinate e i ravioli. Sono tempi difficili eppure, nonostante la sontuosità delle corti contrapposta alla penuria delle masse, il lombardo Bartolomeo Sacchi (bibliotecario del Vaticano e che ha coniato per sé un nome latino di Platina) trova il coraggio di scrivere una raccolta di ricette su cui riproduce, attraverso il rivoluzionario sistema della stampa, anche consigli di bon ton e indicazioni medico-scientifiche su cosa mangiare, in quale quantità e quali alimenti siano nocivi o salubri.

    Il piacere onesto e la buona salute è un'indicazione di esperienze sensoriali assolutamente da provare. Benché riservato a palati fini e portafogli generosi, quel libro diventa un best seller grazie alla scelta di utilizzare la lingua latina, che è già assai diffusa a livello europeo e che più avanti consentirà la traduzione del libro anche in idiomi diversi. Il lavoro del Platina (cuoco-scrittore originario di Piadena, provincia di Cremona) ha sicuramente distribuito sui tavoli dei ristoranti, fra i banconi delle cucine e nella cultura gastronomica europea qualcosa del sapere e della tradizione italiana dell’epoca e indica (prima guida di turismo enogastronomico al mondo) alcuni luoghi dove vale la pena di sedersi a tavola.

    Il Sole era fra questi? No. I menu importanti, a quell’epoca, non sono quelli delle osterie. Sono quelli dei banchetti delle corti reali, la cucina dei principi, il ristoro dei papi; luoghi dove l’originalità della proposta culinaria è strettamente connessa alla necessità di esibire un potere effettivo. Il Sole (e così tutte le analoghe locande) lavora invece in funzione delle esigenze dei viaggiatori, cioè cucinare roba genuina, in modo semplice, in quantità bastante a placare i morsi della fame e a prezzo economico.

    E però sa anche trarre beneficio dall’intraprendenza dei commercianti e dal loro transito; questi provengono dai luoghi più disparati e recano con sé prodotti nuovi e la memoria di piatti tipici delle rispettive regioni. I nuovi ingredienti sono acquistati, cucinati alla maniera del Sole e riproposti alla clientela come variante ai tradizionali menu. Almeno, questo è quel che ci piace immaginare.

    Cambiano i tempi, aumentano gli scambi e, grazie alla disponibilità di nuovi prodotti, nella tradizionale lista delle vivande dei ristoranti cominciano a inserirsi nuove preparazioni. Non muta, invece, la tipologia dei contratti di affitto delle taverne i quali prevedono sempre un canone annuo predeterminato e l’aggiunta dei cosiddetti diritti di osteria. I diritti sono una percentuale che l’affittuario è tenuto a versare nelle tasche del proprietario in proporzione ai dazi che egli paga sulle carni, sul pane e sulla mescita del vino. In pratica, una percentuale sul fatturato. I diritti che il Sole doveva corrispondere erano alti poiché (come documentano i libri) superiore alla media era sia la qualità del servizio reso, sia l’apprezzamento manifestato da viaggiatori, pellegrini e viandanti che lo frequentano. A conferma di ciò si trovano alcuni documenti che prenderanno a citare Il Sole come osteria maggiore e a segnalarlo come luogo raffinato e di classe, per distinguerlo da altri (evidentemente di più basso rango) comunemente definiti, invece, osterie minori.

    Le carte che si conservano negli Archivi di Stato o negli scaffali delle biblioteche dei Marchesi Trecchi testimoniano anche scene di tribolazione quotidiana.

    I bisticci fra inquilino e proprietario sono frequenti e impolverate pagine ci descrivono, con involontaria vis comica, le ragioni di tali controversie. Ad esempio, quando un casato acquisisce la proprietà di vasti appezzamenti terrieri, esso assume anche il dominio delle povere abitazioni che si trovano al loro interno e il controllo di tutti i commerci che vi si svolgono. Ovviamente a ogni cambio di padrone anche la nostra osteria doveva conformarsi alle nuove tirannie che questo imponeva. Ai già onerosi canoni di affitto, alle gabelle versate allo stato e a servitù varie e inesplicabili (vedete che passano i secoli, ma la solfa nei rapporti col Fisco non cambia) al nostro locandiere toccava anche sottostare a privilegi che oggi considereremmo assurdi, ma che allora erano invece normale consuetudine. Ad esempio nel contratto si inseriva la clausola, anzi l’obbligo dell’oste di far pervenire al signorotto locale del vino bianco sano e di bona qualità, assicurargli ogni anno una brenta di moscatello di Piacenza e anche alcune some di avena.

    Ovviamente le dispute sulla qualità del vino conferito erano ricorrenti, poiché analoghe a quelle sul sesso degli angeli e condizionate dal giudizio volubile e interessato dei magistrati chiamati a giudicare; aperte quindi a ogni sorta di valutazione soggettiva.

    Le incombenze e le vessazioni erano di ogni genere. Un'altro esempio? Il locandiere doveva provvedere a recuperare i lastroni di ghiaccio che si formano sull’acqua ferma dei fossi, raccogliere la neve dalle strade e dai campi e portare il tutto nella ghiacciaia, per soddisfare le esigenze di frescura del palazzo. E si doveva anche far carico di garantire alla parrocchia la gratuità del vin santo occorrente per le funzioni religiose.

    Su tali argomenti, così come sull’uso in comune della ghiacciaia, sul rispetto degli accordi d’affitto, sulla concorrenza impropria esercitata da venditori occasionali che aprivano negozi e commerciavano sulla strada, senza pagare le tasse e confidando nella tolleranza dei signorotti del paese, su queste e infinite altre questioni si litigava, si ricorreva all’autorità giudiziaria, si stracciavano i contratti, ci si faceva del sangue amaro.

    A questo punto possiamo abbandonare il nostro viaggiatore immaginario e tornare alla realtà della Locanda del Sole, rimasta comunque sempre punto di riferimento collettivo per viaggiatori di ogni specie. Nella seconda metà del 1800 le carte citano un contratto di affitto riguardante l’osteria denominata Il Sole: 600 lire di canone annuo, beninteso con l’aggiunta di una brentina del miglior vino nostrano, da rimettere, gratis, nel mese di ottobre….

    A parte il vino a gratis, parecchie di queste caratteristiche Il Sole ha continuato a mantenere nel corso dei secoli. Prima fra tutte, un'atmosfera di educata semplicità.

    L’OSTERIA DEL PAESE

    Nell’Ottocento il Sole era una piccola osteria con diritto di beccaria. Era un luogo, cioè, dove, oltre al mangiare e bere, come abbiamo già detto si potevano macellare gli animali e vendere la carne e altri generi alimentari.

    Nel 1893 il marchese Trecchi affitta e successivamente vende a tale Giacomo Marchesi la casa ad uso osteria detta Del Sole. Minestroni, risotti, zuppe con rape e rane, bolliti, formaggi locali sono i piatti forti della locanda, accompagnati dal vino rosso delle colline del piacentino o del pavese. Il Marchesi (sguardo fiero e larghi baffi che gli adornano il viso) aveva trascorso una quindicina d’anni in giro per l’Italia, per via del servizio militare, e aveva avuto modo di sperimentare le mille cucine che caratterizzano le nostre regioni. Figlio di osti (il padre Pietro era un valente cuoco) e appassionato del mestiere, aveva preso la bella abitudine di trascrivere con cura tutte queste ricette e, una volta rientrato a Maleo, aveva ripreso i suoi appunti e cominciato a cucinare questi originali piatti per i propri commensali, correggendoli a seconda della disponibilità delle materie prime, ricorrendo alle accattivanti seduzioni della cucina francese (che lui amava e considerava la più raffinata) e adattando il tutto ai prodotti disponibili e alle consuetudini della manualità lodigiana.

    Geloso del suo lavoro e di tali conoscenze, ma consapevole che l’età avanza e che (come si dice da queste parti) non è che quel giorno potrai portare tutto con te, Giacomo non si era sottratto all’obbligo di trasferire il suo sapere alla figlia Caterina e, quando lei si era maritata con Mario Colombani, le aveva insegnato a far da mangiare.

    La formazione di Caterina era avvenuta nel solito modo: un po’ tenendosela al fianco in cucina, un po’ lasciandole in eredità centinaia di ricette vergate in bella calligrafia e in un misto di lingua italiana, francese e dialetto lodigiano.

    Le doti della scienza, della conoscenza e della curiosità sono poco tangibili ma, se ben utilizzate, possono risultare di grande profitto, come insegna la storia di Franco Colombani. E’ fra queste mura e sotto lo sguardo adorante e i puntuali suggerimenti di mamma Caterina che egli muove i primi passi nel mondo della ristorazione. Poi, una volta raggiunta l’età giusta, per prima cosa recupera da qualche cassettone tutte le ricette di nonno Giacomo, se le legge e comincia a metterle in pratica. Sono una fonte formidabile di novità queste ricette, sia per l’originalità delle idee che per l’uso di prodotti diversi e cucinati con tecniche particolari. Inoltre catturano l’interesse dei clienti, dapprima incuriositi e poi, man mano, sempre più rassicurati dalla bravura del ragazzo.

    Il lavoro, così, va avanti e con esso anche gli affari; i due soldi messi da parte consentono di dare il via a una ormai improcrastinabile ristrutturazione dei locali. Siamo nel 1958 e il sogno di Franco di unire i diversi ambienti di cui si compone l’intero edificio dove si trova l’osteria comincia a prendere corpo: le stanze del piano di sopra, il cortile interno, una casupola e l’abitazione confinante sono nel mirino; però il loro acquisto richiede soldi che, per adesso, non ci sono. Si dovrà arrivare al 1987 (quando l’acquisizione dei singoli elementi è completata) per vedere gli ultimi muratori che abbandonano definitivamente la casa, ormai adeguata alla funzione di ristorante con alloggio.

    Su un ingiallito foglio a quadretti (ritrovato fra le sue carte) Franco scrive il conto di un pranzo: bevande 120 lire, pane e coperto 50, minestre 80, secondo 280. Totale 530 lire. E’ solo apparentemente un documento contabile; sotto, a matita e con caratteri tondeggianti, risalta l’orgogliosa scritta: Primo cliente: 12-11-1958.

    Agli inizi della gestione di Franco Colombani il Sole era una vera e propria osteria di paese; il che non implica un giudizio negativo, ma evidenzia una commistione di funzioni.

    Quelli di Maleo dopo aver assistito alla messa si recavano al Sole per un aperitivo: sedevano al tavolone centrale, davanti al camino, e giocavano a carte, bevevano un rosso, fumavano. Quando, a mezzogiorno, arrivava qualcuno che voleva pranzare, cominciavano i problemi: occorreva lasciar terminare la partita in corso, tribolare per far spostare gli avventori, sbaraccare i tavoli, dare aria ai locali e metter giù la tovaglia. L’odore di fumo e di sigari toscani impregnava l’ambiente. Eppure questo era un luogo ricercato, grazie all’azione di Franco che, con attenzione, si occupava del ristorante, assistito in cucina dalla mamma e dalla sorella che davano un’occhiata anche al bancone del bar.

    Proprio a due passi dalla locanda abitava Silvana.

    Passava di lì per andare in paese, far la spesa al mercato, ritrovarsi con le amiche; e ogni volta sbirciava dalle finestre. Un po’ per il fatto che le due famiglie si conoscevano, un po’ perché la sua curiosità non era

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